Conservatorio di Musica «L. Perosi» - Campobasso Corso sperimentale: «Repertori vocali da camera» Le Histoires naturelles di Maurice Ravel Elaborato nelle seguenti discipline: Storia della musica Storia della poesia per musica Armonia ed analisi Estetica musicale Critica del testo musicale A. A. 2003 - 2004 Sessione estiva Elaborato di: SILVIA CATTABIANI Docenti: Prof.ssa BARBARA LAZOTTI Prof. PIERO NIRO Prof. LUIGI PECCHIA Indice 1) La melodie francese 2) Maurice Ravel. La vita 3) La poetica di Ravel 4) Le Histoires naturelles 5) Analisi di Le Cigne 6) Bibliografia generale ESTRATTO 3 - LA POETICA DI RAVEL Il periodo in cui si svolse la vicenda artistica di Maurice Ravel fu tra i più animati ma anche fra i più difficili della storia della musica. Anzitutto, non era trascorso molto tempo da quando la Sociétè Nationle de Musique aveva dato impulso alla musica strumentale francese aprendo quel renouveau propugnato soprattutto da César-Auguste Frank (1822-1890) e da CharlesCamille Saint-Saëns (1835-1921). In secondo luogo, era penetrato in Francia l’influsso della musica tedesca, che portò con sé la polemica fra tradizionalisti e progressisti che aveva diviso l’Europa musicale in due schieramenti: da un lato Johannes Brahms (1833-1897) e i suoi sostenitori, 2 dall’altro la “musica dell’avvenire” profetizzata da Liszt e incarnata da Wagner. A questo stato di cose bisogna aggiungere l’influsso che sull’ambiente musicale francese ebbe la musica russa rappresentata dalle sue due anime, quella filo-occidentale di Pëtr Il’ic Cajkovskij (1840-1893) e quella nazionalista di Nikolaj Rimskij-Korsakov (1844-1908). Con i promotori del renouveau la musica francese non aveva ancora assunto un orientamento preciso, né prodotto personalità decisive, ma solo espresso una volontà di cambiamento e un desiderio di approdare a forme nuove. Ma proprio nel momento in cui Ravel compì gli studi, cioè negli ultimi anni del XIX° secolo, il renouveau apparve oramai invecchiato e sclerotizzato in forme sterili. A questa situazione interna della musica francese bisogna anche aggiungere la crisi che, alla fine dell’Ottocento, investì il linguaggio musicale europeo. Di fronte a questo stato di cose la tendenza dei giovani musicisti francesi fu quella di trovare una via d’uscita nazionale. In Francia esisteva, infatti, un movimento progressista nazionale, rappresentato da una parte da Fauré, musicista integrato nell’ambiente accademico, e dall’altra da Emmanuel Chabrier (1841-1894) e Erik Satie (1866-1925), che rappresentavano l’avanguardia irregolare e polemica nei confronti delle istituzioni. Ciò produsse diversi atteggiamenti: in Fauré prevalse l’esigenza di comporre quasi esclusivamente per voce e pianoforte; in Chabrier e Satie, di contro, l’irriverente rifiuto di ogni tradizione. Da queste posizioni si mossero sia Debussy che il più giovane Ravel. Gli itinerari furono profondamente diversi, nonostante il parallelo che viene insistentemente fatto tra i due musicisti: schematizzando, Debussy fu risolutamente progressista, mentre Ravel rimase in bilico fra tradizione e progresso. Ogni composizione di quest’ultimo, infatti, appare come una specie di 3 scommessa sulla possibilità di esprimere qualcosa di nuovo con un linguaggio già sfruttato. Durante tutta la sua vita Ravel ebbe il piacere di vedere eseguita in tutto il mondo la sua musica, dall’Europa all’America del Nord e del Sud, dall’Africa del Nord all’Oriente. La sua carriera si incrociò con quella di un gran numero di eccezionali personalità dell’epoca: Béla Bartók (18811945), Pablo Casals (1876-1973), lo stesso Claude Debussy, Vaslav Formich Nijinsky (1889-1950), Sergej Sergeevic Prokof’ev (1891-1953), Igor Fëdorovic Stravinsky (1882-1971). Gratificato da titoli onorifici e da riconoscimenti conferitigli da università, ministri e regnanti, Ravel ebbe una carriera brillante e ricca di risultati, dietro la quale si celava tutta la sottile complessità dell’uomo. Il suo aspetto fisico colpiva poiché era piccolo di statura, di costituzione leggera, con tratti ossuti e marcati. Ma anche i suoi atteggiamenti destavano curiosità: Alfred Cortot diceva di lui che era «un giovanotto volentieri sarcastico, amante del raziocinio, vagamente distante, che leggeva Mallarmé e frequentava Erik Satie», vagamente distante perché, salvo che nei riguardi di qualche compagno di Conservatorio, rimaneva generalmente freddo e distaccato. Una naturale predisposizione all’umorismo pungente, come una deliberata volontà di sconcertare gli interlocutori, lo aiutarono a mantenere una certa distanza tra sé e gli altri. Nonostante ciò la moglie di Nijinsky lo descrive, all’epoca di Daphins et Chloé, come «un giovane uomo affascinante, sempre abbigliato in modo vagamente stravagante, ma molto elegante». Il dandismo di Ravel, infatti, lo spinse a seguire l’ultima moda in fatto di abbigliamento, a curare il proprio modo di vestire e il proprio guardaroba. Tuttavia, dietro a questa maschera si nascondeva una personalità complessa, attratta da tutto ciò che è complicato e persino contraddittorio, ma anche verso ciò che riguarda il mondo infantile come i giocattoli, le favole; insomma, come ricorda il suo 4 amico d’infanzia, il pianista Ricardo Viñes, rivolto verso la «poesia, la fantasia, tutto ciò che era prezioso e raro, paradossale e raffinato». Nelle sue premesse poetiche e nello stile l’opera di Ravel, comunque, mantenne stretti legami col gusto, le idee e le teorie musicali ed artistiche del tardo Ottocento francese, come, ad esempio, la teoria delle maggiori capacità espressive del linguaggio musicale rispetto agli altri linguaggi artistici, in particolare nell’esprimere la simultaneità. In base a questa superiorità, il poeta Mallarmé aveva affermato che compito della poesia era quello di «riprendere il proprio bene» alla musica, tentando nel Un coup de dés (un lancio di dadi) una sovrapposizione di immagini poetiche disposte come in una partitura musicale. Senza dubbio alcuni dei tratti psicologici di Ravel e dei caratteri delle sue musiche si possono interpretare come espressione della sua appartenenza alle atmosfere estetizzanti, al culto della Bellezza e dell’arte per l’arte che contrassegnarono la cultura francese del decadentismo di fine secolo. Tuttavia, Ravel, uomo colto, cresciuto spiritualmente sotto il segno di Baudelaire, di Poe, di Huysmans, di Mallarmé, e attratto in modo quasi irresistibile dalle delizie dell’eleganza, della raffinatezza, dell’artificialità preferita alla bassezza della realtà quotidiana, dal distacco sentimentale, dal dandismo e da altre costanti psicologiche e poetiche caratteristiche dell’aura decadente, aderì al Simbolismo solo in maniera parziale. Per la sua natura aristocratica, egli si tenne lontano dai fondamentali presupposti spiritualistici della poesia simbolista, come il senso del mistero delle cose e l’anelito a superare la barriera del fenomenico per attingere l’Assoluto, caratteri questi presenti, per esempio, nelle opere di Debussy. Ravel sviluppò della poetica simbolista essenzialmente l’aspetto linguistico-formale, perseguendo un ideale di raffinamento prezioso, suggestivo, allusivo e diventando così il più straordinario omologo di Stéphane Mallarmé. E proprio alla luce di 5 questa autonomia poetica rispetto a Debussy, dunque, che si possono spiegare le peculiarità in fatto di linguaggio musicale grazie alle quali egli raggiunse una sua netta individualità di stile. Debussy cercò di realizzare in campo musicale quella trasformazione di valori che la pittura simbolista aveva operato nei confronti delle sembianze naturali ritratte dagli Impressionisti. Tali immagini, nella sensibilità simbolista, non esauriscono la realtà, bensì devono essere interpretate come simboli e traduzioni di una realtà più essenziale che ne sta alla base. Infatti, come i grandi poeti suoi contemporanei, quelli che maggiormente hanno rivoluzionato la letteratura del Novecento, e primo fra tutti Mallarmé, in Debussy la descrizione non si limita ed essere mera riproduzione, ma si trasforma in interiorizzazione dell’oggetto e nella sua trasformazione in parola, nell’oggettività del «verbo», quindi nel suono. Per la poesia simbolista e anche per la musica di Debussy, una volta che è stato eliminato ogni legame banale e convenzionale di cui si avvale la semplice descrizione o l’onomatopea, la parola e il suono costituiscono un ponte tra mondo interno e mondo esterno, ed è un ponte difficilmente valicabile, spesso ermetico, che richiede all’ascoltatore uno sforzo, più che di intelligenza, di sensibilità e intuizione. In tal senso può essere interpretato il ricco naturalismo debussiano e la copiosa rassegna di immagini, di personaggi, di simboli e stati d’animo. Debussy, quindi, come i pittori e i poeti di questo movimento, si accostò alle mutevoli parvenze della realtà con lo spirito che già fu di Baudelaire, ovvero per ritrarre la natura non così come è, ma per decifrarne il misterioso linguaggio fatto di corrispondenze tra le cose. La sua musica per questo si allontanò dalla rappresentazione naturalistica, così come la poesia di Verlaine e Mallarmé, per farsi arte progressivamente smaterializzata, tesa non già a rappresentare una realtà che è impossibile cogliere dall’esterno, bensì a suggerire, ad 6 evocare, a cogliere, proprio nell’atto in cui si nega ogni proposito di descrizione minuta, realistica, quella vera essenza nascosta sotto le parvenze che solo l’Arte, in quanto intuizione immediata extrarazionale, può raggiungere. Proprio a Verlaine, Debussy può essere accostato: tutte quelle caratteristiche del suo linguaggio sonoro, solitamente interpretate come pittoricismo impressionista, quali lo sfumato, l’uso delle sonorità indistinte, nebbiose, sono in realtà delle soluzioni tecniche e stilistiche analoghe a quelle adottate dal poeta per rendere fluida, vaga, vaporosa la sua poesia. La poesia di Verlaine, infatti, rinunciando alle solide architetture del discorso, alle scontate certezze di significati, annulla la precisione dei contorni, si abbandona a un labile trascolorare di sfumature. Ma solo apparentemente nelle visioni paesaggistiche verlainiane sembra mancare una organizzazione, poiché nel momento in cui il poeta trasforma il paesaggio in visione musicale, egli fonde insieme le parvenze visibili e quelle invisibili, riuscendo così a compiere «l’opera magica di ricostruzione dell’unità tra l’anima e il mondo» (M. Luzi). Anche per Debussy, come testimoniano i suoi scritti, l’arte deve esprimere il mistero della realtà. Un’arte siffatta pertanto non può essere un’arte strutturata secondo leggi classiche di simmetria, preordinata secondo piani prestabiliti ed esterni di composizione; al contrario Debussy deve attuare nei confronti del suo linguaggio musicale quell’allentamento della sintassi e della definizione delle linee e dei contorni cui già Verlaine aveva sottoposto la sua poetica. Qui si possono rintracciare le origini del particolare linguaggio sonoro debussiano, visto non come mero decorativismo sensuale ma come adeguamento ad un mondo poetico e ad una sensibilità colta attraverso l’influsso della poesia dell’ultimo Ottocento. La riformulazione del linguaggio musicale attuata da Debussy, in ossequio alla sua concezione del reale, alla sua adesione al mondo poetico delle 7 corrispondenze e delle liriche sospensioni paesaggistiche della sintassi poetica verlainiana, procede senza contraddizioni: se l’arte deve esprimere il mistero musicale della realtà, in quel mistico corrispondersi delle sensazioni, un’arte così concepita deve sganciarsi necessariamente dalla compostezza parnassiana della sintassi armonica e fraseologica tradizionale. Il linguaggio musicale di Debussy rinuncia alla precisione dei contorni, alla nettezza e riconoscibilità dei timbri puri, alla logica delle concatenazioni armoniche, alla sintassi discorsiva tradizionale, alla metrica scandita: se il mondo è una rete di simboli e di analogie, la maniera per penetrare questa oscurità del tutto e attingere all’Assoluto è una musica completamente nuova, un’arte, come afferma lo stesso Debussy, «fatta di accenni, di misteriose analogie», «che non dice tutto, ma lascia un alone di indeterminato intorno a quanto è stato appena accennato». Diversamente da Debussy, il giovane Ravel non recepì del simbolismo francese le istanze metafisiche della dottrina baudelairiana delle corrispondenze, né fece propria l’ansia di infinito della poesia mallarmeana e simbolista, né, a maggior ragione, poté avere influenza, sul suo disincantato e razionalista modo di vedere, quel senso di un’atmosfera carica di significati simbolici. La sua adesione alla dottrina simbolista fu principalmente indirizzata all’assunzione di alcuni principi poetici, propri di Baudelaire e Mallarmé, ma sganciati dalle idee base che li avevano originati, nonché di alcune idee poetiche di Edga Allan Poe (1809-1849), mediate in Francia dalle traduzioni di Baudelaire. Uno dei principi poetici che Ravel trasse dal clima decadente francese fu,senza dubbio, quello della complementarietà dei linguaggi artistici, sostenuto sia da Baudelaire che da Mallarmé, secondo cui i diversi linguaggi delle arti possono aspirare a descrivere, ognuno con i mezzi propri, un contenuto che di solito attiene ad una diversa forma artistica. Di 8 questi principi Ravel accolse la teoria decadente della fondamentale equivalenza del linguaggio della musica nei confronti di quello visivo pittorico e di quello poetico verbale, «Per conto mio, non esistono arti differenti, ma una soltanto: Musica, pittura e letteratura divergono solamente nei loro mezzi d’espressione. Di conseguenza non vi sono diverse categorie di artisti, ma solo diverse categorie di specialisti» (Ravel in una intervista al “La Petite Gironde” del 1831). Ne deriva che il linguaggio musicale può rispecchiare in sé le immagini della natura o le suggestioni visive di un brano letterario, ed è in base a questo principio che, come si vedrà, Ravel confidò a Jules Renard la sua volontà di esprimere con la musica ciò che il poeta francese era riuscito ad esprimere con le parole, principio che verrà applicato nelle Histoire naturelles. La musica di Ravel è, infatti, inconfondibile proprio perché riproduce quasi costantemente una equivalenza del proprio linguaggio musicale con le immagini. In forza di ciò la sua musica si pone in continuo riferimento con una realtà extra-musicale, assumendosi il compito di evocare eventi narrativi indicati nel titolo (Oiseaux Tristes, Alborada del Gracioso) o addirittura interi brani letterari citati integralmente e riprodotti passo dopo passo nel brano pianistico (come i testi fiabeschi della suite Ma Mère l’Oye da Pollicino alla Bella e la Bestia, o come i poemi in prosa di Aloysius Bertrand trasposti per pianoforte nella raccolta Gaspard de la Nuit del 1908). Altrove la musicalità può, come nelle mélodies vocali, evocare le immagini suggerite dal clima poetico, dal fascino di talune associazioni verbali (come i trionfi esibizionisti del pavone in amore ne Le Paon della Histoire naturelles), o, a contatto con i Trois Poémes de Stéphane Mallarmé, ed è questo l’esito assoluto della valenza decadente di 9 questa poetica, può adeguarsi così strettamente all’ispirazione di un testo da torcere il suono e frammentare il discorso musicale in una estrema allusività ermetica. Questa poetica del rispecchiamento della realtà extramusicale fu alla base di una larga parte della produzione raveliana. Dichiarato o implicito, molto spesso un motivo ispiratore d’ordine letterario-visivo condiziona e organizza intorno a sé l’andamento musicale e, attraverso ciò, acquista una saldezza strutturale, una discorsività che, pur obbedendo a curve di tensione d’impianto tradizionale, riesce a realizzare, con la massima economia di mezzi musicali, il massimo di aderenza all’immagine da riprodurre con naturalistica fedeltà in musica. Ne consegue che la scelta del modello, come si vedrà nelle Histoire naturelle, condizioni immancabilmente il modo stesso di impostare e organizzare la realizzazione musicale. Oltre a questa concezione della capacità della musica di far propri significati extramusicali, concetto espresso da Baudelaire nel saggio sul Tannhäuser wagneriano («sarebbe veramente sorprendente se il suono non potesse suggerire il colore, se i colori non potessero dar l’idea di una melodia»), un’altra componente poetica, di ascendenza decadentistica, si ripercuote sensibilmente sul modo di comporre di Maurice Ravel, ovvero la teoria e la poetica di Stéphane Mallarmé. La giovinezza del compositore francese fu segnata dalla passione per questo poeta, tanto che per comprendere a pieno il suo atteggiamento verso la musica non si può prescinderne. Dal punto di vista dei presupposti poetici, l’influenza di Mallarmé diede impulso alla concezione narrativa, costantemente metaforica, della musica raveliana; ma nel concreto delle premesse sostanziali del modus operandi di Ravel, Mallarmé determinò, con la sua idea evocativa del linguaggio poetico, il rapporto stesso di Ravel con la 10 musica, caratterizzato dalla continua ricerca dell’espressione preziosa, essenziale, pura, di nitore intellettuale. Ravel, che possedeva una facile vena melodica, si costrinse col tempo ad una rigida disciplina formale, per arrivare ad un lirismo più puro, liberato dal fardello dell’immediata espansività. Come Mallarmé ritorna incessantemente sui suoi testi poetici per racchiudere, in un assoluto bisogno di condensazione, le immagini verbali in una sempre più ossessiva quintessenzialità preziosa che evochi suggestioni, altrettanto la musica di Ravel è la continua ricerca di una analoga estrema concentrazione del linguaggio, della purificazione e spoliazione delle forme sonore. Ecco che in opere cameristiche, di ridotte dimensioni e di organico raffinatamente concentrato, il compositore francese arriva ai vertici di un atteggiamento propriamente ermetico che piega le frasi in maniere sfuggenti, cariche di una suggestività ambigua, di minuscoli oggetti sonori immersi in una luce astratta, piena di tensione. Sono questi i vertici supremi dell’inventiva raveliana, dai quali non si può disgiungere il nome di Mallarmé con la sua ricerca dell’espressione essenziale, che lo portò ad allontanarsi dal reale, dal sensibile, elaborando una poesia estremamente allusiva, fatta di accenni misteriosi, di significati lasciati intravedere e subito lasciati cadere. Le analogie si frammentano in cenni e silenzi, in espressioni in cui la sintassi è allentata e infranta, e la parola vibra nella sua purezza, nella sua estrema suggestività: la parola, appunto, si fa ermetica. Nel 1913 Ravel con i Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé, per voce e strumenti, segnò il vertice della sua ispirazione ermetica ed insieme il momento in cui il principio mallarmeano della circolazione dei linguaggi artistici e della concentrazione espressiva venne da lui applicato alla stessa poesia di Mallarmé, portando ad una totale adesione del suono alle immagini e alle movenze del testo. È questa la nascita di un tipo di 11 ermetismo musicale, in cui le immagini letterarie, riprodotte alla lettera in musica, piegano il suono e frammentano il discorso musicale che si fa appunto più velato. Secondo Claudio Casini, è proprio la volontà di rendere in musica la frammentazione artificiosa ed ermetica dei testi di Mallarmé che portò il linguaggio raveliano ad una tensione inaudita, che sfocia quasi nel discioglimento della sintassi tonale, cui invece Ravel, in tutte le altre occasione, si dimostrò legato. Un altro principio poetico sulla teoria della creazione artistica, presente nello spirito del tempo e nel concetto stesso di poesia di Mallarmé, Ravel lo attinge dalle concezioni di Edgar Allan Poe. Parlando della sua poesia The Raven [Il corvo] lo scrittore americano affermò «È mia intenzione palesare che non v’è un unico luogo nel suo processo di composizione che sia da attribuirsi al caso o all’intuizione – che il lavoro vi è stato condotto a piccoli passi sino al suo completamento, con la precisione e la logica serrata che competono a un problema matematico» (Poe in The poetic principle, opera tradotta in Francia da Baudelaire). In opposizione ai concetti romantici di ispirazione e di spontaneità creativa, egli rivendicava le ragioni dell’intelletto, della progettazione cosciente, del controllo razionale dell’espressione, della fatica quotidiana del comporre, in contrasto ad una visione ingenua dell’arte come pura ispirazione, invasamento mistico, furor creativo. Ravel accolse senza riserve questo modo di intendere il processo della creazione artistica: «Il mio maestro di composizione è stato Edgar Allan Poe, per l’analisi che ha fatto alla sua meravigliosa poesia The Raven. Poe mi ha insegnato che la vera arte sta nel raggiungimento del perfetto equilibrio tra intelligenza pura e sentimenti.» (Ravel in una intervista del 1924 al ABC de Madrid). Tale concezione della creatività artistica come puro calcolo razionale, non offuscato da manifestazioni emotive né velato da passioni commosse, bensì molto 12 lucido e acuto, si ripercuote sull’inventiva di Ravel non tanto per annullare qualsiasi valenza emotiva e sentimentale (che in maniera sotterranea è presente) ma per portare il musicista ad una strenua volontà formale, ad un desiderio implacabile di razionalizzare il proprio discorso musicale preordinandone lo sviluppo attraverso il filtro di una logica ferrea. Dalla poetica di Poe, dunque, Ravel estrae la convinzione della necessità della progettazione cosciente, del definire i termini dello sviluppo dell’idea musicale a priori. «Nel mio personale lavoro di composizione, ritengo necessario un lungo periodo di cosciente gestazione; durante quest’intervallo giungo a vedere progressivamente e con precisione crescente la forma e l’evoluzione che l’opera assumerà in seguito nel suo insieme. Posso trovarmi così impegnato per anni senza scrivere una sola nota dell’opera, dopo di che la stesura procede relativamente in fretta. Ma occorre ancora parecchio tempo per eliminare tutto ciò che potrebbe venire considerato superfluo per realizzare con tutta la completezza possibile quella definitiva e tanto desiderata chiarezza» (Conferenza tenuta da Ravel alla Scottish Rite Cathedral di Huston nel 1928). Se, infatti, il lato che si può definire infantile della sua personalità esigeva, per esempio, che ai visitatori fosse preclusa la vista di matite, gomma o carta da musica sul suo pianoforte, resta il fatto che ogni più piccolo atto creativo gli costava una fatica immensa, cosa che spiega assai bene sia il ristretto numero delle sue opere sia la quantità di progetti incompiuti. Per lunghi anni tentò di scrivere una sinfonia, ma finì per rinunciarvi, e non scrisse mai un tema con variazioni, né una composizione per organo o di musica sacra. Questa rigida predeterminazione della struttura segnò il punto di maggior distacco stilistico della musica raveliana dalla libera e fluttuante concezione debussiana della forma. Ernest Ansermet (1883- 13 1969) rievoca un incontro con Debussy nel corso del quale il compositore gli diede una partitura dei Nocturnes fitta di correzioni di ogni tipo. Quando Ansermet gli chiese quali fossero quelle giuste, Debussy rispose «Non lo so più con certezza. Si tratta di possibilità. Quindi, tenete questo spartito e prendetene quel che vi parrà buono». Un atto del genere per Ravel sarebbe stato impensabile, per lui esisteva un unico prodotto finale frutto di un’attività creativa intellettuale. Ma la concezione dell’arte come meditazione e calcolo comporta nella poetica del compositore francese anche l’affermazione netta e decisa del primato della tecnica e del mestiere nella creazione. L’arte è, quindi, un’attività intellettuale oggettiva in cui sull’istintività incontrollata ed espansiva deve prevalere l’abilità dell’artigiano, che ha ragione d’essere nel regno dell’arte, e che si deve sottomettere a una formazione accademica approfondita e rigorosa. Durante la sua giovinezza, infatti, oltre all’analisi di partiture e allo studio dei tradizionali precetti dell’armonia, del contrappunto e dell’orchestrazione, con i suoi compagni di Conservatorio si misurò nella scrittura di fughe a quattro voci, utilizzando le chiavi del soprano, contralto, tenore e basso. Ai suoi occhi ciò era fondamentale per sviluppare le capacità necessarie a risolvere i problemi della composizione. È stato da più parti osservato che gli abbozzi iniziali delle più complesse opere del maestro francese sono costruite, allo stadio più rudimentale, da semplici melodie sovrapposte a dei bassi numerati molto semplici e che spesso la struttura generale dello svolgimento del brano è segnata, prima ancora che si scriva una sola nota, da uno scheletro formale di battute in bianco, debitamente numerate e che aspettano di essere riempite in futuro da svolgimenti, riprese, modulazioni, con quella rigida schematizzazione predisposta cerebralmente a tavolino di cui parlava Poe. Ravel era convinto, anche, che i compositori dovessero 14 apprendere il loro “mestiere” come i pittori, ovvero imitando i buoni modelli. «Se non avete nulla da dire, non c’è niente di meglio, in attesa di tacere del tutto, che ridire ciò che è stato già detto bene. Se avete qualcosa da dire, questo qualcosa non apparirà mai più chiaramente che nella vostra involontaria infedeltà al modello». Questa ultima osservazione si applica perfettamente alla musica di Ravel, in cui del modello iniziale si finisce spesso per perdere le tracce. Ma altrettanto importante era che l’artista avesse qualcosa da dire di nuovo, di non già detto: «Questa necessità di scoperte non si limita alla mia giovinezza – la possiedo ancora. L’ho anche coltivata. A lei devo quel mio perpetuo desiderio di rinnovamento. Io congedo un’opera solo quando ho la certezza che non posso in alcun modo migliorarla ancora. E quello è un momento davvero magico. Ma a quel punto l’abbandono definitivamente» (Articolo su Ravel uscito su La Petite Gironde del 1931). Alla ricerca di una espressione più originale e quindi più strettamente individuale si sovrapponeva in lui la convinzione che l’opera fosse il prodotto della sua eredità nazionale «Le manifestazioni di questi due tipi di coscienza [quella nazionale e quella individuale] in musica possono infrangere o soddisfare ogni regola accademica, ma ciò non ha che mediocre importanza se confrontato con lo scopo reale, e cioè la pienezza e la sincerità dell’espressione. […]non le tradizioni storiche ma quelle che un comune patrimonio ereditario ci fa sentire conformi alla nostra natura» (conferenza tenuta da Ravel alla Scottish Rite Cathedral, Houston, exas, 1928). È chiaro che “la pienezza e la sincerità dell’espressione” di Ravel sono radicate nella tradizione francese. Il critico musicale Michel-Dimitri Calvocoressi (1877-1944) osserva che la sua preferenza per le opere brevi 15 era il frutto di una scelta estetica deliberata e maturata riflettendo, e questa concisione logica è caratteristica dell’arte francese. Tutto questo bagaglio culturale era necessario, secondo Ravel, per il raggiungimento nell’arte della irraggiungibile perfezione tecnica. «Sta di fatto che io mi rifiuto, semplicemente ma recisamente, di confondere la coscienza dell’artista, che è una cosa, con la sua sincerità, che è tutt’altro. La seconda val meno di nulla se la prima non l’aiuta a manifestarsi. Questa coscienza esige che sviluppiamo in noi stessi il buon artigiano. Il mio obiettivo è dunque la perfezione tecnica. Posso aspirarvi senza limite, poiché sono certissimo di non raggiungerla mai. L’importante è avvicinarsi ogni giorno un poco di più. Senza dubbio l’arte può avere altri effetti, ma l’artista – mi piace pensare – non deve avere altro scopo» (Roland-Manuel, Letters de Maurice Ravel et documents inédits, «Revue de musicologie» 38. 1956). Questa aspirazione alla perfezione aveva come scopo il raggiungimento della Bellezza; l’arte di Ravel non aspirava, infatti, né alla passione né alla verità, ma piuttosto alla contemplazione del Bello, grazie alla soddisfazione dello spirito per mezzo del piacere dell’orecchio. Per raggiungere quindi la Bellezza non è necessario tanto la sincerità incontrollata dei sentimenti personali, quanto piuttosto quella abilità da «buon artigiano» nel disporre gli elementi strutturali della composizione nel modo più raffinato e affascinante possibile. «I compositori moderni devono seguire una rotta intermedia tra emozione e intelletto se vogliono creare musica che abbia significato e durata. Poe ha provato che l’arte deve operare una mediazione tra questi due estremi, il primo dei quali conduce alla fragilità della forma, il secondo un’astratta aridità» (Intervista non firmata sul “New York Time” 1928). Ma tale poetica raveliana non nasconde aridità sentimentale, quanto al contrario indica la netta 16 distinzione tra l’ambito della vita intima personale e quello della vita artistica, il cui rapporto non deve funzionare nella direzione tradizionale dal primo termine al secondo: «Un artista non può essere sincero. La menzogna, intesa come potere dell’illusione, è l’unica forma di superiorità che l’uomo abbia sugli animali; e quando rivendica a sé il titolo di arte, è l’unica forma di superiorità che l’artista abbia sugli altri uomini. Chi si concede d’impulso, non fa altro che balbettare. In arte, ogni cosa va meditata a fondo. Massenet, pure così dotato, sperperò il suo talento per un eccessiva sincerità. Egli davvero scrisse tutto quel che gli passava per il capo, con il risultato di ripetere sempre la medesima cosa: quel ch’egli pensava fossero novità erano nient’altro che reminescenze. La verità è che non si riesce mai ad avere abbastanza controllo. Per di più, visto che non possiamo esprimerci senza sfruttare e quindi trasformare le nostre emozioni, non è forse meglio acquisire piena consapevolezza e ammettere che l’arte è l’impostura suprema? Ciò che viene talvolta chiamato la mia insensibilità è semplicemente uno scrupolo di non scrivere qualsiasi cosa.» (intervista a Ravel per La Petite Gironde del 1931) L’arte è, infatti, il luogo privilegiato in cui si svolse la vita di Ravel. Il musicista tanto più si sforzò di isolare il suo mondo emotivo quotidiano dal suo mondo dell’arte, quanto più spinse se stesso a vivere la vita come un’opera d’arte, sublime per eleganza, per raffinatezza, per stile riservatamente mondano. Egli cercò di vivere un’esistenza contrassegnata da preziose esperienze culturali, da prestigiose eleganze, dall’amore per quanto di raffinato, di eccentrico egli poté sperimentare su se stesso. Il suo modello fu il protagonista dell’opera A rebours di Huysmans, un raffinato intellettuale, Des Esseintes, il quale, rifiutando la ridicola mediocrità del mondo contemporaneo, si ritira in una sorta di clausura, popolata di sogni, di profumi esotici e di artificiose bellezze, dove condurre una vita 17 “controcorrente” rispetto a ogni normalità, a cui sarà poi costretto a rinunciare da profondi turbamenti psichici. «[…] A rebours: non posso fare a meno di considerarla un’opera di estrema importanza, anche se so che, con ragione, quell’importanza ha cessato di possederla. Eppure questo giudizio ha ancora per me un sapore di verità. Credo che tutta la mia generazione si sia riconosciuta in A rebours, anche coloro che, come me non hanno amato particolarmente Huysmans» (Ravel in una intervista del 1931 riportata in La Petite Gironde). Sono questi i caratteri del dandismo raveliano che segnano il più evidente contatto di Maurice Ravel con il decadentismo. Ancora una volta l’ombra di Poe presiede a giustificare culturalmente la posizione raveliana: la sua protesta contro l’identificazione di bello, utile e morale e l’affermazione che la verità non è elemento essenziale dell’opera d’arte si ritrovano pienamente in queste parole di Ravel «Credo che nell’arte la sincerità sia il difetto peggiore, perché la sincerità esclude la scelta. L’aspetto più interessante dell’arte è superare le difficoltà.» (Intervista a Ravel della ABC de Madrid 1924). L’arte, dunque, per Ravel si risolverà sempre in una sorta di spazio privilegiato al riparto da turbamenti o da valori estrinseci, luogo assoluto di elaborazione di una bellezza cui solo l’artista, con il suo lavoro sistematico, isolato dalla massa, può giungere vicino. In questa definizione delle valenze decadenti di Ravel acquista valore centrale il concetto di artificio, su cui si fondava la scelta estetica del protagonista di A rebours. Questo concetto, che respira direttamente dell’atmosfera estetizzante del decadentismo, costituisce una delle più sostanziali forme di pensiero estetico e dell’opera di Maurice Ravel, cioè la superiorità dell’arte sulla realtà in quanto ciò che è artificiale ha più valore 18 di ciò che è frutto della spontaneità. Di qui si ritrova anche l’amore per ciò che non è naturale, il fascino del meccanico, di tutto ciò che imita la spontaneità sotto forme fittizie. Ravel, nella sua casa di Montfortl’Amaury, si circondò di mille oggetti al confine tra la curiosità artificiale e il kitsch, come congegni meccanici, orologi, usignoli meccanici, un corteo di piccoli automi, quadri falsi. «Il grande interesse per le imitazioni lo induceva all’acquisto di oggetti di un gusto esecrabile. Tutte le sue amiche, senza eccezione, hanno avuto in dono quelle orribili rose in porcellana dai mille petali articolati, che egli trovava stupefacenti come lavoro di artigianato!» (da Ravel di Hélène Jourdan-Morhange). E anche l’arte di Ravel si configura come anti-realtà, infinitamente più perfetta di quella quotidiana e che resta, attraverso una barriera di artifici, programmaticamente al di là della personalità del musicista e della sua esperienza vitale. Tutte queste componenti si riflettono certamente sul linguaggio musicale di Ravel allontanandolo dallo sfumato trascolorare dei piani sonori della musica di Debussy, per approdare ad una scansione asciutta e nervosa, elegantemente svolta, impreziosita di continue ricerche timbriche, volta, però, ad accentuare i volumi, i contorni, ad evidenziare le nervature sonore. Di fronte al disciogliersi del periodare e dell’armonia debussiana, in cui la ripetizione continua delle tensioni tra dissonanza e consonanza trasforma i rapporti sintattici tradizionali e risolve l’armonia in emozione timbrica, funzionale alla sua concezione simbolista dell’espressione musicale, Ravel mantenne una razionalistica coerenza sintattica del discorso musicale, condotto secondo precise simmetrie compositive, scanditi moduli metrici. Egli guardò con attenzione ai piani 19 strutturali classici, alla partizione retorica del discorso, pur all’interno di una costruzione timbrica e armonica di grande raffinatezza. Ma ad allontanarlo ancora di più dallo stile di Debussy è la concezione armonica: se infatti Debussy scioglie, o per meglio dire allenta, l’armonia dai suoi nodi gerarchici e immerge i suoi accodi in un fluido in cui fluttuano senza urti e senza sottostare alle trascinanti dinamiche armoniche della tradizione; Ravel conserva del linguaggio classico le strutture attrattive fondamentali, che si possono rintracciare in limpidi moti armonici di base inseriti in insolite, preziose dissonanze irrisolte. Qui si configura appunto la tensione continua tra Ravel e la tonalità, la dialettica per cui il musicista si spinse verso i suoi limiti, per tuttavia non oltrepassarli mai. Ma è proprio nella dialettica tra avanguardia e tradizione, sempre presente nel linguaggio musicale raveliano, che si rivela la dimensione da lui assunta all’interno della musica moderna, l’essere, cioè, un musicista in bilico tra l’antico vagheggiato e il nuovo che preme. In questa luce interpretativa l’uomo e l’artista Ravel, i suoi valori, come l’eleganza, la raffinatezza, la concezione suprema dell’arte, il cerebralismo etc., appaiono fortemente imbevuti dello spirito del decadentismo francese. La sua arte, che continuamente cercò di nascondersi dietro l’artificio, dietro espedienti di rallentamento retorico del discorso emotivo, dietro una preziosità di scrittura che vorrebbe allontanare gli spettri di una confessione, si rivela come una sottile filigrana da cui si può intravedere l’intimità dell’artista, involontariamente ma, forse, ancor più distintamente. Questa volontà antiespressiva, antisentimentale, esiste, come si è visto, nelle convinzioni poetiche di Ravel, ma non coinvolge una considerazione sulla aridità spirituale, sulla povertà emotiva del musicista, poiché anche il suo pudore dei sentimenti, il suo riserbo, possono essere letti in una dimensione storica, ovvero come un atteggiamento tipicamente 20 decadente, relativo al rifiuto di compromettersi scendendo dall’arte alla quotidianità e abbassandosi così al livello della massa con l’esibizione dei proprio sentimenti. La sua opera è, quindi, profondamente legata al decadentismo francese nel proprio orientamento, ma anche solidamente fondata sulla pratica tradizionale. Ravel, come ogni significativo artista, ha voluto darsi le proprie leggi creandosi per questo un proprio universo: la raffinatezza parigina, l’umorismo sottile, l’interesse per gli animali e i bambini, il modo intelligente di osservare la natura, tutto ciò si riflette nella sua arte. 4 - HISTOIRES NATURELLES Durante l’autunno del 1906, Maurice Ravel, dopo le Cinq mélodies populaires grecques e Les grands vents venus d’outremer, compose, ancora una volta per voce e pianoforte, le Histoires naturelles. Il testo da cui trasse ispirazione è una galleria di ritratti di animali, fatta di schizzi, di appunti, di istantanee, che per dieci anni (1896-1906) lo scrittore Jules Renard (1864-1910), aveva continuato a perfezionare e ad accrescere di numero, in qualità di «cacciatore d’immagini». In questa veste l’autore, come si legge all’inizio del libro, «Lascia a casa le armi e s’accontenta di aprire gli occhi. Gli occhi gli servono da reti, dove le immagini si imprigionano da sé»; in questa operazione egli è supportato dall’immaginazione, o meglio, «da una rapida associazione mentale tra qualcosa che l’occhio osserva e un’idea, un ricordo di qualche altra cosa completamente diversa ma che rivela una inattesa somiglianza con la cosa 21 osservata», come giustamente ha osservato Italo Calvino. Si tratta, quindi, di una sorta di “album da disegno” fatto di brevi racconti in prosa, rapide storielle di cui qualcuna diventata persino popolare in quanto recitata spesso in pubblico dai vari Lucine Guitry, Charles Cros e Coquelin Cadet; era, infatti, ancora molto in voga in questa epoca la pratica del monologo, un genere inaugurato dai vecchi Cabarets artistici e letterari. Per questi quadretti, di cui una prima serie era già stata pubblicata nel 1896, Renard dichiarò apertamente di aver preso spunto da George-Louis Leclerc conte di Buffon, lo scienziato scrittore, intendente dei Giardini Reali, che, tra il 1748 e il 1779, aveva compilato un’imponente Histoires naturelles, semplice e comprensibile, in polemica con le complesse descrizioni per eruditi usate dal naturalista Linneo. Oltre al titolo, egli mutuò da Buffon anche il linguaggio discorsivo e familiare, in particolare caratterizzato da una affettuosa simpatia per le creature ritratte, tanto da fargli dichiarare: «Io vorrei riuscire gradevole agli animali stessi. Se essi potessero leggere le mie piccole Histoires naturelles, vorrei che esse li facessero sorridere ». Si trattava di animali familiari, fauna domestica o selvatica della campagna francese, dalle galline agli scoiattoli, dall’asino allo scarafaggio, niente di esotico o di straordinario. La creatura meno contadina è, infatti, forse il cigno, che però viene subito reintegrato tra la fauna domestica con la frase «ingrassa come un’oca». Vi è anche un breve intermezzo dedicato al mondo vegetale. In quest’opera Renard ha creato con le immagini un gioco di associazioni e di metafore da cui scaturiscono effetti lirici ed effetti comici, mescolati con sapiente equilibrio, dove l’estrema concisione non sfugge ad un raffinato preziosismo di termini. Una lingua sobria, precisa, evocatrice, che è stata paragonata a quella dei poeti giapponesi. Molti ritratti, infatti, si esauriscono in una semplice frase, densa di poesia e di umorismo, come ad 22 esempio il ragno «Una piccola mano nera e pelosa contratta sopra dei capelli. Tutta notte, in nome della luna, pone i suoi suggelli», o la pulce «Un grano di tabacco con la molla». Le Histoires naturelles, però, non ebbero il successo dell’altra importante opera di Renard Poil de Carotte, esse, tuttavia, trovarono i loro estimatori nella cerchia dei raffinati cultori dello stile più che tra i lettori comuni, tanto che Toulouse Lautrec volle illustrarle e Ravel, appunto, decise di metterle in musica. Egli fu attirato da questi racconti di animali che forse più di altri avevano il potere di commuoverlo permettendogli, allo stesso tempo, di mascherare facilmente i suoi sentimenti: come Renard , infatti, Ravel si compiaceva di occultare i propri stati d’animo dietro lo schermo dell’ironia. Humour, tenerezza, scherno, potevano essere così espressi in una musica dall’aria famigliare che si univa, senza travisarne il senso, al tipico linguaggio di ogni animale, cogliendone, invece, l’essenza con sottile senso di caricatura. Di questi brevi racconti, dalla satira finissima e pur profonda, Ravel scelse per la sua opera solo cinque ritratti: Le Paon, Le Grillon, Le Cygne, Le Martin-pêcheur, La Pintade. Anche se i due artisti si erano già conosciuti ai tempi del gruppo “Les Apaches”, la difficoltà maggiore fu, per il compositore francese, quella di avere l’autorizzazione da parte dello scrittore, cosa non molto semplice essendo Renard un personaggio difficile e scostante, che era meglio avvicinare indirettamente. Fu Thadée Natanson che si incaricò di vederlo e di parlargli del progetto di Ravel. L’incontro avvenne il 19 novembre di quello stesso anno; ecco come lo stesso Renard lo registrò nel suo Journal: «Thadée Natanson mi dice “Un signore vuole mettere in musica qualcuna delle vostre Histoires naturelles. È un musicista d’avanguardia sul quale si conta molto e per il quale Debussy è già diventato una vecchia barba. Che effetto vi fa questo?” “Nessuno”. “Ma vi 23 riguarda, andiamo!” “Per niente”. “Che cosa devo dirgli da parte vostra?” “Quello che vorrete. Ditegli grazie”. “Non desiderate che vi faccia ascoltare la sua musica?” “Ah! no, no”.» (Jules Renard, Journal 18871910, Paris, Gallimard 1971). La singolare affermazione su Debussy fu forse utilizzata da Natanson per compiacere lo scrittore che, a proposito del Pelléas si era espresso in termini estremamente negativi. Comunque, l’ironico cinismo manifestato dallo scrittore di fronte alla richiesta indiretta di Ravel veniva probabilmente dal fatto che il musicista aveva scelto cinque dei suoi poemi in prosa, senza neppure chiedergli un parere. Certo, Ravel non sapeva, né ancora immaginava quale maniaca attenzione Renard avesse per se stesso e per gli altri. Sta di fatto che lo scrittore restò sorpreso non capendo come si potesse pretendere di aggiungere, alla sua perfetta composizione letteraria, cose che arrivano dal “vago” di una sensazione musicale. Non c’è da stupirsi, quindi, se, invitato al concerto per la prima assoluta, con il pretesto di una indisposizione, preferì non andarci. Così annotò il giorno stesso dell’esecuzione, il 12 gennaio 1907 sul Journal: «Ravel, il compositore delle Histoires naturelles “noir, riche et fin”, insiste perché io vada questa sera ad ascoltare le sue melodie . Gli confesso la mia ignoranza e gli chiedo che cosa ha potuto aggiungere alle Histoires naturelles. “La mia intenzione non è quella di aggiungere” egli mi dice “ma di interpretare”. “Ma che rapporto c’è?” “Quello di dire con la musica quello che voi dite con le parole quando siete di fronte a un albero, per esempio. Io penso e sento in musica e vorrei pensare e sentire le stesse cose che pensate e sentite voi. C’è la musica istintiva, sentimentale, la mia–è inteso che prima bisogna conoscere il mestiere–e la musica intellettuale: d’Indy. Non ci saranno altro che dei d’Indy, questa sera. Essi non ammettono l’emozione e questo perché non la vogliono esprimere. Io penso il contrario, ma essi trovano interessante quello che ho fatto, visto che mi 24 accolgono. È importantissima per me questa prova. Ad ogni modo io sono sicuro della mia interprete: è meravigliosa”». Nella frase «vorrei pensare e sentire le stesse cose che pensate e sentite voi» Ravel riflette la sua preoccupazione di assomigliare il più possibile con la musica alla prosa precisa e senza trucchi dell’illustre scrittore, alla sua limpidezza e sobrietà, secondo la teoria della corrispondenza delle arti, esposta nel precedente capitolo. Tuttavia, lo scrittore non tornò sulla sua decisione e alla serata mandò sua moglie e sua figlia, e mai più scrisse di Maurice Ravel delle cinque Histoires naturelles e, soprattutto, non fece mai cenno al memorabile scandalo che scoppiò quella sera. L’esecuzione avvenne nel corso di un concerto ancora una volta organizzato dalla Société Nazionale de Musique. La sala quella sera era colma per l’affluenza dei soci e dei nuovi uditori, al punto che fu necessario aggiungere delle nuove sedie anche sulla pedana. L’interprete dell’opera di Ravel era il soprano Jane Barthori, fedele amica del compositore, sempre pronta ad affrontare nuove sfide, e che tanta parte ebbe nella sua produzione e in quella degli autori francesi contemporanei fino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Al pianoforte, rigido e impassibile, vi era lo stesso Ravel. Presente in sala Vuillermoz scriverà: «La sala era agitata e presentiva la tempesta. Si sapeva che Ravel, ansioso di stingere da vicino l’incisa prosa di Jules Renard, aveva tentato in questo lavoro una specie di rivoluzione prosodica. Aveva voluto conservare a quei brevi testi il tono e il ritmo della conversazione quotidiana e, per alleggerirne la traduzione melodica, in pratica aveva soppresso le sillabe mute alle quali la musica, utilizzando una nota per sillaba, dà eccessivo rilievo sonoro. E così invece di cantare accademicamente “Il appel-le sa fi- 25 an-cée: el-le n’est pas ve-nu-e”, musicava: “Il ap-pel’-sa-fian-cé: ell’-n’est pas-v’nu’. Risparmiava così sei sillabe e, di conseguenza, sei note su sedici. […] I musicisti dei cafés-concerts hanno adottato da molto tempo questa esemplificazione, ma è proprio questo precedente che a molti non piacque. Il pubblico fu infastidito nel vedere un compositore “serio” introdurre nella propria musica, elementi di dizione presi in prestito dalle riviste di music-hall. L’accoglienza fatta a questo delizioso album fu dunque nettamente ostile e, nella sala, si sfiorò la rissa.» Difatti, eseguiti i cinque pezzi, tra il rumoreggiare del pubblico indignato, a stento fu evitata la rissa. Quello che non si riuscì ad evitare fu il grande scandalo, le discussioni, le polemiche, anche se tutto era abbastanza prevedibile, visto che si era ad un concerto organizzato dalla Société Nazionale de Musique, un’istituzione faziosa in un ambiente conservatore. Non venne capita la parte pianistica, giudicata fredda e laboriosa, mera esercitazione di preziosismi armonici. Si rise del canto, del tutto avaro di espansioni liriche, limitato e costretto a disegni melodici brevi, spezzati e aggressivi. Non si accettò il testo ritenuto come il meno adatto a esser musicato e si respinse lo stile, il tono impudente, e soprattutto la prosaicità piatta dei termini che urtò e offese i benpensanti melomani. I più critici sostennero che mai nessun musicista prima di allora si era fatto beffe della musica fino a quel livello. Ascoltando brevi frasi di una banalità a volte raffinata, come, ad esempio, parlando del grillo, «Il rentre chez lui et ferme sa porte», o come, descrivendo il cigno, «Il glisse su le bassin, comme un traîneau blanc, de nuage en nuage», o ancora come, parlando della gallina faraona, «Elle est allée pondre son œuf à la campagne», oppure ascoltando il pianoforte ingegnarsi nell’imitare il verso dei vari animali, il pubblico faticò a trattenere le più grosse risate. Alla fine buona parte dei presenti cominciò a lanciare grida di gioia e a battere le mani, 26 grida e applausi ironici il cui significato, a quanto pare, non fu ben compreso dai due stoici interpreti che, non solo ritornano, ma bissarono La Pintade. Gabriel Faurè, il vecchio maestro di Ravel, rimase profondamente colpito nel vedere che la sala in gran parte si era svuotata dopo l’ascolto delle melodie del suo allievo. Pur dichiarando di amare Ravel confessò al suo amico Luis Aubert «non mi piace che si mettano in musica cose simili». Nonostante ciò Fauré, vista la grande stima per il suo allievo, si dimostrò disponibile a dargli comunque una nuova possibilità, come è testimoniato da Vuillermoz: «Strada facendo egli non mi nascose la sua contrarietà e criticò vivamente questa stupida esperienza. Al termine delle sue argomentazioni, constatando che io non sembravo così scandalizzato come lui, mi disse, con una certa cerimonia “A voi piace questa roba. A voi?...”. Poi, con rispettose precauzioni, tentai una timida difesa delle intenzioni di Ravel… Fauré mi ascoltava con attenzione e io comprendevo bene ch’egli avrebbe desiderato lasciarsi convincere tanta era la stima e l’affetto che nutriva per Ravel, ma il suo cattivo umore era più forte. Tuttavia, quando io presi congedo da lui, sulla soglia di casa, mi disse “Dopo tutto forse avete ragione. Non bisogna fidarsi della prima impressione. Dite a Ravel di venire domani da me a risuonarmi il pezzo, così che io non commetta un’ingiustizia” ». Sicuramente fu uno scandalo, ma più che di scandalo si può parlare di un successo trionfale duramente contrastato, visto che la cronaca racconta di un vero e proprio delirio di entusiasti che invadono si la pedana per felicitarsi con il compositore, ma facendosi largo tra fischi, insulti, risate. E la polemica continuò anche fuori dalla sala di concerto. L’esecuzione delle Histoire naturelles portò, infatti, alla nascita di due opposti schieramenti che, in parte, condizionarono l’evoluzione della 27 musica e della società del XX secolo. Tra i più critici si fece avanti l’idea che Ravel avesse voluto prendersi gioco del pubblico, o addirittura che avesse smarrito la propria vena artistica. Charles Koechlin, vecchio compagno di Ravel nella scuola di Fauré, e suo strenuo difensore, ricordò che parte del pubblico si indignò come se gli avessero voluto fare uno scherzo di cattivo gusto, non gradendo soprattutto lo humor, giudicandolo assolutamente privo di senso musicale. All’opposto, tra i giudizi positivi quello di Lous Laloy fu un autentico inno a Ravel. Sulle pagine del «Mercur musical et Bullettin Française de la S.I.M.» egli scrisse: «Perché noi abbiamo avuto qui, più che in qualsiasi altro lavoro di Maurice Ravel, la rivelazione di un artista della specie più raffinata, maestro oggi dello stile e in possesso di un talento unico nel suo genere, un genere squisito». I toni entusiastici di questo articolo scatenarono la reazione della Scola cantorum che vide nell’arte di Ravel un autentico insulto alla propria dignità. Laloy in risposta cercò di definire meglio la sua posizione affermando, in un successivo articolo, la sua ammirazione per Ravel che egli arriva a definire «un musicista umorista». L’articolo, tuttavia, fece da miccia a quello che può essere considerato un vero e proprio dissenso di Debussy nei confronti di Ravel. In una lettera indirizzata a Laloy, Debussy, parlando di Ravel disse «Ma, detto tra noi: credete sinceramente alla musica “umoristica”? Prima di tutto, è una cosa che in sé non esiste; le occorrerà sempre l’occasione: sia quello di un testo, sia quella di una particolare situazione… Due accordi, coi piedi per aria, o in qualche altra posizione scomoda, non saranno per forza “Umoristici” e non potranno diventarlo se non in modo empirico. Sono d’accordo con voi nel riconoscere che Ravel è straordinariamente dotato, ma quel che mi irrita è il suo atteggiamento di “prestigiatore”, o meglio da fachiro incantatore, che fa nascere fiori intorno a una sedia…Disgraziatamente un gioco di prestigio va sempre preparato, e 28 può stupire soltanto una volta!»; e a proposito delle Histoires naturelles in una lettera a Jacques Durand, che gli aveva inviato l’edizione del lavoro, così le descrive: «Caro amico, grazie per le Histoires naturelles che mi sembrano tuttavia eccessivamente bizzarre. Sono artificiose chimeriche, un po’ come la casa di uno stregone. Comunque sia, Le cygne è una musica davvero graziosa». Siamo quindi agli inizi di una gelosia denigratoria che portò, sempre più i due artisti ad allontanarsi l’uno dall’altro. Tuttavia, lo scontro tra i critici e sostenitori non rappresenterebbe nulla di nuovo e originale, se anche in questo caso si fosse limitato ad esprimere la diversità dei pareri, il semplice confronto tra opinioni opposte. Questa volta, però, si è di fronte ad un’intolleranza reciproca tra due schieramenti, fra un’accademia invecchiata, arroccata in difesa di preconcetti di comodo oltre che di valori musicali storicamente sorpassati, e una giovane generazione che spinge per la creazione di una società più viva e più nuova, di cui Ravel fu uno dei rappresentanti di punta. Ma passiamo a parlare, in senso più strettamente musicologico, di questo ciclo di cinque mélodies per meglio comprendere le innovazioni in esse apportate da Ravel. La prima cosa che risulta piuttosto atipica nelle Histoires naturelles è la scelta di avvalersi di un supporto letterario inconsueto come la prosa, cosa che indignò molto, come abbiamo visto, il pubblico dell’epoca, «Già da tempo il linguaggio diretto e chiaro, la poesia intima e profonda dei brani di Jules Renard stimolavano la mia immaginazione. Il testo stesso, poi, m’imponeva una declamazione legata in modo particolarmente stretto alle inflessioni della parlata francese». La prosa sembrava sconveniente nel genere della mélodie, dove Fauré aveva raggiunto i vertici del lirismo ispirandosi ai testi della poesia francese più recente; essa, tuttavia, venne giustificata nell’opera di Debussy Pelléas et Mélisande solo grazie alla sua destinazione al teatro e alle 29 vistose nuances adottate da Maeterlinck. Le sole mélodies importanti che facevano eccezione erano Elégie di Berlioz ed Elégie di Duparc, composte rispettivamente nel 1830 e nel 1874, sullo stesso testo di prosa, tradotto, di Thomas Moore. In questo caso però si trattava di due opere che rientravano nella varietà di mélodies importate dalla scena drammatica secondo il modello inaugurato ai tempi di Spontini; il tono teatrale implicito nell’addio dell’eroe irlandese Robert Emmet, condannato a morte, consentiva l’eccezione, che era d’altra parte relativa, in quanto sia Berlioz che Duparc non avevano introdotto nella prosodia le radicali novità di Histoires naturelles, limitandosi a una stroficità imposta alla prosa dagli usuali schemi del recitativo operistico e della melodia tradizionale. La provocazione più grave, da parte di Ravel, fu non soltanto di aver fatto ricorso alla prosa, ma proprio nell’utilizzo del linguaggio disadorno con il quale Renard aveva imitato l’esposizione classificatoria dell’opera di Buffon. Ciò implicava una deliberata volontà distruttiva del canto, che portò a un trattamento della voce senz’altro antitradizionale, che rifuggiva da ogni concessione al lirismo e che evitava con cura di assegnare un ruolo semplicemente melodico alla voce. Questo tipo di declamato non può neanche essere accostato a quello debussiano del Pelléas cui pare raffrontabile «per la stretta attinenza con il testo parlato e per la curvatura degli intervalli» poiché «se ne differenzia per un maggior senso di chiarezza e di precisione ritmica e melodica. Inoltre, mentre nel Pelléas canto e orchestra si integrano e si fondono in stagnante atmosfera, nelle Histoires naturelles la voce ha una linea inconfondibile in netto rilievo alla parte pianistica» (L. La Pegna). «La voce» scrive Mantelli nel suo articolo in L’Approdo musicale del 1958 «non canta ma dice le parole del testo sulla base dell’intonazione e del ritmo». In tutta l’opera, infatti, c’è la tendenza a definire le immagini del testo nelle parti tradizionalmente 30 riservate all’accompagnamento, piuttosto che nelle ormai esili possibilità del canto trasformato in un declamato. Il pianoforte rende trascurabile così il rilievo strofico della melodia intonata dalla voce, e finisce per rendere superflua la presenza della rima e della strofa ed anche del verso. Al di fuori dell’opera di Ravel, questa tendenza si ritrova, ad esempio, nelle mélodies di Fauré, benché vi manchi la contestuale equivalenza della musica con la poesia (come detto nel capitolo su la mélodie francese). Fauré riproduceva il clima della poesia, mentre Ravel ne ricercava, concretamente, le metafore, per calarle nella musica. Le Histoires naturelles rappresentano così il decisivo ribaltamento delle convenzioni: al canto viene sottratta la funzione di interpretare il significato del testo e la parte vocale viene ridotta ad enunciare immagini destinate ad essere sviluppate dal pianoforte nella pienezza delle sue facoltà timbriche, armoniche e anche melodiche. Il soprano Jane Bathori affermò infatti: «Spesso si altera l’intenzione del musicista, cercando di imitare, più o meno efficacemente, gli animali. Ravel sta osservando… e del resto, anche Renard osserva; quindi, anche il cantante deve raccontare i poemi di Renard da “osservatore”. La mimica non deve superare i limiti di una certa riservatezza.». Qui il capovolgimento dei compiti fra gli elementi della mélodie, che ne trasforma profondamente la natura, segue una sua logica. Ravel oppone alla tradizione un realismo impeccabile, restituendo alla parola la sua qualità comune, di mezzo di comunicazione, come si legge in Une esquisse autobiographique de Maurice Ravel: «Le Histoires naturelles mi hanno preparato alla composizione del Heure espagnole, una commedia lirica di cui Franc-Nohain scrisse il libretto, anch’essa una sorta di conversazione in musica». In questo modo affidò la raffigurazione alla musica pura attribuendole, come punto di partenza, il descrittivismo che era già molto diffuso nella letteratura musicale ottocentesca, e che era stata una 31 costante nella tradizione francese. Questi elementi modificano l’assetto della mélodie e le relazioni che intercorrono tra parola e musica, ma permettono altresì al canto di liberarsi dal suo valore ottocentesco, per affacciarsi alle novità del Novecento. Ravel, inoltre, ridusse al minimo l’intervento della personalità creatrice, dando l’illusione di una perfetta oggettività e cancellando il lirismo dal luogo nel quale era stato posto dalla tradizione. Una volta delimitati i campi della parola e della musica, alla prima spetta il compito di inserirsi come elemento semantico e non, quindi, della sua rappresentazione nel corso della composizione, favorendo, di conseguenza, la relazione apparentemente immediata fra la materia letteraria e l’invenzione musicale. A tutto questo bisogna anche aggiungere che la prosodia musicale segue le leggi della lingua parlata e, come nelle canzonette eseguite nei vari caffè concerto, rispetta la e muta e le elisioni. Su questo punto Ravel era particolarmente insistente come è testimoniato dalla violinista Hélène Jourdan-Morange nella sua biografia sul compositore francese: «Jane Bathori aveva immediatamente afferrato la straordinaria novità contenuta in queste liriche. Ravel gliele fece studiare minuziosamente, insistendo soprattutto perché non pronunciasse le vocali “mute”. Bisogna dimenticare che si sta cantando – le diceva – la dizione deve trascinare la musica», e sempre la Jourdan-Morange ricorda che «Ravel non si preoccupava che della declamazione». La presenza di questo recitativo impone una certa mobilità delle immagini musicali, per tenere dietro alla rapidità con la quale procede la narrazione, generando così un andamento frammentario che già si era delineato con Shéhérasade in Asie. Anche l’uso dei singoli elementi della costruzione musicale, appare qui molto complesso e diversificato. Nelle Histoires naturelles è ancora evidente l’uso di armonie tonali, ma della tonalità è rimasto solo il colore grazie ad accordi di settima 32 e nona di varie specie, colorati da continue appoggiature e note di passaggio. Nelle Histoires Ravel poté sfruttare, in questo modo, la natura realistica, quasi onomatopeica, delle idee musicali integrandole fra loro in repentine contaminazioni stimolate dal racconto. L’incrociarsi di rapporti così complessi si traduce in una penetrante esplorazione timbrica, ottenuta con fratture della sintassi musicale, provocate da una quasi automatica realizzazione del tema letterario lasciato allo stato di comunicazione, per i minimi livelli melodici consentiti al recitativo. Questo automatismo, in realtà, è solo illusorio, poiché, come ci fa notare Casini, tra il significato dei testi in Renard e la loro attuazione musicale, Ravel insinua associazioni di idee che appartengono alla sua vita intima, in contraddizione con la volontà di far scomparire ogni elemento appartenete alla sfera personale del compositore. I suoi gusti musicali, infatti, servono a mediare la rappresentazione degli animali: in questo modo si ottiene che la descrizione del grillo e della faraona rispondano ai richiami adoperati comunemente dai clavicembalisti, come il cucù e il chiocciare stilizzati; che il pavone, immaginato come un vanitoso cortigiano, evochi a sua volta il ritmo pomposo dell’entrée nei Ballets de cour secenteschi, e il cigno corrisponda alla scorrevole e imperscrutabile asimmetria delle ornamentazioni alla Chopin. Tutte queste citazioni si perdono, però, nell’episodio del MartinPêcheur, in cui si manifesta una vertiginosa impassibilità e dove la personalità creatrice si perde in ciò che si può definire letteralmente ineffabile, ovvero non esprimibile attraverso la razionalizzazione del linguaggio. 33