Domenica l’immagine La Storia alla prova del Nove La di DOMENICA 29 MARZO 2009 VITTORIO ZUCCONI il racconto Il primo viaggio dell’homo sapiens Repubblica PAOLO RUMIZ Cacciata Paradiso La dal Le loro banche erano un porto sicuro per il denaro dei ricchi FOTO © IMAGES COM/CORBIS Non più: Obama e l’Europa sono in guerra contro i Paesi “tax free” FEDERICO RAMPINI PINO CORRIAS «O solenella corrente, per lo più. E sempre sotto il sole dei Tropici. Come Tortuga, Curaçao, Grenada, Bermuda, Antigua. Cariche di coralli sottomarini e forzieri terrestri. Con bionde smaltate dal latte solare, buona musica, e daiquiri ghiacciato a bordo piscina. E poi piccoli resort su spiagge bianche, dove il relax respira in silenzio e all’ombra di tutto: occhi altrui e false identità, controlli, intercettazioni, domande indiscrete sulla provenienza dei soldi degli ospiti e la destinazione dei loro sogni. Per tutto il Ventesimo secolo queste coordinate d’inchiostro e cieli azzurri hanno disegnato — su carta da romanzo, cinema e avventure seriali — le mappe dei paradisi fiscali, molto più di certe casseforti continentali tetre come Vaduz. Raccontati dai narratori più popolari del thriller, da Elmore Leonard a David Baldacci, passando per Graham Greene e naturalmente John Grisham, con le loro scie di morti inspiegabili, tradimenti, guerra di spie, e immense somme di denaro che pulsano da un conto all’altro in un clic. (segue nelle pagine successive) ggi se sei un banchiere svizzero all’arrivo in un aeroporto americano hai paura di essere interrogato. Se vai in Germania i doganieri tedeschi possono arrestarti alla frontiera. Tra noi c’è chi ha smesso di andare anche in Francia». Sono confessioni raccolte nei giorni scorsi a Ginevra. In quello che fu l’ambiente felpato ed esclusivo delle banques privées. Sul Financial Times è trapelata una notizia clamorosa: molte banche svizzere hanno dovuto proibire ai loro top manager di viaggiare all’estero. Sono i gestori di grandi patrimoni che per generazioni hanno custodito al riparo da sguardi indiscreti le fortune delle famiglie capitaliste del pianeta. Oggi si sentono braccati come fossero corrieri della droga. Per molti di loro il Lago Lemano è diventato una prigione dorata da cui non osano più allontanarsi. È un effetto dell’offensiva senza quartiere scatenata contro i paradisi fiscali. Un attacco che per la sua ampiezza non ha precedenti nella storia. (segue nelle pagine successive) I cultura Einaudi, l’uomo che pensava i libri NELLO AJELLO e GIULIO EINAUDI spettacoli Noël Coward, un dandy a teatro SANDRO VIOLA i sapori Cozze e vongole, mangiare il mare LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA l’incontro Pierre Boulez e la musica difficile LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Effetto crisi DOMENICA 29 MARZO 2009 Tempi duri per i manager degli istituti di credito svizzeri A molti di loro è stato sconsigliato di viaggiare all’estero Si sentono braccati come fossero corrieri della droga: effetto della lotta senza quartiere scatenata dal presidente americano contro il segreto bancario. La Ue è d’accordo Ma la storia recente insegna che la vittoria non è scontata La guerra di Obama ai paradisi fiscali (segue dalla copertina) otto lo shock della recessione globale è accaduto il miracolo: un patto di ferro tra l’America di Obama e l’Unione europea per debellare il segreto bancario, espugnare i centri che prosperano sull’evasione fiscale. La svolta in questa guerra è stata la resa della Svizzera. Sottoposto a una pressione politica inaudita da parte di Washington, con minacce di pesanti ritorsioni che potevano strangolare l’economia elvetica, il governo di Berna ha ceduto. È sceso a patti su un principio che difendeva da duecentocinquanta anni: la sacralità del suo segreto bancario. I conti correnti intestati a cittadini americani non saranno più inaccessibili per gli agenti dell’Internal Revenue Service, i segugi del fisco Usa. La Svizzera era la posta in gioco più ambita in questo conflitto, la madre di tutti i paradisi bancari, la roccaforte che per anni era stata assediata senza arrendersi. Da sola si stima che la Confederazione custodisca un terzo di tutta la ricchezza clandestina delle famiglie più facoltose del pianeta: undicimila miliardi di dollari, quasi quattro volte il Pil della Germania. Dopo che il governo di Berna ha alzato bandiera bianca, ogni argine è stato travolto. È seguita una lunga catena di capitolazioni. Da Monaco al Liechtenstein, da Singapore a Hong Kong, gli ex-paradisi hanno accettato di aiutare gli stati da cui provengono i clienti delle loro banche. A giudicare dai bollettini di resa si sta chiudendo un’epoca. Sembra di assistere al crepuscolo di un intero mondo con i suoi fasti, il suo glamour, le sue leggende. Attorno al business degli istituti bancari superconfidenziali erano cresciute oasi di lusso, grandi hotel, casinò, chef a tre stelle Michelin, quartieri di gioiellieri intasati da Ferrari e Lamborghini. Un universo dorato degno dei film di James Bond. E infatti ha spesso catturato la fantasia S In apparenza è la fine di tutto un mondo e dei suoi fasti: addio oasi di lusso, casinò, grandi hotel, gioielli e superauto dei giallisti e degli sceneggiatori di Hollywood. La realtà non era lontana dalla fantasia. Bradley Birkenfeld era un top manager dell’Ubs, la più grande banca svizzera, un tempo circondata da un alone di rispettabilità. Pentito, divenuto una talpa dell’Fbi, ha rivelato che per aiutare i clienti americani a esportare ricchezze ingannando le dogane, era arrivato a infilare diamanti in un tubetto di dentifricio. La sconfitta dei paradisi è stata fulminante, quasi a sorpresa. Ancora un anno fa gli “gnomi” si consideravano inattaccabili nelle loro fortezze. Erano determinati a respingere ogni richiesta di trasparenza. Angela Merkel nel 2008 aveva messo in campo i servizi segreti per procurarsi la lista dei miliardari tedeschi con i conti cifrati nel Liechtenstein. La reazione del principato di fronte allo spionaggio era stata rabbiosa. Un dirigente di Vaduz parlò di «metodi della Gestapo nazista». Gli svizzeri gli diedero manforte. Il parlamentare di Berna Thomas Mueller evocò «quei tedeschi che marciavano al passo dell’oca, con stivali di cuoio e fascia nera sull’avambraccio». Poi è arrivato lo shock della recessione. A Washington ha accelerato la resa dei conti. Con un deficit pubblico che sale al tredici per cento del Pil — un livello raggiunto solo nella Seconda guerra mondiale — l’Amministrazione Obama deve recuperare ogni gettito imponibile, a costo di dare la caccia agli evasori anche all’inferno. E in un anno in cui il Tesoro Usa dovrà emettere altri duemila miliardi di Bot per finanziarsi, rischiando una crisi di sfiducia nel dollaro, è urgente chiudere i porti d’arrivo per le fughe di capitali, come sono appunto le piazze bancarie offshore. Da Washington è partita la crociata contro la svizzera Ubs, la preda più grossa e appetibile: 52mila conti bancari intestati ad altrettanti cittadini americani, tutti presunti evasori nel mirino dell’Internal Revenue Service. L’Ubs ha un’importante filiale a Wall Street, non poteva permettersi di finire nella lista nera delle autorità americane. Inoltre la sua casa madre in Svizzera barcol- © DISNEY PER GENTILE CONCESSIONE DELLA WALT DISNEY ITALIANA SPA FEDERICO RAMPINI la sotto le perdite per i titoli tossici sui mutui subprime: deve avere accesso ai piani di salvataggio lanciati da Washington. Ha tentato comunque di opporre una resistenza, perché cedere al fisco americano significava tradire la fiducia dei clienti, calpestare un preciso impegno contrattuale. Ma il suo stesso governo le ha imposto il diktat finale: impossibile dire di no all’America. «La pressione», ha rivelato un diplomatico francese, «era diventata insostenibile». L’Unione europea si è accodata volentieri. Avendo una pressione fiscale ancora più alta degli Stati Uniti, e dei paradisi bancari incrostati nel proprio cuore (Svizzera, Lussemburgo, Liechtenstein, Andorra, Monaco, le isole della Manica) il Vecchio continente aveva i suoi conti da regolare. La liquidazione del segreto bancario è stata messa all’ordine del giorno del G 20 di Londra il 2 aprile: per allora secondo gli americani le ultime sacche di resistenza dovrebbero essere debellate. Se è tutto vero, stiamo assistendo all’epilogo di una storia antichissima? I primi paradisi fiscali risalgono alla Grecia di Omero, dove i mercanti-navigatori dirottavano i loro scambi verso le isole che li esentavano dalla tassa del due per cento prelevata ad Atene. Lo Stato Pontificio fu un’oasi di privilegio fiscale dall’anno 756 dopo Cristo. Nel tardo Medioevo i commercianti tedeschi della Lega anseatica aprivano filiali a Londra per evadere le imposte di casa. Il ruolo della Svizzera fu esaltato dalla sua neutralità nelle due guerre mondiali: i paradisi fiscali prosperano nelle fasi di grandi turbolenze finanziarie e geopolitiche. In seguito altre evoluzioni dell’economia globale hanno portato al proliferare dei centri bancari offshore: dagli anni Settanta l’informatica ha facilitato i trasferimenti di capitali; l’ondata di deregulation ha spinto le banche tradizionali a diversificarsi aprendo business sempre più spregiudicati in luoghi remoti, lontani dalle autorità di vigilanza. C’era anche una potente difesa ideologica. Il neoliberismo legittimava i paradisi bancari in nome della concorrenza fiscale tra Stati, li considerava una frusta benefica per castigare i governi più spendaccioni e indebitati sottraendogli imponibile. Era l’idea che «i capitali votano con i piedi» abbandonando giustamente le zone ad alta pressione fiscale. Sono quel mondo e quel sistema di valori a finire travolti dalla Grande Recessione. Ironia della sorte: Bradley Birkenfeld, la “talpa” all’origine del processo americano contro i conti segreti dell’Ubs, decise di vendicarsi della banca svizzera perché non gli era stato erogato un bonus abbastanza generoso. Ora il vento soffia impetuosamente nella direzione opposta. Il Wall Street Journal ha aperto una rubrica di consigli per gli americani che hanno conti all’estero: «Siate realisti. Patteggiate e chiedete perdono. Non avete altre vie di fuga». Eppure un’ombra di scetticismo rimane. Citando James Bond: mai dire mai. Se i singoli miliardari sentono sul collo il fiato degli ispettori fiscali, le grandi imprese multinazionali hanno elaborato strategie sofisticatissime per delocalizzare le sedi sociali nei paesi a tassazione ridotta. Riagguantare quel tipo di elusione sarà una partita lunga e complessa. Fa riflettere un titolo in prima pagina del New York Times: «Il Congresso sancisce la fine dei paradisi fiscali». È datato 4 febbraio 1962. Alla Casa Bianca c’era John Kennedy. Repubblica Nazionale DOMENICA 29 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 Isole per pirati malfattori e belle donne PINO CORRIAS (segue dalla copertina) aradisi che funzionano (in realtà) come inferni freddi: puliti, ordinati, mai chiassosi, ma intanto ramificati nei labirinti del riciclaggio. Protetti da serrature segrete. Occultati, dietro le targhe d’ottone delle ltd offshore, in intrighi finanziari che corrono sottotraccia come i flussi del narcotraffico, le doppie contabilità delle multinazionali e dei trust bancari, l’oro nero dei mercanti d’armi. Intrecci mai stupefacenti quanto quelli della cronaca reale — i cartelli colombiani, il Banco Ambrosiano di Calvi, lo Ior del cardinale Marcinkus, la Parmalat di Calisto Tanzi, tutti narrativamente inarrivabili — e quasi sempre virati nella forma della vacanza extralusso di contorno, della love story con Dom Pérignon millesimato, come fissò una volta e per sempre Ian Fleming che vestì di lino il suo James Bond, agente al servizio di Sua Maestà, con suite al British Colonial Hilton di Nassau, Bahamas, e l’incarico, dopo la cena e una partita al Casinò Royal, di salvare il P mondo. Fleming scriveva a qualche miglio marino da lì, a Goldeneye, Giamaica, dal 1953 al 1967, nel pieno della Guerra fredda, in una casa sulla baia, solitaria quanto il suo umore, lasciato per sempre dalla moglie, con la sola compagnia di una domestica che non sapeva cucinare e neppure preparare il Martini, o accogliere i rari ospiti provenienti dalla vecchia Inghilterra. Lui, dentro la pioggia delle estati tropicali, a estrarne quel sole che avrebbe illuminato le avventure MARI E MONTI Nelle foto della pagina di sinistra, due tra i più noti paradisi fiscali: le Isole Cayman (in alto) e il Liechtenstein del suo agente, spedito in quell’area del mondo dal Mi6 a contrastare gli ingranaggi della Spectre, primissima versione di quelle società transnazionali del crimine (e del danaro) che avrebbero trionfato a fine secolo. Tutte transitando — nei film futuri, nei romanzi futuri e nella neo realtà di narratori come Bruce Sterling con i suoi mondi cyberpunk — lungo le spume delle medesime barriere coralline, dove corre il denaro invisibile di un potere altrettanto segreto. Che poi il fascino di quei luoghi ha radici lontane. Risale ai secoli d’altra letteratura. Approda alle stagioni leggendarie di Henry Morgan, il pirata, e dei suoi bucanieri, quando tutti i sassi sparpagliati lungo il Mar dei Caraibi offrivano nascondigli e buone prede, in coda alle rotte dei galeoni spagnoli, reduci da ben altre spoliazioni. Piraterie capaci di insanguinare per secoli quei mari. Ma anche fondare fortune e dinastie. Accendere la fantasia degli scrittori. Tramandare la propria storia. E le tecniche dell’arrembaggio all’oro. Più sbrigative di quelle odierne, ma altrettanto redditizie visto che proprio Morgan — dopo il sangue degli assalti — indossò i galloni di governatore reale di Giamaica. E che Labuan la perla di latitudine malese, tanto cara al cuore di Sandokan e alle pagine avventurose di Emilio Salgari, è diventata anche lei isola offshore, carica di finanziarie specializzate in conti bancari criptati e multiple identità antifisco. Escludendo L’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, che forse era Tortola, oggi quindicimila abitanti e 350mila società, il paradiso fiscale letterariamente più celebre è Cayman, che è poi un’isola tripla, Gran Cayman, Little e Brac. Da quando ci sbarcò John Grisham con il suo Il socio, il più potente e ben congegnato tra i thriller che scalano l’aria sottile di quegli intrighi, e che Sidney Pollack ha trasformato in un celebre film a orologeria, protagonisti Tom Cruise e Gene Hackman. Il primo nei panni dell’avvocato Mitch, giovane assunto dal grande studio legale di Memphis dalla facciata high society immacolata. La quale lentamente si sgretola. E sgretolandosi inghiotte, insieme con le apparenze, anche il giovane avvocato, come fanno le sabbie mobili. Ma lasciandogli il tempo di intravedere la vera destinazione del suo lavoro: una doppia stanza dello Hyatt Regency Hotel, nella capitale George Town, a tre ore di volo dagli agenti federali americani, dove è custodito l’archivio segreto della famiglia mafiosa di Chicago che lo studio accudisce e protegge con tutti i depistaggi necessari, una barriera legale dopo l’altra. E il mare blu dei Carabi a sigillare il segreto. Che poi sono le stesse procedure che occultano tutte le guerre non ortodosse di oggi e di domani. Nuova Era del dopo 11 settembre: Islam, Africa e dissoluzione dell’impero sovietico. Costruite intorno a trincee solo virtuali tra solidi eserciti di solidi stati e guerriglie sempre più rarefatte, disperse, ubique. Sempre protette da schermi digitali, come nell’ultimo romanzo di John Le Carré, Yssa il buono, dove sono le banche l’avamposto da conquistare, la Hamburger Hill da mettere finalmente in sicurezza. Con i loro conti segreti che transitano da Bahamas al Liechtenstein e che un istante dopo scompaiono, per ricomparire a Cipro, poi a Istanbul, poi a Parigi, e cosi via. Nel giro perpetuo degli infiniti mondi immateriali. E solo all’ultimo momento utile, abilitati a diventare soldi veri. Poi armi. Oppure esplosivo. E infine sangue. È una guerra che abita (e si combatte) sempre di più nel retroscena del mondo. Con punti luce solo temporanei, compresi quelli dei paradisi fiscali, anche loro in costante evoluzione. Ma dotati di un fascino sinistro che ancora non si spegne. Grazie ai finali che almeno nella fiction quasi sempre riconducono all’ordine (presunto) e a un respiro di sollievo. Con l’elicottero in volo radente. La raffica, la morte dei cattivi. Il buono che bacia la bionda. E il daiquiri che a bordo piscina lentamente si scalda. Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’immagine Scatti emozionanti DOMENICA 29 MARZO 2009 È certamente dovuta a un illusionismo della numerologia l’idea che gli anni segnati dal numero Nove siano affollati di eventi cruciali. Ma, in questo 2009 di crisi, basta aprire i due libri di Contrasto dedicati al 1969 e al 1989 per farsi suggestionare 1989 1969 e per vivere una specie di cortocircuito tra memoria e attualità 30 GENNAIO Ultimo concerto dei Beatles sul tetto della Apple a Londra 14 MARZO Libano, inizia la guerra contro le truppe siriane 10 MAGGIO Vietnam, battaglia di Hamburger Hill 4 GIUGNO Carri armati contro manifestanti in piazza Tienanmen a Pechino La Storia alla prova del Nove VITTORIO ZUCCONI eve essere il primo vagito che si sprigiona da noi dopo nove mesi, il segnale che in quel numero magico, nel “9”, sta racchiuso il mistero della fine e dell’inizio, il segreto del bisogno umano irrefrenabile di scalciare e di uscire a un nuovo giorno al rintocco di quella cifra. Sono soltanto coincidenze, risponderanno gli scettici e i positivisti, se allo scoccare degli anni che terminano con il numero singolo più alto nella nostra scala decimale, il 9, tanto spesso il mondo conosce il travaglio, il trauma e la nascita di un tempo diverso, dal quale ricominceremo a contare la storia e a riazzerare i calendari. Ma nella fissità implacabile delle immagini che scolpiscono gli eventi nella memoria, più di ogni filmato e video perché tutti tendiamo a ricordare per istantanee e non per sequenze, l’album della famiglia umana che oggi D Lo shock dell’orma del piede umano sulla polvere scetticismo di chi non riesce a crederci. Esplose una bomba nella innocente sede di una banca, in piazza Fontana a Milano, colpendo più di cento persone, uccidendone diciassette, e risucchiando nel vortice di quell’esplosione l’età dell’innocenza italiana, che da allora diventerà per sempre l’età del sospetto e del rancore nella quale ancora annaspiamo. Si frantumò in una villa di Bel Air, sopra Hollywood, il mito di “Tinseltown”, la immaginaria città felice di stagnola, quando la stupenda Sharon Tate, incinta, fu massacrata da Charlie “Satana” Manson e dalle sue serpi velenose sfuggite al mite sogno di controcultura e di amore universale degli hippy, e questo proprio nello stesso anno in cui lo stesso sogno aveva celebrato, nei quattro giorni di Woodstock, il te deum e insieme il funerale di un culto carnale e fangoso come la terra inzuppata dalla pioggia d’agosto nella quale si rotolavano innocui rivoluzionari con le canne. Massacri di purificazione e tiepidi abbracci a ritmo di rock, mentre un nuovo presidente americano insediato in quei mesi, Richard “Dick lo Sporco” Nixon si preparava a demolire l’“età dell’innocenza americana” e della fede dei cittadini nella integrità nobile dei propri governanti. A Praga, sulla piazza di San Venceslao, si immolava in un rogo suicida, Jan Palach, per segnalare al mondo, alle sinistre leniniste, ai pavidi che ogni illusione era morta e neppure i panzer dell’Armata Rossa sarebbero più riusciti a schiacciare lo spirito dei sudditi e a mantenere in piedi un impero marcio. Sarebbe dovuto passare ancora un ventennio, perché le conseguenze finali di quel gesto, identico all’autosacrificio di altri uomini inorriditi dalla eterna prepotenza della potenze, i monaci buddisti a Saigon, arrivassero a frutto, ma il ’69 di Praga fu La bomba di piazza Fontana vergine del suolo lunare e l’impeachment di Nixon, così finì l’età dell’innocenza sfogliamo ha scandito proprio gli anni del 9, il 1969, il 1989, come i momenti cardine del passato prossimo e dunque del presente. Guardare le fotografie emozionanti raccolte appunto dagli obbiettivi della grandi agenzie come “Contrasto” nel 1969 e 1989 è come subire un elettroshock della coscienza e rabbrividire al pensiero che anche questo, nel quale viviamo oggi, è un «anno del nove». Come il 1939, per la generazione dei nostri vecchi, l’anno della solita guerra combattuta per mettere fine a tutte le guerra, così il 1969 fu, dal Vietnam alle piazze di Milano con nomi divenuti sciaguratamente immortali, un tempo cardine per gli adulti di oggi. Mai prima di quei giorni un essere umano aveva posto piede su un suolo che non fosse quella della Terra e nel luglio del ’69 Neil Armstrong e Buzz Aldrin calpestarono la polvere vergine della Luna, un evento talmente incomprensibile da avere creato per sempre leggende impastate dello il seme di quanto sarebbe sbocciato più tardi. Nel 1989. Possiamo forse immaginare che di nuovo la magia nera del “nove”, l’urgenza di tagliare il cordone ombelicale con il passato, fu ciò che spinse il governo ungherese ad abbattere per primo le barriere di filo spinato che chiudevano le frontiere con l’Austria, dunque con l’Occidente, proprio nel 1989? Fu il richiamo di quel numero che nella sua prima formulazione indiana aveva la forma di un punto interrogativo con l’occhiello aperto e non chiuso come lo scriviamo oggi, a portare George Bush il Vecchio Saggio e Mikhail Gorbachev il Coraggioso travolto dal proprio coraggio, a dichiarare nelle acque di Malta, sballottati da una burrasca, che quel giorno la Guerra Fredda era ufficialmente finita e che l’Urss l’aveva perduta? Certamente no, la numerologia, il “potere magico del nove”, nove come i nove giorni della passione ebraica che precedono gli eventi più tragici nella storia dei figli Repubblica Nazionale DOMENICA 29 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 I LIBRI Per celebrare la folla di anniversari importanti che cadono nel 2009, Contrasto pubblica due volumi gemelli:1969 e 1989 – Un anno di fotografie (ciascuno di 200 pagine, con 150 foto a colori e in bianco e nero, al prezzo di 14,90 euro, in libreria dal 2 aprile). Libri che, attraverso immagini celeberrime o dimenticate, narrano i fatti – da Woodstock a Tienanmen, dalla conquista della Luna alla caduta del Muro – o allineano i personaggi che hanno fatto la nostra Storia 20 LUGLIO Edwin Aldrin, con Armstrong primo uomo sulla Luna 15-18 AGOSTO Jimi Hendrix al Festival di Woodstock 12 DICEMBRE Bomba a piazza Fontana a Milano 4 GIUGNO Solidarnosc vince le elezioni in Polonia 23 AGOSTO Catena umana tra Estonia, Lettonia e Lituania 9 NOVEMBRE Crolla il Muro di Berlino di David, la distruzione del tempio di Salomone, non possono avere spinto l’Urss di Brezhnev alla decisione che avrebbe consumato i resti dell’Unione Sovietica: l’invasione dell’Afghanistan. Fu presa nell’anno 1979, a proposito. E che avrebbe portato all’ignominioso ritiro delle truppe sconfitte dieci anni più tardi. Nel 1989. Ogni scolaretto marginalmente attento e con buoni insegnanti sa che la storia non matura per calendari o proclami, ma per lenti e oscuri processi ricordati per episodi e date misteriosamente coagulate. Eppure, qualcosa, sempre in quel 1989 così gonfio di segni e di immagini, si mosse in una piazza lontanissima e ancora per molti «proibita», nella Tienanmen che sarà per sempre bruciata nella memoria con foto dell’omino in camicia bianca solo davanti alla colonna ferma dei carri armati e che scatenerà nella Cina cosiddetta comunista la rincorsa alla prosperità materiale nella quale affogare il grido silenzioso di libertà lanciato da quella sagomina. L’omino in camicia bianca propria amatissima Polonia, a chiedere che il suo concerto fosse boicottato dai devoti fedeli. Guai a chi ascoltò le empie liriche del successone di quell’anno stampato e venduto in sette milioni di copie, Like a Prayer, come una preghiera, dove la signora Ciccone implorava un dio molto dionisiaco di «portarla in sogno, come una preghiera» in un luogo di estasi non mistiche. Ma anche quella aspra reazione della maggiore confessione cristiana del mondo, quella cattolica, a una banale canzonetta pop lanciata con un “commercial” della Pepsi Cola raccontava una storia sbalorditiva, rivista vent’anni dopo, quella di una gerarchia vaticana passata dall’incubo del «materialismo negatore» bolscevico all’angoscia per il «materialismo edonistico» che turba l’attuale gestione. Trascuriamo pure il fatto, di nuovo sicuramente del tutto casuale, che il Terzo Millennio sia stato marcato indelebilmente da quel che accadde nel nono mese dell’anno, l’11 di settembre, e saltiamo al presente, al tempo che i “dottori dell’Apocalisse”, gli economisti, analisti e finanzieri, magari gli stessi che fino al 2008 cantavano la ballata del mercato felix, descrivono come la prima e nuova «Grande Depressione» del Ventunesimo secolo, capace di far impallidire il ricordo della «Great Depression» originale, ufficialmente inaugurata in un altro anno che finiva con il “9”, il 1929. La tentazione di dire che anche questo nostro anno stia assistendo a una fine, quella del capitalismo come era stato interpretato dopo il 1989, nel mito del sistema unico globale e infallibile, è forte, perché soltanto le nazioni con i rammendi e le toppe sul fondo dei calzoni non stanno rovesciando tutto il loro potere statale e statalista per spegnere gli incendi. Non è ancora stato completata la raccolta delle a bloccare i carri armati Dal filo spinato tranciato sul confine austro-ungherese E la Cina non fu più la stessa ai ragazzi a cavallo del Muro Il patetico generale Jaruzelski decise in quell’anno di arrendersi e nominare un primo ministro prodotto da Solidarnosc, dal movimento politico, religioso e sindacale che avrebbe dato il colpo di grazia a lui e al Socialismo Reale in stato vegetativo irreversibile. E milioni di persone, in Europa, furono scosse dall’emozione, e dalla certezza che il futuro sarebbe stato molto diverso, e non necessariamente radioso, davanti alle foto dei giovani delle due Berlino divenute una sola, a cavalcioni del Muro ad abbracciare i militi della Vopo, la Volks Polizei comunista, che ancora pochi giorni prima li avrebbero abbattuti senza esitazione, come cacciatori di fagiani in riserva. Certamente una giovane donna furba, dotata di qualche talento e di immensa capacità di marketing, non scelse apposta il 1989 per mettere il proprio nome blasfemo, Madonna, sulla strada di Santa Madre Chiesa, spingendo un Papa, che in quelle ore celebrava anche la liberazione della fotografie che racconteranno, ai lettori del 2029 (tanti auguri) che cosa sia questo 2009, se esso riprenderà il ritmo dei tramonti e delle aurore che il ’69 e l’89 imposero, con la fine del lungo dopoguerra il primo e la fine del socialismo il secondo. Già è difficile scrivere la storia del passato, tra chi la nega, chi la vorrebbe dimenticare, chi la venera, figuriamoci scrivere la storia del futuro. Qualcosa è finito ed è stato buttato nella spazzatura, insieme con le Lehman Brothers, i fantastici magliari di Borsa alla Bernie Madoff, la leggenda del capitalismo autoregolatore, sempre destinato a divenire, come i cani abbandonati e randagi, selvatico e incontrollabile. Ma se non ci sono ancora il piedone di Armstrong o il piedino del cinese, se non conosciamo ancora la storia, già conosciamo l’immagine che trasmetteremo a chi avrà vent’anni nel 2029. Le scatole di cartone nella quali è finita un’altra epoca, incapace di superare la implacabile prova del Nove. Repubblica Nazionale DOMENICA 29 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 il racconto Scoperte Settantasettemila anni fa iniziò la migrazione più lenta della storia. Fu allora che l’uomo si mise in marcia dal continente nero per arrivare in India e poi, cinquemila anni dopo, in Oceania. Gli scienziati hanno ricostruito quell’esodo in un libro che sembra un thriller. Dove gli indizi sono orme e ossa millenarie PAOLO RUMIZ uccede che un giorno in Australia, ai piedi di una bassa cordigliera, nella sabbia di quarzo di un lago asciutto da diciottomila anni gli archeologi trovano resti molto speciali. È il corpo di una donna di vent’anni, cremato, accuratamente sminuzzato, ricoperto di polvere d’ocra e poi sepolto. Gli studiosi non credono ai loro occhi: le ossa hanno sessantaduemila anni, ventimila in più degli uomini delle grotte dipinte di Lascaux in Francia. La più antica cremazione della storia. Ma l’esame del dna offre altre sorprese. La giovane antenata appartiene alla stessa razza — “homo sapiens” — degli anglosassoni colonizzatori. Niente a che fare con gli scimmieschi australopitechi o con il “neanderthal man” dalla fronte rocciosa. Come gli abitanti di Lascaux, la progenitrice è discendente dei cacciatori che popolarono l’Africa sud-orientale, la “culla della civiltà” dove l’uomo cominciò a dipingere, socializzare, seppellire i morti. E non solo: la sua gente sbarcò in Australia almeno diecimila anni prima che l’uomo nuovo arrivasse in Europa. Ma se fu l’Africa la Grande Madre, come arrivarono fino in Oceania quegli antenati simili a noi? Come superarono il mare, visto che l’Australia è sempre stata un’isola, anche quando il gran freddo teneva basso il livello degli oceani? Già quarant’anni fa il genetista Luca Cavalli Sforza verificò che il mondo venne colonizzato da discendenti di una singola tribù africana di “homo sapiens”, al massimo settecento individui di pelle nera, partiti verso il Mar Rosso settantasettemila anni fa. Ma il primo grande viaggio dell’umanità non era mai stato rifatto. Ora degli scienziati hanno colmato la lacuna, armati di strumenti di datazione, “carbonio 14”, isotopi, mappe genetiche, rivelatori di “termoluminescenza”, e delle ultime conoscenze di paleo-antropologia. Per anni hanno seguito le tracce di quelli che andarono verso il sole nascente lungo le coste dell’Oceano Indiano, attraversando il Mar Rosso come gli ebrei, e poi gli stretti di Bab el Mandeb fino al subcontinente indiano e all’arcipelago dell’Indonesia. S Uragani ed eruzioni Ne è uscito un libro appassionante — The Bone Readers, i lettori di ossa, appena uscito a Sydney e nel Regno Unito — che ripercorre in termini divulgativi quell’emigrazione primordiale durata cinquemila anni e ne segue le tappe in una Terra battuta da uragani, freddi polari e spaventose eruzioni. Uno degli autori è italiano, Claudio Tuniz, del Centro di fisica di Trieste, specialista in datazioni con gli acceleratori di particelle. Con lui, Richard Gillespie, archeologo di Sydney, e Cheryl Jones, giornalista scientifica di antenati aborigeni. Più che un romanzo è un thriller. Un viaggio dove le vie — per dirla come Chatwin — si svelano non attraverso i “canti” ma attraverso micro-segnali captati dallo stetoscopio di apprendisti stregoni. Un’esplorazione nel tempo, che parte dal capolinea-Australia, terra dove basta grattare per toccare l’età della pietra. Orme umane, come quelle trovate pochi anni fa sul lago Wilandra, a ovest di Sydney. Vecchie di ventimila anni e perfettamente conservate. All’origine c’è l’Africa, predisse Charles Darwin prendendo atto dell’enorme quantità di scimmie sul “Rift”, la frattura nord-sud che taglia l’Africa Orientale. Oggi tutto conferma quell’intuizione; ed è dall’Africa, nella Pom- IL LIBRO The Bone Readers di Claudio Tuniz, Richard Gillespie e Cheryl Jones (Allen & Unwin, 288 pagine, 35 $ australiani). Adesso in uscita in Australia e Regno Unito, sarà tradotto in italiano a settembre da Springer Italia LO SCIENZIATO Claudio Tuniz, del Centro Internazionale di Fisica di Trieste, specialista in datazioni con gli acceleratori di particelle, è tra gli autori del libro The Bone Readers pei dell’età della pietra, la grotta di Sterkfontein, che parte la ricerca dei primi viaggiatori. C’è tutto in quel precipizio dove i corpi cadono restando intrappolati in un antico fondale marino. I primi ominidi di tre milioni e mezzo di anni, preservati quasi intatti. Lì si legge come in un film la storia della scimmia nuda che si alza in piedi, afferra una pietra, la sgrezza, poi — centomila anni fa — comincia a esprimere linguaggi complessi come i riti di sepoltura e infine, settantasettemila anni fa, spinta da un’irrefrenabile inquietudine migratoria, decide di partire. La pattuglia avanzata di un popolo mangiatore di pesce, capace di navigare e organizzato in tribù. Allora la Penisola Arabica è terra fertile e il Sahara popolato di elefanti. Il Golfo Persico è in gran parte libero dal mare a causa delle glaciazioni, e poiché le montagne sono coperte di ghiacci, non resta che la costa. È così che l’homo sapiens raggiunge l’India e l’Andra Pradesh, dove lascia strumenti in pietra molto simili a quelli sudafricani. Bivio epocale In quegli anni una gigantesca eruzione cambia il clima della Terra e porta i nostri antenati viaggianti a un passo dall’estinzione. «Di questa tappa ci sono rimasti solo i manufatti», spiega Tuniz. «Non abbiamo ancora resti umani, ma la strada dell’homo sapiens in India è chiara». L’orologio del tempo segna settantamila anni fa. E la strada si avvicina a un bivio epocale, nel Bangladesh. Qui il popolo in movimento si divide. Una parte sale verso i fiumi della Cina, per raggiungere lo stretto di Bering, trampolino verso le Americhe. Un’altra parte scende verso la Malacca e, di isola in isola, attraversa l’ultimo stretto di mare per l’Australia. Anche qui mancano resti umani, ma c’è un segnale del passaggio che sur- Ecco il viaggio alfa l’homo sapiens dall’Africa all’Australia IL DIPROTODONTE Il grande mammifero marsupiale, paragonabile come forma al rinoceronte, raggiungeva i quattro metri di lunghezza. Viveva in Australia durante il Pleistocene La sua estinzione è avvenuta a causa dell’impatto ambientale degli aborigeni, arrivati in Oceania cinquantamila anni fa classa tutti gli altri: lo sterminio dei grandi animali. Non si sa cosa sia stato: una caccia indiscriminata, l’incendio delle foresta vergine, oppure una mutazione climatica contemporanea. Fatto sta che scompaiono all’improvviso, in simultanea. Giganteschi struzzi, marsupiali grossi come orsi grizzly, ippopotami dalla faccia di cammello. Non ne rimane traccia, dopo l’arrivo del grande cacciatore. Lo stesso accade con le altre razze umane. Homo sapiens elimina i possibili concorrenti. Via neanderthal; via l’homo erectus arroccato da due milioni di anni in Cina; via i piccoli “hobbit” rifugiatisi nell’isola di Flores, Indonesia, dov’erano convissuti con microscopici elefanti (oggi estinti) e aggressivi lucertoloni di quattro metri, ancora oggi padroni della giungla. Ovviamente gli aborigeni esultano. Orgogliosi di sapersi più antichi degli europei, all’apertura delle olimpiadi di Sydney hanno vantato i loro «sessantamila anni di cultura» per avanzare diritti sul territorio australiano, in antagonismo con i conquistatori bianchi. La rivoluzione biologica generata da Darwin, si legge nel libro, aveva incoraggiato la rapina ai danni dei primitivi, degradati al ruolo di sotto-uomini e costretti a subire insulti come l’esposizione dei loro scheletri nei musei occidentali. Oggi l’Australia sta facendosi restituire da mezzo mondo le ceneri dei progenitori ma succede che, quando i legittimi eredi ne vengono in possesso, questi provvedono a una nuova cremazione purificatrice secondo i riti degli antenati, il che genera inevitabili tensioni col mondo della ricerca. Stranezze del secolo Ventunesimo: guerre scientifiche e scontri politici attorno a ossa del paleolitico. Forse gli apprendisti stregoni hanno messo in moto una macchina che nessuno riesce a fermare. “LEGGERE” LE OSSA “Lettura” delle ossa ed esami del dna sono i principali strumenti di cui si sono avvalsi gli scienziati Claudio Tuniz, Richard Gillespie e Cheryl Jones per ricostruire la provenienza degli aborigeni d’Australia Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA CULTURA* DOMENICA 29 MARZO 2009 Dieci anni fa moriva il grande editore che divideva gli autori in due categorie: “astri sorgenti” e “vecchi tromboni” Lo ricordiamo con un suo scritto inedito e profetico sul difficile mestiere di vendere cultura senza tramutare il mondo in un mercato La lettera del padre «Mio carissimo figlio». Così incomincia la lettera (inedita e che è riprodotta qui sotto e accanto) che il 2 novembre 1945 Luigi Einaudi manda al figlio Giulio pregandolo di passare a trovare i genitori. Dopo avergli parlato di questioni quotidiane, ecco uno dei passaggi più toccanti: «Quello che voglio dirti è che noi due siamo disperati. Abbiamo settantuno e sessant’anni e oramai il solo legame, solo ma grande, che ci tiene uniti alla vita, sono i figli e i nipotini. Senza di loro val la pena di vivere?». E più avanti: «A pranzo non abbiamo parlato e le lacrime non ci lasciavano vedere il cibo. Perché, almeno una volta durante la permanenza a Roma, non farti vedere?» (Conservata alla Fondazione Giulio Einaudi di Torino) NELLO AJELLO l ritratto più efficace di Giulio Einaudi lo scattò Natalia Ginzburg in una lettera che gli inviò al culmine della sua carriera di editore. «Quello che succede a te è questo», gli scrisse. «Una volta che hai stampato un libro, la figura dell’autore passa nel regno delle ombre. Stampato il libro, ti metti in testa che il libro sia tuo». Ne hai costruiti più di Balzac, sottintendeva l’amica scrittrice, assai più di Dumas padre. Puoi guardare dall’alto Gogol e Molière. È verosimile che l’editore entrasse nello scherzo con un cenno d’assenso. Lui era da sempre oggetto di una mitologia ridondante ma in fondo complice. A sorreggere simili storielle non mancavano d’altronde i numeri: un catalogo Einaudi uscito nel 1991 parlava, già allora, di seimila volumi stampati. A maggior ragione, perciò, cercare nell’aneddotica che riguarda il «divo Giulio» le definizioni più o meno ammirative sarebbe come consultare d’un sol fiato un’enciclopedia. Ne firmavano le voci coloro che gli erano più vicini. «Gelido quasi fosse stato costruito di ghiaccio», lo descriveva il vecchio collaboratore Norberto Bobbio. Il critico Cesare Segre lo trovava «bizzoso e capriccioso». Giudicandolo «elegante», con «gli occhi azzurri un po’ freddi», Rossana Rossanda notava che egli «non parlava molto, ascoltava e dirigeva». Spesso Giulio — detto “il Cavaliere Esistente” per distinguerne l’imperiosa e silente corposità dal modello effigiato da Italo Calvino — usava sottrarsi con la massima cura a chi gli chiedeva un incontro. Il numero della casa editrice, a Torino, fu per molti anni facile da mandare a memoria: 553761. E Carlo Levi gli costruì intorno un epigramma. Diceva così: «Cinque cinque tre sette sei uno — Giulio Einaudi è figliolo di re — Giulio Einaudi non c’è per nessuno — Giulio Einaudi, mi spiace, non c’è». Cesare Cases, prezioso consulente, sosteneva che Giulio divideva l’umanità in due categorie: «Astri sorgenti» e «vecchi tromboni». Corollario implicito: i primi si scorgono da lontano, i secondi vanno lasciati ai propri clamori. Perfezionista e aggressivo, Giulio veniva paragonato dal suo omonimo e dipendente Giulio Bollati a Luigi XIV per la fiducia che riponeva nei propri collaboratori. Perseguitato da una nomèa di scialacquatore, egli secondava con esultanza quest’inclinazione quando c’era da correggere qualcosa che non gli andava a genio. Era capace di mandare al macero montagne di copertine già stampate. Il suo amico Vittorio Foa — che aveva fra l’altro condiviso con lui il vagone cellulare nel tragitto Torino-Regina Coeli quando i fascisti li ar- I LO STRUZZO Giulio Einaudi sotto il simbolo dello “Struzzo”; nell’altra foto, l’editore con Elio Vittorini e Italo Calvino Il disegno è di Tullio Pericoli LA GIORNATA L’editrice Einaudi, la Regione Piemonte e la Città di Torino organizzano il 4 aprile Giulio Einaudi dieci anni dopo. Alle 10 all’Auditorium Rai di piazza Fratelli Rossaro: Antologia di Spoon River con Roberto Vecchioni, Gabriele Vacis e Francesca Porrini. Alle 16 al Maneggio della Cavallerizza di via Verdi 9: La mia pagina Einaudi, il catalogo Einaudi sfogliato con Bruno Gambarotta. Alle 21 all’Auditorium Rai: Domani con Enzo Bianchi, Eugenio Scalfari, e Abraham Yehoshua restarono come sovversivi nel 1935 in una retata di “einaudiani” e simili — sosteneva che lui, l’editore, «i libri non li leggeva, li annusava». Sto percorrendo la leggenda d’un uomo e di un’impresa negli anni d’oro. Va tuttavia colto un momento nel quale l’inno intonato a gloria di Einaudi e della Einaudi ha rischiato di mutarsi in elegia. Fu quando, messa in mora l’esperienza comunista, vennero addebitate alla casa editrice sostanziali responsabilità nel far prevalere in Italia l’egemonia culturale della sinistra. Simili addebiti avrebbero accompagnato l’ultimo decennio di vita dell’edito- re, già amareggiato dalle ricorrenti crisi aziendali che preludevano all’assimilazione della Einaudi nell’impero berlusconiano. Non sono certo mancati, allora e in seguito, i difensori appassionati del «divo Giulio». Bobbio fra i primi invitò i detrattori a scorrere il catalogo Einaudi: ci si accorgerebbe, allora, che «sono più numerose le opere di Wittgenstein che quelle di Marx». Ci fu chi parlò di «sciacallaggio». Chi di «bestemmia». A Luisa Mangoni, che ha dedicato dieci anni fa un volume alla Einaudi, Pensare i libri, bastò enumerare i filoni culturali, presenti nella casa editri- Repubblica Nazionale DOMENICA 29 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 GIULIO EINAUDI on vi ripeterò le argomentazioni di certi filosofi, come Horkheimer o come Adorno, sulla «cultura di massa» e sui terribili effetti alienanti che essa è in grado di produrre attraverso i poderosi strumenti di cui dispone: cinema, televisione, una certa editoria. Per capire la genesi del fenomeno e per rendermi conto in quale misura e in quale senso possa definirsi come tipicamente americano, preferisco rifarmi a un innocente libretto uscito a New York nel 1893. Si intitola The Novel: What It Is e ne è autore Francis Marion Crawford, uno scrittore americano vissuto per oltre vent’anni in Italia sulla fine del secolo scorso. Con una franchezza ammirevole, Crawford definisce il romanzo «una mercanzia da vendere, appartenente alla classe degli oggetti di lusso». Compito principale di un romanzo è di divertire e interessare il lettore e il romanziere è, per così dire, obbligato da una specie di tacito contratto col compratore a procurargli il divertimento che questi si aspetta dalla lettura del libro. Quindi niente sotterfugi, niente tentativi di contrabbandare lezioni o prediche, cioè cultura o pensiero, ma limitarsi a fornire al cliente nient’altro che un «piccolo teatro tascabile». [...] A questi consigli Crawford ne aggiunge uno di fondamentale importanza: non dipingere la vita N Sfuggendo alle trappole del romanzo di massa ce, che non andavano in direzione della falce e martello: dalla famosa “collana viola” a cura di De Martino e Pavese, alle opere di Jung, di James G. Frazer (Il ramo d’oro) o di quel Mircea Eliade che a sinistra è visto come un controrivoluzionario. Lui, il creatore dello Struzzo, rispondeva più annoiato che sdegnato. Citava fra i «suoi» autori Hemingway e Sartre, Salvemini, Franco Venturi e De Felice. Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: «Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano alla Einaudi sono quanto meno dei democratici». Uno di questi collaboratori “sto- rici”, Guido Davico Bonino, ha raccontato i primi approdi in casa editrice di Renzo De Felice, intorno al ’61. Già timido di suo, lo storico vedeva peggiorare durante queste visite la propria latente balbuzie. Padron Giulio, pur cosciente che il Mussolini defeliciano si vendeva come il pane, lo salutava di malavoglia. Lo molestava il fatto che in quella interminabile biografia Mussolini non venisse descritto come il male assoluto. «Era una cosa di pelle, non ideologica», commenta il divulgatore dell’aneddoto. Come dire che, ai propri capricci, un Capo così non si cura di reagire. Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: “Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano qui sono quanto meno dei democratici” com’è, con tutte le sue angosce e brutture, ma dipingerla «come dovrebbe essere». Il moralismo e il lieto fine sono gli accessori indispensabili di una letteratura così concepita. Vi confesso che la prima cosa che mi ha colpito leggendo questa ingenua e onesta teoria del romanzo è stata una sua vaga somiglianza con le teorie in voga ai tempi di Zdanov, quando gli scrittori del «realismo socialista» dovevano attenersi al precetto di far trionfare comunque il bene sul male, di mettere in luce soltanto gli elementi positivi della vita, di anteporre alla realtà com’è la realtà come dovrebbe essere. Le grandi società moderne — riflettevo — sembra non possano reggersi se non sulla superficialità e sul conformismo delle masse; la letteratura è obbligata, o da un censore, o dalle leggi del mercato, ad alimentare questo conformismo. Ma torniamo al nostro amico Crawford. Come non accorgersi che egli ha dato una perfetta definizione della cosiddetta letteratura di consumo? [...] Vorrei fare un’osservazione su quanto vi ho appena riferito: è soltanto un caso che Crawford sia americano. La sua definizione del romanzo è quella della «letteratura amena» comune nell’Ottocento a tutti i paesi. Le sue idee in proposito non differiscono dalle idee di infiniti altri scrittori italiani o francesi o inglesi della stessa epoca. Ma quand’è che il fenomeno diventa tipicamente americano e si trasforma in un fenomeno di «cultura di massa», degno di essere considerato con la più viva preoccupazione da filosofi, sociologi e pedagoghi? Quando la «letteratura amena» diventa una grande industria e le sue leggi — che erano ingenui e bizzarri precetti in Crawford — fanno tutt’uno con le leggi della produzione e del consumo su vastissima scala, le leggi cioè su cui si basa tutta la vita sociale di un paese. Tutto ciò è tipicamente americano perché questo passaggio si è verificato in America prima che altrove e vi si è verificato allo stato puro, senza temperamenti, secondo il ritmo e la forza di una colossale economia qual è quella americana. [...] L’America oggi rischia forse di essere questo: un paese in cui certi fatti culturali, in se stessi positivi, come i mezzi di comunicazione di massa, sono sottoposti a una tale incontrollata spinta di sviluppo che ne risultano modificati la loro natura e il loro scopo originari. Creati per diffondere il pensiero, l’informazione, la cultura, i mezzi di comunicazione di massa possono trasformarsi in certi casi in strumenti diabolici che annullano il pensiero, distorcono l’informazione, contrastano la cultura. [...] Questa editoria «quantitativa» confina con la pura e semplice industria tipografica, col puro e semplice commercio di carta comunque stampata. I danni che essa produce sono di due tipi: innanzitutto essa diseduca i lettori, li disorienta, ne fa dei consumatori di carta e non di cultura. In secondo luogo, per il meccanismo stesso del mercato e per la forte pressione economica che essa esercita, questa editoria finisce fatalmente per influenzare anche l’editoria «qualitativa», l’editoria cioè che si ispira a criteri di valore culturale. Questa influenza negativa può esercitarsi sia nel senso che l’editoria culturale, l’editoria seria, si separa dal resto e si barrica in un sempre più accentuato isolamento specialistico; sia nel senso che anche l’editoria culturale adotta metodi e forme della cultura di massa, e si lancia nel vortice del mercato sottoponendo i suoi scrittori, i suoi cavalli di razza, alle pericolose acrobazie e ai tour de force distruttori imposti dalla pubblicità e dalla legge infernale del successo. Tutto questo rappresenta un pericolo, un pericolo veramente grave. [...] L’editore deve avere chiara coscienza di tutto ciò, e pensare al proprio lavoro come a un vero e proprio servizio pubblico. In altre parole, l’editore non deve concepire l’insieme dei lettori semplicemente come un mercato, ma sempre come una società civile. Questo lo obbliga a non essere mai indifferente al contenuto dei libri che offre e a ricordare sempre che un libro prima di essere una merce è e deve restare un libro, e rivolgersi non a un cliente, ma a un uomo. (Intervento alla Nuova galleria d’arte moderna per l’Associazione culturale italiana, New York, 9 aprile 1964. Dall’archivio Giulio Einaudi Editore per concessione della Fondazione Giulio Einaudi di Torino) Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 MARZO 2009 SPETTACOLI Centodieci anni fa nasceva l’attore, commediografo, musicista, sceneggiatore che fu amico di divi di Hollywood, scrittori e teste coronate e autore di memorabili commedie sofisticate, tuttora in scena. Il suo epistolario, appena pubblicato negli Stati Uniti, mette insieme i capitoli di un’avventura straordinaria Tra party esclusivi, vacanze esotiche, Martini a colazione. Nella ruggente età del jazz Metti una sera a cena con Noël Coward SANDRO VIOLA orse nessuna vita è stata tanto divertente, nel secolo scorso, quanto quella d’un inglese di modesta estrazione sociale e bell’aspetto — attore, commediografo, musicista e sceneggiatore di film —, che si chiamava Noël Coward. E di certo nessuna vita è stata pervasa come la sua da così tanta “gaiety”: buonumore, “sense of humour”, passione del vivere. Il tutto accompagnato da una salute eccellente, da ingenti guadagni e dalla capacità di tenere a distanza i seccatori e la noia. Nel ponderoso volume delle Letters of Noël Coward curato da uno dei suoi biografi, Barry Day (Knopf, 780 pagine, 32 dollari), il lettore d’età avanzata, che abbia quindi vissuto molto a lungo nel Novecento, non fa che sognare. «Il party che hanno dato ieri in mio onore», scrive Coward nel 1931 da New York, «è stato molto carino. George Gershwin s’era messo al piano, e così abbiamo fatto l’una di notte». Nel settembre del 1938, subito dopo il Patto di Monaco con cui Francia e Inghilterra, nelle persone dei loro primi ministri Daladier e Chamberlain, avevano consegnato la Cecoslovacchia e il destino dell’Europa nelle mani di Hitler e Mussolini, il sottosegretario agli Esteri inglese, Anthony Eden (l’uomo più elegante di tutto il Novecento), venne spedito in America per spiegare in un paio di conferenze le ragioni per le quali Parigi e Londra avevano optato per l’“appeasement”. Coward era molto amico di Eden, e la sera del discorso che questi fece a New York scrisse alla madre Violet: «L’accoglienza ad Anthony e al suo discorso è risultata estremamente calorosa, e penso quindi che la sua visita qui sia stata molto utile. Ma adesso, carissima, devo lasciarti perché porto a pranzo gli Eden con Gary Cooper e sua moglie…». Gershwin, Eden, Gary Cooper: eppure non si tratta che F d’un assaggio, l’“amuse bouche” di queste lettere deliziose. Perché andando avanti il lettore troverà altri magnifici parties, altri pranzi con commensali impareggiabili, e poi premières applauditissime, weekend con Somerset Maugham o Lord Mountbatten o Cary Grant, e viaggi per tutto il mondo con quattro-cinque bauli al seguito: i viaggi da cui Coward avrebbe poi ricavato i versi esilaranti di Travel & travellers. Insomma quarant’anni d’indefessa, scintillante mondanità. E grande fortuna, negli anni dopo la guerra, nell’avere vicini di casa affascinanti. In Svizzera David Niven, George Sanders e Charlie Chaplin, alla Giamaica Graham Green e Ian Fleming con la moglie Anne (ex lady Rothermere). «Ian e Anne sono passati anche ieri sera a bere un Martini prima di pranzo». In quegli anni tra le due guerre che Robert Graves ha descritto in un libro celebre, The long week-end, anche altri ebbero egregie vite mondane. Somerset Maugham, per esempio, o Cole Porter. Ambedue godevano di “Vite private”, la sua pièce più riuscita, fu scritta a Chicago in quattro notti “Hay fever”, invece, in soli tre giorni rendite cospicue — grazie ai romanzi dell’uno e ai musical dell’altro —, e ambedue erano personaggi di spicco in quella che allora si chiamava “high life” e più tardi si chiamò “cafè society”. Ma Maugham e Porter non avevano la “gaiety” di Coward. Si muovevano tra le celebrità — duchesse, attori famosi, milionari eleganti —, la sera venivano loro serviti Martini perfettamente ghiacciati da domestici impeccabili o barman deferenti, al Claridge di Londra, al Ritz di Parigi, al Waldorf di New York e al Raffles di Singapo- ESISTE L’ITALIA? DIPENDE DA NOI il nuovo volume di Limes (2/09) la rivista italiana di geopolitica è in edicola e in libreria www.limesonline.com re avevano sempre gli stessi appartamenti riservati. Ma Maugham, amareggiato dalla sufficienza con cui venne trattato per tutta la vita dalla critica letteraria, non era un uomo allegro, e la sua vecchiaia — come si vede in Conversazioni con zio Willie, i ricordi del nipote Robin Maugham — fu molto malinconica se non addirittura cupa. E quanto a Cole Porter, una caduta da cavallo avvenuta quando era ancora giovane lo costrinse a una vita da invalido, a numerose operazioni chirurgiche, e infine alla sedia a rotelle. Non c’è sua fotografia in cui Cole (magnificamente vestito come Coward, e anche lui quasi sempre con un garofano all’occhiello) non appaia sorridente. Ma il suo sorriso è tirato, in alcune foto è quasi una smorfia, a causa degli implacabili dolori alle gambe e della troppa cocaina. Coward ebbe invece in sorte, come s’è detto, una salute di ferro. All’indomani dell’andata in scena d’una sua commedia a Chicago o New York, per esempio, dopo giorni e giorni di scontri con i produttori, di prove estenuanti e di tensioni in attesa della prima, poteva salire su un piroscafo, un treno o un aereo, e raggiungere Londra o Parigi, le Bermuda o Singapore, dove l’attendevano gli amici: Marlene Dietrich, i duchi di Kent, John Gielgud, Alexander Korda, Lauren Bacall, i Mountbatten, Vivien Leigh, Diana Cooper, Clifton Webb. E quando già avanti negli anni (era nato nel 1899) andò a cantare le sue canzoni sul palcoscenico del Desert Inn a Las Vegas, la notte dopo la prima fece l’alba — sempre col bicchiere in una mano e la sigaretta nelle dita dell’altra — ad un party organizzato da Frank Sinatra. Successi, platee plaudenti, grandi titoli sui giornali. Innanzitutto con le commedie (una cinquantina), da Vortice a Cavalcata, da Stasera alle 8,30 a Vite private, da Hay fever a Spirito allegro e Relative values, per citare solo le più note. Testi tessuti di conversazioni leggere e spiritose — qua e là una battuta che gli spettatori avrebbero ridetta l’indomani al bar o in ufficio —, vicende da cui affioravano la nostalgia per i doni di seduzione dell’upper class, i nuovi umori della jazz age, gli strappi che l’epoca stava infliggendo all’istituzione matrimoniale. E mai un moralismo, una profondità posticcia, una frase pretenziosa. Oltre alle commedie, poi, le riviste, i film (Breve incontro, per esempio) e le canzoni. Canzoni pari soltanto a quelle di Porter e di Rogers & Hammerstein, dunque indimenticabili: We were so young, I travel alone, I’ll see you again, I went to a marvellous party. Dei parties, la passione di Coward, s’è già parlato, ma vale la pena ricordare quello che dette Norma Shearer nella sua casa di Santa Monica nel febbraio ‘37, con Claudette Colbert, Tyrone Power, Lesile Howard, Merle Oberon, Gary Cooper, la Dietrich e tanti altri, dopo che nel pomeriggio Coward aveva partecipato ad una trasmissione della radio con Cary Grant, Ronald Colman, Carole Lombard e i Marx brothers. La mondanità di Coward non era tuttavia circoscritta all’ambiente dello spettacolo, teatro, cinema, cabaret. La sua “englishness” — l’amore per l’Inghilterra, l’orgoglio d’essere inglese — lo spingeva più in alto, sino ai bordi della Royal family. Ecco quindi lo stretto rapporto con George e Marina di Kent (e particolarmente stretto, si sussurrava a Londra nei Trenta, con il duca), l’amicizia con i Mountbatten, e nella vecchiaia i tanti invi- LOCANDINE In alto, locandine delle commedie di Noël Coward e una sua caricatura; nella fotografia grande, il commediografo ritratto nel 1932 Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Bruce Chatwin lo incontrò a pranzo a Londra e lo descrisse poi nelle ultime righe del suo libro “Che ci faccio qui?”: “Domina la conversazione ed è così spiritoso FOTO CORBIS/ARCHIVIO CONDÉ NAST DOMENICA 29 MARZO 2009 che risi sino alle lacrime, e la pernice mi andò di traverso” IN SCENA A sinistra e sopra, due locandine; a destra, Coward in una foto del 1936 e, in alto, con Gertrude Lawrence nel 1931 ti a pranzo dalla Regina madre. Un patriottismo appassionato (la sola retorica rinvenibile nel mare delle sue pagine) e inossidabile. Nel ‘37 scrive disperato a Mountbatten, implorandolo di fare il possibile per impedire il matrimonio di Edoardo VIII con Wally Simpson, «una tragedia per la nostra Inghilterra». Alla vigilia della guerra, furioso contro Chamberlain e la politica di “appeasement”, s’avvicina al “circolo di Churchill” e accetta una proposta del Foreign office per andare a sentire (e poi riferire, è ovvio) «quel che si dice» in Germania, in Polonia, in Russia. Non proprio le missioni segrete di Maugham nella Prima guerra mondiale, ma qualcosa di simile. E più tardi, durante il conflitto, ecco i musical e i film per sostenere il morale delle truppe e del fronte interno. Per lavorare tanto, era necessario lavorare senza troppa fatica. E infatti Vite private, la sua commedia più riuscita (ancor oggi, quasi ottant’anni dopo, in scena all’Hampstead Theater di Londra), fu scritta a Chicago in quattro notti, Hay fever in tre giorni, e una delle sue più belle canzoni, I’ll see you again, in un taxi imbottigliato nel traffico di Manhattan. E quand’era in vacanza, per esempio sui piroscafi in rotta per Pago-Pago o Tahiti, pagine e pagine di diario, decine di lettere agli amici o ai produttori, progetti di nuovi cast per la ripresa delle commedie, una o due canzoni da cantare al Savoy con la piccola ma agile orchestra di Carrol Gibbons. Già negli ultimi Trenta era ormai “the Master”, il Maestro con la m maiuscola. Così lo chiamavano i giornali, gli attori, gli amici, i barman del Claridge o del Raffles. Ma un po’ dopo, finita la guerra, anche il Maestro conobbe un suo periodo di malinconie. I gusti stavano cambiando (il mondo era cambiato), e s’erano affacciati nuovi commediografi: John Osborne con Look back in anger, Arnold Wesker con le sue deprimenti commedie sui “suburbs” londinesi e i dolori della classe operaia. Le commedie di Coward si davano sempre meno, e con accoglienze sempre più tiepide. Ma “the Master” reagì: venne Breve incontro, vennero i ruoli nei film (lo stolido e stupendo personaggio nel Nostro uomo all’Avana), mentre la classe operaia di Wesker aveva cominciato giustamente ad annoiare le platee. Nei suoi ultimi anni, Coward era un monumento. E fu Bruce Chatwin a ritrarlo come tale nelle ultime righe di Che ci faccio qui?, sul fondale «del suo ultimo pranzo a Londra prima che si trascinasse a morire in Giamaica». Il piccolo pranzo è da Anne Fleming, la vedova di Ian, con Lady Diana Cooper e Merle Oberon. “The Master” domina la conversazione, ed è così spiritoso che — scrive Chatwin — «risi sino alle lacrime, e la pernice mi andò di traverso». Poi, mentre stanno andando via, Coward prende in disparte Chatwin, e dice: «Mi ha fatto molto piacere conoscerla, ma purtroppo non ci vedremo più perché tra non molto io sarò morto. Ma se accetta un piccolo consiglio a mo’ di commiato, eccolo: non si lasci mai intralciare da preoccupazioni artistiche». Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori Molluschi DOMENICA 29 MARZO 2009 Al gratin, come sauté o impepata, a corredo di linguine o spaghetti, questi mitili sono un superclassico della nostra cucina Certo, ci vuole attenzione perché la loro fama di “spazzini” dell’acqua comporta precauzioni e controlli molto rigorosi. Come i laboratori e le degustazioni del vicino Slow Fish insegneranno L’appuntamento Al via la quarta edizione di Slow Fish alla Fiera di Genova dal 17 al 20 aprile In programma, aste, dibattiti, degustazioni, mercati, cucine di strada Tra i laboratori, uno per imparare tipologie dei molluschi, segreti sulla freschezza e trucchi da chef. L’altro, condotto da allevatori di Italia, Francia e Slovenia, sulle differenti ricette dei tre paesi Cozze e vongole LICIA GRANELLO l mio regno per un sauté. Difficile immaginare un piatto più itticamente goloso, coinvolgente, da condividere in allegria o consumare in beata solitudine, fumante o appena tiepido, delicato o piccante. Una celebrazione polisensoriale, che parte dal profumo di mare intenso, galvanizza le papille, richiede la partecipazione attiva delle dita, pronte a tuffare bocconi di pane nel guazzetto. Non che vongole e cozze, prese singolarmente, difettino di dignità propria. Del resto, esistono piatti dove cozze e vongole, prese singolarmente, battezzano l’anima stessa di una ricetta. Che siano linguine o scialatielli, spaghetti grandi o piccoli, la pasta lunga con le vongole, per esempio, non ammette commistioni di sorta. Allo stesso modo, impepata e gratin hanno un senso solo con le cozze protagoniste senza comprimari. Accomunate dalla condizione morfologica di bivalve e dalla straordinaria versatilità in cucina, cozze e vongole sono meravigliosamente diverse. I mitili mediterranei, pur vantando nomi diversi a seconda delle regioni — peoci, cozze, muscoli — sono facilmente identificabili: guscio marrone o nerissimo, interno a tinte più o meno forti, a seconda del sesso: giallo chiaro per i maschi, arancio vivo per le femmine. Hanno una pessima fama, le cozze, perché si nutrono di microrganismi in decomposizione, attività che le rende sensibili alla tipologia dell’acqua in cui vivono. Così, le stesse cozze sono pessime se inquinate dagli scarichi di Marghera e stupende se prosperano libere e selvagge nella baia di Portonovo, Marche, produzione inserita tra i presìdi Slow Food. Per i moscioli come per le vongole, anche in mari sanissimi, i rischi si identificano con le microalghe di cui si nutrono: complice la I L’arte mediterranea di mangiare il mare tropicalizzazione del Mediterraneo, infatti, ne sono state individuate alcune variamente tossiche, capaci di scatenare disturbi allergici e gastroenterici. Unica difesa, il controllo costante delle acque, con sospensione temporanea della raccolta quando si superano i limiti di tollerabilità. In compenso, il professor Karl Kruszelnicki, uno tra i più popolari scienziati-divulgatori inglesi, ha recentemente sfatato la credenza che vuole malati, e quindi tossici, i molluschi cocciutamente chiusi dopo la scaltritura. Secondo Kruszelnicki, a causare la non apertura delle valve è la mancata denaturazione delle proteine del tessuto muscolare dei molluschi, dovuta a una reazione atipica — ma innocua — al calore. Una scoperta che vale 370 tonnellate di molluschi, ovvero la massa di cozze e affini, gettate ogni anno nella spazzatura perché considerate nocive. Tutto quello che avreste voluto sapere su cozze e vongole, lo troverete tra laboratori didattici e degustazioni guidate nei giorni di Slow Fish. Altrimenti, organizzate un week end sul lago d’Orta e mangiate da Tonino Cannavacciolo. La sua riedizione di cozze&fagioli — crema di cozze con maltagliati di farina di fagioli — vi farà definitivamente innamorare degli ex spazzini del mare. Vongole A differenza delle cozze, vivono su fondi sabbiosi Due sistemi per pulirle: immerse in poca acqua salata perché spurghino la sabbia, o scaltrendole direttamente in pentola e filtrando il liquido con una garza Spaghetti Sauté Risotto Clam chowder Si spadellano in olio, aglio, liquido di scaltritura, vongole (metà sgusciate), prezzemolo e pepe. Stupendi scolati a metà cottura e “tirati” in padella come un risotto nel liquido allungato o in fumetto di pesce Scaltritura in aglio, extravergine e peperoncino a piacere. Dopo aver sfumato un bicchiere di vino bianco, si filtra e si versa il liquido di cottura sulle vongole scolate. Rifinitura con prezzemolo Soffritto di cipolla, e vino bianco dopo la tostatura del riso. Cottura in brodo di pesce o verdura con liquido di scaltritura. Vongole sgusciate a tre quarti di cottura. Buccia di limone grattugiata e vongole intere Le vongole chaudrée, cotte nel rame (la ricetta arriva dal Canada atlantico francese) si cuociono in un soffritto di cipolle, sedano e pancetta con aggiunta di patate, acqua e liquido di scaltritura Rifinitura con panna o latte Repubblica Nazionale DOMENICA 29 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Sabaudia (Lt) Goro (Fe) itinerari Il lucano Vito Mollica è l’executive chef del maestoso “Four Season Hotel” di Firenze Tanto girare per il mondo ha lasciato intatto il suo amore per la cucina regionale italiana: squisiti gli scialatielli partenopei guarniti con vongole veraci L’antico borgo affaccia su una sacca d’acqua salmastra, dove seicento ettari sono dedicati all’allevamento di vongole veraci Taranto Tra Mar Grande e Mar Piccolo, vanta una millenaria tradizione ittica A giugno, il Festival delle cozze celebra le saporite “tarantine” Nata negli anni Trenta sulle sponde del lago di Paola, nel parco del Circeo, ospita allevamenti ittici ideati dai tecnici arrivati da Comacchio DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE TENUTA GORO VENETO Via Basilicata Tel. 0426-81097 Doppia da 55 euro, colazione inclusa SAN FRANCESCO CHARMING HOTEL Via Caterattino Tel. 0773-515951 Doppia da 105 euro, colazione inclusa B&B ISOLA BLU Via Duca di Genova 24 Tel. 329-1044533 Doppia da 80 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE STELLA DEL MARE Via Po 36, Gorino Veneto Tel. 0426-388323 Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro L’AZIENDA Via Casali di Paola 6 Tel. 0773-596800 Aperto solo la sera, menù da 40 euro GATTO ROSSO Via Cavour 2 Tel. 099-4529875 Chiuso lunedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE CONSORZIO PESCATORI Via Brugnoli 298 Tel. 0533-793111 LE MAR Corso Vittorio Emanuele III 178 Tel. 0773-511274 PESCHERIA GESÙ CRISTO (con cucina) Via Cesare Battisti 8 Tel. 099-477725 Cozze Miseria e nobiltà della strana coppia I mitili mediterranei d’allevamento si lavano sotto l’acqua corrente. Quelli di scoglio vanno raschiati con una paglietta per togliere i denti di cane (piccole escrescenze calcaree) La “barbetta” si strappa tirandola verso l’alto MARINO NIOLA na è il Calimero del mare, l’altra è la popolana più sexy degli abissi. Cozze e vongole sono la coppia simbolo del nostro mangiare alla marinara. Povere ma belle, fatte apposta per un palato colto e popolare come quello italiano. Pochi ingredienti tanto sapore. Sul gusto semplice di questi molluschi — quasi una combinazione presocratica di acqua, fuoco e aria profumata — il genio cucinario del Bel Paese ha compiuto esaltanti esercizi di gastronomia trascendentale. Impepata di cozze, sauté di vongole, linguine allo scoglio, risotto alle arselle, cozze gratinate. E su tutto i sontuosi spaghetti alle vongole, quintessenza del modo di mangiare, ma anche del modo di essere degli italiani. Morbido, sgusciante, gustoso, viscoso, di poca sostanza, di grande tolleranza. Il carattere nazionale sintetizzato in un piatto che più simbolico non si può. Un compromesso gastronomico in cui finiscono per ritrovarsi un po’ tutti, eccezioni a parte. Non a caso Eugenio Scalfari scrisse all’indomani della morte di Enrico Berlinguer che il segretario del Pci era uno dei pochi politici italiani «non alle vongole». E infatti il rigore giacobino mal si concilia con la propensione alla mediazione di questo piatto capace di mettere d’accordo tutti i gusti e di far coesistere tutte le differenze. In fondo il gran misto di mare, dove cozze e vongole, arselle e lupini si mescolano alla rinfusa, trovando un miracoloso equilibrio nel nome del piacere e del sapore, è una perfetta immagine di questo paese. Un cibo da commedia all’italiana. Da miseria e nobiltà. Schiettezza popolare e ammiccamento piccolo borghese. Tradizionale sinonimo di scarsa avvenenza, le cozze sono a tutti gli effetti un sottoproletariato acquatico, una folla indistinta, nera, aggrovigliata. Brutta, sporca, ma non cattiva. Nulla a che spartire con le blasonate ostriche che irrompono sulla scena della tavola adagiate su sontuosi plateau di ghiaccio e precedute dai loro nomi, altisonanti come titoli gentilizi. Belon, Rocher de Cancale, Fine de Claire, Oléron. Massimo dodici, mai meno di tre. I loro calibri si misurano con inesorabile scrupolo, come i quarti di nobiltà. Mentre le cozze, oscure e generose, si comprano a chili, a retine e in Francia addirittura a litri. A Venezia le chiamano con l’appellativo poco lusinghiero di peoci, che a Trieste diventano pedoci. Ma il risultato non cambia, si tratta sempre e comunque di pidocchi. Una moltitudine anonima fatta di mitili ignoti. Pronti però a buttarsi nel fuoco per la gioia delle nostre papille. Il loro sacrificio ha arricchito la cucina povera italiana di capolavori assoluti come pasta e fagioli con le cozze, come le tielle di Gaeta, gli sformati pugliesi con riso e patate. E, last but not least, la maionese di cozze della Conca di Alimuri immersa nello splendore della penisola sorrentina. Oggi questi molluschi low cost celebrano il loro trionfo e gli chef ne nobilitano le proprietà ipocaloriche innalzandoli alle glorie dell’alta gastronomia. Un contrappasso quasi dantesco, dall’indigenza del sugo alle vongole fujute fino al gran concerto di sapori dello spaghetto che piroetta nel piatto. E balla coi lupini. U Impepata Marinara Ripiene Gratinate Necessita di extravergine, aglio, pepe nero (alla fine) e braccia robuste. Infatti, dopo aver fatto scaltrire le cozze a fuoco vivace, occorre scuotere più volte la pentola dal basso all’alto per far uscire l’acqua di cottura Aglio schiacciato, olio, sedano e prezzemolo tritati grossolanamente, un bicchiere di vino bianco per il classico sauté. Nel piatto di portata, metà cozze sgusciate, le altre lasciate intere, servite con il brodo filtrato e caldo Le cozze scaltrite si farciscono con prezzemolo, uovo, capperi e pecorino. Chiuse col filo grosso, si appoggiano in teglia su salsa di pomodoro e liquido di cottura filtrato. In forno per un quarto d’ora Scaltritura con olio, aglio e vino bianco a fuoco allegro. Tolte le valve superiori, vanno velate con un impasto di sale, pepe, parmigiano, pangrattato, olio, prezzemolo e poco liquido di cottura Doratura in forno Repubblica Nazionale DOMENICA 29 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 le tendenze Ambiguità La giacca maschile diventa un miniabito da indossare senza gonna, le tracolle femminili sostituiscono i borselli, sparisce la scollatura a vantaggio del girocollo, torna il calzoncino Ragazze androgine, ragazzi “garçonne”: così la moda supera il concetto di unisex e arriva ad annullare i generi OLD BRIT/1 La scarpa stile inglese di Ermanno Daelli: fascino a punta e lavorazione traforata in versione estiva Perfetta con i jeans e col classico MAN IN BAG Lavorata con pelli preziose e dai colori a contrasto la borsa di Etro. Un debutto impegnativo ma attuale per l’uomo in bag OLD BRIT/2 CASA COMUNE Sembra nata per camminare sui campi da golf la scarpa Church’s con i lacci. Da usare con spirito e moderazione di giorno e di sera Comodità unisex con la morbida pantofola in velluto griffata Cesare Paciotti. Entrambe in un allegro blu elettrico con stemma sul davanti Q uando negli anni Sessanta lo lanciò Ted Lapidus, stilista francese noto per aver democratizzato la moda, fu definito “unisex”. Era uno stile fatto di silhouette androgine e snelle, divise militari, tagli squadrati e spalline sotto le giacche. Molto tempo dopo è arrivato il “metrosexual”. Uomo del nuovo millennio che, nell’incerta ma costante ricerca di un’identità, coltiva il proprio lato femminile dedicandosi ossessivamente all’abbigliamento. In fondo si tratta di risposte, al maschile, al fascino indiscutibile della garçonne del romanzo di Victor Margueritte. Anche per lei, nulla è lasciato al caso: capelli molto corti, cravatte, camicie e giacche dal taglio sartoriale. È il perenne “gioco delle coppie” che ciclicamente ritorna. E anche in quest’inizio di primavera in passerella, e nelle vetrine dei negozi, brillano donne e uomini dagli abiti intercambiabili. Cambiano di conseguenza le regole della seduzione. Per le ragazze di ogni età la parola d’ordine è femminile ma non troppo. Vince l’ispirazione al guardaroba maschile rivisitato in chiave sexy. Si alterano le proporzioni ma l’ambiguità resta. Archiviate le scollature abissali trionfa il più neutro girocollo. La giacca maschile diventa un miniabito da indossare senza gonna. Le scarpe perdono i tacchi e conquistano i lacci o la variante in stile inglese. La camicia è maxi. I pantaloni sono morbidi e di taglio maschile. Non solo. Le donne si appropriano della cravatta e l’abbinano con spirito a IRENE MARIA SCALISE un altro grande capo rubato a lui: il gilet. Per l’uomo invece l’avvicinarsi al mondo femminile rappresenta un salto di qualità. Si svuotano le tasche e si utilizzano, forse per la prima volta, le borse. Si abbandonano le tinte unite a favore di fantasie anche fiorate per abiti e accessori. Si annullano le differenze. L’importante è essere individui, indipendentemente dall’appartenenza all’una o all’altra metà del cielo. E, per il 2009, la sapienza dei migliori couturier ha giocato proprio su questo: riuscire a creare abiti, accessori e mise assolutamente simili per gli uni e per le altre. Nella donna il pantalone è più sottile o nell’uomo la spalla è più definita, ma la sostanza non cambia. Lui riscopre il borsello del tutto simile alla tracolla di lei, o la borsa fantasia con ampi manici. Il calzoncino corto, trionfo dell’estate, scopre le gambe di entrambi. Il fascino del completo bianco non risparmia nessuno. Anche gli accessori e i gioielli entrano allegramente in gioco. Scarpe modello pantofola per entrambi. Cappelli panama e Borsalino che ombreggiano il volto e donano fascino. Per il gioco delle coppie, però, ci vuole un certo fisico. Difficile infatti risultare androgine se la taglia è mediterranea. Analogo discorso al maschile. Un uomo tarchiato, o over cinquanta, con borsello e calzoncini corti può lasciare inorriditi. Il consiglio, se si vuole giocare con la giusta ironia, è di chiudere le riviste e munirsi di uno specchio che, se guardato con onestà, si può rivelare il miglior consigliere. TARTAN WOMAN Morbida e lievemente bombata la borsa griffata Etro per lei Abbina la fantasia tartan al classico motivo della maison Un armadio per due è il gioco di coppia PASTELLO Sfumature delicate per l’uomo Jil Sander Azzurro polvere e rosa confetto abbinati al classico nero ma su una giacca che si nota LUNARE Anello di sofisticata lavorazione di Roberto Cavalli per l’uomo eccentrico SOLARE Anello di Louis Vuitton pensato per la donna che non ama i classici LEGGERA Impalpabile eleganza per la mise Vera Wang sfumata in tre colori dal beige al nero Tessuti preziosi e sandali vertigine SENZA TABÙ SUPERSEXY FATTORE B MINIMAL TECNO SEDUZIONE Disinibito l’uomo Custo Barcellona in completo a fiori con fantasia black&white Cravatta e scarpa si trasformano per il tocco estremo Abito super sexy per la donna di John Richmond Fantasia optical in bianco e nero e spacco audace Per sedurre di sicuro Fascino immacolato per l’uomo Louis Vuitton La scarpa sportiva alleggerisce il look e lo rende perfetto per la città estiva e per il mare Stile androgino e color bianco candido per la maschietta Ferragamo Pantalone morbido, camicia smilza e cravatta Giacca sportiva in tessuto tecnico per l’uomo Prada Da abbinare di rigore a pantaloni scuri impreziositi dalla scarpa classica Giacchino smilzo, che lascia intravedere il reggiseno, e gonna stretta al ginocchio per la donna Prada Un completo tutto seduzione Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 MARZO 2009 l’incontro È un ottantenne dai capelli candidi e con una gentilezza di maniere da signore antico, ma non lasciatevi ingannare. Questo profeta della musica scomoda di Schönberg, Berg e Webern, baluardo anti-commerciale e apripista dei compositori del secondo dopoguerra è un maestro tenace, disilluso e furente: “Bisogna essere estremi fino alla provocazione”, dice, “al nuovo va attribuita una visibilità sfacciata” Monumenti Pierre Boulez n una sala della Cité de la Musique Pierre Boulez sta provando musica di Webern. Brani aguzzi, fulminei, concentrati fino alla crudeltà («un pensiero così forte e scarnificato può esprimersi solo in tempi compressi», spiegherà in seguito Boulez durante il nostro incontro nel suo studio). Il gesto direttoriale è netto: ha il dono dell’evidenza. Mai un filo di retorica nelle analisi verbali calme e concrete. Niente di mistico o estatico. Nessun bearsi di se stesso. Eppure, a ottantaquattro anni, Boulez è un monumento vivente, l’ultimo dei giganti della musica del Ventesimo secolo, profeta del disancoraggio dalle convenzioni in nome di una curiosità sperimentale sempre combattiva. Il 6 aprile il maestro francese dirigerà l’Ensemble Intercontemporain alla Scala di Milano. Incluso in una serie di programmi scelti da Pollini, sarà un concerto dedicato alla seconda Scuola di Vienna: musiche di Schönberg, Berg e Webern, poderosi apripista per i compositori del secondo dopoguerra. «Senza di loro», commenta Boulez, «il paesaggio musicale odierno sarebbe diverso. Ci sono autori anche notevoli, come Prokofiev e Hindemith, senza i quali il Novecento non sarebbe cambiato affatto. Altri invece hanno segnato in profondità la storia: come Schönberg». Quello del 6 alla Scala sarà un evento arduo, non accattivante. Eppure vanta il tutto esaurito. Così avviene sempre in occasione dei concerti di Boulez, atteso pure a Ravenna a fine giugno con l’Orchestre de Paris, e ancora a Milano, sul podio dell’orchestra scaligera, a fi- nistra. «Però bisogna ammettere che i comunisti italiani, almeno un tempo, non erano idioti come quelli francesi. Sono stato comunista solo fino al ’48, quando in una riunione di musicisti occidentali emersero le conseguenze devastanti delle direttive in campo culturale di Zdanov, il grande ideologo staliniano. Mi sono reso conto che non c’erano differenze tra il binomio HitlerGoebbels e quello formato da Stalin e Zdanov, e ho capito che un genuino pensiero di sinistra è inconciliabile col comunismo. Inoltre ero inorridito da certi comunisti di stupidità intollerabile, che in Francia parlavano di bruciare i libri di Kafka, e in Ungheria non permettevano che si eseguisse Bartók». Ancora oggi, nei confronti dei problemi culturali, quest’energico ottantenne con capelli candidi e gentilezza di maniere da signore antico, ma senza un’ombra d’affettazione, non accenna a farsi da parte. Si ostina a battersi per le proprie convinzioni musicali e a criticare l’assenza di coraggio «di coloro Nelle istituzioni culturali manca il professionismo Spesso i ministeri scelgono persone inette, che hanno occupato la poltrona per mera appartenenza politica FOTO MAXPPP I PARIGI ne ottobre con un programma su Bartók. Boulez affascina e coinvolge in quanto incarnazione di un sapiente illuminismo, estraneo al chiasso e all’insipienza. In tempi di pensiero fragile, questo musicista tenace e avventuroso ha la confortevole autorevolezza di un baluardo di solidità anti-commerciale, emblema della musica vissuta con rigore e culto dell’artigianato sui due versanti dell’interpretazione e della composizione: è direttore d’orchestra esemplare nelle letture nitide, nella trasparenza strutturale, nella facoltà di connettere in modo organico passato e presente; ed è un autore intrepido e radicale, formatosi al credo dodecafonico, esploso come talento tra gli anni Quaranta e Cinquanta (Stravinskij lo definì «il miglior compositore della sua generazione»), studioso di informatica e nuovi orizzonti sonori. Mai artefice di opere teatrali («avrei voluto lavorare con Genet, eravamo amici, ma morì troppo presto», racconta), è sospettato da qualcuno di frigidità razionalista. Ma è inattaccabile per coerenza e incessantemente proiettato nel futuro. In più è un “motivatore” straordinario, stratega della cultura instancabile nel sollecitare, sospingere, edificare. Ispiratore dell’Ircam, centro parigino per la ricerca sulla nuova musica e le più avanzate tecnologie sonore; fondatore dell’Ensemble Intercontemporain, gruppo votato all’esecuzione della musica del nostro tempo; consulente della Cité de la Musique («fu mia l’idea di partenza e ho aiutato a plasmarne il modello»); interpellato come consigliere per la costruzione della sala filarmonica di Parigi, pronta nel 2013 («alla città manca un grande spazio per concerti, si va avanti da troppi anni con strutture non capienti e fatiscenti, confondendo la vita musicale del terzo millennio con quella ottocentesca»). Rispettato e temuto dai diversi governi in Francia, è deciso nell’affermare l’indipendenza del creatore. La politica non lo ha mai contaminato: «Bisogna avere fermezza di orientamento e sguardo acuto. Assumersi il rischio della protesta o anche dell’invettiva. Cercare interlocutori responsabili: non sono molti. Nelle istituzioni culturali manca il professionismo. Spesso i ministeri scelgono persone inette, che ignorano le caratteristiche e le esigenze dell’ambito in cui vengono fatte operare, e che hanno guadagnato la poltrona per mera appartenenza politica». Metodo assai diffuso, maestro. In Italia se ne sa qualcosa, sia a destra che a si- che diffondono la musica, spesso privi di cultura o afflitti da lacune enormi. In molti temono il contemporaneo, e se scelgono un pezzo nuovo puntano su cose basate su modelli vecchi, come le composizioni dette neoromantiche, oppure che non disturbano, come il minimalismo, musica primitiva e unidimensionale che annichilisce tutto. Non capiscono che le idee autentiche arrivano sempre a imporsi». Un altro guaio culturale contro cui combatte è la mania di proporre repertori ristretti: «Pensi al fenomeno del barocco, riscoperto da poco: una miniera d’oro e una tappezzeria graziosa per arredare sale da concerto. Altrettanto assurdo è interessarsi esclusivamente di musica romantica e post-romantica, che riguarda solo cent’anni di storia». Insomma, dichiara Boulez, «oggi la specializzazione ha sostituito la cultura, mentre gli specialisti andrebbero usati solo in chirurgia». Sostiene che più si è timidi nelle proposte e meno il pubblico viene motivato: «Bisogna essere estremi fino alla provocazione. Nascondendo le proprie scelte, presentando un pezzo contemporaneo schiacciato tra brani noti e popolari, si finisce per essere deboli e non trascinanti. Al nuovo va attribuita una visibilità sfacciata». Gli si fa notare che nel pubblico c’è più apertura e curiosità per la pittura del Novecento che non per la musica contemporanea. «È vero. Se si organizza una grande mostra su Picasso — è accaduto di recente qui a Parigi — le persone affrontano code di ore per vederla perché la ricezione è più facile e diretta. Se non ti piace un quadro passi a un altro. Sei tu a determinare il tempo di fruizione. Inoltre il territorio delle arti visive è condizionato dal marketing, il che lo rende più misurabile e dunque più accessibile. Colpisce il fatto che un quadro sia stato venduto per diciotto milioni di dollari, ma è aberrante credere che sia il costo a definire il valore». Odia la confusione dei contesti linguistici, questo maestro furente e disilluso. Quando gli si riferisce che in Italia c’è chi paragona Giovanni Allevi a Mozart, ed è anzi lo stesso Allevi a osare il folle confronto, dice che «oggi piace ciò che è comodo, superficiale e non impegnativo: perciò si tende a proclamare l’equivalenza delle culture musicali. Livellamento insensato. A nessuno verrebbe in mente di porre sullo stesso piano Shakespeare o Beckett e una soap opera guardata in tivù, anche se i primi sono più faticosi da assimilare della se- conda». Insiste che «a ogni nuova sensibilità dev’essere dato il tempo per imporsi. Ancora negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, le sinfonie di Mahler erano considerate incomprensibili. C’è voluto Bernstein per farle capire e renderle un patrimonio comune. A lungo si è rimproverata a Debussy la mancanza d’emozione, come anche a Bartók e a Stravinskij. È l’assenza di elementi prefabbricati a far credere che certi lavori importanti siano noiosi o troppo complessi. Interpreti e programmatori non devono cullarsi — e spesso lo fanno solo per interessi economici — nell’inerzia di massa che domina quest’epoca passatista e ossessionata dalla memoria». Eccelso esecutore di Wagner, Boulez crede ancora nel teatro d’opera, ma lo considera agonizzante nelle condizioni attuali:«La lirica non potrà sopravvivere se continuerà a basarsi sul corporativismo rivendicativo. I budget rischiano di divenire insostenibili. Se per una rappresentazione si spendono tre milioni di euro sarà presto impossibile programmare una stagione. Le categorie dei professionisti non riflettono sulla precarietà che stanno determinando. Guardi le industrie discografiche: le prestazioni sempre più onerose ne hanno portate molte al fallimento. Solo nel tempo si può recuperare il denaro e anche ottenere incrementi. Il guadagno non può essere immediato, come pretenderebbero i professionisti del settore. Il sistema delle banche è giunto al collasso un po’ per lo stesso perverso meccanismo. I lavoratori dello spettacolo dovrebbero imparare la lezione. Nella cultura è indispensabile un certo grado d’investimento: bisogna crederci e avere lo sguardo lungo». ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale