LUDWIG van BEETHOVEN – OUVERTURE “CORIOLANO” OP. 62 – Allegro con brio Recensendo, al principio del nuovo anno, il concerto beethoveniano tenuto a dicembre del 1807, il cronista della Allgemeine Musikalische Zeitung riferiva di aver assistito all’esecuzione di «una nuova Ouverture di questo compositore (che si suppone sia stato ingaggiato in termini molto vantaggiosi dal teatro)» e che essa «è piena di forza e fuoco; è stata creata, secondo il suo titolo, per il Coriolan di Collin». Al cronista l’ouverture Coriolano risultava “nuova”, ma in realtà era già stata eseguita diretta da Beethoven stesso - in due accademie private, tenutesi nel marzo del 1807 presso il palazzo del principe Lobkowitz a Vienna, unitamente all’esecuzione delle prime quattro sinfonie, di un concerto per pianoforte e di alcune arie dal “Fidelio” di Beethoven, come si apprende leggendo la notizia apparsa ad aprile di quell’anno sul Journal des Luxus und der Moden. La Tragedia “Coriolan”, scritta da Heinrich Joseph von Collin, aveva debuttato cinque anni prima, il 24 novembre 1802, con musiche di scena tratte ed adattate da Idomeneo di Mozart. Protagonista ne era divenuto l’attore Joseph Lange (che di Mozart fu cognato) e, sino al 1805, numerose erano state le repliche. In quanto funzionario del Ministero delle Finanze, ed in particolare in veste di segretario del Teatro di Corte, von Collin intrattenne con Beethoven rapporti sia burocratici che artistici, legami che si dilungarono in vari progetti artistici poi mai realizzati. La stesura dell’ouverture dovrebbe essere legata alla rimessa in scena, il 24 aprile 1807, della tragedia “Coriolan”, ma non ci sono tuttavia stati tramandati schizzi o altri reperti a testimonianza della sua genesi e di una effettiva esecuzione in concomitanza di tale prima ripresa. L’Ouverture si apre con il celebre inizio di quattordici battute, nelle quali ai do tenuti degli archi si contrappongono gli accordi dell’orchestra tutta ed il silenzio. È una introduzione al dipanarsi di quanto segue: una forma-sonata con due temi, uno in do minore vigoroso e forte, l’altro in mi bemolle maggiore di natura lirica e melodiosa. Essi, secondo una lettura in consonanza con la vicenda di Gneo Marcio Coriolano, dimostratosi eccezionalmente valoroso durante la conquista della città di Corioli nel 493 a.c. (da cui il nome Coriolano), rappresenterebbero il primo lo stato di tormento psicologico in cui vive il romano ed il secondo le di lui madre e moglie che lo implorano di non combattere contro Roma, la patria che lo ha deluso. La sezione dello Sviluppo rielabora gli spunti offerti sino alla Ripresa, quando riecheggiano gli accordi introduttivi e si risentono i due temi, questa volta in si minore e do maggiore. FRANZ JOSEPH HAYDN – CONCERTO IN MI BEMOLLE MAGGIORE PER TROMBA ED ORCHESTRA Hob: VIIe:1 Allegro – Andante – Finale. Allegro Nel 1796, con il concerto in mi bemolle Hob:VIIe:1 di Haydn, venne in uso un tipo di tromba con fori sul canneggio chiudibili mediante chiavi. La “tromba a chiavi” venne utilizzata al principio dell’Ottocento ed autori quali Hummel o Bellini la utilizzarono nelle loro composizioni, senza tuttavia imporla veramente all’attenzione europea. La ricerca di miglioramenti, di diverse soluzioni tecniche da applicare allo strumento era sempre costante e, alla fine, l’invenzione del pistone fu il meccanismo che risultò vincente. L’idea concepita da Anton Weisinger di utilizzare delle chiavi per chiudere i fori aveva, tuttavia, il grande vantaggio di mettere l’esecutore in condizione di poter suonare abbastanza agilmente una scala cromatica di più di due ottave, azione sino a quel momento praticamente impossibile. La strada per giungere allo strumento funzionante fu lunga e Weisingere non fu pronto ad eseguire il Concerto di Haydn con la sua organisierte Trompete sino al marzo del 1800. Il Concerto prende avvio, in modo abbastanza consueto, con una lunga introduzione affidata all’orchestra, nella quale fanno tuttavia capolino delle note del solista quasi servissero a “scaldare” lo strumento. All’entrare del solista la tromba propone note che potevano essere eseguite anche sulla tromba naturale, per poi introdurre quella che era la caratteristica della nuova tromba: il cromatismo. Una novità che avrà certamente stupito gli ascoltatori e che, unita ad una classica scrittura brillante per tromba, dava adito a Weisinger di sfoggiare la propria abilità di esecutore. Il tema annunciato nell’introduzione dell’orchestra viene ora presentato dal solista e la presenza di una seconda idea melodica fornisce a questo primo movimento una struttura di forma-sonata. I temi sono elaborati nello Sviluppo, principalmente il primo, per poi ricomparire nella successiva Ripresa. Il secondo movimento, Andante, si struttura in una forma tripartita, con una melodia che, l’anno successivo, diverrà l’inno austriaco ed, in seguito, quello tedesco. Nella breve parte centrale gli immancabili cromatismi conducono ad una riproposizione del tema iniziale. Nell’Allegro finale, in forma di rondò-sonata, sono i violini ad iniziare il discorso musicale recando il tema principale in mi bemolle maggiore (quello che ritorna più volte), cui segue una seconda idea melodica sempre nel tono d’impianto. L’ingresso del solista fa risuonare il tema iniziale e, dopo una piccola transizione, ritroviamo l’idea melodica secondaria, questa volta in si bem. maggiore. Dopo gli immancabili cromatismi, nuovamente il solista fa riudire il tema, cui segue un momento di elaborazione degli spunti melodici, sfociante poi in una ripresa del tema primo e della seconda idea. Una coda chiude questo movimento dal carattere assai brillante. JEAN-BAPTISTE ARBAN – IL CARNEVALE DI VENEZIA Una delle forme più usuali che permette di evidenziare le doti virtuosistiche di uno strumento o di un esecutore è sempre stato rappresentato dalla tecnica della variazione su di un tema o brano celebre. Arban fu un virtuoso ed anche contribuì alla ricerca di nuove soluzioni tecniche che migliorassero il suo strumento: la cornetta. Nel 1864 - lo stesso anno in cui assunse l’incarico di insegnante di flicorno al Conservatorio di Parigi - Arban scrisse un pezzo per cornetta e banda, ricordandosi dei suoi trascorsi di suonatore nella banda della Marina Militare Francese: una serie di variazioni sul tema de “Il carnevale di Venezia”. Grande virtuoso, in grado di stupire il pubblico dei suoi concerti, sia i suoi colleghi artisti e docenti di conservatorio, Arban concepì una parte solistica ricca di staccati, veloci ribattuti, ampi salti, scalette, cromatismi. Dopo la presentazione del tema da parte del solista, le quattro variazioni scritte, con le loro difficoltà, richiedono non solo perizia e controllo della tecnica, ma anche doti di espressività, rendendo il brano di ardua esecuzione. BEDRICH SMETANA – LA MOLDAVA Bambino dotato, Bedric (o Friedrich alla tedesca, come usava lui stesso) Smetana era nato in un ambiente famigliare semplice, ma musicofilo: il padre dirigeva una distilleria di birra ed amava suonare il violino nelle riunioni con gli amici; «Quando raggiunsi il quarto anno d’età - ricordava il compositore - mio padre mi insegnò l’arte della musica. Al quinto anno andai a scuola e imparai così anche il violino e il pianoforte». Trasferitosi in seguito a Praga, ebbe modo di sviluppare i suoi studi ed inserirsi nella vita musicale europea e colta della capitale. La sua fu una vita segnata dalla morte dei figli, da quella della prima moglie, da una incipiente sordità giovanile e si concluse con la perdita della ragione e la dipartita in un luogo di cura mentale. Smetana fu un animo sensibile al punto da tenere un diario e quando si ritrovò in Svezia per motivi di lavoro soffrì di nostalgia per la sua terra. Una volta tornato in patria, questi sentimenti diedero vita ad una ricerca espressiva di gioia e ottimismo e si concretizzarono in una scrittura chiara e lineare. Nel 1874 si accinse a scrivere i primi due poemi sinfonici di quei sei che compongono Má Vlast (La mia Patria): il secondo è Vltava (Moldava), dedicato al fiume che attraversa maestoso la città di Praga. Il poema, iniziato il 20 Novembre e terminato l’8 Dicembre del 1874, venne eseguito a Zofin il 4 Aprile del successivo anno. È il compositore stesso, nella prefazione dell’edizione, a descrivere il suo intento: «Due sorgenti nascono nell’ombra della foresta Boema: una è calda l’altra è fredda; i due ruscelli si uniscono e brillano ai primi raggi del sole. Dai ruscelli si forma così il grande fiume Moldava che diventa grandissimo, scorre attraverso fitti boschi raccogliendo gli echi delle battute di caccia. Il viaggio continua attraverso pascoli e pianure, si avvicina a un villaggio e assiste a canti, danze, balli e giochi nuziali. Nella notte le ninfe dei boschi e delle acque giocano frastagliandole fra le onde luccicanti al chiaro di luna. La scena cambia quando il fiume si apre con forza la strada fra le rocce di S.Giovanni, formando gorghi vorticosi e rapide, per poi precipitare in una cascata. Infine torna a scorrere nel suo letto divenuto ancora più grande e si dirige con maestosa calma verso Praga. Qui, passando, saluta l’antico castello di Vyserhad e continua il suo cammino perdendosi in lontananza». Visioni poetiche che si concretizzano sonoramente. Ecco dunque, all’inizio del brano, le sorgenti della Moldava descritte da due flauti, con un tema cui poi si uniscono clarinetti e viole, nonché gli altri archi, a formare il grande fiume con il suo tema principe; ecco i corni a ricordare la caccia, punteggiati da trombe e tromboni; il ritmo di danza che indica la festa di nozze; uno sfumare del suono che conduce al riecheggiare dell’andamento melodico iniziale dei due flauti, mentre sotto si crea la melodia del chiaro di luna con l’arpa e si evoca un danzare di ninfe. Ritorna allora il tema della Moldava, che, con un brusco cambio armonico, ci preannuncia il sopraggiungere delle rapide; poi tutto diviene maestoso al giungere nella pianura che conduce alla città, al castello. MAURICE RAVEL – BOLERO Nel 1928 Ida Rubinštejn – ballerina di origine russa, una protagonista di quel vivace momento artistico che animava Parigi al principio del Novecento, musa ispiratrice di vari artisti, basti citare il binomio D’Annunzio/Debussy de Le martyre de Saint Sebastien – chiese a Ravel di comporre per lei un nuovo balletto. Ravel si orientò verso il mondo spagnolo e, dopo aver abbandonato l’idea di orchestrare la composizione per pianoforte Iberia di Albeniz, concepì un brano «senza una forma vera e propria, senza uno sviluppo e praticamente senza modulazioni: un tema, del ritmo e l’orchestra», scrisse Ravel al pianista Joaquín Nin nel 1928. L’ambientazione “spagnoleggiante” fu garantita dall’impiego del ritmo di una danza proveniente dalle Americhe, divenuta di moda a partire dalla metà del Settecento: il Bolero. Rispetto all’originario ritmo di danza, Ravel ne modificò lievemente l’andamento, eliminando anche l’incipit in levare, ma mantenendone il carattere ripetitivo. In tal modo plasmato il ritmo risultante fu posto a fondamento di una grande edificio sonoro che, iniziando con un solo strumento, termina con la massa sonora di una grande orchestra. L’inconsueto inizio del brano è costituito dal ritmo di bolero articolato in due battute ripetute due volte ed affidato al solo tamburo, che verrà riproposto uguale sino alla fine e che serve, ogni volta, da trait d’union al ripresentarsi del tema. Il primo strumento ad inserirsi sopra tale tappeto ritmico è il flauto ed è lui che propone all’ascolto il primo dei due temi che si ripeteranno simili passando da uno strumento all’altro nel corso del brano. Tale “passare” tra i vari strumenti che compongono la ricchissima orchestra della composizione contribuisce a creare quel senso di “lievitazione”, di crescendo della massa sonora che si realizza non solo attraverso l’aggiungersi man mano dei vari strumenti, ma anche con il presentare il tema in più strumenti contemporaneamente, prima all’unisono e poi in raddoppio in ottava ed il via via irrobustire lo scheletro armonico. Come disse lo stesso Ravel in un’intervista del 1931: il Bolero «rappresenta un’esperienza che va in una direzione particolare e limitata. Alla prima esecuzione avevo avvertito che avevo scritto un pezzo che dura 17 minuti, consistente interamente di un tessuto orchestrale senza musica, in un lungo crescendo progressivo. Non ci sono contrasti e praticamente non c’è invenzione ad eccezione del modo di esecuzione. I temi sono impersonali, melodie popolari tipo arabo-spagnole. E la scrittura orchestrale è semplice e diretta, senza il minimo tentativo di virtuosismo». La sensazione che si riceve dall’ascolto di questa atmosfera ripetitiva, ipnotica, ossessiva, a tratti pesante, che rimanda a qualche cosa di quasi primordiale, si accentua nel momento in cui si assiste al balletto, che oggigiorno viene eseguito nella versione coreografata da Maurice Bejart nel 1961. ELENA CERANINI