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«Io non voglio farmi i fatti miei. Voglio reagire»
La lotta di Pina Maisano Grassi, l’esempio del marito
Libero Grassi e la svolta antiracket di Addiopizzo, Libero Futuro
e della Confindustria siciliana
Libero di nome e di fatto. Libero per sempre, fino alla
morte. Era un uomo che credeva profondamente nella democrazia, Libero Grassi, nel rispetto delle regole, nella libertà, anche di impresa, a cui teneva moltissimo, lui che di
mestiere faceva proprio l’imprenditore da più di quarant’anni. Fu ucciso sotto casa. Colpito alle spalle il mattino del 29
agosto 1991.
Libero Grassi fu ucciso perché era solo nella sua battaglia
contro il racket. Né i suoi colleghi, né tanto meno Confindustria l’avevano appoggiato nella sua scelta di denunciare e
di non pagare i mafiosi. Anzi, lo avevano osteggiato, isolato,
additato come l’unico che aveva compiuto quel passo. Aveva
esagerato. Accanto a lui c’era soltanto la sua famiglia, sua
moglie Pina e i figli Davide e Alice, insieme a un gruppo di
amici.
Meglio tardi che mai: tredici anni dopo, a Palermo, è nato il comitato Addiopizzo, e sedici anni dopo la prima associazione antiracket di commercianti e imprenditori che, per
rendere onore a Libero Grassi, si chiama Libero futuro. La
Confindustria siciliana, su iniziativa del presidente Ivan Lo
Bello, ha varato un codice etico che prevede l’espulsione degli associati che pagano il pizzo. Fino al settembre 2008, a
un anno dalla svolta antiracket senza precedenti, sono una
quarantina gli imprenditori cacciati.
Come i suoi colleghi Giuseppe Catanzaro, Antonello
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Montante, Marco Venturi e altri imprenditori che si sono
ribellati al racket, Lo Bello vive sotto scorta.
Andrea Vecchio a Catania e Rodolfo Guaiana a Palermo
hanno visto in fiamme le loro attività per ritorsione.
La storica Antica Focacceria S. Francesco di Palermo è tutelata dai carabinieri e il proprietario Vincenzo Conticello è
sotto scorta per non aver pagato il pizzo e per aver testimoniato al processo contro i suoi estorsori.
Il presente e il passato si mescolano e forse senza la lotta,
senza il sacrificio di Libero Grassi questo presente non potrebbe esserci.
Presidente onorario di Libero futuro è Pina Maisano
Grassi, che per raccontarmi della battaglia di suo marito, di
quello che sta accadendo da pochi anni a Palermo mi riceve
nel suo studio. Pareti bianche e tende blu, dal balcone si vede un piccolo giardino, una palma che mitiga il sole.
Sulla libreria alcune targhe: quella del IX premio Rocco
Chinnici al comitato Addiopizzo del 5 novembre 2005 e
quella dell’Ande, Associazione donne elettrici, donata il 14
dicembre 2007 a Palermo con questa motivazione: «A Pina
Grassi che nell’ambito della sua attività politica e sociale ha
svolto con costanza e coraggio un ruolo determinante nella
difficile lotta contro il racket e la criminalità organizzata».
Pina comincia a parlarmi dei primi anni di Libero Grassi:
«Libero è nato a Catania il 19 luglio 1924. Il 10 giugno era
stato ucciso Giacomo Matteotti e lo zio anarchico, Peppino,
chiese di mettere al bambino il nome di Libero per ricordare
il sacrificio di Matteotti per la libertà e la democrazia. Con
la sua famiglia rimase a Catania fino a otto anni, poi si trasferì a Palermo. Ma con Catania rimase sempre un legame.
In inverno andavamo a sciare sull’Etna con i nostri figli e in
estate trascorrevamo periodi di vacanza in campagna da nostri amici.
«Durante la guerra Libero con la sua famiglia, come altri
sfollati, andò a Roma. Finita la guerra, insieme al fratello
pensarono di creare in Lombardia una fabbrica di filati per
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cucire. Nel 1951 Libero e suo fratello tornarono a Palermo e
fondarono la Mima (Manifattura italiana maglierie affini):
producevano lingerie da donna. Negli anni Sessanta però
mio marito e suo fratello si divisero, Libero fondò la Sigma,
specializzata in pigiameria maschile, mentre il fratello si dedicò al commercio. La fabbrica con il tempo e l’inventiva di
Libero si ingrandì, quando fu ucciso aveva cento maestranze, quasi tutte donne, e un fatturato di sette miliardi di lire.
La Sigma esportava all’estero, anche a New York e a Hong
Kong».
Nei primi anni di vita della fabbrica non c’erano mai state richieste di pizzo. Su questo Pina Grassi fa un’ipotesi: «Fino alla fine degli anni Ottanta non avevamo mai ricevuto richieste di soldi. La sede fino ad allora si trovava nei vecchi
locali delle ceramiche Florio in via Dante dove c’era anche
la vetreria di Tommaso Buscetta [il boss diventato il primo
pentito eccellente, nda] e forse la sua presenza, senza che lo
volessimo, senza che avessimo alcun contatto, ci preservava.
Poi la fabbrica si è ingrandita e si è trasferita in via Thaon di
Revel, alle falde di Monte Pellegrino e lì la mafia si è materializzata.
«La prima volta arrivarono dei finti ispettori sanitari, ci
dissero che volevano controllare le strutture. Invece erano
mafiosi che volevano rendersi conto di quanto fosse florida
l’azienda. Poi vennero altri uomini a chiedere sessanta milioni di lire. Mio marito naturalmente non glieli diede e denunciò la richiesta alla polizia. La conseguenza fu che rubarono le buste paga delle operaie, per sessanta milioni di lire.
Anche quella volta Libero regolarmente andò in commissariato a denunciare. Mio marito diede anche le chiavi della
fabbrica alla polizia per aprire e chiudere la Sigma; per tutelare i dipendenti, la fabbrica.
«Nel frattempo erano cominciate le telefonate di minacce
sul posto di lavoro e a casa: “Stai attento a tuo figlio, all’azienda, alla famiglia”. Una volta, d’accordo con la polizia, mio
marito finse di voler dare un acconto della tangente attra-
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verso mio figlio Davide in un determinato luogo. Davide
andò seguito dalla polizia ma nessuno si presentò all’appuntamento. Avevano mangiato la foglia».
Pina Grassi ha sempre condiviso la scelta del marito.
«Io sapevo tutto quello che stava succedendo e ho appoggiato da subito Libero. Noi ci siamo innamorati, sposati, per
la condivisione di princìpi per noi irrinunciabili: la dignità,
la libertà, la democrazia, la cultura. E poi c’è da dire che non
pensavamo di rischiare la vita. Pensavamo a una ritorsione
contro la fabbrica. Mio marito aveva messo in conto un incendio doloso alla Sigma, il furto dei camion, ma non la ritorsione fisica. Era più preoccupato chi ci stava intorno: un
amico avvocato, per esempio, gli disse di non parcheggiare
sotto casa, di guardarsi le spalle perché le minacce continuavano.
«Sequestrarono il nostro cane meticcio, Dick, e dopo oltre un mese ce l’hanno fatto ritrovare pelle e ossa davanti al
cancello della fabbrica. Loro speravano che morisse davanti
ai nostri occhi, come segnale estremo. Invece noi il buon
Dick siamo riusciti a salvarlo.»
Lo sguardo di Pina si offusca, sta ricordando l’ultimo anno di vita di suo marito, la sua battaglia solitaria: «Nel corso
del ’91 aveva cercato la collaborazione di altri industriali,
ma per tutta risposta il presidente di Confindustria disse che
non gli risultava che gli industriali pagassero il pizzo. A Libero capitò che persone conosciute da anni si voltassero dall’altra parte quando lo incontravano per strada. Avvenne anche che nella sede di un circolo borghese palermitano dei
giornalisti intervistassero alcuni personaggi importanti per
la società e per l’economia locale. I cronisti chiesero loro un
commento su un omicidio, non ricordo quale. Ebbene, ottennero come risposta, nel 1990, che la mafia non esisteva,
che era un’invenzione dei giornalisti.»
Invece Libero Grassi lo grida che la mafia esiste e che lui
non si piega. Dopo aver ricevuto una telefonata da un fantomatico «geometra Anzalone» in cui gli viene detto che se
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non fossero arrivati i soldi sarebbero cominciati i «bombardamenti, i colpi di pistola, i fuochi d’artificio», scrive una
lettera al «Giornale di Sicilia» che squassa la città, che fa il
giro d’Italia e del mondo. È il 10 gennaio 1991.
Per Cosa nostra è una provocazione inaccettabile, che va
punita con il sangue. Per la prima volta un imprenditore siciliano affronta pubblicamente i mafiosi, dice chiaro e tondo
che non li pagherà:
Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi
e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito
questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere [...] Se paghiamo i cinquanta milioni poi torneranno
alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo
detto no al «geometra Anzalone» e diremo di no a tutti quelli come lui [...] Anche mio figlio Davide, che dirige l’azienda al mio
fianco, la pensa come me [...] Mi dispiace per gli altri amici imprenditori che pagano e stanno zitti: io voglio reagire.
Il prefetto Mario Jovine e il questore Fernando Masone si
fanno fotografare mentre stringono la mano a Libero Grassi
che rifiuta una scorta personale. Accetta invece la vigilanza
della polizia davanti alla fabbrica. Riceve anche telegrammi
e fax di solidarietà.
Ma Libero Grassi non riceve l’unico atto di solidarietà che
forse gli avrebbe salvato la vita: l’adesione alla sua scelta della Confindustria di Palermo. Peggio ancora, il presidente
Salvatore Cozzo, democristiano della corrente di Salvo Lima, prende le distanze da lui pubblicamente, con la solita litania ipocrita che non si può infangare il buon nome della
Sicilia, che Libero Grassi ha scatenato una «tammurriata»,
che non si può descrivere l’isola come una terra dove a causa
della criminalità l’impresa non può crescere.
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La polizia intanto, grazie alle denunce di Libero Grassi,
identifica e arresta gli estorsori che avevano ricevuto denaro
da molti altri commercianti e imprenditori palermitani, tutti silenziosi. Il 19 marzo 1991 manda in carcere i fratelli
Gaetano e Antonio Avitabile, alias «geometra Anzalone», insieme ad altri quattro uomini del clan capeggiato da Francesco Madonia.
Quel giorno sul quotidiano «L’Ora» Libero Grassi commenta gli arresti:
Non sono dei superman [...] fornendo alla polizia tutti gli elementi di cui si è in possesso si passa in vantaggio, non si rimane
nel piano inferiore del timore [...] I rapporti di forza tra uno che
ti deve sparare e tu che non hai paura evidentemente si capovolgono. Non ritengo ci voglia particolare coraggio. È questione di
un ragionamento a favore dei propri interessi: pagando si va
contro se stessi [...] per mia cultura non vendo parte di me stesso al criminale.
Il 28 marzo del 1991 dall’altro lato dell’isola, a Catania, il
giudice Luigi Russo emette una sentenza che indigna Libero
Grassi ma che non lo fa retrocedere di un passo dalla sua decisione di non cedere al ricatto mafioso.
Russo assolve i cavalieri del lavoro dall’accusa di concorso
in associazione mafiosa: in sostanza giustifica i loro rapporti
con il boss Santapaola e il versamento di tangenti al clan sostenendo che hanno agito, come gli altri imprenditori siciliani che pagano, in stato di necessità. Quindi non sono punibili anche se taluni loro comportamenti sono stati censurabili moralmente e se c’è stato il reato di favoreggiamento,
caduto però in prescrizione.
Davanti a una platea di studenti, Libero Grassi esprime la
sua rabbia:
La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania, Luigi
Russo, che ha stabilito che non è reato pagare la protezione ai
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boss mafiosi è sconvolgente [...] Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso della scarcerazione
dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli imprenditori un vero e
proprio modello di comportamento: pagate i mafiosi. E quelli
che come me invece cercano di ribellarsi?1
Libero Grassi è sempre più consapevole di essere un bersaglio di Cosa nostra, resta però sempre convinto che non rischia la vita, ma l’impresa. Ancora una volta cerca di non restare isolato, lancia un ultimatum all’associazione degli industriali: se non avesse preso una posizione chiara contro il
pizzo si sarebbe dimesso.
Non ci sarà mai nessuna chiarezza da parte dell’associazione di categoria, che creerà il vuoto attorno a Grassi. L’imprenditore è costretto persino a chiedere alla Sicilcassa un
rimborso perché l’istituto di credito aveva applicato a un finanziamento per la ristrutturazione della Sigma il 6 per cento in più di interessi rispetto a quanto previsto.
La ribellione dell’imprenditore siciliano viene raccontata
l’11 aprile 1991 a Samarcanda, trasmissione di Rai3 dai grandi ascolti. È il giornalista Sandro Ruotolo che chiede a Libero Grassi di andare in studio. Grassi accetta e rilascia a Michele Santoro un’intervista appassionata, lucida, senza alcun
tentennamento. A proposito del ruolo della politica, dice:
Chi dovrebbe combattere la mafia? La legge. E chi fa la legge? I
politici [...] Se i politici avranno ottenuto il consenso onestamente faranno buone leggi, altrimenti le faranno cattive. E chi
procura il consenso, in Sicilia, ai politici? La mafia...2
1
M. Cecchini, P. Vasconi, S. Vettranio, a cura di, Estorti & riciclati.
“Libro bianco” della Confesercenti su riutilizzo del denaro proveniente da
attività criminose, Franco Angeli, Milano 1992.
2
Michele Santoro, Oltre Samarcanda, Sperling & Kupfer, Milano
1981. Marcello Ravveduto, Libero Grassi, storia di un siciliano normale, Ediesse, Roma, 1997.
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Spiegò così la sua scelta di non pagare:
Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i
mafiosi.3
Cosa nostra viene sfidata davanti a milioni di italiani. L’imprenditore si immagina che davanti alla televisione ci fossero anche i mafiosi. Ricorda sua moglie: «Libero mi disse:
“Chissà che lavata di testa gli hanno fatto al geometra Anzalone...”».
La solitudine di Libero Grassi appare in tutta la sua evidente pericolosità il 4 maggio 1991 quando la Federazione
dei Verdi (di cui Pina Grassi era la portavoce a Palermo) organizza un convegno nella sala consiliare del Comune dal titolo «Tranquillità ambientale e sviluppo economico», con
Libero Grassi, Umberto Santino, presidente del Centro di
documentazione Peppino Impastato, Giuseppe Albanese,
presidente provinciale dell’Associazione piccole imprese,
Gianni Lanzinger, deputato verde e membro della Commissione parlamentare antimafia, Vincenzo Fazio, direttore dell’Istituto di Economia della facoltà di Economia e commercio di Palermo, Costantino Garraffa, segretario provinciale
di Confesercenti, Giovanni Salatiello, imprenditore, e il
giornalista del «Corriere della Sera» Felice Cavallaro.
«Quel convegno lo organizzammo anche perché qualche
giorno prima davanti al Comune avevano manifestato disoccupati con dei cartelli dove c’era scritto che la mafia dà
lavoro – racconta Pina Grassi. Furono invitate duemila persone, ne arrivarono venti. Non abbiamo avuto più alcun
dubbio: eravamo soli.»
A introdurre quella tavola rotonda fu proprio Pina Grassi:
«Noi ci battiamo per ripristinare un’armonia tra l’uomo e la
3
Michele Santoro, Oltre Samarcanda, op. cit.; Marcello Ravveduto,
Libero Grassi, storia di un siciliano normale, op. cit.
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natura che non può prescindere da una condizione di vita che
consenta al lavoratore di lavorare, ai cittadini di essere liberi
dalle continue pressioni che portano inevitabilmente a un decadimento della qualità della vita. Noi crediamo che non ci
possa essere sviluppo senza una “tranquillità ambientale”».
Degli interventi di quel convegno che furono pubblicati
durante la breve esistenza dell’Osservatorio Libero Grassi,
chiuso per problemi di fondi, voglio riportare passi del discorso del rappresentante dei piccoli imprenditori palermitani,
Giuseppe Albanese. Il suo pensiero oggi non verrebbe espresso così sfacciatamente, credo. Quello di cui sono convinta
però è che questo pensiero appartiene ancora oggi a troppi industriali del Sud e del Nord che in Meridione pagano il pizzo.
Perché se è vero che non siamo all’anno zero nella lotta al
racket, se è vero che sono stati compiuti passi importanti, è
anche vero che tanti imprenditori e commercianti nel loro bilancio di spese mettono anche la tangente alla mafia.
Secondo l’ultimo rapporto della Confesercenti del novembre 2008 la «Mafia Spa» si conferma come la prima
azienda italiana, con 130 miliardi di euro di fatturato in un
anno. Sempre secondo lo stesso rapporto, ogni giorno 250
milioni di euro passano dai conti di imprenditori e commercianti a quelli della criminalità organizzata.
«Perché parlare sempre di mafia e non sentire mai da
quando siamo qui, che ci sono altri problemi? – disse accorato Giuseppe Albanese. Perché si deve accettare che sia giusto solo parlare dei casi in cui qualcuno riceve “attenzioni”,
qualche fabbrica o qualche macchina salta in aria, mentre
invece nessuno dice niente se le banche fanno chiudere le
fabbriche? [...] Cos’è più grave, se la mia fabbrica salta con il
tritolo o dover sottostare all’angheria, se ricorro a una banca, di pagare di più di quello che pagano gli altri in altri posti d’Italia? [...] Questa è mafia, se l’impresa che si organizza
non riesce a trovare lavoro; se non è mafia questa, che cos’è
mafia?»
Rispose Libero Grassi: «Ma la collusione con le imprese
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mafiose distorce il compito dell’imprenditoria sana, perché
essere collusi con le imprese mafiose non consente di svolgere una parte attiva nella società, di costruzione insieme di
sviluppo e di civiltà [...] Bisogna trovare una soluzione, ma
per questo occorre concretezza, non fare difese a oltranza,
perché, contrariamente al professor Albanese, io credo nei
giornalisti, perché sono stati uccisi per le nostre battaglie. Il
professor Albanese non dimenticherà: Fava di Catania, Mario Francese di Palermo, sono testimoni della verità».
In un’intervista del numero maggio-giungo 1991 della rivista «Argomenti» Libero Grassi parla della sua solitudine:
Non è accaduto niente nemmeno a livello nazionale. Nei giorni
della mia denuncia è arrivato in Sicilia il direttore di Confindustria che, per coprire la posizione di timidezza e di prudenza di
alcuni miei colleghi, ha avuto la sfortuna di rilasciare una dichiarazione quasi comica. Grosso modo ha detto infatti che la
mafia non tocca l’industria, semmai a volte il commercio. Ma lo
ha detto proprio mentre il magistrato Luigi Russo depositava la
clamorosa e discussa ordinanza di assoluzione dei cavalieri del
lavoro [...] È necessaria una svolta [...] e non sono il solo. C’è
l’ingegner Salatiello che, però, da un imprenditore si è sentito
rimproverare perché è meglio pagare, in quanto «se tutti pagano, si paga meno» ma questa è un’aberrazione [...] Ho messo nel
conto ulteriori intimidazioni. Sono arrivate. Ma non credo che
passeranno alle armi. A loro non conviene il clamore. Spero che
non convenga. La polizia sarebbe costretta a intervenire.
E l’accusa di protagonismo?
Ma che strano esibizionista [...] Un esibizionista che fino a sessantasette anni aveva mantenuto l’incognito.
Arriva l’estate, Alice Grassi, la figlia di Libero, si sposa. Va in
viaggio di nozze in Spagna ed è lì che la sua vacanza d’amore si trasforma in un incubo. La rintraccia l’Interpol per dirle che suo padre è stato ucciso.
«Erano le 7.30 del mattino – ricorda Pina Grassi. Era un
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giovedì. Mio marito uscì di casa per andare alla Sigma e organizzare la riapertura postferie. Invece all’angolo di casa gli
spararono alle spalle cinque colpi di pistola. Io l’avevo accompagnato in ascensore per un saluto e per riprendere una
nostra precedente discussione su una pianta del terrazzo. Lui
si era lamentato perché l’avevo potata e io gli feci notare che
invece la potatura le aveva fatto bene. Tutta orgogliosa gli dissi: “Hai visto che la pervinca sta rigettando i fiori?”. Lui sorrise. Furono le nostre ultime parole. Poco dopo sentii i colpi
di pistola ma non pensai che fossero per mio marito. In quegli anni sentire gli spari a Palermo era normale. Al citofono
qualcuno però mi chiese se mio marito fosse in casa e in quell’istante capii, mi precipitai nell’androne e mi bloccai. Non
volli vedere Libero morto, d’istinto non volli vedere come lo
avevano ridotto e sono contenta di non averlo fatto.»
È durissimo ricordare quel giorno, Pina Grassi per alcuni
momenti cambia discorso, mi parla del suo rapporto con il
marito, degli anni felici della sua famiglia: «Ci siamo sposati
nel 1956, siamo rimasti insieme per trentacinque anni. Siamo stati una coppia litigiosa per il carattere forte di entrambi, ma salda. Quando a unirti, come nel nostro caso, ci sono
i princìpi, il legame è indissolubile. Eravamo partecipi della
vita sociale della città, eravamo stati entrambi radicali, Marco Pannella, Adele Faccio, Emma Bonino li frequentavamo
molto. La nostra casa, che abbiamo costruito a nostra immagine, era sempre piena di ospiti. I nostri figli l’hanno
sempre invasa di amici. Spesso la via sotto casa era un tappeto di motorini degli amici di Alice e Davide.
«La casa l’ho progettata io che sono architetto e che non
ho potuto fare l’urbanista perché ai tempi del sacco di Palermo era impossibile. Palermo di Ciancimino e Lima diventò
da conca d’oro, perché c’erano gli agrumeti, una conca di
cemento».
Torniamo all’orribile 29 agosto: «Io rimasi impietrita dal
dolore, con la testa fra le mani. Chiamai mio figlio Davide.
Toccò a lui vedere Libero... steso per terra».
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Il funerale laico, perché così avrebbe voluto Libero Grassi, si celebrò all’arrivo dalla Spagna della figlia Alice: «Mia figlia mi disse una frase che esprimeva tutto il suo dolore e la
sua rabbia: “Questa è una città che non merita bambini”.
Per cinque anni mantenne fede a quanto detto. Poi però, per
fortuna, è nato Alfredo Libero. Più che un nome, un aggettivo, come diceva il nonno, che non ha potuto conoscere il
suo unico nipote».
Il giorno del funerale non potrò mai dimenticarlo, come
tanti italiani. Ancora una volta dovevo raccontare per Radio
Popolare la cronaca di un morto ammazzato dalla mafia trasformato suo malgrado in eroe dalla solitudine istituzionale
e sociale in cui era stato cacciato. Mi ritrovai, cercando di
imprimere nella mia mente ogni particolare, vicino a Davide Grassi che con una mano faceva il segno di vittoria, mentre portava insieme ad altri la bara di suo padre sulle spalle.
Ricordo alcuni commercianti di Capo D’Orlando, in testa
Tano Grasso, che allora aveva costituito l’Acio, la prima associazione antiracket che denunciò gli estorsori e ottenne le
loro condanne.
Sul luogo dove Libero Grassi è stato ucciso, in via D’Annunzio, angolo via Alfieri, un foglio con la scritta voluta dalla famiglia che ha rifiutato la lapide ufficiale: «Qui è stato
assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso,
ucciso dalla mafia, dall’omertà, dall’Associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti e dall’indifferenza dello
Stato».
Lo Stato, in ritardo come sempre, solo dopo l’omicidio di
Libero Grassi agisce. Il governo vara un decreto legge, il decreto Grassi, che garantisce un risarcimento del danno economico subito per imprenditori e commercianti che denunciano gli estorsori.
Michele Santoro, che il giorno dell’omicidio si trovava all’estero, apprende della morte di Libero Grassi leggendo i
giornali su un aereo che lo stava riportando a Roma. È scosso, vuole fare assolutamente qualcosa. Telefona a Maurizio
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Costanzo, insieme riescono a convincere i vertici di Rai e Fininvest a organizzare per il 26 settembre una staffetta televisiva contro la mafia e per Libero Grassi.
Dal Teatro Biondo di Palermo, dove sedici anni dopo
verrà inaugurata l’associazione Libero futuro, trasmette Michele Santoro e dal Parioli di Roma, Maurizio Costanzo. Tra
gli ospiti, Giovanni Falcone, l’avvocato Alfredo Galasso,
Claudio Fava.
La trasmissione, nonostante ci sia stata da neppure un
mese un’altra vittima innocente di mafia, scatenerà polemiche strumentali contro «i malati di protagonismo dell’antimafia». La famiglia Grassi fa una scelta di riserbo, non va
in televisione, ma invia un ricordo videoregistrato di Alice.
La figlia dell’imprenditore ucciso legge una poesia di Apollinaire, La partenza, «che è sempre stata la nostra poesia,
perché quando ero piccola leggevo sempre le poesie di
Apollinaire e la versione di La partenza che reciterò è la sua
versione, è una sua versione dal testo in francese. A mio
padre: La partenza – I loro visi pallidi i loro singhiozzi si
erano spezzati come la neve sui puri petali come i miei baci sulle tue mani cadevano le foglie d’autunno. – Da Alice,
Davide e mamma».
Il killer di Libero Grassi, Salvatore Madonia, è in carcere.
La seconda sezione penale della Corte di Cassazione il 18
aprile del 2008 ha confermato l’ergastolo. Pena definitiva
anche per altri ventisette boss tra cui Totò Riina, Bernardo
Provenzano, Raffaele Ganci. Il processo riguarda gli oltre
mille omicidi che hanno insanguinato Palermo tra l’81 e il
’91. Amaro paradosso: lo Stato, poiché risultano nullatenenti, dovrà pagare l’avvocato che ha difeso Antonino e Giuseppe Madonia, fratelli di Salvatore e figli del defunto capomafia Francesco Madonia.
Pina Grassi esprime un legittimo desiderio: «Ho sempre
creduto nella giustizia, la sentenza finale è arrivata, ora mi
aspetto che i killer paghino fino in fondo la loro pena per
aver ucciso mio marito e per aver commesso innumerevoli
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altri crimini. Non voglio che escano dal carcere. Sono relativamente soddisfatta che abbiano l’ergastolo, soddisfatta razionalmente per l’epilogo logico della giustizia, ma non
emotivamente perché Libero non c’è più. Togliendo la vita a
Libero, la mafia ha punito mio marito e ha danneggiato la
società».
Nel pronunciare queste parole comincia a ricordare i mesi, gli anni dopo la scomparsa del marito: «La Sigma era Libero, che ne aveva fatto un’azienda pura, senza contributi
pubblici, molto personalizzata. Dopo la sua morte per noi ci
fu un forte sbandamento. L’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti insieme a Marco Pannella fece intervenire la
Gepi che rilevò la Sigma lasciando alla nostra famiglia il 5
per cento. I manager statali riuscirono però in tre anni ad
accumulare tre miliardi di lire di debiti.
«Davide e Alice non volevano assistere allo sfacelo dell’azienda che aveva fondato il padre, e andarono via dalla Sigma.
La Gepi continuò a fare disastri, fece quello che hanno fatto
i tanti manager dell’Alitalia. La Sigma fallì. Mia figlia Alice
si mise a fare l’architetto, Davide diventò un dipendente della Regione.
«Dieci anni dopo abbiamo avuto il risarcimento dello Stato
in base alla legge Libero Grassi. Davide ha riaperto la Sigma
anche se in piccolo. Con quindici maestranze produce sempre pigiameria maschile e ha riacquistato la vecchia clientela
italiana. La sede è in via Crocerossa, in uno stabile sequestrato a un mafioso e con un’amministrazione controllata.
L’inaugurazione è avvenuta il 29 agosto 2001. Mia figlia Alice ha fondato la Spi, Strategie e progetti di impresa. Io ho
chiuso il negozio di tessile d’arredo che avevo in affitto in
via Cavour e nella stessa sede della Spi, dove stiamo parlando, ho il mio studio con il campionario tessile».
Dopo la morte di Libero, l’impegno sociale che già faceva
parte della vita di Pina Grassi diventa impegno in Parlamento: «Per me, per Libero e per i miei figli l’impegno nella società è stato scontato, nei contesti in cui ci troviamo cerchia-
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mo di non vivere con la testa nella sabbia. Dopo la morte di
Libero, Francesco Rutelli, all’epoca leader dei Verdi, che avevo conosciuto al Partito radicale, insistette perché io mi candidassi alle elezioni. I miei figli erano dubbiosi ma poi dissero di sì a patto che non mi candidassi in Sicilia, per evitare
strumentalizzazioni. Mi presentai per il Senato a Torino nel
collegio Fiat Mirafiori e fui eletta. Era il 1992, XI legislatura.
«Noi Verdi eravamo solo in quattro a Palazzo Madama,
ognuno di noi doveva seguire tre commissioni. A me toccò
far parte anche della giunta per le autorizzazioni a procedere. Un compito delicato, estremamente interessante perché
abbiamo dovuto affrontare la richiesta della Procura di Palermo di autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio
Andreotti. Ricordando questa vicenda io amo dire che il suo
processo è stato celebrato per il mio assenso dato che i sì
hanno vinto solo per un voto».
Pina Grassi vuole aprire una parentesi su Andreotti: «L’ho
sempre considerato un personaggio negativo, gli attribuisco
molti guai dell’Italia. Leggere gli atti dell’inchiesta mi dilaniava perché è in Sicilia che ha fatto più danni. Soprattutto
a Palermo con i suoi rappresentanti Lima e Ciancimino.
Quando in giunta mi ritrovai Andreotti davanti mi ricordai
di mia figlia che da bambina insieme a una sua amichetta
metteva in imbarazzo un bambino guardandolo negli occhi.
Io feci come mia figlia, guardai Andreotti negli occhi e gli
dissi che non poteva non sapere che Vito Ciancimino e Salvo Lima fossero complici della mafia e che lavorando con
loro lavorava anche lui per la mafia. Andreotti alla fine della
seduta passò davanti al mio banco e mi disse: “Quando tutto questo sarà finito, le dirò”».
E vi siete parlati alla fine del processo?
«Dopo la parziale assoluzione gli ho scritto una lettera:
“Si ricorda che doveva rispondermi?”. Lo ha fatto, in maniera molto formale. Mi ha ricordato, come fa sempre, che lui
fu il fautore della prima legge antimafia alla fine degli anni
Ottanta. Infatti, dico io, secondo una sentenza definitiva
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Andreotti è stato garante della mafia fino all’80 ma non è
stato possibile perseguirlo per la prescrizione del reato.»
Per Pina Grassi l’esperienza parlamentare sia pur breve è
stata importante: «Partecipare ai lavori del Parlamento è di
un interesse straordinario, soprattutto per il lavoro alle commissioni dove si creano le leggi. Ti senti una cittadina attiva
che può incidere, se onesta, positivamente alla crescita del
Paese. Io ho messo in quell’esperienza il massimo della passione, lavoravo dalle 8.30 del mattino alle 9 di sera. Ai ragazzi dico: se avete voglia di fare carriera politica intesa come servizio, fatela. È il massimo».
Nonostante questo convincimento Pina Grassi è rimasta
in Parlamento solo due anni e mezzo e non si è più ricandidata, è tornata all’impegno della società civile.
«Non volevo un ruolo nella federazione dei Verdi, volevo
stare fuori dai giochi della Segreteria e quindi non mi sembrava giusto togliere la possibilità di un seggio a chi ne faceva parte. Per me si era conclusa quell’esperienza, volevo tornare a Palermo e al mio lavoro.
«È importante fare politica avendo un altro lavoro, altrimenti si possono fare carte false per essere eletto. Dopo la fine del mio mandato al Senato ho continuato a essere attenta
al sociale, non mi sono mai fatta i fatti miei. C’è un modo
di dire in siciliano che non mi piace affatto: “S’avissi a fari”,
questa cosa si dovrebbe fare, senza un soggetto, un tempo,
un luogo. Invece la responsabilità personale è importante.»
Durante la tua esperienza parlamentare ci sono state le
stragi di Capaci e via D’Amelio a Palermo, quelle di Firenze
e Milano, il fallito attentato a Maurizio Costanzo a Roma.
Pensi che abbiano segnato l’inizio della fine di Cosa nostra?
«Me lo auguro. Dipenderà molto dalla classe politica, dalla magistratura e dalle forze di polizia – che mi sembra stiano lavorando bene in molti casi –, dalla società civile. Certo
è che l’omicidio di Libero e soprattutto l’uccisione di Falcone e Borsellino, le bombe del 1993, sono stati un boomerang per la mafia. Ma per favore, per favore, non trattiamo
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queste vittime come eroi. Mi ribello a questa operazione che
altro non è che un lavarsi la coscienza e non assumersi alcuna responsabilità.»
Pina Grassi continua, come ama dire, a non farsi i fatti
suoi e lavora anche con Libera.
«Appena si è costituita mi sono offerta di collaborare con
Libera perché credevo molto nella battaglia per ottenere la
legge sull’uso sociale dei beni confiscati. Per Libera ci sono
sempre e ogni volta che posso contribuire, corro. Vado nelle
scuole, partecipo sempre al 21 marzo.
«Il tempo fa dimenticare e giornate come queste sono importantissime per esplicitare il ricordo, per fare in modo che
non si dimentichi. La valanga di notizie che abbiamo dalla
tv, da internet, dai giornali, fa digerire qualsiasi fatto. Ormai
accade che persino una notizia del giorno prima venga dimenticata anche se per chi la subisce è la cosa più importante del mondo. Quindi se io non faccio qualcosa è inevitabile
che si dimentichi. Questa consapevolezza è stata la motivazione principale della mia scelta di fare testimonianza, di
raccontare la storia di Libero. E non voglio ricordare la storia personale di Libero Grassi o la storia della nostra famiglia, voglio ricordare il fatto collettivo.
«Ritengo che avere in mente quanto successo a mio marito sia indicativo della cattiva gestione della Cosa pubblica
da parte di chi ci governa, e ciò interessa i miei figli, i miei
nipoti, le generazioni presenti e future. Non voglio che Libero sia un’icona fine a se stessa, ma che possa essere da
esempio per il comportamento di una persona nei confronti
della società che le sta attorno.»
A proposito di nipoti, Pina Grassi ne ha «adottati» un bel
po’. Sono i ragazzi del comitato Addiopizzo, nato a Palermo
nel 2004. A dire il vero sono stati questi ragazzi a presentarsi da lei: «“Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo
senza dignità.” Una mattina vedo questa scritta in giro per
la città, su dei manifesti. Lì per lì non ho ben capito. Dopo
qualche ora mi telefona una giornalista e mi chiede notizie
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in merito, ma io non sapevo nulla. Le risposi semplicemente: “Se fossero dei giovani potrebbero essere miei nipoti perché la pensano come me”.
«L’indomani vedo spuntare nel mio negozio tre ragazzi
che dicono: “Noi siamo i tuoi nipoti”. Da quel momento
sono la loro nonna, ringiovanita di vent’anni grazie a loro, al
loro straordinario impegno. Finalmente dopo tredici anni
qualcuno ha recepito il messaggio di Libero: dignità e libertà, queste due parole sono il suo autentico pensiero. La
frase dei ragazzi di Addiopizzo è straordinaria perché non
colpevolizza l’individuo ma l’intero popolo che deve riconquistare la propria libertà personale.
«Insieme abbiamo cominciato una rivoluzione culturale
straordinaria, fondamentale. Perché soltanto da un’elaborazione culturale può nascere un movimento che in questo caso non accenna a fermarsi ma sta cambiando pian piano la
maniera di pensare della gente. Bisogna offrire strumenti
culturali alla gente, è l’ignoranza una delle maggiore iatture.
Bisogna sapere che nei quartieri popolari di Palermo c’è il
30 per cento di evasione scolastica e chi non ha nemmeno le
basi culturali difficilmente può avere il senso critico. Guardare la televisione e assumere per buono tutto quello di deleterio che propone».
Il comitato Addiopizzo nasce dalla ribellione di sette ragazzi alla sola idea di dover pagare la mafia. Una sera si sono riuniti per progettare l’apertura di un pub e mentre discutevano si sono chiesti cosa avrebbero fatto se si fosse presentato un mafioso per riscuotere il pizzo. L’insofferenza a
essere succubi, a essere schiavi, che avevano maturato dopo
la morte di Libero, dopo le stragi, ha fatto loro elaborare
l’indignazione pubblica che è diventata molto concreta.
Hanno affisso quei manifesti, hanno cominciato a girare
per negozi e convinto sempre più commercianti ad aderire,
a far parte della catena di esercizi «pizzo free», con tanto di
bollino esposto.
«All’origine di questa iniziativa – spiega Pina Grassi – c’è
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il manifesto del “consumo critico”. Chi lo condivide, assume la consapevolezza che comprando nei negozi che pagano
il pizzo, involontariamente contribuisce al pagamento del
racket, anche se in misura minima. Questo manifesto lo
hanno firmato oltre diecimila persone. Inoltre il comitato
Addiopizzo stampa dei vademecum con l’elenco degli imprenditori che aderiscono a «pizzo free», che vengono privilegiati dai consumatori critici nelle loro scelte d’acquisto. È
uno straordinario pressing culturale che sta dando i suoi
frutti.
«Adesso i “ragazzi” di Addiopizzo hanno un’età che oscilla
tra i diciassette e i cinquant’anni. Io sono diventata il presidente del comitato, che prende le decisioni a maggioranza
durante le assemblee. Ci riuniamo ogni martedì sera e accogliamo i commercianti e gli imprenditori che vogliono aderire. C’è naturalmente una scrupolosa selezione perché il rischio dell’infiltrato della mafia è sempre in agguato. Prendiamo le nostre precauzioni, le nostre informazioni con gli
inquirenti e finora è filato tutto liscio. Per esempio all’ultima riunione si sono presentate cinque persone: un imprenditore edile che ha pagato il pizzo ma poi ha denunciato,
una giovane donna che fa veli da sposa e che ha ricevuto
strane telefonate, un ragazzo che nell’agrigentino produce
formaggi di capra e un giovane che possiede un cabinato a
vela. Questi ultimi sono venuti nonostante non abbiano mai
subito richieste estorsive, vogliono aderire al comitato semplicemente per prevenirle. Dopo i nostri attenti controlli li
abbiamo inseriti nel libretto degli esercenti “pizzo free”. Secondo i dati di maggio 2008 sono quasi trecento coloro che
hanno aderito ma penso che arriveremo presto a quattrocento. Non siamo la maggioranza, me ne rendo conto, ma
sono fiduciosa che il processo sia inarrestabile.»
Il 10 novembre 2007 nasce anche la prima associazione antiracket di imprenditori e commercianti, Libero futuro. Dall’omicidio di Libero Grassi ne sono nate in diverse città d’Ita-
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lia, ma mai a Palermo. La paura, l’omertà, la collusione sono
state granitiche, ma granitica è stata anche la volontà di chi
ha voluto continuare la battaglia civile di Libero Grassi, di
chi non ha voluto rendere inutile la sua morte, di chi ha voluto vanificare l’obiettivo che hanno anche i mafiosi: colpirne uno per educarne cento.
Gli occhi color del mare di Pina Grassi risplendono ricordando quel giorno al Teatro Biondo di Palermo: «Ero seduta
in prima fila e mi guardavo intorno. Vedevo il teatro riempirsi fino all’inverosimile. Sono rimasta senza fiato, volevo urlare di gioia. Ho pensato che sarebbe stato meraviglioso avere
Libero accanto, perché stava succedendo quello che avrebbe
voluto. Ho pensato a quando abbiamo organizzato quel convegno nel ’91 e c’era il deserto. Penso sempre a Libero».
Per il vergognoso comportamento di Confindustria nei
confronti di Libero Grassi, isolato da vivo e rinnegato da
morto, al Teatro Biondo è stato il suo nuovo presidente,
Ivan Lo Bello, a chiedere pubblicamente scusa: «Fu una pagina buia dell’imprenditoria siciliana. Oggi le cose sono
cambiate e gli imprenditori non hanno più alibi per non denunciare il pizzo».
Ricorda Pina Grassi: «Ivan Lo Bello mi ha raccontato che
quando fu ucciso mio marito si vergognò e promise a se stesso che se avesse avuto una funzione pubblica sarebbe stato
dalla parte di Libero Grassi. Così ha fatto da presidente di
Confindustria con la scelta coraggiosa, epocale come dice
Tano Grasso, di varare un codice etico che prevede l’espulsione degli associati che pagano il pizzo e non denunciano.
Lui come altri suoi colleghi sono costretti a vivere scortati,
ma adesso chi vuole denunciare ce la può fare, non è solo
come lo eravamo noi».
Alla presentazione di Libero futuro ci sono i vertici di
Confindustria, diversi imprenditori, commercianti. Ci sono
i magistrati, il questore, il prefetto. Non c’è il sindaco, Diego Cammarata, non c’è Roberto Helg, presidente di Confcommercio.
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È Vittorio Greco, a nome di Addiopizzo, che apre gli interventi con un discorso che è uno straordinario insieme di
etica, progettualità politica, critica non certo fine a se stessa.
Qualcuno potrebbe considerarlo utopico. Ma senza le utopie che possono diventare realtà, la società non cambia:
Oggi per noi è una giornata d’orgoglio e soddisfazione. Abbiamo raggiunto uno degli obiettivi che c’eravamo dati nel 2005: la
creazione della prima associazione antiracket fatta da imprenditori palermitani. I fattori principali che hanno permesso questo
storico risultato sono tre: la campagna di consumo critico antipizzo, il prezioso sostegno ricevuto dalla Federazione nazionale
antiracket, i successi che da anni conseguono tutte le forze dell’ordine e la magistratura [...]
Senza il controllo del territorio garantito dalle estorsioni tutto
l’edificio mafioso comincerà fatalmente a vacillare. Ora, proprio
in questo frangente, gli dobbiamo togliere il terreno da sotto i
piedi.
Nessuno si può permettere battute d’arresto e per questo motivo
non ci possiamo accontentare più di battaglie vinte. Bisogna essere realisti, senza una rivolta di massa non ci sarà mai la vittoria
finale. E allora bisogna ricordarlo: la gran parte degli operatori
economici paga ancora il pizzo [...]
Bisogna dirselo chiaramente: se da un lato ci sono imprese che si
impongono sulla concorrenza onesta pagando la forza intimidatrice della mafia, dall’altro ci sono funzionari e politici che inquinano le pubbliche amministrazioni. In questi casi serve l’apparato repressivo ma soprattutto una politica onesta e credibile
che non si faccia alcuno scrupolo a marginalizzare personaggi
borderline o con condanne per mafia alle spalle. Chi è stato delegato per rappresentare pubblici poteri, con certi personaggi
non ci può parlare. Punto e basta. Se associazioni come Confindustria, Confesercenti e Confcommercio si dichiarano pronte a
espellere chi paga il pizzo – e lo faranno sul serio – il minimo
che devono fare i partiti è operare in maniera analoga al loro in-
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terno e negli ambienti nei quali si ritrovano a fare politica. Al di
là della responsabilità penale, che va individuata, come avviene,
garantendo i diritti degli imputati, occorre riconoscere le responsabilità politiche che devono essere sanzionate e censurate.
Continuiamo a discernere. Ci sono pure quelli, è proprio il caso
di ricordarlo, che la «messa a posto» se la vanno a cercare, e quelli che convocati per confermare di essere vittime del racket, malgrado i riscontri forniti dalle indagini, negano l’evidenza dell’estorsione subita, preferendo l’accusa di favoreggiamento a Cosa
nostra. A tal proposito noi crediamo che nei processi ci si possa
costituire parte civile anche contro i favoreggiatori. L’abbiamo
fatto e pensiamo che, per coerenza, debbano farlo anche le associazioni di categoria che si dichiarano pronte a espellere chi non
collabora con gli inquirenti e la magistratura. Crediamo sia una
scelta importante e pertanto chiediamo, quanto meno, che le associazioni si pronuncino al riguardo. Ma anche questo non può
bastare, perché riteniamo che occorrano degli interventi a monte, e di carattere sistemico. Se ci si convince tutti di ciò, allora
bisogna prospettare a chi ancora oggi percepisce il pizzo non come una limitazione della propria libertà ma come un costo, uno
tra gli altri, da affrontare per potere operare nel mercato, allora a
questi imprenditori, e a tutela di chi invece vuole o vorrebbe lavorare nel rispetto di tutti, bisogna prospettare un mercato con
regole all’altezza della sfida, con delle maglie a difesa della Repubblica più strette e robuste. Regole che ricordino a tutti cosa
significa parlare della responsabilità sociale delle imprese [...]
Ci rivolgiamo ai dirigenti di tutte le associazioni di categoria di
Palermo.
Andate per strada, dentro i cantieri, dentro i negozi, nelle imprese, parlate con il maggior numero dei vostri associati. Voi li
conoscete bene, incoraggiateli, metteteli a conoscenza degli strumenti di lotta già a disposizione, informateli della nuova associazione antiracket. Potete moltiplicare esponenzialmente le denunce. Potete, quindi dovete. Non c’è altra via.
Palermo, la Sicilia e tutto il Sud Italia (lo dice dal 2003 il Censis
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e lo ha ricordato di recente il governatore della Banca d’Italia)
senza lo zavorramento dell’economia mafiosa avrebbe un prodotto interno lordo pari a quello del Nord Italia. Se in questo
frangente la partecipazione democratica e la ribellione in massa
degli imprenditori diventano il cuore della lotta a Cosa nostra
saremo prestissimo a una svolta epocale.
Finora, quando è andata bene, abbiamo resistito. Ora dobbiamo
credere e spenderci per la Liberazione. Possiamo diventare un vero popolo. Dipende dalla volontà di tutti noi. Dobbiamo riuscire
a dare corpo e vita a parole come giustizia, libertà, democrazia.
Possiamo, quindi dobbiamo farlo. Ora o forse mai più.
Un anno dopo, il 6 novembre 2008, l’Assemblea regionale
siciliana ha approvato con i voti di maggioranza e opposizione il disegno di legge sulle «misure di contrasto alla criminalità organizzata». Applausi in aula e in conferenza stampa indetta congiuntamente dal presidente dell’Ars, Francesco Cascio, di Forza Italia, e dal presidente della commissione regionale Antimafia, Lillo Speziale, del Partito democratico. Non era mai successo.
La normativa stabilisce un principio innovativo: le imprese che non denunciano e che, secondo accertamenti giudiziari, hanno favorito la mafia non potranno più concorrere
per l’assegnazione di appalti pubblici. È previsto, tra l’altro,
il rimborso degli oneri fiscali per cinque periodi di imposta
agli imprenditori che denunciano richieste di estorsioni, un
conto corrente unico dove le imprese devono versare le somme relative agli appalti superiori a centomila euro. Ci sarà
anche un fondo di rotazione per la fruizione dei beni confiscati ai boss, saranno accordate fidejussioni e credito alle
cooperative sociali che li gestiscono «per la progettazione e
realizzazione delle opere di adattamento». La Regione è obbligata a costituirsi parte civile in tutti i processi di mafia
che si celebrano in Sicilia.
Pina Grassi mette in guardia dalla facile illusione: «Questa legge è ottima solo se sarà applicata. Non abbiamo vinto,
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la strada purtroppo è ancora in salita. È un momento fondamentale questo e non ci dobbiamo fermare come non si
stanno fermando i magistrati, le forze di polizia. Cosa nostra
è in difficoltà ma c’è incertezza su come si muoverà. Ed è in
momenti come questo che è estremamente pericolosa.
Quando sta in silenzio non si sa mai dove va parare».
Una strada in salita che non riguarda solo la Sicilia, ma
l’Italia intera, a suo giudizio (e non solo).
«Vedo il nostro Paese ridotto male. Stiamo tirando fuori il
peggio di noi stessi quando andiamo a votare, inoltre evadendo le tasse pretendiamo senza contribuire. Come fai a
volere la scuola, la sanità pubblica se non paghi. Le tasse non
fanno piacere a nessuno ma sono necessarie. Per un cittadino ci sono i diritti ma ci sono pure i doveri. A me sembra
che in Italia tutti accampano diritti ma pochi sono disposti
a esercitare i propri doveri.»
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