musiche e culture nelnelmondo musiche e culture mondo GRATUITO inverno 2009 06 www.mondomix.com AMBROGIO SPARAGNA ORCHESTRA POPOLARE ITALIANA ALI FARKA TOURE • ELENA LEDDA • SQUILIBRI • BRASILE IN MUSICA Sommario Mondomix Italia — n°6 inverno 2009 04 Editoriale 06 Attualità 08 Ricordiamoli 15 / 31 Musica 10 Peppe Barra 11 Elena Ledda 12 Gattamolesta 14 Mamadou Barry 32 / 39 Nuovi arrivi In primo piano 15 Brasile 18 Chitarre africane 21 15 anni di Talking Timbuctu 22 Suoni dal deserto asiatico 26 Taranta d’amore 28 Squilibri editore 360° 32 In marcia con Andrea 34 Grammy Italiani 35 Fez, musiche sacre d’oggi 38 Etiopia, 1000 stelle nel cielo 40 / 50 Recensioni 40 Africa 42 Europa 45 Asia 46 Americhe 48 Etno Jazz 59 Colonne sonore 50 Global sound Periodico gratuito Editore FM2 Direttore responsabile Luca Rastello Redazione Elisabetta Sermenghi, Renzo Pognant, David Valderrama, Luca Vergano [email protected] Hanno collaborato Akenataa Hammagaadji, Antonello Lamanna, Benjamin MiNiMuM, Bruno Tecci, Ciro De Rosa, Eddy Cilia, Emanuele Enria, Enrico Verra, Felice Liperi, Gian Franco Grilli, Giovanni De Zorzi, Giulio Cancelliere, Guido Gaito, Luca Morino, Luca Vitali, Mauro Zanda, Max De Tomassi, Paolo Ferrari, Patrick Labesse, Piercarlo Poggio, Renata Tomassella, Saba Anglana Pubblicità [email protected] Impaginazione Chiara Tappero / Volumina [email protected] Redazione Via Martiri della Libertà 19, 10131 Torino Stampa Ages Arti Grafiche Corso Traiano 124, 10127 Torino 11 Elena Ledda 14 Mamadou Barry 38 Etiopia 40 BassekouKouyate 43 Varttina Registrazione al tribunale di Torino n° 49 del 9 luglio 2008 (periodico culturale) Il logo e il marchio Mondomix sono registrati e di esclusiva proprietà di Mondomix Media SAS. Il logo e il marchio Mondomix in Italia sono licenziati in esclusiva a FM2. Solo Mondomix Media SAS e i suoi licenziatari possono utilizzare il logo Mondomix in pubblicazioni, pubblicità e materiali promozionali. 44 Jim Moray & Jackie Oates 4 Mondomix.com Editoriale Molti significativi cambiamenti sono avvenuti durante l'estate nella redazione dell'edizione italiana di Mondomix. Federico Scoppio e Andrea Scaccia che avevano curato i primi cinque numeri della rivista hanno scelto di continuare le loro attività in altri ambiti musicali. Li ringraziamo per tutto quello che hanno fatto perchè Mondomix avesse una propria identità ed auguriamo loro il meglio. Luca Rastello, scrittore (e giornalista) è il nostro nuovo direttore. Lo ringraziamo per aver voluto accompagnarci in questa nostra avventura. Le sue conoscenze ed esperienze nel campo della politica internazionale non potranno che essere una preziosa guida nel nostro cammino. Il giornale nel futuro sarà coordinato da una redazione collettiva. Un altro importante cambiamento non sarà sfuggito ai nostri affezionati lettori. Le pagine sono quasi raddoppiate passando da 36 a 52. In questo tempo di crisi abbiamo cercato di dare un segnale di fiducia nella rapida ripresa del nostro settore di attività. In un momento in cui molti nostri colleghi sono costretti a ridurre gli impegni questo aumento di pagine e contenuti ci è sembrato un segno concreto e tangibile. Abbiamo anche modificato l'impostazione del giornale e i nostri cugini francesi ci fungono da maestri in questo senso. Il giornale è suddiviso in sezioni omogenee, più facilmente consultabili e si arricchisce di nuove rubriche. Speriamo così di renderlo più scorrevole ed accessibile. Ringraziamo ancora una volta tutti coloro che ci hanno sostenuto fino ad oggi. In primo luogo i nostri inserzionisti che ci permettono di andare in stampa ancora una volta. In un giornale gratuito sono loro a fornire in toto i mezzi necessari per trasformare un'idea in fatto concreto. In secondo luogo ringraziamo tutti i lettori che ci hanno seguito fino ad oggi sperando che vogliano continuare a farlo. Infine tutti i collaboratori che malgrado i cambiamenti, a tratti anche repentini, continuano ad essere al nostro fianco. E naturalmente last but not least gli artisti che con la loro musica danno un significato al nostro lavoro. Tra le tante novità avrete già potuto notare che, in questo numero, compare in copertina un musicista italiano. E' la nostra prima volta. Abbiamo scelto Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra Popolare Italiana. Ambrogio è da qualche decennio uno degli alfieri della tradizione musicale popolare che ha fatto conoscere e diffuso sia in Italia che all'estero. La sua presenza al Womex (Esposizione Mondiale della Musica World), a Copenhagen, dove ha ottenuto positivi consensi ne è un'ulteriore conferma. Per tutte le altre novità vi rimandiamo alla vostra esplorazione di questo numero sperando vogliate perdonarci per gli eventuali errori. In fondo siamo giovani... La redazione Puoi scaricare gratuitamente il PDF di Mondomix Italia dal sito www.mondomix.com 06 Inverno 2009 5 Mondomix.com 06 Inverno 2009 6 Mondomix.com Attualità Il cantu in paghjella corso, il radif iraniano, il tango dell’Uruguay ed Argentina, la maloya delle Reunion, il canto ca trù vietnamita, l’arte degli Ašik azeri o la musica Hua’er della Cina settentrionale fanno parte delle 88 tradizioni artistiche, artigianali o rituali inserite dall’Unesco nella lista del Patrimonio Immateriale dell’umanità. Questa agevola la ricerca di mezzi materiali e finanziari per la loro conservazione, insegnamento e divulgazione. online http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?pg=home Mentre andiamo in stampa ci arriva la triste notizia della morte di Claude Lévi-Strauss all’età di 101 anni (li avrebbe compiuti alla fine di novembre). Benché non si sia occupato in modo specifico di musica se questa nostra rivista esiste, se esiste gran parte della musica meticcia che ascoltiamo ogni giorno lo dobbiamo anche a lui, che ci ha fatto capire la grandezza e complessità delle culture extra-europee, fino a pochi decenni fa considerate alla stregua di residui di epoche preistoriche e prive di valore. Sono stati studiosi come LéviStrauss a farci prendere coscienza delle diversità dei saperi del mondo, della loro bellezza ed affascinante mistero. Un grazie per averci aperto gli occhi. coreografo Bii T Jones. Le musiche di scena sono arrangiate da Aaron Johnson del gruppo di Afro Beat Aitibalas. Il nuovo CD di Shantel – Planet Paprika (Crammed Disc / Materiali Sonori) ha esordito in modo lusinghiero piazzandosi in buona posizione nelle classifiche di vendita generali di alcuni paesi europei: Posizione 1 nelle World Music Charts francesi Posizione 55 in Austria Posizione 87 in Belgio Posizione 71 in Germania Posizione 74 in Svizzera Posizione 134 in Olanda Non ci resta che sperare che lo stesso accada anche nel nostro paese. Il CD sicuramente lo merita. Artisti africani come altri in diverse parti del mondo continuano ad essere vittime di censure per ragioni morali o ideologiche. Il Giudice Supremo della regione di Kano, in Nigeria, ha proibito 11 canzoni che ritiene abbiamo il potere di corrompere la morale pubblica. E’ proibita la vendita, l’esecuzione e lo scaricamento di digitale di queste canzoni. Non è chiaro se è anche vietato l’ascolto in casa ed il fischiettarle durante la doccia. In Somalia, gli Al-Shabaab, fondamentalisti che controllano il sud del paese, per paura di sbagliare, hanno fatto che proibire la musica tout cour. Chi trasgredisce è passibile di pena di morte. Sempre loro hanno introdotto la fustigazione per le donne che indossano il reggiseno. Staff Benda Bilili Il premio istituito recentemente dalla prestigiosa rivista inglese Songlines per l’artista più significativo dell’anno è andato al gruppo congolese degli Staff Benda Bilili (Crammed Disc – Materiali Sonori). Il premio è stato consegnato al gruppo durante il recente Womex tenutosi a Copenhagen. Nella stessa occasione il premio per l’Eccellenza Professionale (Professional Excellence) del Womex è stato assegnato a Christian Mousset a cui si deve la fondazione di importanti festival musicali in Francia, nonché la nascita dell’etichetta Label Bleu, che ha tra gli altri lanciato la cantante Rokia Traoré, e Marabi. Mai premio fu più giustamente assegnato e ci complimentiamo con Christian per i successi fin qui ottenuti. Fela Anikulapo Kuti La vita e la musica del musicista ed icona nigeriana Fela Anikulapo Kuti è diventato un musical - Fela! - che sarà presentato al Eugene O’Neill Theater di Broadway, NY, fino all’aprile 2010. Il protagonista è portato sulla scena da Sahr Ngaujah sotto la direzione del Omara Portuondo Per un divieto che entra in vigore un divieto che cade. Una buona notizia arriva da Cuba. Le autorità americane hanno concesso il visto di ingresso ad Omara Portuondo che potrà così esibirsi negli Stati Uniti. é la prima negli ultimi sei anni che questo visto viene concesso ad un artista cubano. Grazie ai buoni uffici dell’Amministrazione Obama alcuni delle più grossolane e stupide iniziative dell’Amministrazione Bush cominciano a cadere. Tony Gatlif, regista che da anni si batte per il riconoscimento dei diritti dei gitani, ha terminato il suo nuovo film, Liberté, la cui uscita è prevista per la primavera 2010. E’ in uscita Africa Rising di Paula Heredia, documentario di 60 minuti incentrato sull’attività delle donne che in cinque stati africani lottano per sradicare la pratica della mutilazione genitale femminile. Il film racconta la grande e faticosa lotta che queste donne stanno combattendo con la speranza che il movimento guadagni terreno ogni giorno di più. Puoi scaricare gratuitamente il PDF di Mondomix Italia dal sito www.mondomix.com 06 Inverno 2009 abbonati a MONDOMIX e avrai una delle seguenti Rough Guide (Vallardi editore) in omaggio Rough Guide a New York Viaggiare al minimo Rough Guide a Parigi Rough Guide a Londra Guida completa alla sopravvivenza in viaggio Guida completa all’ABC del viaggio Nome Cognome Via CAP Città Provincia email Come hai scoperto Mondomix? Ritaglia e spedisci per posta a Mondomix via Martiri della Libertà 19, 10131 Torino o manda una email a [email protected] abbonamento a 6 numeri del giornale 25,00 € (solo in Italia) Pagamento tramite bonifico bancario sul C/C Associazione Culturale FM2 IBAN IT21R030 324677001000 0001 414 06 Inverno 2009 Ricordiamoli 8 Mondomix.com Ali Akbar Khan Per tutti noi, come famiglia, la musica è come il cibo. Quando tu ne hai bisogno non devi spiegare il perchè, è essenziale per la vita. Ustad Ali Akbar Khan Ustad Ali Akbar Khansahib è morto nella sua casa di San Anselmo, California dopo una lunga malattia renale lo scorso 19 giugno 2009. Considerato uno dei più grandi musicisti classici dell’India del Nord, Ustad Ali Akbar Khansahib è stato riconosciuto come Living National Treasure (Tesoro Nazionale Vivente) in India, con ammiratori sia fra musicisti orientali che occidentali per le sue brillanti composizioni e l’abilità nel suonare il sarod. Nato nel Bengala Orientale nel 1922 (attuale Bangladesh), figlio di Acharya Allauddin Khansaheb grandissimo musiciata e maestro, Ali Akbar Khansahib iniziò i suoi studi musicali all’età di tre anni. Ha studiato canto con suo padre e suo zio, Fakir Aftabuddin. Acharya Allauddin Khansaheb e sua figlia Annapurna Devi Suo padre lo iniziò anche alla musica strumentale introducendolo a molti strumenti fra i quali decise di scegliere il sarod. Per oltre vent’anni ha studiato e praticato lo strumento per 18 ore al giorno. Ali Akbar Khan visitò gli Stati Uniti la prima volta nel 1955, su invito di Lord Yehudi Menuhin e si esibì in un concerto eccezionale al Museum of Modern Art di New York. In tale occasione incise il primo LP di Musica Classica Indiana in occidente. Partecipò anche a trasmissioni televisive, gettando le basi per quell’ondata di popolarità che questa musica avrebbe avuto nei successivi anni 60. Durante quel decennio, e nei seguenti, si esibì spesso con Pandit Ravi Shankar e Ustad Alla Rakkha suonando fra gli altri al Festival di Monterey. Nel 1956 Khansahib fondò il Ali Akbar College of Music a Calcutta, India e nel 1965 iniziò ad insegnare anche in America. Nel 1967 fondò il Ali Akbar College of Music a Berkeley (USA) stabilendosi definivamente nella Marin County l’anno seguente. Khansahib ha composto e registrato musica per film durante tutta la sua carriera. Ancora in India iniziò a comporre per il cinema, scrivendo per il film Aandhiyan di Chetan Anand (1953), per continuare con la musica di House Holder (1963) il primo film firmato dalla coppia Ivory / Merchant, Khudita Pashan (1960) con cui vinse il premio di Musicista dell’Anno, Devi di Satyajit Ray, ed in America Little Buddha (Il Piccolo Buddha) di Bernardo Bertolucci. Nel 1997 Khansahib fu il secondo indiano a ricevere il premio Asian Paints Shiromani Award - Hall of Fame, dopo il regista Satyajit Ray. Ustad Ali Akbar Khan ha anche ricevuto il prestigioso National Heritage Fellowship dal National Endowment for the Arts (USA), premio consegnatogli alla Casa Bianca personalmente dalla moglie dell’allora presidente americano, Mrs. Hillary Clinton. In India Khansahib ha ricevuto le più alte onorificenze civili Padma Vibhushan e Padma Bhushan per il suo contributo alla Musica Classica indiana. Online www.ammp.com Alcuni suoi CD Peerless - Navras Ragas con Ravi Shankar - Fantasy Legacy con Asha Bhosle - Alamp Madina Può qualcuno adorare l’Onnipotente senza la musica? Acharya Allauddin Khansaheb Gangubai Hangal Due delle più importanti voci femminili della musica classica indiana si sono spente la scorsa estate. Gangubai Hangal nata nella casta suddha (la più bassa del sistema castale Hindù) ha speso la sua vita lottando per superare i pregiudizi del suo tempo fino a diventare una delle più importanti esponenti della Kirana Gharana (scuola) e lasciandoci un’eredità che supera i puri aspetti artistici. DK Pattammal A Chennai si è spenta Damal Krishnaswamy Pattammal all’età di 90 anni. Insieme a MS Subbhulakshmi e ML Vasanthakumari ha formato la famosa Trinità di Madras che ha regnato sulla musica vocale carnatica al femminile per oltre 50 anni. Nata da una famgilia di Brahmini DK ha dovuto lottare duramente per avere il permesso dalla famiglia ad esibirsi in pubblico, cosa ritenuta non onorevole per una donna di casta elevata. La sua splendida voce e tenacia hanno avuto ragione di questi pregiudizi permettendole di esibirsi in varie parti del mondo. 06 Inverno 2009 Ricordiamoli 9 Mondomix.com Mercedes Sosa La Negra argentina Gracias, Mercedes, “que nos ha dado tanto”! di Bruno Tecci Così termina il messaggio inviato dal Presidente brasiliano Lula da Silva, per mano del suo Ministro della Cultura, il giorno dei funerali della Sosa; il cinque ottobre scorso a Buenos Aires. Funerali ai quali partecipano migliaia di persone, decine di artisti e personalità istituzionali. Con la sua chiosa il Presidente Lula vuole far riferimento a una delle interpretazioni più celebri dell’artista: la sua versione di “Gracias a la vida” della cilena Violeta Parra; incisa per la prima volta nel 1969. E vuole sottolineare che “la Negra” (questo uno dei soprannomi della cantante dovuto alle sue origini indie) ha lasciato un’eredità importante non solo per l’Argentina; non solo per i Paesi ispanici, ma per il Sudamerica tutto. Perché quella di Mercedes Sosa è considerata la voce del Continente latino: “La Voz de América”, infatti, è un altro dei suoi appellativi. E allora ecco che il Perù, il giorno della sua scomparsa, decide di issare la propria bandiera a mezz’asta e proclamare lutto nazionale per colei che è stata l’espressione degli umili. Michelle Bachelet, Presidentessa cilena, le dedica un lungo applauso di ringraziamento proprio durante la commemorazione del trionfo del “No” con cui i cileni misero fine alla dittatura di Pinochet nel 1988. Il Presidente venezuelano Hugo Chávez fa pubblicare, su un giornale argentino, una calorosa lettera di condoglianze; la medesima che invia alla Presidentessa argentina Cristina Fernández de Kirchner. Altro messaggio viene inviato da Fernando Lugo, Presidente del Paraguay; e un altro ancora persino dalla Francia, Paese che ospitò la Sosa nel 1979 durante il suo esilio europeo durato due anni. Infine, l’Argentina, Paese natale di Mercedes Sosa, adotta un decreto governativo che rende omaggio ed esalta l’impegno sociale, solidale e artistico; così come lo spirito combattivo col quale la Cantora ha sempre difeso le cause giuste, i diritti umani e civili. Luigi Ivan Della Mea era nato vicino a Lucca nel 1940. La vita gli ha dato molti schiaffi (da cui il titolo del suo ultimo romanzo) a cominciare dall’infanzia che Charles Dickens non avrebbe saputo immaginare più tragica e lacrimosa. Eppure a quegli schiaffi, Ivan ha sempre reagito con una produzione di canzoni e scritti letterari e giornalistici che è diventata occasione di militanza politica per il riscatto di tutti gli schiaffeggiati del mondo. Aveva una voce potente ma non “bella”: ostentava un difetto di pronuncia, una “esse” umida e fastidiosa ancor prima che Guccini imperversasse con la sua erre arrotolata o Jovanotti inciampasse nella sua zeppola. La chitarra la suonava rozzamente e capitava a volte che suonasse in Re e cantasse in Do. Speciale per calare di un quarto di tono (e questo è stato scritto anche sulle copertine dei suoi dischi) ha dimostrato però che tutti possono e devono cantare se il canto è necessario per liberarci dai tiranni e dagli oppressori. Aveva un’attenzione particolare 06 Inverno 2009 La vita Perónista, membro del Partito Comunista e sostenitrice di molte cause della sinistra politica, Mercedes Sosa fu subito inserita nella lista nera del Regime Militare dopo il colpo di stato del 1976 in Argentina. I suoi dischi furono subito proibiti. Un paio d’anni prima era già stata diffidata dal regime cileno. Nel ’78, in occasione di un concerto a La Plata, viene perquisita e detenuta, mentre il suo pubblico arrestato. È l’ultimo atto prima dell’esilio europeo di due anni: prima a Parigi e poi a Madrid. La sua è una voce scomoda, da sempre schierata dalla parte della libertà e dei più deboli. Col suo rientro in Patria, nel 1982, giusto alla vigilia della caduta della dittatura, viene consacrata come artista continentale, come la voce di interi Paesi che sono stati capaci di rialzare la testa. Da allora si batterà a tempo pieno per la tutela dei diritti umani. Online www. mercedessosa.com.ar Alcuni suoi CD Yo no canto por cantar (1966) Homenaje a Violeta Parra (1971) Traigo un pueblo en mi voz (1973) Mercedes Sosa, la Mamancy (1976) Mercedes Sosa en Argentina (1982) Mercedes Sosa, 30 años (1993) Cantor (2009) per il Potere che considerava il male assoluto sopratutto all’interno delle organizzazioni della sinistra e nei rapporti interpersonali. Questo non gli ha impedito di dirigere per anni l’Arci Corvetto a Milano e poi «l’Istituto Ernesto De Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario» a Sesto Fiorentino. Ivan ci ha lasciati il 14 giugno 2009. Gianpiero Gallina Direttore artistico di Musica 90 a Torino, con la sua passione ha difeso con coerenza e talento una visione eclettica e senza frontiere della musica. La sua ambizione era di proporre grazie a Musica 90 una riflessione sulle Nuove Musiche ed il Suono del Mondo. Tra gli iniziatori del progetto italiano di Mondomix Gianpiero ci ha lasciato prima dell’estate ma resterà ancora a lungo nella nostra memoria. 10 Mondomix.com Peppe Barra Tutta la Vita in un Attimo ALBUM di Guido Gaito Dopo un lungo periodo di pausa, torna sulla scena musicale il grande maetro napoletano. Accompagnato come sempre dai fedelissimi compagni di viaggio, James Senese, Paolo del Vecchio e Ivan Lacagnina, Peppe Barra ci racconta la genesi di n'Attimo, il suo ultimo lavoro musicale. Un disco denso di racconti e di storia, totalmente rivestito dalla polvere di stelle che solo un artista come lui riesce a produrre. A coronamento di una carriera passata interamente sul palcoscenico Barra ci regala il suo sigillo, o meglio, come lui ama definirlo, il suo documento spirituale. Lei torna sulla scena musicale dopo una pausa di tre anni, cosa ha fatto in questo tempo? Le pause servono sempre a ponderare, a stare attenti a non fare sbagli. I miei lavori, infatti, sono sempre stati molto attenti. Questa volta ci ho messo più attenzione, perché mi sembrava giunto il momento di cambiare il mio modo di rappresentarmi, sia come cantante che come interprete. In questi anni sono stato ben consigliato e ho avuto la fortuna di fare bellissimi incontri con giovani poeti che mi hanno proposto dei brani che io poi ho scelto. Ho voluto cantare Sofrimento, di Valdemar Bastos, che è un grido di dolore della sua Angola; lavorando poi sul testo ho potuto dire delle cose sulla mia città e sulla mia terra che sta morendo. Poi c'è un brano di Santa Cruz che è un omaggio di ritmo e di allegria e infine ci sono pezzi come n'Attimo che io preferisco. N'Attimo è una canzone che parla anche d'amore... Insieme al Il mondo dei sogni è un po' autobriografica. È una canzone d'amore ma è anche un modo di rifletere sul tempo che passa. Si parla anche del mio mondo, il palcoscenico. Nella canzone Il mondo dei sogni spiega in due parole cos'è il teatro, ce lo vuole dire almeno con tre? È il mondo dei sogni appunto, però bisogna saper sognare con verità. Nel teatro non bisogna mai barare, altrimenti il sogno può essere anche negativo, un incubo, diventa un'arma a doppio taglio. Il suo sguardo nei confronti della sua terra e della sua città è sottolineato sempre da una vena di malinconia e dolore. Come immagina Napoli nel futuro? Io ho molto fiducia nei giovani, sono loro che devono cambiarla. In questi ultmi anni mi sono reso conto che ci sono molti napoletani che non amano la loro città; c'è chi la distrugge e la umilia. Un antico proverbio rivolto ai politici dice che Napoli è come una caramella: ognuno viene, allicc' e se ne va. Lei ha viaggiato tanto, ha vissuto e vive intensamente. Concerti, tour internazionali, perché ci tiene tanto a voler descrivere l'attimo? Questo è avvenuto perché tre anni fa sono stato a un attimo dalla morte. In quel momento mi è balenata subito l'idea di avere un mio documento spirituale. Molto spesso la vita è veramente un attimo. Io non ho assolutamente paura della morte ma chi sfiora quell'attimo diventa più ponderato verso la vita e cerca la gioia di vivere in tutto quello che può gratificarti. Mi dica qualcosa che ancora non è riuscito a fare? Non c'è niente che io desideri. La mia vita è stata sì logorante e faticosa ma allo stesso modo sono talmente contento e gratificato dalla vita che tutto quello che arriverà mi troverà pronto. Un'ultima curiosità: è vero che lei è nato a Roma, nel cuore principe della città? Sono nato a Roma, a Piazzetta dei Crociferi. La mia famiglia lavorava in teatro e rimase bloccata a Roma per la guerra. Mia madre mi partorì lì, davanti a Fontana di Trevi, per strada. Come vede la mia vita è nata pubblica! Peppe e Barra (1983) Peppe e Concetta Barra n.1 (1988) Mo vene (1992) M’ aggia cura’ (1995) Il Borghese Gentiluomo (2001) Guerra (2001) Peppe Barra in Concerto (2003) La Cantata dei pastori (2004) Matina (2005) Titolo N’Attimo Etichetta Marocco Music /AudioGlobe Online http://www.peppebarra.altervista.org Decamerone (2006) Nuovi Arrivi 11 Mondomix.com Elena Ledda Nel nuovo CD Cantendi a Deus esplora il mondo sacro della Sardegna Una ricerca tra tradizione e contemporaneità di Antonello Lamanna Quando si parla di Elena Ledda, cantante e ricercatrice, nota in tutto il mondo come l’espressione per eccellenza della tradizione musicale e linguistica sarda, si pensa subito alla sua austera e vigorosa voce, fatta d’impasti e grane esoteriche e arcane allo stesso tempo. Con la sua voce capace di essere travolgente e struggente, disperata e addolorata come i canti della sua terra, Elena Ledda è diventata una delle artiste più apprezzate a livello internazionale, grazie a un repertorio incentrato sulla conservazione della memoria del canto tradizionale, che ha più volte sperimentato con il contributo di jazzisti e virtuosi di musica antica. Giunta al suo undicesimo lavoro discografico che segna esattamente 30 anni di carriera, se consideriamo il suo esordio con l’album Ammentos del 1979, la cantante di Selargius dedica tutte le sue forze al nuovo disco Cantendi a Deus, (S’Ard Music), dedicato interamente ai canti sacri della tradizione sarda. Nel progetto, nato da rivisitazioni, ricostruzioni e nuove composizioni di brani tradizionali, propone una interpretazione personale del canto liturgico. Cantendi a Deus è un lavoro che volevo fare da molto tempo – ci spiega Elena Ledda - è stato rimandato più volte per diversi motivi. Si stava per fare un altro disco, ma alla fine ho scelto questo tema. Lavoro sulla musica sacra da molti anni, e a questo proposito la Sardegna offre molti spunti, è una regione con una ricchezza straordinaria rispetto ad altre regioni d’Italia e d’Europa. E ancora ci sarebbe molto da fare. Insomma, questo progetto nasce da una passione personale. In un repertorio così complesso, come quello sacro qualsiasi tentativo e operazione di rielaborazione sarebbe risultato molto difficile e complicato, ma non per Elena Ledda che ha una preparazione classica e da molto tempo si è occupata di musica antica, medievale e rinascimentale: «per me –sottolinea l’artista sarda - è stato naturale andare direttamente alla fonte di certi documenti, sia perché la Sardegna è ricca di materiali e sia per la mia curiosità di ricercatrice e amante della musica antica, che mi ha portato a consultare gli archivi in maniera mirata. Sono andata a cercare i manoscritti e su questi ho preferito lavorare piuttosto che sui materiali tradizionali che già esistevano in Sardegna. Sono andata alla fonte vera, autentica». Il disco si apre con il brano che dà il titolo all’album Cantendi a Deus. A seguire sonorità ispirate alla tradizione di cui si erano perse le tracce, come S’incominzu ispirato al quattrocentesco «Canto della Sibilla» e Ave Maria, entrambi di derivazione catalana; Orus a su sperevundu (Dies Irae) e Mamma nosta (Ave Maris Stella), di provenienza gregoriana. Per Ledda «Il lavoro di ricerca è una cosa differente da quello fatto per l’allestimento di uno spettacolo o da quello per la preparazione di un disco. E’ un momento straordinario, come una nascita di un bambino, tutto da esplorare. Mi è piaciuto metterci mano, adattare, scrivere i testi, grazie anche a mia sorella Gabriella. E’ un lavoro che mi ha dato molto, soprattutto per alcuni brani che si erano persi nella memoria». Nel corposo lavoro di ricerca vengono inoltre proposti rosari, preghiere, canti dedicati al periodo natalizio: Gocius de su nascimentu, Celesti Tesoru e A su nàschere de Gesus, ma anche brani tratti dall’opera del XVII sec. Comedia de la passion de Nuestro Señor Jesu Christo di Antonio Maria da Esterzili, e Sa pregadoria, composizione ispirata al modulo della poesia estemporanea campidanese, su testo del poeta sardo Chicheddu Depilano, noto con il nome di «Olata». Online www.elenaledda.com Cosa Elena Ledda – Cantendi a Deus – S’Ard / Egea 06 Inverno 2009 12 Mondomix.com You Spin Me Round Like A Gattamolesta intervista di Piercarlo Poggio Tra le bonus tracks del loro nuovo lavoro i Gattamolesta da Forlì hanno inserito pure il classico dei Dead or Alive, anno di grazia 1984. Una provocazione? Forse, ma nell’ambito di un disco bizzarro, audace e pungente come si rivela essere Czeleste, del tutto appropriata. Venuti al mondo nel 2006 hanno già al loro attivo l’ep I pesci, i pani e gli esemplar e l’album Alla festa del brigante, e soprattutto un’intensa attività concertistica porta a porta che li ha fatti conoscere ben presto anche all’uomo della strada. Il loro folk con il turbo parla italiano e guarda a Est privo di preoccupazioni esistenzialistiche, impegnato com’è a scuotere senza sosta menti e corpi. La formazione è un quartetto trascinato dal cantante e chitarrista Andrea Gatta (il nostro interlocutore) e completato da Nicolò Fiori al contrabbasso, Jader Nonni alla batteria e Luigi Flocco alla fisarmonica. Czeleste è disco dal carattere professionale: un nuovo punto di partenza o la fine dell’età dell’innocenza? Czeleste è un punto importante del nostro percorso artistico, in quanto all’inizio abbiamo cominciato a suonare per strada senza troppe pretese, poi divertendoci e riscontrando approvazione abbiamo ricevuto i primi ingaggi e siamo diventati una live band. Da qui è partita l’esigenza di sperimentarci nella realizzazione del primo disco che però non aveva il carattere, la forza espressiva e la qualità di registrazione presenti in Czeleste. Ora questo disco è volto ad aprire nuove prospettive per idee future e rinnovare la creatività, cosi che il percorso resti ricco di nuovi stimoli e freschezza... e, perché no, innocenza! Siete nati in strada per scelta o per necessità? Per entrambe le cose: c’era la necessità di esprimersi e scegliemmo la strada, il primo palco che si rendeva disponibile, così come è sempre stato, immediato e poetico, visto che era ancora lontana la prospettiva di potersi esibire e lavorare come e quanto lo facciamo oggi. Perché tra le tante possibili sono le musiche dell’Est quelle su cui costruite la maggior parte dei brani? Diciamo che le più evidenti influenze sono quelle che rimandano all’est, ma non sono le sole: consideriamo il sound di Czeleste, come si dice in gergo, una patchanka di vari stili mescolati e a loro volta contaminati secondo il nostro gusto; senza la pretesa che debba necessariamente essere etichettato quale balcanico, semmai affine o riconducibile a esso per quanto riguarda l’aspetto trascinante e il ritmo frenetico delle nostre esibizioni. Infatti il fascino che queste musiche hanno esercitato su di noi si è inevitabilmente espresso nel gusto di un’estetica gitana che fin dal principio ha caratterizzato il nostro modo di porci soprattutto di fronte al pubblico. Nuovi Arrivi Con la scuola dei cantautori e con il melodico all’italiana in che rapporti state? Per un certo tipo di cantautorato poetico e di contenuto c’è ammirazione, perché costituisce una forma musicoespressiva di valore nel panorama italiano, nel quale emerge spesso soltanto il pop facile veicolato dai media di maggiore diffusione. Alcuni cantautori sono grandi artisti, hanno il pregio di possedere un’alta ispirazione letteraria legata a un proprio stile spesso fatto di grande gusto e ricerca, altri invece… meritano davvero di essere travolti e superati! I vostri testi al primo approccio paiono piuttosto scentrati e surreali, ma letti in trasparenza denunciano la loro fonte di ispirazione: le banalità della realtà italiana di questi anni. Come si trova un equilibrio tra realtà e fantasia quando si scrive un testo? Ci sono tre piani in cui l’equilibrio trova forma: c’è l’ispirazione, che ha un equilibrio interno difficilmente spiegabile; c’è la linea visionaria che collega il gioco espressivo di parole dell’autore con la percezione emotiva dell’ascoltatore; infine, come nei testi di Czeleste, c’è questo vortice che ruota al ritmo della musica, in cui realtà e fantasia si rincorrono vicendevolmente, senza mai raggiungersi né perdersi, in un equilibrio che definirei essenziale. Titolo Czeleste Etichetta Felmay Records Online www.gattamolesta.com MySpace www.myspace.com/bandgattamolesta 06 Inverno 2009 14 Mondomix.com Mamadou Barry Il sessantenne debuttante di Akenataa Hammagaadji Quando nel mondo della musica si parla di una nuova rivelazione viene spontaneo pensare a qualche teenager, o a qualcuno di età poco superiore, magari ad una band di lolite ammiccanti oppure a un gruppo di ragazzini dalle facce imberbi pieni di talento e privi di esperienza. Sembrerebbe, questa, una definizione decisamente poco calzante per una persona di 63 anni che solo oggi realizza il proprio album d’esordio debuttando sulla scena internazionale. Eppure, dopo l’uscita di Niyo questa definizione, esordiente, anche se solo parzialmente corretta, è stata effettivamente la più adatta per definire Mamadou Barry nonostante alle sue spalle ci sia una storia lunga decenni di proficue produzioni e collaborazioni musicali di indiscutibile valore. Per capire come il Maitre Barry (come viene rispettosamente definito) sia giunto oggi a questo punto della sua carriera bisogna fare un passo indietro, quel tanto che ci permetta di conoscere la sua storia. Mamadou Aliou Barry è nato nel 1947, una decina di anni prima che la Guinea diventasse indipendente. Suo padre era musicista nell’orchestra Le Pavillion Bleu de Kindia dove suonava la fisarmonica e le percussioni. E’ da lui infatti che il giovane Mamadou apprende i primi rudimenti musicali anche se nonostante questo egli non era evidentemente predestinato a consacrare la sua vita alla musica. In effetti sentendosi molto più attratto dall’insegnamento il maestro intraprende gli studi presso la High School for Teacher Education determinato a diventare un buon insegnante. Nel tempo libero, naturalmente, Mamadou continuava a suonare ma ciò unicamente come forma di svago fino al giorno in cui il suo talento venne ufficialmente riconosciuto ed incoraggiato. L’indipendenza della Guinea dalla Francia avviene nel 1958 e nei primi anni di regime post-coloniale il presidente Sékou Touré cerca di instillare nella popolazione un maggior senso di appartenenza alla nazione favorendo ogni iniziativa volta alla sensibilizzazione del popolo verso le proprie radici culturali. Barry aderisce immediatamente alla crescita di questo nuovo movimento culturale che fra l’altro era sostenuto economicamente da fondi statali. Suona quindi come percussionista nel Ballet de Conakry e successivamente diviene direttore della Kaloum Star di Conakry assumendo una posizione di spicco in quell’epoca rivoluzionaria. Le capacità e conoscenze musicali lo portano oltremare fino alla Corea del Nord (dove studia teoria musicale) e a Cuba. La sua produzione musicale, arricchita da queste esperienze, ne rimarrà fortemente influenzata. La sua apertura mentale e la sua generosità lo porteranno ad esibirsi con molti artisti guineani quali Sekouba Bambino Diabaté, Missia Saran, Bembeya Jazz e Kélétigui et ses Tambourins senza tralasciare ovviamente Momo Wandel Soumah, il re del West African jazz, che lo soprannominò maestro per via dei suoi trascorsi da insegnante. Dal 1983, il Maitre Barry è stato direttore ed arrangiatore delle Amazones de Guinée, un prestigioso ensemble composto da donne soldato. Quarant’anni di lavoro più che prolifico dunque e solo oggi Barry riesce a realizzare il suo album d’esordio internazionale, Niyo, che contiene nove bravi davvero intriganti. Barry ha insistito perché la registrazione dell’album avvenisse a Conakry e ne ha curato personalmente la produzione artistica invitando i migliori musicisti della Guinea, uomini e donne, di etnie diverse e di generazioni diverse. Il risultato è un affascinante mix di stili jazz (Barry Swing) funk (Niyo) e Latin swing (Sédy) fusi a ritmi e melodie Fulani e Mandinghe. Non manca un’accattivante ed originale cover di Take Five di Dave Brubeck, in una versione, da lui reintitolata Africa Five, che non si discosta molto dalla melodia di base anche se si respira un forte sapore d’Africa grazie al djembé di Papa Kouyatè. Il brano che dà il nome al CD è un pezzo di derivazione funk arricchito dai colori del tama. Il ritmo sottolineato dal karignan (percussione dell’Africa occidentale costituita da un tubo metallico sfregato) in Sodia è ben supportato dalle voci delle cantanti Sény Malomou e Missia Saran, mentre altre poliritmie intriganti suonate con un brio trascinante sostengono la struttura del brano. In Tala le improvvisazioni di Barry scintillano sulla delicata atmosfera di origine Susu. Biké Magnin beneficia soprattutto della sanguigna voce di Missia Saran mentre i fiati del leader rimangono in sottofondo. Il flauto in Sédy riflette le influenze dell’esperienza cubana ma in Néne, riesce a raggiungere le dinamicità tipiche del flauto Fulani suonato dai grandi virtuosi. Ci auguriamo che presto un nuovo album faccia seguito a questo super atteso album di debutto e se nel frattempo i cultori di Maitre Barry vogliono conoscere altre cose sul genere Felenko possono cercare in rete il CD di Kaloum Star. Online www.worldvillagemusic.com CD Mamadou Barry – Niyo – World Village / Egea 06 Inverno 2009 Brasile un tour musicale di Max De Tomassi L’universo brasiliano è particolarmente vasto e ricco. Dai primi anni del secolo scorso ad oggi sono davvero tanti i momenti storici e soprattutto gli artisti da tener presenti per comporre un ipotetico albero genealogico con tutti i suoi rami più importanti ben presenti, completi di foglie e frutti. Su questa base la musica popolare brasiliana si è sviluppata nel tempo crescendo dal punto di vista qualitativo e quantitativo, aumentando il suo potere seduttivo all’interno del territorio e anche all’estero, grazie ad artisti come Carmen Miranda e Dorival Caymmi, a movimenti come la bossanova, uno dei primi esempi di globalizzazione artistica, guidata dalla triade Joao Gilberto / Tom Jobim / Vinicius de Moraes, e alla rivoluzionaria MPB (Música Popular Brasileira) dei primi anni 70. Le tematiche di questo movimento, sia di contestazione alla dittatura o più disimpegnate, avevano spesso in comune l’utilizzo di ritmiche fortemente legate alla tradizione, quasi sempre negra, delle prime espressioni musicali tipicamente brasiliane, nate su questo territorio grazie all’avvento degli schiavi arrivati dalle coste dell’ovest africano. Con questo background denso e profondo che si perde nel tempo, non è difficile capire perché la musica brasiliana contemporanea è considerata la più ricca e fertile al mondo. Il segreto si riassume in due azioni sociali e culturali: rispetto del passato e contaminazione. Due concetti che vanno al di là del semplice utilizzo in campo musicale e che si intersecano con la vita quotidiana dello stesso paese. Il passato musicale del Brasile è caratterizzato dal flusso etnico che ha composto e strutturato la razza brasileira. 06 Inverno 2009 Gli Indios erano già qui, pacifici ed innocenti, a custodire questa terra da millenni; poi sono arrivati i conquistatori portoghesi e insieme a loro gli schiavi negri presi in Angola, Congo, Benguela, e in altre regioni africane. Poi gli italiani, i giapponesi, arabi, e in minor parte tedeschi, olandesi, polacchi e tanta altra gente arrivata in Brasile per fuggire alla mancanza di terre da coltivare nel proprio paese, a persecuzioni etniche o a guerre, accolta in un territorio pacifico dove la musica e la danza hanno sempre rappresentato, al di là delle incongruenze sociali più recenti, la serenità e l’allegria di questo popolo. E’ su questa premessa che si realizza l’ultima affermazione della cultura musicale pop brasiliana nel resto del mondo: è da qui che arrivano le più interessanti alternative alle creazioni plastificate del pop delle multinazionali. E’ quasi sempre di Brasile che si sente parlare quando si cerca qualcosa di nuovo da ascoltare, quando il nostro orecchio cerca suoni che riescano a coniugare armoniosamente il passato, la tradizione con le più geniali innovazioni della tecnologia. Sono loro, i brasiliani, che ci insegnano ad accostare, senza attriti, il melodioso suono di una chitarra acustica o il tono monocorde di un berimbau con le più impensabili campionature del patrimonio pop occidentale o queste stesse con il samba più antico, senza disorientare nessun punto d’ascolto. Loro sono maestri nel mescolare e fondere ritmi e suoni, è il loro percorso antropologico che gli ha insegnato questo. A Sao Paulo ad esempio, metropoli di più di 20 milioni di abitanti, ebrei e mussulmani convivono pacificamente da sempre negli stessi quartieri e, insieme a loro, vivono italiani, giapponesi, negri e portoghesi, tutti a parlare la 16 Mondomix.com ALBUM Céu Vagarosa Celso Fonseca Juventude/Slow Motion Bossa Nova Seu Jorge Cru Gal Costa Hoje Carlinhos Brown Alfagamabetízado Bossacucanova Ao vivo Vanessa da Mata Sim stessa lingua nel rispetto delle tradizioni di ognuna di queste etnie, uniti nel sorseggiare una birra gelata, mangiando copiose dosi di feijoada, il piatto nazionale a base di carne di maiale e fagioli, inventato dagli schiavi più di 100 anni fa. Basandosi sull’insegnamento dei vari Pixingunha, Noel Rosa, e Dorival Caymmi, sono arrivati Jobim, Gilberto e Vinicius, che a loro volta hanno seguito i primi passi di Caetano Veloso, Gilberto Gil, Jorge Ben, Milton Nascimento, Ivan Lins e tanti altri. Con l’avvicinarsi del nuovo millennio il mercato locale, arrivato ad un grande boom agli inizi degli anni novanta (quarto mondiale in assoluto), si frammenta a livello regionale con la riscoperta della musica country brasiliana, il lancio di quella baiana (l’Axè), pur mantenendo sempre molto attivo il ricambio generazionale nel piatto forte della cultura musicale di questo paese, la MPB, attiva soprattutto nel triangolo Rio de Janeiro-Sao Paulo-Belo Horizonte. Un acronimo che significa Musica Popular Brasileira, in cui l’aggettivo popolare è senz’altro qualificativo. All’interno di questa sfaccettata realtà nasce sempre qualche novità, un artista, un movimento, una tendenza che seguiamo da anni con passione, senza stancarci. Due sono i punti cardine di ogni nuovo elemento che si aggiunge a questo universo: lo spessore poetico e l’innovazione musicale e ritmica attraverso forti elementi della tradizione. I nuovi nomi della MPB raccolgono i loro consensi internazionali rispettando sempre questi requisiti. Lenine ad esempio: tra gli elementi della nuova generazione è quello di certo più affermato e stimato a livello internazionale. Nella sua musica convivono elementi del rock occidentale con influenze regionali nordestine. La poetica che interpreta è scarna ed essenziale, scegliendola spesso tra le composizioni di giovani autori di poesia contemporanea. Pochi di loro raggiungono il successo internazionale conquistato periodicamente da quelli che possiamo considerare veri e propri fenomeni di massa, come Jà sei namorar dei Tribalistas o il rilancio di un classico, Mas que nada, da parte di Sergio Mendes. La musica brasiliana è più che altro un segmento di mercato il cui prodotto si rinnova sempre, che esce dal clichè musica di moda caduto sulla testa della musica afro, di quella cubana e caraibica in generale, ma che allo stesso tempo gode di certi boom stagionali che possono sembrarci studiati piani di marketing pensati per rinnovare l’attenzione su questo genere specifico. Ma il discorso è molto più ampio, e non mi sembra questo il momento di trattarlo. Fra queste novità potrei segnalarvi decine di nomi sconosciuti,ai quali potrebbero aggiungersene altre decine suggeriti da chi mi legge: oggi giorno la rete ci offre quotidianamente spunti ed informazioni che aumentano la nostra conoscenza e contribuiscono anche ad una certa confusione. Non è una corsa a chi è più attualizzato o a chi mette in fila più nomi. Alla fine, chi viene fuori da tutto questo gigantesco flusso di suoni e canzoni sono artisti che sicuramente faranno parte della storia della MPB contemporanea: Celso Fonseca, ad esempio, eccellente musicista, per anni al fianco di Gilberto Gil, è da anni abile ad una carriera solista. Il suo stile mescola la bossanova con il pop contemporaneo, le sue composizioni sembrano prepararsi a diventare degli standards, interpretate Marisa Monte Infinito Particular Wilson Simoninha Volume 2 Marcelo D2 A Procura da Batida Perfeita 06 Inverno 2009 17 Mondomix.com da Gal Costa, da Mart’nalia (la nuova diva del Samba carioca) o dallo stesso autore. Parlando di donne invece, vedo Ceu, una bellissima ragazza di Sao Paulo, vera grande promessa nel campo interpretativo, così come Ana Costa, di Rio de Janeiro, anche lei pronta a seguire i passi delle grandi cantanti di samba, come Beth Carvalho o Alcyone. Il vero e proprio genio del momento, in campo maschile, è invece Seu Jorge, un personaggio: attore, autore e interprete, arriva nel mondo dell’arte dopo una travagliata e commovente esistenza nella marginalità. Debutta nel cinema (City of God-4 nominations all’Oscar) e tutti ne parlano; esce il suo primo album per una multinazionale (America Brasil O disco), dopo tre tentativi di eccellente qualità ma mal distribuiti, ed è un trionfo. Scrive come pochi autori contemporanei, i suoi punti fermi sono, nel passato, Chico Buarque e Jorge Ben. Un parallelismo, dal punto di vista poetico, nel presente, si può fare con Carlinhos Brown che, come Seu Jorge, utilizza un vocabolario tutto suo, pieno di neologismi e parole nonsense ma piene di musicalità. Sempre a Rio de Janeiro, città che vide nascere la bossa nova, molti sono gli interpreti e gli artisti che rifacendosi a questo glorioso passato, gettano le radici per il loro futuro. Paula Morelenbaum, per esempio, dopo una lunga carriera accanto al maestro Tom Jobim, come voce solista della sua Banda Nova, si affaccia sul mercato internazionale grazie alla collaborazione con Sakamoto e al marito Jaques Morelenbaum, eccellente violoncellista, stretto collaboratore di Veloso. Paula da un po’ di anni, nella realizzazione dei suoi albums, cerca di rivalutare alcune composizioni meno famose ma altrettanto intense, del patrimonio bossanova e samba cançao classico, con ottimi risultati. Così come fanno, rileggendo la bossa nova in chiave molto più pop-drum n’ bass i ragazzi di Bossacucanova, figli d’arte e leaders nella modernizzazione di certa tradizione per noi europei intoccabile. Un’altra bella voce femminile è senz’altro Roberta Sà, norderstina, con un gran gusto musicale, attenta alle composizioni dei giovani autori contemporanei. Così come hanno fatto prima di lei Vanessa da Mata e la più grande interprete brasiliana contemporanea, Marisa Monte. Roberta, con la sua voce e la sua estetica di classe, enfatizza la nuova canzone popolare, quella che si ascolta nei teatri delle grandi città brasiliane e che fa da colonna sonora alle telenovelas più cheap. Un ultimo sguardo al rap brasiliano, che apparentemente potrebbe essere accusato di scopiazzare i miti americani del genere. Nulla di più falso. Anche qui, come in altre parti del mondo e forse prima di quello che è successo negli USA, alcuni artisti già interpretavano le loro canzoni semplicemente parlando su una base ritmica. Lo faceva il grande interprete Wilson Simonal, purtroppo prematuramente scomparso. Lo fa adesso suo figlio Simoninha, buon MC nel rivalutare il samba paulista; ma è soprattutto è Marcelo D2 che unendo il samba delle favelas al rap ha creato un fenomeno nazionale che abbina testi di evidente protesta sociale a musiche di immediato impatto popolare, inneschi che fanno esplodere in ogni città brasiliana e anche all’estero, una passione che ci contamina anno dopo anno, canzone dopo canzone. ALBUM Joao Gilberto Amoroso Tom Jobim Terra Brasilis Vinícius de Moraes Favourites Caetano Veloso Estrangeiro Gilberto Gil Quanta Milton Nascimento Pietà Jorge Ben 10 Anos Depois Tribalistas Tribalistas Lenine Labiata Sergio Mendes Brasileiro 06 Inverno 2009 Una guida minima ai chitarristi africani Continente musicale per eccellenza l’Africa oltre a valenti virtuosi di strumenti tradizionali ha prodotto anche grandi esponenti di quello che è lo strumento più diffuso, conosciuto e praticato in Occidente: la chitarra. Scopriamo alcuni di questi maestri attraverso gli album più significativi. di Eddy Cilìa Ce lo diciamo da soli prima che provvedano altri: naturalmente a nessuno sarebbe mai venuto in mente di scrivere un articolo sui chitarristi europei, collocando sotto il medesimo tetto – per dire – Jimmy Page e Paco de Lucia, Kevin Shields e Richard Thompson. È il vecchio equivoco che da sempre circonda la world music, quello che fa sì che non ci sembri strano che i dischi di Caetano Veloso nei nostri negozi si trovino in quello scaffale e ci paia invece assurdo che negli Stati Uniti tocchi a Battisti venire così incasellato. Vecchio equivoco dal quale non si esce, sia perché derivante da una visione del mondo eurocentrica che perché si sistemano sotto la stessa voce mille generi riconducibili ad almeno due metageneri, nettamente distinti e distinguibili, quali folk e pop. Ma non è questo l’ambito per discutere di massimi sistemi e, visti spazio e intenti della rubrica, nemmeno di minimi: perdendosi, tanto per cominciare, nel racconto pieno di zone d’ombra di come fu che la chitarra sbarcò in Africa e di come si pose in rapporto con gli strumenti a corda locali. Si sostiene da più parti che furono i Portoghesi a introdurla all’epoca delle grandi esplorazioni ma, se così fu, era uno strumento piuttosto dissimile da quello che riceverà una codificazione definitiva solo in pieno Ottocento. Né sfuggirà al lettore che, in un continente nel quale tuttora una percentuale rilevante di popolazione deve fare a meno dell’elettricità, una Fender Stratocaster (se ne individua più d’una nelle copertine qui attorno) rappresenti un qualcosa oltre il lusso. Ancora massimi sistemi: impossibile dire in quale misura il blues arrivi dall’Africa e se già vi allignasse prima della diaspora degli schiavi. Noi in Ali Farka Touré sentiamo John Lee Hooker, ma la prima volta che Ali Farka Touré ascoltò John Lee Hooker ne trasse la convinzione assoluta che fosse pur’egli maliano. Molto afroblues in questa lista di venti titoli nella quale il Mali, piazzandone sette, fa la parte del leone. Non poteva essere altrimenti, trattandosi della più eminentemente chitarristica fra le musiche africane. Che diversi dei dischi in questione siano acustici ci fa ricordare che tanto è ricco di talenti il paese che ci ha regalato Ali e Vieux Farka Touré, Boubacar e Rokia Traoré, Djelimady Tounkara, Afel Bocoum e Habib Koité, quanto è desolatamente povero di qualsiasi altra cosa. Tanto Congo anche (o Zaire, come si è chiamato per un quarto di secolo), con a dare man forte al divino Franco predecessori e succedanei fra rhumba e soukous quali Henri Bowane, Docteur Nico, Remmy Ongala e Diblo Dibala, e un tot di Nigeria, che non è stata e non è solo il funk secondo Fela ma pure juju e highlife ed ecco King Sunny Adé, Ebenezer Obey, Prince Nico Mbarga. Presenze testimoniali, infine, per il Senegal con Ismäel Lô, la Sierra Leone con Sooliman E. Rogie, l’Uganda con Geoffrey Oryema, lo Zimbabwe con Oliver Mtukudzi e Capo Verde con Teofilo Chantre: se è vero che furono i Portoghesi a portare lo strumento nel Continente Nero, quest’ultimo vale come chiusura di cerchio, siccome canta in quell’idioma e reminiscenze lusitane sono in lui evidenti. Due fondamentali avvertenze… La prima, a parte che il concetto di “virtuosismo” è molto europeo, è che parecchi dei più dotati fra i chitarristi africani hanno agito storicamente in prevalenza, quando non esclusivamente, all’interno di gruppi: Barthelemy Atisso con l’Orchestra Baobab e Sekou Diabaté con Bembeya Jazz, Shiko Mawatu e Lokassa Ya Mbongo con Soukous Stars piuttosto che Jonah Sithole a fianco di Thomas Mapfumo. A complessi e orchestre sarà dedicata un’altra trattazione, laddove qui, al di là delle capacità tecniche, si sono privilegiati artisti nella cui opera la chitarra ha un peso decisivo ma ai quali non necessariamente si pensa in prima battuta come a dei chitarristi. La seconda rientra nell’ovvio e tuttavia le ovvietà talvolta è meglio sottolinearle: in Occidente conosciamo abbastanza la musica di alcuni paesi e poco quella di altri. Su ogni elenco che stiliamo, l’ignoranza pesa quanto il sapere. Chitarre africane 19 Mondomix.com KING SUNNY ADÉ & HIS AFRICAN BEATS Juju Music Island, 1982 Colossale l’equivoco nel quale incorreva la Island scambiando King Sunny Adé per un secondo Marley. Sarà presto chiaro che il Nostro non ha quel carisma e che benché seducente – una collisione di fitte linee chitarristiche e densi profluvi percussivi sviluppatasi da una miscela di influenze yoruba, brasiliane e della Sierra Leone – la juju music non ha l’immediatezza e l’universalità del reggae. Sia comunque benedetto quell’equivoco: certi dischi non li avremmo se no ascoltati. FRANCO 20ème anniversaire Vol.1 Sonodisc, 1989 A due decenni dalla morte che lo coglieva cinquantunenne (lo uccideva l’AIDS, contro cui fu un testimonial formidabile) Franco è presenza più che mai cruciale un po’ in tutta l’Africa subsahariana. Sulla sua valenza di strumentista la dice lunga il soprannome che si portava appresso: lo Stregone della Chitarra. Sulla statura d’autore un repertorio in tutti i sensi immenso, fresco fra l’altro di parzialissima quanto splendida rivisitazione da parte di un emulo magistrale quale Syran Mbenza. ISMÄEL LÔ Ismäel Lô Mango, 1991 Chitarrista principe in un ambito, quello della cosiddetta mbalax, in cui sono soprattutto le percussioni a menare (letteralmente) le danze, Ismäel Lô cresce ascoltando alla radio Otis Redding e Wilson Pickett e arriva a fare della musica una professione per caso, partecipando solo per l’insistenza di uno dei tanti fratelli a uno spettacolo in TV. In quella che fu la prima uscita europea il folk nordamericano e quello mandingo trovano una comunione egualmente sobria e densa di suggestioni. PRINCE NICO MBARGA Aki Special Rounder, 1987 La canzone africana più venduta di sempre? Non Soul Makossa ma Sweet Mother. Tredici milioni di copie. È il pezzo forte di un CD che raccoglie due LP rispettivamente del ’76 e dell’82, Sweet Mother per l’appunto e Free Education. Siamo al perfetto incrocio fra soukous, una miscela di elementi zairesi, centroamericani e country, e la più prettamente nigeriana highlife, in pari misura chitarristica e fiatistica nell’accezione urbana e tutta chitarristica in quella (non meno ballerina) rurale. REMMY ONGALA & ORCHESTRE SUPERMATIMILA Mambo Real World, 1992 Congolese di nascita ma residente in Tanzania, Ongala debutta internazionalmente per l’etichetta di Peter Gabriel con un disco dal titolo fuorviante. Nulla a che fare con la celeberrima danza cubana, essendo il “mambo” che lo battezza parola swahili che si può rendere, all’incirca, come “osservazioni sulle cose che accadono”. Il che svela la natura politica di nove brani in apparenza spensierati e di somma danzabilità, meticciamente fra rhumba (un filo diretto con i Caraibi c’è dunque in ogni caso) e soukous. SOOLIMAN E. ROGIE Dead Men Don’t Smoke Marijuana Real World, 1994 Sfortunatamente quando questo suo esordio internazionale vede la luce l’autore canne non se ne può più fare, essendo scomparso, sessantottenne, pochi mesi prima. Di indicibile godibilità un testamento che sciorina rilassatissimo folk-blues il cui (per noi) possibile referente non è il solito John Lee Hooker, bensì Joseph Spence. Le Bahamas invece del Mississippi insomma, con un ulteriore colpo da maestro in una traccia bellissima, A Time In My Life, che ascoltare e immaginarsela da Johnny Cash è un tutt’uno. DJELIMADY TOUNKARA Sigui Indigo, 2002 Leader e chitarra portante dai primi ’70 della Super Rail Band e in seguito componente di Bajourou, Tounkara debutta da solista con un lavoro clamoroso, sotto tutti i punti di vista all’altezza del miglior Ali Farka Toure. Rispetto a quelli del connazionale, i suoi spartiti paiono meno austeri, con un più pronunciato gusto per lo swing e la festa. Sembrerebbe avere inoltre subito un certo influsso cubano: fatto è che nelle corde ha un sentimento di latinità che ce lo avvicina vieppiù. ALI FARKA TOURÉ Ali Farka Touré World Circuit, 1988 Apparso da subito incolmabile il vuoto causato dalla sua scomparsa nel 2006, ci consola il gruzzolo di dischi lasciatici da colui che più di chiunque ha fatto per riportare il blues a casa. Diceva che “quando ascolto John Lee Hooker, James Brown, Ray Charles, per quel che mi riguarda è musica del Mali adattata a un altro paese”. Grazie a lui, dopo di lui, vale per noi un idem sentire. In una produzione di livello uniformemente stellare, abbiamo scelto per affetto il lavoro che ce lo fece conoscere. 06 Inverno 2009 20 Mondomix.com BOUBACAR TRAORÉ Kar Kar Stern’s, 1992 Contrazione di “kari kari”, termine con il quale nel suo paese si denomina la nobile arte del dribbling, Kar Kar diventa il soprannome di Boubacar Traoré e il titolo del suo primo album. Tanto era estroso da calciatore, tanto da cantante e chitarrista va dritto al punto, con uno stile scarno e schietto ai limiti dell’asprezza. Oltre che nella musica, ricorda taluni grandi bluesmen anche nella vicenda personale: riscoperto in età tarda quando qualcuno addirittura ipotizzava fosse morto. ROKIA TRAORÉ Wanita Indigo, 2000 Incantesimo di corde e percussioni fittamente intrecciate e voci che scappano da tutte le parti ma si ricongiungono poi, come affluenti in un fiume. Fortemente localizzata e poco sensibile agli influssi esterni, la musica della Traoré esibisce nondimeno fascino universale, tanto da farle percorrere un tragitto inverso rispetto alla maggior parte dei musicisti del Continente Nero: profetessa prima e di più in Europa, sin dal già maturo esordio del ’97 Mouneïssa, che non nel Mali. E non vi fossero bastati… AFEL BOCOUM Alkibar World Circuit, 1999 Dopo una vita vissuta all’ombra di Ali Farka Touré, il Primo Ministro del Re dell’Afroblues si prende il centro della ribalta da solo e sono ovazioni. HENRY BOWANE Double Take – Tala Kaka Retro Afrique, 1997 Sono i ’50 l’età aurea di un uomo cui dobbiamo sia la prima rhumba africana che i primi incroci fra le melodie chitarristiche del soukous e i poliritmi della highlife. Oltre che la scoperta di Franco. TEOFILO CHANTRE Azulando Lusafrica, 2004 Se Césaria Évora è la voce di Capo Verde, Teofilo Chantre ne è la chitarra. Perennemente incerta fra la malinconia della morna e lo spumeggiare del samba. DIBLO DIBALA Super Soukous Shanachie, 1989 Il chitarrista più veloce d’Africa (lo chiamano Machine Gun) assurge alla fama da fiancheggiatore di un campione di vendite quale Kanda Bongo Man (in area soukous più di costui giusto Franco) e poi proclama l’indipendenza. DOCTEUR NICO & ORCHESTRE AFRICAN FIESTA 1963-1965 African, 1985 È davvero qui la fiesta, giacché Mai Dottore fu più Feelgood di Nicolas Kasanda. Un irresistibile anticipatore tanto di Franco che di Dibala. HABIB KOITÉ & BAMADA Ma Ya Putumayo, 1999 “Un viaggio in dodici canzoni attraverso il Mali durante il quale mi sono concesso la libertà di muovermi da un ritmo all’altro”: così Ma Ya nelle parole dell’artefice, misurato modernizzatore delle tradizioni locali. OLIVER “TUKU” MTUKUDZI Greatest Hits: The Tuku Years 1998-2002 Sheer Sound, 2003 Secondo al solo Mapfumo nel regalare visibilità globale alla musica dello Zimbabwe. Un abbonato ai vertici delle classifiche world. CHIEF COMMANDER EBENEZER OBEY & HIS INTER REFORMERS BAND Juju Jubilee Shanachie, 1985 Sunny Adé è il Re – autoproclamato ma unanimemente riconosciuto – della juju music? Obey ne è il Comandante in Capo, galloni guadagnati declinandone una versione marcatamente più funk. GEOFFREY ORYEMA Exile Real World, 1990 In esilio Oryema ci va nel 1977 quando, ventiquattrenne, vede il padre assassinato dagli sgherri di Idi Amin. Tutta europea una carriera che lo vede esordire con questo Exile – quindi tardivamente – ma volando subito altissimo, Gabriel mentore, Eno in regia. VIEUX FARKA TOURÉ Fondo Six Degrees, 2009 Tagliente come quasi mai quello di chi sapete, l’afroblues del Vecchio ma Giovane Farka Touré. Funky nelle pulsioni e rock nell’essenza. 06 Inverno 2009 Chitarre africane 21 Mondomix.com 15 anni di Talking Timbuktu Il disco che ha cambiato le nostre prospettive musicali di Mauro Zanda «Il nome è un presagio» affermavano profetici i nostri padri. Difficile allora immaginare un nome più intrinsecamente leggendario, Talking Timbuktu. In quel incipit c’era già un intero universo, la capacità d’evocare un luogo dell’anima a lungo inseguito alla stregua di una chimera. Toumbouctou, come la chiamano i francesi. Anche se qui preferiamo mantenere l’originale dicitura tamasheq, quel Tin-Buktu che, letteralmente, stava ad indicare una «città posta alla fine del mondo». Timbuktu la perla del deserto, Timbuktu città dell’oro e dei 333 santi, crocevia mistico di sabbia, fango e mistero. Che poi, fine ultimo o ombelico del mondo, è solo questione di prospettive. Lo stesso Ali, nel libretto del disco, contestava questa idea eurocentrica, rivendicandone invece con orgoglio l’assoluta centralità spirituale. Quasi avesse voluto dirci: «Timbuktu e le antiche pentatoniche del deserto sono il cuore della faccenda. Non quello che vi ostinate a chiamare blues afroamericano.» Ecco in nuce il segreto di un disco certamente straordinario, ma non il migliore della sua discografia. Un disco che - consapevolmente o meno, poco importa - è stato capace d’utilizzare l’universalità del linguaggio blues come passepartout per le radici westafrican nel mondo occidentale. Attenzione: radici è la parola chiave. Perché dopo la sbornia della World Music, Talking Timbuktu dimostra che esiste un pubblico vasto e ricettivo anche riguardo la musica fatta dagli africani per gli africani. Local music from out there la chiama il mensile britannico fRoots; Musique et cultures dans le monde per restare ai nostri cugini d’oltralpe di Mondomix. Talking Timbuktu però, fu solo un pretesto. Per quanto infatti Cooder giochi scientemente il ruolo del discreto comprimario, resta un progetto di fusione programmatica. Ma è l’idea che trasmette quel che più conta; quella di un disco di autentico blues africano, che vuole dimostrare anche all’occidente come quei suoni abbiano genesi e processi ben più antichi e lontani. Non che prima d’allora non fossero venuti alla luce, anche grazie allo stesso Ali, dischi di siffatta specie. Solo che, appunto, questo faceva leva su corde emotive particolarmente care agli appassionati dell’emisfero Nord. Scoprire d’un tratto - grazie ad una pubblicistica che metteva assieme il rinomato etnomusicologo americano ed un misconosciuto depositario delle tradizioni maliane – che esiste una forma ancestrale di blues africano, in evidente linea di continuità con il suono del Delta, fu un detonatore irresistibile, il secondo capitolo di un viaggio a ritroso verso le origini di un suono che sta alla base esatta di tutte le musiche popolari del Nuovo Mondo. Basti pensare alla febbre che contagiò i musicisti inglesi negli anni ’60, il cosiddetto blues revival: giovani musicisti pervasi dall’urgenza di riconnettersi con le autentiche radici di tutto ciò di cui si era cibata la civiltà occidentale nel secolo XX. Un’esigenza profonda che, in fondo, coincide con le domande universali dell’uomo: «Chi sono, da dove vengo, dove sto andando». Talking Timbuktu rappresenta in qualche misura la logica conseguenza di quella domanda, una smania esplorativa che attraversa soprattutto le società secolarizzate, e che di lì a qualche anno sarebbe culminata (almeno riguardo al blues) nel documentario di Martin Scorsese From Mali To Mississippii. Talking Timbuktu ha avuto il merito di fare breccia prima 06 Inverno 2009 degli altri, meglio degli altri, in quella voragine identitaria. Per quanto splendido, fu semplicemente il disco giusto al momento giusto. Per altro corroborato dallo straordinario orgoglio da primogenitore rivendicato dallo stesso Toure. Lo incontrai nel 2000. Era già provato dalla malattia. Era stanco ma indomito il somaro, e quando sentiva accostare la sua musica a quella di un John Lee Hooker qualsiasi, sapeva fulminarti con occhi vividi e metafore sublimi: «Non esiste il blues americano. A John Lee Hooker dico questo: lui non ha che le foglie ed i rami, io ho il tronco e le radici.» Online www.myspace.com/ alifarkatoureofficial CD Ry Cooder / Ali Farka Toure Talking Timbuctu World Circuit / IRD 22 Mondomix.com Le Tradizioni Musicali degli Uiguri: Appunti per un Paesaggio Sonoro di Giovanni De Zorzi Mappa attuale della regione autonoma dello Xinjang-Uygur Ultimamente i giornali hanno portato all’attenzione dei lettori il caso degli uiguri in occasione degli scontri avvenuti nell’attuale Xinjang cinese. Tenendoci lontani dalle vicende politiche, ci si concentrerà qui su quello che è considerato il fiore della cultura uigura, la musica, inscindibile dalla poesia e dalla danza. Gli uiguri sono un gruppo di genti turche dal remoto passato: il termine On Oghur, compare per la prima volta nell’iscrizione di Orkhon del 460 d.C. che “censisce” i principali gruppi turchi esistenti da tempi immemorabili, distinguendo Oguz, Uigur e Kirgyz. Prima di tale data, sembra che gli uiguri fossero una confederazione di clan provenienti dal bacino del fiume Selenga, nell’attuale Mongolia settentrionale. Tra il 745 e l’840 d.C. in questa stessa area essi fondarono un impero che fu in buoni rapporti con la dinastia cinese Tang ma che si dissolse agli inizi del IX secolo sotto gli attacchi dei Kirgyz. Prima di tale data, sembra che gli Uiguri fossero una confederazione di clan provenienti dal bacino del fiume Selenga, nell’attuale Mongolia settentrionale. Tra il 745 e l’840 d.C. in questa stessa area essi fondarono un impero che fu in buoni rapporti con la dinastia cinese Tang ma che si dissolse agli inizi del IX secolo sotto gli attacchi dei Kirgyz. Per sfuggire a questi attacchi, gli Uiguri si divisero in due: una parte verso i territori dell’attuale provincia cinese del Gansu, e un’altra parte verso i territori dell’attuale Repubblica autonoma dello Xinjang-Uygur (Xinjang-Uygur Zizhiqu), l’area in cui vissero per secoli. Come accade anche oggi, laddove essi sono “minoranza” islamica nel mare della Cina, la spiritualità degli uiguri li distinse sempre dai propri vicini: essi furono innanzitutto buddhisti, in un contesto di genti sciamaniche; più tardi si diffusero lo Zoroastrismo, il Cristianesimo nestoriano e il Manicheismo divenne la loro religione ufficiale, soppiantata definitivamente solo nel X secolo d.C. dall’Islam sunnita di scuola giuridica hanafita. Geograficamente, l’area nella quale vivono gli uiguri è tra le più radicali del pianeta: essa assomiglia ad una immensa coppa di sabbia composta dal deserto del Taklamakan e dalla depressione del Lop Nor, coppa delimitata su tre lati dalle catene dell’Himalaya, del K’un-lun Shan e del Tian Shan mentre rimane aperta ad oriente verso il Gansu. In termini politici, lo Xinjang-Uygur è incuneato oggi tra la Mongolia, a Nord; il Kazakhstan e il Kyrgyzstan a Nord Ovest; l’Uzbekistan e il Tajikistan ad Ovest; il Pakistan, l’India e il Tibet a Sud e la Repubblica Cinese ad Est. Per lunghi secoli per designare questi territori sconfinati si adoperò il termine “Turkestân orientale”. Solo nel 1768 il termine venne – sintomaticamente – sostituito dal termine cinese Hsin-Chiang, “Nuovi territori”: a quella data risalgono le tensioni attuali. Per ripararsi dall’occupazione e dalla repressione cinese, gli uiguri si rifugiarono nell’Uzbekistan orientale, nel Kyrgyzstan, nei territori del Kazakhstan sudorientale e, più di recente, negli USA. La geografia dell’area condizionò i principali stili di vita degli uiguri, seminomadi ai margini dei deserti, sedentari lungo i fiumi. Dalle vette delle principali catene montuose, infatti, scendono degli affluenti che tenderebbero a collegarsi con il fiume principale, il Tarim (l’area per secoli è stata detta anche Tarim Pendı, “Bacino 06 Inverno 2009 Luca Baraldo 23 Mondomix.com La grazia ineffabile di Dilshat Iminov L’area degli uiguri nel contesto storico della Via della Seta 06 Inverno 2009 24 Mondomix.com del Tarim”) ma che, in realtà, dopo pochi chilometri finiscono per perdersi tra le sabbie. Grazie alla presenza d’acqua, in alcune aree della regione si poté praticare l’agricoltura e poterono sorgere dei centri urbani detti “città-oasi” che costituirono la rete delle “Sei città” (altıshahr), snodi commerciali e culturali di importanza fondamentale ai bordi del deserto lungo la “Via della Seta” e, più tardi, lungo la “Via della Giada”. Questa rete di centri urbani fu nota per secoli anche con il nome di Kashgaria e fu strettamente connessa con il mondo culturale centroasiatico, iranico e indiano. Verso il X secolo, islamizzati, gli uiguri si organizzarono in khânati, i più importanti dei quali furono quelli delle città-oasi di Kashgar, Yarkand e Khotan. Come accadde in Asia Centrale, la differenza tra stili di vita nomadi e sedentari influì direttamente sulla musica: con l’etnomusicologo Jean During possiamo notare come la musica tradizionale dei nomadi sia prevalentemente solistica, di ritmo libero, e come l’ambitus melodico si limiti ad un intervallo di sesta o di ottava. Nelle musiche delle genti sedentarie, invece, vi è sempre un ritmo regolare, scandito su di uno strumento a percussione; la linea melodica parte dal grave e s’innalza di una o due ottave per gradi successivi giungendo ad un apice detto awj (ôj), per ridiscendere, ed eventualmente risalire ancora, in brani che abbiano più awj. Tra gli uiguri sedentari si è sviluppata una tradizione classica detta onikki muqam, (“dodici muqam”): come altrove in area centroasiatica, anche per gli uiguri con il termine muqam si intende un dato modo musicale e, allo stesso tempo, l’ordinamento di diversi brani di ritmo differente in ampie suites che presentano una coerenza modale interna, perché raggruppate secondo un unico modo (muqam) di riferimento. I dodici modi (muqamat) principali sono: rak, chäbbiyat, mushaviräk, charigah, pänjigah, özhal, äjäm, oshaq, bayat, nava, segah, iraq. Ogni suite viene suddivisa formalmente in tre sezioni principali: dopo il muqam bashı (letteralmente“testa, inizio del muqam”), preludio che serve al solista per delineare ed esplorare il muqam prescelto, la tripartizione di una suite generalmente segue lo schema: 1 chong naghme (“grandi canti”); 2 dâstân naghme, “arie narrative”; 3 mashrap (“festa, banchetto”). L’onikki muqam varia, però, radicalmente da regione a regione: i centri classici di propagazione, dal corpus monumentale, sono considerati Kashgâr e Yarkand; qui ogni suite dura circa due ore e i musicisti in una performance si limitano a proporne una selezione. Al Nord, invece, nella regione del fiume Ili (Ili Kuljia) l’onikki muqam esiste in una versione più breve e prende una maggior importanza il genere vocale paragonabile alla “canzone” detto nakhshe (letteralmente “decorazione, disegno”) e la breve suite (15-30 minuti) di canzoni detta Ili nakhsesı, suddivisa in 5/12 parti ma introdotta anch’essa, come nelle tradizioni della Kashgaria, da un preludio a tempo libero, non misurato. Tra gli strumenti degli uiguri, da considerare come elaborazioni particolarissime degli strumenti diffusi in area mediorientale e centroasiatica di cultura islamica, vanno ricordati i liuti a manico lungo dutâr, tämbur, rawap; il tamburo a cornice dap e i piccoli timpani naghra, spesso in coppia con l’oboe sunay; il flauto nai, traverso e in legno come in area centroasiatica; la cetra su tavola pizzicata qalun; la cetra su tavola percossa chang; le vielle satâr, ghijek, khushtar. Ovunque, a prescindere dalla regione, i testi cantati appartengono al genere che la critica definisce amoroso/ mistico, profondamente influenzato dal sufismo (tasawwuf). Essi provengono sia dai poeti classici d’area centroasiatica dei secoli XV-XVII come Jâmi, Navâ‘i, Fûzulî, che dagli uiguri Luppî e Saqqâki. Un caso a sé è dato dal canto delle liriche di carattere mistico di Ahmad Yasawi (m. 1166) così come dei poemi dei suo seguaci, ad esempio Bâbârahim Mâshrâb (1640-1711) che hanno un particolare rilievo in Suoni dal deserto asiatico ambiente sufi. Radicalmente diverso nel panorama musicale uiguro è il caso dell’etnia Dolan: seminomadi, discendenti da un clan mongolo, essi vivono ai margini del deserto del Taklamakan e ribadiscono l’autonomia della loro tradizione culturale e musicale che chiamano muqam dolan, oppure, più popolarmente, bayawan (“deserto”). Il muqam dolan è interamente danzato; utilizza nove soli modi musicali, invece di dodici; non è eptatonico, ma esatonale o pentatonico; ogni suite è molto più corta (massimo 10 minuti) di quella del muqam uiguro; l’interpretazione è assai libera e ogni interprete intona la melodia a suo modo: ne risulta un’eterofonia spiazzante, libera, molto vicina ad un free jazz lirico, spaesato e dai suoni delicati. Tra i dolan, ma più in generale ovunque ci si trovi tra gli uiguri, il contesto privilegiato per far musica è il mashrap, (“convivio”), momento di riunione che nel nome stesso si richiama alla tradizione sufi, ma che è anche gioioso ritrovo d’amici dove ci si sazia di cibo, di musica e nel quale uomini e donne danzano liberamente. Il mashrap è analogo al toy in area centroasiatica, un ciclo di feste date in occasione di differenti momenti di passaggio della vita umana che riunisce diverse centinaia di persone. Tra gli uiguri il mashrap è più intimo, meno numeroso, ma rappresenta tuttora il luogo ideale dove si ascolta musica e dove gli artisti possono esprimersi in costante interazione con il pubblico. Giunti sin qui si può solo accennare ad alcuni generi più recenti, che vanno dagli ottocenteschi poemi sinfonici dai tratti esotizzanti su motivi “foklorici” composti da autori locali formatisi sul modello russoeuropeo-cinese; alle attuali versioni del pop occidentale speziate da elementi autoctoni, che in un mix di strumenti elettrici e tradizionali fanno scoppiare le autoradio, esattamente come accade per le tarôna d’Asia centrale; ai vari generi cinesi, sia “leggeri” che “classici”, arrivati al seguito dell’invadente etnia Han. Sanam Uyghur Ensemble Discografia selezionata Asie Centrale. Musique des Ouïgours. Traditions d’Ili et de Kachgar - Inédit Bu Dunya-This World. Songs and Melodies of the Uyghurs - PAN Records / Felmay Chine, Turkestan Chinoise/Xinjang. Musiques Ouïgures, Ocora / Egea Turkestan chinois, Le muqam des Dolan. Musique des Ouïgours du désert de Takla-Makan, Inédit The Silk Road: a musical caravan Smithsonian Folkways / Egea The Uyghur Musicians from Xinjiang: Music from the Oasis Towns of Central Asia, Globestyle / IRD 06 Inverno 2009 06 Inverno 2009 26 Mondomix.com Ambrogio Sparagna ricostruisce il canone dei canti italiani. Il maestro di Maranola, pioniere dell’organetto diatonico e infaticabile sostenitore del nuovo folk revival, registra il suo primo disco con l’Orchestra Popolare Italiana, complesso folk residente dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Un disco che raccoglie una selezione di 14 canti provenienti dal mondo della tradizione orale dell’Italia centro-meridionale ma con ampie incursioni anche nella realtà del nord, ispirati alle forme e ai modi della tarantella e poi rielaborate da Ambrogio Sparagna per l’Orchestra Popolare Italiana, il complesso con cui il musicista e ricercatore prosegue il suo personale percorso di studio e attenzione verso le tradizioni, avviato con il rilancio dell’organetto, strumento tradizionale, radicatissimo in tutto il territorio nazionale, ma scomparso fra gli anni ‘70 e ‘90 dall’uso comune. Poi via via con l’impegno discografico, l’organizzazione di manifestazioni e rassegne – di particolare importanza quella dedicata alla zampogna che ha contribuito a rilanciare l’attenzione su questo mitico strumento della tradizione agro/pastorale - e il lavoro al Festival La Notte della Taranta. Nel disco Taranta d’amore Sparagna esplora come la tarantella, con il suo vorticoso ritmo ternario, abbia influenzato il repertorio dei canti popolari italiani, in particolare della fascia appenninica. Sparagna riscopre e reinventa questi ritmi mediante un orchestra comprendente molteplici strumenti della tradizione popolare suonati da valenti strumentisti: Federico e Riccardo Laganà (tamburello), Ottavio Saviano (percussioni), Cristiano Califano (chitarra battente), Redi Hasa (violoncello), Sambu Gruia (contrabbasso), Emanuele Coluccia (sax), Marco Tomassi (zampogna gigante), Antonio Vasta (zampogna), Erasmo Treglia (violino e ciaramella), Giuseppe Grassi (mandoloncello) e le voci di Mario Incudine, Raffaello Simeoni, Alessia Tondo, Gianni Aversano, Eleonora Bordonaro, poi Mimmo Epifani (voce e mandolino). Francesco Filosa (organetto), Monica Neri (lira e organetto). Un complesso poderoso per un progetto discografico che potrebbe rivelarsi una svolta nella lettura delle nostre tradizioni musicali da sempre considerate disomogenee nello stile dell’esecuzione. Taranta d’amore è forse il primo passo di questa rivoluzione critica del nuovo folk italiano ragione che ci ha spinto ad incontrare Sparagna per farcene raccontare genesi e realizzazione. La Taranta d’amore di di Felice Liperi Cosa rappresenta nel percorso del musicista questo nuovo progetto? Come si inserisce nel suo lavoro di ricerca? Per realizzare questo nuovo disco sono partito dal presupposto che la tarantella accomuna il paese, l’Italia delle tradizioni popolari e nei suoi aspetti più arcaici. Una centralità rafforzata dalla diffusione dell’organetto diatonico, usato di luogo in luogo, con specificità peculiari e differenti fra loro, ma omogeneizzate dal suo stile inconfondibile che unisce tutto il paese, come accade al Blues, nel Sud degli Stati Uniti, e con il flamenco in Andalusia. Un assunto inedito però perché l’Italia è sempre stata considerata un paese disomogeneo in quanto a tradizioni, soprattutto fra Nord e Sud, come hanno studiosi fondamentali come Roberto Leydi e Michele Straniero. In che modo ha sviluppato questo nuovo punto di vista? Attraverso la costruzione di un’antologia di brani uniti dalla taranta, un compito ora più facile dalla enorme popolarità conquistata dalla pizzica soprattutto dopo il boom salentino. Questo ci ha permesso di constatare che esiste un repertorio che accomuna tutta l’area appenninica. Brani legati a mondi musicali diversi, come l’area laziale marchigiana fino al territorio siciliano. Questa ricerca dei brani ci ha poi portato a trovare un altro elemento unificante del patrimonio popolare nell’utilizzo dell’endecasillabo che viene utilizzato in tutto il paese. Questo ci ha permesso di rafforzare la dimensione poetica del repertorio tradizionale e di recuperare un gran numero di strambotti laziali e salentini - questi ultimi in particolare grazie al lavoro dei fratelli Fuortes - proponendo la forma dello strambotto come vera spina dorsale di tutta la fascia italiana. Una novità perché finora si considerava lo strambotto come la poesia della Toscana, con radici colte, cortesi, strettamente legate alla nascita della lingua italiana. Si può datare questo cambiamento di prospettiva? Alla fine dell’800 quando si comincia a trasformare la fisionomia di questo stereotipo falso che mette la Toscana al centro delle lingue letterarie e musicali italiane. In quel momento tarantella e strambotto cominciano a configurarsi come forma alta di poesia cantata. Dove avete tratto le fonti per questo nuovo repertorio? Nel lavoro prezioso di Costantino Nigra che in veste di responsabile culturale del Governo Cavour alla fine dell’800 lanciò il primo gruppo di ricerca e studio sulla poesia popolare fondamentale per il reperimento dei materiali, in forma musicale e poetica via via circostanziati. Poi i fratelli Gioacchino e Tarquinio Fuortes per i materiali del Salento 06 Inverno 2009 i Ambrogio Sparagna e Zanazzo del centro Italia e del Lazio in particolare. Poi però il lavoro con l’Orchestra, e quindi nel disco Taranta d’amore, diventa quello di rielaborazione musicale che a me pare fondamentale per far conoscere i materiali ad un pubblico più ampio. Quindi il canto e il testo rimangono centrali per il lavoro dell’Orchestra e per riprendere il lavoro di ricerca che lei avviò molti anni fa dopo gli studi con Diego Carpitella? Direi proprio che ho ripreso la ricerca attraverso la trattazione dei canti perché credo che la poesia e il canto siano alla base della tradizione popolare. Anche la danza è segnata dalla poesia, non esiste il concetto della musica strumentale perché l’obiettivo è il rito, solo ricostruendo una letteratura musicale si può fare un lavoro nuovo. Ecco perché tutti i brani del disco sono cantati, l’obiettivo era quello di rinsaldare il rapporto fra parola e musica. In che modo questo lavoro mantiene coerenza con la filologia dell’ etnomusicologo? La differenza sta nel tentativo fondamentale di rilanciare, reinventare quasi, la tradizione. Un’operazione per la quale è fondamentale il ruolo della voce, infatti ho voluto che tutti i componenti dell’Orchestra Popolare Italiana fossero cantanti prima di tutto in grado di esprimersi nella 06 Inverno 2009 loro cultura. Come nel caso del griko con cui si esprime il canto di Alessia Tondo giovanissima interprete del canto salentino. Però anche nel suo caso si tratta di uno strambotto (Ilie-mu) proveniente dalla Grecìa Salentina. Ecco un altro esempio di elemento unificante fra le tradizioni popolari italiane: lo strambotto, come pure i dialetti e la poesia cantata che si esaltano nella vocalità che diventa portatrice di un messaggio universale. Qui credo stia la ragione del successo della taranta in tutto il mondo, dall’ultima edizione del WOMEX, dove l’Orchestra è stata accolta molto calorosamente, alla Cina dove abbiamo avuto un grande successo. Ha accennato alla fondamentale forza del canto popolare e del testo ma quali sono gli altri contesti in cui questo messaggio si esprime con maggior forza? Sicuramente anche in Sicilia dove il cunto dei cantastorie si presenta come una vera e propria poesia cantata. Poi il grande successo della Notte della Taranta, normalmente identificato con la dimensione ritmica del ballo salentino, invece credo stia nei brani cantati dove l’identità popolare si manifesta con grande forza perché funzionale al contesto in cui si esprime. Recensione CD pagina 42 L’Oralità ha una Casa: Squilibri. Un catalogo di musiche tradizionali: dalla Sicilia all’Umbria fino alla Lombardia di Antonello Lamanna Si chiama Squilibri e sarebbe davvero inadeguato definirla una piccola casa editrice dopo aver curiosato nel suo ricco catalogo, che vanta ormai moltissimi titoli, dai libri con dischi, ai documentari sul patrimonio della culturale orale italiana senza contare le firme dei più accreditati studiosi e appassionati del settore. Dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la Calabria, la Puglia e l’Umbria, quei saperi tramandati oralmente sono finalmente salvati e pubblicati grazie alla geniale intuizione del direttore editoriale Domenico Ferraro, che in pochi anni è riuscito a far diventare la casa editrice un punto di riferimento per studiosi e musicisti di tutt’Italia. Ne discutiamo con l’amministratore e titolare del marchio Squilibri, Elena Salvatorelli Musica tradizionale, oralità e tradizioni popolari d’ogni parte d’Italia, com’è nata l’idea di una casa editrice altamente specializzata? In maniera abbastanza casuale, nel 2001, su sollecitazione di alcune associazioni culturali legate al mondo tradizionale che avvertivano l’esigenza di uno strumento operativo più rispondente alle loro esigenze. Questo spiega l’avvio, per così dire, timido delle attività: dovevamo verificare l’effettiva esistenza di un mercato per questi prodotti e il carattere eterogeneo delle primissime pubblicazioni, essendo ancora noi alla ricerca di un identità. Una sorta di banco di prova, durato due anni, fino al 2004, quando abbiamo deciso di dedicarci pressoché esclusivamente alle musiche di tradizione in tutte le loro possibili declinazioni. Quali sono le linee lungo le quali vi muovete? Principalmente tre, vale a dire materiali sonori di rilevante interesse storico, materiali sonori altrettanto interessanti ma riguardanti il presente e, infine, le disparate possibilità di riuso dei materiali della tradizione. Nel primo ambito rientra la collana AEM-Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con la pubblicazione delle registrazioni dei padri dell’etnomusicologia italiana, da Nataletti a De Martino, da Carpitella a Cirese, da Collaer a Liberovici, per limitarci ai volumi già editi, ma anche la pubblicazione di opere monumentali di singoli ricercatori come Roberto De Simone per la Campania – uscirà a breve un volume con 7 cd allegati- e Valentino Paparelli per l’Umbria. In questo ambito rientra anche la collana AESS, appena inaugurata con il volume Patrimoni Sonori della Lombardia, sui materiali, anche audiovisivi, raccolti e conservati dall’Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia, tra le più significative esperienze di ricerca e valorizzazione delle culture orali in Italia, fondata da Roberto Leydi nel 1972 e tuttora molto attiva. Nel secondo gruppo, rientra la collana ATM - Archivio Tradizioni Musicali (U sonu, Le voci dell’Anio, Per voce sola etc...) ma anche Sinestesie (La capra che suona e Nel paese dei cupa cupa), vale a dire ricerche, in un caso settoriali, nell’altro estese a ambiti regionali, sullo stato attuale della musica popolare, stato di ottima salute direi malgrado le troppe frettolose dichiarazioni di morte della tradizione. Nel terzo gruppo possiamo per brevità collocare tutto il resto, vale a dire la collana discografica (con progetti artistici segnati da un richiamo alle tradizioni), A viva voce, su esponenti di spicco del cosiddetto folk revival come Otello Profazio, o anche operazioni di confine, come l’Omaggio in musica a Rocco Scotellaro o a Eugenio Cirese, vale a dire progetti artistici originali carichi di suggestioni mutuate dalla tradizione. Riesplode il gusto per la musica popolare, ma anche per i libri e i dischi : è una moda del momento o è una specie di affermazione della propria identità culturale? Ho un’istintiva diffidenza verso i ricorrenti discorsi attorno al recupero della tradizione come veicolo di affermazione della propria identità, se non altro per le pericolose implicazioni che presentano, emerse di recente in alcune strumentali prese di posizione a favore dei dialetti. Più che una moda, mi sembra un delirio collettivo, destinato a durare ancora a lungo e, dunque, ad aumentare la confusione del momento, segnata da un’unità indifferenziata tra fenomeni profondamente diversi, per quanto allo stesso modo interessanti e degni di attenzione. Insomma, un conto sono le testimonianze attorno a antiche e, nella maggior parte dei casi, ormai dismesse forme di espressività popolare, che è dunque particolarmente urgente recuperare e valorizzare alla stregua di qualsiasi altro documento storico, un altro le rielaborazioni personali di cui bisognerebbe semmai esaltare l’originalità senza contrabbandarle come frutto di una tradizione mal compresa e, dunque, nella maggior parte dei casi assai bistrattata. Rischi, passioni e investimenti, tre direzioni obbligatorie? Alla base di un lavoro come il nostro c’è, ovviamente, una componente sentimentale, vale a dire un’adesione istintiva e profonda, come solo la passione può suscitare, verso un mondo e le sue espressioni. Per reggere però i rischi che comporta un progetto obbligato a declinarsi anche in termini imprenditoriali, c’è bisogno di strutturare quella stessa passione in una visione coerente, in un progetto anche intellettuale attorno alle modalità e procedure più appropriate di intervento. Quali che siano i risultati raggiunti, non tocca certo a me dirlo, non avremmo potuto raggiungerli senza il conforto dei nostri ormai non pochi autori, le loro competenze e i loro saperi. A. Ricci Un settore editoriale che fino a qualche anno fa era destinato solo ad una piccola nicchia di lettori, ora qualcosa sta cambiando? Il grande fermento attuale sulla musica popolare mi sembra che riguardi per lo più la sua spettacolarizzazione, mentre in quei lettori disposti ad approfondirne la conoscenza è aumentata, per nostra fortuna, la determinazione a dotarsi di strumenti più adeguati di comprensione, vale a dire studi rigorosi e ricerche dettagliate sul campo che possano attestare forza , persistenze e modifiche di determinate tradizioni, al di là delle vaghe ed enfatiche celebrazioni del momento. Sant’Arcangelo, mattina del Venerdì Santo La Madonna in pellegrinaggio Turuzzu Cariati con il padre Basile in un canto con chitarra battente Distribuire il libro è diventato ormai un compito complicato e sempre più difficile, come si articola questo settore? La grande distribuzione non è interessata a prodotti come i nostri e, credo, a ragion veduta, almeno dal loro punto di vista. La rincorsa ossessiva alla novità, determinata dalla necessità di raggiungere sull’immediato grandi numeri di vendita, mal si concilia con un’attività editoriale che, puntando invece su volumi destinati a durare nel tempo perché non legati all’attualità, si gioca le proprie possibilità nel medio e lungo periodo: d’altronde, che senso ha ritirare dalle librerie, dopo tre mesi di permanenza, le registrazioni salentine di De Martino e Carpitella per far posto alle novità? Allo stesso modo, però, abbiamo già verificato come il fare tutto in proprio, puntando a un rapporto diretto con le librerie, comporta una fatica immane che rischia di distoglierci dal resto. In ogni caso, con problemi ancora non risolti, non possiamo lamentarci essendo in molti casi giunti ormai alla terza ristampa di volumi che, per la grande distribuzione, non hanno mercato. Squilibri, è ora un punto di riferimento nazionale per studiosi, appassionati, musicisti e curiosi, sta pensando ad altri target? Per una squadra alquanto esile come la nostra, mi pare già molto impegnativo mantenere questo risultato: nessun cambiamento all’orizzonte, dunque, anche perché non siamo interessati a fare altro se non quello che stiamo già facendo. Nel panorama musicale italiano si avverte un certo ritorno a tutto quello che è tradizionale e che una volta apparteneva a un genere politicizzato per pochi, è ancora così? A mia volta sono giovane e, dunque, priva di una memoria personale sugli anni ’70, un periodo in cui particolarmente vivo era in Italia l’interesse per le culture orali. Forse anche per questo, non mi hanno mai entusiasmato alcune esaltazioni ideologiche che, a mio parere, rischiavano di immiserire il valore e la portata di quelle espressioni musicali, la cui intrinseca connotazione politica era già fin troppo evidente e, dunque, non aveva - né mi sembra abbia ora- alcuna necessità di essere esasperata. In ogni caso, oggi mi sembrano prevalere, in chi si accosta alla musica popolare, le motivazioni di ordine culturale ed estetico. Che sta preparando per il nuovo anno? Senza far torto ai numerosi progetti in via di definizione, credo che l’operazione di gran lunga più interessante sia l’avvio della pubblicazione della raccolta LomaxCarpitella, a partire dalla sezione pugliese a cura di Maurizio Agamennone. online www.squilibri.it Quali sono i libri più venduti del suo catalogo? Contrariamente alle nostre stesse aspettative, quelli in linea di principio più impegnativi, come le registrazioni di Carpitella e De Martino, non solo in Salento ma anche in Calabria, o le visioni d’insieme sulla musica popolare di regioni come la Calabria e la Basilicata: in effetti i volumi che riguardano il meridione sembrano avere una forza d’attrazione e un appeal maggiore sul pubblico, per quanto stia andando bene anche il volume Patrimoni sonori della Lombardia. E’ la musica o l’accademia che avvicina i giovani a occuparsi di queste tematiche? Non saprei rispondere con precisione, ignorando le vie per cui molti giovani oggi mostrano interesse, anche nelle forme più disparate, per tutto ciò che riguarda la musica popolare. Molto dipende anche dal suo essere attualmente molto in voga, il che non li aiuta a un approccio corretto a questo mondo: l’accademia potrebbe e dovrebbe esercitare al riguardo un ruolo decisivo. M. Agamennone Oltre ai libri, Squilibri prende parte a grandi eventi culturali, come mostre, concerti, rassegne musicali, di che si tratta? In questo paghiamo il nostro peccato d’origine, l’esser cioè nati come per filiazione da un’associazione culturale, Altrosud, con la quale continuiamo ad avere rapporti di collaborazione molto stretti su alcuni progetti mirati, come ad esempio quello dell’Archivio Sonoro della Puglia. Più in generale, forse anche per questo siamo molto sensibili alle attività di animazione attorno ai libri e a ciò che indicano e rappresentano, facilitati anche dal fatto che quasi tutti i nostri volumi hanno in allegato uno o più cd, con un rimando diretto dunque alle possibilità di repliche dal vivo. Intercettando in questo modo l’attenzione di un pubblico più vasto dei lettori militanti, non solo irrobustiamo il progetto culturale generale ma facilitiamo anche la vita e la diffusione degli stessi volumi, compensando in qualche modo le non poche difficoltà di distribuzione. Un bambino confratello di Agnone 06 Inverno 2009 32 Mondomix.com Il Cammino della Musica Intervista a Andrea Zuin di Renata Tomasella Musicista, trevisano, diplomato in chitarra classica e laureato in “Lettere ad indirizzo musicale” all’Università Ca’ Foscari di Venezia. E’ partito da Treviso nel febbraio 2009, a bordo di un camper. Obiettivo? Attraversare tutta l’Italia da Nord a Sud, isole comprese, entrando in contatto e documentando le realtà musicali autoctone più rappresentative delle regioni e delle città visitate. Come è nata l’idea de Il cammino della musica? Il progetto è nato dal desiderio di abbinare le mie due grandi passioni: la musica e il viaggio. Credo che viaggiare seguendo il filo conduttore della musica tradizionale possa essere un modalità interessante per conoscere un paese, i suoi abitanti, chi fa musica, e soprattutto per capire la funzione sociale che la musica riveste in qualsiasi comunità. La prima edizione del tuo Cammino si è svolta in America Latina: come mai? Il Sudamerica è stata sempre una delle mie mete più ambite; durante un viaggio da turista in Paraguay sono rimasto affascinato dalle musiche eseguite da una comunità indigena. Questa esperienza mi ha portato ad organizzare la prima edizione del progetto Dal Tango alla Musica caraibica: 8 mesi (da aprile 2007) di reportage multimediale on the road tra Argentina, Paraguay, Brasile e Venezuela alla scoperta delle varietà musicali latino-americane e delle tradizioni italiane mantenute dai nostri migranti. Che cosa ti ha colpito tra le comunità italiane in America Latina? Nelle comunità che ho incontrato, in particolare di veneti, il mantenimento delle tradizioni è direttamente proporzionale alla nostalgia per l’Italia; anche le nuove generazioni hanno la curiosità di conoscere e di mantenere inalterati gli usi, i costumi e la musica dei paesi di origine dei nonni. Il risultato è una sorta di fotografia delle tradizioni italiane che rimangono cristallizzate, in quanto mancano i presupposti per una loro evoluzione. Veniamo al progetto attuale chiamato Io suono italiano? Perchè questo titolo? Ho impiegato molto tempo per trovare un titolo funzionale a questo progetto. La scorsa edizione si chiamava Il Cammino della Musica Dal Tango alla Musica Caraibica un titolo accattivante, musicale e che fornisce immediatamente due precise coordinate geografiche e dà quindi l’idea di movimento. Per l’edizione italiana però non calzava un sistema corrispondente. Così ho pensato a questo titolo che è ugualmente polifunzionale: per un verso vuole essere una provocazione o una presa di coscienza: ma io, sto suonando italiano? oppure un gioco di parole: io suono italiano secondo me è un modo alternativo per dire io sono italiano. E’ infine un invito: le comunità di immigrati qui in Italia stanno suonando italiano? Dopo otto mesi di viaggio sono pronto a cambiare quel punto di domanda con un punto esclamativo. Come viene finanziato il progetto? Purtroppo il mio viaggio italiano è iniziato proprio in questi mesi di profonda crisi economica! Alcuni finanziamenti, inizialmente promessi, mi sono poi stati negati. Ho deciso quindi di giocarmi la carta del Video Show: uno spettacolo in cui racconto, con parole, musica e immagini, il mio viaggio in America Latina. Ho inserito nel mio spettacolo anche alcuni elementi del viaggio italiano: ne risulta così un work in progress che fa da vaso comunicante tra le due esperienze. In ogni tappa che faccio propongo il mio Video Show, che viene spesso acquistato. L’introito di queste esibizioni mi garantisce di mandare avanti la carovana. Il camper che utilizzo mi è stato fornito dall’ Associazione camperisti Marca Trevigiana e Museo della Moto di Treviso, e mi avvalgo di una serie di attrezzature (videocamera, registratore, computer, cellulare, etc.) messe a disposizione da alcune aziende private. Inoltre collaboro con radio e tv (anche sudamericane) che stanno seguendo con molta attenzione il cammino della musica. Ho visto sul tuo sito molti video che documentano feste, riti, balli e canti, e solo un paio relativi ai costruttori di strumenti. Come mai? 06 Inverno 2009 33 Mondomix.com Premetto che l’ obiettivo del mio progetto è far conoscere e divulgare la bellezza e il valore musicale delle tradizioni del nostro paese e la funzione sociale di queste musiche. La documentazione che io raccolgo non è destinata agli addetti ai lavori, per cui non vuole essere una ricerca metodologicamente corretta che esamina gli aspetti tecnici, estetici o esecutivi dei patrimoni musicali che incontro. Ciò non toglie che io, per curiosità personale, stia toccando con mano la complessità del linguaggio musicale tradizionale, che oggi può sopravvivere ed esprimersi a certi livelli anche grazie all’evoluzione sapiente che si è avuta nella costruzione degli strumenti musicali, grazie all’utilizzo di tecnologie avanzate e alla ricerca sui materiali. La funzione sociale della musica è legata soprattutto ai riti. Quali analogie hai trovato con l’esperienza latinoamericana? L’aspetto che lega il sacro al profano è molto forte sia in Italia che in America Latina. Sono reduce da una festa a Polsi (RC) che si celebra ballando la tarantella calabrese ed eseguendo canti dai testi trasgressivi di fronte al santuario della Madonna: le preghiere fatte all’interno della chiesa vengono amplificate all’esterno, mentre la rota di ballerini, con al centro i musicisti, continua la sua danza (che una volta poteva essere eseguita in chiesa); sono arrivato alle 6 di sera e alle 6 del mattino seguente si stava ancora ballando (con gli stessi suonatori!). Alla mia domanda come riuscite a suonare così a lungo? la risposta è stata la stessa che ho ricevuto in una situazione simile in Brasile: per amore dei Santi! Ho trovato in molte feste tradizionali questa commistione tra sacro e profano che la Chiesa ha tollerato per secoli e che oggi tende a disconoscere e a reprimere. Quali sono gli elementi che accomunano tutte le manifestazioni musicali che hai documentato? Uno sicuramente è la voce: lo strumento presente in qualsiasi tradizione! Ricordo in modo particolare la voce di Giannina: per 40 anni, insieme al marito, ha girato le province di Teramo e Ascoli Piceno cantando storie, soprattutto storie di santi tratte dai santini venduti sui mercati, oppure cantando diesille le preghiere per i cari morti. La sua voce tagliente mi ha spezzato il cuore! Quando canta pare trasformarsi in un altro essere e nella drammaticità della sua voce puoi cogliere tutte le esperienze del suo vissuto. Lo considero uno dei momenti più commoventi del mio viaggio. 06 Inverno 2009 Un altro elemento presente in ogni tradizione è la festa: la più bella a cui ho partecipato è stata quella organizzata in una tendopoli in provincia dell’Aquila e trasmessa in diretta su Rai Radio 2. Ho potuto constatare quanto sia importante riuscire a fare festa anche in situazioni difficili: i sentimenti e le emozioni negative degli sfollati presenti si sono ben presto trasformati in una grande carica di energia positiva, e tutto questo grazie alla musica e al canto! Le prossime tappe del tuo cammino? Proprio oggi (29 settembre) attraverserò lo stretto di Messina e dedicherò tutto ottobre alle tradizioni siciliane. Il mio viaggio di ritorno durerà fino a Natale e sarà scandito da molte tappe: voglio tornare a trovare alcune delle persone e delle situazioni musicali che sono stati i veri protagonisti del cammino! Che sviluppi immagini alla fine del viaggio? Sicuramente costruirò uno spettacolo: è la forma più diretta ed efficace per divulgare la mia esperienza. Sto scrivendo il racconto dell’esperienza latino americana e scriverò anche quello sul cammino italiano. Verranno richiesti interventi nelle scuole, in trasmissioni radiofoniche e televisive, etc...me lo auguro! Le tue considerazioni finali? La musica di tradizione è viva, e gode di buona salute: soprattutto nelle situazioni in cui la trasmissione della conoscenza avviene direttamente dagli anziani ai giovani. Ci sarà un Cammino della musica 3? Spero proprio di si! Il mio nuovo progetto è un cammino nei paesi intorno all’Italia, in particolare quelli con cui condividiamo il mar Mediterraneo. Gli incontri e le esperienze di Andrea sono documentati da filmati, registrazioni, fotografie e commenti che vengono quotidianamente pubblicati sul sito www.ilcamminodellamusica.it Sullo stesso sito si trova anche tutta la documentazione relativa all'esperienza latinoamericana. Chi vuole condividere (e magari finanziare!) il progetto di Andrea, oppure desidera il suo spettacolo Video Show, può contattarlo direttamente: [email protected] L'intervista con Andrea Zuin è stata realizzata il 29 settembre 2009 da Renata Tomasella, cantante, suonatrice di piffero-ocarine-flauti e... giornalista per un giorno! 34 Mondomix.com Grammy Made in Italy Assegnato il Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana. Trionfano Carlo Muratori, Giovanna Marini e la Scuola Popolare di Musica di Testaccio in Roma di Ciro De Rosa Al giro di boa dei cinque anni la manifestazione, organizzata dalla Compagnia dei Curiosi con il contributo delle istituzioni locali e la direzione artistica di John Vignola, si rafforza con una programmazione di tutto rispetto. Cresce la sezione laterale de “il Premio incontra,” che propone riflessioni di musicisti, discografici, giornalisti, ma anche eventi spettacolari, come gli appuntamenti con un irresistibile Peppe Barra e con la torinese Orchestra di Porta Palazzo. I palchi serali accolgono alcuni degli artisti più votati nel corso dei mesi precedenti dall’autorevole giuria del Premio. Diverte il folto pubblico l’accattivante spettacolo degli Acquaragia Drom, splende l’astro vocale di Anna Cinzia Villani, ugola straordinaria che vola con naturalezza verso le vette del canto salentino, con sobrietà ed eleganza di scena. In quartetto presenta materiali tratti dal suo album Ninnamorella, tra i più votati dalla giuria del Premio che quest’anno ha eletto La padrona del giardino, di Carlo Muratori, disco dell’anno per la musica (neo)tradizionale italiana. Riconoscimento più che appropriato per un artista dal piglio folk-rock, che come pochi sa riflettere – come ha fatto nel suo bel set loanese – su passato e presente della Sicilia. Protagoniste anche le Faraualla, quartetto dal portamento ieratico e dalla Carlo Muratori miglior disco dell'anno riconosciuta destrezza vocale, felice nella costruzione di brani che sommano forme antiche, stilemi popolari ma anche moduli contemporanei, senza mancare di spunti ironici. Il premio alla realtà culturale è stato assegnato dalla direzione artistica alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio in Roma, dal 1975 impegnata in una tenace attività didattica di altissimo profilo. Sulla stessa linea il premio alla carriera, conferito nel corso di un’anteprima della manifestazione a giugno, a Giovanna Marini, che della Testaccio è una delle colonne. Picco finale del festival ligure Storie di Faber. Tradizione e folklore nella musica di De Andrè, produzione originale, in omaggio di un poeta e musicista che ha incarnato nella musica e nei testi la dialettica tra antico e moderno, con persistenti rimandi all’universo popolare nelle uso delle forme poetiche e nei temi. Hanno dato vita ad un serata soddisfacente e perfino toccante, animata da una platea gremita, Carlo Aonzo e il suo ensemble Mandolin Cocktail, Peppe Voltarelli, Lou Dalfin, Davide Van de Sfroos, ma soprattutto Nando Citarella con i suoi Tamburi del Vesuvio e La Macina di Gastone Pietrucci. Questi ultimi due gruppi si sono fatti portatori di una rilettura personale quanto profonda dei materiali deandreani, sposata sapientemente a canti della tradizione rispettivamente siciliana e marchigiana. In definitiva, ancora una volta il Premio di Loano Carlo Muratori una conferma Anna Cinzia Villani una voce straordinaria ed elegante propone felicemente un progetto che esplora i passaggi prossimi tra musica tradizionale e canzone d’autore. Tuttavia, la speranza è che in futuro conservi la centralità dell’espressività popolare nelle tante declinazioni della Penisola, per non rischiare una sovrapposizione della manifestazione, unica nel suo genere per aver scelto di dare visibilità alla musica popolare, con altri eventi che riservano costante attenzione alla canzone d’autore. Cosa Premio Nazionale per la Musica Tradizionale Italiana Dove Loano, SV Quando Luglio 2010 Online www.myspace.com/suonidellatradizione 06 Inverno 2009 35 Mondomix.com Ascoltando musica sotto l’albero della vita Una settimana al Festival di Musiche Sacre del Mondo a Fez di Emanuele Enria Il progetto Melos diretto da Keyvan Chemirani che porta avanti da diversi anni una ricerca sulle sonorità dell’Oriente, dell’Africa e del Mediterraneo, lo straordinario Oratorio del compositore siriano Abed Azrie, le danze dei Dervisci della confraternita di Konya in Turchia, rivisitate nella seconda parte dal danzatore contemporaneo Ziya Azazi nel suo programma Icons, su base di musica elettronica con un solo suonatore di tromba in scena insieme a lui e a un’altra danzatrice. Bellissimo momento di confronto tra tradizione e contemporaneità, e altrettanto interessante osservare le diverse reazioni del pubblico (con alcune donne che se ne vanno dopo qualche minuto ed altri che rimangono assolutamente incantati). Ma anche le danze indiane kuchipudi di Shantala Shivalingappa, Shantala Shivalingappa Ci sono luoghi dove la musica genera pensieri, oltre che emozioni. Potremmo dire che il rapporto tra un luogo e la musica che vi viene suonata contenga un elemento potenzialmente magico, se scelto a dovere: abitare giorni dove un pensiero introduce ad una musica, la musica nel suk di una città, e così via fino a notte, in un gioco di rimandi che si completano. Immagino siano stati proprio questi gli ingredienti che hanno portato la bellissima città di Fez, in Marocco, a ospitare da ormai 15 anni, nella settimana tra maggio e giugno, il Festival di Musiche Sacre del Mondo. Il festival contiene al suo interno varie sezioni distribuite nell’arco di ciascuna giornata. Si inizia al mattino con i Rencontres de Fez, momento filosofico per eccellenza dove scrittori, scienziati, pensatori e artisti discutono sui grandi temi della vita, per proseguire nel pomeriggio e nella sera con i concerti del programma Musiques Sacrées che, quest’anno, vantava tra gli ospiti le melodie del libanese Marcel Khalife e l’Al Mayadine Ensemble. Khalife ha aperto la prima serata (alla presenza della regina del Marocco) nella cornice della piazza Bâb Al Makina, con un omaggio al poeta palestinese Mahmoud Darwiche, scomparso recentemente, di cui ha messo in musica alcune delle più celebri composizioni come Ma Mère o Rita et le Fusil. Quasi tre ore di concerto, sempre accompagnando la sua voce con l’oud, liuto a manico corto, alternando poemi e sonorità arabe a brani che risentono dell’influsso dei chansonniers francesi e persino del tango. Bab Al Makina Ziya Azazi - Les Derviches tourneurs de Konya Bab Al Makina Ziya Azazi - Les Derviches tourneurs de Konya Ziya Azazi Marcel Khalifé e l’Al Mayadine Ensemble 06 Inverno 2009 grande interprete di questo stile anche attraverso collaborazioni con la compagnia di Pina Bausch e Maurice Bejart; le musiche di tradizione Giudeo, Arabo Andalusa dell’ensemble americano Yuval Ron Ensemble & Najwa Gibran, lo Zabit Nabizadé Trio dell’Azerbaidjan con il repertorio mugham che riunisce nelle sonorità di una voce accompagnata da strumenti a corde elementi del maqam iraniano, del radif della Persia e del makam Notti Sacre 36 Mondomix.com turco; le polifonie corse dei sempiterni Muvrini, la deliziosa cantante franco – algerina Souad Massi, il jazz di Didier Lockwood nel suo progetto Corde e Anima che si contamina con la musica araba e i canti ispirati ai poemi del mistico andaluso Ibn Arabi (figura immensa nel panorama della Spagna del XIII secolo) di cui sono tra l’altro stati affrontati il pensiero e le opere proprio durante i Rencontres del mattino. Fino alle magiche notti sufi, ogni sera alle 23, uno dei momenti più belli del Festival, quando nella piccola piazza di Dar Tazi, dentro la Medina di Fez, la gente siede sui tappeti (e quanto ci sarebbe da dire sui tappeti e su come i berberi vi tessono sopra il loro alfabeto di segni!) e ascolta gioiosamente questi canti sacri delle diverse confraternite sufi. Un amalgama di voci acute e stridenti accompagnate da tamburi e percussioni, dove talvolta la sola pronuncia di una parola, il nome stesso di Allah ripetuto, si fa melodia polifonica. Tra questi, per esempio, la Confraternita di Issawiya, fondata a Meknès da Muhammad Ben Aïssấ (1465 – 1526), presente ormai in Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto; la Confraternita Hamdouchiya il cui santo patrono è Ali Ben Hamdouch, vissuto nel XVII secolo sotto il regno del sovrano del Marocco Moulay Ismaïl, rappresenta un rituale di preghiera in cui le lodi al Signore vanno via via crescendo in canto fino ad esplodere in una danza circolare, liberatoria, estatica. L’Ahl Tourat Soufi, che riunisce i maggiori rappresentanti della musica popolare sufi di Fez, ma anche i deba delle donne di Mayotte (premio France Musique des Musiques du Monde 2009), le isole situate tra la costa africana e il Madagascar. Il deba è una pratica cultuale che mescola musica e danza, dove le melodie sono estratte da parole dei Testi Sacri cantati in arabo, e la danza, di sole donne, è fatta di movimenti essenziali delle mani, delle braccia e della testa, una sorta di invocazione danzata. Ogni edizione del festival sceglie un simbolo, sotto il quale vengono posti i Rencontres del mattino. L’edizione del 2009 ha scelto quello dell’Albero della Vita, simbolo contenuto in quasi tutte le tradizioni e che i Rencontres hanno affrontato da diverse angolature, partendo dall’origine del mondo (dal Bing Bang alle interpretazioni che ne danno le religioni) toccando creazionismo ed evoluzionisimo, diritto alla vita e alla morte, e simboli femminili nei testi sacri. EnsembleRazbar Souad Massi 06 Inverno 2009 Notti Sacre Così, ogni mattina, nella meravigliosa cornice del Museo Batha, costruito da Moulay Hassan alla fine del XIX secolo con la funzione di residenza estiva del Re durante le udienze, ed oggi sede del museo delle Arti e della Tradizione, proprio sotto una quercia secolare che simbolicamente protegge con le sue fronde le mura interne del cortile, ci si sedeva ad ascoltare la teoria del Big Bang raccontata dall’astrofisico vietnamita Trin Xuan Thuan, per scoprire che siamo tutti nati dalla polvere delle stelle, concetto fisico ma anche intrinsecamente poetico, e che il vuoto che tanto terrorizza tutti i sistemi filosofici occidentali, ha una valenza positiva nel Buddismo, dove tutto è interdipendente. Per questo, ha raccontato Xuan Thuan, è per lui assolutamente normale essere un fisico che studia e crede nella teoria del Big Bang e, nello stesso tempo, rimane profondamente buddista nella visione del mondo. Bisognerebbe aggiungere ancora qualcosa sull’importanza dei luoghi, a Fez soprattutto, dove sedere nei cortili interni tra alberi di aranci e fiori, rimanda alla tradizione persiana e la sua arte di ricreare un giardino dentro le case, giardino che la stessa parola Paradiso, di origine persiana, denota proprio come il Giardino primordiale. Altrettanto coinvolgente ascoltare uno psicanalista come Fethi Benslama analizzare gli effetti della psicanalisi sulla cultura musulmana, coglierne i cambiamenti e le reazioni davanti alle nuove scoperte della scienza, della psicanalisi stessa, delle scienze sociali. Personaggi come Mohammed Arkoun, Victor Malka, Marc Fumaroli, Laura Bossi, Abdelwahab Meddeb, insieme a molti altri, hanno tracciato linee di pensiero, spunti e approfondimenti sul mondo arabo, indiano (come nell’intervento tenuto da Amina Okada, direttrice del museo di Arti Asiatiche – Guimet di Parigi), persiano (come nella lezione magistrale tenuta da Michel Barry, direttore del Dipartimento di Arti Islamiche al Metropolitan Museum di New York), o un itinerario sul modo di rappresentare la Pietà nell’arte occidentale tenuta dal grande critico d’arte Jean Clair. Si ritorna certamente arricchiti da questa settimana a Fez, più curiosi verso mondi e realtà che poco conoscevamo, con il sano proposito di approfondire le nostre limitate informazioni su altre culture e con una gran voglia di avere in macchina o a casa qualche musica ascoltata, in attesa del prossimo appuntamento nel maggio 2010. Cosa Musiques sacrées du monde Dove Fez, Marocco Quando Maggio, 2010 Online www.fesfestival.com Musée Batha I Muvrini 06 Inverno 2009 37 Mondomix.com 1000 stelle nel Cielo dell'Etiopia Rivivendo l'edizione del 2008 in attesa di quella del prossimo dicembre di Saba Anglana Avvicinarsi lentamente ad Arba Minch lasciandosi Addis Abeba alle spalle è un’esperienza esaltante. 220 miglia in jeep, dove avremmo creduto di perderci nel diradarsi dei villaggi, delle anime. Invece, nelle 9 ore 39 Mondomix.com di percorso, una continua teoria di uomini, donne, bambini ed animali accompagnano festosamente i nostri occhi spalancati sulla pancia viva d’Etiopia. Scesi lentamente dall’Acrocoro, e giunti finalmente nella città delle quaranta sorgenti, una sera caldissima ci accoglie in pieno contrasto con l’esplosione colorata delle stelle di Natale; ebbene sì, interi alberi dei familiari fiori rossi a ricordarci che è quasi il tempo delle feste cristiane. Come ogni anno per quattro giorni a metà dicembre, questa cittadina, capitale della regione Gamu-Gofa, è teatro di un evento straordinario di musica e danza: il 1000 Stars Music Festival, organizzato dalla Gughe Indigenous Art and Music Association (GIAMA). Quattro giorni in cui si esibiscono le numerose tribù del sud dell’Etiopia, in linea con le strategie governative di pacificazione interna e propaganda per una nazione madre di tutte le popolazioni all’interno dei suoi confini. Immaginate la notte più buia che abbiate mai visto. Non ci sono molte luci artificiali ad Arba Minch. A piedi, diretti all’arena, il cielo sembra quasi rovesciare tutta la sua profondità sulle nostre teste, mentre sempre più forte il suono ritmico di mani, piedi, voci, fiati e percussioni, rompe la nostra emozionata attesa: arrivavano via via le tribù per il raduno notturno della vigilia, riempiendo l’aria d’autentica eccitazione. Sentirli in avvicinamento nella notte, ancor prima di vederli, con la pura forza evocatrice della loro musica, è un’esperienza che spazza via ogni facile suggestione esotica legata solo all’aspetto affascinante di questa gente. Gli occhi hanno poi la loro parte il mattino seguente, quando, alla luce limpida e fermissima di un sole equatoriale, la sfilata di circa una cinquantina di gruppi folkloristici del sud d’Etiopia ci regala una festa piena di colori, celebrazione della cultura e della diversità biologica della Rift Valley. Il luogo della manifestazione è un grande campo coronato da spalti traboccanti di folla. Entriamo seguendo l’incredibile corteo dei gruppi abbigliati con costumi tradizionali, una babele di suoni e canti, pantomime e danze, in fila verso il centro della rappresentazione: un palco semplicissimo, fatto di bambù e legno d’eucalipto. Vedere ed ascoltare da così vicino decine e decine di tribù tutte insieme, nello stesso luogo e al massimo della loro autorappresentazione, è qualcosa di veramente unico: ci sarebbero volute diverse settimane, se non mesi, per visitare tutti i loro villaggi, per incontrare le loro culture. Sotto il cielo stellato d’Etiopia Il Festival è soprattutto questo: un convenire nel senso etimologico del termine, un attestare la propria esistenza, uno spontaneo censimento di gruppi di esseri umani diversissimi, tra di loro e da noi, uomini e donne (un migliaio in tutto, appunto) che spesso viaggiano giorni interi da luoghi remoti per esserci, per offrire l’immagine più autentica di sé... in musica e danza. Sembra quasi irreale vedere cantare ad un metro da noi i Mursi con i loro piattelli incastrati nelle labbra, gli Arbore nudi, saltare con la loro pelle che racconta come un dipinto astratto, i Gamo avvolti dagli inconfondibili tessuti vivaci che con lance e coreografie simulano la guerra. Persa con gli occhi e con le orecchie in quello spettacolo mai visto, in quella alterità così marcata nel suo valore estetico e di contenuto, mi dimentico quasi di me stessa, di quanto anche noi con il nostro arredo occidentale possiamo sembrare così strani ai loro occhi. E’ una bambina a ricordarmelo, una piccola di Arba Minch che in quel trambusto si avvicina e mi tocca emozionata i capelli, quasi ad esplorare la mia di diversità. Il Festival è il luogo dell’incontro con l’altro per eccellenza. Dieci minuti sul palco per ciascun gruppo. Dieci minuti in cui l’eccitata esibizione iniziata nel corteo, raggiunge lì il suo culmine. La folla di migliaia di spettatori applaude, canta, ride, partecipa. I fortunati hanno conquistato il loro posto all’ombra delle acacie e ci sorprende il numero esiguo dei turisti stranieri, tra cui naturalmente incontriamo Francis Falceto, colui che con le sue pubblicazioni ha fatto conoscere al mondo parte della musica tradizionale etiopica. Sotto i nostri occhi, un’umanità commovente. La sensazione è che non ci sia separazione tra essere ed apparire, tra vita quotidiana e rappresentazione. Tutto è profondamente intrecciato, la musica, il canto, il corpo che si muove ritmicamente, addobbato di monili, di costumi indossati come bandiere ancestrali, dense di una storia che i libri non sanno raccontare. Ecco, perchè essere stati ad Arba Minch ed aver visto quel patrimonio che la modernità potrebbe mangiarsi da un momento all’altro con i suoi veloci passi distruttivi è una delle cose che valeva la pena di fare prima di abbandonare una terra ricca come l’Etiopia, cuore sonoro antichissimo d’Africa. Cosa The Thousand Stars Festival of Music and Dance Dove Arba Minch, Etiopia sud-occidentale Quando 12 – 14 Dicembre, 2009 Online www.gughe.org 06 Inverno 2009 Recensioni Africa (la rumba congolese) si amalgama in modo più naturale e con un tono meno uniforme. che in precedenza. Ci sono pezzi con richiami più spiccatamente tradizionali come Electrochoc e pezzi più hip hop, come Bon Voyage. Ma ci sono anche sfumature reggae, complice la partecipazione di Sizzla in Méme Combat, e umori dell’Africa del Nord portati da Khaled in Avec Le Sourire. E il risultato è un disco divertente e solare, in cui ogni traccia racconta una storia di collaborazione. Luca Vergano Pax Nicholas And The Nettey Family Na Teef Know De Road Of Teef Daptone / Goodfellas musiques et cultures dans le monde I Speak Fula MIX MON DO ma Mi a Out / Here / Goodfellas Scoppia di salute il musicista del Mali, che porta un passo più in là la sua intuizione di porre uno strumento d’accompagnamento, lo ngoni, al centro di un progetto orchestrale. L’effetto sorpresa di cui godette due anni fa il disco di debutto “Segu Blue” è cessato; ciononostante le novità non mancano e la freschezza suona intatta. Laddove l’opera prima rivelava al mondo le possibilità espressive dello strumento e rodava a suon di blues desertico l’innovativa orchestra, ora il controllo della materia è tale da concedere fughe in avanti verso beat spesso assai più serrati. È successo che il menestrello di Garana si è reso conto di avere tra le mani un potenziale smisurato, esploso dal vivo in questi due anni di show in mezzo mondo. Così il tono di I Speak Fula, internazionale e orgoglioso fin dal titolo, scommette sulla possibilità di applicare in studio almeno parte della carica che la band di soli ngoni esprime in concerto. Scommessa riuscita, tra il rock’n’roll a tutta Bamako di Musow e il superbo languore di Bambugu Blues, nei meandri a bassa fedeltà di Moustapha come sotto il sole di una Jamana Be Diya illuminata dalla voce di Kasse Mady. Uno degli ospiti preziosi collocati con sapienza nelle undici tracce dell’album: con Toumani Diabate, Veiux Farka Touré e Harouna Samake guida la lista di coloro che hanno lavorato con passione sotto la regia di Lucy Duran e Jerry Boys allo studio Bogolan. Paolo Ferrari Bisso Na Bisso Africa Phantom Sound & Vision Ci sono voluti più di dieci anni perchè il gruppo franco-congolese desse un seguito al disco Racines. Dopo aver ricevuto nel 1999 il più importante riconoscimento musicale africano, il gruppo ha dato la precedenza agli impegni individuali dei sette componenti prima di riunirsi per questo lavoro. Il tempo però non è passato invano: il mélange di hip hop marcatamente francese e di Soukous Samba Touré Laurence Philippon Bassekou Kouyate & Ngoni Ba L’etichetta di Brooklyn rimette in circolazione uno dei due album che Nicholas Addo – Nettey incise nel periodo in cui faceva parte degli Africa 70 di Fela Kuti. Questo era il secondo, inciso nel 1973 a Lagos negli studi di Ginger Baker. Batterista e cantante, Mister Pax era arrivato alla corte di Fela da Accra, subito assunto come batterista e cantante. Le quattro tracce del vinile originale piovono tali e quali in questa riedizione su cd, a partire dal brano che dà il titolo all’opera intera, oltre 11’ di ossessione afro beat a tinte funk psichedeliche. “Na Six Feet” mette in mostra qualche sfumatura memore del Ghana d’origine e del suo highlife. L’uomo è vivo, attivo, sta a Berlino e guida la sua band Ridimtaski. Paolo Ferrari Syran Mbenza & Ensemble Rumba Kongo Immortal Franco: Africa’s Unrivalled Guitar Legend Riverboat / Egea Samba Touré Songhai Blues: Homage to Ali Farka Touré Riverboat / Egea A vent’anni dalla morte Franco seguita a essere e non solo nel titolo del bell’omaggio che gli dedica il più plausibile fra gli eredi… immortale: lo dicono forte e chiaro dodici brani irresistibili, muscolari e spumeggianti, elastici e festosamente implacabili. A tre dalla scomparsa, Ali Farka Touré davvero non sembra ancora sia andato via e auspicabilmente non se ne andrà mai, siccome dopo di lui è per noi impossibile tornare ad ascoltare con le orecchie di prima il blues. Senza pretendere di succedergli Samba Touré, dopo esserne stato un protetto, è oggi un emulo garbato e ispirato quanto basta. Sono due dischi di rimarchevole piacevolezza, ideale complemento a quei venti di altri chitarristi africani di cui avete potuto leggere qualche pagina fa. Eddy Cilia Cesaria Evora Nha sentimento Una malinconia indicibile e uno struggimento irresistibile che a tratti ti avvolge in una grande tristezza e a tratti ti trascina nella sua scia di profumo fruttato… C’è tutto questo, e contemporaneamente, nelle canzoni e nella musica dei brani interpretati da Cesaria Evora, la voce più celebre di Capo Verde. Le canzoni di oggi come quelle di ieri: non se ne ha mai abbastanza. Come sempre seducente, la sua voce questa volta sembra quasi assumere toni ambrati, dolcemente danzante o cullante come il rumore delle onde che vengono a morire sulla spiaggia. Questo album, cui i violini registrati al Cairo sotto la direzione di Fathi Salama danno un sorprendente tocco orientale, diventa quasi un omaggio postumo a Manuel de Novas, uno dei fedeli autori-compositori di Cesaria Evora deceduto lo scorso 27 settembre all’ospedale di Mindelo, sull’isola di São Vicente, che ha composto ben sei brani dell’album. Il resto è frutto del lavoro sapiente di Teofilo Chantre, un altro dei compositori preferiti dalla Signora di Capo Verde. Patrick Labesse Sara Tavares Sara Tavares Xinti World Connection / Egea A oltre vent’anni dalla rivelazione internazionale Cesária Évora il piccolo arcipelago di Capo Verde continua a essere una fucina di artisti di successo. Fra i nuovi talenti sicuramente Sara Tavares (che a dire il vero di Capo Verde ha solo le origini) sembra essere quella che ha saputo raccogliere meglio il testimone della diva a piedi nudi. Un successo dovuto soprattutto all’album Balancé uscito nel 2005 e svettato ben presto in cima alle classifiche portoghesi, tanto da essersi aggiudicato il disco di platino. Adesso è in arrivo per World Connection, Xinti (Sentilo). Il disco sembra a tutti gli effetti voler seguire la traiettoria del precedente e in diversi passaggi potrebbe anche meritarselo. Si tratta di quattordici canzoni accomunate da un soul raggiante e morbido che con delicatezza affrontano temi pieni di sentimento quasi si trattasse della trasposizione musicale del diario segreto della sua autrice. Su uno sfondo pop arricchito di elementi africani, caraibici e brasiliani la Tavares si abbandona ad argomenti amorosi, idealisti, poetici. Una musica e una voce avvolgente, soave e suadente con un risultato più solido rispetto al precedente album grazie sia a testi più elaborati sia a una musica più strutturata che riscopre elementi del gospel che ci introducono con allegria alla personale spiritualità della Tavares. La sua pecca principale sta nell’assenza di quella genuina originalità che caratterizzava Balancé. Forse un po’ più di audacia non avrebbe guastato anche se questo non ci impedisce di apprezzare lo splendido collante musicale in cui si inserisce la cristallina voce di Sara. A supporto della cantante troviamo infatti un nutrito gruppo di musicisti tra cui risalta la presenza dell’affermato batterista jazz José Salgueiro, del percussionista capoverdiano Mirica Paris e del suonatore di ukelele, Richard Dumas Lusafrica Salif Keita La Différence musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Emarcy / Universal La “differenza” , come recita il titolo del nuovo album dell’usignolo del Mali, è proprio quella che ha caratterizzato tutta la sua vita. Nato albino in un paese dove questa bizzarria viene spesso considerata un segno di sventura, Salif Keita si è battuto incessantemente contro i pregiudizi e le superstizioni legate a questa anomalia genetica. Non l’ha affatto coltivata, questa differenza, ci si è adattato ed ha imparato ad amarla. Canta: “Sono nero ma la mia pelle è bianca e questo mi piace. E’ la differenza che è bella. Sono un bianco dal sangue nero e questo mi piace”. Con l’occasione ne approfitta per attirare l’attenzione sulla fondazione che ha creato nel 2001 allo scopo di aiutare gli albini d’Africa. E non disdegna neppure, in seconda istanza, un appello ecologista nella spumeggiante Ekolo d’amour. Con questo terzo ultimo album Salif Keita chiude con eleganza una trilogia iniziata nel 2002 con Moffou cui fece seguito nel 2005 M’Bemba. Con la partecipazione di Kélétigui Diabaté al balafon, di Mamadou Koné alle percussioni e con le chitarre di Kanté Manfila e di Ousmane Kouyaté, ecco l’arte musicale mandinga nella sua massima espressione appena modificata dagli arrangiamenti di taglio più occidentale con echi di archi orientali. Contribuiscono ad arricchire questo album le partecipazioni di Vincent Segal al violoncello, Ibrahim Maalouf alla tromba, Seb Martel e Bill Frisell alle chitarre. Circondato da questa atmosfera più che familiare Salif dona in questo lavoro il meglio di se stesso. Un canto che esprime potenza e grande carica emotiva, delle nuove composizioni interessanti alle quali il cantante aggiunge reinterpretazioni di vecchi brani come Seydou, che risale ai tempi del suo esordio negli Ambassadeurs du Motel, e le commoventi Folon (1995) e Papa (1999) che qui trovano, senza dubbio, una loro versione definitiva. Questo album, la cui uscita è stata più volte annunciata e rinviata negli ultimi due anni, sarà un regalo prezioso per coloro che già amano ed apprezzano Salif Keita e forse riuscirà ad aprire una breccia nel cuore di qualche nuovo ammiratore. Benjamin MiNiMuM anch’egli capoverdiano, Jon Luz. A questi aggiungasi l’uso di strumenti come il flauto di bambù, il vibrafono o la fisarmonica che arricchiscono e colorano l’intero disco. Un album che va ascoltato dall’inizio alla fine senza soluzione di continuità perché la sua struttura lineare lo rende leggero e incantevole. David Valderrama Europa Ambrogio Sparagna Orchestra Popolare Italiana Taranta d’amore Auditorium / Finisterre Shantel musiques et cultures dans le monde Planet Paprika MIX MON DO ma Mi a Crammed / Materiali Sonori Se a quel furbone di Goran Bregovic, che ha simpaticamente saccheggiato a piene mani il repertorio tradizionale balcanico spacciandolo per opera del proprio ingegno, riconosciamo il merito di aver traghettato una musica che difficilmente sarebbe uscita dal proprio contesto folklorico verso il mondo della world music europea, non possiamo non prendere atto che questa rivoluzione di suoni vede oggi uno dei suoi principali artefici in Shantel. Nato a Francoforte nel 1968, Shantel inizia la carriera come dj nel suo Bucovina Club (dedicato alla terra d’origine della madre profuga), dove insieme a vere brass band gitane si esibiva con interventi elettronici dal vivo. Fanfare Ciocărlia, Boban Marković, Kočani Orchestar e Taraf de Haïdouks sono alcune delle formazioni gitane da lui rimixate con successo. Talmente clamoroso da indurlo a fondare una propria etichetta, la Essay Recordings, e a pubblicare una serie di raccolte da lui assemblate. La sua grande abilità nel miscelare i suoni tradizionali col beat techno elettronico lo porterà a vincere nel 2007, con Disko Partizani, il Club Global award per la BBC e a salire al primo posto nelle classifiche world in Turchia. Planet Paprika, il suo nuovo lavoro prosegue con successo nella medesima direzione del disco precedente: impossibile resistere all’ascolto senza cominciare a saltellare! Elisabetta Sermenghi Mafalda La compagnia del maestro organettista raduna uno stuolo di solisti del nuovo folk centro-meridionale, creando un organico di voci e strumenti popolari, prassi opposta rispetto a chi pensa di nobilitare la tradizione orale avvalendosi di un’orchestra di matrice euro-colta. Spazio a organetto, tamburelli, percussioni, zampogna, ciaramella, plettri, flauti, violino, ghironda, lira calabrese, ma anche al violoncello di Redi Hasa e al contrabbasso di Samdu Gruia, e ad ugole di tutto rispetto: Raffaello Simeoni, Mario Incudine, Gianni Aversano, il talento salentino Alessia Tondo. Scelta ammiccante quella di partire dal ritmo della tarantella per erigere un repertorio che si muove tra brani tradizionali laziali e salentini e composizioni siglate dallo stesso Sparagna, attingendo a moduli linguistici e strumentali di tradizione orale. “Suspiri d’amore” è l’apripista nel più classico stile compositivo sparagnano; vertici con il “cunto” di San Paolo, gli strambotti in griko di “Ìlie-mu” e quelli romaneschi intonati da Simeoni, la cui vocalità è carica di pathos anche in “Quanno so’ morto”. Non potevano mancare le diverse articolazioni della pizzica, tra le quali brilla quella di San Vito: primo attore Mimmo Epifani. Ciro De Rosa Ambrogio Sparagna Orchestra Popolare Italiana Mafalda Arnauth Flor de Fado Magic Music / Egea Dopo il successo di Diario, pubblicato nel 2005, ecco in arrivo il quinto disco della giovane fadista Mafalda Arnauth: Flor de fado. Si tratta, curiosamente, del primo cd che porta la parola fado nel titolo ma, a differenza dei precedenti, è quello che si allontana di più da questo genere musicale. Un allontanamento soltanto parziale, naturalmente, che però consente alla Arnauth di raggiungere territori di “frontiera” grazie alla preponderanza delle viole e della chitarra classica (a scapito di quella portoghese) e a una voce che ricorre spesso a espedienti drammatici tipicamente sudamericani. Particolarmente riuscita la canzone in omaggio a Maria Bethânia, Entre a voz e o oceano e cantata in duo con Olívia Byington. Certo, sia in questo brano quanto in O mar fala de ti o Flor do verde pinho il distacco dal fado è tale da regalarci una voce nuova, completamente diversa dall’austera e malinconica tonalità a cui la Arnauth ci aveva abituati. Va però detto che la disinvoltura con la quale sprigiona la sua voce in brani marcatamente fadisti è il vero segreto della sua arte. Particolarmente apprezzabili sono l’incrocio tra fado e madrigal di Quanto mais amor o l’evocazione di antichi ricordi di Quem me desata. Insieme al cd dal packaging impeccabile troviamo un dvd, un po’ asettico per la verità, contenente cinque canzoni registrate il 16 dicembre 2007 al teatro da Trinidade di Lisbona. Oltre a tre brani presenti nel cd vi sono le canzoni So corre quem ama e Para Maria del disco precedente. David Valderrama La Musgaña Idas y Venidas Karonte / Egea A cinque anni dalla tragica scomparsa del fondatore della band Quique Almendros, i componenti della Musgaña tornano nelle sale d’incisione con un nuovo album ricco di suggestive composizioni in salsa iberica. Idas y Venidas, questo il titolo del nuovo disco, è un interessante collante musicale composto da seguidillas, jotas, charradas, charros, pasodobles e dianas frutto di una intensa ricerca storico musicale nel folklore della Catiglia y Leon. Ispirandosi allo stile tracciato da due grandi musicisti del passato spagnolo come Federico Olmeda e Antonio José, il disco presenta quindici tracce prevalentemente tratte dalla tradizione castigliana del XIX secolo e qui riproposte con arrangiamenti nuovi ma con un rigoroso uso di strumenti tradizionali. Dopo la scomparsa di Almendros, infatti, ai veterani Jaime Muñoz (flauto, cornamusa, tamburello, clarinetto) e Carlos Beceiro (chitarra e ghironda) si sono ora aggiunti il violinista Diego Galaz e il fisarmonicista Jorge Arribas. Il disco, pur non essendo probabilmente il migliore della loro produzione, ci presenta una band affiatata e dallo stile maturo e ben affinato. La loro musica sembra voler prendere la tradizione popolare castigliana e innalzarla a un livello più alto, quasi classico e per farlo si avvale della registrazione a presa diretta affinché il suono sembri tratto direttamente da un concerto del passato. A questo aggiungasi l’uso di strumenti a fiato e a corde come il clarinetto e il violino, un tempo appannaggio esclusivo della musica colta. Il carattere energico, ottimista e intenso della più parte delle composizioni rimarca invece lo stile tipico di Burgos, cittadina un tempo capitale del regno di Castiglia. Bibbia principale dell’intero album è il canzoniere di Olmeda, dalla quale sono tratti alcuni brani, mentre troviamo una sola composizione originale, il Pasodoble de El Pastillas, scritta da Diego Galaz e dedicata all’omonima taverna di Burgos. Particolarmente suggestivo infine il brano El Buey, che per vent’anni la Musgaña aveva suonato in concerti senza mai trasporlo su disco, e che qui interpreta in forma minimalista a efficace chiusura del disco. Grazie a Idas y Venidas, il gruppo sembra aver saputo superare il trauma derivato dalla scomparsa dello storico leader (a cui per altro è dedicato l’album), rimanendo saldamente ancorato allo stile che l’ha caratterizzato nei suoi primi vent’anni di carriera. David Valderrama Bregada Berard Bòn Nadal Occitania Felmay Lo spiega bene il libretto: lungi dall’essere come altrove mera oleografia con fini consumistici, per il popolo occitano la musica legata alle festività natalizie e ispirata dal mistero che le sottende resta cosa viva, carne e sangue di un’identità che rifiuta orgogliosamente di scomparire nel tessuto globalista. Deus ex machina dei Lou Dalfin, Sergio Berardo accantona per l’occasione (con la squisita quanto parziale eccezione di alcune marce) la ballabilità intimamente pagana delle musiche che declina abitualmente con costoro, per arrendersi serenamente alla dolcezza di brani che sanno di torba e neve, di racconti attorno a un fuoco in una notte di ghiaccio. Eddy Cilia Värttinä 25 Westpark Records musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Dal villaggio di Rääkkylä nella Carelia ai palcoscenici mondiali con la partecipazione alla trasposizione teatrale de Il Signore degli Anelli, dagli inizi come ampio coro femminile al presente di ensemble compatto per doti canore e afflato strumentale, aperto a stilemi rock e world. Un quarto di secolo di attività da festeggiare con una bella selezione che ripercorre la carriera della band simbolo della rinascita della musica tradizionale in Finlandia, del cui quartetto fondatore resta la sola Mari Kaasinen. Fortunatamente, le suggestioni tolkieniane e il folk-pop ammiccante restano fuori da questa retrospettiva sonora che raccoglie 22 tracce, con l’inedito “Vipinäveet”. La vocalità guizzante e aggressiva riprende stili canori ugrofinnici: dalle armonie per seconde e quarte dei Setu, che richiamano le polifonie bulgare, al canto all’unisono dell’Ingria e, naturalmente, all’antico canto runico finnico. Apparato strumentale costituito dall’organetto dell’ottimo Markku Lepistö, kantele, nyckelharpa, chitarra, bouzouki, mandolino, sassofono, contrabbasso, batteria e percussioni. Il disco si può dividere in due parti: una prima con la rilettura di materiali tradizionali, la seconda fatta di brani di nuova composizione, che corrispondono agli avvicendamenti dei musicisti negli anni ma anche all’accentuarsi di raffinatezza e ricercatezza dei suoni. Ciro De Rosa Mostar Sevdah Reunion & Ljiljana Buttler The legends of life Snail Records / Egea Sia Mostar Sevdah Reunion che Ljljana Buttler hanno una caratura artistica di altissimo livello e questo appare evidente fin dalle prime note dell’album. Il mondo della sevdah e della tradizione è presente, ma non è l’unico. Atmosfere più vellutate che sferzanti, divagazioni jazz e svisate blues qua e là che a volte rendono il lavoro leggermente sfuocato dove potrebbe invece essere ancora più incisivo e originale. La voce della Buttler è quasi mascolina, comunque sempre forte e decisa, assolutamente convincente. La produzione è ottima, i suoni impidi e caldi. In conclusione l’album è assai gradevole e conferma un ensemble di musicisti affiatati e di altissimo livello. Da segnalare la presenza di Naat Veliov (Kocani Orkestar) in Andro Verka e la bellissima Rupuni, in duetto con Saban Bajramović. Luca Morino Europa Mari Boine Sterna Paradisea Cuovgga áirras Universal Jackie Oates Hyperboreans musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a One Little Indian / Goodfellas Due i grandi co-protagonisti di questo che per la venticinquenne cantante e violinista britannica è il terzo album: il fratello Jim Moray, grande quanto controverso innovatore del filone folk-rock, che ne firma la produzione; Alasdair Roberts, uno che partendo dal “post-” ha finito per approdare alla murder ballad e ai suoi arcani dintorni. Hyperboreans riesce nel piccolo miracolo di collocare armoniosamente nella medesima cornice una cover da urlo – raffinata e radiofonicissima - degli Sugarcubes (Birthday) e una serie di tradizionali rivisitati con estro pari al rispetto. Nell’ambito è una delle migliori uscite da molto tempo in qua. Eddy Cilia Massimo Ferrante Sterna Paradisea è parte di un viaggio musicale iniziato 25 anni fa con Jaskatvuoda e approdato alla notorietà con Gula Gula. Mari Boine, cantante Sami della Norvegia, sa creare con il suo canto momenti unici e di un’emozione profonda di difficile definizione perché va oltre il semplice palpitare del cuore, ed evoca istinti e memorie primordiali. Tecnica vocale straordinaria che si rifà alla tradizione del suo popolo ma che pure si intesse di elementi di modernità tipici del rock e del jazz, abbinati alla ricchezza degli arrangiamenti di alcuni esponenti di spicco della scena jazz norvegese. Sterna Paradisea mostra elementi di continuità con il precedente Idjagieda” ma segna anche un cambiamento importante, con l’apertura alle sonorità del Sud Africa e di una delle sue esponenti più rappresentative, Latozi Mpahleni (alias Madosini): un sogno che si avvera visto che era ormai da molti anni che Mari Boine desiderava introdurre nel suo lavoro musica africana, da cui si sentiva influenzata, creando con ciò un melting pot di straordinaria energia e originalità. Luca Vitali Jamu Felmay Records Nello spirito del musicista joggese la riflessione su memoria e radici popolari va di pari passo con la ricerca di canti che parlino all’oggi, attraverso una rilettura che non sia mero ricalco di stili popolari. Ecco che Jamu, il titolo dell’album, diventa emblema di un’attitudine al movimento, musicale ma non solo. La celeberrima lirica di Buttitta Lingua e dialettu, impreziosita dalla sapiente scrittura colto-popolaresca di Antonello Paliotti, apre e chiude il CD. Ancora dall’arte del poeta bagherese proviene Lamentu pe la morti di Turiddu Carnevali. Strina du Judeo è un corrosivo canto augurale di Lugo, nel cosentino, uno dei motivi più incisivi dell’album in virtù dell’intervento del chitarrista Lutte Berg, produttore artistico e comprimario di questo lavoro. La relazione forte con la lingua avita è ribadita con La piov e la fai soulelh, canto della comunità franco-provenzale di Guardia Piemontese; cadenze bandistiche orchestrate da Enrico Del Gaudio rivoltano Ari cincu. Dai repertori locali arrivano anche I fischi, che riceve un trattamento caribico, e Ninnananna Joggese. «Me la cantava mia madre» – dice Ferrante – « ....e ha continuato a cantarla ai miei nipoti.... magari qualcuno la canterà ai propri figli». La gustosa ‘U monacu, storia di un monaco che va in bianco, è animata da uno spiazzante fraseggio jazzato del calabro-svedese Berg, mentre ha un andamento rock Tarantella Minore. Scavi preziosi nella storia del canto politico riportano in luce Ha detto De Gasperi a tutti i divoti, interpretato alla maniera di un cantastorie, e Tu Compagno, dal repertorio del Canzoniere delle Lame che parte come una tammurriata per poi assumere tinte rock acide e rumoristiche. Disco che si butta giù tutto d’un fiato, che diverte e fa pensare. Ciro De Rosa Radiodervish Beyond the Sea Princigalli / Il Manifesto musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Album più d’acqua che di terra quello che per la settima volta porta la collaborazione come Radiodervish fra il pugliese Michele Lobaccaro e il palestinese Nabil Salameh a traversare il Mediterraneo da un capo all’altro. Per farci notare una volta di più quanto siano intimamente simili le genti che ne abitano le sponde. Sicché pare normale – oltre che giusto, bello e suggestivo – che il più europeo degli strumenti, il pianoforte, dialoghi indifferentemente con un quartetto d’archi espressione della medesima cultura e con i solisti di un’orchestra araba. È un disco raccolto, contemplativo, di un’epicità sommessa se è concesso l’ossimoro. Eddy Cilia Asia Debashish Bhattacharya O Shakuntala Riverboat / Egea Ustad Ahmad Hussain Khan Ustad Ahmad Hussain Khan & Party Serenity Felmay Protagonista di “Serenity” è lo shehnai un aerofono ad ancia doppia considerato originario del Nord, ma altrettanto presente nel Sud dell’India così che risuona indifferentemente nella tradizione indostana o carnatica. Comunemente si ritiene che lo shehnai “porti fortuna” e forse per questo esso è molto attivo nei matrimoni, così come accade per i suoi parenti di area iranica e centroasiatica (surnay, sunay, zurna). Ustad Ali Ahmad Hussain Khan (1939) proviene da una nota famiglia di musicisti e con questo disco dimostra di essere oggi, dopo la scomparsa nel 2006 del compianto Bismillah Khan, il più riconosciuto esponente dello strumento con il quale esplora qui raga poco comuni. Particolare la formazione: il leader è affiancato da un ensemble di ben otto musicisti. Giovanni De Zorzi Raghunath Manet Veena Dreams Iris Music / Egea Raghunath Manet è allo stesso tempo musicista ed esponente della danza di stile Bharatha Natyam (si rinviano gli interessati ai corsi che egli tiene a Venezia: www.cini. it). Qui si ha l’occasione di ascoltare Manet alla vina, una cordofono a pizzico che varia considerevolmente a seconda dell’area, se carnatica (saraswati vina), come nel disco, o indostana (vichitra vina, rudra vina, bin). L’opera è tutta di composizioni originali suonate da Manet su vari strumenti grazie al procedimento della sovraincisione. Concepito forse per le proprie performances di danza, il Cd non è consigliato per i puristi e può, invece, essere inteso come una sperimentazione di là da stili e stilemi tradizionali. Giovanni De Zorzi Lalgudi Vijayalakshmi, Mala Chandrashekar, Jaishree Jairai Vadhya Sunadha Pravaham Felmay Tre donne, frutto di una tradizione musicale e familiare, illustrano meravigliosamente lo stato attuale dello stile carnatico tipico del sud dell’India: Lalgudi Vijayalakshmi musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Kalidasa, poeta e drammaturgo di lingua sanscrita vissuto tra il IV e il V secolo d.C., compose diversi drammi amorosi e poemi epico lirici, tra i quali Abhijñāna Sakuntala che, nella versione italiana di Vincenzina Mazzarino, raccomandata all’ascoltatore curioso, si intitola Il riconoscimento di Sakuntala (Milano, Adelphi, 1993). A questo immortale poema si ispira Debashish Bhattacharya (1963), virtuoso della chitarra slide, strumento da lui progettato e in grado di rendere i microtoni (shruti) della musica indiana: ottimamente accompagnato da tre percussionisti: Charu Hariharan al mridangam e alla ganjira, Subhasis Battacharjee alle tabla e, caso raro o unico in India, la giovane Chitrangana Angle Reshwan al pakhawaj. Bhattacharya mette in musica varie scene tratte dall’opera, esplorandone delicatamente gli stati d’animo. Il Cd convince assolutamente, per la maestria e la sintonia di tutti gli interpreti ma anche per la profondità del sentimento espresso, tratto talora dimenticato dalle virtuosistiche nuove generazioni. Giovanni De Zorzi al violino, Mala Chandrashekar al flauto venu e Jaishree Jairai al liuto saraswati vina, accompagnate da Kallidaikurichi Sivakuma al mrudangam. Il disco si ispira ad un progetto degli anni ‘60 diretto dal padre di Vijayalakshmi, il violinista Lalgudi G. Jayaraman che, con una identica formazione, aveva rivoluzionato la tradizione carnatica. L’ascoltatore rimane incantato per le qualità musicali dimostrate dalle interpreti: purezza di suono, intonazione assoluta, unite a trasporto emotivo e ritmico che rendono imperdibile il disco. Giovanni De Zorzi The Klezmatics Wonder Wheel Music & Words / Egea musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a C’è tutto lo spettro di colori della New York anni 30 e 40 in questo disco, in cui i Klezmatics musicano 16 testi inediti di Woody Ghutrie, ricevuti in regalo dalla figlia Nora. Ci sono pezzi scuri Gonna Get Trough This World, Orange Blossom Ring in cui lo spettro della Grande Depressione evocato nei testi viene ripreso nelle melodie; pezzi ipnotici e con sfumature mediorientali e balcaniche come Wheel Of Life e pezzi in cui il gruppo newyorchese riesce a dare vita a melodie semplici e definite anche sui ritmi più complessi, come nell’apertura di Come When I Call You. E ci sono tracce Heaven e Mermaid Avenue, con fiati quasi caraibici così gioiose che se Woody vivesse ancora a Coney Island, verrebbe da correre da Nathans, a comprarsi due hot dog e a camminare sul lungo mare con lui per festeggiare la fine della Seconda Guerra Mondiale. Luca Vergano AAVV Sulle rive del Tango Microcosmo Dischi / IRD Sulla riva napoletana di un tango dal profumo internazionale L’attivissima Microcosmo dischi, con sede a Napoli, fa uscire una nuova perla per gli estimatori del tango nuevo tutta da ballare ma anche di godibilissimo ascolto per coloro che ancora non osano cimentarsi nella danza che forse più movimenta la vita notturna di queste nostre città italiane. Ecco quindi il secondo capitolo della fortunata raccolta Sulle rive del tango uscita un paio di anni fa. Nel primo volume avevamo visto comparire brani di tango dal sapore classico quali El mago pitico, La Negra, cui si alternavano brani di tango elettronico, Otros Aires, passando per il tango cubano di Dos gardenias, Ache Tango, e il tango Jazz di Kiss of Fire di Louis Armstrong, sfociando nella deliziosa Time, brano di derivazione klezmer dei polacchi Kroke. Questo secondo Sulle rive del tango (L’incontro) propone nuove selezioni sempre molto curate e brani che, anche se nati in forme musicali diverse, diventano sicuramente tangabili a volte per le affinità ritmiche e a volte per l’intenzione musicale. Andy Narell and Relator musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a University of Calypso Heads Up / Egea It’s fantastic in every sense / The music that you get from these instruments canta Relator in Steelband Music (brano 6), composizione del grande calypsoniano Lord Kitchener in onore di leader storici delle steelband come Ellie Mannette o Nevis Jules e al re degli strumenti di Trinidad: lo steel drum o pan, metallofono nato da fusti di greggio. E questi melodiosi tamburi d’acciaio - con timbriche dolci e suggestive – suonati dallo statunitense Andy Narell e la voce del già citato crooner trinidadiano Relator sono i protagonisti indiscussi di University of Calypso, un omaggio agli anni d’oro del calypso e agli abili improvvisatori in rima. Della partita, anche i cubani Paquito D’Rivera, Pedro Martinez e l’argentino Dario Eskenazi. Il sapiente mix di sound afrocaraibici, sudamericani, liriche del calypso e sintassi jazzistica che unisce le 15 tracce del cd è fantastico. Gian Franco Grilli L’intento è di far incontrare due persone unendole in un passo di danza anche solo per la durata di un brano. Questo incontro si consuma in giro per le strade del mondo e l’abbraccio si lascia sedurre dalla voce soul mediorientale dell’anglo egiziana Natacha Atlas come dai suoni ora struggenti e ora elettronici di Oblivion nell’esecuzione della Istanbul Accademia Project. Nell’aria volteggiano note ed atmosfere francesi come De l’autre coté, Ginkobiloba, o la poesia di Querer dei Cirque du Soleil senza dimenticare la voce di Vinicio Capossela nella romantica e disperata Scivola vai via. Non potendo in questa sede indicare tutte le importanti selezioni di questa deliziosa raccolta non mi rimane che consigliarne caldamente l’ascolto a chi non teme l’abbraccio di una musica che danza da sola. Elisabetta Sermenghi AAVV Sulle rive del Tango - L’incontro Microcosmo Dischi / IRD Americhe Pink Martini Pink Martini Kantango Splendor in the Grass De ida y vuelta Naïve / Self Dodici anni dopo l’uscita di Sympatique che li ha rivelati al mondo intero, esce oggi il quarto album della piccola orchestra di Portland, Splendor in the Grass. Nati quasi per gioco da un’idea di Thomas M. Lauderdale quali supporter – intrattenitori durante le battaglie politiche per la parità dei diritti civili della comunità gay di Portland, Il progetto Pink Martini trae ispirazione dal repertorio anni cinquanta e sessanta di tutto il mondo spesso mescolando generi musicali diversi quali jazz e musica latina a certi arrangiamenti classici. Il tutto ovviamente condito dalla bella voce di China Forbes (l’altra anima fondatrice dei PM) che canta in inglese, francese, spagnolo, italiano, portoghese e giapponese. Il primo album, ricco di cover, aveva una personalissima carica interpretativa così accattivante da essere entrato nell’immaginario collettivo anche delle nostre città di fine anni novanta protese verso gli anni duemila ma forse non ancora pronte a lasciarsi alle spalle gli ultimi cinquant’anni. Diventati gruppo lounge per eccellenza i Pink Martini hanno continuato negli album successivi con questa azione di ripescaggio di brani di passata notorietà con risultati gradevoli e costanti. E così fanno anche nell’ultimo album Splendor in the grass nel quale, come sempre, gli arrangiamenti e le atmosfere sono ineccepibili. Canzoni e canzonette sempre piacevoli all’ascolto anche se forse la formula rivelatasi vincente agli esordi sembra avere perso un po’ della magia iniziale ed avrebbe bisogno di nuova energia. Microcosmo Dischi / IRD musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Un viaggio di andata e ritorno, Ida y Vuelta, così recita il titolo del nuovo album di Kantango. Scoperti e prodotti da Joe Barbieri, brillante musicista napoletano e fondatore dell’etichetta Microcosmo, Kantango è un quartetto di virtuosi che già diede alla luce nel 2006 un ottimo album di esordio, Màsidiomàs, accolto da larghi consensi. Kantango oggi torna a proporci la rivisitazione di un tango senza confini, fedele nel suoni ma innovativo negli arrangiamenti. La trasformazione di brani di autori come Ryuichi Sakamoto e Jacques Brel in tanghi affascinanti o accompagnando, sullo sfondo di darbuka e bouzuki, la nenia araba cantata da Marzouk Mejiri con ritmi serrati di violino e fisarmonica che immediatamente ci trascinano altrove. Arie come da un immaginario film in bianco e nero la cui pellicola si srotola innanzi allo spettatore che rapito si lascia trasportare dal proprio pensiero che danza in una balera immaginaria. Questo album, grazie anche alle prestigiose collaborazioni di Richard Galliano, Rupa, Susanna Baca e Lura colloca i Kantango sulla scena internazionale della world music ad un livello di tutto rispetto. Elisabetta Sermenghi Elisabetta Sermenghi Vanessa Da Mata Ao Vivo (Live in Brazil) Discograph / Self Prematuro dopo soli tre album in studio uscirsene con uno dal vivo? Forse sì e nondimeno è sempre una valida alternativa a un banale Best Of per lanciare definitivamente nel resto del mondo un’artista in patria già enorme. Naturalmente non faranno un soldo di danno le ospitate della più celebre delle sezioni ritmiche in levare, ossia Sly & Robbie (da sempre stretto il rapporto di Vanessa, che per un breve periodo fu addirittura la cantante dei Black Uhuru, con il reggae), e di Ben Harper. Tanto jazz e un sacco di funk nei risvolti di una musica che del Brasile preferisce il versante carnascialesco e sexy a quello della saudade. Eddy Cilia Vanesa Da Mata Alexander Zucrow Etno Jazz Egberto Gismonti Saudações ECM / Ducale Questo doppio album, “Saudações” (saluti), segna il ritorno di Egberto Gismonti a ECM dopo una assenza durata 14 anni. Il primo disco mette a fuoco il Gismonti compositore per orchestra degli ultimi anni, un viaggio di 70 minuti attraverso il suo Brasile che abbraccia vari aspetti della cultura e della storia del paese. Esecuzione convincente registrata all’Avana da un’orchestra di sole donne, Camerata Romeu, diretta da Zenaida Romeu. Il secondo è un quadro composito fatto di assoli e duetti con il figlio Alexandre: registrato a Rio de Janeiro, comprende alcuni tra i brani preferiti da Gismonti, Lundú, ZigZag e Dança dos Escravos… La suite illustra il genio particolare del musicista, denso di punti di riferimento musicali ma sempre inequivocabilmente se stesso, mentre i duetti e gli assoli di chitarra lo confermano musicista straordinario mettendo al tempo stesso in luce il giovane figlio. Luca Vitali Bebo Ferra Luar Egea È interessante e significativo che i primi due pezzi del disco si dipanino su un tempo ternario, due valzer che evocano leggerezze, fruscii, brezze, suoni molto vicini al silenzio, quella voce della Luna alla quale l’album è dedicato,che, ci ricordava il maestro Fellini, si può ascoltare quando tutti finalmente stanno zitti. Luar ruota tuttattorno alla ricerca della pace, anche quando ne L’Alba di Yousif il discorso si fa lungo e concitato sino a spegnersi in un balbettìo o in Io Ti Salverò affiora una tormentata malinconia. Il clima sonoro latinoamericano disegnato dal chitarrista sardo con Rita Marcotulli, Marco Decimo e Lello Pareti, non va visto come una limitazione, ma un abbraccio tra i continenti sotto lo sguardo luminoso, silente e comprensivo del pallido satellite. Giulio Cancelliere Nguyên Lê Saiyuki ACT / Egea Continua il viaggio tra est e ovest del chitarrista-filosofo vietnamita, che, da tempo, ha assunto anche la veste di produttore, consentendosi di sperimentare ad ampio spettro e prendersi il tempo che occorre per dar forma all’ispirazione. Saiyuki, titolo giapponese che significa «Viaggio verso occidente», punta prevalentemente verso l’India, culla del buddhismo al quale Lê fa spesso riferimento, coadiuvato dal tablista Prabhu Edouard e dal grandissimo Hariprasad Chaurasia al bansuri (flauto indiano), le cui sonorità pervadono l’intero album. Se, per certi versi, le sperimentazioni del leader possono ricordare alcuni percorsi elettrici già intrapresi da John McLaughlin, Nguyên Lê, a differenza del chitarrista inglese di estrazione rock-blues, proviene da quella cultura orientale e ne incarna profondamente l’essenza, anche se mediata dagli strumenti occidentali. Una menzione merita il koto di Mieko Miyazaki, che ci collega e riporta al punto di partenza. Giulio Cancelliere musiques et cultures dans le monde Anouar Brahem MIX MON DO ma Mi a The Astounding Eyes of Rita ECM / Ducale Lavoro decisamente meno cameristico dei precedenti Le voyage de Sahar e Le Pas du Chat Noir, ritmo più definito e tradizionalismo mediorientale vivido, ma anche elementi di modernità, in cui la linearità del Medio Oriente e l’armonia occidentale si incontrano per dar vita a un melange di grande sensibilità e apertura. Album ispirato e dedicato a una figura molto influente nel mondo arabo, lo scrittore e poeta palestinese Mahmoud Darwish, scomparso nel 2008. Ensemble internazionale nato da alcuni suggerimenti di Manfred Eicher, che unisce il clarinettista Klaus Gesing - figura di spicco dell’ultimo lavoro di Norma Winstone, Long Distance - e il bassista elettrico Björn Meyer dei Ronin di Nik Bartsch. Completa la formazione il percussionista libanese Khaled Yassine che, venendo dal mondo della danza, conferisce grande leggerezza alle strutture: elementi differenti che sanno fondersi al meglio dando prova di grande sensibilità e interazione. L’asse portante è costituito da Brahem e Gesing che in Italia, a Cavalicchio, nello studio di Stefano Amerio, decisero di realizzare questo bel progetto.Il tocco all’oud di Brahem è più leggero del solito e il timbro più sfumato, mentre Gesing al clarinetto basso ha un suono oscuro e vibrante, pieno di tensione. Il risultato si traduce in otto brani legati da un filo narrativo coerente costituito in gran parte da melodie forti e fluttuanti che emergono da un fondale groove lento e dal registro spesso basso. Lavoro che sembra guardare al passato e alla tradizione, ma con elementi di modernità del tutto nuovi, in cui la linea di confine tra forma e libertà si fa sempre più indefinita per un risultato di vibrante emozione. Luca Vitali Bebo Ferra Quartet OGNI MESE IN EDICOLA O.S.T. El ultimo aplauso Enja / Egea musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Se la nostalgia è un paese, il tango è la sua capitale R.F.Thompson El ultimo aplauso è la colonna sonora dell’omonimo film girato dal regista tedesco German Kral a Buenos Aires tra il 2001 ed il 2008, sulle tracce dei vecchi cantanti del mitico Bar El Chino .Un viaggio nella memoria di ciò che il Tango tradizionale ha rappresentato ed ancor oggi continua a rappresentare per la Città e la sua Gente. «L’essenza del Tango - scriveva Adriana Varela, cantante di Tango - sta nel suo carattere di musica di quartiere, di marginalità. Il tango lo canta sempre un poeta impegnato. Anche se i tanghi non hanno un contenuto esplicitamente politico, tutti i tanghi sono impegnati perchè sono politicamente scorretti. E lo sono ancora di più, in questi tempi dove la sconfitta, la povertà e l’emarginazione mostrano il loro essere effetto politico. Il tango è scorretto, trasgressivo, e per questo è tornato...» Ed ecco, idealmente in continuità con tale pensiero, questo documentario illuminare la vita di una manciata di cantanti dimenticati, la loro lotta per guadagnarsi da vivere dopo la chiusura del bar durante la crisi economica più grande del paese, e il loro sogno di cantare una volta ancora, forse l’ultima, davanti ad un pubblico. Si chiamano Cristina De Los Angeles, Inés Arce, Julio César Fernàn, Friàs Abel. Grazie al musicista e produttore Luis Borda, una delle figure più rappresentative del nuovo corso del tango argentino, il sogno si realizza, e ne esce una splendida colonna sonora nella quale le voci roche o melodiche, ma sempre appassionate al limite della commozione, sono accompagnate dalla giovane Orquestra Tipica Imperial in alcune sessioni di registrazione in studio e in un concerto dal vivo. 18 brani che spaziano dai tanghi più tradizionali di Gardel o Troilo ad alcuni tanghi moderni, strumentali, di Piazzolla e Blazquez fino ad un suggestivo A Salvador Allende di G.M.Argibay, pianista dell’ Orchestra. Fin dal primo ascolto si impone in questo lavoro, a marcare un incessante 4/4, la forza dei tre bandoneon, quattro violini, piano, violoncello e contrabbasso. Ma il tango è anche e soprattutto linguaggio della corporeità, musica da ballare innanzitutto, dove le emozioni si traducono in movimento, energia che dal centro si trasmette alla periferia connettendole in un Unico. Sarà un ascolto del corpo quello che ci darà la misura della densità di questo disco. Indossate le vostre scarpe da tango dunque, e lasciate i vostri piedi raccontarvi, pivot giros e boleos i loro sostantivi, una storia di Perdita, di Passione, di Amore, di Nostalgia. Vi scoprirete a tornare ancora ed ancora a Desencuentro, Niebla del Riachuelo, Ventarròn, al vals Romance de Barrio... per fermarvi, ne sono certa, al rapimento della voce straziata di Inés Arce in un’indimenticabile live, Duelo Criollo. Per el ultimo aplauso dalla sua gente, la Gente del Tango. Mariangela Spinazzè Colonne Sonore Avanguardia, Blues, Country, Etno, Exotica, Folk, Free, Funk, Glitch, Hip Hop, House, Improvvisata, Indie Rock, Industrial, Jazz, Lounge, New Wave, Pop, Post Rock, Progressive, Psichedelia, Rhythm’n’Blues, Rock’n’Roll, Soul, Sperimentale, Techno... www.blowupmagazine.com Alexander Zucrow Global sound Ibrahim Maalouf Ibrahim Maalouf Diasporas Ponderosa lIn occasione dell’imminente uscita sul mercato italiano del nuovo cd di Ibrahim Maalouf Diachronism (al momento non ancora disponibile), ci sembra doveroso ripescare e segnalare il suo lavoro precedente Diasporas che non ha avuto nel nostro paese l’attenzione che avrebbe meritato. Nato a Beirut, nel 1980, Ibrahim Maalouf poco dopo la nascita viene portato in Europa dalla sua famiglia che fugge dal Libano orrendamente devastato dalla guerra civile e si stabilisce in Francia. Seguendo le orme del padre, anch’egli trombettista (fra l’altro il primo trombettista arabo a suonare musica occidentale), Ibrahim comincia a studiare musica in tenera età e a seguire, verso i nove anni, il padre nei concerti. La sua grande attitudine allo strumento lo porta a ricevere, ormai ventitreenne, importanti riconoscimenti internazionali. Seguono svariate collaborazioni con artisti del calibro di Amadou & Mariam, Archie Shepp, Vincent Segal, Vanessa Paradis e la partecipazione all’Opera Rock di Sting. Ultimamente ha contribuito alla produzione del nuovo album di Salif Keita La différence. Lo studio e la passione per la musica classica occidentale, per la musica della tradizione araba come pure per il jazz, il rock ed il soul hanno prodotto in questo talentuoso musicista la capacità di miscelare suoni e culture con grande misura. Omaggiando ora l’uno ora l’altro i vari generi musicali, sulle le note vibranti della sua tromba ci accompagna in mondi diversi e ci mostra visioni lontane. Il suono dinamico e multiforme di una diaspora. La guerra che uccide e che divide, la nostalgia di chi cura il ricordo delle proprie radici abbandonate inseguendo il sogno di un futuro altrimenti incerto o negato. Elisabetta Sermenghi Kronos Quartet Floodplain Nonesuch / Warner MIX MON DO ma Mi a Sembra che sia cominciato tutto dieci anni fa quando David Harrington in un mercato di Beirut ha sentito la voce di Fairuz che cantava Wa Habibi. Dopo aver chiesto a uno dei suoi collaboratori di farne un arrangiamento, il pezzo è entrato stabilmente nelle scalette dei concerti. Lì è cominciato il viaggio del Kronos per esplorare le tradizioni musicali più diverse e lontane. Come in ogni viaggio il gruppo ha incontrato delle persone. Il collettivo elettronico palestinese Ramallah Undeground, la compositrice serba Aleksandra Vrebalos o Lev Ljova Zurbin, autore russo residente a New York, tra gli altri. E come in ogni viaggio, le atmosfere si susseguono: dall’orecchiabile Ya Habibi, Ta’ala, con contrappunti leggeri che ricordano l’orchestra di Oum Kaltsoum, all’elettronica cupa di Tashweesh, fino agli intensi 12 minuti di Getme Getme con la partecipazione del duo mughal azero di Alim e Fargana Qasimov. Quando a 12 anni ho cominciato a suonare in quartetto – racconta Harrington – mi sono reso conto che tutta la musica che suonavo veniva da Vienna o giù di lì. Poi guardavo sul mappamondo Africa e Asia e mi chiedevo come fosse la musica di zone così lontane. Il risultato di questa curiosità è un disco coraggioso, sempre complesso ma mai ostico, in cui il Kronos mi ha ricordato come la musica classica sia sempre stata, in origine, musica popolare. Luca Vergano Hugh Masekela Phola Times Square / Egea Settant’anni (compiuti lo scorso 4 aprile) di cui cinquanta trascorsi fra palcoscenici e studi di registrazione a forgiare una musica che era “del mondo” decenni prima che si cominciasse a parlare di world: musica senza confini quella di Hugh Masekela, radicata nel natio Sudafrica e profumata di pop occidentale, intrisa di jazz, disposta ad arrendersi al funk, non digiuna di rock (qualcuno lo ricorda? il trombettista era presente a quel festival di Monterey che nel ’67 inaugurava l’epoca dei grandi raduni giovanili). Phola è, sebbene con qualche levigatezza di troppo, perfettamente nel solco di una storia coerentissima nella sua inesausta voglia di meticciato. Eddy Cilia musiques et cultures dans le monde Hugh Masekela Parco della Musica Records Gli ultimi esclusivi CD Ora anche con imperdibili registrazioni in studio. Parco della Musica Records è l’etichetta discografica della Fondazione Musica per Roma che promuove e diffonde i migliori concerti realizzati all’Auditorium Parco della Musica. Tutti i cd della Parco della Musica Records sono in vendita nei principali negozi di musica italiani e al bookshop dell’Auditorium. www.auditorium.com/pdm_records viale Pietro de Coubertin, 00196 Roma • Info 06.80.241.281 06 Inverno 2009 Ossigeno Digital Distribution L’aggregatore che promuove e distribuisce la musica indipendente italiana nel circuito digitale in tutto il mondo Distribuiamo: 5.1 Records, 800A Records, alma music, Anelli Records, Atelier Calicanto, Auditorium, Bertostudio, Caligola Records, Felmay, Finisterre, Geos, High Tide, I Dischi della Vetrocipolla, Kob Records, Lao Tsu Productions, Le Parc, Level49, MEI, MF Records, Nota, One Love Records, Rasta Snob Records, Storie di Note, Suono, Taranta, Taukay, Tauri Records, Terre Sommerse, Toast Records, Tre Lune Records, Vedette Records, Young NRG Productions e altri... www.ossigenodigitaldistribution.com 06 Inverno 2009 Ossigeno Srl Via Marovich, 5 30174 Chirignago Venezia 041-5441558 [email protected]