Domenica
l’immagine
La Storia alla prova del Nove
La
di
DOMENICA 29 MARZO 2009
VITTORIO ZUCCONI
il racconto
Il primo viaggio dell’homo sapiens
Repubblica
PAOLO RUMIZ
Cacciata
Paradiso
La
dal
Le loro banche erano
un porto sicuro
per il denaro dei ricchi
FOTO © IMAGES COM/CORBIS
Non più: Obama
e l’Europa sono in guerra
contro i Paesi “tax free”
FEDERICO RAMPINI
PINO CORRIAS
«O
solenella corrente, per lo più. E sempre sotto il sole dei Tropici. Come Tortuga, Curaçao, Grenada, Bermuda, Antigua. Cariche di coralli sottomarini e forzieri terrestri. Con
bionde smaltate dal latte solare, buona musica, e daiquiri
ghiacciato a bordo piscina. E poi piccoli resort su spiagge
bianche, dove il relax respira in silenzio e all’ombra di tutto: occhi altrui e false identità, controlli, intercettazioni, domande indiscrete sulla provenienza dei soldi degli ospiti e la destinazione dei loro sogni.
Per tutto il Ventesimo secolo queste coordinate d’inchiostro e
cieli azzurri hanno disegnato — su carta da romanzo, cinema e
avventure seriali — le mappe dei paradisi fiscali, molto più di certe casseforti continentali tetre come Vaduz. Raccontati dai narratori più popolari del thriller, da Elmore Leonard a David Baldacci, passando per Graham Greene e naturalmente John Grisham, con le loro scie di morti inspiegabili, tradimenti, guerra di
spie, e immense somme di denaro che pulsano da un conto all’altro in un clic.
(segue nelle pagine successive)
ggi se sei un banchiere svizzero all’arrivo
in un aeroporto americano hai paura di
essere interrogato. Se vai in Germania i
doganieri tedeschi possono arrestarti alla frontiera. Tra noi c’è chi ha smesso di
andare anche in Francia». Sono confessioni raccolte nei giorni scorsi a Ginevra. In quello che fu l’ambiente felpato ed esclusivo delle banques privées. Sul Financial
Times è trapelata una notizia clamorosa: molte banche svizzere hanno dovuto proibire ai loro top manager di viaggiare all’estero. Sono i gestori di grandi patrimoni che per generazioni
hanno custodito al riparo da sguardi indiscreti le fortune delle
famiglie capitaliste del pianeta. Oggi si sentono braccati come
fossero corrieri della droga. Per molti di loro il Lago Lemano è
diventato una prigione dorata da cui non osano più allontanarsi. È un effetto dell’offensiva senza quartiere scatenata contro i
paradisi fiscali. Un attacco che per la sua ampiezza non ha precedenti nella storia.
(segue nelle pagine successive)
I
cultura
Einaudi, l’uomo che pensava i libri
NELLO AJELLO e GIULIO EINAUDI
spettacoli
Noël Coward, un dandy a teatro
SANDRO VIOLA
i sapori
Cozze e vongole, mangiare il mare
LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA
l’incontro
Pierre Boulez e la musica difficile
LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Effetto crisi
DOMENICA 29 MARZO 2009
Tempi duri per i manager degli istituti di credito svizzeri
A molti di loro è stato sconsigliato di viaggiare all’estero
Si sentono braccati come fossero corrieri della droga:
effetto della lotta senza quartiere scatenata dal presidente
americano contro il segreto bancario. La Ue è d’accordo
Ma la storia recente insegna che la vittoria non è scontata
La guerra di Obama
ai paradisi fiscali
(segue dalla copertina)
otto lo shock della recessione globale è
accaduto il miracolo: un patto di ferro
tra l’America di Obama e l’Unione europea per debellare il segreto bancario,
espugnare i centri che prosperano sull’evasione fiscale. La svolta in questa
guerra è stata la resa della Svizzera. Sottoposto a
una pressione politica inaudita da parte di Washington, con minacce di pesanti ritorsioni che
potevano strangolare l’economia elvetica, il governo di Berna ha ceduto. È sceso a patti su un
principio che difendeva da duecentocinquanta
anni: la sacralità del suo segreto bancario. I conti
correnti intestati a cittadini americani non saranno più inaccessibili per gli agenti dell’Internal Revenue Service, i segugi del fisco Usa.
La Svizzera era la posta in gioco più ambita in
questo conflitto, la madre di tutti i paradisi bancari, la roccaforte che per anni era stata assediata
senza arrendersi. Da sola si stima che la Confederazione custodisca un terzo di tutta la ricchezza
clandestina delle famiglie più facoltose del pianeta: undicimila miliardi di dollari, quasi quattro volte il Pil della Germania. Dopo che il governo di Berna ha alzato bandiera bianca, ogni argine è stato
travolto. È seguita una lunga catena di capitolazioni. Da Monaco al Liechtenstein, da Singapore a
Hong Kong, gli ex-paradisi hanno accettato di aiutare gli stati da cui provengono i clienti delle loro
banche.
A giudicare dai bollettini di resa si sta chiudendo un’epoca. Sembra di assistere al crepuscolo di
un intero mondo con i suoi fasti, il suo glamour, le
sue leggende. Attorno al business degli istituti
bancari superconfidenziali erano cresciute oasi di
lusso, grandi hotel, casinò, chef a tre stelle Michelin, quartieri di gioiellieri intasati da Ferrari e Lamborghini. Un universo dorato degno dei film di James Bond. E infatti ha spesso catturato la fantasia
S
In apparenza è la fine
di tutto un mondo
e dei suoi fasti:
addio oasi di lusso,
casinò, grandi hotel,
gioielli e superauto
dei giallisti e degli sceneggiatori di Hollywood. La
realtà non era lontana dalla fantasia. Bradley
Birkenfeld era un top manager dell’Ubs, la più
grande banca svizzera, un tempo circondata da un
alone di rispettabilità. Pentito, divenuto una talpa
dell’Fbi, ha rivelato che per aiutare i clienti americani a esportare ricchezze ingannando le dogane,
era arrivato a infilare diamanti in un tubetto di
dentifricio.
La sconfitta dei paradisi è stata fulminante, quasi a sorpresa. Ancora un anno fa gli “gnomi” si consideravano inattaccabili nelle loro fortezze. Erano
determinati a respingere ogni richiesta di trasparenza. Angela Merkel nel 2008 aveva messo in
campo i servizi segreti per procurarsi la lista dei
miliardari tedeschi con i conti cifrati nel Liechtenstein. La reazione del principato di fronte allo spionaggio era stata rabbiosa. Un dirigente di Vaduz
parlò di «metodi della Gestapo nazista». Gli svizzeri gli diedero manforte. Il parlamentare di Berna
Thomas Mueller evocò «quei tedeschi che marciavano al passo dell’oca, con stivali di cuoio e fascia
nera sull’avambraccio».
Poi è arrivato lo shock della recessione. A Washington ha accelerato la resa dei conti. Con un deficit pubblico che sale al tredici per cento del Pil —
un livello raggiunto solo nella Seconda guerra
mondiale — l’Amministrazione Obama deve recuperare ogni gettito imponibile, a costo di dare la
caccia agli evasori anche all’inferno. E in un anno
in cui il Tesoro Usa dovrà emettere altri duemila
miliardi di Bot per finanziarsi, rischiando una crisi di sfiducia nel dollaro, è urgente chiudere i porti
d’arrivo per le fughe di capitali, come sono appunto le piazze bancarie offshore.
Da Washington è partita la crociata contro la
svizzera Ubs, la preda più grossa e appetibile:
52mila conti bancari intestati ad altrettanti cittadini americani, tutti presunti evasori nel mirino
dell’Internal Revenue Service. L’Ubs ha un’importante filiale a Wall Street, non poteva permettersi di finire nella lista nera delle autorità americane. Inoltre la sua casa madre in Svizzera barcol-
© DISNEY PER GENTILE CONCESSIONE DELLA WALT DISNEY ITALIANA SPA
FEDERICO RAMPINI
la sotto le perdite per i titoli tossici sui mutui subprime: deve avere accesso ai piani di salvataggio
lanciati da Washington. Ha tentato comunque di
opporre una resistenza, perché cedere al fisco
americano significava tradire la fiducia dei clienti,
calpestare un preciso impegno contrattuale. Ma il
suo stesso governo le ha imposto il diktat finale:
impossibile dire di no all’America. «La pressione»,
ha rivelato un diplomatico francese, «era diventata insostenibile».
L’Unione europea si è accodata volentieri.
Avendo una pressione fiscale ancora più alta degli
Stati Uniti, e dei paradisi bancari incrostati nel
proprio cuore (Svizzera, Lussemburgo, Liechtenstein, Andorra, Monaco, le isole della Manica) il
Vecchio continente aveva i suoi conti da regolare.
La liquidazione del segreto bancario è stata messa
all’ordine del giorno del G 20 di Londra il 2 aprile:
per allora secondo gli americani le ultime sacche
di resistenza dovrebbero essere debellate.
Se è tutto vero, stiamo assistendo all’epilogo di
una storia antichissima? I primi paradisi fiscali risalgono alla Grecia di Omero, dove i mercanti-navigatori dirottavano i loro scambi verso le isole che
li esentavano dalla tassa del due per cento prelevata ad Atene. Lo Stato Pontificio fu un’oasi di privilegio fiscale dall’anno 756 dopo Cristo. Nel tardo
Medioevo i commercianti tedeschi della Lega anseatica aprivano filiali a Londra per evadere le imposte di casa. Il ruolo della Svizzera fu esaltato dalla sua neutralità nelle due guerre mondiali: i paradisi fiscali prosperano nelle fasi di grandi turbolenze finanziarie e geopolitiche. In seguito altre
evoluzioni dell’economia globale hanno portato
al proliferare dei centri bancari offshore: dagli anni Settanta l’informatica ha facilitato i trasferimenti di capitali; l’ondata di deregulation ha spinto le banche tradizionali a diversificarsi aprendo
business sempre più spregiudicati in luoghi remoti, lontani dalle autorità di vigilanza. C’era anche una potente difesa ideologica. Il neoliberismo
legittimava i paradisi bancari in nome della concorrenza fiscale tra Stati, li considerava una frusta
benefica per castigare i governi più spendaccioni
e indebitati sottraendogli imponibile. Era l’idea
che «i capitali votano con i piedi» abbandonando
giustamente le zone ad alta pressione fiscale.
Sono quel mondo e quel sistema di valori a finire travolti dalla Grande Recessione. Ironia della
sorte: Bradley Birkenfeld, la “talpa” all’origine del
processo americano contro i conti segreti dell’Ubs, decise di vendicarsi della banca svizzera
perché non gli era stato erogato un bonus abbastanza generoso. Ora il vento soffia impetuosamente nella direzione opposta. Il Wall Street Journal ha aperto una rubrica di consigli per gli americani che hanno conti all’estero: «Siate realisti. Patteggiate e chiedete perdono. Non avete altre vie di
fuga».
Eppure un’ombra di scetticismo rimane. Citando James Bond: mai dire mai. Se i singoli miliardari sentono sul collo il fiato degli ispettori fiscali, le
grandi imprese multinazionali hanno elaborato
strategie sofisticatissime per delocalizzare le sedi
sociali nei paesi a tassazione ridotta. Riagguantare quel tipo di elusione sarà una partita lunga e
complessa. Fa riflettere un titolo in prima pagina
del New York Times: «Il Congresso sancisce la fine
dei paradisi fiscali». È datato 4 febbraio 1962. Alla
Casa Bianca c’era John Kennedy.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 MARZO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
Isole per pirati
malfattori
e belle donne
PINO CORRIAS
(segue dalla copertina)
aradisi che funzionano (in realtà) come inferni freddi:
puliti, ordinati, mai
chiassosi, ma intanto ramificati nei labirinti del riciclaggio. Protetti da
serrature segrete. Occultati, dietro le targhe d’ottone delle ltd
offshore, in intrighi finanziari
che corrono sottotraccia come i
flussi del narcotraffico, le doppie contabilità delle multinazionali e dei trust bancari, l’oro nero dei mercanti d’armi. Intrecci
mai stupefacenti quanto quelli
della cronaca reale — i cartelli
colombiani, il Banco Ambrosiano di Calvi, lo Ior del cardinale
Marcinkus, la Parmalat di Calisto Tanzi, tutti narrativamente
inarrivabili — e quasi sempre virati nella forma della vacanza
extralusso di contorno, della love story con Dom Pérignon millesimato, come fissò una volta e
per sempre Ian Fleming che vestì di lino il suo James Bond,
agente al servizio di Sua Maestà,
con suite al British Colonial Hilton di Nassau, Bahamas, e l’incarico, dopo la cena e una partita al Casinò Royal, di salvare il
P
mondo.
Fleming scriveva a qualche
miglio marino da lì, a Goldeneye, Giamaica, dal 1953 al 1967,
nel pieno della Guerra fredda, in
una casa sulla baia, solitaria
quanto il suo umore, lasciato per
sempre dalla moglie, con la sola
compagnia di una domestica
che non sapeva cucinare e neppure preparare il Martini, o accogliere i rari ospiti provenienti
dalla vecchia Inghilterra. Lui,
dentro la pioggia delle estati tropicali, a estrarne quel sole che
avrebbe illuminato le avventure
MARI E MONTI
Nelle foto
della pagina
di sinistra,
due tra i più
noti paradisi
fiscali: le Isole
Cayman
(in alto) e il
Liechtenstein
del suo agente, spedito in quell’area del mondo dal Mi6 a contrastare gli ingranaggi della
Spectre, primissima versione di
quelle società transnazionali del
crimine (e del danaro) che
avrebbero trionfato a fine secolo. Tutte transitando — nei film
futuri, nei romanzi futuri e nella
neo realtà di narratori come
Bruce Sterling con i suoi mondi
cyberpunk — lungo le spume
delle medesime barriere coralline, dove corre il denaro invisibile di un potere altrettanto segreto.
Che poi il fascino di quei luoghi ha radici lontane. Risale ai
secoli d’altra letteratura. Approda alle stagioni leggendarie di
Henry Morgan, il pirata, e dei
suoi bucanieri, quando tutti i
sassi sparpagliati lungo il Mar
dei Caraibi offrivano nascondigli e buone prede, in coda alle
rotte dei galeoni spagnoli, reduci da ben altre spoliazioni. Piraterie capaci di insanguinare per
secoli quei mari. Ma anche fondare fortune e dinastie. Accendere la fantasia degli scrittori.
Tramandare la propria storia. E
le tecniche dell’arrembaggio all’oro. Più sbrigative di quelle
odierne, ma altrettanto redditizie visto che proprio Morgan —
dopo il sangue degli assalti — indossò i galloni di governatore
reale di Giamaica. E che Labuan
la perla di latitudine malese,
tanto cara al cuore di Sandokan
e alle pagine avventurose di
Emilio Salgari, è diventata anche lei isola offshore, carica di finanziarie specializzate in conti
bancari criptati e multiple identità antifisco.
Escludendo L’Isola del tesoro
di Robert Louis Stevenson, che
forse era Tortola, oggi quindicimila abitanti e 350mila società, il
paradiso fiscale letterariamente
più celebre è Cayman, che è poi
un’isola tripla, Gran Cayman,
Little e Brac. Da quando ci
sbarcò John Grisham con il suo
Il socio, il più potente e ben congegnato tra i thriller che scalano
l’aria sottile di quegli intrighi, e
che Sidney Pollack ha trasformato in un celebre film a orologeria, protagonisti Tom Cruise e
Gene Hackman. Il primo nei
panni dell’avvocato Mitch, giovane assunto dal grande studio
legale di Memphis dalla facciata
high society immacolata. La
quale lentamente si sgretola. E
sgretolandosi inghiotte, insieme con le apparenze, anche il
giovane avvocato, come fanno
le sabbie mobili. Ma lasciandogli il tempo di intravedere la vera
destinazione del suo lavoro: una
doppia stanza dello Hyatt Regency Hotel, nella capitale
George Town, a tre ore di volo
dagli agenti federali americani,
dove è custodito l’archivio segreto della famiglia mafiosa di
Chicago che lo studio accudisce
e protegge con tutti i depistaggi
necessari, una barriera legale
dopo l’altra. E il mare blu dei Carabi a sigillare il segreto.
Che poi sono le stesse procedure che occultano tutte le guerre non ortodosse di oggi e di domani. Nuova Era del dopo 11 settembre: Islam, Africa e dissoluzione dell’impero sovietico. Costruite intorno a trincee solo virtuali tra solidi eserciti di solidi
stati e guerriglie sempre più rarefatte, disperse, ubique. Sempre protette da schermi digitali,
come nell’ultimo romanzo di
John Le Carré, Yssa il buono, dove sono le banche l’avamposto
da conquistare, la Hamburger
Hill da mettere finalmente in sicurezza. Con i loro conti segreti
che transitano da Bahamas al
Liechtenstein e che un istante
dopo scompaiono, per ricomparire a Cipro, poi a Istanbul, poi
a Parigi, e cosi via. Nel giro perpetuo degli infiniti mondi immateriali. E solo all’ultimo momento utile, abilitati a diventare
soldi veri. Poi armi. Oppure
esplosivo. E infine sangue.
È una guerra che abita (e si
combatte) sempre di più nel retroscena del mondo. Con punti
luce solo temporanei, compresi
quelli dei paradisi fiscali, anche
loro in costante evoluzione. Ma
dotati di un fascino sinistro che
ancora non si spegne. Grazie ai
finali che almeno nella fiction
quasi sempre riconducono all’ordine (presunto) e a un respiro di sollievo. Con l’elicottero in
volo radente. La raffica, la morte
dei cattivi. Il buono che bacia la
bionda. E il daiquiri che a bordo
piscina lentamente si scalda.
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’immagine
Scatti emozionanti
DOMENICA 29 MARZO 2009
È certamente dovuta a un illusionismo della numerologia
l’idea che gli anni segnati dal numero Nove siano affollati di eventi
cruciali. Ma, in questo 2009 di crisi, basta aprire i due libri
di Contrasto dedicati al 1969 e al 1989 per farsi suggestionare
1989 1969
e per vivere una specie di cortocircuito tra memoria e attualità
30 GENNAIO Ultimo concerto dei Beatles sul tetto della Apple a Londra
14 MARZO Libano, inizia la guerra contro le truppe siriane
10 MAGGIO Vietnam, battaglia di Hamburger Hill
4 GIUGNO Carri armati contro manifestanti in piazza Tienanmen a Pechino
La Storia alla prova del Nove
VITTORIO ZUCCONI
eve essere il primo vagito che si
sprigiona da noi dopo nove mesi, il
segnale che in quel numero magico, nel “9”, sta racchiuso il mistero
della fine e dell’inizio, il segreto del
bisogno umano irrefrenabile di
scalciare e di uscire a un nuovo giorno al rintocco
di quella cifra.
Sono soltanto coincidenze, risponderanno gli
scettici e i positivisti, se allo scoccare degli anni che
terminano con il numero singolo più alto nella nostra scala decimale, il 9, tanto spesso il mondo conosce il travaglio, il trauma e la nascita di un tempo diverso, dal quale ricominceremo a contare la
storia e a riazzerare i calendari. Ma nella fissità implacabile delle immagini che scolpiscono gli eventi nella memoria, più di ogni filmato e video perché
tutti tendiamo a ricordare per istantanee e non per
sequenze, l’album della famiglia umana che oggi
D
Lo shock dell’orma del piede
umano sulla polvere
scetticismo di chi non riesce a crederci. Esplose
una bomba nella innocente sede di una banca, in
piazza Fontana a Milano, colpendo più di cento
persone, uccidendone diciassette, e risucchiando
nel vortice di quell’esplosione l’età dell’innocenza italiana, che da allora diventerà per sempre l’età
del sospetto e del rancore nella quale ancora annaspiamo.
Si frantumò in una villa di Bel Air, sopra Hollywood, il mito di “Tinseltown”, la immaginaria
città felice di stagnola, quando la stupenda Sharon
Tate, incinta, fu massacrata da Charlie “Satana”
Manson e dalle sue serpi velenose sfuggite al mite
sogno di controcultura e di amore universale degli
hippy, e questo proprio nello stesso anno in cui lo
stesso sogno aveva celebrato, nei quattro giorni di
Woodstock, il te deum e insieme il funerale di un
culto carnale e fangoso come la terra inzuppata
dalla pioggia d’agosto nella quale si rotolavano innocui rivoluzionari con le canne. Massacri di purificazione e tiepidi abbracci a ritmo di rock, mentre un nuovo presidente americano insediato in
quei mesi, Richard “Dick lo Sporco” Nixon si preparava a demolire l’“età dell’innocenza americana” e della fede dei cittadini nella integrità nobile
dei propri governanti.
A Praga, sulla piazza di San Venceslao, si immolava in un rogo suicida, Jan Palach, per segnalare al
mondo, alle sinistre leniniste, ai pavidi che ogni illusione era morta e neppure i panzer dell’Armata
Rossa sarebbero più riusciti a schiacciare lo spirito
dei sudditi e a mantenere in piedi un impero marcio. Sarebbe dovuto passare ancora un ventennio,
perché le conseguenze finali di quel gesto, identico all’autosacrificio di altri uomini inorriditi dalla
eterna prepotenza della potenze, i monaci buddisti a Saigon, arrivassero a frutto, ma il ’69 di Praga fu
La bomba di piazza Fontana
vergine del suolo lunare
e l’impeachment di Nixon,
così finì l’età dell’innocenza
sfogliamo ha scandito proprio gli anni del 9, il 1969,
il 1989, come i momenti cardine del passato prossimo e dunque del presente.
Guardare le fotografie emozionanti raccolte appunto dagli obbiettivi della grandi agenzie come
“Contrasto” nel 1969 e 1989 è come subire un elettroshock della coscienza e rabbrividire al pensiero
che anche questo, nel quale viviamo oggi, è un «anno del nove». Come il 1939, per la generazione dei
nostri vecchi, l’anno della solita guerra combattuta per mettere fine a tutte le guerra, così il 1969 fu,
dal Vietnam alle piazze di Milano con nomi divenuti sciaguratamente immortali, un tempo cardine per gli adulti di oggi.
Mai prima di quei giorni un essere umano aveva posto piede su un suolo che non fosse quella
della Terra e nel luglio del ’69 Neil Armstrong e
Buzz Aldrin calpestarono la polvere vergine della
Luna, un evento talmente incomprensibile da
avere creato per sempre leggende impastate dello
il seme di quanto sarebbe sbocciato più tardi.
Nel 1989.
Possiamo forse immaginare che di nuovo la magia nera del “nove”, l’urgenza di tagliare il cordone
ombelicale con il passato, fu ciò che spinse il governo ungherese ad abbattere per primo le barriere di filo spinato che chiudevano le frontiere con
l’Austria, dunque con l’Occidente, proprio nel
1989? Fu il richiamo di quel numero che nella sua
prima formulazione indiana aveva la forma di un
punto interrogativo con l’occhiello aperto e non
chiuso come lo scriviamo oggi, a portare George
Bush il Vecchio Saggio e Mikhail Gorbachev il Coraggioso travolto dal proprio coraggio, a dichiarare nelle acque di Malta, sballottati da una burrasca,
che quel giorno la Guerra Fredda era ufficialmente finita e che l’Urss l’aveva perduta? Certamente
no, la numerologia, il “potere magico del nove”,
nove come i nove giorni della passione ebraica che
precedono gli eventi più tragici nella storia dei figli
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 MARZO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
I LIBRI
Per celebrare la folla di anniversari importanti che cadono
nel 2009, Contrasto pubblica due volumi gemelli:1969 e 1989
– Un anno di fotografie (ciascuno di 200 pagine, con 150 foto
a colori e in bianco e nero, al prezzo di 14,90 euro, in libreria
dal 2 aprile). Libri che, attraverso immagini celeberrime
o dimenticate, narrano i fatti – da Woodstock a Tienanmen,
dalla conquista della Luna alla caduta del Muro – o allineano
i personaggi che hanno fatto la nostra Storia
20 LUGLIO Edwin Aldrin, con Armstrong primo uomo sulla Luna
15-18 AGOSTO Jimi Hendrix al Festival di Woodstock
12 DICEMBRE Bomba a piazza Fontana a Milano
4 GIUGNO Solidarnosc vince le elezioni in Polonia
23 AGOSTO Catena umana tra Estonia, Lettonia e Lituania
9 NOVEMBRE Crolla il Muro di Berlino
di David, la distruzione del tempio di Salomone,
non possono avere spinto l’Urss di Brezhnev alla
decisione che avrebbe consumato i resti dell’Unione Sovietica: l’invasione dell’Afghanistan. Fu
presa nell’anno 1979, a proposito. E che avrebbe
portato all’ignominioso ritiro delle truppe sconfitte dieci anni più tardi. Nel 1989.
Ogni scolaretto marginalmente attento e con
buoni insegnanti sa che la storia non matura per
calendari o proclami, ma per lenti e oscuri processi ricordati per episodi e date misteriosamente
coagulate. Eppure, qualcosa, sempre in quel 1989
così gonfio di segni e di immagini, si mosse in una
piazza lontanissima e ancora per molti «proibita»,
nella Tienanmen che sarà per sempre bruciata
nella memoria con foto dell’omino in camicia
bianca solo davanti alla colonna ferma dei carri armati e che scatenerà nella Cina cosiddetta comunista la rincorsa alla prosperità materiale nella
quale affogare il grido silenzioso di libertà lanciato da quella sagomina.
L’omino in camicia bianca
propria amatissima Polonia, a chiedere che il suo
concerto fosse boicottato dai devoti fedeli. Guai a
chi ascoltò le empie liriche del successone di quell’anno stampato e venduto in sette milioni di copie, Like a Prayer, come una preghiera, dove la signora Ciccone implorava un dio molto dionisiaco
di «portarla in sogno, come una preghiera» in un
luogo di estasi non mistiche. Ma anche quella
aspra reazione della maggiore confessione cristiana del mondo, quella cattolica, a una banale canzonetta pop lanciata con un “commercial” della
Pepsi Cola raccontava una storia sbalorditiva, rivista vent’anni dopo, quella di una gerarchia vaticana passata dall’incubo del «materialismo negatore» bolscevico all’angoscia per il «materialismo
edonistico» che turba l’attuale gestione.
Trascuriamo pure il fatto, di nuovo sicuramente del tutto casuale, che il Terzo Millennio sia stato marcato indelebilmente da quel che accadde
nel nono mese dell’anno, l’11 di settembre, e saltiamo al presente, al tempo che i “dottori dell’Apocalisse”, gli economisti, analisti e finanzieri,
magari gli stessi che fino al 2008 cantavano la ballata del mercato felix, descrivono come la prima e
nuova «Grande Depressione» del Ventunesimo
secolo, capace di far impallidire il ricordo della
«Great Depression» originale, ufficialmente inaugurata in un altro anno che finiva con il “9”, il 1929.
La tentazione di dire che anche questo nostro anno stia assistendo a una fine, quella del capitalismo come era stato interpretato dopo il 1989, nel
mito del sistema unico globale e infallibile, è forte,
perché soltanto le nazioni con i rammendi e le toppe sul fondo dei calzoni non stanno rovesciando
tutto il loro potere statale e statalista per spegnere
gli incendi.
Non è ancora stato completata la raccolta delle
a bloccare i carri armati
Dal filo spinato tranciato
sul confine austro-ungherese
E la Cina non fu più la stessa
ai ragazzi a cavallo del Muro
Il patetico generale Jaruzelski decise in quell’anno di arrendersi e nominare un primo ministro
prodotto da Solidarnosc, dal movimento politico,
religioso e sindacale che avrebbe dato il colpo di
grazia a lui e al Socialismo Reale in stato vegetativo irreversibile. E milioni di persone, in Europa, furono scosse dall’emozione, e dalla certezza che il
futuro sarebbe stato molto diverso, e non necessariamente radioso, davanti alle foto dei giovani
delle due Berlino divenute una sola, a cavalcioni
del Muro ad abbracciare i militi della Vopo, la Volks
Polizei comunista, che ancora pochi giorni prima
li avrebbero abbattuti senza esitazione, come cacciatori di fagiani in riserva.
Certamente una giovane donna furba, dotata di
qualche talento e di immensa capacità di marketing, non scelse apposta il 1989 per mettere il proprio nome blasfemo, Madonna, sulla strada di
Santa Madre Chiesa, spingendo un Papa, che in
quelle ore celebrava anche la liberazione della
fotografie che racconteranno, ai lettori del 2029
(tanti auguri) che cosa sia questo 2009, se esso riprenderà il ritmo dei tramonti e delle aurore che il
’69 e l’89 imposero, con la fine del lungo dopoguerra il primo e la fine del socialismo il secondo.
Già è difficile scrivere la storia del passato, tra chi
la nega, chi la vorrebbe dimenticare, chi la venera,
figuriamoci scrivere la storia del futuro. Qualcosa
è finito ed è stato buttato nella spazzatura, insieme
con le Lehman Brothers, i fantastici magliari di
Borsa alla Bernie Madoff, la leggenda del capitalismo autoregolatore, sempre destinato a divenire,
come i cani abbandonati e randagi, selvatico e incontrollabile. Ma se non ci sono ancora il piedone
di Armstrong o il piedino del cinese, se non conosciamo ancora la storia, già conosciamo l’immagine che trasmetteremo a chi avrà vent’anni nel
2029. Le scatole di cartone nella quali è finita un’altra epoca, incapace di superare la implacabile prova del Nove.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 MARZO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
il racconto
Scoperte
Settantasettemila anni fa iniziò la migrazione più lenta
della storia. Fu allora che l’uomo si mise in marcia
dal continente nero per arrivare in India e poi,
cinquemila anni dopo, in Oceania. Gli scienziati
hanno ricostruito quell’esodo in un libro che sembra
un thriller. Dove gli indizi sono orme e ossa millenarie
PAOLO RUMIZ
uccede che un giorno in Australia, ai piedi di una bassa
cordigliera, nella sabbia di
quarzo di un lago asciutto da
diciottomila anni gli archeologi trovano resti molto speciali. È il corpo di una donna di vent’anni, cremato, accuratamente sminuzzato, ricoperto di polvere d’ocra e poi sepolto. Gli studiosi non credono ai loro
occhi: le ossa hanno sessantaduemila
anni, ventimila in più degli uomini delle
grotte dipinte di Lascaux in Francia. La
più antica cremazione della storia.
Ma l’esame del dna offre altre sorprese. La giovane antenata appartiene alla
stessa razza — “homo sapiens” — degli
anglosassoni colonizzatori. Niente a
che fare con gli scimmieschi australopitechi o con il “neanderthal man” dalla fronte rocciosa. Come gli abitanti di
Lascaux, la progenitrice è discendente
dei cacciatori che popolarono l’Africa
sud-orientale, la “culla della civiltà” dove l’uomo cominciò a dipingere, socializzare, seppellire i morti. E non solo: la
sua gente sbarcò in Australia almeno
diecimila anni prima che l’uomo nuovo arrivasse in Europa.
Ma se fu l’Africa la Grande Madre, come arrivarono fino in Oceania quegli
antenati simili a noi? Come superarono
il mare, visto che l’Australia è sempre
stata un’isola, anche quando il gran
freddo teneva basso il livello degli oceani? Già quarant’anni fa il genetista Luca
Cavalli Sforza verificò che il mondo
venne colonizzato da discendenti di
una singola tribù africana di “homo sapiens”, al massimo settecento individui di pelle nera, partiti verso il Mar Rosso settantasettemila anni fa.
Ma il primo grande viaggio dell’umanità non era mai stato rifatto. Ora degli
scienziati hanno colmato la lacuna, armati di strumenti di datazione, “carbonio 14”, isotopi, mappe genetiche, rivelatori di “termoluminescenza”, e delle
ultime conoscenze di paleo-antropologia. Per anni hanno seguito le tracce
di quelli che andarono verso il sole nascente lungo le coste dell’Oceano Indiano, attraversando il Mar Rosso come
gli ebrei, e poi gli stretti di Bab el Mandeb fino al subcontinente indiano e all’arcipelago dell’Indonesia.
S
Uragani ed eruzioni
Ne è uscito un libro appassionante —
The Bone Readers, i lettori di ossa, appena uscito a Sydney e nel Regno Unito —
che ripercorre in termini divulgativi
quell’emigrazione primordiale durata
cinquemila anni e ne segue le tappe in
una Terra battuta da uragani, freddi polari e spaventose eruzioni. Uno degli
autori è italiano, Claudio Tuniz, del
Centro di fisica di Trieste, specialista in
datazioni con gli acceleratori di particelle. Con lui, Richard Gillespie, archeologo di Sydney, e Cheryl Jones,
giornalista scientifica di antenati aborigeni.
Più che un romanzo è un thriller. Un
viaggio dove le vie — per dirla come
Chatwin — si svelano non attraverso i
“canti” ma attraverso micro-segnali
captati dallo stetoscopio di apprendisti
stregoni. Un’esplorazione nel tempo,
che parte dal capolinea-Australia, terra
dove basta grattare per toccare l’età della pietra. Orme umane, come quelle
trovate pochi anni fa sul lago Wilandra,
a ovest di Sydney. Vecchie di ventimila
anni e perfettamente conservate.
All’origine c’è l’Africa, predisse Charles Darwin prendendo atto dell’enorme quantità di scimmie sul “Rift”, la
frattura nord-sud che taglia l’Africa
Orientale. Oggi tutto conferma quell’intuizione; ed è dall’Africa, nella Pom-
IL LIBRO
The Bone Readers
di Claudio Tuniz, Richard
Gillespie e Cheryl Jones
(Allen & Unwin, 288 pagine,
35 $ australiani). Adesso
in uscita in Australia
e Regno Unito, sarà tradotto
in italiano a settembre
da Springer Italia
LO SCIENZIATO
Claudio Tuniz, del Centro
Internazionale di Fisica
di Trieste, specialista
in datazioni
con gli acceleratori
di particelle,
è tra gli autori
del libro The Bone Readers
pei dell’età della pietra, la grotta di
Sterkfontein, che parte la ricerca dei
primi viaggiatori. C’è tutto in quel precipizio dove i corpi cadono restando intrappolati in un antico fondale marino.
I primi ominidi di tre milioni e mezzo di
anni, preservati quasi intatti.
Lì si legge come in un film la storia
della scimmia nuda che si alza in piedi,
afferra una pietra, la sgrezza, poi — centomila anni fa — comincia a esprimere
linguaggi complessi come i riti di sepoltura e infine, settantasettemila anni fa,
spinta da un’irrefrenabile inquietudine
migratoria, decide di partire. La pattuglia avanzata di un popolo mangiatore
di pesce, capace di navigare e organizzato in tribù.
Allora la Penisola Arabica è terra fertile e il Sahara popolato di elefanti. Il
Golfo Persico è in gran parte libero dal
mare a causa delle glaciazioni, e poiché
le montagne sono coperte di ghiacci,
non resta che la costa. È così che l’homo
sapiens raggiunge l’India e l’Andra Pradesh, dove lascia strumenti in pietra
molto simili a quelli sudafricani.
Bivio epocale
In quegli anni una gigantesca eruzione
cambia il clima della Terra e porta i nostri antenati viaggianti a un passo dall’estinzione. «Di questa tappa ci sono rimasti solo i manufatti», spiega Tuniz.
«Non abbiamo ancora resti umani, ma
la strada dell’homo sapiens in India è
chiara». L’orologio del tempo segna
settantamila anni fa. E la strada si avvicina a un bivio epocale, nel Bangladesh.
Qui il popolo in movimento si divide.
Una parte sale verso i fiumi della Cina,
per raggiungere lo stretto di Bering,
trampolino verso le Americhe. Un’altra
parte scende verso la Malacca e, di isola in isola, attraversa l’ultimo stretto di
mare per l’Australia.
Anche qui mancano resti umani, ma
c’è un segnale del passaggio che sur-
Ecco il viaggio alfa
l’homo sapiens
dall’Africa all’Australia
IL DIPROTODONTE
Il grande mammifero
marsupiale, paragonabile
come forma al rinoceronte,
raggiungeva i quattro metri
di lunghezza. Viveva
in Australia durante
il Pleistocene
La sua estinzione
è avvenuta a causa
dell’impatto ambientale
degli aborigeni,
arrivati in Oceania
cinquantamila anni fa
classa tutti gli altri: lo sterminio dei
grandi animali. Non si sa cosa sia stato:
una caccia indiscriminata, l’incendio
delle foresta vergine, oppure una mutazione climatica contemporanea. Fatto
sta che scompaiono all’improvviso, in
simultanea. Giganteschi struzzi, marsupiali grossi come orsi grizzly, ippopotami dalla faccia di cammello. Non ne
rimane traccia, dopo l’arrivo del grande
cacciatore.
Lo stesso accade con le altre razze
umane. Homo sapiens elimina i possibili concorrenti. Via neanderthal; via
l’homo erectus arroccato da due milioni di anni in Cina; via i piccoli “hobbit”
rifugiatisi nell’isola di Flores, Indonesia, dov’erano convissuti con microscopici elefanti (oggi estinti) e aggressivi lucertoloni di quattro metri, ancora
oggi padroni della giungla.
Ovviamente gli aborigeni esultano.
Orgogliosi di sapersi più antichi degli europei, all’apertura delle olimpiadi di
Sydney hanno vantato i loro «sessantamila anni di cultura» per avanzare diritti
sul territorio australiano, in antagonismo con i conquistatori bianchi. La rivoluzione biologica generata da Darwin, si
legge nel libro, aveva incoraggiato la rapina ai danni dei primitivi, degradati al
ruolo di sotto-uomini e costretti a subire
insulti come l’esposizione dei loro scheletri nei musei occidentali.
Oggi l’Australia sta facendosi restituire da mezzo mondo le ceneri dei
progenitori ma succede che, quando i
legittimi eredi ne vengono in possesso,
questi provvedono a una nuova cremazione purificatrice secondo i riti degli antenati, il che genera inevitabili
tensioni col mondo della ricerca. Stranezze del secolo Ventunesimo: guerre
scientifiche e scontri politici attorno a
ossa del paleolitico. Forse gli apprendisti stregoni hanno messo in moto
una macchina che nessuno riesce a
fermare.
“LEGGERE” LE OSSA
“Lettura” delle ossa
ed esami del dna
sono i principali
strumenti
di cui si sono
avvalsi gli scienziati
Claudio Tuniz,
Richard Gillespie
e Cheryl Jones
per ricostruire
la provenienza
degli aborigeni
d’Australia
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
CULTURA*
DOMENICA 29 MARZO 2009
Dieci anni fa moriva il grande editore
che divideva gli autori in due categorie:
“astri sorgenti” e “vecchi tromboni”
Lo ricordiamo con un suo scritto inedito e profetico sul difficile
mestiere di vendere cultura senza tramutare il mondo in un mercato
La lettera del padre
«Mio carissimo figlio». Così incomincia la lettera
(inedita e che è riprodotta qui sotto e accanto) che
il 2 novembre 1945 Luigi Einaudi manda al figlio Giulio
pregandolo di passare a trovare i genitori. Dopo avergli
parlato di questioni quotidiane, ecco uno dei passaggi più
toccanti: «Quello che voglio dirti è che noi due siamo
disperati. Abbiamo settantuno e sessant’anni e oramai
il solo legame, solo ma grande, che ci tiene uniti alla vita,
sono i figli e i nipotini. Senza di loro val la pena di vivere?».
E più avanti: «A pranzo non abbiamo parlato e le lacrime
non ci lasciavano vedere il cibo. Perché, almeno una volta
durante la permanenza a Roma, non farti vedere?»
(Conservata alla Fondazione Giulio Einaudi di Torino)
NELLO AJELLO
l ritratto più efficace di Giulio Einaudi lo scattò Natalia Ginzburg in
una lettera che gli inviò al culmine
della sua carriera di editore. «Quello che succede a te è questo», gli
scrisse. «Una volta che hai stampato un libro, la figura dell’autore passa nel
regno delle ombre. Stampato il libro, ti
metti in testa che il libro sia tuo». Ne hai
costruiti più di Balzac, sottintendeva l’amica scrittrice, assai più di Dumas padre.
Puoi guardare dall’alto Gogol e Molière.
È verosimile che l’editore entrasse nello scherzo con un cenno d’assenso. Lui
era da sempre oggetto di una mitologia ridondante ma in fondo complice. A sorreggere simili storielle non mancavano
d’altronde i numeri: un catalogo Einaudi
uscito nel 1991 parlava, già allora, di seimila volumi stampati. A maggior ragione,
perciò, cercare nell’aneddotica che riguarda il «divo Giulio» le definizioni più o
meno ammirative sarebbe come consultare d’un sol fiato un’enciclopedia. Ne firmavano le voci coloro che gli erano più vicini. «Gelido quasi fosse stato costruito di
ghiaccio», lo descriveva il vecchio collaboratore Norberto Bobbio. Il critico Cesare Segre lo trovava «bizzoso e capriccioso». Giudicandolo «elegante», con «gli occhi azzurri un po’ freddi», Rossana Rossanda notava che egli «non parlava molto,
ascoltava e dirigeva».
Spesso Giulio — detto “il Cavaliere Esistente” per distinguerne l’imperiosa e silente corposità dal modello effigiato da
Italo Calvino — usava sottrarsi con la massima cura a chi gli chiedeva un incontro. Il
numero della casa editrice, a Torino, fu
per molti anni facile da mandare a memoria: 553761. E Carlo Levi gli costruì intorno
un epigramma. Diceva così: «Cinque cinque tre sette sei uno — Giulio Einaudi è figliolo di re — Giulio Einaudi non c’è per
nessuno — Giulio Einaudi, mi spiace, non
c’è».
Cesare Cases, prezioso consulente, sosteneva che Giulio divideva l’umanità in
due categorie: «Astri sorgenti» e «vecchi
tromboni». Corollario implicito: i primi si
scorgono da lontano, i secondi vanno lasciati ai propri clamori.
Perfezionista e aggressivo, Giulio veniva paragonato dal suo omonimo e dipendente Giulio Bollati a Luigi XIV per la fiducia che riponeva nei propri collaboratori.
Perseguitato da una nomèa di scialacquatore, egli secondava con esultanza quest’inclinazione quando c’era da correggere qualcosa che non gli andava a genio. Era
capace di mandare al macero montagne
di copertine già stampate. Il suo amico
Vittorio Foa — che aveva fra l’altro condiviso con lui il vagone cellulare nel tragitto
Torino-Regina Coeli quando i fascisti li ar-
I
LO STRUZZO
Giulio Einaudi
sotto il simbolo
dello “Struzzo”;
nell’altra foto, l’editore
con Elio Vittorini
e Italo Calvino
Il disegno
è di Tullio Pericoli
LA GIORNATA
L’editrice Einaudi, la Regione Piemonte e la Città di Torino organizzano il 4 aprile
Giulio Einaudi dieci anni dopo. Alle 10 all’Auditorium Rai di piazza Fratelli Rossaro:
Antologia di Spoon River con Roberto Vecchioni, Gabriele Vacis e Francesca
Porrini. Alle 16 al Maneggio della Cavallerizza di via Verdi 9: La mia pagina Einaudi,
il catalogo Einaudi sfogliato con Bruno Gambarotta. Alle 21 all’Auditorium Rai:
Domani con Enzo Bianchi, Eugenio Scalfari, e Abraham Yehoshua
restarono come sovversivi nel 1935 in una
retata di “einaudiani” e simili — sosteneva che lui, l’editore, «i libri non li leggeva,
li annusava».
Sto percorrendo la leggenda d’un uomo
e di un’impresa negli anni d’oro. Va tuttavia colto un momento nel quale l’inno intonato a gloria di Einaudi e della Einaudi
ha rischiato di mutarsi in elegia. Fu quando, messa in mora l’esperienza comunista, vennero addebitate alla casa editrice
sostanziali responsabilità nel far prevalere in Italia l’egemonia culturale della sinistra. Simili addebiti avrebbero accompagnato l’ultimo decennio di vita dell’edito-
re, già amareggiato dalle ricorrenti crisi
aziendali che preludevano all’assimilazione della Einaudi nell’impero berlusconiano.
Non sono certo mancati, allora e in seguito, i difensori appassionati del «divo
Giulio». Bobbio fra i primi invitò i detrattori a scorrere il catalogo Einaudi: ci si accorgerebbe, allora, che «sono più numerose le opere di Wittgenstein che quelle di
Marx». Ci fu chi parlò di «sciacallaggio».
Chi di «bestemmia». A Luisa Mangoni, che
ha dedicato dieci anni fa un volume alla
Einaudi, Pensare i libri, bastò enumerare i
filoni culturali, presenti nella casa editri-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 MARZO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
GIULIO EINAUDI
on vi ripeterò le argomentazioni di certi filosofi,
come Horkheimer o come Adorno, sulla «cultura di massa» e sui terribili effetti alienanti che essa è in grado di produrre attraverso i poderosi strumenti di cui dispone: cinema, televisione, una certa editoria.
Per capire la genesi del fenomeno e per rendermi conto
in quale misura e in quale senso possa definirsi come tipicamente americano, preferisco rifarmi a un innocente libretto uscito a New York nel 1893. Si intitola The Novel: What It Is e ne è autore Francis Marion Crawford,
uno scrittore americano vissuto per oltre vent’anni in
Italia sulla fine del secolo scorso.
Con una franchezza ammirevole, Crawford definisce
il romanzo «una mercanzia da vendere, appartenente
alla classe degli oggetti di lusso». Compito principale di
un romanzo è di divertire e interessare il lettore e il romanziere è, per così dire, obbligato da una specie di tacito contratto col compratore a procurargli il divertimento che questi si aspetta dalla lettura del libro. Quindi niente sotterfugi, niente tentativi di contrabbandare
lezioni o prediche, cioè cultura o pensiero, ma limitarsi
a fornire al cliente nient’altro che un «piccolo teatro tascabile». [...] A questi consigli Crawford ne aggiunge uno
di fondamentale importanza: non dipingere la vita
N
Sfuggendo alle trappole
del romanzo di massa
ce, che non andavano in direzione della
falce e martello: dalla famosa “collana viola” a cura di De Martino e Pavese, alle opere di Jung, di James G. Frazer (Il ramo d’oro) o di quel Mircea Eliade che a sinistra è
visto come un controrivoluzionario.
Lui, il creatore dello Struzzo, rispondeva più annoiato che sdegnato. Citava fra i
«suoi» autori Hemingway e Sartre, Salvemini, Franco Venturi e De Felice. Quando
gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: «Io
non gli chiedo la tessera, però se lavorano
alla Einaudi sono quanto meno dei democratici». Uno di questi collaboratori “sto-
rici”, Guido Davico Bonino, ha raccontato i primi approdi in casa editrice di Renzo De Felice, intorno al ’61. Già timido di
suo, lo storico vedeva peggiorare durante
queste visite la propria latente balbuzie.
Padron Giulio, pur cosciente che il Mussolini defeliciano si vendeva come il pane,
lo salutava di malavoglia. Lo molestava il
fatto che in quella interminabile biografia
Mussolini non venisse descritto come il
male assoluto. «Era una cosa di pelle, non
ideologica», commenta il divulgatore dell’aneddoto.
Come dire che, ai propri capricci, un
Capo così non si cura di reagire.
Quando gli si addebitava
di circondarsi, in azienda,
di gente di sinistra,
rispondeva:
“Io non gli chiedo la tessera,
però se lavorano qui
sono quanto meno
dei democratici”
com’è, con tutte le sue angosce e brutture, ma dipingerla «come dovrebbe essere». Il moralismo e il lieto fine sono gli accessori indispensabili di una letteratura
così concepita.
Vi confesso che la prima cosa che mi ha colpito leggendo questa ingenua e onesta teoria del romanzo è stata una sua vaga somiglianza con le teorie in voga ai tempi di Zdanov, quando gli scrittori del «realismo socialista» dovevano attenersi al precetto di far trionfare comunque il bene sul male, di mettere in luce soltanto gli
elementi positivi della vita, di anteporre alla realtà
com’è la realtà come dovrebbe essere. Le grandi società
moderne — riflettevo — sembra non possano reggersi
se non sulla superficialità e sul conformismo delle masse; la letteratura è obbligata, o da un censore, o dalle leggi del mercato, ad alimentare questo conformismo.
Ma torniamo al nostro amico Crawford. Come non
accorgersi che egli ha dato una perfetta definizione della cosiddetta letteratura di consumo? [...] Vorrei fare
un’osservazione su quanto vi ho appena riferito: è soltanto un caso che Crawford sia americano. La sua definizione del romanzo è quella della «letteratura amena»
comune nell’Ottocento a tutti i paesi. Le sue idee in proposito non differiscono dalle idee di infiniti altri scrittori italiani o francesi o inglesi della stessa epoca. Ma
quand’è che il fenomeno diventa tipicamente americano e si trasforma in un fenomeno di «cultura di massa»,
degno di essere considerato con la più viva preoccupazione da filosofi, sociologi e pedagoghi? Quando la «letteratura amena» diventa una grande industria e le sue
leggi — che erano ingenui e bizzarri precetti in Crawford
— fanno tutt’uno con le leggi della produzione e del consumo su vastissima scala, le leggi cioè su cui si basa tutta la vita sociale di un paese. Tutto ciò è tipicamente
americano perché questo passaggio si è verificato in
America prima che altrove e vi si è verificato allo stato
puro, senza temperamenti, secondo il ritmo e la forza di
una colossale economia qual è quella americana. [...]
L’America oggi rischia forse di essere questo: un paese in cui certi fatti culturali, in se stessi positivi, come i
mezzi di comunicazione di massa, sono sottoposti a
una tale incontrollata spinta di sviluppo che ne risultano modificati la loro natura e il loro scopo originari.
Creati per diffondere il pensiero, l’informazione, la cultura, i mezzi di comunicazione di massa possono trasformarsi in certi casi in strumenti diabolici che annullano il pensiero, distorcono l’informazione, contrastano la cultura. [...]
Questa editoria «quantitativa» confina con la pura e
semplice industria tipografica, col puro e semplice
commercio di carta comunque stampata. I danni che
essa produce sono di due tipi: innanzitutto essa diseduca i lettori, li disorienta, ne fa dei consumatori di carta e
non di cultura. In secondo luogo, per il meccanismo
stesso del mercato e per la forte pressione economica
che essa esercita, questa editoria finisce fatalmente per
influenzare anche l’editoria «qualitativa», l’editoria
cioè che si ispira a criteri di valore culturale. Questa influenza negativa può esercitarsi sia nel senso che l’editoria culturale, l’editoria seria, si separa dal resto e si barrica in un sempre più accentuato isolamento specialistico; sia nel senso che anche l’editoria culturale adotta
metodi e forme della cultura di massa, e si lancia nel vortice del mercato sottoponendo i suoi scrittori, i suoi cavalli di razza, alle pericolose acrobazie e ai tour de force
distruttori imposti dalla pubblicità e dalla legge infernale del successo.
Tutto questo rappresenta un pericolo, un pericolo veramente grave. [...] L’editore deve avere chiara coscienza di tutto ciò, e pensare al proprio lavoro come a un vero e proprio servizio pubblico. In altre parole, l’editore
non deve concepire l’insieme dei lettori semplicemente come un mercato, ma sempre come una società civile. Questo lo obbliga a non essere mai indifferente al contenuto dei libri che offre e a ricordare sempre che un libro prima di essere una merce è e deve restare un libro,
e rivolgersi non a un cliente, ma a un uomo.
(Intervento alla Nuova galleria d’arte moderna
per l’Associazione culturale italiana, New York,
9 aprile 1964. Dall’archivio Giulio Einaudi Editore per
concessione della Fondazione Giulio Einaudi di Torino)
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 MARZO 2009
SPETTACOLI
Centodieci anni fa nasceva l’attore, commediografo,
musicista, sceneggiatore che fu amico di divi
di Hollywood, scrittori e teste coronate e autore
di memorabili commedie sofisticate, tuttora in scena. Il suo epistolario, appena
pubblicato negli Stati Uniti, mette insieme i capitoli di un’avventura straordinaria
Tra party esclusivi, vacanze esotiche, Martini a colazione. Nella ruggente età del jazz
Metti una sera a cena
con Noël Coward
SANDRO VIOLA
orse nessuna vita è
stata tanto divertente, nel secolo scorso,
quanto quella d’un
inglese di modesta
estrazione sociale e
bell’aspetto — attore, commediografo, musicista e sceneggiatore di film —, che si chiamava
Noël Coward. E di certo nessuna
vita è stata pervasa come la sua
da così tanta “gaiety”: buonumore, “sense of humour”, passione del vivere. Il tutto accompagnato da una salute eccellente, da ingenti guadagni e dalla
capacità di tenere a distanza i
seccatori e la noia. Nel ponderoso volume delle Letters of Noël
Coward curato da uno dei suoi
biografi, Barry Day (Knopf, 780
pagine, 32 dollari), il lettore d’età
avanzata, che abbia quindi vissuto molto a lungo nel Novecento, non fa che sognare. «Il party
che hanno dato ieri in mio onore», scrive Coward nel 1931 da
New York, «è stato molto carino.
George Gershwin s’era messo al
piano, e così abbiamo fatto l’una
di notte».
Nel settembre del 1938, subito dopo il Patto di Monaco con
cui Francia e Inghilterra, nelle
persone dei loro primi ministri
Daladier e Chamberlain, avevano consegnato la Cecoslovacchia e il destino dell’Europa nelle mani di Hitler e Mussolini, il
sottosegretario agli Esteri inglese, Anthony Eden (l’uomo più
elegante di tutto il Novecento),
venne spedito in America per
spiegare in un paio di conferenze le ragioni per le quali Parigi e
Londra avevano optato per
l’“appeasement”. Coward era
molto amico di Eden, e la sera del
discorso che questi fece a New
York scrisse alla madre Violet:
«L’accoglienza ad Anthony e al
suo discorso è risultata estremamente calorosa, e penso quindi
che la sua visita qui sia stata molto utile. Ma adesso, carissima,
devo lasciarti perché porto a
pranzo gli Eden con Gary Cooper e sua moglie…».
Gershwin, Eden, Gary Cooper: eppure non si tratta che
F
d’un assaggio, l’“amuse bouche” di queste lettere deliziose.
Perché andando avanti il lettore
troverà altri magnifici parties,
altri pranzi con commensali impareggiabili, e poi premières applauditissime, weekend con Somerset Maugham o Lord
Mountbatten o Cary Grant, e
viaggi per tutto il mondo con
quattro-cinque bauli al seguito:
i viaggi da cui Coward avrebbe
poi ricavato i versi esilaranti di
Travel & travellers. Insomma
quarant’anni d’indefessa, scintillante mondanità. E grande
fortuna, negli anni dopo la guerra, nell’avere vicini di casa affascinanti. In Svizzera David Niven, George Sanders e Charlie
Chaplin, alla Giamaica Graham
Green e Ian Fleming con la moglie Anne (ex lady Rothermere).
«Ian e Anne sono passati anche
ieri sera a bere un Martini prima
di pranzo».
In quegli anni tra le due guerre che Robert Graves ha descritto in un libro celebre, The long
week-end, anche altri ebbero
egregie vite mondane. Somerset
Maugham, per esempio, o Cole
Porter. Ambedue godevano di
“Vite private”,
la sua pièce più
riuscita, fu scritta
a Chicago
in quattro notti
“Hay fever”,
invece, in soli
tre giorni
rendite cospicue — grazie ai romanzi dell’uno e ai musical dell’altro —, e ambedue erano personaggi di spicco in quella che
allora si chiamava “high life” e
più tardi si chiamò “cafè society”. Ma Maugham e Porter
non avevano la “gaiety” di
Coward. Si muovevano tra le celebrità — duchesse, attori famosi, milionari eleganti —, la sera
venivano loro serviti Martini
perfettamente ghiacciati da domestici impeccabili o barman
deferenti, al Claridge di Londra,
al Ritz di Parigi, al Waldorf di
New York e al Raffles di Singapo-
ESISTE L’ITALIA?
DIPENDE DA NOI
il nuovo volume di Limes (2/09)
la rivista italiana di geopolitica
è in edicola e in libreria
www.limesonline.com
re avevano sempre gli stessi appartamenti riservati.
Ma Maugham, amareggiato
dalla sufficienza con cui venne
trattato per tutta la vita dalla critica letteraria, non era un uomo
allegro, e la sua vecchiaia — come si vede in Conversazioni con
zio Willie, i ricordi del nipote Robin Maugham — fu molto malinconica se non addirittura cupa. E quanto a Cole Porter, una
caduta da cavallo avvenuta
quando era ancora giovane lo
costrinse a una vita da invalido,
a numerose operazioni chirurgiche, e infine alla sedia a rotelle.
Non c’è sua fotografia in cui Cole (magnificamente vestito come Coward, e anche lui quasi
sempre con un garofano all’occhiello) non appaia sorridente.
Ma il suo sorriso è tirato, in alcune foto è quasi una smorfia, a
causa degli implacabili dolori alle gambe e della troppa cocaina.
Coward ebbe invece in sorte,
come s’è detto, una salute di ferro. All’indomani dell’andata in
scena d’una sua commedia a
Chicago o New York, per esempio, dopo giorni e giorni di scontri con i produttori, di prove estenuanti e di tensioni in attesa della prima, poteva salire su un piroscafo, un treno o un aereo, e
raggiungere Londra o Parigi, le
Bermuda o Singapore, dove l’attendevano gli amici: Marlene
Dietrich, i duchi di Kent, John
Gielgud, Alexander Korda, Lauren Bacall, i Mountbatten, Vivien Leigh, Diana Cooper, Clifton Webb. E quando già avanti
negli anni (era nato nel 1899)
andò a cantare le sue canzoni sul
palcoscenico del Desert Inn a
Las Vegas, la notte dopo la prima
fece l’alba — sempre col bicchiere in una mano e la sigaretta nelle dita dell’altra — ad un party organizzato da Frank Sinatra.
Successi, platee plaudenti,
grandi titoli sui giornali. Innanzitutto con le commedie (una
cinquantina), da Vortice a Cavalcata, da Stasera alle 8,30 a Vite private, da Hay fever a Spirito
allegro e Relative values, per citare solo le più note. Testi tessuti di conversazioni leggere e spiritose — qua e là una battuta che
gli spettatori avrebbero ridetta
l’indomani al bar o in ufficio —,
vicende da cui affioravano la nostalgia per i doni di seduzione
dell’upper class, i nuovi umori
della jazz age, gli strappi che l’epoca stava infliggendo all’istituzione matrimoniale. E mai un
moralismo, una profondità posticcia, una frase pretenziosa.
Oltre alle commedie, poi, le riviste, i film (Breve incontro, per
esempio) e le canzoni. Canzoni
pari soltanto a quelle di Porter e
di Rogers & Hammerstein,
dunque indimenticabili: We
were so young, I travel alone,
I’ll see you again, I went to a marvellous party. Dei parties, la passione di Coward, s’è già parlato,
ma vale la pena ricordare quello
che dette Norma Shearer nella
sua casa di Santa Monica nel febbraio ‘37, con Claudette Colbert,
Tyrone Power, Lesile Howard,
Merle Oberon, Gary Cooper, la
Dietrich e tanti altri, dopo che
nel pomeriggio Coward aveva
partecipato ad una trasmissione
della radio con Cary Grant, Ronald Colman, Carole Lombard e
i Marx brothers.
La mondanità di Coward non
era tuttavia circoscritta all’ambiente dello spettacolo, teatro,
cinema, cabaret. La sua “englishness” — l’amore per l’Inghilterra, l’orgoglio d’essere inglese
— lo spingeva più in alto, sino ai
bordi della Royal family. Ecco
quindi lo stretto rapporto con
George e Marina di Kent (e particolarmente stretto, si sussurrava a Londra nei Trenta, con il duca), l’amicizia con i Mountbatten, e nella vecchiaia i tanti invi-
LOCANDINE
In alto, locandine
delle commedie
di Noël Coward
e una sua caricatura;
nella fotografia
grande, il commediografo
ritratto nel 1932
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
Bruce Chatwin
lo incontrò
a pranzo a Londra
e lo descrisse poi
nelle ultime righe
del suo libro
“Che ci faccio
qui?”: “Domina
la conversazione
ed è così spiritoso
FOTO CORBIS/ARCHIVIO CONDÉ NAST
DOMENICA 29 MARZO 2009
che risi sino
alle lacrime,
e la pernice mi
andò di traverso”
IN SCENA
A sinistra
e sopra,
due locandine;
a destra,
Coward
in una foto
del 1936
e, in alto,
con Gertrude
Lawrence
nel 1931
ti a pranzo dalla Regina madre.
Un patriottismo appassionato (la sola retorica rinvenibile nel
mare delle sue pagine) e inossidabile. Nel ‘37 scrive disperato a
Mountbatten, implorandolo di
fare il possibile per impedire il
matrimonio di Edoardo VIII con
Wally Simpson, «una tragedia
per la nostra Inghilterra». Alla vigilia della guerra, furioso contro
Chamberlain e la politica di “appeasement”, s’avvicina al “circolo di Churchill” e accetta una
proposta del Foreign office per
andare a sentire (e poi riferire, è
ovvio) «quel che si dice» in Germania, in Polonia, in Russia. Non
proprio le missioni segrete di
Maugham nella Prima guerra
mondiale, ma qualcosa di simile. E più tardi, durante il conflitto, ecco i musical e i film per sostenere il morale delle truppe e
del fronte interno.
Per lavorare tanto, era necessario lavorare senza troppa fatica. E infatti Vite private, la sua
commedia più riuscita (ancor
oggi, quasi ottant’anni dopo, in
scena all’Hampstead Theater di
Londra), fu scritta a Chicago in
quattro notti, Hay fever in tre
giorni, e una delle sue più belle
canzoni, I’ll see you again, in un
taxi imbottigliato nel traffico di
Manhattan. E quand’era in vacanza, per esempio sui piroscafi
in rotta per Pago-Pago o Tahiti,
pagine e pagine di diario, decine
di lettere agli amici o ai produttori, progetti di nuovi cast per la ripresa delle commedie, una o due
canzoni da cantare al Savoy con
la piccola ma agile orchestra di
Carrol Gibbons.
Già negli ultimi Trenta era ormai “the Master”, il Maestro con
la m maiuscola. Così lo chiamavano i giornali, gli attori, gli amici, i barman del Claridge o del
Raffles. Ma un po’ dopo, finita la
guerra, anche il Maestro conobbe un suo periodo di malinconie.
I gusti stavano cambiando (il
mondo era cambiato), e s’erano
affacciati nuovi commediografi:
John Osborne con Look back in
anger, Arnold Wesker con le sue
deprimenti commedie sui “suburbs” londinesi e i dolori della
classe operaia. Le commedie di
Coward si davano sempre meno,
e con accoglienze sempre più
tiepide. Ma “the Master” reagì:
venne Breve incontro, vennero i
ruoli nei film (lo stolido e stupendo personaggio nel Nostro uomo
all’Avana), mentre la classe operaia di Wesker aveva cominciato
giustamente ad annoiare le platee.
Nei suoi ultimi anni, Coward
era un monumento. E fu Bruce
Chatwin a ritrarlo come tale nelle ultime righe di Che ci faccio
qui?, sul fondale «del suo ultimo
pranzo a Londra prima che si trascinasse a morire in Giamaica».
Il piccolo pranzo è da Anne Fleming, la vedova di Ian, con Lady
Diana Cooper e Merle Oberon.
“The Master” domina la conversazione, ed è così spiritoso che —
scrive Chatwin — «risi sino alle
lacrime, e la pernice mi andò di
traverso». Poi, mentre stanno
andando via, Coward prende in
disparte Chatwin, e dice: «Mi ha
fatto molto piacere conoscerla,
ma purtroppo non ci vedremo
più perché tra non molto io sarò
morto. Ma se accetta un piccolo
consiglio a mo’ di commiato, eccolo: non si lasci mai intralciare
da preoccupazioni artistiche».
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Molluschi
DOMENICA 29 MARZO 2009
Al gratin, come sauté o impepata, a corredo di linguine o spaghetti,
questi mitili sono un superclassico della nostra cucina
Certo, ci vuole attenzione perché la loro fama di “spazzini”
dell’acqua comporta precauzioni e controlli molto rigorosi. Come
i laboratori e le degustazioni del vicino Slow Fish insegneranno
L’appuntamento
Al via la quarta edizione
di Slow Fish alla Fiera
di Genova dal 17 al 20 aprile
In programma, aste, dibattiti,
degustazioni, mercati,
cucine di strada
Tra i laboratori,
uno per imparare tipologie
dei molluschi, segreti
sulla freschezza e trucchi
da chef. L’altro, condotto
da allevatori di Italia,
Francia e Slovenia,
sulle differenti ricette
dei tre paesi
Cozze
e
vongole
LICIA GRANELLO
l mio regno per un sauté. Difficile immaginare un piatto più itticamente
goloso, coinvolgente, da condividere
in allegria o consumare in beata solitudine, fumante o appena tiepido,
delicato o piccante. Una celebrazione polisensoriale, che parte dal profumo di
mare intenso, galvanizza le papille, richiede
la partecipazione attiva delle dita, pronte a
tuffare bocconi di pane nel guazzetto.
Non che vongole e cozze, prese singolarmente, difettino di dignità propria. Del resto, esistono piatti dove cozze e vongole,
prese singolarmente, battezzano l’anima
stessa di una ricetta. Che siano linguine o
scialatielli, spaghetti grandi o piccoli, la pasta lunga con le vongole, per esempio, non
ammette commistioni di sorta. Allo stesso
modo, impepata e gratin hanno un senso solo con le cozze protagoniste senza comprimari.
Accomunate dalla condizione morfologica di bivalve e dalla straordinaria versatilità
in cucina, cozze e vongole sono meravigliosamente diverse. I mitili mediterranei, pur
vantando nomi diversi a seconda delle regioni — peoci, cozze, muscoli — sono facilmente identificabili: guscio marrone o nerissimo, interno a tinte più o meno forti, a seconda del sesso: giallo chiaro per i maschi,
arancio vivo per le femmine.
Hanno una pessima fama, le cozze, perché si nutrono di microrganismi in decomposizione, attività che le rende sensibili alla
tipologia dell’acqua in cui vivono. Così, le
stesse cozze sono pessime se inquinate dagli
scarichi di Marghera e stupende se prosperano libere e selvagge nella baia di Portonovo, Marche, produzione inserita tra i presìdi
Slow Food.
Per i moscioli come per le vongole, anche
in mari sanissimi, i rischi si identificano con
le microalghe di cui si nutrono: complice la
I
L’arte mediterranea
di mangiare il mare
tropicalizzazione del Mediterraneo, infatti,
ne sono state individuate alcune variamente tossiche, capaci di scatenare disturbi allergici e gastroenterici. Unica difesa, il controllo costante delle acque, con sospensione
temporanea della raccolta quando si superano i limiti di tollerabilità.
In compenso, il professor Karl Kruszelnicki, uno tra i più popolari scienziati-divulgatori inglesi, ha recentemente sfatato la
credenza che vuole malati, e quindi tossici, i
molluschi cocciutamente chiusi dopo la
scaltritura. Secondo Kruszelnicki, a causare
la non apertura delle valve è la mancata denaturazione delle proteine del tessuto muscolare dei molluschi, dovuta a una reazione
atipica — ma innocua — al calore. Una scoperta che vale 370 tonnellate di molluschi,
ovvero la massa di cozze e affini, gettate ogni
anno nella spazzatura perché considerate
nocive.
Tutto quello che avreste voluto sapere su
cozze e vongole, lo troverete tra laboratori
didattici e degustazioni guidate nei giorni di
Slow Fish. Altrimenti, organizzate un week
end sul lago d’Orta e mangiate da Tonino
Cannavacciolo. La sua riedizione di cozze&fagioli — crema di cozze con maltagliati
di farina di fagioli — vi farà definitivamente
innamorare degli ex spazzini del mare.
Vongole
A differenza delle cozze, vivono su fondi sabbiosi
Due sistemi per pulirle: immerse in poca acqua salata
perché spurghino la sabbia, o scaltrendole direttamente
in pentola e filtrando il liquido con una garza
Spaghetti
Sauté
Risotto
Clam chowder
Si spadellano in olio, aglio,
liquido di scaltritura, vongole
(metà sgusciate), prezzemolo
e pepe. Stupendi scolati
a metà cottura e “tirati”
in padella come un risotto
nel liquido allungato
o in fumetto di pesce
Scaltritura in aglio,
extravergine e peperoncino
a piacere. Dopo aver sfumato
un bicchiere di vino bianco,
si filtra e si versa il liquido
di cottura sulle vongole
scolate. Rifinitura
con prezzemolo
Soffritto di cipolla, e vino
bianco dopo la tostatura
del riso. Cottura in brodo
di pesce o verdura con liquido
di scaltritura. Vongole
sgusciate a tre quarti
di cottura. Buccia di limone
grattugiata e vongole intere
Le vongole chaudrée, cotte
nel rame (la ricetta arriva
dal Canada atlantico francese)
si cuociono in un soffritto
di cipolle, sedano e pancetta
con aggiunta di patate, acqua
e liquido di scaltritura
Rifinitura con panna o latte
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 MARZO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Sabaudia (Lt)
Goro (Fe)
itinerari
Il lucano Vito Mollica
è l’executive chef
del maestoso
“Four Season Hotel”
di Firenze
Tanto girare
per il mondo
ha lasciato intatto
il suo amore per la cucina
regionale italiana:
squisiti gli scialatielli
partenopei guarniti
con vongole veraci
L’antico borgo
affaccia su una sacca
d’acqua salmastra,
dove seicento ettari
sono dedicati
all’allevamento
di vongole veraci
Taranto
Tra Mar Grande
e Mar Piccolo, vanta
una millenaria
tradizione ittica
A giugno, il Festival
delle cozze celebra
le saporite “tarantine”
Nata negli anni Trenta
sulle sponde del lago
di Paola, nel parco
del Circeo, ospita
allevamenti ittici
ideati dai tecnici
arrivati da Comacchio
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
TENUTA GORO VENETO
Via Basilicata
Tel. 0426-81097
Doppia da 55 euro, colazione inclusa
SAN FRANCESCO CHARMING HOTEL
Via Caterattino
Tel. 0773-515951
Doppia da 105 euro, colazione inclusa
B&B ISOLA BLU
Via Duca di Genova 24
Tel. 329-1044533
Doppia da 80 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
STELLA DEL MARE
Via Po 36, Gorino Veneto
Tel. 0426-388323
Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro
L’AZIENDA
Via Casali di Paola 6
Tel. 0773-596800
Aperto solo la sera, menù da 40 euro
GATTO ROSSO
Via Cavour 2
Tel. 099-4529875
Chiuso lunedì, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
CONSORZIO PESCATORI
Via Brugnoli 298
Tel. 0533-793111
LE MAR
Corso Vittorio Emanuele III 178
Tel. 0773-511274
PESCHERIA GESÙ CRISTO (con cucina)
Via Cesare Battisti 8
Tel. 099-477725
Cozze
Miseria e nobiltà
della strana coppia
I mitili mediterranei d’allevamento si lavano sotto l’acqua
corrente. Quelli di scoglio vanno raschiati con una paglietta
per togliere i denti di cane (piccole escrescenze calcaree)
La “barbetta” si strappa tirandola verso l’alto
MARINO NIOLA
na è il Calimero del mare, l’altra è la
popolana più sexy degli abissi. Cozze
e vongole sono la coppia simbolo del
nostro mangiare alla marinara. Povere ma
belle, fatte apposta per un palato colto e popolare come quello italiano. Pochi ingredienti tanto sapore. Sul gusto semplice di
questi molluschi — quasi una combinazione
presocratica di acqua, fuoco e aria profumata — il genio cucinario del Bel Paese ha compiuto esaltanti esercizi di gastronomia trascendentale.
Impepata di cozze, sauté di vongole, linguine allo scoglio, risotto alle arselle, cozze
gratinate. E su tutto i sontuosi spaghetti alle
vongole, quintessenza del modo di mangiare, ma anche del modo di essere degli italiani. Morbido, sgusciante, gustoso, viscoso, di
poca sostanza, di grande tolleranza. Il carattere nazionale sintetizzato in un piatto che
più simbolico non si può. Un compromesso
gastronomico in cui finiscono per ritrovarsi
un po’ tutti, eccezioni a parte. Non a caso Eugenio Scalfari scrisse all’indomani della morte di Enrico Berlinguer che il segretario del Pci
era uno dei pochi politici italiani «non alle
vongole». E infatti il rigore giacobino mal si
concilia con la propensione alla mediazione
di questo piatto capace di mettere d’accordo
tutti i gusti e di far coesistere tutte le differenze. In fondo il gran misto di mare, dove cozze
e vongole, arselle e lupini si mescolano alla
rinfusa, trovando un miracoloso equilibrio
nel nome del piacere e del sapore, è una perfetta immagine di questo paese. Un cibo da
commedia all’italiana. Da miseria e nobiltà.
Schiettezza popolare e ammiccamento piccolo borghese.
Tradizionale sinonimo di scarsa avvenenza, le cozze sono a tutti gli effetti un sottoproletariato acquatico, una folla indistinta, nera,
aggrovigliata. Brutta, sporca, ma non cattiva.
Nulla a che spartire con le blasonate ostriche
che irrompono sulla scena della tavola adagiate su sontuosi plateau di ghiaccio e precedute dai loro nomi, altisonanti come titoli
gentilizi. Belon, Rocher de Cancale, Fine de
Claire, Oléron. Massimo dodici, mai meno di
tre. I loro calibri si misurano con inesorabile
scrupolo, come i quarti di nobiltà. Mentre le
cozze, oscure e generose, si comprano a chili, a retine e in Francia addirittura a litri. A Venezia le chiamano con l’appellativo poco lusinghiero di peoci, che a Trieste diventano
pedoci. Ma il risultato non cambia, si tratta
sempre e comunque di pidocchi. Una moltitudine anonima fatta di mitili ignoti. Pronti
però a buttarsi nel fuoco per la gioia delle nostre papille. Il loro sacrificio ha arricchito la
cucina povera italiana di capolavori assoluti
come pasta e fagioli con le cozze, come le tielle di Gaeta, gli sformati pugliesi con riso e patate. E, last but not least, la maionese di cozze della Conca di Alimuri immersa nello
splendore della penisola sorrentina.
Oggi questi molluschi low cost celebrano il
loro trionfo e gli chef ne nobilitano le proprietà ipocaloriche innalzandoli alle glorie
dell’alta gastronomia. Un contrappasso
quasi dantesco, dall’indigenza del sugo alle
vongole fujute fino al gran concerto di sapori dello spaghetto che piroetta nel piatto. E
balla coi lupini.
U
Impepata
Marinara
Ripiene
Gratinate
Necessita di extravergine,
aglio, pepe nero (alla fine)
e braccia robuste. Infatti, dopo
aver fatto scaltrire le cozze
a fuoco vivace, occorre
scuotere più volte la pentola
dal basso all’alto per far uscire
l’acqua di cottura
Aglio schiacciato, olio, sedano
e prezzemolo tritati
grossolanamente, un bicchiere
di vino bianco per il classico
sauté. Nel piatto di portata,
metà cozze sgusciate, le altre
lasciate intere, servite
con il brodo filtrato e caldo
Le cozze scaltrite si farciscono
con prezzemolo, uovo, capperi
e pecorino. Chiuse col filo
grosso, si appoggiano in teglia
su salsa di pomodoro e liquido
di cottura filtrato. In forno
per un quarto
d’ora
Scaltritura con olio, aglio e vino
bianco a fuoco allegro. Tolte
le valve superiori, vanno velate
con un impasto di sale, pepe,
parmigiano, pangrattato, olio,
prezzemolo e poco liquido
di cottura
Doratura in forno
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 MARZO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
le tendenze
Ambiguità
La giacca maschile diventa un miniabito da indossare senza
gonna, le tracolle femminili sostituiscono i borselli, sparisce
la scollatura a vantaggio del girocollo, torna il calzoncino
Ragazze androgine, ragazzi “garçonne”: così la moda
supera il concetto di unisex e arriva ad annullare i generi
OLD BRIT/1
La scarpa stile inglese di Ermanno
Daelli: fascino a punta e lavorazione
traforata in versione estiva
Perfetta con i jeans e col classico
MAN IN BAG
Lavorata con pelli preziose
e dai colori a contrasto la borsa
di Etro. Un debutto impegnativo
ma attuale per l’uomo in bag
OLD BRIT/2
CASA COMUNE
Sembra nata per camminare
sui campi da golf la scarpa Church’s
con i lacci. Da usare con spirito
e moderazione di giorno e di sera
Comodità unisex con la morbida
pantofola in velluto griffata Cesare
Paciotti. Entrambe in un allegro blu
elettrico con stemma sul davanti
Q
uando negli anni Sessanta lo
lanciò Ted Lapidus, stilista
francese noto per aver democratizzato la moda, fu definito
“unisex”. Era uno stile fatto di
silhouette androgine e snelle,
divise militari, tagli squadrati e spalline sotto le giacche. Molto tempo dopo è arrivato il
“metrosexual”. Uomo del nuovo millennio
che, nell’incerta ma costante ricerca di un’identità, coltiva il proprio lato femminile dedicandosi ossessivamente all’abbigliamento. In fondo si tratta di risposte, al maschile, al fascino indiscutibile della garçonne del romanzo di Victor Margueritte. Anche per lei, nulla è
lasciato al caso: capelli molto corti,
cravatte, camicie e
giacche dal taglio
sartoriale.
È il perenne “gioco delle coppie”
che ciclicamente
ritorna. E anche in
quest’inizio di primavera in passerella, e nelle vetrine dei negozi, brillano donne e uomini dagli abiti intercambiabili. Cambiano di conseguenza le
regole della seduzione. Per le ragazze di ogni
età la parola d’ordine è femminile ma non
troppo. Vince l’ispirazione al guardaroba
maschile rivisitato in chiave sexy. Si alterano le proporzioni ma l’ambiguità resta. Archiviate le scollature abissali trionfa il più
neutro girocollo. La giacca maschile diventa un miniabito da indossare senza gonna.
Le scarpe perdono i tacchi e conquistano i
lacci o la variante in stile inglese. La camicia
è maxi. I pantaloni sono morbidi e di taglio
maschile. Non solo. Le donne si appropriano della cravatta e l’abbinano con spirito a
IRENE MARIA SCALISE
un altro grande capo rubato a lui: il gilet. Per
l’uomo invece l’avvicinarsi al mondo femminile rappresenta un salto di qualità. Si
svuotano le tasche e si utilizzano, forse per
la prima volta, le borse. Si abbandonano le
tinte unite a favore di fantasie anche fiorate
per abiti e accessori.
Si annullano le differenze. L’importante
è essere individui, indipendentemente dall’appartenenza all’una o all’altra metà del
cielo. E, per il 2009, la sapienza dei migliori
couturier ha giocato proprio su questo: riuscire a creare abiti, accessori e mise assolutamente simili per gli uni e per le altre. Nella
donna il pantalone è più sottile o nell’uomo
la spalla è più definita, ma la sostanza
non cambia. Lui riscopre il borsello
del tutto simile alla
tracolla di lei, o la
borsa fantasia con
ampi manici. Il calzoncino corto,
trionfo dell’estate,
scopre le gambe di
entrambi. Il fascino del completo bianco
non risparmia nessuno. Anche gli accessori e i gioielli entrano allegramente in gioco.
Scarpe modello pantofola per entrambi.
Cappelli panama e Borsalino che ombreggiano il volto e donano fascino.
Per il gioco delle coppie, però, ci vuole un
certo fisico. Difficile infatti risultare androgine se la taglia è mediterranea. Analogo discorso al maschile. Un uomo tarchiato, o
over cinquanta, con borsello e calzoncini
corti può lasciare inorriditi. Il consiglio, se
si vuole giocare con la giusta ironia, è di
chiudere le riviste e munirsi di uno specchio che, se guardato con onestà, si può rivelare il miglior consigliere.
TARTAN WOMAN
Morbida e lievemente bombata
la borsa griffata Etro per lei
Abbina la fantasia tartan al classico
motivo della maison
Un armadio per due
è il gioco di coppia
PASTELLO
Sfumature
delicate
per l’uomo
Jil Sander
Azzurro polvere
e rosa confetto
abbinati
al classico
nero
ma su
una giacca
che si nota
LUNARE
Anello
di sofisticata
lavorazione
di Roberto
Cavalli
per l’uomo
eccentrico
SOLARE
Anello
di Louis
Vuitton
pensato
per la donna
che non ama
i classici
LEGGERA
Impalpabile
eleganza
per la mise
Vera Wang
sfumata
in tre colori
dal beige
al nero
Tessuti
preziosi
e sandali
vertigine
SENZA TABÙ
SUPERSEXY
FATTORE B
MINIMAL
TECNO
SEDUZIONE
Disinibito
l’uomo
Custo
Barcellona
in completo
a fiori
con fantasia
black&white
Cravatta
e scarpa
si trasformano
per il tocco
estremo
Abito
super sexy
per la donna
di John
Richmond
Fantasia
optical
in bianco
e nero
e spacco
audace
Per sedurre
di sicuro
Fascino
immacolato
per l’uomo
Louis Vuitton
La scarpa
sportiva
alleggerisce
il look
e lo rende
perfetto
per la città
estiva
e per il mare
Stile
androgino
e color
bianco
candido
per la
maschietta
Ferragamo
Pantalone
morbido,
camicia
smilza
e cravatta
Giacca
sportiva
in tessuto
tecnico
per l’uomo
Prada
Da abbinare
di rigore
a pantaloni
scuri
impreziositi
dalla scarpa
classica
Giacchino
smilzo,
che lascia
intravedere
il reggiseno,
e gonna
stretta
al ginocchio
per la donna
Prada
Un completo
tutto
seduzione
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 MARZO 2009
l’incontro
È un ottantenne dai capelli candidi
e con una gentilezza di maniere
da signore antico, ma non lasciatevi
ingannare. Questo profeta
della musica scomoda
di Schönberg, Berg
e Webern, baluardo
anti-commerciale
e apripista dei compositori
del secondo dopoguerra
è un maestro tenace,
disilluso e furente: “Bisogna essere
estremi fino alla provocazione”,
dice, “al nuovo va attribuita
una visibilità sfacciata”
Monumenti
Pierre Boulez
n una sala della Cité de la Musique Pierre Boulez sta provando
musica di Webern. Brani aguzzi,
fulminei, concentrati fino alla
crudeltà («un pensiero così forte e scarnificato può esprimersi solo in tempi
compressi», spiegherà in seguito Boulez durante il nostro incontro nel suo
studio). Il gesto direttoriale è netto: ha
il dono dell’evidenza. Mai un filo di retorica nelle analisi verbali calme e concrete. Niente di mistico o estatico. Nessun bearsi di se stesso. Eppure, a ottantaquattro anni, Boulez è un monumento vivente, l’ultimo dei giganti della
musica del Ventesimo secolo, profeta
del disancoraggio dalle convenzioni in
nome di una curiosità sperimentale
sempre combattiva. Il 6 aprile il maestro francese dirigerà l’Ensemble Intercontemporain alla Scala di Milano. Incluso in una serie di programmi scelti
da Pollini, sarà un concerto dedicato alla seconda Scuola di Vienna: musiche
di Schönberg, Berg e Webern, poderosi
apripista per i compositori del secondo
dopoguerra. «Senza di loro», commenta Boulez, «il paesaggio musicale odierno sarebbe diverso. Ci sono autori anche notevoli, come Prokofiev e Hindemith, senza i quali il Novecento non sarebbe cambiato affatto. Altri invece
hanno segnato in profondità la storia:
come Schönberg».
Quello del 6 alla Scala sarà un evento
arduo, non accattivante. Eppure vanta
il tutto esaurito. Così avviene sempre in
occasione dei concerti di Boulez, atteso pure a Ravenna a fine giugno con
l’Orchestre de Paris, e ancora a Milano,
sul podio dell’orchestra scaligera, a fi-
nistra. «Però bisogna ammettere che i
comunisti italiani, almeno un tempo,
non erano idioti come quelli francesi.
Sono stato comunista solo fino al ’48,
quando in una riunione di musicisti occidentali emersero le conseguenze devastanti delle direttive in campo culturale di Zdanov, il grande ideologo staliniano. Mi sono reso conto che non c’erano differenze tra il binomio HitlerGoebbels e quello formato da Stalin e
Zdanov, e ho capito che un genuino
pensiero di sinistra è inconciliabile col
comunismo. Inoltre ero inorridito da
certi comunisti di stupidità intollerabile, che in Francia parlavano di bruciare
i libri di Kafka, e in Ungheria non permettevano che si eseguisse Bartók».
Ancora oggi, nei confronti dei problemi culturali, quest’energico ottantenne con capelli candidi e gentilezza
di maniere da signore antico, ma senza
un’ombra d’affettazione, non accenna
a farsi da parte. Si ostina a battersi per le
proprie convinzioni musicali e a criticare l’assenza di coraggio «di coloro
Nelle istituzioni
culturali manca
il professionismo
Spesso i ministeri
scelgono persone
inette, che hanno
occupato la poltrona
per mera
appartenenza politica
FOTO MAXPPP
I
PARIGI
ne ottobre con un programma su
Bartók. Boulez affascina e coinvolge in
quanto incarnazione di un sapiente illuminismo, estraneo al chiasso e all’insipienza. In tempi di pensiero fragile,
questo musicista tenace e avventuroso
ha la confortevole autorevolezza di un
baluardo di solidità anti-commerciale,
emblema della musica vissuta con rigore e culto dell’artigianato sui due versanti dell’interpretazione e della composizione: è direttore d’orchestra
esemplare nelle letture nitide, nella trasparenza strutturale, nella facoltà di
connettere in modo organico passato e
presente; ed è un autore intrepido e radicale, formatosi al credo dodecafonico, esploso come talento tra gli anni
Quaranta e Cinquanta (Stravinskij lo
definì «il miglior compositore della sua
generazione»), studioso di informatica
e nuovi orizzonti sonori. Mai artefice di
opere teatrali («avrei voluto lavorare
con Genet, eravamo amici, ma morì
troppo presto», racconta), è sospettato
da qualcuno di frigidità razionalista.
Ma è inattaccabile per coerenza e incessantemente proiettato nel futuro.
In più è un “motivatore” straordinario, stratega della cultura instancabile
nel sollecitare, sospingere, edificare.
Ispiratore dell’Ircam, centro parigino
per la ricerca sulla nuova musica e le più
avanzate tecnologie sonore; fondatore
dell’Ensemble Intercontemporain,
gruppo votato all’esecuzione della musica del nostro tempo; consulente della
Cité de la Musique («fu mia l’idea di partenza e ho aiutato a plasmarne il modello»); interpellato come consigliere
per la costruzione della sala filarmonica di Parigi, pronta nel 2013 («alla città
manca un grande spazio per concerti, si
va avanti da troppi anni con strutture
non capienti e fatiscenti, confondendo
la vita musicale del terzo millennio con
quella ottocentesca»).
Rispettato e temuto dai diversi governi in Francia, è deciso nell’affermare l’indipendenza del creatore. La politica non lo ha mai contaminato: «Bisogna avere fermezza di orientamento e
sguardo acuto. Assumersi il rischio della protesta o anche dell’invettiva. Cercare interlocutori responsabili: non sono molti. Nelle istituzioni culturali
manca il professionismo. Spesso i ministeri scelgono persone inette, che
ignorano le caratteristiche e le esigenze
dell’ambito in cui vengono fatte operare, e che hanno guadagnato la poltrona
per mera appartenenza politica».
Metodo assai diffuso, maestro. In Italia se ne sa qualcosa, sia a destra che a si-
che diffondono la musica, spesso privi
di cultura o afflitti da lacune enormi. In
molti temono il contemporaneo, e se
scelgono un pezzo nuovo puntano su
cose basate su modelli vecchi, come le
composizioni dette neoromantiche,
oppure che non disturbano, come il minimalismo, musica primitiva e unidimensionale che annichilisce tutto. Non
capiscono che le idee autentiche arrivano sempre a imporsi».
Un altro guaio culturale contro cui
combatte è la mania di proporre repertori ristretti: «Pensi al fenomeno del barocco, riscoperto da poco: una miniera
d’oro e una tappezzeria graziosa per arredare sale da concerto. Altrettanto assurdo è interessarsi esclusivamente di
musica romantica e post-romantica,
che riguarda solo cent’anni di storia».
Insomma, dichiara Boulez, «oggi la specializzazione ha sostituito la cultura,
mentre gli specialisti andrebbero usati
solo in chirurgia». Sostiene che più si è
timidi nelle proposte e meno il pubblico viene motivato: «Bisogna essere
estremi fino alla provocazione. Nascondendo le proprie scelte, presentando un pezzo contemporaneo
schiacciato tra brani noti e popolari, si
finisce per essere deboli e non trascinanti. Al nuovo va attribuita una visibilità sfacciata».
Gli si fa notare che nel pubblico c’è
più apertura e curiosità per la pittura del
Novecento che non per la musica contemporanea. «È vero. Se si organizza
una grande mostra su Picasso — è accaduto di recente qui a Parigi — le persone affrontano code di ore per vederla
perché la ricezione è più facile e diretta.
Se non ti piace un quadro passi a un altro. Sei tu a determinare il tempo di fruizione. Inoltre il territorio delle arti visive è condizionato dal marketing, il che
lo rende più misurabile e dunque più
accessibile. Colpisce il fatto che un quadro sia stato venduto per diciotto milioni di dollari, ma è aberrante credere che
sia il costo a definire il valore».
Odia la confusione dei contesti linguistici, questo maestro furente e disilluso. Quando gli si riferisce che in Italia
c’è chi paragona Giovanni Allevi a Mozart, ed è anzi lo stesso Allevi a osare il
folle confronto, dice che «oggi piace ciò
che è comodo, superficiale e non impegnativo: perciò si tende a proclamare
l’equivalenza delle culture musicali. Livellamento insensato. A nessuno verrebbe in mente di porre sullo stesso piano Shakespeare o Beckett e una soap
opera guardata in tivù, anche se i primi
sono più faticosi da assimilare della se-
conda».
Insiste che «a ogni nuova sensibilità
dev’essere dato il tempo per imporsi.
Ancora negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, le sinfonie di Mahler erano considerate incomprensibili. C’è voluto
Bernstein per farle capire e renderle un
patrimonio comune. A lungo si è rimproverata a Debussy la mancanza d’emozione, come anche a Bartók e a Stravinskij. È l’assenza di elementi prefabbricati a far credere che certi lavori importanti siano noiosi o troppo complessi. Interpreti e programmatori non
devono cullarsi — e spesso lo fanno solo per interessi economici — nell’inerzia di massa che domina quest’epoca
passatista e ossessionata dalla memoria».
Eccelso esecutore di Wagner, Boulez
crede ancora nel teatro d’opera, ma lo
considera agonizzante nelle condizioni attuali:«La lirica non potrà sopravvivere se continuerà a basarsi sul corporativismo rivendicativo. I budget rischiano di divenire insostenibili. Se per
una rappresentazione si spendono tre
milioni di euro sarà presto impossibile
programmare una stagione. Le categorie dei professionisti non riflettono sulla precarietà che stanno determinando. Guardi le industrie discografiche: le
prestazioni sempre più onerose ne
hanno portate molte al fallimento. Solo nel tempo si può recuperare il denaro e anche ottenere incrementi. Il guadagno non può essere immediato, come pretenderebbero i professionisti
del settore. Il sistema delle banche è
giunto al collasso un po’ per lo stesso
perverso meccanismo. I lavoratori dello spettacolo dovrebbero imparare la
lezione. Nella cultura è indispensabile
un certo grado d’investimento: bisogna crederci e avere lo sguardo lungo».
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LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale
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