RICERCA • PSICOLOGIA CLINICA • SCIENZE COMPORTAMENTALI • PSICOPEDAGOGIA Autorizzazione Ministeriale D.M. 9/5/1994 Scuola di Counselling Psicologico INTEGRAZIONE nelle Psicoterapie Scuola di Specializzazione in Psicoterapia FENOMENOLOGIA PLURALISTICA • PSICOLOGIA DI COMUNITÀ • PSICOTERAPIA UMANISTICA NELLE PSICOTERAPIE Certificate SSVPC • SAPIENZA Università di Roma Accreditate U.P.ASPIC Università del Counselling Anno 2013 - numero 3 COLLOQUI DIAGNOSTICI IN ITINERE DURANTE I PERCORSI PSICOTERAPEUTICI LA PSICODIAGNOSI IN PSICOTERAPIA Arnold A. Lazarus Il padre dell’eclettismo in psicoterapia Nato nel 1932 in South Africa INTEGRAZIONE nelle psicoterapie Rivista di studi e ricerche - numero 3 - 2013 NELLE PSICOTERAPIE Rivista semestrale di studi e ricerca scientifica in: PSICOLOGIA CLINICA SCIENZE COMPORTAMENTALI PSICOPEDAGOGIA FENOMENOLOGIA ESISTENZIALE PSICOLOGIA DI COMUNITÀ PSICOTERAPIA UMANISTICA INTEGRATA PSICOTERAPIE PLURALISTICHE INTEGRATE n n° 3 - 2013 t Direttore Responsabile CLAUDIA MONTANARI NORME PER GLI AUTORI t Direzione Scientifica EDOARDO GIUSTI - CLAUDIA MONTANARI Chiunque può inviare alla Direzione della rivista (c/o A.S.P.I.C. srl - Via Vittore Carpaccio, 32 - 00147 Roma) articoli immagini, libri da recensire, segnalazione Congressi. La Redazione si riserva l’accettazione dei lavori e del materiale pervenuto ed anche se non pubblicato non verrà restituito. Gli articoli impegnano esclusivamente la responsabilità degli autori. 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American Association for Marriage and Family Therapy American Counseling Association Association for the Development of the Person-Centered Approach Association for Humanistic Psychology, USA American Psychological Association Ass.ne Italiana di Psicologia e Psicoterapia ad indirizzo Fenomenologico-Esistenziale Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità Istituto per la Formazione di Psicoterapeuti Associazione Scuola Superiore Europea di Counseling Professionale Associazione per la Scuola Cooperativa Sociale di Solidarietà Università del Counselling - U.P. Aspic B.A.C. British Association for Counselling, London C.N.C.P. Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti C.N.U.P.I. Confederazione Nazionale delle Università Popolari Italiane E.A.C. European Association for Counselling, London E.A.I.P. European Association for Integrative Psychotherapy E.A.P. European Association for Psychotherapy E.P.G. Ecole Parisienne de Gestalt, France E.S.P.I. European Society for Psychotherapy Integration E.A.T.A. European Analysis Transactional Association F.I.A.P. Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia F.I.S.I.G. Federazione Italiana Scuole ed Istituti di Gestalt F.I.P. Federazione Italiana Psicologi F.O.R.G.E. Federazione Internazionale des Organismes de Formation à la Gestalt G.I.G. Gestalt Institute of Cleveland, USA I.A.E.P. International Academy of Eclectic Psychotherapists I.N.E.C.P. International Network of European Comunity Psychology I.T.A.A. International Transactional Analysis Association La Jolla University, California European Campus Metanoia Psychotherapy Training Institue, London RE.I.Co Registro Italiano dei Counselor S.E.P.I. Society for the Exploration of Psychotherapy Integration S.F.G. Societé Française de Gestalt, France S.I.P.A.P. Società Italiana Psicologi Area Professionale Privata S.I.P.G. Società Italiana Psicoterapia della Gestalt S.I.P.s Società Italiana di Psicologia S.P.R. Society for Psychotherapy Research (Sezione Italiana) La Psicodiagnosi in psicoterapia Edizione a cura di Antonio Iannazzo Enrichetta Spalletta Psicoterapeuta, Psicoterapeuta, Supervisore associato Supervisore associato Sommario 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 Editoriale Claudia Montanari La psicodiagnosi in psicologia clinica Antonio Iannazzo Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato Antonio Iannazzo Due approcci alla valutazione diagnostica: categoria e dimensione. Stato dell’arte e prospettive future Francesca Militello Diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica: ottiche e metodologie a confronto Francesca Massara Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico Catiuscia Settembri Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica a distanza Maura Locatelli La diagnosi in psicologia clinica: il modello dei Big Five Paolo Bianchi La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione Giada Fiume Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti Vera Cabras L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica Marusca Arcangeletti Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche Donatella Tridici Introduzione al test proiettivo: il test di Wartegg Antonio Mancinella Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze relazionali: Un’indagine con gli adulti in terapia Veronica Rosa e Paola Prosperi Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione terapeutica ad approccio integrato Federica Murdaca 9 11 31 43 51 57 65 81 89 103 115 125 143 157 175 15 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale. Uno sguardo più da vicino al SAT (Separation Anxiety Test) Salvatore La Fata 16 Applicazione del 9AP e del Millon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento di due casi clinici. Enrichetta Spalletta e Giuseppe Itri 17 L’uso in terapia del test 9AP per la valutazione dello stile di attaccamento come strumento di consapevolezza Giovanna Maranini 18 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato per i disturbi diagnosticati in età evolutiva Grazia Spera 19 Somministrazione del Parents Preference Test (PPT) come strumento di consapevolezza nel lavoro con i genitori Silvia Della Morte 20 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata Ilaria Monticone 21 Il monitoraggio del percorso clinico in gruppo Andrea Pagani 22 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari Cristina Povinelli 23 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico Laura Rapanà 24 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. Laura Rapanà 25 Il Ruolo delle emozioni positive in Psicoterapia Marco Pacifico 26 Riflessioni sul concetto di validazione in psicoterpia Claudio Manucci 27 Convinzioni di autoefficacia e tecnica del “Cerchio dell’eccellenza” Elvino Miali 28 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia Leonarda Giannini e Maria Antonietta Quitadamo 29 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based Edoardo Giusti 185 195 221 229 242 247 256 262 272 280 288 398 302 307 315 editoriale Editoriale di Claudia Montanari Nel panorama delle psicoterapie, il processo diagnostico rappresenta uno strumento di grande utilità, sia nella fase pre-valutativa del paziente, sia in itinere, sia alla conclusione della terapia. L’osservazione e la raccolta dei dati del soggetto in trattamento, ottenuta attraverso differenti strumenti, permette di avere una visione integrata e complessiva della personalità e delle relative competenze soggettive, sia sul piano cognitivo che emotivo. Il crescente interesse verso la psicodiagnosi ha portato la scuola ASPIC a promuovere un percorso di perfezionamento e approfondimento rivolto a psicoterapeuti, che ha permesso di esplorare il bisogno del professionista in merito ai numerosi strumenti da utilizzare a seconda delle situazioni cliniche incontrate. Si apre con questa tematica il terzo numero della rivista INTEGRAZIONE nelle Psicoterapie, descrivendo le tappe del percorso formativo, particolarmente utili allo psicoterapeuta di approccio Pluralistico Integrato. Viene messa in evidenza l’importanza della ricerca rispetto al risultato della terapia affinchè si possa osservare come, in base allo strumento utilizzato e alla qualità del processo in terapia, vengono ottenuti risultati differenti. La rivista prende in considerazione lo stato dell’arte e le prospettive future dei modelli psicodiagnostici, nonchè l’importanza del lavoro d’équipe, dell’integrazione tra le diverse figure professionali e del livello di collaboratività, non sempre presente tra professionisti che curano la persona. Attraversare la conoscenza dell’altro, questo lo scopo della psicodiagnosi che porta inevitabilmente all’incontro con l’Altro, non solo come interesse etico o scientifico e curativo, ma nel complesso mondo relazionale che comprende il professionista e il paziente all’interno di un processo bidirezionale. Il testo non trascura un elemento della psicoterapia moderna, la relazione di aiuto online, all’interno della quale vengono sperimentate procedure diagnostiche che evidenziano aspetti specifici della relazione terapeutica. Una sfida interessante, quella di trovare un equilibrio tra presenza e distanza, così importante per alcune tipologie di pazienti. Altrettanto contemporanea la tematica dell’approccio al paziente migrante: questa tipologia di intervento deve tenere conto di molteplici aspetti, (uno fra tutti l’ostacolo della lingua), non solo nel colloquio ma anche nella valutazione psicodiagnostica. Specifici riferimenti ad alcuni Test arricchiscono il testo, portando il lettore ad approfondire strumenti utili alle differenti specificità del paziente: il Big Five, le tipologie di organizzazione della personalità di Kernberg (nevrotica, borderline, psicotica); l’approccio multiassiale alla valutazione offerto dal Manuale Diagnostico Psicodinamico PDM, l’approccio elaborato da Nancy McWilliams, il Test di Wartegg, il Test semiproiettivo 9AP di Candilera, il S.A.T. (Separation Anxiety Test) nella rielaborazione di Grazia Attili che mira a coprire la fascia di età scolare e adolescenziale, più difficile nella valutazione degli stili di attaccamento, il test di MIllon – MCMI-III, il WISC III applicato ai trattamenti Pluralistici Integrati, il PPT (Parents Preference Test) per l’analisi dello stile di parenting nel lavoro con i genitori, la valutazione dell’autoefficacia attraverso l’utilizzo del “Cerchio dell’eccellenza” tratto dalla letteratura sulla PNL, il Questionario sul clima di Gruppo (GCQ, Group Climate 9 editoriale Questionnaire) proposto da MacKenzie, uno dei pochi strumenti che misura la dimensione del clima di gruppo nel processo terapeutico, il Questionario U.A.D.I. - Uso, Abuso e Dipendenza da Internet, infine, la SPP, una scheda in grado di aiutare il clinico a sistematizzare sia i test somministrati che le osservazioni raccolte durante tutto il percorso psicoterapeutico, affinchè il monitoraggio del terapeuta possa essere sufficientemente strutturato. In alcuni articoli vengono esposti casi clinici seguiti in psicoterapia, così da permettere al lettore di comprendere come applicare sul campo gli strumenti più utili a seconda della personalità del paziente. Si approfondisce, inoltre, l’importanza della diagnosi nei casi di Disturbo Bipolare dell’Umore, dato che una diagnosi errata può essere causa di amplificazione dei sintomi maniacali, di repentini passaggi dall’umore depresso a comportamenti maniacali, di aumentato rischio suicidario. Si incontra, infine, un’interessante riflessione sui limiti e sui punti di debolezza dell’uso degli strumenti psicodiagnostici i quali, pur rappresentando un momento importante della validazione clinica, a volte non riescono a rispondere sufficientemente alla complessità dell’essere umano; restano, comunque, un punto di osservazione di auto- ed etero-consapevolezza e un punto di vista altro sulla personalità del paziente o, più semplicemente, una selezione di informazioni relative alla persona. Questa riflessione non può che portare il professionista a seguire una raccomandazione, caldamente sostenuta dagli autori psicodinamici, quella di mantenere costante e aperta la disponibilità a rivedere la propria diagnosi iniziale, a continuare a dare valore e collocazione alle nuove informazioni e ai cambiamenti che possono maturare nel corso del processo psicoterapeutico. 10 La psicodiagnosi in psicologia clinica 1 di Antonio Iannazzo Antonio Iannazzo, psicologo, psicoterapeuta, supervisore. Si occupa di psicoterapia e counseling psicologico da molti anni nei vari aspetti di queste discipline, dalla clinica, alla ricerca, alla formazione. Ha partecipato a progetti nazionali e internazionali. Fa consulenze individuali e di gruppo a Roma e ai Castelli Romani. Abstract L’articolo tratta del lavoro psicodiagnostico condotto dallo psicologo. Il modo, gli ambiti applicativi, gli strumenti e tutto quello che può essere utile ad un professionista per condurre una buona valutazione, evidenziando aree di comunanza e differenziazione rispetto ad aree limitrofe alla psicologia. Keywords Psicodiagnosi, test, ambiti di valutazione, valutazione psicologica, valutazione psichiatrica, BASIC.ID. Cos’è Uno dei compiti importanti su cui si fonda il lavoro dello psicologo è operare un’accurata valutazione che consenta di orientare meglio il lavoro successivo: approfondire lo stile/struttura della personalità, il funzionamento dell’altro, la sua organizzazione interna, il modo di relazionarsi oltre alla manifestazione sintomatica, è un modo adeguato di procedere. Il sintomo è una delle modalità che la persona ha scelto per esprimere una difficoltà interna: limitare l’analisi psicologica alla sola manifestazione esterna (sintomatica) può essere limitante. Gli strumenti fondamentali per condurre una psicodiagnosi sono il colloquio clinico, l’osservazione e l’uso di test psicologici (talvolta anche esami di laboratorio e prove neurofisiologiche). Il processo di psicodiagnosi è costituito da un percorso complessivo di 3-5; questi sono spesso articolati in un primo colloquio di inquadramento, osservazione e anamnesi del paziente, 1-2 incontri per la somministrazione di strumenti vari (reattivi, test, registrazioni psi11 La psicodiagnosi in psicologia clinica cofisiologiche…) e 1-2 incontri di ulteriore sintesi dei relativi risultati ed approfondimento clinico (Mucciarelli et. al., 2002; Moderato, Rovetto, 1999; Saraceni, Montesarchio, 1998; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Una batteria di test è rappresentata da un gruppo di test attitudinali, clinici o di profitto che si utilizzano insieme per ottenere informazioni ampie sulla persona, informazioni e valutazioni sulle diverse aree (cognitiva, emotiva, dinamica, relazionale…) (Pedrabissi, Santaniello, 1997). La batteria consente di integrare informazioni da diverse angolazioni che possano fornire una foto dettagliata della persona (triangolazione). La batteria classica di test (WAIS, Rorschach, TAT o ORT) o altri tipi di batteria, nonché i singoli test ‘classici’ (MMPI, Rorschach, WAIS, etc.) sono molto utili, nelle fasi iniziali, per impostare il lavoro clinico e, nelle fasi finali, per valutare i cambiamenti strutturali-funzionali, profondi-superficiali e altri che rappresentano il focus degli interventi. Sono tuttavia poco utili per valutare il processo nelle fasi intermedie e come strumenti di monitoraggio. Ciò a causa della loro scarsa adattabilità, della loro lunghezza e complessità di somministrazione e di interpretazione. Risultano così poco funzionali alla valutazione in itinere. In queste fasi intermedie sono preferiti degli strumenti semplici, veloci, anche flessibili che lo psicologo può somministrare funzionalmente. Un’adeguata integrazione di questi strumenti, colloquio clinico, osservazione e uso di test, consente di ottenere le informazioni più accurate per formulare una corretta psicodiagnosi. La psicodiagnostica è, dunque, l’area che si occupa della valutazione e della diagnostica psicologica, personologica e psicopatologia, attraverso l’uso di una serie integrata di questionari, inventari di personalità, batterie…, colloqui clinici, esami neuropsicologiche valutazioni osservative. Il tipo di tecniche e strumenti da utilizzarsi variano di volta in volta, in base al contesto e agli obiettivi della valutazione, all’età e al tipo di eventuali difficoltà dei soggetti valutati (Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009; Albasi, 2009). Il test rappresenta uno strumento indispensabile per ottenere una misurazione abbastanza obiettiva e standardizzata che integrata con una valutazione qualitativa da luogo ad una descrizione ad ampio raggio della persona (Lis et. al., 2003). A volte si utilizza anche il termine assessment come valutazione globale e differenziale della persona, nell’unicità e complessità psicologica che la caratterizza, considerando anche le sue risorse e i suoi limiti (Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Obiettivi Obiettivo della psicodiagnosi è quello di facilitare la descrizione/comprensione dei comportamenti e della personalità di un individuo, dei suoi punti di forza, risorse… con finalità diverse a seconda dell’ambito applicativo, come ad esempio: mm in area clinica significa ottenere informazioni più ampie ed accurate possibili sul cliente e sul problema lamentato per implementare un intervento su misura per l’altro; mm Nell’area di selezione del personale, ad es., aumentare le probabilità di individuare la persona più idonea per ricoprire un certo incarico; mm in area scolastica significa approntare un piano didattico-evolutivo costruito sulle esigenze e caratteristiche specifiche di un certo bambino; mm in ambito giuridico, redigere una perizia che sia d’ausilio al giudice nel prendere una 12 La psicodiagnosi in psicologia clinica decisione sulla base della quale formulerà la sua sentenza; oppure approfondire categorie quali la capacità d’intendere e di volere dell’adulto o del minore, la pericolosità sociale, la responsabilità, i progressi nel trattamento... Per un approfondimento degli ambiti, si veda più oltre. La valutazione permette di orientare il lavoro successivo a seconda della motivazione per cui si conduce la valutazione stessa, oppure prendere decisioni sulla base dei risultati. In ambito clinico, attraverso l’utilizzo di tali strumenti, è possibile operare una accurata psicodiagnosi che consenta poi di orientare correttamente il lavoro psicoterapeutico, durante il quale l’usi degli strumenti prosegue accompagnando e monitorando il processo terapeutico (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Modalità L’assessment può implicare varie fasi: Baseline: si effettua una valutazione standardizzata iniziale per raccogliere informazioni utili per le fasi successive e per avere un punto di riferimento di partenza con cui confrontare i dati successivi somministrando gli stessi test/test simili durante e alla fine di un percorso. Ipotesi: i dati raccolti nella prima fase, assieme a una impressione globale che il clinico si fa dell’altro, consentono di formulare ipotesi/descrizioni riguardo al: mm esistenza di disturbo/disturbi; mm sussistere di evidenti relazioni tra di essi; mm le situazioni nelle quali cresce la probabilità che il disturbo si manifesti; mm l’eziopatogenesi del disturbo; mm le probabilità di successo delle diverse strategie terapeutiche; mm le tecniche e gli strumenti più adeguati per il trattamento; mm le risorse su cui poggiare il lavoro clinico. Restituzione: tutto quello che emerge va discusso col paziente. Già questo è un livello ‘riparativo’ poiché il confronto tra psicologo. Paziente e risultati della valutazione genera nuove consapevolezze, il consolidamento di elementi già noti… (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Valutazione Psichiatrica e Valutazione Psicologica In questo stesso testo, nell’articolo (di F. Massara) sul confronto tra diagnosi Psicologica e Psichiatrica è possibile approfondire un discorso qui solo accennato. Sia gli psicologi che i Medici possono fare diagnosi (Codice di Deontologia Medica; Legge 56/89 Ordinamento della Professione di Psicologo, Codice Deontologico degli Psicologi Italiani). Non sono però definiti in maniera specifica gli strumenti di cui possono avvalersi per compiere il processo diagnostico (Del Corno, in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). La definizione delle competenze degli psicologi viene descritta in questo modo: “La professione di Psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito” (art. 1 legge 18 febbraio 1989, n. 56). 13 La psicodiagnosi in psicologia clinica Gli strumenti conoscitivi di cui si parla in questo articolo non vengono definiti né qui, né nel Codice Deontologico della professione (Del Corno, in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). La diagnosi psichiatrica, classicamente, era intesa come volta a individuare il quadro sindromico di una persona per intervenire attraverso la prescrizione farmacologica di elezione per il caso specifico. La valutazione psichiatrica è solitamente di tipo nosologico e psicopatologico, ed è effettuata attraverso un colloquio clinico ed anamnestico, eventualmente integrato dalla somministrazione di scale di rilevazione della sintomatologia psichiatrica. L’obiettivo è quello di arrivare ad una diagnosi psichiatrica, spesso secondo i criteri nosografici delle classificazioni internazionali del DSM-IV o dell’ICD-10 (Del Corno, in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). Negli anni scorsi vi è stata una forte contestazione di questo modello per vari motivi, non ultimo il rischio di etichettare il cliente (labelling) il quale si porta appresso uno stigma e tende ad assumere comportamenti in linea con tale etichetta (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Frequentemente, nei modelli della diagnostica psichiatrica classica si integrano quindi strumenti e tecniche mutuate dalla pratica diagnostica di matrice psicologico-clinica. La diagnosi psicologica invece era intesa alla valutazione olistica dell’altro, che partendo dal disagio/disturbo/problema presentato, arrivava a considerare il ruolo di tale disturbo nell’economia della sua vita, rilevare le risorse e potenzialità, i suoi stili di personalità, difensivi e relazionali e tutto quello che la riguarda (limitatamente al suo ‘mondo psicologico’). È dunque più ampia rispetto alla valutazione psichiatrica: oltre che alla rilevazione di una sintomatologia psicopatologica, infatti, la psicodiagnosi può essere riferita anche alla valutazione di aspetti e processi della personalità, alla valutazione di atteggiamenti, modalità relazionali, livello e tipologia di competenze cognitive, stili e strutture di personalità, risorse, ecc (Del Corno, in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). Oggi questa distinzione sembra più sfocata. Spesso lo Psichiatra e lo Psicologo clinico effettuano diagnosi sulle stesse persone, per le stesse problematiche. Capita spesso che lo Psicologo reputi opportuno anche un trattamento farmacologico, così come lo Psichiatra consideri opportuna una psicoterapia (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Ambiti applicativi La Psicodiagnosi è dunque un processo descrittivo/conoscitivo delle dinamiche affettive, cognitive-neuropsichologiche, comportamentali, relazionali e socio-ambientali di un individuo o di un sistema di persone; dei suoi limiti e delle sue risorse/potenzialità. Assume valore diverso in diversi contesti e situazioni (Moderato, Rovetto, 2001). Ambito di comunità/selettivo, del lavoro/organizzazioni È l’orientamento professionale, la selezione e valutazione del personale. Utile per esaminare i sistemi organizzativi in momenti particolari della loro vita come le trasformazioni societarie o i momenti di crisi organizzativa con chiari segni di difficoltà, assenteismo, burn out, mobbing, calo della produttività ecc. Quest’area (ovvero di selezione e valutazione delle competenze lavorative) è stato uno dei primi ambiti in cui storicamente sono stati sviluppati strumenti di assessment. Anche se viene considerato un ambito applicativo proprio della psicologia del lavoro e di comunità, spesso nei contesti di selezione o di valutazione del potenziale vengono utilizzati specifici strumenti psicodiagnostici cartacei (questionari, scale, test di livello), colloqui motivazionali e, molto spesso, strumenti di valutazione delle capacità gestionali e relazionali basati su 14 La psicodiagnosi in psicologia clinica forme di role-playing, su scenari realistici, e di dinamiche di gruppo (Moderato, Rovetto, 2001). Ambito educativo/scolastico È utile per valutare situazioni di disagio, difficoltà nello studio, deficit neuropsicologici, valutare i prerequisti per l’accesso alla scuola primaria prima del compimento dei sei anni e per orientare alle scelte scolastiche o professionali future. In psicologia dello sviluppo, dell’educazione e delle disabilità si ricorre di frequente all’uso di strumenti psicodiagnostici per la valutazione del livello intellettivo, delle capacità cognitive, delle competenze metacognitive e delle eventuali problematiche emotive e cognitive correlate a situazioni di problematicità e/o disabilità fisico/psichica (Moderato, Rovetto, 2001). Ambito clinico/psicopatologico L’attività di diagnostica è molto importante per definire e delineare le difficoltà lamentate dal paziente. Il clinico ne esplora l’articolazione funzionale, ne valuta la profondità, la pervasività, l’impatto sulla vita del l’altro. La pratica valutativa in ambito clinico è ampia e complessa; prevede la possibilità di integrare numerosi tipi di strumenti e approcci in base alle aree da indagare: dai colloqui clinici fino alle scale di valutazione della sintomatologia psichiatrica (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Oltre alla valutazione psicodiagnostica iniziale, si eseguono spesso anche delle rivalutazioni regolari nel tempo, per monitorare gli andamenti di un trattamento psicoterapeutico, le evoluzioni della sintomatologia, ecc. (Pedrabissi, Santinello, 1997; Mucciarelli et. al., 2002; Armezzani, 1995) Ambito giuridico/legale La consulenza tecnica d’ufficio serve per rispondere a quesiti del giudice in materia di affido, capacità di intendere e volere, danno biologico di tipo psichico, esistenziale e morale ecc. Nella consulenza tecnica di parte per assistere le parti in causa. In tutti questi casi si vanno a definire: mm perizie civilistiche o penalistiche come CTU o CTP, mm valutazioni del danno esistenziale, mm valutazione delle capacità cognitive, mm valutazioni di idoneità per le adozioni e gli affidamenti, mm valutazioni di idoneità alla guida di autoveicoli, rilascio del porto d’armi, ecc mm certificazioni per il pensionamento anticipato. In tali casi la valutazione è indirizzata a uno scopo legale e non clinico, ed il soggetto valutato non è il “referente finale” della valutazione stessa (che viene invece solitamente diretta o utilizzata a fronte dell’autorità giudiziaria, o a una commissione di valutazione medicolegale). Questo modifica alcuni degli assetti sia formali che deontologici della procedura psicodiagnostica, ed implica una serie di conseguenze a livello dei processi psicologici coinvolti nell’implementazione delle procedure diagnostiche stesse e della relazione psicologo valutatore/soggetto valutato (Abazia, 2011). Ambito sportivo Per valutare e pianificare lo sviluppo del potenziale psicologico degli atleti o dei gruppi sportivi. 15 La psicodiagnosi in psicologia clinica Metodologia Secondo Rovetto e Moderato (1999) la prassi valutativa dovrebbe consentire di: mm evidenziare il problema/problemi lamentati dal paziente mm ricostruire i meccanismi e i processi che sottendono i problemi (o disturbi lamentati); mm individuare e concordare con il paziente sia gli obiettivi immediati sia quelli di medio/ lungo periodo relativi all’eventuale trattamento; mm identificare le modalità di intervento più appropriate, per fare fronte ai problemi del soggetto in maniera efficace e duratura; mm decidere circa le possibilità e le opportunità di una presa in carico (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Fig. 1 – Dazzi: la diagnosi psicologica (2012) Tecniche Psicodiagnostiche Colloqui clinici Per Sanavio (2001) tutti i colloqui nel corso dell’assessment toccano gli stessi punti sequenzialmente: 1) Fase dei preliminari; 2) apertura; 3) specificazione del problema; 4) analisi delle variabili funzionalmente correlate (fase delle ipotesi di mantenimento); allargamento (fase dei problemi attuali); 6) storia dei problemi (fase delle ipotesi eziopatogenetiche); 7) storia personale (fase del profilo complessivo); 8) aspettative di trattamento; 9) ipotesi di trattamento; 10) formulazione conclusiva e chiusura. I colloqui clinici sono rappresentano uno strumento indispensabile di impostazione, svol16 La psicodiagnosi in psicologia clinica gimento e restituzione della valutazione psicodiagnostica. Le modalità con cui sono condotti dipendono dagli obiettivi, dal contesto, dalle necessità cliniche e dalla formazione teorica del clinico che lo esegue. Una componente importante è l’alleanza diagnostica che implica la capacità di trovare uno o più oggetti comuni di lavoro, l’assunzione di un ruolo, l’impegno verso l’obiettivo comune (Del Corno, Lang, 2001). Il clinico raccoglie ed ordina tutti gli elementi emersi dalle varie fasi (dall’osservazione, dal racconto del cliente, dai test…) per integrare al meglio il senso della richiesta del paziente, e gli aspetti fondamentali della sua situazione personale, per poi effettuare delle conseguenti proposte di presa di carico o di “invio” ad altri professionisti/strutture (Gislon, 1994; Del Corno, Lang, 1995, 2001; Semi, 1985; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Questionari In riferimento ai questionari, si può affermare che praticamente ogni lista ordinata di domande è un questionario (Mace, 1995). I questionari o inventari sono costituiti da una serie item, ovvero liste di domande ed affermazioni relative a caratteristiche personali, pensieri, emozioni, sintomi, abitudini e comportamenti. Misurano, di solito, un’ampia gamma di variabili e sono costruiti in modo più attento e standardizzato rispetto alle rating scale ed alle checklist. Al soggetto è chiesto di scegliere tra una serie di risposte predeterminate che egli deve limitarsi a contrassegnare. Esistono inventari che si occupano di parecchie variabili di personalità, ma anche strumenti elaborati per valutare un’unica dimensione. Seguendo una linea di continuità rispetto alla loro origine, essi si occupano principalmente degli aspetti patologici degli individui, anche se ne sono stati costruiti alcuni che si focalizzano sull’altro versante (salutogenesi, qualità di vita, punti di forza, etc.). Chi risponde agli inventari può fare scelte dicotomiche (vero/ falso oppure si/no); tra una serie di tre o più alternative (ad esempio, completamente falso, un po’ falso, neutrale, un po’ vero, molto vero). (Del Corno, Lang, 1997; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Scale psicopatologiche Si tratta di una forma di questionari auto o etero-somministrati costruita appositamente per rilevare la presenza, la frequenza e l’intensità di sintomatologie di interesse psicopatologico o psichiatrico, sia isolate che sotto forma di sindromi. Sono strumenti utilizzati per un monitoraggio ampio, in varie aree (MMPI-2, Symptom Checklist-90), delle difficoltà del paziente. Oppure sono disegnate e costruite per la rilevazione di una singola dimensione, es., ansia (Zung Depression Inventory), depressione (Hamilton Depression Scale), panico…. Questi strumenti vengono ri-somministrati a distanza nell’arco di tutto il percorso psicologico, per monitorare l’andamento della del percorso, verificarne l’efficacia e spostare il tiro qualora gli interventi non stessero funzionando (Del Corno, Lang, 1997; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006).Questi ultimi sono molto utili per monitorare l’andamento Test di Livello Si tratta di test psicologici utilizzati per valutare il livello e la tipologia di capacità cognitive e di “livello intellettivo” (da cui il nome) del soggetto. Più spesso utilizzati nel caso il clinico si renda conto che possono esistere difficoltà cognitive. In questo caso un’accurata definizione del livello intellettivo diventa una componente importante per il seguito 17 La psicodiagnosi in psicologia clinica dell’intervento. I principali test di livello sono costituiti da vari subset di item, che valutano differenti tipi di capacità cognitive (logiche, linguistiche, numeriche, spaziali, etc.). Vengono usati più spesso nella valutazione psicoattitudinale, nell’ambito selettivo ed educativo, ed occasionalmente in ambito clinico, soprattutto nella clinica dei disturbi cognitivi. I più noti sono la WAIS (Wechsler Adult Intelligence Scale), le Matrici di Raven e la WISC-R. Test e inventari di personalità Si tratta di strumenti clinici utilizzati per valutare costrutti e dimensioni relative alla personalità. Ne esistono di tipi e categorie molto differenziati, in base sia al tipo di approccio personologico a cui fanno riferimento, sia al tipo di costrutti che vengono valutati: costrutti o tratti di personalità specifici (tipicamente è il caso delle valutazioni di area cognitiva), o valutazioni globali (più frequentemente associate a valutazioni di tipo psicodinamico) (Del Corno, Lang, 1997; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Gli Inventari di Personalità sono test di valutazione piuttosto ampi, basati su un paradigma personologico di ambito cognitivo o di “teoria dei tratti”. Sono utilizzati sia per la valutazione nella ricerca, sia nella clinica. Esempi tipici sono il California Personality Inventory (CPI) ed il Millon Adolescent Personality Inventory (MAPI) (Del Corno, Lang, 1997; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Le Scale di Personalità sono simili agli Inventari, ma più ridotte sia come dimensioni che come obiettivo (solitamente poche dimensioni, tratti o costrutti di personalità). Tra le più note: il 16PF (16 Personality Factors) di Cattell; l’EPQ (Eysenck Personality Questionnaire); l’MBTI (Myers-Briggs Type Indicator) (Del Corno, Lang, 1997; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Test di personalità proiettivi L’espressione test proiettivi “viene coniata da Frank …[il quale] sostiene che tali metodi costituiscano il prototipo di una modalità di investigazione dinamica e globale della personalità, considerata come una totalità in evoluzione di cui gli elementi costitutivi sono in interazione” (Lis, 1998, p. 13). Nei metodi proiettivi (ad esempio, il Rorschach, l’ORT, il TAT) non esistono risposte giuste o sbagliate, esse però non sono mai il risultato di un puro caso, ma sono determinate dagli attributi psicologici della persona (Castellazzi, 1983). I metodi proiettivi fanno appello alla produzione spontanea del soggetto che viene valutata in maniera sistematica ed il loro scopo è la valutazione globale della personalità (Passi Tognazzo, 1999). Essi evocano nel soggetto ciò che, in diversi modi, è l’espressione del suo mondo personale. Caratteristiche peculiari ne sono: 1. ipotesi proiettiva; 2. ambiguità/scarsa strutturazione dello stimolo proposto; 3. vaghezza o poca strutturazione della consegna relativamente al compito richiesto; 4. libertà nella risposta che viene concessa al soggetto stesso, con scarsa o nulla limitazione del tempo (Castellazzi, 1983; Lis, 1998; Sanavio, Sica, 1999). L’ipotesi proiettiva (1) si basa sul fornire al cliente un campo poco organizzato su cui egli possa proiettare i suoi valori, la sua prospettiva, i suoi sentimenti. La proiezione del mondo privato si ha proprio perché il soggetto deve organizzare un campo ambiguo. Quindi, il ter18 La psicodiagnosi in psicologia clinica mine proiezione non si riferisce in modo pieno al meccanismo di difesa relativo. L’ambiguità dello stimolo diviene una delle pietre angolari delle tecniche proiettive, dal momento che attiva i sistemi motivazionali, quelli cognitivi ed i diversi meccanismi di difesa (Castellazzi, 1983). Il soggetto, al fine di ridurre l’ansia, si sforza di attribuire significati al materiale ambiguo che ha dinanzi, facendo ricorso alla percezione, all’associazione, all’affettività, alla fantasia, alla creatività, alla simbolizzazione, ai meccanismi di difesa. Il test proiettivo evoca “[…] situazioni nuove, inconsuete, ambigue, davanti alle quali l’individuo, per sedare l’ansia mette in atto i suoi processi per dare forma e/o significato agli stimoli, svelando così la struttura del suo pensiero, la sua modalità di affrontare le situazioni, i meccanismi che attua per uniformarsi in modo adeguato alla nuova realtà, mettendo a nudo le sue problematiche, i suoi timori, le sue speranze” (Falcone, 1999, p. 110). La strutturazione (2), valore che oscilla anche tra i test proiettivi, permette al soggetto di attribuire alla situazione i suoi sentimenti, le sue motivazioni, le sue angosce, le sue difese. La persona, dando un significato al materiale poco o punto strutturato, rivela i principi organizzatori della sua personalità, quest’ultima, dunque, come struttura, come principio ordinatore e non come somma di tratti (Armezzani, 1995). Assesment Neuropsicologico È finalizzato alla valutazione di eventuali difficoltà neurocognitive, derivanti da deficit e lesioni encefaliche (post-traumatiche, post-ictus, legate a tumori, etc.) o da forme di demenza (deterioramenti cognitivi, demenze, Morbo di Alzheimer, etc.). Vengono somministrati diversi test riuniti in batterie, che esplorano i vari ambiti di elaborazione cognitiva dell’informazione, permettendo così una valutazione approfondita del tipo di eventuali difficoltà cognitive (afasie, aprassie, alessie, amnesie, agrafie, agnosie, etc.), definendo al meglio le strutture neurocognitive che potrebbero essere state coinvolte da deficit funzionali. È spesso accompagnato o anticipato da altre valutazioni neurologiche e di neuroimaging, di tipo clinico e strumentale (visite cliniche, RX cranio, EEG, RMN Encefalo, TC encefalo, SPECT), ed a volte dall’applicazione di test di livello intellettivo (integrali o per subscale), quali la WAIS. Assessment Psicofisiologico L’assessment psicofisiologico è una specifica parte dell’esame psicodiagnostico dedicata alla valutazione delle risposte psicofisiologiche del cliente (Palomba, Stegagno, 2001). Comprende sezioni che possono misurare: la conduttanza cutanea (SCR); la temperatura periferica cutanea; la frequenza cardiaca (FC), la risposta emozionale, ovvero la reattività psicofisiologica in condizioni emotigene (diapositive emotigene piacevoli, spiacevoli e neutre o con contenuto legato al trauma; immaginazione guidata di situazioni emozionali specifiche (legate al trauma) ed aspecifiche (casuali); resoconto verbale della situazione stressante). Nella tabella che segue sono indicati i livelli dell’accertamento psicofisiologico e le principali procedure utilizzate per la valutazione a ciascun livello (Palomba, Stegagno, 2001, p. 264). 19 La psicodiagnosi in psicologia clinica Tabella 1 - Livelli e strumenti dell’assessment Psicofisiologico Soggettivo: psicofisico, affettivo, cognitivo 1. auto resoconto libero (self-report) 2. stima soggettiva – questionari di autovalutazione (self-rating) 3. prova – reattivo (test) (per es., calcolo mentale, immaginazione emozionale) Comportamentale: mimica, postura, gestualità; elementi paralinguistici, motori, etc. 1. videoregistrazioni, diari comportamentali 2. questionari di etero valutazione 3. test (per es., public speaking test, tempi di reazione) Fisiologico: segnali bioelettrici (EEG, ECG etc.), biofisici (pressione arteriosa, temperatura), biochimici (ormoni) 1. rilevazione dei segnali 2. registrazione 3. misurazione Tra gli strumenti qualitativi, in ambito clinico è da citare il Genogramma, che attraverso la narrazione consente di avere informazioni utili non solo sulla persona di fronte a noi, ma anche sulla ‘famiglia allargata’, sul clan; informazioni essenziali per avere una visione ampia sul mondo interno/esterno del paziente. Valutazione della relazione/empatia In questi ultimi anni numerosissimi sono stati gli strumenti costruiti per valutare e monitorare l’andamento della relazione tra clinico e cliente. La valutazione dell’empatia, dell’alleanza motivazionale, della qualità della relazione è importantissima nei percorsi psicologici, poiché si focalizza sulla variabile trasversale più importante (la relazione appunto) legati agli esiti del trattamento (Norcross, 2012; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004). BASIC.ID Vogliamo mettere l’accento sulla prospettiva di A. Lazarus, la Terapia Multimodale, che si propone come una modalità integrata alla psicoterapia (Lazarus, 1982, 1989, 1993). Con il suo BASIC.ID prende in considerazione un insieme di aree (cognitiva, affettiva, comportamentale, etc…) da tenere presenti contemporaneamente durante tutto il percorso. Il punto fondamentale del suo approccio è l’unicità d’ogni persona e la necessità quindi che il trattamento sia ritagliato su misura per le caratteristiche peculiari, i bisogni, lo stato del cliente. Da ciò segue l’importanza di un’attenta valutazione delle sue difficoltà uniche. È un approccio ampio, sistematico ed eclettico. Per rilevare i sette fattori, egli ha messo a punto un tipo d’intervista denominata Multimodal Life History Inventory. Più oltre, in tabella, è possibile notare gli elementi da prendere in considerazione, quello che va valutato ed il modo in cui è possibile facilitare il cambiamento. Il cambiamento in una di queste modalità influenza il funzionamento delle altre. L’essere umano è visto come un organismo che si muove, che sperimenta emozioni, immagina, pensa/crede e si relaziona agli altri. Lazarus fa riferimento in maniera esplicita alla teoria dell’apprendimento sociale e alle teorie cognitiviste anche se egli usa molte tecniche (meditazione, fantasia, verbalizzazione, sedia vuota, etc...) riconosciute efficaci dalla ricerca empirica. La terapia multimodale ha 20 La psicodiagnosi in psicologia clinica come elementi di base il comportamentismo, la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura, la teoria generale dei sistemi e la teoria della comunicazione del gruppo di Palo Alto. La personalità è considerata il risultato combinato della diatesi genetica, dell’apprendimento ambientale e delle condizioni socio-educative. Lo Psicologo multimodale utilizzando il modello BASIC.ID costruisce, analizzando ogni area, un profilo strutturale della personalità. Talvolta basta mostrare il profilo al cliente chiedendogli di commentare il significato e la rilevanza di ciascun punteggio per ottenere degli insight nel cliente stesso. Inoltre, scrive A. Lazarus (1996, p. 551): “La terapia multimodale si basa sull’assunto che più è disturbato il paziente, maggiori saranno i deficit e gli eccessi specifici in tutto il BASIC.ID”. Durante i primi colloqui al cliente viene chiesto di compilare il Multimodal Life History Inventory (A. Lazarus & C. N. Lazarus, 1991), un libretto in cui le risposte sugli eventi importanti del passato, su problemi del presente e sui fattori che li mantengono, sono posizionate nelle categorie del BASIC.ID. Tabella 2 - Caratteristiche del modello BASIC.ID. Dominio Come facilitare il cambiamento Rinforzi positivi e negativi, Comportamenti evidenti, punizioni, controcondizioosservabili e misurabili namenti, estinzioni Riconoscere, accettare e Emozioni, umore e sentichiarificare i sentimenti; menti forti abreazione Vista, udito, olfatto, tatto, Rilassamento, piacere gusto sensoriale Immagine della propria Immagini e rappresentaziocompetenza; cambiamento ni mentali nell’immagine di sé Aumento della consapeIdee, valori, opinioni, volezza, ristrutturazione attitudini cognitiva Modeling d’assertività ed altre abilità sociali; diInterazioni con gli altri sperdere le collusioni non salutari Cura dei disturbi fisici; cessazione dell’abuso di Esercizi fisici, nutrizione, sostanze; migliore nutrifarmaci zione ed esercizio fisico; farmaci psicotropi Da valutare Comportamento (Behavior) (B) Emozione (Affect) A Sensazione (Sensation) S Immaginario (Imagery) I Cognizione (Cognition) C Relazioni Interpersonali (Interpersonal relationship) I Farmaci/Biologia (Drug taking/biology) D La terapia multimodale si è rivelata utile nel lavoro nelle classi di bambini, in servizi di cura dell’infanzia, nella formazione di genitori, nel ritardo mentale, nel management, in casi di dolore cronico, per fronteggiare le sofferenze psichiche di un disastro. A. Lazarus (1989) 21 La psicodiagnosi in psicologia clinica propone di esaminare le seguenti variabili per una prima valutazione, Box 1. Come si vede è un interessante strumento qualitativo che permette a Lazarus di avere una buona conoscenza ‘descrittiva’ del cliente. Box 1 – Variabili da esaminare per una prima valutazione. 1. Presenza o meno di segni di psicosi (disturbi del pensiero, allucinazioni, incongruità negli affetti, comportamenti bizzarri o inappropriati) 2. Problemi organici 3. Segnali di depressione, tendenze omicide o suicide 4. Aspetto fisico, igiene, modo di parlare e modo di relazionarsi (ostile, compiacente, amichevole, etc.) 5. Disturbi dell’attività motoria (tic, manierismi, postura rigida) 6. Eventi pregressi importanti nella sua esistenza 7. Quali sono i disturbi attuali e chi o cosa sembra mantenere il suo comportamento non adattivo 8. Cosa si aspetta dalla terapia 9. Esistono indicazioni o controindicazioni rispetto all’adozione di una particolare strategia terapeutica 10. Quale contesto è più indicato nel caso in questione, approccio individuale, di gruppo o familiare 11. Se esiste o no la possibilità di una relazione terapeutica mutuamente soddisfacente, o è meglio inviarlo ad un’altra persona 12. Punti di forza ed attributi positivi 13. Perché cerca aiuto proprio in questo momento della sua vita 14. Si evidenziano, da parte del cliente, motivi abbastanza validi da sperare nel successo terapeutico Il Multimodal Life History Inventory (A.A. Lazarus, C.N. Lazarus, 1991, si veda il riquadro sotto) è invece uno strumento che va redatto dal cliente, a casa, nell’intervallo tra due sedute. Strumenti 1 - Multimodal Life History Inventory Lo scopo di quest’inventario è di ottenere un quadro onnicomprensivo del Suo background. Le registrazioni di dati sono necessarie poiché permettono di affrontare nella maniera più idonea i problemi di una persona. Completando queste domande nella maniera più completa ed accurata possibile, Lei faciliterà l’elaborazione del suo programma terapeutico. Le viene chiesto di rispondere a queste domande ordinarie a casa, nei suoi momenti liberi, senza consumare il tempo della attuale seduta (si senta libero di utilizzare altri fogli se ha bisogno di ulteriore spazio per rispondere). È comprensibile che potrebbe essere preoccupato di cosa accadrà alle informazioni su di Lei poiché una gran parte di esse o tutte sono altamente personali. Le informazioni sul caso sono strettamente confidenziali. Informazioni generali Data. Nome. Indirizzo. Telefono. 22 La psicodiagnosi in psicologia clinica Età. Occupazione. Sesso. Data e luogo di nascita. Religione. Altezza. Peso. Il suo peso oscilla? Se sì, di quanto? Nome, cognome e telefono del suo medico di base. Da chi è stato inviato? Stato civile: single, fidanzato, sposato, separato, divorziato, vedovo, vive con qualcuno, risposato (quante volte?) In che tipo di abitazione vive (appartamento, villetta, etc...)? Con chi vive: da solo, con i genitori, con il partner, con un coinquilino, un/dei figlio(i), amico(i), altro (specificare)? Che tipo di lavoro sta facendo in questo momento? Il suo lavoro attuale la soddisfa? Se no, spieghi come mai. Che tipo di lavoro ha svolto in passato? È stato mai in terapia prima d’ora o ha ricevuto aiuto/assistenza professionale per i suoi problemi? È stato mai ospedalizzato per problemi psicologici/psichiatrici? Se sì, quando e dove. Ha mai tentato il suicidio? Qualcuno dei suoi familiari soffre di disturbi ‘mentali’ o ‘emotivi’? Qualcuno di loro ha mai tentato o commesso un suicidio? Storia personale e sociale Padre: nome, età, occupazione, stato di salute. Se deceduto, fornisca la sua età alla data di morte. Quanti anni aveva Lei? Cause della morte. Madre: nome, età, occupazione, stato di salute. Se deceduta, fornisca la sua età alla data di morte. Quanti anni aveva Lei? Cause della morte. Fratelli: età dei fratelli, età delle sorelle. Ogni dettaglio significativo su di essi. Se non è stato allevato dai genitori, chi si è occupato di Lei, a che età e per quanti anni? Fornisca una descrizione della personalità di suo padre (o del suo sostituto) e dei suoi atteggiamenti verso Lei (presenti e passati). Fornisca una descrizione della personalità di sua madre (o del suo sostituto) e dei suoi atteggiamenti verso Lei (presenti e passati). In che modo è stato ricompensato o punito dai suoi genitori? Descriva l’atmosfera in casa sua (cioè della casa in cui è cresciuto). Descriva inoltre il tipo di compatibilità esistente tra genitori e tra fratelli. Era capace di fidarsi dei suoi genitori? In genere, si sentiva amato e rispettato da loro? Se ha avuto un patrigno o una matrigna, annoti la sua età quando il suo genitore naturale si è risposato. Qualcuno (genitori, parenti, amici) ha mai interferito nel suo matrimonio, occupazione, etc...? Se sì, per cortesia descriva brevemente la situazione. Successi scolastici. Insuccessi scolastici. Qual è stato l’ultimo grado scolastico completato (o l’ultimo attestato)? Spunti con un segno ogni voce seguente che si può riferire alla sua infanzia/adolescenza: infanzia felice, infanzia infelice, problemi comportamentali/emotivi, difficoltà legali, lutti in famiglia, disturbi fisici, ignorato, pochi amici, problemi scolastici, problemi finanziari, forti convinzioni religiose, abuso di droghe/alcool, punizioni severe, abuso sessuale subìto, pesantemente tiranneggiato o preso in giro, disturbi alimentari, altro. Descrizione del problema attuale Definisca con parole sue la natura dei principali problemi. Sulla seguente scala, per favore, valuti la gravità dei problemi: sofferenza lieve, sofferen23 La psicodiagnosi in psicologia clinica za moderata, molto gravi, estremamente gravi, totalmente inabilitanti. Quando sono iniziati i problemi? Cosa sembra aggravarli? Che cosa ha provato a fare che le è stato utile? Quanto è soddisfatto nel complesso della sua vita in questi giorni? (per nulla,) 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, (molto). Quanto indicherebbe come livello globale di tensione durante il mese scorso? (rilassato) 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, (teso). Aspettative riguardo alla terapia In poche parole, cosa pensa che sia soprattutto la terapia? Quanto tempo pensa dovrebbe durare la sua terapia? Che qualità personali pensa che dovrebbe avere il terapeuta ideale? Analisi delle modalità dei problemi attuali La sezione seguente è costruita per aiutarla a descrivere le difficoltà attuali in dettaglio ed identificare i problemi che potrebbero passare inosservati. Questo la metterà in grado di disegnare un programma di trattamento onnicomprensivo e ritagliarlo secondo i suoi specifici bisogni. La sezione seguente è organizzata tenendo conto di sette modalità di comportamenti, sentimenti, sensazioni fisiche, immagini mentali, pensieri, relazioni interpersonali e fattori biologici. Comportamenti Spunti ognuno dei seguenti comportamenti che può essere riferito a lei spesso: mangia troppo, assume droghe, non è assertivo, si comporta stranamente, beve troppi alcolici, lavora troppo, procrastina, ha reazioni impulsive, le manca maggior controllo, tenta il suicidio, compulsivo, fuma, sintomi di astinenza, tic nervosi, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, evitamenti fobici, spende troppi soldi, non riesce a mantenere un lavoro, insonnia, si assume troppi rischi, pigrizia, problemi alimentari, comportamenti aggressivi, piange, scoppi di collera, altri. Quali sono le attitudini speciali o abilità di cui si sente orgoglioso? Cosa le piacerebbe iniziare a fare? Cosa le piacerebbe invece smettere di fare? Come passa il suo tempo libero? Quali attività piacevoli, hobby la divertono o trova rilassanti? Ha difficoltà a rilassarsi o divertirsi durante i week-end e le vacanze? Se sì, per cortesia spieghi meglio. Se potesse soddisfare due desideri, di qualunque tipo, quali sarebbero? Sentimenti Spunti ognuno dei seguenti sentimenti che può essere riferito a lei spesso: arrabbiato, infastidito, triste, depresso, ansioso, timoroso, ha attacchi di panico, energizzato, invidioso, colpevole, felice, conflitti interni, prova vergogna, con molti rimpianti, speranzoso, senza speranza, rilassato, geloso, infelice, annoiato, agitato, solo, soddisfatto, eccitato, ottimista, teso, altri. Scriva le sue cinque principali paure. Quali sono i sentimenti positivi che ha sperimentato di recente? 24 La psicodiagnosi in psicologia clinica In quali occasioni è più probabile che perda il controllo sui sentimenti? Descriva ogni situazione che la rende calmo o rilassato. Sensazioni fisiche Spunti ognuna delle seguenti sensazioni fisiche che può essere riferita spesso a lei: dolore addominale, dolore o bruciori durante la minzione, difficoltà mestruali, mal di testa, vertigini, palpitazioni, spasmi muscolari, tensione, disturbi sessuali, difficoltà a rilassarsi, disturbi intestinali, formicolii, intorpidimenti, disturbi di stomaco, tic, stanchezza, strappi muscolari, dolore alla schiena, tremori, momenti di confusione, sente delle voci, occhi umidi, arrossisce, nausea, problemi di pelle, bocca secca, arrossamenti o pruriti della pelle, dolori al petto, accelerazioni cardiache, non le piace essere toccato, oscuramenti improvvisi, eccessiva sudorazione, disturbi visivi, problemi uditivi, altre. Quali sensazioni sono per lei: piacevoli? Spiacevoli? Rappresentazioni mentali Spunti ognuna delle seguenti voci che può essere riferita a lei. Io mi descrivo come una persona: felice, ferita, che non riesce ad affrontare le cose, di successo, che perde il controllo, inseguita, di cui si sparla, aggressiva, indifesa, che ferisce gli altri, sotto accusa, fallimentare, intrappolata, di cui ci si irride, confusa, altro. Io ho: rappresentazioni sessuali piacevoli, rappresentazioni infantili spiacevoli, rappresentazione del corpo negativa, rappresentazioni sessuali spiacevoli, rappresentazioni di solitudine, rappresentazioni di seduzione, rappresentazioni di essere amato, altre. Descriva una rappresentazione, una figura mentale o una fantasia molto piacevole. Descriva una rappresentazione, una figura mentale o una fantasia molto spiacevole. Descriva la sua rappresentazione di un ‘posto completamente sicuro’. Descriva ogni rappresentazione persistente o disturbante che interferisce con il suo funzionamento quotidiano. Quanto spesso ha incubi? Pensieri Spunti ognuna delle seguenti voci che potrebbe essere usata per descrivere lei: intelligente, fiducioso, meritevole, ambizioso, sensibile, leale, fidato, pieno di rimpianti, indegno, un signor nessuno, inutile, cattivo, pazzo, moralmente degenerato, tenuto in considerazione, deviante, antipatico, non amabile, inadeguato, confuso, brutto, stupido, ingenuo, onesto, incompetente, che ha pensieri orribili, con conflitti interiori, con difficoltà di concentrazione, con problemi di memoria, attraente, che non sa prendere decisioni, con idee suicide, perseverante, con un buon senso dello humor, che lavora duro, indesiderato, strano, inaffidabile, disonesto, altro. Quale considera essere il suo pensiero o idea più strambo? È infastidito da pensieri ricorrenti? Se sì, quali sono? Quali preoccupazioni ha che possono influenzare negativamente il suo umore e comportamento? Per ognuno dei seguenti item, indichi vicino ad esso il numero che riflette in modo più accurato le sue opinioni [da apporre a fianco di ogni item: 1, in forte disaccordo; 2, in disaccordo; 3, neutrale; 4, d’accordo; 5, molto d’accordo]: 25 La psicodiagnosi in psicologia clinica non dovrei commettere errori dovrei essere bravo a fare ogni cosa che faccio quando non conosco qualcosa dovrei pretendere di saperlo non dovrei rivelare informazioni personali sono una vittima delle circostanze mia moglie è controllata da forze esterne gli altri sono più felici di me è molto importante accontentare le altre persone gioca sicuro; non assumerti alcun rischio non merito di essere felice se ignoro i miei problemi, essi spariranno è mia responsabilità rendere gli altri felici dovrei sforzarmi per la perfezione di base, esistono due modi di fare le cose - il modo giusto e quello sbagliato non dovrei mai essere turbato Relazioni interpersonali Amicizie Fa amicizia facilmente? Riesce a conservarla a lungo? Ha avuto ragazze durante le scuole superiori? L’università? È stato tiranneggiato o gravemente preso in giro? Descriva ogni relazione che le ha dato gioia, dolore. Indichi il livello con il quale si sente generalmente rilassato ed a suo agio nelle relazioni sociali: (molto rilassato) 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, (molto ansioso). Ha uno o più amici con cui si sente a suo agio nel condividere i suoi pensieri più personali? Matrimonio (o una relazione impegnativa) Quanto tempo prima di instaurare la relazione con il suo partner l’ha conosciuto? Quanto tempo siete stati fidanzati prima del matrimonio? Da quanto siete sposati? Qual è l’età del suo partner? Il suo lavoro? Descriva la personalità del suo partner. Cosa le piace di più di lui? Cosa le piace di meno di lui? Quali fattori diminuiscono la soddisfazione coniugale? Sulla seguente scala , per cortesia, indichi quanto è soddisfatto del suo matrimonio: (molto insoddisfatto) 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, (molto soddisfatto). Come va d’accordo con la famiglia e gli amici del suo partner? (molto male) 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, (molto bene). Quanti figli ha? Annoti i loro nomi e l’età. Qualcuno dei suoi figli ha problemi speciali? Se sì, per cortesia spieghi meglio. Fornisca ogni dettaglio significativo rispetto ad eventuali precedenti matrimoni. Relazioni sessuali Descriva l’atteggiamento dei suoi genitori riguardo al sesso. Il sesso era argomento di 26 La psicodiagnosi in psicologia clinica discussione in famiglia? Quando e come ha ottenuto le prime conoscenze sul sesso? Quando è diventato per la prima volta consapevole dei suoi impulsi sessuali? Ha mai sperimentato ansia o sensi di colpa a causa del sesso o della masturbazione? Se sì, spieghi. Ci sono dettagli rilevanti riguardo alla prima o alle successive esperienze sessuali? La sua attuale vita sessuale è soddisfacente? Se no, spieghi. Fornisca informazioni su ogni reazione o relazione omosessuale significativa. Annoti ogni preoccupazione rispetto al sesso non discussa sopra. Altre relazioni Esiste qualche problema nelle relazioni con le persone sul posto di lavoro? Completi le seguenti frasi: uno dei modi in cui le persone mi feriscono è ...; potrei scioccarla con ...; il mio partner mi descriverebbe come ...; ; il mio migliore amico pensa che io sia ...; ; le persone che non posso sopportare ... È attualmente preoccupato a causa di rifiuti o perdite di una relazione amorosa del passato? Se sì, spieghi meglio. Fattori biologici Ha attualmente qualche preoccupazione riguardo alla salute fisica? Se sì, specifichi meglio. Faccia una lista di tutti i farmaci che sta attualmente assumendo Consuma tre pasti ben bilanciati ogni giorno? Si impegna in esercizio fisico regolare? Se sì, di che tipo e quanto spesso? Faccia una lista di ogni problema medico significativo che riguardi lei o i membri della sua famiglia. Descriva ogni intervento chirurgico che ha avuto (indichi le date) Descriva ogni eventuale handicap fisico che ha. Storia mestruale Età delle prime mestruazioni. Ne era informata? È stato uno shock? Ha un periodo regolare? Durata. Ha dolori? Il periodo influenza il suo umore? Data dell’ultimo periodo mestruale. Spunti ognuna delle seguenti voci che può essere riferita a lei [a fianco di ogni item aggiunga: mai; raramente; occasionalmente; frequentemente; giornalmente]: debolezza muscolare, tranquillanti, diuretici, pillole dimagranti, marijuana, ormoni, pillole per il sonno, aspirina, cocaina, antidolorifici, narcotici, stimolanti, allucinogeni (ad esempio, LSD), lassativi, sigarette, tabacco (specificare), caffè, alcool, pillole contraccettive, vitamine, mangia troppo, mangia troppo poco, mangia ‘robaccia’, diarrea, costipazione, gas intestinale, indigestione, nausea, vomito, acidità di stomaco, capogiri, palpitazioni, affaticamento, allergie, pressione alta, dolori al petto, dispnea, insonnia, ipersonnia, sonno irregolare, si sveglia presto al mattino, mal d’orecchie, mal di schiena, lividi o emorragie facili, problemi di peso, altro. 27 La psicodiagnosi in psicologia clinica Profilo strutturale Istruzioni: valuti se stesso nelle seguenti dimensioni su una scala a sette punti con 1 che rappresenta il più basso e 7 il più alto. Comportamenti. Alcune persone possono essere descritte come ‘fattive’, sono orientate all’azione, gli piace tenersi occupate, hanno sempre cose da fare, si impegnano in progetti vari. Quanto si ritiene una persona ‘fattiva’? Sentimenti. Alcune persone sono molto emotive e possono o no esprimerlo. Quanto è emotivo? Quanto profondamente sente le cose? Quanto è passionale? Sensazioni fisiche. Alcune persone attribuiscono molto valore alle esperienze fisiche, come il sesso, il cibo, la musica, l’arte ed altri ‘piaceri sensoriali’. Altre sono molto consapevoli dei piccoli dolori, fastidi e disagi. Quanto è ‘in sintonia’ con le sue sensazioni? Rappresentazioni mentali. In quante fantasie o sogni ad occhi aperti si impegna? Questa è una cosa separata dal pensiero o dalla pianificazione. Questo è ‘pensare per immagini’, visualizzare esperienze reali o immaginarie, lasciare la sua mente vagare. Quanto è coinvolto nel linguaggio ‘immaginoso’?. Pensieri. Alcune persone sono molto analitiche, piace loro pianificare le cose e ragionarci sopra a fondo. Quanto è ‘razionale’ e ‘pianificatore’? Relazioni interpersonali. Quanto sono importanti gli altri per lei? Questa è la sua autovalutazione come essere sociale. Quanto importanti sono per lei le relazioni strette, la tendenza ad essere attratto dalle persone, il desiderio di intimità? L’opposto di queste cose è essere un ‘solitario’. Fattori biologici. È in buona salute e consapevole della sua salute? Evita cattive abitudini come fumare, bere troppi alcolici o troppo caffè, mangiare troppo, etc...? Effettua un regolare esercizio fisico, dorme abbastanza, evita di mangiare ‘robaccia’ e, di solito, si prende cura del suo corpo? Per cortesia, descriva ogni ricordo ed esperienza infantile (o altro) del quale pensa che il suo terapeuta debba venire a conoscenza. A fianco a questo, Lazarus ha implementato degli strumenti più quantitativi (Questionario sul profilo strutturale) per avere informazioni sulle varie aree (Lazarus, 2003). Bibliografia Abazia L. (a cura di) (2011), La perizia psicologica in ambito civile e penale, Angeli, Milano. Albasi C. (2009), Psicopatologia e ragionamento clinico, Cortina, Milano. Armezzani M., Grimaldi F., Pezzullo L. (2002), Tecniche costruttiviste per la diagnosi psicologica, McGraw-Hill, Milano. Armezzani, M. (1995), L’indagine di personalità, Carocci, Roma. Biondi M. (1996), La mente selvaggia. Un saggio sulla normalità nei comportamenti umani, Il Pensiero Scientifico, Roma. Bisiacchi P. S. et. al., (2003), Esame neuropsicologico breve, Cortina, Milano. Boncori L. (1993), Teoria e tecniche dei test, Boringhieri, Torino. Boncori L. (2006), I Test in Psicologia, Il Mulino, Bologna. Calvi E., Gulotta G. 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Sitografia http://www.psychomedia.it/pm/modpsy/psydiag/giacomini.htm 30 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato 2 di Antonio Iannazzo Introduzione «Noi consideriamo la diagnosi sempre utile per la conoscenza della personalità globale del soggetto, indispensabile se lo scopo è la scelta di un trattamento: essa, utilizzando strumenti diversi, come osservazione, colloqui, test, facilita la comprensione e permette di fare previsioni individualizzate riguardo il comportamento di persone che sono organizzate in modo peculiare ed unico». (Holt, in Falcone, 2008). I test (Falcone, 2008) integrano i dati ottenuti con i colloqui perché: 1) riguardano livelli diversi di comportamento, 2) fanno emergere contenuti più profondi dal momento che non si può prevedere il significato delle risposte, 3) mettono in risalto le parti sane su cui si poggerà la terapia, 4) danno indicazioni utili per l’indicazione o controindicazione al trattamento e individuano quello più idoneo, 5) evitano il rischio di dover affrontare problemi più gravi di quelli previsti, magari senza gli strumenti e le capacità adeguati, permettono una prognosi, sono - in sostanza - il «miglior modo» per conoscere l’individuo (Falcone, 2008). Questo corso è nato dall’esigenza di elaborare una ‘batteria’, una serie di strumenti idonei alla valutazione, in varie aree, fatta da uno psicologo-psicoterapeuta di orientamento Pluralistico Integrato. Abbiamo lavorato a lungo sulla selezione delle Aree, in prima battuta, sulle quali proporre gli strumenti e poi abbiamo selezionato gli strumenti da utilizzare. Ci siamo focalizzati in misura preponderante sulla psicoterapia, sulla valutazione del paziente, cosa che riguarda la maggior parte di noi. Abbiamo optato per strumenti di valutazione iniziale, di monitoraggio in itinere e finali (OQ45). L’obiettivo è di acquisire maggiori competenze in ambito psicodiagnostico e di prendere sempre più confidenza con la figura del clinico ricercatore, che propone delle ricerche-azioni ai suoi pazienti, misurando e monitorando i suoi interventi, il cambiamento dell’altro e la relazione. Outcome research e process research sono due settori nei quali è consuetudine dividere il campo della ricerca in psicoterapia (Pancheri et. al., 2000, p. 3148). “Outcome” in inglese è il “risultato”, per cui l’outcome research è la ricerca sul risultato della terapia, misurabile 31 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato dopo che la terapia è terminata, ad esempio in termini di differenze tra lo stato pre- e postterapia valutate con determinati strumenti standardizzati. La process research invece è la ricerca sui vari aspetti del “processo” della terapia, misurabili anche mentre la terapia è in corso e indipendentemente dal risultato; un esempio di process research è lo studio del rapporto tra misurazioni della “alleanza terapeutica” (tramite precise scale di valutazione) in varie fasi della terapia, rapportate ad altre variabili del processo stesso quali sesso o età di entrambi paziente e terapeuta, percentuale del tempo della seduta occupato dalle parole dell’uno o dell’altro, numero delle sedute o durata della terapia, frequenza settimanale, tipo e gravità della diagnosi, caratteristiche della personalità del terapeuta, e così via ((Pancheri et. al., 2000, p. 3148). Non tutti sono concordi di questa articolazione in risultato e processo: si tratta di due dimensioni strettamente interrelate, nel senso che gli studi sul processo possono rappresentare misurazioni ad interim del risultato, e che comunque si tratta pur sempre di studiare gli “effetti” di determinati comportamenti o processi [American Psychiatric Association Commission on Psychotherapies, 1982]. In determinati periodi storici è stato comunque prevalente un tipo di ricerca sull’altro: ad esempio le classiche ricerche sul risultato hanno caratterizzato una prima fase della ricerca sulla psicoterapia, mentre la fase attuale è caratterizzata da un relativo abbandono della ricerca sul risultato in favore della ricerca sul processo, se non addirittura sui microprocessi terapeutici, considerata più utile al fine di comprendere cosa veramente accada in terapia (Pancheri et. al., 2000, p. 3148). Cos’è la Psicodiagnosi Per comprendere la ragion d’essere e gli scopi della Psicodiagnosi possiamo partire da una breve disamina etimologica del termine stesso. Psicodiagnosi è infatti una parola composta da 2 termini quali: mm Psico derivante dal greco “Psyche” che indica, in senso traslato, Anima; mm Diagnosi anch’essa di derivazione greca ed indica la cognizione, conoscenza (gnosis) per mezzo di (dia), ovvero la conoscenza ottenuta attraverso uno strumento che in ambito clinico si rivela essere l’osservazione e lo studio di segni e/o sintomi. Dunque la Psicodiagnosi è la disciplina volta alla conoscenza “dell’anima”, ossia è l’attività tesa a valutare, descrivere e comprendere tutte le caratteristiche che compongono e definiscono la personalità, il progetto di mondo, gli orizzonti, le risorse di un individuo. È essenzialmente tesa a definire i comportamenti abituali del soggetto, ad individuare la presenza o meno di disturbi della sfera affettiva (sintomi di disagio o psichiatrici) e cognitiva (memoria, linguaggio, pensiero, intelligenza, etc.). si focalizza, inoltre, sugli assett della persona. Per pervenire a tale conoscenza si avvale di mezzi, strumenti precipui, atti a raccogliere quante più informazioni (dati) possibili, quali: mm colloquio clinico; mm interviste; mm questionari; mm valutazioni osservative; mm esami neuropsicologici; mm test. 32 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato I dati raccolti possono o meno essere sistematizzati, organizzati ed interpretati alla luce di uno o più sistema diagnostici di riferimento che fungano da ausilio nel riconoscimento, definizione e spiegazione di quanto raccolto dotandolo di senso. Quello che emerge è una ‘valutazione descrittiva’ del funzionamento dell’altro. Perché fare Psicodiagnosi Indipendentemente dal sistema diagnostico di riferimento la Psicodiagnosi e il processo diagnostico vengono impiegati, con obiettivi precisi determinati e definiti dall’ambito di applicazione, allo scopo di individuare: mm i punti di forza e i punti di debolezza di una persona; mm le eventuali manifestazioni patologiche; mm identificare e distinguere manifestazioni sintomatiche di stato o di tratto; mm interessi e attitudini; mm livello di adattamento; mm stili e meccanismi di difesa; mm modalità cognitive; mm bisogni e necessità. L’individuazione degli aspetti sopra riportati è estremamente utile al fine di: mm poter valutare e progettare l’intervento terapeutico e/o di recupero più indicato per la persona; mm valutare l’andamento terapeutico; Spesso il rischio è che la psicodiagnosi rappresenti una previsione che tende ad autoavverarsi. La diagnosi rappresenta un’ipotesi credibile la cui utilità risiede nella possibilità di ordinare i dati raccolti. Se una diagnosi è corretta può rappresentare, al limite, la migliore delle ipotesi formulabili in un momento dato. Successivamente gli elementi suffraganti possono modificarsi e rendere quindi non più valida la diagnosi iniziale. Questo ci fa comprendere come la diagnosi debba essere costantemente rivista sulla base degli elementi rilevabili e rilevati in un momento storico preciso della vita del soggetto, la cui valutazione da parte del clinico deve procedere attraverso la formulazione di ipotesi diagnostiche, frutto di un ragionamento clinico critico che, di volta in volta sulla base degli elementi colti, miri ad una validazione/falsificazione e conseguente riformulazione delle stesse. 33 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato Fig. 1 - La diagnosi Psicologica (Dazzi, 2012) Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico L’uso dei test rappresenta spesso uno dei versanti funzionali principali nella fase d’avvio del lavoro clinico. Ma, oltre ad essere uno dei momenti di avvio degli assetti relazionali che sottendono la costituzione dell’alleanza terapeutica, i test hanno un ruolo funzionale ben articolato anche nelle fasi successive del lavoro clinico, sia come valutazioni processuali, che come follow-up nel periodo posteriore alla conclusione della presa in carico. La diagnosi psicologica fonda la propria conoscenza sulla relazione con il cliente, attraverso un rapporto empatico che prende in considerazione l’analisi delle collusioni e tutto ciò che la persona comunica nella sua globalità (parole, tono di voce, emozioni, gesti, posture, atteggiamenti seduttivi o difensivi, abbigliamento, etc.) … [essa] deve dunque raccogliere dati senza giungere a designazioni psicopatologiche, ma cercando di comprendere i molteplici fattori che sono alla base dello squilibrio momentaneo della persona […] il modello psicologico si fonda sulla decodificazione di simboli, sulla comprensione dei significati derivanti dal ‘rapporto’. Una comprensione che include lo stesso processo messo in atto dalla relazione che si stabilisce in quel preciso momento ed in quel particolare contesto […]. Il problema più importante per i clinici è quello di non cadere nella trappola dell’etichettamento, della categorizzazione nosografica delle persone (tratta dal DSM o dai classici di Kraepelin). La diagnosi sarà tanto più valida quanto più vasta sarà la conoscenza delle risorse interne di una data persona e di quelle parti sane con cui allearsi per una eventuale indicazione psicoterapeutica.” (Colamonico, 1996, p. 92 e segg.). 34 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato La semplice “competenza tecnica” nell’uso di test e reattivi non è però sufficiente per garantire un’adeguata implementazione della fase diagnostica del processo clinico; prima ed accanto alla “competenza tecnica” è necessaria un’attenta “competenza relazionale” nel loro uso, ovvero la capacità di costituire relazionalmente una “cornice di significato” adeguata, sia per il terapeuta che per il paziente, in merito all’uso degli strumenti di valutazione. L’assetto psicodiagnostico deve essere condotto in maniera empatica e accogliente, perché la sua semplice esecuzione, con gli spazi di dubbio, perplessità, aspettativa o ansia che suscita nel paziente, incide direttamente sullo spazio relazionale che si sta costituendo tra terapeuta e paziente, e la sua cattiva gestione può causare effetti negativi sulla successiva costituzione dell’alleanza di lavoro. Inoltre, la fase ‘valutativa’ è già di per sé anche ‘riparativa’. Somministrare i test al paziente è già ‘fare terapia’, non si tratta di sue momenti slegati. Una valutazione che tenga conto, oltre alla diagnosi che potrebbe rappresentare solo il passo iniziale (Parker, 1999), di altri e numerosi aspetti (il modo in cui il cliente racconta la sua storia; il suo coinvolgimento con il terapeuta; l’accento sui punti di forza; la visione olistica del cliente) può essere definita una valutazione orientata al processo: fin dal primo incontro il cliente ed il clinico entrano in una relazione e molto di ciò che ha un valore diagnostico per il trattamento può essere compreso se lo si inquadra nel contesto della relazione (Jones, 2000). La somministrazione è un movimento “soggettivo”: la semplice esecuzione di un reattivo o una batteria testistica, e le riflessioni, rappresentazioni e fantasie che questo può suscitare nel paziente che vi si sottopone, divengono materiali clinici di una certa rilevanza, che possono e devono essere discussi col paziente prima e/o dopo la somministrazione. In altri termini, il ‘semplice’ atto di somministrazione di un test non è mai “relazionalmente neutrale”, e il clinico deve esserne ben consapevole e pronto a discutere, insieme al paziente, i processi psicologici che questa valutazione può avere implicitamente attivato. Il termine valutazione clinica (clinical assessment) si riferisce ad: ”[…] una misurazione ed una valutazione sistematica di fattori psicologici, sociali e biologici in una persona che presenta un probabile disturbo mentale. Diagnosi è il processo per determinare se il problema particolare che sta stressando la persona incontra tutti i criteri necessari per un disturbo psicologico” (Barlow, Durand, 1995, p. 77). La valutazione è il processo attraverso cui raccogliere informazioni e trarre conclusioni sui tratti, le abilità, le competenze, il funzionamento emozionale ed i problemi psicologici dell’individuo. Essa può essere funzionale allo sviluppo di una diagnosi. Questo senza dimenticare che le valutazioni psicologiche sono costrutti sociali, infatti sono i valori sociali a determinare quale comportamento sia accettabile o meno e un comportamento inaccettabile può diventare un ‘disturbo’ (Beutler et. al., 1998). Tre sono le vie principali per fare ciò: l’osservazione, il colloquio clinico e l’anamnesi, i test psicologici (questionari, interviste, self-report, test, etc.). Gli strumenti utilizzati a questo scopo sono diversi ed eterogenei tra loro: osservazione diretta, colloquio/intervista, metodi biografici, strumenti carta-matita, tecniche proiettive, etc. Accanto a questi sono stati sviluppati metodi focalizzati anche sugli aspetti fisiologici e chimici per la valutazione dell’attivazione (arousal), stress, emozioni, psicopatologia, come il poligrafo, le misurazioni elettromiografiche per la tensione muscolare, lo sfigmomanometro per la pressione del sangue, lo psicogalvanometro per la resistenza della pelle, il pupillometro per il diametro delle pupille. Il Processo Psicodiagnostico L’iter di raccolta dati che conduce alla formulazione di un’ipotesi diagnostica prende il 35 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato nome di “processo diagnostico” ed è, ma soprattutto deve essere, costituito dalla presenza di 4 fondamentali atteggiamenti e attività metodologiche che si alternano e si concertano ossia: mm comprendere; mm osservare/descrivere; mm spiegare; mm restituire. L’attività del comprendere: è connessa con l’empatia, in quanto si riferisce, e si estrinseca, sul piano relazionale, inteso come il momento che vede coinvolti e protagonisti, ognuno con un proprio ruolo, il clinico e la persona sottoposta a valutazione diagnostica. L’attività di osservare e descrivere: quanto colto e visto è connessa ad una applicazione tecnica relativa all’impiego delle conoscenze specifiche che permettono di formulare una diagnosi. Lo spiegare: è una parte dell’intero processo diagnostico che è guidata dai fondamenti interpretativi del modello teorico di riferimento. Il restituire: è la parte conclusiva del processo diagnostico durante la quale il clinico condivide, nella misura e nella modalità più opportune per ciascuna persona, quanto emerso e compreso con la persona sottoposta a valutazione, o con l’inviante. Tale momento può poi tradursi, in ambito clinico ad esempio, in un progetto di terapia o consulenza attraverso l’invio ad altro professionista o con la presa in carico da parte dello stesso diagnosta. In questo caso nel momento della restituzione è necessario che venga spiegato al paziente quello che è stato il processo diagnostico e quello che sarà il percorso successivo. Il cliente/paziente deve essere consapevole, così pure il diagnosta, che ciascun percorso ha una propria identità, una propria funzione e ragion d’essere, rimanendo vero quanto detto prima che non vi è separazione netta tra questi due stadi. Le attività che compongono il processo psicodiagnostico sono interdipendenti in quanto la spiegazione/interpretazione diviene utile laddove la comprensione consenta di riconoscere l’evoluzione dei vissuti e dei comportamenti della persona sottoposta a valutazione ricavandone una visione quanto più completa possibile. La descrizione/osservazione consente invece di specificare un quadro clinico che attribuisca un nome ai sintomi e segni rilevati dalla raccolta dati, e per far ciò ci si avvale di un sistema diagnostico di riferimento. Sulla base di quanto emerso da queste attività, considerato nel suo insieme, scaturisce e deriva la decisione “trattamentale” del clinico la quale deve essere ponderata, oltre che su quanto rilevato nel momento attuale, anche sulla possibile evoluzione dello stato in essere (prognosi) e le aspettative e gli obiettivi realistici della persona valutata. I Sistemi Diagnostici Tra i principali sistemi diagnostici troviamo i seguenti che si distinguono tra loro in base alla tipologia del paradigma scientifico di riferimento: mm sistemi nosografico-descrittivi: si fondano su un approccio di base tendenzialmente a-teoretico con lo scopo di descrivere quanto osservato. Tali sistemi sono svincolati da un modello concettuale di riferimento per quanto concer36 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato ne le cause e il processo fisiopatologico all’origine del disturbo/manifestazione. Si costituiscono di criteri diagnostici che consentono di identificare categorie sindromiche attraverso la rilevazione di sintomi con l’ausilio di un livello minimo di inferenza. Esempi di questi sistemi sono il DSM IV e ICD 10. mm sistemi interpretativo-esplicativi: nascono dall’applicazione di una specifica teoria del comportamento ed il loro impiego è esteso anche a livello terapeutico. Tali sistemi si fondano sull’assunto che ogni patologia sia l’espressione di cause, rilevabili e descrivibili. Ne sono un esempio le teorie psicogenetiche, sociogenetiche e organogenetiche che attribuiscono l’eziologia del disturbo psichico rispettivamente a cause psicologiche, sociali o fisiche (Del Corno, Lang, 1977). Accanto al più conosciuto DSM, recentemente (2006) è stato pubblicato un manuale diagnostico (PDM, Lingiardi, Del Corno, 2008) che si prefigge lo scopo di operare un’integrazione tra i due sistemi sopra descritti in un’ottica psicodinamica. Normalità e Patologia Nelle tabelle che seguono viene riportato l’interessante lavoro di Biondi (1996) sui nove criteri proposti per discriminare meglio normalità e patologia. Nella seconda tabella una Check-list per la valutazione della rispondenza ai diversi criteri di normalità/anormalità. Tabella 1 - I nove criteri di normalità/patologia. Criterio di valutazione Giudizio di normalità Anormalità e/o patologia Conformità sociale alle norme di comportamento Non sofferenza libertà, 2) Sofferenza capacità di progetto, normale volontà Funzionalità psicociale e la3) Funzionalità psicosociale vorativa presente o possibile Devianza sociale del comportamento Sofferenza soggettiva, angoscia perdita di libertà, volontà ridotta Funzionalità psicosociale e lavorativa alterata o ridotta 4) Criterio di pensiero e linguaggio Alterazioni di forma e contenuto del pensiero 1) Devianza 5) Antropologico-culturale 6) Sviluppo psico-affettivo 7) Etologico 8) Biologico Forma e contenuti del pensiero e linguaggio adeguati Comprensibilità: secondo la Non comprensibilità cultura di appartenenza Alterazioni di rilievo nelMaturità di sviluppo psichila maturazione psichica e co raggiunta affettiva Alterazione o disgregazione Coerenza con i comportadi comportamenti di base menti di base della specie della specie Normale funzionamento dei Presenza di alterazioni bioprocessi biologici cerebrali logiche di processi biologici o periferici sottostanti a pen- sottostanti a pensiero e comsiero e comportamento portamento 37 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato 9) Statistico Presenza di comportamenti frequenti nella popolazione di riferimento Presenza di comportamenti altamente infrequenti nella popolazione di riferimento Tabella 2 - Check-list per la valutazione della rispondenza ai diversi criteri di normalità/ anormalità (Biondi et. al., 1995). Criteri di norma Domande chiave Specificazioni Ii medico si baserà sul confronto con la sua esperienza, vale a dire con i casi osservati in precedenza e con caratteriIn che misura il comportastiche identiche o analoghe, operando mento, tratto o stato del soguna comparazionegeneralizzazione-preStatistico getto possono essere consivisione ed una valutazione della normaderati poco comuni? lità o patologia dei caso attualmente in esame, pur non possedendo dati esplicitamente formalizzati (norma statistica «implicita») Il medico dovrà obiettivare lo stato di In che misura esistono alte- salute «fisica» del paziente, eventualrazioni, misurabili, di para- mente approfondendo l’indagine con la Medico-biologico metri biologici di probabile strumentazione diagnostica necessaria rilevanza per lo stato men- (esami di laboratorio, radiografici, ecc.) tale? valutandone la natura primaria o secondaria rispetto al disturbo psichiatrico La valutazione del significato di disturbo/non disturbo deve tenere presente il Sono presenti disturbi logicontesto comunicativo in cui il pensiero Forma e contenuto co-formali e/o di contenuto (o discorso) in esame è inserito (condel pensiero del pensiero? In che misura? testo condiviso), la consapevolezzaintenzionalità-finalità ed efficacia della comunicazione È qui richiesta una valutazione non semIn che misura il comporta- plice del difficile rapporto tra organizzamento, tratto o stato porta il zione della società e malattia mentale; soggetto a deviare rispetto fondamentale è evitare l’equivoco ridutDevianza sociale alle consuetudini ed alle abi- tivo che sia la società a causare la malattudini della società di appar- tia mentale essendo semmai più corretto tenenza? tenere presente che società diverse hanno soglie diverse per la comparsa di un disturbo mentale sul piano clinico 38 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato Antropologico In che misura persone della stessa cultura di appartenenza riterrebbero poco comprensibile o anormale il comportamento, tratto o stato del soggetto? In che misura questo comportamento, tratto o stato del soggetto riduce la sua capacità di lavorare, Funzionalità psicoautomantenersi, provvedere sociale e lavorativa a se stesso, instaurare rapporti di interazione e di comunicazione con gli altri? Quanto è presente uno stato di sofferenza soggettiva attuale, di riduzione della Sofferenza sogget- possibilità di agire verso tiva l’ambiente, della volontà e capacità di progettare il proprio futuro? Comportamenti, credenze e convinzioni che potrebbero rivestire significato di patologia o di anormalità per i membri di una cultura, possono essere del tutto normali per membri di altre culture; a volte significative variazioni possono aversi anche nella stessa comunità a seconda dell’età, del ceto sociale, di piccole distanze geografiche La valutazione del soggetto si estenderà alla capacità di provvedere ad alcune funzioni di base per la cura della propria persona, alla capacità di ricercare e svolgere un lavoro, alla condivisione dell’insieme dei valori dei suo gruppo o società di appartenenza, alla capacità di tollerare una certa dose di frustrazione e di procrastinare alcuni soddisfacimenti, al senso di appartenenza a qualcosa o qualcuno di cui di fatto fa parte, a quanto sappia provare affetto, controllare ed esprimere la propria aggressività Una condizione psicopatologica è, nella maggior parte dei casi, associata alle seguenti quattro condizioni: stato di sofferenza soggettiva, anche se non spontaneamente riferita dalla persona a livello verbale; riduzione e perdita di libertà sui propri pensieri e sulle proprie azioni; alterazione dei proprio progetto di esistenza e della capacità stessa di progettare il futuro; alterazione, riduzione o annullamento della volontà 39 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato Etologico In che misura un animale sano, in natura, potrebbe presentare un comportamento, tratto o stato di questo tipo? Alcuni comportamenti sono presenti da millenni nel patrimonio biologico dell’azione umana assicurando verosimilmente la sopravvivenza dell’individuo e della specie; tra essi: alimentazione, sessualità, riproduzione, cura ed igiene personale, cure parentali, interazione e strutturazione del gruppo, dominanzasottomissione, agonismo e aggressività, esplorazione e gioco, ritmi sonno-veglia e attività-riposo.Sono alterati e in che misura nella storia attuale del soggetto? È presente l’uso voluttuario di sostanze quali tabacco, alcool o altre sostanze psicoattive? In che misura? Fig. 2 - La diagnosi Psicologica (Dazzi, 2012) Test ‘di base’ I test utilizzati per la valutazione progressiva variano a seconda della fase e dell’obiettivo della valutazione stessa: all’inizio, ad es., per avere un quadro complessivo del funziona- 40 Coordinamento e progettazione di un Master per psicoterapeuti di indirizzo Pluralistico Integrato mento del paziente si possono utilizzare le batterie ‘consuete’ (alcuni test grafici, il test di Rorschach, il test di personalità MMPI e la scala WAIS di livello intellettivo). Oltre a questi test ‘ad ampio spettro’ si utilizzano strumenti più mirati verso le difficoltà/problemi lamentati dal cliente, ad es., test per un comportamento/ tratto/ atteggiamento specifico (es., depressione, alimentazione, ansia…). Questi ultimi sono di solito ri-somministrabili ad intervalli regolari per monitorare l’andamento del problema e quindi della terapia. Nella parte conclusiva ci si può servire di strumenti idonei a valutare l’outcome (es., Outcome Questionnaire-45). Nel nostro Master abbiamo deciso di mettere l’accento anche sulle risorse del cliente (umorismo, ottimismo, speranza, abilità relazionali …) dimensioni sottovalutate nel passato che ora stanno acquisendo sempre maggiore importanza. Senza dimenticare che esistono strumenti per monitorare l’alleanza relazionale e valutare la motivazione al cambiamento. È inoltre utile il genogramma per una valutazione narrativa che tenga conto del contesto allargato oltreché del paziente. Attraverso i colloqui e l’applicazione di tali test ciò che emerge è l’assetto mentale dell’individuo, le sue risorse, le energie disponibili investite nell’ambiente e nelle relazioni interpersonali, la maturità o la pulsionalità dell’individuo, la forza dell’Io, la presenza dell’angoscia, degli aspetti di dipendenza ed il vissuto di perdita dell’oggetto, le varie capacità e conoscenze che concorrono a formare il livello intellettivo, alcuni tratti descrittivi della personalità, la percezione che si ha di se stessi e la collocazione che un individuo sente di occupare all’interno della propria famiglia. Bibliografia Albasi C. (2009), Psicopatologia e ragionamento clinico, Cortina, Milano. Armezzani M., Grimaldi F., Pezzullo L. (2002), Tecniche costruttiviste per la diagnosi psicologica, McGraw-Hill, Milano. Armezzani, M. (1995), L’indagine di personalità, Carocci, Roma. Biondi M. (1996), La mente selvaggia. 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Lavora nell’ambito del disagio minorile, con consulenze e supervisioni per i minori collocati in ambito extrafamiliare; esperta per la formazione e il sostegno all’affidamento eterofamiliare. Lavora nell’ambito della formazione alla medicina naturale, didatta per il Master di Medicina Naturale presso la facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Tor Vergata Roma. Didatta per i corsi di Osteopatia. Svolge attività clinica in ambito privato. Abstract Dopo una introduzione in cui sono esposti i due differenti approcci (dimensionale e categoriale), come tentativo di soluzione di alcuni dei problemi delle diagnosi psicologica (quali sono ad esempio quelle del DSM-IV in vista della prossima revisione che porterà al V), vengono presentati i principali elementi cardini su cui si fondano i due modelli diagnostici della personalità, con la conclusione riguardo alle prospettive future che puntano all’integrazione dei due modi di valutare, per mirare ad un percorso complesso e articolato che prenda spunto dai punti-forza dei due modelli precedenti. Stato dell’arte e prospettive future sui modelli di valutazione psicologica. Keywords Valutazione diagnostica, categoria, dimensioni, DSM IV, validità, disturbi psicopatoogici, prospettive diagnostiche, diagnosi clinica. Dalla prospettiva categoriale a quella dimensionale Lo scopo della diagnosi psicologica è quello di fornire al clinico le informazioni esaustive al fine di pianificare l’intervento migliore per il caso in questione. Uno dei dibattiti che arricchiscono il background culturale nella diagnosi psicopatologica riguarda la natura stessa dei costrutti, se essi debbano essere considerati nella prospettiva dimensionale o categoriale. 43 Due approcci alla valutazione diagnostica: categoria e dimensione. Stato dell’arte e prospettive future I sistemi diagnostici vengono distinti in due fondamentali gruppi: 1. Sistema nosografico-descrittivo: fornisce un tipo di conoscenza che si concentra sulle peculiarità di un singolo individuo, sulla sua specificità e irripetibilità e ci porta all’identificazione del quadro patologico osservato (etichettatorio e ateoretico). DSM-IV e I.C.D. X. 2. Sistema nomotetico: punta ad avere un tipo di conoscenza che cerca di individuare o stabilire le leggi delle ricorrenze che accomunano il funzionamento di persone in circostanze diverse. Sistema interpretativo-esplicativo significato causalistico-deduttivo (Diagnosi Psicodinamica Operazionalizzata). I due sistemi possono essere complementari insieme a: 3. Diagnosi del Modello della propria Scuola di appartenenza (narrazione, stili di attaccamento, ecc.). L’ipotesi diagnostica ha lo scopo principale di indirizzare la scelta terapeutica e coordinare gli interventi in evoluzione, rendendo possibile e concreta la prognosi. La questione della comunicazione nel percorso terapeutico assume rilevanza soprattutto nel dialogo fra operatori di differenti approcci terapeutici per avere un linguaggio comune e condiviso, che possa permettere anche la comunicazione dei risultati ottenuti, sia in ambito clinico, sia nella ricerca. L’ipotesi diagnostica permette di valutare l’efficacia del trattamento scelto e contribuire alle statistiche sanitarie epidemiologiche. L’ordinamento nosologico categoriale da un lato descrive le sindromi e i differenti disturbi come entità statiche, ben definite, e caratterizzate da un quadro sintomatologico rigidamente definito, con specifica eziologia e terapia, ed infine con un proprio decorso abbastanza individuato. La valutazione dimensionale, invece, scompone gli stati psicopatologici in funzioni, ciascuna delle quali può essere collocata lungo un gradiente, che varia per intensità, e che va dalla normalità alla patologia, all’interno di una sindrome e in quello di uno “spettro” transnosologico. Questi due tipi di valutazioni spaziano quindi tra la presenza del “discreto”, e quella del “continuum” diagnostico (Vella, Siracusano, 1994). Le categorie diagnostiche suddividono le malattie mentali in etichette (schizofrenia, borderline, ansia, narcisismo ecc.), coerentemente con l’approccio medico-psichiatrico, invece le dimensioni, nella diagnostica, permettono di collocare i disturbi mentali secondo delle variazioni quantitative (in base alla gravità del disturbo, alla personalità, alla percezione, e a tutte le caratteristiche specifiche della persona), su un continuum che dalla normalità arriva alla patologia. Entrambi gli approcci presentano metodologie e strutture di codifica che orientano il prosieguo terapeutico, e questo è in fondo l’elemento più cruciale di tutto il dibattito: in relazione a quale tipo di diagnosi strutturare e progettare il piano terapeutico? La diagnosi categoriale: definizione e strumenti DSM IV Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi della Personalità si basa sull’identificazione e descrizione di sindromi psicopatologiche intese come un “raggruppamento di segni 44 Due approcci alla valutazione diagnostica: categoria e dimensione. Stato dell’arte e prospettive future e sintomi, basato sulla loro frequente concomitanza, che può suggerire una sottostante patogenesi, un decorso, una familiarità, e un’indicazione di trattamento comune” (APA, 2000, p. 875). Nella classificazione di questo manuale, il funzionamento psichico, nel suo agire patologico, è raggruppato secondo diversi assi: Asse I: disturbi clinici (17 macrocategorie). Asse II: disturbi di personalità (3 cluster). Asse III: condizioni mediche generali. Asse IV: fattori psico-sociali stressanti Asse V: scala per la valutazione globale del funzionamento. DSM IV Tr (APA, 2000). Le specificità che lo caratterizzano sono: mm Nosografia (i quadri sintomatologici sono descritti a prescindere dal vissuto del singolo, e sono valutati in base a casistiche frequenziali). mm Ateoricità (non si basa su nessun tipo di approccio teorico). mm Assialità (raggruppa i disturbi sui 5 suddetti assi). mm Base statistica (in quanto il sintomo acquista valore come dato frequenziale). Punti di forza e punti di debolezza della diagnosi categoriale Uno dei punti di forza di questo modello riguarda la certezza della definizione che etichetta la sindrome patologica: un sintomo è ben identificato e descritto con un indice di presenza-assenza (sì/no), i sintomi vengono elencati secondo dei criteri descrittivi (di solito dai 6 agli 8 item), secondo un numero prefissato di item di cui deve soddisfare le condizioni di soglia minima (cut-off) per la diagnosi (frequentemente non meno di 6); questi item sono intercambiabili nella scala di presentazione e il giudizio del clinico condiziona la siglatura presente-assente di ciascun item della scala; la diagnosi categoriale non interagisce in alcun modo con possibili sfumature di significato degli item, né è possibile che sia confusa con variabili differenti degli item per forma e contenuto. Purtroppo i criteri così puntuali per identificare il o i sintomi specifici non danno alcuna informazione sul funzionamento della persona negli altri ambiti della sua vita sociale/affettiva/relazione o altri che eludono dall’ambito di indagine, non è così possibile reperire informazioni sulle risorse interne. I tratti patologici della personalità in asse II sono entità stabili e indipendenti dai contesti (Widiger el al., 2006); vi è infine una significativa comorbilità tra i disturbi; manca una teoria sottostante le diagnosi che abbia caratteristiche di coesione e le varie categorie diagnostiche sono indipendenti e separate l’una dall’altra. La diagnosi dimensionale: definizione e strumenti Five-Factor Model (FFM) di Costa e McCrae (Big Five) È un modello a cinque fattori (chiamato Big Five, o Five-Factor Model [FFM]), formulato da Costa e McCrae (1988). Le cinque dimensioni sono nevroticismo, estroversione, apertura, gradevolezza e scrupolosità, e ciascuna di esse è suddivisa in varie sottodimensioni o facets (facce, sfaccettature), per un totale di ben 25 sottodimensioni. Uno sguardo al FFM di Costa e McCrae ci fa subito rendere conto della sua complessità (accanto ai termini in italiano vi sono tra parentesi i termini originali in inglese, dato che sussistono non pochi problemi interpretativi). 45 Due approcci alla valutazione diagnostica: categoria e dimensione. Stato dell’arte e prospettive future Per misurare i Big Five Costa e McCrae (1992) hanno messo a punto un questionario intitolato NEO-PI-R (NEO sono le iniziali di Nevroticismo, Estroversione e Psicoticismo, PI significa Personality Inventory e R sta per Revised perché è stato revisionato). I primi due fattori (Nevroticismo ed Estroversione) sono praticamente gli stessi usati da Eysenck (1983). La Gradevolezza e la Scrupolosità provengono da una distinzione operata all’interno del terzo fattore individuato da Eysenck (Psicoticismo): rispettivamente, la Gradevolezza indica la presenza di calore emotivo contrapposto a freddezza, e la Scrupolosità indica autocontrollo contrapposto a impulsività. L’apertura è stata introdotta più tardi, e indica la capacità immaginativa contrapposta all’inibizione. Come si può vedere da questo modello dimensionale, i tratti della personalità di origine più strettamente temperamentale o innata non sono facilmente distinguibili da quelli maggiormente derivati dalle influenze ambientali (nel FFM, ad esempio, si ritiene che solo la Gradevolezza derivi da influenze ambientali, mentre gli altri quattro fattori avrebbero una forte componente ereditaria, cioè sarebbero temperamentali). Ciò mostra quanto sia difficile separare, nella personalità, il “carattere” dal “temperamento”, due termini che a questo punto vanno definiti con precisione, assieme a quello di “personalità”: il “temperamento” si riferisce alle caratteristiche innate e biologicamente determinate della personalità, il “carattere” si riferisce alle caratteristiche acquisite socio-culturalmente, e la “personalità” costituisce il prodotto dell’interazione di queste due componenti (anche se, di fatto, è difficile mantenere queste separazioni), (Migone, 2006). Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP) di Shedler & Westen Un modello dimensionale formulato molto recentemente, che sta suscitando sempre più interesse, è la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP) di Shedler e Westen (1999). Questa scala di valutazione della personalità, che si è subito imposta all’attenzione dei ricercatori a livello internazionale (è stata subito tradotta anche in italiano: Westen, Shedler e Lingiardi, 2003), permette di fare diagnosi sia dimensionale che categoriale, secondo non solo l’Asse II del DSM-IV (per cui si può cercare di ottenere una sorta di validazione indiretta dell’Asse II) ma anche secondo una nuova classificazione degli stili di personalità, derivata da studi empirici condotti tramite l’applicazione della stessa SWAP a pazienti reali. La SWAP, la cui metodologia si basa sul Q-sort (una tecnica statistica legata al nome di Enrico Jones), si propone anche di facilitare il passaggio dalla diagnosi psichiatrica o psicologica alla formulazione clinica e psicodinamica del caso. La struttura della SWAP (vedi Westen, Shedler e Lingiardi, 2003; Gazzillo, 2006), prevede che i 200 item costituiscano un vocabolario per la formulazione del caso; può darci informazioni riguardo alle motivazioni, i conflitti, valori morali e gli standard ideali. Gli items della SWAP vengono distribuiti dal clinico in otto “pile” (mediante l’uso del computer ovviamente la cosa non avviene manualmente) secondo una scala da 0 a 7 (da “per niente descrittivo” a “moltissimo”), e la distribuzione degli items non è libera ma forzata, cioè fissa, allo scopo anche di ovviare al bias di molti clinici di collocare gli items, senza riflettere a sufficienza, spesso agli estremi del continuum. Uno degli aspetti interessanti della SWAP è che permette di colmare il gap tra diagnosi descrittiva e formulazione del caso: componendo in forma narrativa il testo degli items che hanno ricevuto i tre punteggi più alti (5, 6 e 7), e integrandoli con altre informazioni sul caso, si può facilmente arrivare (in modo per così dire “scientifico”, cioè replicabile) a una formulazione narrativa del caso contemporaneamente alla valutazione diagnostica. 46 Due approcci alla valutazione diagnostica: categoria e dimensione. Stato dell’arte e prospettive future Altri modelli dimensionali Esistono poi altri modelli dimensionali, ad esempio il Millon Clinical Multiaxial Inventory (MCMI) di Millon (1969), il modello di Torgensen, a 17 dimensioni (1990), quello di Tyrer a 24 dimensioni(1987), il modello EAS di Bluss e Pomin (1984), improntato sul temperamento, che prevede tre fattori evidenziabili fin dalla prima infanzia (Emotività, Attività, e Socievolezza [EAS]), e così via. Gli autori Widinger, Simonsen, Sirovatka e Regie (2006) propongono un modello di valutazione dimensionale della personalità che integra i 18 principali modelli di valutazione dimensionale, già esistenti, in un unico modello a 4 livelli: 1. Due fattori (internalizzante ed esternalizzante). 2. 4/5 domini del funzionamento della personalità tra i quali regolazione emotiva vs instabilità emotiva; coartazione vs impulsività; estroversione vs introversione; antagonismo vs arrendevolezza. 3. I sotto-fattori compresi nelle dimensioni del livello precedente. 4. I tratti più vicini ai comportamenti manifesti, cioè quelli più simili agli attuali criteri del DSM IV. Questo modello dibatte sull’opportunità di inserirvi o no i tratti sani. Westen (2005) propone di dare maggiore importanza alla valutazione dimensionale, in quanto il modello categoriale è centrato sulle caratteristiche “tipo” delle persone, mentre il modello dimensionale ha la sua centratura sulle “variabili /tratti”. Punti di forza e punti di debolezza della diagnosi dimensionale La diagnosi dimensionale descrive meglio l’individuo e si avvicina all’approccio idiografico, a differenza della diagnosi categoriale che offre margini di genericità maggiori, in quanto mette nella stessa categoria quadri di funzionamento psichico anche molto diversi tra loro; è legata a tratti stabili della personalità (anche perché spesso si basa su tratti del temperamento e non del carattere), a differenza della diagnosi categoriale che ha indici di maggiore instabilità; elimina il fenomeno della comorbilità, anzi piuttosto la spiega. I punti deboli dei modelli dimensionali sono legati alla tendenza all’eterogeneità, che rende difficile i paragoni tra simili, infatti, alcuni termini usati in diversi modelli che descrivono le dimensioni hanno somiglianze linguistiche ma non sono scientificamente convalidati, tale per cui a volte non è chiara la distinzione tra veri tratti di personalità e convenzioni culturali. Un grosso problema dei modelli dimensionali è rappresentato dal fatto che esiste una sorta di circolo vizioso, nel senso che per poter dire se uno o più modelli dimensionali possono aiutare a discriminare, ad esempio, il disturbo borderline occorre già avere, a monte, una definizione di disturbo borderline, e l’unica sulla quale vi è un accordo è quella descrittiva, categoriale, del DSM-IV. Livesley (2006) propone una riformulazione dimensionale della diagnosi di personalità, così come proposta dal DSM, secondo il quale le ricerche di genetica del comportamento, ci suggeriscono che “pochi fattori genetici generali spiegano i pattern di covariazione dei tratti di personalità osservati”; così ad esempio, per descrivere gli attuali disturbi dell’Asse II in termini di tratti, utilizzando un linguaggio consono alla valutazione dimensionale è bene porre in evidenza 4 tratti: la dis-regolazione emotiva, la coscienziosità, l’antagonismo e l’inibizione (attualmente non è possibile differenziare i disturbi dell’Asse II a seconda delle caratteristiche genetiche). 47 Due approcci alla valutazione diagnostica: categoria e dimensione. Stato dell’arte e prospettive future L’integrazione tra l’aspetto genetico, biologico e psicologico ha orientato studi che riguardano il rapporto tra temperamento e antecedenti infantili e personalità adulta, I maggiori modelli che studiano il temperamento propendono per l’approccio dimensionale, dello studio della personalità, intesa come insieme di tratti. Un ulteriore punto critico nell’elaborazione dei metodi di valutazione dimensionale nei disturbi di personalità è l’esigenza di stabilire i punteggi di cut-off, necessari per distinguere il tratto normale dal disturbo. Se da un lato la valutazione dimensionale del modello a 5 fattori sembra descrivere in modo adeguato alcuni disturbi dell’Asse II, dall’altro lato però resta la necessità di stabilire i cut off che ci permettano di distinguere i tratti normali da quelli patologici, individuando anche le differenziazioni che orientino ambiti di trattamento psicoterapeutico specifici. La validità e l’affidabilità dei modelli diagnostici e dei cut off dovrebbe essere confermata da ricerche empiriche. I modelli dimensionali non possono sostituire del tutto quelli categoriali in quanto questi mantengono una loro validità e necessità in abito giuridico, amministrativo e medico. Prospettive future Sia l’approccio dimensionale che quello categoriale sono accomunati dalla prospettiva descrittiva, che si contrappone alla prospettiva strutturale, la quale può essere intesa in diversi modi, di cui quello che maggiormente la caratterizza è l’individuazione oltre che delle caratteristiche descrittive, anche delle strutture sottostanti e responsabili del comportamento osservabile. Vi è la necessità di elaborare un sistema condiviso di diagnosi delle relazioni interpersonali che possa spiegare cause e eziologia di uno o più disturbi mentali. La sfida grande che è affidata alla nuova edizione del DSM V è quella di coniugare le esigenze della ricerca con quelle della clinica. Se da un lato non si può rinunciare alla chiarezza, alla sintesi e all’oggettività che ci offrono la categoria e il criterio, entrambi necessari per diagnosticare i disturbi mentali, è altrettanto evidente che queste penalizzano la validità ecologica e l’utilità clinica di questi concetti, lasciando in disparte le ricerche compiute finora su presupposti teorici specifici, i cui concetti sono stati resi applicabili in modo affidabile alla diagnosi del funzionamento psichico. Esempi di come sono le ricerche condotte con sistemi e procedure diagnostiche come la SWAP, da cui è emersa la necessità di tener conto della personalità complessiva, nel suo funzionamento patologico e normale, la necessità di valutare oltre la personalità, come aspetto “negativo” legato al disturbo anche il funzionamento della persona nella sue “risorse”, le peculiarità dei suoi pattern cognitivi ed emotivi, motivazionali e comportamentali ecc. Se è vero che il DSM ha avuto il merito di aiutare i clinici ad avere un linguaggio comune, non solo in fase diagnostica ma anche, alla luce di questa, nella complessa miriade di interventi: se è un dato ormai che l’uso del Manuale DSM ha fornito un fecondo terreno unico per la formazione professione alle pur differenti scuole di Psicoterapia, che nonostante avessero orientamenti teorici differenti si sono travate d’accordo sul linguaggio del DSM, è altrettanto vero che ha anche portato all’eccessiva aderenza al modello medico con una visione della patologia psichica rigidamente classificabile e quantificabile. Le prospettive future, alla luce di queste considerazioni, sono orientate verso un ripensamento dimensionale dei criteri diagnostici sui disturbi della personalità, all’allargamento alle risorse del paziente, all’interno della rilevazione valutativa, all’integrazione nel manuale 48 Due approcci alla valutazione diagnostica: categoria e dimensione. Stato dell’arte e prospettive future del DSM V dei dati principali e più recenti che ci rimandano le neuroscienze, la psicologia della personalità e relazionale. La prospettiva che ci attendiamo, con l’avvento della V edizione del DSM, è l’integrazione di prospettive teoriche, cliniche ed empiriche, provenienti da ambiti di studi, ricerche e modelli teorici diversi, affinché il manuale non sia composto da elenchi ma piuttosto da mappe che orientino a comprendere il funzionamento globale e complesso della persona umana. Bibliografia Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di) (2009), La diagnosi in Psicologia Clinica, Raffaello Cortina, Milano. Giusti E., Montanari C., Iannazzo A. (2006), Psicoterapia Integrata, Sovera, Roma. Migone P. (2006), http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt-rubri.htm. Spalletta E. (2010), Personalità sane e disturbate, Sovera, Roma . Vella G., Siracusano A. (1994), La depressione: dimensione e categorie, Il Pensiero Scientifico editore, Roma. Shedler, J., & Westen D. (1998), Refiing the measurement of Axis II:A Q-sort procedure for assessing personality pathology, Assessment, 5,333–353. Westen D., Shedler, J., Lingiardi, V. (2003), La valutazione della personalità con la SWAP200, Raffaello Cortina, Milano. Widiger T.A., Simonsen E., Sirovatka P.J. et. al. (2006), Dimensional Models of Personality Disorders: refinig the Research Agenda for DSM V, American Psychiatric Press, Washington DC. 49 Diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica: ottiche e metodologie a confronto 4 di Francesca Massara Francesca Massara, laureata in Psicologia ad indirizzo clinico nel 1990 presso “La Sapienza” di Roma. Specializzata nel 1995 in Psicoterapia ad orientamento psicodinamico con approccio rogersiano al paziente. Svolge il suo lavoro clinico e professionale privatamente a Roma, rivolgendosi principalmente ad un’utenza adulta. Collabora con l’ASPIC di Roma dal 1997, dapprima nei corsi regionali di formazione in Gestalt-Counseling, successivamente svolgendo attività di tutoraggio presso la Scuola di specializzazione per psicoterapeuti, dove ha il ruolo di coordinatrice dei tutors. Attualmente, con la collega Cristina Povinelli, organizza corsi di Supervisione alla pari per Psicoterapeuti presso l’ASPIC. Abstract Questo testo, dopo un breve excursus storico su come nasce la diagnosi, in campo psichiatrico e psicologico, si propone di evidenziare la necessità di ottenere, sulla base di una diagnosi il più possibile obiettiva e convalidata, una sinergia di forze tra coloro che operano in un ambito così complesso e variegato, qual è la psiche umana. In questo senso il testo, più che soffermarsi sulle tecniche e i contenuti utilizzati in campo medico e psicologico, lancia un monito che mira al superamento di tutte quelle barriere ideologiche e istituzionali che ancora oggi condizionano l’approccio al paziente con disagi psichici. Il testo mira, altresì, al superamento di tutte quelle posizioni statiche assunte da alcuni professionisti che operano sul campo, psichiatri da un lato e psicoterapeuti dall’altro, che talvolta esprimono, più che la voglia effettiva di prendersi cura del paziente, il desiderio di “accaparrarselo”, per dimostrare una superiorità che non esiste. Keywords: diagnosi psicologica, diagnosi psichiatrica, sano, patologico. Che cos’è la psicodiagnosi Il tema della “psicodiagnosi” ci mette di fronte ad alcuni punti fondamentali che riguardano direttamente la nostra professione, di psicologi e psicoterapeuti, cioè come sia più opportuno ed efficace redigere una diagnosi psicologica. Il nostro codice deontologico, isti51 Diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica: ottiche e metodologie a confronto tuito in seguito alla Legge 56 del 18-02-1989, stabilisce che ”la professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità (…), consente quindi allo psicologo, laureato in psicologia, abilitato all’esercizio della professione mediante esame di stato ed iscritto nell’apposito albo professionale, di effettuare la cosiddetta psicodiagnosi (diagnosi psicologica e psicopatologica)”. Il termine “diagnosi” proviene dal greco “dià” (attraverso) e “gnosis” (conoscenza) ed ha una connotazione prettamente medica; infatti è un procedimento conoscitivo che, attraverso l’individuazione di una serie di segni e sintomi, mira al rilevamento di un determinato quadro patologico, quindi è molto centrato sul rapporto sano/patologico. Specificamente al campo psichiatrico, il tema della diagnosi nasce con la psichiatria moderna, tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900 (POSITIVISMO), in cui i disturbi mentali venivano considerati delle vere e proprie malattie del cervello. Il massimo esponente dell’epoca fu EMIL KRAEPELIN (1855-1826), cui si deve la nascita della PSICHIATRIA DESCRITTIVA, secondo cui le patologie mentali si riferivano a complessi di sintomi, o sindromi, da cui era possibile risalire alle cause; per es. sotto il nome di DEMENTIA PRAECOX venivano raggruppati tutti i sintomi schizofrenici (Kraepelin, 1896). Un altro grande esponente della psichiatria dell’epoca fu EUGEN BLEULER (18571939), il quale continuò gli studi di Kraepelin sulla schizofrenia, dandone un’altra impostazione, che mirava ad uscire dalla sistematizzazione descrittiva per entrare in un’ottica più “dinamica”, in cui la patologia veniva considerata più nella modalità del “cosa succede”; Bleuler parlava degli schizofrenici come di persone che “provano emozioni forti”, oltre alla confusione mentale e alla perdita di connessioni logiche del cervello. Come possiamo notare, la psicoanalisi, madre di tutti gli approcci psicoterapeutici, muove i suoi primi passi su questo terreno; FREUD (1856-1939) è contemporaneo ai suoi illustri colleghi e ne è chiaramente influenzato. Troviamo in lui, inizialmente, il tentativo di rappresentare l’apparato psichico in termini meccanici, energetici, quantistici, così come l’esigenza scientifica/positivista del tempo richiedeva (INCONSCIO-PRECONSCIO-CONSCIO); il passo successivo lo porterà ad una descrizione più dinamica (ES-IO-SUPER-IO), che mira a relazionare le istanze della persona, quindi bisogni, desideri, istinti, con ciò che guida il comportamento, in virtù di regole personali e sociali. Notiamo già in questi albori come, in campo psicodiagnostico, possiamo collocarci in due ambiti che mostrano differenze abbastanza sostanziali riguardo alla visione del paziente e alla sua sintomatologia, nonché alle possibilità di intervento e di ripresa del suo funzionamento psicofisico: mm da un lato la DIAGNOSI PSICHIATRICA, kraepeliniana, alla quale fa riferimento ancora oggi la psichiatria contemporanea e la cui massima espressione si ha con la stesura del DSM III prima e successivamente del DSM IV e revisioni successive (attualmente è in via di ultimazione la V edizione). Essa è ateoretica, descrittiva, categoriale; non dà indicazioni sul trattamento e mira essenzialmente alla rilevazione dei sintomi e all’individuazione di un determinato disturbo, inserendolo eventualmente in un determinato contesto socio-culturale; mm dall’altro la DIAGNOSI PSICOLOGICA, che mira a superare la distinzione netta tra malato e patologico, evidenziando le parti sane e le risorse del soggetto in questione. È 52 Diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica: ottiche e metodologie a confronto meno categoriale e l’obiettivo è quello di studiare il funzionamento psichico di un soggetto, tenendo presenti una serie di fattori che mostrano flessibilità. È sensibile ai cambiamenti cui va incontro il soggetto e funzionale alla comprensione del “senso soggettivo”, pur mantenendo la sua stabilità e la sua attendibilità. È multidimensionale, ossia tiene conto di molteplici dimensioni psichiche, consce e inconsce, esplicite e implicite, sane e patologiche del soggetto. Inoltre è connessa alla formulazione del caso e all’elaborazione di un piano di trattamento. Gli strumenti della diagnosi psicologica Scrive Freud in “Introduzione alla psicoanalisi” (1915-1917): “Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche, come espressione di tendenze orientate verso un fine che operano insieme o l’una contro l’altra. Ciò che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei fenomeni psichici” (in Nancy McWilliams, 1999). A tal proposito sottolineo come, mentre in medicina per addivenire ad una buona diagnosi ci si avvale di tutta una serie di strumenti clinici che rendono il sintomo facilmente oggettivabile e condivisibile (un’analisi del sangue dà risultati che sono “scritti”, “visibili”, “reali”), in campo psicodiagnostico la situazione è più complessa, in quanto la diagnosi dipende da fattori che variano e che sono ascrivibili sia al soggetto esaminato che a variabili esterne, prima fra tutte la personalità dell’esaminatore. Determinante ai fini di una buona diagnosi è l’anamnesi (termine anch’esso di matrice medica), ovvero “… la raccolta, dalla voce diretta del paziente e/o dei suoi familiari (per esempio i genitori nel caso di un lattante o di un bambino), di tutte quelle informazioni, notizie e sensazioni che possono aiutare il medico a indirizzarsi verso una diagnosi. Insieme all’esame obiettivo del malato, è di fondamentale ausilio nella formulazione della diagnosi, poiché ricostruisce le modalità di insorgenza e il decorso della patologia in atto, investigando inoltre sulle possibili inclinazioni genetiche (predisposizione alle malattie genetiche) del gruppo familiare verso l’insorgenza di determinati tipi di malattie (anamnesi familiare). In questo senso è anche utilizzata per l’avvio di programmi di sorveglianza per i soggetti a rischio. È noto tra i medici il detto: Anamnesi, mezza diagnosi” (tratto da wikipedia, l’enciclopedia libera, sotto la voce Anamnesi). Senza dubbio, in un’ottica psichiatrica e soprattutto in un’ottica psicologica, il colloquio clinico è lo strumento elettivo per trarre informazioni finalizzate alla formulazione di una buona diagnosi e utilizzabili in senso operativo. Oltre al colloquio, nel campo psicodiagnostico l’uso dei test psicologici (cognitivi, grafici, proiettivi, di personalità) avvalora ancora di più l’obiettività della diagnosi; inoltre il test è uno strumento che può essere utilizzato come monitorante le fasi d’avvio del lavoro clinico, così come quelle intermedie e quelle successive alla chiusura (follow-up). Chiaramente l’uso dei test pone come condizione necessaria che gli operatori acquisiscano, oltre alle competenze tecniche e strumentali, delle competenze relazionali; i test non vanno mai somministrati in maniera fredda e distaccata, ma nell’ambito di un costrutto di alleanza terapeutica in cui fungono da strumento relazionale e non solamente formale. Allo stesso modo la restituzione del risultato va sempre contestualizzata e riferita alle caratteristiche di quel “particolare paziente”, in quella “particolare relazione”. 53 Diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica: ottiche e metodologie a confronto Questo atteggiamento clinico, in cui viene definitivamente bandita la “neutralità” dell’operatore, ha portato notevoli modifiche nel rapporto con il paziente; di conseguenza la diagnosi psichiatrica e quella psicologica, pur avendo degli aspetti in comune, mostrano delle sostanziali differenze, che il pensiero di Gabbard (1999) può aiutarci a comprendere: mm Un colloquio psichiatrico classico mira principalmente al rilevamento di una relazione diretta tra i sintomi e le cause, senza soffermarsi troppo su come ciò si verifichi, quindi senza badare troppo alle variabili processuali. mm La diagnosi precede sempre la terapia; viceversa in un’ottica psicodinamica non c’è distinzione tra diagnosi e terapia, in quanto queste sono reciprocamente legate e influenzate. mm L’atteggiamento del paziente è tendenzialmente passivo; la posizione dinamica invece considera il paziente artefice del proprio destino e del proprio ruolo nella relazione terapeutica, ovvero di collaboratore. mm La tendenza classica è di andare alla ricerca di quei sintomi che possano inserire il paziente in una specifica categoria diagnostica, per cui la raccolta delle informazioni diviene mirata e limitata; viceversa in un’ottica psicodinamica la fonte delle informazioni proveniente dal paziente è un continuo e inesauribile insieme di dati da utilizzare nel processo terapeutico. mm Infine, mentre nell’orientamento classico il medico tende a rimuovere i suoi vissuti personali, che possono emergere nella relazione, in un’ottica psicodinamica questi sono utilizzabili ai fini diagnostici e terapeutici (utilizzo del transfert e controtransfert). Senza ombra di dubbio la posizione di Gabbard si orienta verso una visione operatore paziente “in movimento”, in cui l’immobilità delle posizioni è bandita dalla relazione che assume, altresì, un valore diagnostico e terapeutico. Visione critica e prospettive In conclusione, possiamo evincere che, quando ci troviamo di fronte a quelle manifestazioni umane che hanno una caratterizzazione prevalentemente psichica, quali possono essere attitudini comportamentali, motivazioni, desideri, emozioni, affetti, ci imbattiamo in una serie di variabili la cui rilevazione è molto più complessa di una qualsiasi manifestazione fisiologica, inerente al funzionamento organico. Se il fegato svolge la sua funzione in un determinato modo, e ciò è uguale per tutti, la psiche ha sfaccettature uniche per ogni individuo. Ciò pone innanzitutto la questione del come stabilire una “normalità” e una “anormalità” di riferimento, al fine di poter inserire un soggetto in una condizione di disagio o di patologia o, viceversa, di assenza di segnali di allarme. La psicoanalisi, e le psicoterapie in generale, in qualche maniera hanno dato una risposta a questo quesito, parlando di un continuum tra sano e patologico; la situazione è più complessa per tutti quei casi in cui la gravità delle manifestazioni affonda le sue radici necessariamente in una patologia. Io personalmente credo che sia possibile definire una “anormalità” del funzionamento psichico, e quindi una “normalità”, dipendenti da variabili personali, biologiche, familiari, sociali, etiche, esistenziali; credo che il “matto” esista e che alcune patologie debbano essere affrontate con molta competenza e utilizzando tutti gli strumenti provenienti dai vari ambiti disciplinari. In alcuni casi di schizofrenia, personalità borderline, disturbi gravi dell’umore, forse dobbiamo porci come obiettivo più il contenimento e il riadattamento della persona, 54 Diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica: ottiche e metodologie a confronto al fine di garantirle un’opportunità di vita il più possibile decorosa, piuttosto che un risanamento completo e una definitiva remissione dei sintomi. Ritengo che, in questi casi, la diagnosi sia fondamentale, anche e soprattutto per non creare false illusioni nel soggetto e nei familiari; e che sia fondamentale per gli operatori, in quanto mettersi nella posizione del “io ti salverò” è pericoloso e improduttivo. È auspicabile che la diagnosi venga fatta in maniera congiunta e in equipe, quindi medici psichiatri e psicologi psicoterapeuti devono unire al massimo le loro forze per un lavoro produttivo e realistico. È necessario superare alcune posizioni di antagonismo e di sfida che ancora resistono tra professionisti medici e psicologi, in cui, soprattutto in campo istituzionale e anche nell’immaginario collettivo (purtroppo!), il medico viene vissuto come l’esperto e lo psicologo come una figura complementare, aggiuntiva. In realtà la complementarietà c’è e va intesa nella peculiarità degli interventi e nell’unione degli stessi, in modo da istituire una forza unica efficace ed efficiente. Sono favorevole alle diagnosi psichiatriche classiche, quelle descrittive e categoriali, anzi talvolta le ritengo facilitanti il lavoro terapeutico, oltre che capaci di mettere ordine in situazioni di caos. Nello stesso tempo, questo tipo di diagnosi non è sufficiente se è semplicemente fine a se stessa; infatti l’obiettivo non è quello di restringere il campo per semplificare il lavoro, bensì per evidenziarne la complessità e, se la diagnosi categoriale ci può aiutare, ben venga. Al contempo è importante metterci sempre nella posizione del “significato” del sintomo, del suo messaggio sottinteso, cioè in una prospettiva di metacomunicazione. Mi riferisco all’importanza della visione dinamica della sintomatologia, sia in senso intrapsichico che in relazione all’altro, quindi in un gioco delle parti. Io sono fermamente convinta che il disagio umano, in tutte le sue manifestazioni, possa essere affrontato in modo incrociato, sia a livello medico che psicologico, in particolare per le patologie in cui è evidente una maggiore invasività della sintomatologia e una maggiore destrutturazione della personalità. Il mio auspicio è che noi psicologi e psicoterapeuti non ricadiamo in posizioni di antagonismo e di sfida nei confronti dei nostri colleghi medici e psichiatri, così come, soprattutto nel passato, si tendeva ad attribuire credito e potere a certi professionisti piuttosto che ad altri, assegnando alla psicologia un ruolo marginale. Nella mia esperienza clinica e professionale, ho riscontrato che alcuni colleghi sono convinti che le malattie psichiche gravi si possano affrontare e curare con i soli strumenti psicologici, così come alcuni medici, purtroppo sempre più quelli di base, adottano misure farmacologiche per disagi di chiara competenza psicologica, come ansia generalizzata, insoddisfazioni personali, inflessioni dell’umore, paure, ecc. In alcuni di questi casi è evidente l’ostinazione, talora non pienamente consapevole, di voler permanere in posizioni di idealizzazione narcisista, assolutamente deleteria per chi si affida a noi, confidando nelle nostre competenze e nella nostra buona fede. Credo che una buona formazione, sia tecnica che psicologica, possa garantire il superamento di queste rigidità, al fine di non giungere mai a sfiorare l’abuso delle competenze e del potere. Non dobbiamo mai dimenticare che il nostro obiettivo primario è il bene della persona e quindi la ricerca della misura di intervento più idonea alla sua realizzazione. 55 Diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica: ottiche e metodologie a confronto Bibliografia H. E. Ackerknecht (1957), Breve storia della psichiatria, Massari, Bolsena (VT). American Psychiatric Association (1996), DSM –IV Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano. Bleuler E. (1967), Trattato di psichiatria, Feltrinelli, Milano. Campanella V., Fiori M., Santoriello D. (2003), Disturbi mentali gravi, Sovera Multimedia, Roma. Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di) (2009), La diagnosi in psicologia clinica, Raffaello Cortina, Milano. Freud S., (1969), Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri. Gabbard G. O. (1992), Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano. Giberti F., Rossi R. (1983), Manuale di psichiatria III edizione, Piccin Nuova Libraria s.p. a., Padova. Giusti E., Montanari C., Iannazzo A. (2000), Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti con interventi a breve, medio e lungo termine, Masson, Milano. Jones E. (1977), Vita e opere di Freud, I Garzanti Argomenti, Milano. Kraepelin, E. (1901), Introduzione alla clinica psichiatrica, S.E.L., Milano, 1905. Kraepelin, E. (1904), Trattato di psichiatria (trad. italiana G. Guidi e A. Tamburini sulla VII ed. tedesca), Vallardi, Milano, 1907. Persons J. B., Davidson J., Tompkins M. A. (2002), Depressione. Terapia cognitivo-comportamentale, Sovera Multimedia, Roma. McWilliams N. (1999), La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma. Spalletta E. (2010), Personalità sane e disturbate, Sovera Multimedia, Roma. Sullivan H. S. (1967), Il colloquio psichiatrico, Feltrinelli, Milano. 56 Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico 5 di Catiuscia Settembri Catiuscia Settembri, Psicologa, psicoterapeuta, mediatore familiare. È docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia di Comunità e Psicoterapia Umanistica Integrata di Roma, autorizzata con Decreto Ministeriale. Collabora con l’Associazione ASPIC Scuola Superiore Europea di Counseling, sede di Teramo. Svolge attività psicoterapeutica nell’area privata, si occupa di counseling scolastico e conduce corsi di formazione sulla comunicazione e sulle abilità relazionali in ambito pubblico e privato. Abstract L’idea di trattare gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico nasce dalla considerazione di voler dare particolare rilevanza alla persona nella sua totalità ed unicità, e non considerarla solo come colui/ei che è portatrice di un sintomo, non come un qualcosa da etichettare. Da qui sono scaturite le successive riflessioni sugli elementi epistemologici ed esistenziali nonché antropologici, culturali, filosofici, deontologici che interagiscono nel momento dell’incontro tra professionista e paziente. Particolare attenzione è stata data all’accoglienza, al processo empatico, all’alleanza, agli aspetti transferali e reali, alla comunicazione, al qui ed ora dell’esperienza immediata, alla deontologia professionale. Elementi questi fondamentali per la riuscita di una co-costruzione di una diagnosi che deve qualificarsi come un con-sapere che è premessa al con-sentire dell’altro al trattamento. Keywords: Relazione – Empatia – Accoglienza – Alleanza – Persona – Processo Il processo psicodiagnostico è un percorso conoscitivo-valutativo che conduce alla formulazione di un’ipotesi diagnostica, fondamentale per l’elaborazione del piano di trattamento. Il percorso psicodiagnostico è necessariamente multidimensionale perché con esso ci si appresta a conoscere nel miglior modo possibile il funzionamento psichico di una persona mediante le dimensioni consce e inconsce, sane e patologiche, evidenti e non. Si evince che l’attenzione non è rivolta solo al sintomo, bensì all’intera personalità del soggetto, al suo 57 Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico funzionamento, ai suoi punti di forza e di debolezza. Generalmente tale processo si articola in diverse fasi: Colloquio clinico: la persona parla liberamente delle proprie difficoltà e delle aspettative rispetto alla consultazione. Il clinico accoglie incondizionatamente ed utilizza un ascolto attivo empatico per comprendere la persona nel suo complesso. Raccolta dei dati bio-psico-sociali: il clinico raccoglie tutte le informazioni utili alla comprensione dell’altro per avere una cornice in cui collocare le difficoltà della persona. Somministrazione di test: si somministrano i test in base alle esigenze diagnostiche. Restituzione: si comunica al soggetto quanto emerso, e può formularsi una proposta di trattamento da svolgersi o con lo stesso clinico che ha proceduto alla valutazione o con altro professionista. Bene precisare cosa significa la parola Psicodiagnosi. Essa è composta da due termini (Guerra, 2009): Psico dal greco “psiche” che indica, in senso traslato, Anima; Diagnosi dal greco conoscenza (gnosis) per mezzo di (dia), cioè la conoscenza ottenuta attraverso uno strumento che in ambito clinico si rivela essere l’osservazione e lo studio di segni e/o sintomi. Per cui (Guerra, 2009, p. 1) “la psicodiagnosi è la disciplina volta alla conoscenza dell’anima, ossia è l’attività tesa a valutare, descrivere e comprendere le caratteristiche più profonde dei vari aspetti che compongono e definiscono la personalità di un individuo allo scopo di pervenire ad una diagnosi (ossia conoscenza) attraverso il succedersi, ragionato e plausibile, della formulazione di ipotesi diagnostiche. Essenzialmente tesa a definire i comportamenti abituali del soggetto, ad individuare la presenza o meno di disturbi della sfera affettiva e cognitiva. Per pervenire a tale conoscenza si avvale di mezzi, strumenti precipui, atti a raccogliere quante più informazioni (dati) possibili, quali: colloquio clinico, interviste, questionari, valutazioni osservative, esami neuropsicologici, test”. Il significato epistemologico della parola psicodiagnosi conduce a riflessioni profonde sulla persona che non è solo colei/ui che porta un sintomo, non è un qualcosa da etichettare, bensì è una persona dotata di un’anima da scoprire e accogliere nella sua unicità. È proprio qui che l’incontro tra professionista e richiedente assume una valenza ricca di significati che prende forma nella compatibilità delle due personalità coinvolte. Ed ecco che il processo psicodiagnostico diventa un co-cammino che non deve coincidere né esaurirsi con l’inquadramento della persona all’interno di una casella nosografica. La diagnosi non è una etichetta che si appone alla persona, bensì una descrizione dinamica di una modalità di funzionamento, sempre passibile di cambiamento nel tempo. L’uso degli strumenti psicodiagnostici spesso costituisce un momento importante nella fase di avvio del lavoro clinico per avere una cornice di significato oppure può avere un ruolo funzionale in itinere o come follow-up dopo la chiusura di un trattamento. Il processo psicodiagnostico è fortemente interdipendente con gli aspetti relazionali in cui sono coinvolti uno psicologo professionista, deputato a valutare e una persona ‘oggetto’ di valutazione. L’aspetto relazionale della situazione di valutazione avviene all’interno di un setting strutturato e protetto. Diversi sono gli strumenti che possono essere utilizzati all’interno del processo clinico: il colloquio psicodiagnostico, il colloquio di restituzione, l’osservazione, l’intervista, il questionario, test psicologici o reattivi psicodiagnostici, test di livello, test di sviluppo, test di personalità, tecniche proiettive, tecniche obiettive, test neuropsicologici. Aldilà delle competenze tecniche che il clinico deve avere rispetto ai vari strumenti, è indispensabile avere piena consapevolezza delle dinamiche relazionali che possono insorgere sia nel paziente (es.: acquiescenza vs ribellione, timore di essere giudicato) che nel professionista (es.: ansia da prestazione vs onnipotenza) e possederne una buona padronanza. Per cui il professionista deve essere capace di costruire una buona alleanza 58 Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico mediante l’accoglienza della soggettività altrui, la presentazione del lavoro che si andrà a svolgere insieme, la chiarezza degli obiettivi e soprattutto l’esplicitazione che il processo psicodiagnostico non ha valenza giudicante, ma ha una funzione di valutazione globale del funzionamento della persona nel rispetto della stessa. Lain Entralgo, (Russo, 2006) uno dei maggiori esponenti della medicina umanistica spagnola, sostiene che nella complessità del processo diagnostico divengono fondamentali tre aspetti importanti: l’atteggiamento della persona nei confronti del professionista che, se basato sulla fiducia, diviene esso stesso curativo; il vissuto che il paziente ha verso il sintomo che influenza inevitabilmente il quadro sintomatico fornito allo psicologo; la co-partecipazione della persona alla co-costruzione della diagnosi. Quest’ultima deve qualificarsi come un con-sapere che è premessa al con-sentire dell’altro al trattamento. Fondamentale risulta essere l’atteggiamento di profondo rispetto verso la persona e il suo vissuto di sofferenza. A prescindere dagli ambiti di applicazione (clinico/psicopatologico, educativo, orientamento e selezione, giuridico, di ricerca clinica) la scelta dello strumento deve essere fatta sulla base delle esigenze diagnostiche e non sulle conoscenze del clinico. Un buon professionista deve valutare l’opportunità o meno di intraprendere un percorso psicodiagnostico o somministrare un test in considerazione del rispetto dei bisogni della persona che vuole essere valutata. Lo scopo della diagnosi è quello di facilitare la comprensione dei comportamenti e della personalità di un individuo con finalità diverse a seconda dell’ambito applicativo. Cosa accade quando si incontrano professionista e paziente? La fenomenologia e l’esistenzialismo pongono al centro della loro attenzione l’esperienza immediata, Yalom (1980) sostiene che: “l’analisi deve avvicinare il paziente fenomenologicamente; cioè deve entrare nel mondo esperienziale del paziente ed ascoltare i fenomeni di quel mondo senza presupposizioni che distorcano la comprensione. Fenomenologico, perciò, il compito principale del terapeuta: comprendere più pienamente possibile la realtà del cliente, come egli sperimenta il suo sé, gli altri, il mondo naturale, il significato che la vita ha per lui. Questa comprensione comporta un alto livello di empatia da parte del professionista” (Giusti, Iannazzo, 1998, p. 36). Per Rogers (1959) l’empatia è “percepire la cornice interna di riferimento dell’altra persona con accuratezza, con la componente emozionale e con i significati che le appartengono, e per di più come se uno fosse l’altra persona” (Giusti, Iannazzo, 1998, p. 139). L’empatia è fondamentale per sostenere il paziente nella costruzione dell’alleanza terapeutica, determinante per la riuscita del trattamento. L’empatia è il risultato del processo interattivo e reciproco tra professionista e paziente. Essa ci permette di entrare nel mondo dell’altro per sentire e capire pur rimanendo nella nostra individualità. Un andare verso per incontrare l’alter ego, per fluire con i significati del vissuto dell’altro senza tuttavia sconfinare nell’identificazione totale. A tal proposito E. Cugini dice: ”Ovviamente, per poter fare ciò, è necessario che i nostri confini dell’Io siano allo stesso tempo saldi ed elastici, definiti e permeabili, acciocché l’entrata dell’altro in noi sia attuabile, ma non disorientante e destabilizzante per la nostra identità” (Giusti, Iannazzo, 1998, p. 140) . Pertanto, se vogliamo comprendere l’altro, è fondamentale il processo empatico. Quest’ultimo ci permette di esserci nel continuo dinamismo di due persone in relazione, momento per momento, negli aspetti emotivi, cognitivi ed intuitivi. Il modello fenomenologico esistenziale attribuisce alla relazione cliente-professionista importanza fondamentale perché è attraverso di essa che si possono costruire i presupposti per la riuscita del trattamento. La relazione vissuta nel qui ed ora è portatrice dei vissuti 59 Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico espressi dal cliente nel mondo reale. Questo comporta che anche il professionista deve mettere in gioco se stesso in un saper essere oltre che saper fare. Quindi risulta fondamentale e determinante la capacità del professionista di creare un’alleanza diagnostica con il paziente poiché anche il test più obiettivo risente della soggettività delle parti coinvolte con i rispettivi ruoli. L’alleanza è basilare e curativa nel processo, essa si costruisce all’interno di un setting mediante un contratto tra professionista e paziente, l’esplicitazione dell’obiettivo da raggiungere insieme, l’assunzione dei ruoli e delle responsabilità di entrambi. L’alleanza è basilare per l’efficacia del trattamento. Gli aspetti relazionali intrinseci sono correlati sia ai processi transferali che reali tra professionista e paziente. Attraverso il transfert il paziente trasferisce sul terapeuta i propri contenuti emotivi passati e presenti mentre il controtransfert è l’insieme delle risposte del terapeuta durante il percorso relazionale. Sia il paziente che lo psicologo sono portatori di un proprio sé ed ognuno di loro porta una storia unica ed irripetibile per cui è inevitabile che il passato condizioni entrambi nella relazione presente. Nel processo transferale si manifestano sia gli aspetti consci che quelli inconsci ed il professionista deve essere in grado di lavorarci a seconda del momento e delle esigenze: “sia lavorando su di esso con un modello interpretativo (stile psicoanalitico); sia elaborando nella relazione presente, tra due persone adulte (modello gestaltico)” (Giusti, Iannazzo, 1998, p. 142). La proiezione è il meccanismo che alimenta ogni transfert e che si verifica nel qui ed ora della ripresentazione di antiche modalità affettiverelazionali. Una buona relazione dà al paziente una base sicura e protetta sulla quale sperimentare nuove modalità comportamentali e abbandonare quelle vecchie e disfunzionali. La relazione di fiducia è necessaria per raggiungere l’insight sugli aspetti transferali e realistici del rapporto stesso e determinare un cambiamento comportamentale adattivo. In definitiva l’alleanza è una relazione di collaborazione fondata sulla fiducia reciproca, sul legame affettivo e sull’impegno a voler raggiungere gli obiettivi condivisi. Gli elementi centrali della relazione risultano essere l’alleanza operativa, la relazione reale e il transfert. Nel percorso psicodiagnostico i tempi posso essere più brevi rispetto a quello psicoterapeutico se la richiesta del paziente si riferisce ad una valutazione specifica di qualche tratto della sua persona. In tal caso è necessario uno sforzo maggiore del professionista nel focalizzare il suo intervento sulla difficoltà riportata dal paziente. A causa del tempo limitato, è richiesta un’alleanza operativa più immediata ed un livello di attività maggiore. A tal punto rivestono un ruolo prioritario le capacità relazionali dello psicologo che deve comunicare calore, rispetto e interesse, esplicitare chiaramente i compiti e gli obiettivi del trattamento, stabilire e mantenere un focus diagnostico e comunicare i tempi del percorso e la conclusione. Intraprendere un percorso valutativo all’interno di un contesto clinico è fondamentale per capire cosa può essere utile al paziente per far fronte ad una determinata situazione lo psicologo deve avere la capacità rassicurante di trasmettere il giusto significato del cammino che si sta intraprendendo. La somministrazione di un test non può mai essere emotivamente neutrale. Essa è sempre accompagnata da vissuti personali, da fantasie e aspettative ed è bene parlarne sia prima che dopo la somministrazione. Un accorgimento ulteriore va utilizzato nella scelta dello strumento da somministrare e nella restituzione di quanto emerge dalla valutazione. La restituzione va condivisa con cautela sottolineando anche gli aspetti positivi e ciò che è preservato, conservando in tal modo la possibilità di migliorarsi anche in presenza di casi gravi. Nel momento della restituzione viene esplicitato chiaramente il ruolo che rivestono le componenti adattive e disadattive nel mantenere una sofferenza o nel preservare lo status di 60 Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico salute. Una corretta comunicazione della diagnosi non può prescindere da una riflessione teorica sulla speranza. Entralgo scrive: “Non si somministrerebbe alcuna cura senza speranza di guarigione o, perlomeno, di miglioramento, d’altra parte, non ci sottoporrebbe ad alcuna terapia senza attendersi da essa qualche risultato efficace; infine, se anche nessuna guarigione fosse possibile, è necessario che tanto chi cura come chi è curato alimentino una speranza ulteriore che li sostenga” (Russo, 2006, p. 251). Occorre grande sensibilità e flessibilità nella comunicazione della valutazione effettuata tenendo presente che nessuno strumento diagnostico è possessore di una verità assoluta. Inoltre i dati emersi vanno sempre letti in maniera integrata con quanto emerso dai colloqui. Negli aspetti relazionali del processo diagnostico assume una importanza rilevante l’utilizzo di una corretta comunicazione, vediamone le caratteristiche salienti. Anolli definisce la comunicazione (in quanto atto comunicativo) come “uno scambio interattivo osservabile fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento” (Anolli, 2006, p. 37). Mettere in evidenza la natura relazionale della comunicazione significa sottolineare la sua rilevanza essenziale nella costituzione e prosecuzione dei giochi psicologici che i protagonisti intendono realizzare in modo congiunto. Sotto questo aspetto la comunicazione è partecipazione in quanto sottende la condivisione dei significati e dei sistemi di segnalazione, nonché l’accordo sulle regole sottese a ogni scambio comunicativo. Il processo di significazione implicito nell’atto comunicativo è la capacità di generare significati tramite il senso del messaggio e l’accezione per i comunicanti. Questo processo di significazione fa riferimento al referente (gli oggetti e gli eventi su cui comunicare) e a un codice (sistemi impiegati dai soggetti per comunicare tra loro). Ne scaturisce un rapporto intrinseco tra comunicazione e cultura in quanto i sistemi e le modalità di comunicazione sono il risultato di processi convenzionali e sono il prodotto di una elaborazione condivisa da parte dei membri di una data cultura. Ne consegue che comunicare non significa solo trasmettere messaggi, ma entrare nel vivo delle personalità coinvolte nella relazione, le quali sono portatrici di un bagaglio di riferimento culturale, antropologico, etico, storico che necessita una condivisione esplicita e chiara dei significati psicologici di riferimento. Luigi Anolli scrive: “La comunicazione è la dimensione psicologica che produce e sostiene la definizione di sé e dell’altro. In maniera più o meno esplicita, in ogni atto comunicativo ciascuno di noi è come se dicesse: Ecco come sono. Ecco come mi vedo. Ecco come mi presento; e contemporaneamente: Ecco come ti vedo. Ecco come tu sei secondo me; e ancora: Ecco che tipo di relazione ci lega. Questa comunicazione di sé e della relazione attraverso la comunicazione è continua ed è reciproca fra gli interlocutori” (Anolli, 2006, p. 34). La comunicazione si basa su processi più o meno lunghi e complessi di condivisione e negoziazione tra soggetti. Attraverso di essa si crea e si definisce la relazione. L’efficacia relazionale della comunicazione dipende dall’interconnessione esistente tra interazione e relazione. L’interazione è uno scambio comportamentale osservabile tra partecipanti e circoscritto in un tempo e in uno spazio tangibile. Lo scambio continuo e regolare di una stessa interazione produce nel tempo prevedibilità e come effetto crea un modello interattivo tra i partner agenti che prende il nome di relazione, la quale rappresenta un modello inviolabile 61 Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico del modo in cui sono percepite e interpretate le interazioni in essere. Ne consegue che l’interazione e la relazione sono in un rapporto interdipendente in quanto ogni singola interazione può convalidare, cambiare o negare una certa relazione e a sua volta quest’ultima nel generare legami, aspettative e regole può influenzare l’interazione in corso determinandone una certa direzione piuttosto che un’altra. Pertanto la funzione relazionale della comunicazione sta nel generare e definire la relazione stessa mediante una continua negoziazione dei significati e una condivisione degli scopi. Grasso e Salvatore (1997) ritengono che “(…) la valutazione del disagio psicologico non può cioè prescindere da un’analisi della situazione relazionale in cui esso tende a riprodursi (…). Tutte le azioni ‘professionali’ dello psicologo (…) non acquistano compiutamente significato e spessore psicologico se non sono in qualche modo inserite in un’esplorazione e ridefinizione continua delle modalità di rapporto e comunicazione tra utente e psicologo (…)”. Debora Guerra scrive: “il processo diagnostico perché sia eticamente corretto e i risultati emersi si avvicinino quanto più possibile a una visione veritiera della persona oggetto di valutazione dovrebbe realizzarsi in accordo con i seguenti criteri. Rispetto della persona sottoposta a valutazione: qui intesa sia come rispetto della sua privacy, della sua “posizione” psicologica rispetto alla situazione, sia come rispetto del suo diritto di poter essere valutato nella forma e nel modo migliore (competenza tecnica e relazione del clinico). Rispetto della psicodiagnosi: alla quale occorre approcciarsi con cognizione di causa e senza improvvisazioni. Rispetto dell’eventuale inviante: il quale ha diritto ad un lavoro ben fatto, se la nostra preparazione ce lo consente possiamo accogliere la richiesta, diversamente dobbiamo comunicare i nostri limiti e provvedere a fornire nominativi di colleghi più esperti e preparati di noi, ai quali magari possiamo affiancarci ed arricchire il nostro bagaglio conoscitivo e formativo. Rispetto degli strumenti diagnostici: ciascuno strumento è frutto di lunghi anni di studio e di lavoro e saranno tanto più in grado di fornirci informazioni utili quanto più noi sappiamo di esso. Riguardo ai test è buona prassi studiare e consultare il manuale più volte attenendoci fedelmente alle modalità di somministrazione e di scoring in esso riportate. Il principio alla base di questo criterio è sostanzialmente riassumibile in un uso responsabile del test” (Guerra, 2009, p. 9). Gli psicologici sono tenuti a rispettare gli obblighi etici codificati nei Principi stessi della professione in cui si richiede competenza, assunzione di responsabilità, onestà, rispetto verso i colleghi, consapevolezza degli standard morali e giuridici della comunità di appartenenza. Alla base di tutto ciò c’è l’obbligo generale di promuovere il benessere umano, tematica questa che rientra nell’ambito giuridico dei Diritti Civili. La promozione del benessere porta inevitabilmente ad estendere l’attenzione dalla sofferenza alla persona in tutto il suo essere. La persona nella sua totalità ad essere il centro del trattamento e non il singolo sintomo. A tal punto l’intervento diagnostico si configura come un’azione integrata di saperi non solo tecnici e professionali ma anche etico-antropologici-filosofici. La riflessione etico-antropologica come orizzonte d’integrazione per comprendere al meglio i significati e i comportamenti dell’essere umano, la spiegazione e la comprensione sono in un rapporto dialettico di implicazione reciproca. Credo che sia fondamentale da parte del clinico non imprigionare l’incontro con l’altro in forme ristrette e categorizzanti di conoscenza, al fine di co-costruire una conoscenza della persona in base al modo in cui essa stessa attribuisce i significati agli eventi e non in base al proprio. A volte il camice da clinico e la possibilità di avere uno strumento diagnostico in mano può far attribuire un potere giudicante tale da condizionare in modo incisivo i vissuti personali dell’altro il quale a sua volta attribuisce al clinico il valore aggiunto di colui che 62 Gli aspetti relazionali del processo psicodiagnostico possiede la verità assoluta. Questo incontro di atteggiamenti, proiezioni e vissuti di entrambi può stimolare e rinforzare delle credenze legate alla salute e alla patologia, direzionandone il decorso da una parte piuttosto che dall’altra. In altre parole l’attribuzione clinica di “etichette” o “giudizi” alla persona può renderla ciò che il clinico vede e crede contaminando in tal modo l’essere della persona. Per cui credo che sia indispensabile avere nel bagaglio tecnico-professionale del clinico, oltre a delle competenze specifiche, una buona dose di umiltà, rispetto, sensibilità e cautela per poter in-contrare l’altro in una relazione autentica. Bibliografia Anolli L. (2006), Fondamenti della psicologia della comunicazione, Il Mulino, Bologna. Castonguay L.G., Hill C.E. (2008), L’insight in psicoterapia, Sovera, Roma. Giusti E., Iannazzo A. (1998), Fenomenologia e Integrazione Pluralistica, Edizioni Universitarie Romane, Roma. Grasso M., Salvatore S. (1997), Pensiero e decisionalità: contributo alla critica della prospettiva individualistica in psicologia, Franco Angeli, Milano. Greenberg L.S., Watson J.C., Lietaer G. (2000), Manuale di psicoterapia esperienziale integrata, Sovera, Roma. Guerra D. (2009), Introduzione alla Psicodiagnosi, rivista Psico-Pratika, n.47, 1, 2, 9. Russo M.T. (2006), La ferita di Chirone, V&P, Milano. 63 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica a distanza 6 di Maura Locatelli Maura Locatelli, psicologa psicoterapeuta, gestisce insieme ad Antonio Iannazzo il servizio di supervisione a distanza www.aspicsupervisione.it, autrice con Edoardo Giusti del libro: L’empatia integrata (Ed. Sovera Roma, 2007). Abstract L’articolo mostra una panoramica delle ricerche relative alla psicoterapia online, le diverse opinioni rispetto all’utilizzo di questa forma di terapia e la proposta di utilizzo di strumenti di monitoraggio della relazione on line al fine di introdurre delle procedure di efficacia e di qualità. Keywords psicoterapia e Counseling online – feedback – alleanza terapeutica. Stato dell’arte e panorama storico “La psicoterapia è alla base un rapporto umano. Anche quando viene effettuata a distanza o via computer, la psicoterapia è inevitabilmente un incontro umano...Alcuni riterranno quella relazione come una condizione indispensabile per un processo di cambiamento, ma tutti sono d’accordo sul fatto che è un’impresa relazionale…il modo in cui creiamo e coltiviamo quella potente relazione umana può essere guidato dai frutti della ricerca. Come Carl Rogers (1980) ha dimostrato in modo irrefutabile, non c’è tensione intrinseca tra un approccio relazionale e uno scientifico” (p. 225 Norcross e Wampold p. 219, tr. it. 2012 in Norcross J.C.). Volendo perseguire lo spirito e le indicazioni di queste affermazioni di Norcross, obiettivo del nostro lavoro è quello di fornire una sintesi dei dati di ricerca sulla terapia online e sul possibile utilizzo di strumenti di monitoraggio e di feedback che permettano di mantenere viva l’attenzione e la cura del terapeuta alla relazione terapeutica anche e soprattutto quando possiede caratteristiche peculiari e diverse rispetto alla psicoterapia tradizionale. Se infatti, la psicoterapia è tradizionalmente basata su un’interazione faccia a faccia o in altri setting 65 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... che implicano il linguaggio verbale e non verbale senza alcuna mediazione tecnologica, l’emergere delle nuove tecnologie sta modificando questi setting tradizionali. Come indicato da Norcross et. al., (2002): nella transizione tra l’era industriale e l’era dell’informazione è importante che sappiamo riconoscere come questi cambiamenti avranno un impatto nella psicoterapia, gli psicologi e nei loro pazienti e che una crescente percentuale di psicoterapia sarà offerta attraverso il telefono, il videotelefono o le mail”. Gli elementi più rilevanti sono la capacità di regolare: mm i limiti temporali ed il ritmo dell’interazione terapeutica, incluso il suo grado di spontaneità e la “zona di riflessione”; mm quanta parte dell’incontro terapeutico può essere conservata e rivista; mm le componenti visiva, uditiva e testuale dell’interazione, compresi i livelli di anonimato, intimità, disinibizione e transfert che ne risultano, come pure la risultante evidenziazione dei processi cognitivi (testuali) ed emozionali (sensoriali); mm gli aspetti immaginario e fantasmatico dell’incontro terapeutico, compresa la capacità di cogliere le dinamiche inconsce associate con questi aspetti; mm il grado di presenza e di invisibilità umana, compresa la possibilità di automatizzare parte o tutta l’interazione terapeutica. Secondo Jerome e Zailor (2000), qualcosa nel campo clinico sarà modificato dalla presenza delle tecnologie emergenti, così che è “importante studiare l’impatto di questi cambiamenti mentre avvengono, ed è un imperativo che le nuove competenze tecnologiche siano sviluppate dai clinici così come che i clinici integrino queste tecnologie nella loro ricerca e nella loro pratica” (p. 478, cit. da Castelnuovo, 2008, p. 87). La principale domanda che ricorre negli articoli dedicati alla psicoterapia online è se sarà possibile procedere utilizzando solo i mezzi tecnologici senza le tradizionali interazioni faccia a faccia. In merito a questa domanda esistono diverse posizioni teoriche che è possibile riassumere in 5 principali: 1. La psicoterapia può essere svolta on line e l’e-therapy differisce dai trattamenti tradizionali solo per l’utilizzo di un mezzo tecnologico. Secondo questo punto di vista, il metodo, le tecniche e le procedure relative a una particolare teoria, modello o approccio usato in psicoterapia sono preservati e l’unica particolare differenza risiede nel cambiamento di setting, da un setting faccia a faccia ad uno mediato da internet. Day e Schneider (2002) hanno esaminato il livello di alleanza terapeutica in tre diverse condizioni (faccia a faccia, audio e video terapia individuale) e hanno rilevato che le somiglianze tra i tre diversi gruppi sono più forti delle differenze . 2. La psicoterapia potrebbe essere svolta online, ma l’e-therapy differisce dalla terapia tradizionale perché la comunicazione è condizionata da cambiamenti critici. Alcuni setting terapeutici come quelli altamente esperienziali sono strettamente collegati alla relazione faccia a faccia e avrebbero la necessità di essere ridisegnati per essere utilizzati tramite internet (Alleman, 2002). 3. La psicoterapia potrebbe essere effettuata online e l’e-therapy preferibilmente utilizzata con alcuni tipi di pazienti. La postura, il tono vocale, il contatto oculare e altri elementi non verbali che possono dare al terapeuta numerose informazioni possono anche distrarre, intimorire o sopraffare il paziente. Il contatto tramite e-mail ad esempio può essere quello cercato da alcuni clienti; a causa di questo effetto di 66 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... disinibizione se paragonata alla terapia tradizionale potrebbe essere una scelta indicata per il trattamento dei disturbi d’ansia, almeno in una prima parte della terapia, durante la creazione di un’alleanza di lavoro funzionale. Secondo Day e Schneider (2002), i pazienti nell’e-therapy si impegnano di più per comunicare, si prendono più responsabilità per l’interazione che nella terapia tradizionale e si sentono più sicuri per aprirsi e raccontarsi. Bisogna inoltre considerare che diversi tipi di disturbi presentano un estremo disagio proprio al contatto sociale, ad esempio gli agorafobi, chi soffre di fobie sociali o chi ha un disturbo evitante di personalità trovano spesso che la vicinanza con un altro essere umano sia insopportabile, una possibile strategia potrebbe essere quella di utilizzare una comunicazione a distanza fino a che il cliente non si senta sufficientemente a proprio agio all’interno della relazione terapeutica. 4. La psicoterapia è qualcosa di diverso dall’e-therapy e dall’e-counseling. Numerosi autori evidenziano le differenze che esistono tra l’iter strutturato della psicoterapia tradizionale da quello dell’e-therapy. Online è possibile fornire assessment, counseling e suggerimenti per scegliere e per iniziare un trattamento, ma la comunicazione basata su internet non permette una psicoterapia tradizionale individuale, familiare o in gruppo (Grohol 1999). 5. L’e-therapy può sostenere la psicoterapia tradizionale in alcune fasi del trattamento. Per questo tipo di approccio l’e-therapy è soltanto una fase o preliminare (assessment) o finale della terapia, ma i più importanti metodi, procedure e tecniche legate a una particolare teoria, modello o approccio possono essere portati avanti solo in un setting tradizionale. Così l’e-therapy potrebbe essere semplicemente uno strumento popolare e diffuso per avviare le persone alla psicoterapia tradizionale. L’e-therapy rappresenta non una sostituzione della psicoterapia tradizionale né un alternativa al Counseling psicologico: essa fornisce degli strumenti diversi e innovativi che hanno il potere di accrescere l’efficacia della comunicazione all’interno del processo terapeutico (Castelnuovo G., Gaggioli A., Mantovani F., Riva G., 2003, p. 230). L’e-therapy sta espandendo l’attuale opportunità di mercato per la psicoterapia ed il counseling rendendo questi servizi disponibili a tipi di popolazione che attualmente hanno accesso limitato o addirittura inesistente ad essi ad esempio: 1. persone con bisogni particolari, come chi ha handicap di tipo fisico, ad esempio le persone non in grado di camminare o gli anziani; 2. gli agorafobici; 3. le persone che vivono in contesti rurali o difficilmente raggiungibili; 4. le persone ambivalenti nei confronti del trattamento e dei suoi benefici; 5. le persone con importanti vincoli di tempo, managers ed altri professionisti; 6. le persone che si sentono troppo a disagio con lo stress o lo stigma sociale della psicoterapia tradizionale. Inoltre, i costi delle interazioni condotte via telefono, e-mail o chat sono - o dovrebbero essere - molto più accessibili per i pazienti. Uno degli argomenti chiave a favore della terapia online è costituito proprio dall’aumento delle possibilità di accesso che offre a tutti coloro che altrimenti non si sarebbero rivolti ad un servizio di psicoterapia, ad esempio Hand et. al., (2009) riconoscono il potenziale positivo di internet, naturalmente se sono in essere tutte le 67 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... procedure relative alla sicurezza delle informazioni. Come ci si aspetterebbe, le persone che hanno familiarità con l’ambiente online gradiscono maggiormente l’utilizzo dei servizi di counseling online (Liebert et. al., 2006). Dobbiamo dunque essere disponibili come terapeuti a costruire il vestito su misura che il nostro paziente ci chiede, un vestito su misura - non un prêt-à-porter preconfezionato e a taglie rigide - che potrebbe anche essere, se e quando necessario, parzialmente o integralmente via Internet. Breve storia Santhiveeran (2004) data l’utilizzo del computer nella psicoterapia nel 1972 con l’avvento dei bollettini di bordo e i gruppi di supporto online. Il primo servizio organizzato online per l’offerta di aiuto psicologico fu “chiedi allo zio Esdra” un servizio gratuito offerto agli studenti dalla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York, servizio ancora attivo. La società internazionale di salute mentale online fu fondata nel 1990 per promuovere l’utilizzo delle tecnologie online tra i professionisti della salute mentale (Chester, Glass, 2006). Per mettere a punto in modo chiaro e confrontabile le varie questioni dell’utilizzo della terapia online, importante è il lavoro dell’Online Clinical Case Study Group of the International Society for Mental Health Online, Coordinato da Suler e da Michael Fenichel, si tratta di un gruppo interdisciplinare, di specialisti (praticamente tutti i più noti ed attivi nel settore), dedicato a discutere casi di psicoterapia (in senso lato) su Internet, secondo orientamenti di scuola assai eterogenei e non predeterminati. Altro gruppo storico è stato Il Millennium Group, che cominciò a lavorare nell’autunno del 1999, era composto da 16 professionisti della salute mentale: Azy Barak, Peter Chechele, Tom Crain, Michael Fenichel, Betsy Frier Walker, Robert Hsiung, Jim Jarvis, Gayla Novitsky, Pamela Rudat, Gary Stofle, John Suler, Willadene Walker-Schmucker. Sintesi dei Vantaggi e limiti della terapia online Vantaggi Limiti Aumento dell’accessibilità. Necessità di un certo livello socio culturale. Nella comunicazione asincrona mancanza di Offre una soluzione all’affollamento dei serpossibilità di utilizzare la comunicazione non vizi pubblici di salute mentale. verbale. Quando si utilizza l’e-mail, le parole scritte possono essere più efficaci per qualcuno che Tempo di attesa della risposta. può riflettere sui contenuti prima di spedirli. Anonima, conveniente, rispettosa della pri- Diminuzione della capacità di gestire la crisi. vacy nel comfort della propria casa. Le questioni centrali possono essere espresse Difficoltà di verificare le credenziali sia del più liberamente (meno inibizioni). cliente che del terapeuta. Aumento dell’autoriflessività (nella comunicazione asincrona), le comunicazioni del te- Difficoltà di ordine tecnico. rapeuta possono essere rilette nel tempo. 68 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... Il terapeuta può rispondere rispetto a speciRischi relativi alla sicurezza delle informafiche aree di competenza anche se distante zioni. geograficamente. Il cliente si può aspettare che il servizio sia Accessibile ad ogni orario del giorno. libero. Molto adatto ai banani e agli adolescenti. Questioni etiche e legali. Per i clinici permette una più agevole gestio- Mancanza di formazione specifica dei terane del tempo. peuti. Aumenta la flessibilità del servizio. Accessibilità e disponibilità. Tipologie di interventi e prime ricerche In un capitolo del suo libro online (A 5-Dimension Model of Online and ComputerMediated Psychotherapy) recentemente ampliato e revisionato (luglio 2000), John Suler affronta il problema della terapia on-line cercando di fare chiarezza e di proporre sistematicità nelle varie dimensioni (ne differenzia cinque) implicate nello scambio psicoterapeutico online e tentando di individuare vantaggi e svantaggi delle varie posizioni. Distingue pertanto comunicazioni: 1. sincrone (text-driven chat e multimedia chat, internet conferencing) o asincrone (essenzialmente l’e-mail, ma anche i messaggi sui newsgroup, e la fruizione differita di registrazioni audio o audio-video); 2. puramente testuali o plurisensoriali; 3. immaginarie (MOOs, MUDs, multimedia chat) o reali; 4. automatiche (come nel famoso esempio di Eliza) o interpersonali; 5. tra interlocutori invisibili (controllo di un computer o osservatore nascosto, partecipante silenzioso di un gruppo di counselling) o presenti. L’indagine delle varie dimensioni enuclea le seguenti caratteristiche determinanti e tipiche: 1. la definizione di un ben preciso appuntamento nel tempo, con le peculiarità di setting e di intimità che esso implica; 2. la spontaneità o la possibilità di una maggiore elaborazione cognitiva (zone for reflection) delle varie fasi dell’interazione; 3. la presenza più o meno fisica del terapista; 4. la completezza o meno nella raccolta ed osservazione delle presenze/assenze, dei silenzi, dei ritardi, degli agiti in generale, delle modalità mimiche e posturali, del tono della voce, ecc. durante l’interazione; 5. la facilità o difficoltà (e costo) di realizzazione ed impiego del mezzo elettronico di comunicazione; 6. la possibilità o meno di mantenere una registrazione completa di tutte le sedute del trattamento; 7. l’effetto disinibente legato alle condizioni di maggiore o minore anonimato (anche solo fisico), ma anche variazioni nell’intensità della proiezione transferale e possibili condizioni massicciamente regressive; 8. la maggiore o minore riservatezza. 69 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... Si possono delineare tre macro sottocategorie: 1) interventi di tipo educativo forniti attraverso il web 2) interventi terapeutici auto guidati 3) interventi terapeutici supportati da un professionista. Sebbene ognuna di queste categorie abbia lo scopo di sostenere o dirigere un cambiamento cognitivo, emotivo o comportamentale si differenziano principalmente rispetto al loro livello di interattività, sostegno struttura o direttività. Mentre la necessità di ricerche di qualità che definiscano l’effettivo utilizzo della tecnologia nella terapia è riconosciuto, esiste un numero limitato di studi valutativi in questa area (Postel de Haan, De Jong, 2008). Esistono dei limiti collegati al misurare l’efficacia della terapia online; ad esempio i fruitori spesso desiderano rimanere anonimi, come risultato, il potenziale che esiste rispetto alla terapia online rimane largamente sottoutilizzato e non testato. (Skinner, Lutchford, 2006). Solo negli ultimi anni sono emersi studi sull’efficacia della terapia online. Il più ampio e completo studio meta-analitico sull’efficacia degli interventi terapeutici supportati da internet ha rivelato un effetto da ampio a moderato su pensieri, emozioni e comportamenti bersaglio (Barak, Hen, Boniel-Nissim, Shapira, 2008). Gli autori concludono che la terapia online è particolarmente efficace nel trattare l’ansia e lo stress, con effetti comparabili alla terapia tradizionale. La terapia individuale on line è risultata più efficace della terapia in gruppo, la chat e le mail più efficaci del forum e dell’utilizzo della webcam e non ci sono differenze significative tra l’utilizzo della comunicazione sincrona o asincrona. Dato significativo è anche che gli effetti del trattamento in genere sono mantenuti anche nella fase del follow up (Andersson, Carlbring, Berger, Almlov, Cuijpers, 2009). Esiste d’altro canto una certa variabilità nella qualità delle ricerche che esaminano l’efficacia degli interventi ed un’ampia variabilità tra i diversi interventi terapeutici, nonostante ciò i risultati nel complesso e con le dovute cautele sono incoraggianti. In una meta analisi che ha esaminato l’efficacia della psicoterapia cognitiva comportamentale online per i sintomi della depressione e dell’ansia, Spek et. al., (2007) hanno trovato che i programmi di trattamento sono risultati ampiamente efficaci e che i maggiori progressi si verificano a seconda che ci sia o meno un intervento ulteriore di supporto del terapeuta (ad esempio, monitoraggio, feedback e brevi telefonate settimanali). Gli interventi basati su internet sono efficaci soprattutto quando prevedono il coinvolgimento del terapeuta e comunque anche questi autori evidenziano i limiti degli studi da loro esaminati. La CCBT (Computerised Cognitive Behavioral Therapy) ha ricevuto una considerevole attenzione da parte dei ricercatori (Kahenthaler Parry, Beverley, 2004) ed è stata inserita con le linee guida del National Institute for the Clinical Excellence (NICE) tra le buone pratiche sia per la depressione moderata sia per il trattamento delle fobie. Diversi studi indicano come sia tra i terapeuti che tra i pazienti vi sia un atteggiamento positivo nei confronti dell’utilizzo della terapia online (Cavanagh, Shapiro, 2004; Skinner, Latchford 2006). È vitale fornire al paziente tutte le informazioni che riguardano la terapia online inclusa una lista standardizzata dei rischi e dei vantaggi (Ybarra, Eaton, 2005). Il cliente deve essere informato dell’esistenza di trattamenti alternativi e bisogna verificare che comprenda che gli effetti a lungo termine della terapia online non sono ancora stati determinati (Pollock, 2006; Recupero, Rainey, 2005). Postel et. al., (2008), analizzando 14 studi condotti sull’efficacia della terapia a distanza concludono che la loro qualità dal punto di vista metodologico è molto bassa. Dato l’incremento degli interventi di e-therapy per i problemi mentali è un peccato che le ricerche di alta qualità siano scarse, sebbene ci sia da considerare che condurre ricerche di alta qualità 70 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... nell’ambito della terapia a distanza sia piuttosto complicato. Come nella terapia faccia a faccia, la qualità della terapia a distanza può essere alta solo se il terapeuta la rende tale, un fattore fondamentale è costituito dalla capacità e dal buon senso del terapeuta, perciò gli autori sottolineano l’importanza di lavorare con un terapeuta specializzato nei programmi di trattamento online (Postel et. al., 2008 p. 712; Gilkey et. al., 2009; Proudfoot, 2004). Nella letteratura esistono prove limitate che riguardano l’appropriatezza della terapia online per particolari individui , diversi studi indicano comunque che le persone che presentano problemi associati alle emozioni, pensieri e comportamenti, come ad esempio disturbo da stress post traumatico, attacchi di panico, disturbi d’ansia e altri disturbi da stress possono essere adatti alle terapie online (Barak et. al., 2008). Suler (2001) suggerisce che anche clienti con particolari caratteristiche di personalità (ad esempio evitanti), possono trarre benefici dalla terapia online. Esiste un accordo generale nella letteratura rispetto ai pazienti che, invece, sono meno indicati per il servizio della terapia online: mm coloro che presentano disordini psicologici che hanno a che fare con la distorsione della realtà (Abbott et. al., 2008) e coloro che hanno una diagnosi di disturbo borderline di personalità (Suler, 2001) mm coloro che sono a rischio suicidio (Abbott et. al. 2008, Suler 2001) mm coloro che sono vittime di violenza e abuso sessuale (Abbott et. al. 2008) mm coloro che presentano situazioni di comorbilità con disturbi sull’asse I (Abbott et. al., 2008) mm che hanno bisogno di ospedalizzazione, osservazione, controllo (Suler, 2001) mm che hanno abilità limitate nell’utilizzo di e-mails chat, etc… (Santhieveeran, 2004). Studi sul processo terapeutico e sull’alleanza in psicoterapia “L’alleanza è importante in tutte le forme di terapia, inclusi i trattamenti che avvengono attraverso l’uso dei media”. Differenti forme di terapia chiamano in causa diverse forme relazionali e a differenti livelli di intimità e di intensità Il terapeuta e il cliente devono trovare il modo più adatto di collaborare in terapia anche se non hanno un contatto faccia a faccia” (p. 76 Horvath A.O., Del Re C., Fluckiger C., Symonds D, tr. it. 2012 in Norcross J.C.). Nelle raccomandazioni sulla pratica Norcross e Wampold p. 219 , (tr. it. 2012 in Norcross J.C.) sottolineano come ”i professionisti sono invitati a monitorare sistematicamente le risposte dei pazienti alla relazione terapeutica e al trattamento in corso. Tale monitoraggio porta a maggiori possibilità di ristabilire la collaborazione, migliorare la relazione, modificare le strategie tecniche ed evitare una cessazione anticipata“. Un articolo di Murphy et. al., (2009) confronta i punteggi ottenuti dai clienti di counseling tradizionale e dai clienti di counseling online nei questionari GAF (Global Assessemnet of Function) e il Client Satisfaction Survay, i risultati ottenuti confermano che l’approccio online può essere soddisfacente ed avere lo stesso impatto per il cliente del counseling tradizionale. Il counselor può stabilire un ambiente confortevole, aiutare il cliente a definire i suoi obiettivi e comunicare efficacemente le proprie competenze per aiutare il suo cliente. Sebbene abbiano utilizzato un campione piccolo autoselezionato ed omogeneo, lo studio condotto da Cook e Doyle (2002) è uno dei pochi studi diretto a testare il concetto di alleanza operativa nella terapia online, nonostante le limitazioni dello studio, i partecipanti hanno ri71 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... portato un legame collaborativo con i loro terapeuti. Gli autori hanno confrontato i punteggi del Working Alliance Inventory dopo la terza seduta di 15 donne che seguivano una terapia a distanza tramite mail ed un campione di 25 donne che seguivano una terapia tradizionale, trovando che i punteggi dei clienti della terapia online erano più alti di quelli della terapia tradizionale, gli stessi autori sottolineano che questi risultati vanno valutati con cautela. In uno studio analogo Mallen, Day e Green (2003) trovarono che i punteggi più alti relativi all’apertura, la confidenza e la soddisfazione erano quelli della terapia tradizionale piuttosto che quella online, sebbene non siano risultate differenze per quanto riguardava la comprensione emotiva. È necessario continuare le ricerche per esplorare gli esiti della terapia online e dell’alleanza, ad esempio una questione particolarmente importante è quella di confrontare gli esiti della terapia on line con quelli della terapia tradizionale. (Reynolds, Stiles. 2007). Le ricerche hanno dimostrato che i cambiamenti dei clienti avvengono nelle prime fasi del trattamento e che per il cambiamento soggettivo dell’esperienza del cliente sono critiche le prime sedute; se il cliente non percepisce un miglioramento nelle prime sedute la possibilità di un risultato positivo diminuisce drasticamente. Recenti studi hanno dimostrato che si verifica un miglioramento significativo sia degli esiti sia del mantenimento della relazione terapeutica quando il terapeuta ha accesso a un feedback formale in tempo reale da parte del cliente riguardante i processi e i risultati della terapia (Duncan e Miller, 2000; Duncan, Miller, Sparks, 2004). Uno studio di Miller, Duncan, et. al., (2006), dove sono stati utilizzati l’Outocome Rating Scale (ORS) e l’SRS (Session Rating Scale) ha dimostrato che fornire un feedback continuo, formale e progressivo al terapeuta riguardo all’esperienza del suo cliente migliora sia i risultati sia i mantenimento della relazione. Strumenti di monitoraggio Presentiamo dei possibili strumenti di monitoraggio, che per la loro facilità di utilizzo possono facilitare il monitoraggio della relazione terapeutica a distanza. La prima serie di strumenti è il PCOMS (Partner for change outcome management system) che utilizza due brevi scale di 4 item ciascuna. L’ORS (Outcoming Rating Scale) comprende 4 dimensioni: il malessere benessere sintomatico individuale; il malessere-benessere l’interpersonale o relazionale o ciò che il cliente percepisce in una relazione intima; la dimensione sociale cioè la visione della soddisfazione del cliente nelle relazioni scolastiche o lavorative fuori casa; e la dimensione globale cioè il quadro generale di benessere. La SRS (Session Rating Scale) (Duncan e Miller, 2008) misura l’alleanza terapeutica. Si basa su tre teorie correlate: il concetto di alleanza terapeutica di Bordin (1979), il concetto simile di alleanza terapeutica di Gaston (1990) e sul costrutto di Duncan, Miller e Sparks (2004) denominato “teoria di cambiamento del cliente”. Queste teorie pongono l’accento su tre aspetti della relazione di aiuto : il legame affettivo-relazionale, l’accordo sui compiti durante la seduta e l’accordo sugli obiettivi finali dell’incontro. Gli studi di Reese at al. (2009) hanno classificato i clienti a rischio o non in progresso se non sono riusciti a migliorare in cinque o più punti dell’ORS a partire dalla terza seduta. Il cutoff per l’ORS è di 25 (per gli adolescenti 28 e per i bambini 32), per l’SRS è 36. Quando la terapia ha successo i punteggi dell’ORS crescono nel tempo (Duncan, 2010). Scala di Valutazione dei Risultati Outcome Rating Scale (ORS) 72 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... Nome Età (Anni): Sessione: Genere: Data: Chi riempie questo questionario? Metti una crocetta: Se qualcunaltro, che relazione hai con questa persona? Io Qualcunaltro Guardando indietro alla settimana scorsa, incluso oggi, aiutaci a capire come ti sei sentito nei seguenti momenti della tua vita. Una crocetta a sinistra significa un livello basso di benessere, e una crocetta a destra significa un livello alto di benessere. Individualità (Benessere personale) Interpersonalità (Famiglia, relazioni) Socialità (Lavoro, scuola, amicizie) Complessivo (Benessere generale) International Center for Clinical Excellence © 2000, Scott D. Miller and Barry L. Duncan Scala di Valutazione della Seduta Session Rating Scale (SRS) 73 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... Nome Sessione: Età (Anni): Genere: Data: Per favore, metti una crocetta per descrivere la tua esperienza di oggi. Rapporto Sono stato ascoltato, capito, e rispettato. Non sono stato ascoltato, capito, e rispettato. Obbiettivi e Argomenti Abbiamo lavorato e parlato su cosa voNon abbiamo lavorato nè parlato su cosa levo lavorare e parlare. volevo lavorare e parlare. Approccio o Metodo Mi piace l’approccio del terapeuta. Non mi piace l’approccio del terapeuta. Complessivo Qualche cosa è mancata nella seduta di Complessivamente, la seduta di oggi mi oggi. è piaciuta. International Center for Clinical Excellence © 2002, Scott D. Miller, Barry L. Duncan, & Lynn Johnson 74 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... 40 35 30 25 20 15 10 5 0 Numero di Seduta 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Un altro utile strumento è l’ARM-5 che misura l’alleanza terapeutica (Roxane AgnewDavies1, William B. Stiles2,*, Gillian E. Hardy3, Michael Barkham3, David A. Shapiro3 British Journal of Clinical Psychology pages 155–172, May 1998). Una misura di 5 item derivate dalla forma di item della Agnew Relationship Measure per valutare la forza della relazione terapeutica. Cliente: Seduta: Data: 75 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... Pensando all’incontro di oggi, indichi per favore quanto fortemente si trova in accordo o in disaccordo con ciascuna affermazione cerchiando il numero appropriato. Fortemente d’accordo Moderatamente in disaccordo Leggermente in disaccordo Neutro Leggermente d’accordo Moderatamente d’accordo Fortemente d’accordo 1 Il mio terapeuta è di supporto 1 2 3 4 5 6 7 2 3 4 5 6 7 2 3 4 5 6 7 Io e il mio terapeuta siamo d’accordo sul lavoro da 1 fare insieme Io e il mio terapeuta abbiamo difficoltà a lavorare in3 1 sieme come partner 2 4 Ho fiducia nel mio terapeuta e nelle sue tecniche 1 2 3 4 5 6 7 5 Il mio terapeuta ha fiducia in sé e nelle sue tecniche 1 2 3 4 5 6 7 Infine il SEQ (Session evaluation Questionnaire) di Stiles, W. B. et. al., (2002) nel quale le sedute di psicoterapia e counseling sono valutate rispetto alle variabili: (a) profonda e utile rispetto superficiale e inutile e (b) serena e positiva rispetto tesa e angosciante. Oltre alla valutazione della seduta, il SEQ misura due dimensioni della post-seduta, positività e attivazione. La SEQ è stata utilizzata per valutare sedute di terapie individuali, di gruppo, familiari e sedute di supervisione. 76 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... Session Evaluation Questionnaire (Form 5) Cliente Data seduta: Per favore cerchi il numero che indica come si è sentito in questa seduta: Questa seduta è stata: cattiva 1 2 3 4 5 6 7 buona difficile 1 2 3 4 5 6 7 facile preziosa 1 2 3 4 5 6 7 di poco valore superficiale 1 2 3 4 5 6 7 profonda rilassata 1 2 3 4 5 6 7 tesa spiacevole 1 2 3 4 5 6 7 piacevole piena 1 2 3 4 5 6 7 vuota debole 1 2 3 4 5 6 7 forte speciale 1 2 3 4 5 6 7 ordinaria tribolata 1 2 3 4 5 6 7 scorrevole comoda 1 2 3 4 5 6 7 scomoda felice 1 2 3 4 5 6 7 triste arrabbiato 1 2 3 4 5 6 7 contento in movimento 1 2 3 4 5 6 7 fermo insicuro 1 2 3 4 5 6 7 sicuro calmo 1 2 3 4 5 6 7 agitato fiducioso 1 2 3 4 5 6 7 spaventato friendly 1 2 3 4 5 6 7 unfriendly lento 1 2 3 4 5 6 7 veloce energico 1 2 3 4 5 6 7 quieto placido 1 2 3 4 5 6 7 scosso Adesso mi sento: 77 Panoramica e proposte di utilizzo degli strumenti di feedback nella relazione terapeutica... Conclusioni Il mondo della terapia online è estremamente variegato ed offre ampie possibilità di sviluppo, come psicoterapeuti abbiamo l’esigenza e il dovere professionale di essere informati rispetto all’utilizzo di questa nuova modalità di lavoro con l’obiettivo di introdurre anche in questo tipo di pratica gli elementi di qualità che sono stati riconosciuti come fondamentali per contribuire all’efficacia del processo terapeutico . Questo breve contributo rappresenta uno step preliminare nell’attesa di ulteriori dati di ricerca che possano confermare l’efficacia della terapia on line; le ricerche basate sul monitoraggio della relazione on line infatti sono ancora scarse e come evidenziato mancano nella maggior parte di requisiti di qualità. Vi è d’altra parte un generale consenso sull’utilità degli strumenti di monitoraggio della relazione che nel caso di una relazione peculiare come quella via internet avrebbero anche il valore aggiunto di rendere tale relazione più “vicina” alle esigenze del cliente e del terapeuta e “meno distante”, ritengo che la sfida sia proprio nel trovare questo equilibrio tra presenza e distanza che tra l’altro per alcune tipologie di clienti risulta particolarmente importante. Bibliografia Bibliografia Abbott J., Klein, B., Ciechomski, L. (2008), Best practices in online therapy. Journal of Technology in Human Services, 26(2/4), 360–375. Agnew-Davies R., Stiles W., Hard G., Barkham M., Shapiro D, (1998), Alliance structure assessed by the Agnew Relationship Measure (ARM), British Journal of Clinical Psychology pages 155–172, May Alleman J. R. (2002), Online Counseling: the Internet and the Mental Health Treatment, Psychotherapy: Theory/Research/Practice/ Training, 39(2), 199-209. 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I contributi di numerose ricerche sull’assessment diagnostico provenienti dall’American Psychological Association, confermano che la diagnosi può essere veramente funzionale se impegna sinergicamente strumenti empiricamente convalidati e supportati dalla letteratura clinica. La convergenza tra i risultati ottenuti ai test e i dati emersi dal colloquio clinico permettono di formulare diagnosi accurate . Il lavoro presenta un possibile strumento di valutazione della personalità il Modello dei Big Five. Il questionario di autovalutazione dei Big Five si propone come soluzione in cui confluiscono diverse tradizioni di ricerca e dal quale è possibile rilevare una più solida descrizione dimensionale della personalità. Keywords: Big Five Questionnarie, Testing Psicologico. La valutazione è un momento delicato del colloquio clinico durante il quale viene formulata una diagnosi della personalità nei suoi aspetti strutturale e dinamico (Tognazzo, 2008). Il processo di misurazione del grado di funzionamento di alcuni meccanismi cognitivi, affettivi e comportamentali si avvale di metodi e strumenti specifici che variano a seconda della peculiarità del caso e risentono della teoria di riferimento del professionista che la redige. L’interesse per la diagnosi ha inizio tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 con la psichiatria 81 La diagnosi in psicologia clinica: il modello dei Big Five che considerava i disturbi mentali come malattie del cervello. Secondo il modello medicopsichiatrico la scientificità della diagnosi sta nel descrivere in modo accurato e rigoroso ciò che accade al soggetto. Ulteriore apporto significativo venne dato negli anni ’50 dalla comparsa della terapia comportamentale (sperimentale Watson) che sottolineava l’importanza della validità scientifica degli strumenti atti a rilevare le caratteristiche della personalità. Fino agli anni ’80 la psicoanalisi è stata l’unica impostazione che ha dominato la valutazione psicologica tanto che la prima e seconda edizione del DSM hanno risentito notevolmente l’influenza dell’approccio psicodinamico (Gilson, 1994). Negli anni ’70 i neokrepeliani danno vita ad un movimento che riconsidera l’importanza della diagnosi e l’utilizzo del DSM che fornisce diagnosi descrittive e ateoretiche. Secondo questa corrente scientifica, la diagnosi psicologica è utile alla condivisione di informazioni per mezzo di un linguaggio sintetico e comprensibile. Negli anni ’80 Pao (1979) descrivendo i diversi metodi diagnostici per la schizofrenia e tanti altri disturbi psichici, sostenne che continuare ad usare un approccio descrittivo e sintomatico come quello utilizzato da Bleuler per la schizofrenia, era utile alla classificazione e all’identificazione della malattia più che alla scelta del trattamento. Un concetto di diagnosi del tutto innovativo viene proposto da Menniger (1962); secondo l’autore lo scopo della diagnosi non si traduce nella ricerca del nome da dare ad una malattia piuttosto cosa fare di fronte ad essa, capire come il paziente è malato, come ha raggiunto lo stato di malessere, in quale modo il disturbo gli assicura dei tornaconti, quali interventi possono modificare il suo stato di disagio. In altri termini, occorre comprendere l’individuo malato e non limitarsi a classificare la sua malattia (Gilson, 1994, p. 29). Il concetto di valutazione si è modificato nel tempo e continua ad evolvere, dispiegandosi attraverso un lavoro di indagine e di esplorazione necessario per aumentare le nostre conoscenze e comprensioni. L’obiettivo della valutazione è giungere ad un “profilo complessivo” (Lis, 1993, p. 16 e p. 62). Per fare ciò secondo la comunità scientifica gli strumenti utilizzati per la diagnosi devono essere empiricamente convalidati e supportati dalla letteratura clinica che ne dimostri l’utilità applicativa nonché punti di forza e criticità. Alcuni esempi di questo dialogo sono strumenti come la SWAP Western Shedler, il TAT, il Rorschach, la Wais, l’MMPI, il Manuale Diagnostico Psicodinamico. La convergenza tra i risultati ottenuti ai test e i dati emersi dal colloquio clinico, ci permette di passare alla diagnosi della personalità secondo il criterio che Rapaport denomina “metodo di concordanza degli indici” (Rapaport et. al., 1968). Gli strumenti a disposizione del clinico sono numerosi (Boncori, 2006) la scelta dei quali si basa principalmente sulla preparazione dell’esaminatore e sulla specifica problematica presentata dal cliente. Attualmente grazie ai contributi di numerose ricerche sull’assessment diagnostico provenienti dall’American Psychological Association si è giunti alla conclusione che la diagnosi può essere veramente funzionale se impiega sinergicamente un insieme di test fino a farne un “singolo strumento diagnostico” (Rapaport, Gill e Schafer, 1968). Le linee guida per la costruzione di una batteria di test indicano che un assessment diagnostico può essere esaustivo se ad una batteria di test affianca un questionario self report e una misura performance based, come l’MMPI-2 e Rorschach, ai quali si può aggiungere a seconda della domanda, un test di livello (Scale Wechsler), un test tematico (TAT) e test grafici. I modelli di valutazione della personalità: categoriale e dimensionale La diagnosi categoriale derivante dal DSM-III e DSM-IV (American Psychiatric Association, 1980, 1994) benchè sia utile per la sua praticità, presenta problemi di validità. È 82 La diagnosi in psicologia clinica: il modello dei Big Five possibile osservare di frequente che i disturbi psicologici si distibuiscono per lo più in un continuum dimensionale e non categoriale (un soggetto può essere più o meno ansioso). Attualmente non è stata ancora dimostrata la validità di costrutto del maggior numero di diagnosi relative al DSM III e del DSM IV, ciò è dimostrato dal fatto che la comorbilità delle diagnosi psichiatriche categoriali risulterebbe alta. Sulla base di queste evidenze, per aumentare la validità del DSM-V (2012), sono stati introdotti aspetti dimensionali per le seguenti dicotomie: validità/attendibilità, categoriale/ dimensionale e politetico/monotetico. Riguardo l’approccio dimensionale, possiamo dire che si caratterizza per lo studio “strutturale” della personalità; pone attenzione alle strutture sottostanti responsabili del comportamento manifesto. L’interesse per la valutazione dimensionale della personalità ha favorito lo sviluppo di vari strumenti di misura: mm 16 Personality Factors (PF) Questionnaire di Cattell (1905-1998); mm Eysenck Personality Inventory (EPI) di Eysenck (1916-1997); mm Five-Factor Model (FFM) di Costa & Mc Crae (Big Five); mm Temperament and Character Inventory (TCI) di Cloninger (1999); mm Schedule for Nondaptive and Adptive Personality (SNAP) di Clark (1993); mm Dimensional Assessment of Personality Pathology- Basic Questionnaire (DAPP-BQ) di Livesly; mm Structural Analysis of Social Behavior (SASB) della Benjamin (1996); mm Le “due dimensioni fondamentali della personalità” di Blatt; mm Shedler – Western Assessment Procedure (SWAP di Shedler e Western (2003); mm Millon Clinical Multiaxial Inventory (MCMI) di Millon. Alcuni autori hanno tentato di rapportare tra loro tutti i modelli dimensionali, Widiger e Simonsen (2004), hanno individuato quattro aree comuni a tutti i modelli dimensionali: Estroversione vs Introversione; Disponibilità vs Antagonismo; Controllo vs Impulsività; Stabilità emotiva vs Instabilità emotiva. Clark e Watson (1999), evidenziano invece tre “superfattori” che corrispondono anche a tre dimensioni dei Big Five di Eysenck: Emotività negativa, Emotività positiva; Disinibizione/Costrizione. Una classificazione dei tipi di personalità strutturata su basi scientifiche, richiede strumenti atti a cogliere la complessità, la variabilità e l’ampiezza del campione oggetto di indagine. Sebbene Cattell (1963), abbia individuato nell’analisi fattoriale il metodo elettivo per la ricerca sulla personalità e nel questionario di autovalutazione lo strumento privilegiato per la raccolta dei dati, egli ha studiato particolari sistemi di organizzazione dei tratti di personalità non riducibili l’uno all’altro. La diversità dei metodi di costruzione delle scale e le differenze degli items considerati rappresentativi delle varie dimensioni della personalità, hanno causato un quadro piuttosto disarticolato su quali e quante siano le dimensioni da considerare. Il modello Big Five, cinque grandi fattori si propone come soluzione in cui vengono a confluire diverse tradizioni di ricerca e dal quale sembra poter scaturire una più solida tassonomia della personalità. Il modello dei Big Five Tra le teorie fattoriali quella che ha ottenuto maggiori evidenze empiriche e studi di 83 La diagnosi in psicologia clinica: il modello dei Big Five generalizzabilità a diversi contesti internazionali è senza dubbio il modello dei Big Five. Partendo dalla considerazione che “le differenze individuali che sono più salienti e socialmente rilevanti nella vita delle persone finiranno per essere codificate nelle varie lingue: più importanti sono tali differenze e più è probabile che vengano espresse con singole parole (Angleitner e Ostendorf, 1988, p. 174)”, si è cercato di coniugare la tradizione psicolessicale con quella fattoriale. Questa struttura universale, è costituita da: mm Nevroticismo: Tendenza all’ansia, Ostilità rabbiosa, Tendenza alla depressione, Ansietà sociale, Impulsività, Vulnerabilità . mm Estroversione: Calore emotivo, Istinto gregario, Assertività, Attività, Ricerca di eccitazione, Emozionalità positiva. mm Apertura: Fantasia, Senso estetico, Apertura alle emozioni, Apertura all’esperienza, Consapevolezza, Curiosità intellettuale, Rispetto per i valori. mm Gradevolezza: Fiducia, Schiettezza, Altruismo, Acquiescenza, Modestia, Empatia. mm Scrupolosità: Competenza, Ordine, Senso del dovere, Impegno per il risultato, Autodisciplina, Riflessività . In ambito internazionale la valutazione dei cinque fattori è affidata al NEO PI-R (Neuroticism, Extroversion, Openness to experience Personality Inventory-Revised; Costa, McCrae, 1992), mentre nel contesto nazionale e da qualche anno internazionale con forme tradotte in Francese, Spagnolo e Rumeno si utilizza il BFQ (Big Five Questionnarie Inventory, Caprara, Barbaranelli, Borgogni, 1993). Recentemente il costrutto dei Big Five è stato utilizzato per studiare la psicopatologia. Partendo dalla considerazione che il disturbo di personalità è un’amplificazione patologica di tratti sani, sono state introdotte alcune sottodimensioni e sono state individuate delle evidenze empiriche. Al momento si sta verificando quanto questo sistema “implementato” del FFM sia generalizzabile a diversi contesti e quanto mantenga proprie le indubbie proprietà psicometriche (Widiger et. al., 2002; McCrae, Lockenhoff, Costa, 2005; Pacifico, 2012). Il Big Five Questionnarie L’applicazione dell’analisi fattoriale allo studio della personalità ha permesso la manipolazione di più variabili e l’estrapolazione di quei fattori che rappresentano le relazioni lineari tra variabili ed osservazioni, confermando l’esistenza di costrutti psicologici stabili propri di ogni individuo, che possono essere elaborati tramite i Big Five. Secondo la tradizione fattorialista, ogni tratto psicologico rilevante, è riconducibile a strutture latenti che costituiscono le componenti fondamentali della personalità, analizzabili attraverso l’analisi fattoriale. Le cinque dimensioni dei Big Five quindi rappresentano strutture latenti a cui poter ricondurre ogni spiegazione e descrizione dell’individuo poiché si riferiscono alle modalità stabili utilizzate dalla persona per interagire con gli altri e con l’ambiente, alla regolazione dell’umore e alla attività conoscitiva. Sull’esperienza dei lavori di Costa e Mc Crae (1985, 1991) che avevano proposto un questionario (NEO-PI) per la misurazione dei Big Five di ben 181 items aumentati a 241 nella versione più recente, si è arrivati successivamente alla stesura del BFQ che ambisce ad essere un miglioramento dei precedenti questionari, in quanto guidato da criteri di massima aderenza e controllo nell’individuazione delle diverse sottodimensioni e dei loro items. I Big Five rappresentano così lo strumento per la descrizione della personalità che utilizza il linguaggio comune nell’ambito dei questionari di personalità. 84 La diagnosi in psicologia clinica: il modello dei Big Five Il modello dei cinque fattori è economico, comprensibile e sufficientemente esaustivo per descrivere la personalità e può costituire una matrice comune nel processo di valutazione, riducendo tutte quelle forme di incertezza e di variabilità, derivanti dalle varie teorie o da termini dal significato non sempre inequivocabile. Altri aspetti importanti di questo modello sono la generalizzabilità, riscontrata attraverso lingue e culture differenti e la possibilità di individuare altre dimensione derivanti dall’integrazione con il modello circonflesso (Benjamin, 2003). I riferimenti derivanti dall’integrazione di questi due approcci, consente di individuare i tratti di personalità, la loro intensità e la qualità delle interazioni relazionali, situandole in un continuum dimensionale (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004, p. 82). Il Big Five Questionnaire di G.V. Caprara, C. Barbaranelli e L. Borgogni (1993), individua le cinque dimensioni fondamentali per la descrizione e la valutazione della personalità ad un livello di generalità intermedio rispetto ai modelli che fanno riferimento a poche dimensioni estremamente generali (EPI di Eysenck) e rispetto ai modelli che prevedono un maggior numero di dimensioni di portata più specifica, ma meno generalizzabili (16 PF di Cattell). I cinque fattori individuati sono: Nevroticismo, Estroversione, Apertura, Amabilità, Coscienziosità (Cattell, 1963). Questi fattori tendono a rimanere costanti in tutto il periodo dell’età adulta e mostrano aspetti di affidabilità e validità esplicativa (John, 1990): E = Estroversione o Energia, che è inerente a un orientamento f iducioso ed entusiasta nei confronti delle varie circostanze della vita, la maggior parte delle quali sono interpersonali; la denominazione energia è parsa appropriata essendo stata rapportata specificatamente al nostro contesto linguistico (Caprara e Perugini 1990; 1991b) A = Gradevolezza o Amicalità, che include, a un polo, caratteristiche come l ’altruismo, il prendersi cura, il dare supporto emotivo e, al polo opposto, caratteristiche come l ’ostilità, l’indifferenza verso gli altri , l ’egoismo; C = Coscienziosità, che fa riferimento a caratteristiche come la precisione e l ’accuratezza, l’affidabilità, la responsabilità, la volontà di avere successo e la perseveranza; S = Stabilità emotiva, che è una dimensione molto ampia comprendente una varietà di caratteristiche collegate all ’ansietà e alla presenza di problemi di tipo emotivo, quali la depressione, l’instabilità di umore, l’irritabilità, ecc. ; M = Apertura all’esperienza o Apertura mentale, che fa ri ferimento all’apertura verso nuove idee, verso i valori degli altri e verso i propri sentimenti . Le sottodimensioni Per ognuno dei Big Five sono state individuate due sottodimensioni , ciascuna delle quali fa riferimento ad aspetti diversi della medesima dimensione. Per ogni sottodimensione la metà delle affermazioni è formulata in senso positivo rispetto al nome della scala, mentre l’altra metà è formulata in senso negativo, al fine di controllare eventuali risposte date a caso. In totale i BFQ consta di 132 item e le 10 sottodimensioni sono: mm Di (Dinamismo) e Do (Dominanza) (E); mm Cp (Cooperatività) e Co (Cordialità) (A); mm Sc (Scrupolosità) e Pe (Perseveranza) (C); mm Ce (Controllo dell’emozione) e Ci (Controllo degli impulsi) (S); mm Ac (Apertura alla cultura) e Ae (Apertura all’esperienza) (M). 85 La diagnosi in psicologia clinica: il modello dei Big Five I test di personalità sono inclini a molti tipi di distorsione, soprattutto quando le persone sono motivate a presentarsi sotto una luce favorevole o (in casi molto più rari) sfavorevole. Lo strumento per contenere i tentativi di falsificazione, presenta al suo interno una scala di validità: la scala L (Lie), il cui scopo è quello di fornire una misura della tendenza del soggetto a dare un profilo di sé falsato. La risposta agli item del BFQ viene data su una scala Likert a 5 punti (da “assolutamente vero per me” ad “assolutamente falso per me”). Somministrazione del BFQ e calcolo dei punteggi La somministrazione del BFQ può essere individuale o di gruppo. È importante che l’operatore in fase di spiegazione e svolgimento del test, non influenzi i soggetti con accenni o suggerimenti relativi alle risposte. È da sconsigliare una risposta volutamente falsa ricordando agli esaminati la possibilità di controllare la veridicità delle risposte. Il questionario è composto da una serie di fogli notizie che permettono in fase di analisi, una più chiara identificazione della personalità del soggetto. Il calcolo del punteggio per ogni sottodimensione, dimensione principale e scala Lie, viene effettuato per mezzo di lucidi che vengono sovrapposti al foglio di risposta, consentendo di evidenziare e sommare i punteggi degli items considerati negativi e positivi. La somma del punteggio positivo più la differenza ottenuta sottraendo il punteggio negativo da 36 costituisce il totale della sottodimensione presa in considerazione. La somma dei punteggi delle due sottodimensioni darà il valore della dimensione principale. I punteggi grezzi ottenuti per tutte le dimensioni principali, le sottodimensioni e la scala Lie, dovranno poi essere convertiti in punteggi standardizzati o punteggi T. Le tabelle per la standardizzazione di cui è corredato il questionario, suddivise per sesso, per dimensioni e sottodimensioni, sono state ottenute in riferimento allo studio di un gruppo composto da 2035 soggetti, di cui 1015 maschi e 1020 femmine. Le scale espresse in punteggi T hanno media pari a 50 e deviazione standard pari a 10 per cui, ad esempio, un punteggio T di 60 presenta una deviazione standard sopra la media e corrisponde all’84° percentile. I punteggi ottenuti dalle singole scale e, soprattutto la relazione che esiste tra loro, permettono un’interpretazione del profilo generale dell’esaminato. Così ad esempio, un punteggio basso in coscienziosità combinato con punteggi alti nelle dimensioni Apertura mentale e Stabilità emotiva, può essere indicativo di un potenziale creativo. Infine riguardo gli ambiti applicativi diverse ricerche hanno mostrato la rilevanza del modello dei Big Five per l’individuazione delle caratteristiche di personalità nei vari contesti organizzativi (selezione del personale, orientamento, assessment center, pianificazione e sviluppo carriere, formazione). Nel settore della psicologia clinica e della salute questo strumento può trovare ampio uso in quanto permette di evidenziare lo stile di adattamento che si è sedimentato nel corso della vita e migliorare la comprensione dell’origine delle difficoltà attuali e le prospettive future di benessere psicologico. Nell’ambito educativo e dell’orientamento, può essere utilizzato per misurare il livello di adattamento e di successo che l ’adolescente può avere nelle attività scolastiche. Bibliografia Andreoli V., Cassano G.B., Rossi R. (a cura di), (1996), Mini DSM-IV. Criteri Diagnostici, Masson, Milano. 86 La diagnosi in psicologia clinica: il modello dei Big Five Angleither A., Ostendorf F. (1988). The lexical approach to Personality: Historical Reséarch. In Eurapean Journal of Personality, 2, 171-203. Benjamin L.S., (2003), Interpersonal Diagnosis and Treatment of Personality Disorders, Guilford, New York. Beutler L.E. – Harwood T. M., (2002). Psicoterapia prescrittiva elettiva. 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La diagnosi come momento di integrazione e di differenziazione. Bompiani, Milano. 88 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione 8 di Giada Fiume Giada Fiume, psicologo, psicoterapeuta, Presidente e Socio Fondatore del Centro di Psicologia Integrata per il Benessere. Email: [email protected] Abstract: il presente lavoro approfondisce il costrutto di depressione bipolare e delinea gli aspetti principali degli stati misti, disturbo dell’umore nel quale sono presenti contemporaneamente manifestazioni psicopatologiche depressive e maniacali per periodi di tempo prolungati. Vengono proposte informazioni diagnostiche e discusse le principali scale di valutazione utilizzate in campo internazionale. Keywords: depressione bipolare, stati misti, psicopatologia La unicità e specificità della Psicopatologia è di essere una scienza in continuo equilibrio tra due poli epistemologicamente (e ideologicamente) separati: le scienze della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), tra lo spiegare (Erklären) ed il comprendere (Verstehen), tra gli ordini causale e motivazionale. Questa specificità è al contempo la sua ricchezza e il suo limite; e, tra i limiti, quello più evidente è che, proprio per la sua doppia “anima”, in Psicopatologia anche i concetti definiti con maggior precisione si riferiscono comunque a fenomeni che non sono esattamente e completamente definibili e quantificabili, così come ci si aspetta sia possibile per i fenomeni puramente “naturali”. Nella valutazione della presenza/assenza della depressione bipolare si pone il problema che il criterio di inclusione determini anche l’estensione dello spettro e quindi il numero delle entità cliniche da includere. In questo caso, ci si basa sulle somiglianze fenomeniche da un lato (ma molti disturbi con le stesse caratteristiche non vengono inclusi) e sulla presenza di una base caratteriale dall’altro. Negli ultimi trenta anni del secolo scorso la distinzione unipolare-bipolare all’interno della malattia maniaco-depressivo, originariamente concettualizzata da Edda Neele (1949) e Leonhard K. (1957) e successivamente sviluppata da Winokur et. al., (1972) ha dimostrato un grande valore euristico per la ricerca clinica e terapeutica; questo approccio dicotomico, 89 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione tuttavia, lascia indefinite molte condizioni affettive che si trovano all’interfaccia tra disturbo unipolare e bipolare. Originariamente, Dunner et. al., (1976) e Dunner e Fieve (1979) identificarono i pazienti bipolari II sulla base della presenza di gravi episodi depressivi maggiori alternati a periodi ipomaniacali che non richiedevano ospedalizzazione. Per quanto l’ospedalizzazione possa essere considerata un criterio artificiale nella definizione della soglia diagnostica per la mania, questa concettualizzazione ha rappresentato tuttavia un progresso importante verso il riconoscimento di un insieme vasto di pazienti bipolari i cui periodi di eccitamento rimanevano a livello ipomaniacale. Klerman (Horwath, Johnson, Klerman, Weissman, 1992) ha esteso questa concezione ed ha incluso tra le forme bipolari attenuate quelle proprie di soggetti che presentano episodi maniacali e ipomaniacali in seguito al trattamento farmacologico, specialmente con antidepressivi (Disturbo Bipolare tipo III). Più recentemente Akiskal H.S. (1983) ha proposto una concettualizzazione più estesa di spettro bipolare attenuato, includendo in esso le depressioni con episodi ipomaniacali (sia di breve che di lunga durata), i tratti temperamentali d’ipertimia e ciclotimia così come i soggetti con familiarità positiva per Disturbo Bipolare. Di grande interesse clinico e diagnostico è la rielaborazione schematica delle varie forme dello spettro bipolare proposta da Akiskal e Pinto (1999) che hanno rilevato almeno sette differenti sottotipi clinici (Tabella 1). Tab. 1 CLASSIFICAZIONE DELLE PRESENTAZIONI DI SPETTRO BP. 7 Configurazioni categoriali in base alle caratteristiche di decorso (Akiskal e Pinto, 1999) Depressione Bipolare I e mania Depressione Bipolare I e ½ e ipomania protratta Depressione Bipolare II e ipomania Depressione Bipolare II e ½ e ciclotimia Depressione Bipolare III e ipomania farmacologica Bipolarità associata Bipolare III ½ all’uso di stimolanti Depressione Bipolare IV e temperamento ipertimico Nello spettro bipolare vengono riuniti diverse forme di depressione ricorrente, includendo i bipolari tipo I, i bipolari “atipici”, i ciclotimici, i distimici ed altri tipi con quadri fenomenici intermedi. In questo tipo di spettro, quadri clinici parzialmente eterogenei (tanto da ricevere denominazioni diverse nelle classificazioni diagnostiche) ma con una sintomatologia e un decorso in parte sovrapposti, vengono riuniti tra loro, in quanto si suppone siano solo variabili fenomeniche di un’unica patologia di base: il disturbo bipolare. Il concetto di spettro bipolare così delineato è in accordo con le descrizioni classiche della malattia maniaco-depressiva proposte da Kraepelin (1905) e Kretschmer (1921) i quali hanno considerato gli stati affettivi lungo un continuum che varia dalle forme gravi a quelle attenuate 90 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione spaziando, senza una netta linea di demarcazione, dalle forme psicotiche alle disposizioni temperamentali. Tra Depressione e mania: lo stato misto Il termine “stato misto” (SM) designa un disturbo dell’umore nel quale sono presenti contemporaneamente manifestazioni psicopatologiche depressive e maniacali per periodi di tempo prolungati. La commistione di sintomi di opposta polarità si esprime nella tinta del tono affettivo, nel corso e nel contenuto del pensiero, nell’attivazione o nel rallentamento motorio. Aspetti caratteristici quali perplessità, labilità emotiva, eccitabilità, tensione, ansia ed agitazione, irritabilità, disforia, ostilità possono associarsi di volta in volta a manifestazioni meno costanti quali confusione, impulsività e sintomi psicotici, con contenuti ideativi e percettivi di opposta coloritura affettiva. In questo modo viene a prodursi una grande varietà di quadri clinici che possono assumere forme più disparate, peraltro assai mutevoli. Tranne poche eccezioni, gli stati misti sono stati relativamente trascurati negli anni passati e solo nell’ultima decade si è rinnovato l’interesse per queste condizioni psicopatologiche. Ciò ha portato allo sviluppo di interessanti linee di ricerca sulla loro natura biologica, sulle caratteristiche nosografiche e cliniche e sulla risposta ai trattamenti. Nonostante siano stati proposti modelli innovativi di classificazione, le caratteristiche cliniche ed i confini degli stati misti rimangono mal delineati. Nei principali sistemi diagnostici internazionali (DSM, ICD), mentre l’episodio maniacale e quello depressivo sono definiti mediante una serie di criteri operativi, lo SM viene caratterizzato genericamente dalla simultanea presenza di aspetti sindromici depressivi e maniacali. La mancanza di criteri diagnostici validi e specifici per lo SM ha reso più difficile lo studio dei rapporti fra queste condizioni e le altre polarità degli episodi affettivi, soprattutto quando la mania si presenta con umore disforico o la depressione si caratterizza per l’agitazione psicomotoria. Poco chiara è pure la relazione con alcuni aspetti evolutivi dei disturbi dell’umore, quali la cronicità e la rapida ciclicità. Inoltre, la frequente contaminazione psicotica della condizione mista, già sottolineata dagli autori classici, pone problemi di diagnosi differenziale dalle manifestazioni psicotiche proprie di altri ambiti nosografici, come la schizofrenia ed i disturbi schizoaffettivi. L’autonomia delle forme miste è stata criticata da molti, sulla base dell’osservazione comune che quadri espansivi, maniacali o ipomaniacali, sono spesso contaminati da elementi depressivi e, pertanto, non sarebbe necessario ricorrere ad una categoria diagnostica diversa per lo SM. Tuttavia, riprendendo le descrizioni classiche di Kraepelin (1905), alcuni autori (Himmelhoch e Garfinkel, 1986; Campbell, 1953; Himmelhoch, Mulla, Neil, Detre, Kupfer, 1976) hanno, riproposto una concezione dello SM come disturbo dell’umore separato sia dalla mania che dalla depressione, sottolineando l’importanza teorica e pratica di questa distinzione. La discussione sull’autonomia dello SM come terza polarità dei disturbi dell’umore riveste implicazioni importanti sul piano terapeutico. Questi quadri psicopatologici possono non rispondere bene ai trattamenti convenzionali per la mania; inoltre, la contemporanea presenza di sintomi depressivi e maniacali sembra costituire un terreno predisponente per la comparsa di manifestazioni etero e autoaggressive. Allo stesso tempo, anche il trattamento psicoterapico impone al clinico una maggiore attenzione alle fluttuazioni del tono dell’umore, talvolta sostenendo e talvolta contenendo il proprio paziente, lavorando direttamente sulla strutturazione di strategie comportamentali da attuare all’insorgere della sintomatologia specifica. 91 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione Inquadramento nosografico La prima classificazione organica degli SM si deve a Kraepelin (1905), il quale ha distinto schematicamente alcuni sottotipi a seconda del diverso combinarsi delle alterazioni dell’umore, del pensiero, della psicomotilità: 1. depressione agitata: caratterizzata da umore depresso e da agitazione psicomotoria; 2. stupor maniacale: nel quale l’euforia ed i sentimenti di aumentata capacità e potenza si presentano unitamente ad inibizione sul piano motorio, verbale ed ideativo, talvolta fino a giungere ad un vero e proprio quadro di arresto; 3. depressione con fuga delle idee: l’umore è depresso, la motilità e l’eloquio sono rallentati; in contrasto i pazienti riferiscono affollamento di pensieri che talora viene manifestato con ipergrafismo; 4. mania improduttiva: con umore euforico ed aumento dell’attività motoria che si esprime con un affaccendamento del tutto inconcludente. L’eloquio è rallentato ed i contenuti del pensiero sono scarsi; 5. mania depressiva: l’umore è orientato in senso depressivo, ma in primo piano è l’irritabilità, con estrema intolleranza e reattività alle minime stimolazioni dell’ambiente; 6. mania acinetica: con elevazione dell’umore, distraibilità, fuga delle idee associata ad inibizione motoria. Questa classificazione è stata criticata da molti come eccessivamente schematica e non pienamente rispondente alla realtà clinica; tuttavia, da allora, lo SM è stato presente in tutti i sistemi nosografici, senza che ne venissero ulteriormente precisati i limiti e le caratteristiche distintive dalla mania e dalla depressione. Negli anni più recenti, la definizione di criteri operativi per la diagnosi ha portato ad una riconsiderazione di queste condizioni psicopatologiche. L’RDC (Spitzer, Endicott, Robbins, 1981) riconosce due tipi di SM: nel primo i sintomi depressivi e maniacali concomitano nello stesso episodio, nel secondo gli episodi maniacali e depressivi si susseguono senza soluzione di continuità. Sia il DSM-III-R (A.A.V.V., 1987) che l’ICD-10 forniscono criteri operativi per la diagnosi di SM non esenti da ambiguità (tabella I). Secondo il DSM-III-R devono essere soddisfatti contemporaneamente i criteri per la mania e per la depressione maggiore o, in alternativa, i due episodi devono succedersi rapidamente entro pochi giorni. Così operando non viene evidenziato il caratteristico polimorfismo sintomatologico e non si distinguono gli stati misti dalla rapida ciclicità. Inoltre, il manuale non considera quei casi che, pur presentando elementi sia della sfera espansiva che di quella depressiva, non soddisfano pienamente tutti i criteri di entrambi i tipi di episodio. Il DSM-IV, pur separando la forma a rapidi cicli, prevede sempre la contemporanea presenza della piena sindrome maniacale e depressiva. Inoltre indica come criterio di esclusione che la sintomatologia mista «non deve essere determinata dall’effetto diretto di sostanze o di una condizione medica generale». La valutazione di quanto un effetto sia diretto o meno appare alquanto problematica, anche in considerazione del fatto che tra i fattori più frequentemente associati all’insorgenza di SM sono stati considerati l’azione di tossici o sostanze e la presenza di danni del SNC. L’ICD-10 fornisce una definizione lievemente più ampia pur non formulando dei criteri specifici per lo SM. Inoltre, in questo sistema, per la diagnosi è necessaria la presenza nella storia del paziente di un altro episodio affettivo. Sono pertanto esclusi gli SM che, come spesso accade nella realtà clinica, si presentano come primo episodio. Dei criteri operativi per la diagnosi di SM sono stati formulati dalla scuola di Vienna e 92 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione sono imperniati sul concetto di instabilità del “dinamico”, proposto inizialmente da Berner, Gabriel, Katschnig (1983). In questa concettualizzazione viene dato risalto all’instabilità della condizione mista, caratteristica condivisa con la rapida-ciclicità; l’umore non assume un orientamento definito ma rimane persistentemente fluttuante, generando una condizione di perplessità o di rapidi mutamenti emotivi. Il gruppo di lavoro ha sviluppato questa concezione proponendo una serie di criteri che si fondano su di una descrizione particolareggiata del quadro psicopatologico; tuttavia, non prendono in considerazione la possibile presenza di una fenomenica psicotica e non mantengono distinte le forme a cicli rapidi, ritenendole condizioni con eziopatogenesi comune a quella degli SM. Una parte della letteratura nord americana degli ultimi anni, nell’affrontare lo studio degli SM, fa riferimento principalmente alle forme maniacali contaminate da elementi depressivi. A questo proposito, si è parlato di mania disforica, considerandola di volta in volta come una varietà di mania (Janzarik, 1959), come una forma espansiva di particolare gravità, o come uno stato di transizione tra mania e depressione. Recentemente, il gruppo di Cincinnati costituito da Bunney W.E. et. al., ha proposto una definizione di “mania mista” conforme al concetto di mania disforica, che prevede la presenza, in aggiunta alla piena sindrome maniacale, di solamente 3 dei 5 criteri previsti per la diagnosi di episodio depressivo maggiore (Bunney W.E. et. al., (1972). Utilizzando questa definizione allargata di “mania mista”, McElroy S.L. et. al., (1995) hanno evidenziato alcune caratteristiche distintive di queste forme rispetto a quelle maniacali pure: una maggiore frequenza nel sesso femminile, un maggior numero di episodi misti precedenti, una maggiore probabilità di presentare episodi misti all’esordio ed una comorbilità più elevata con disturbi d’ansia, in particolare con il disturbo ossessivo-compulsivo. Meno considerate nella letteratura recente sono le forme depressive agitate degli stati misti, originariamente delineate da Kraepelin, e caratterizzate dalla aggiunta ai sintomi depressivi di elementi di eccitazione quali agitazione psicomotoria, ipersessualità ed accelerazione del pensiero. Recentemente, Koukopulos et. al., (1992) hanno fornito una attenta descrizione delle caratteristiche cliniche di queste forme morbose, sottolineando l’importanza di un loro corretto inquadramento diagnostico. Scale di valutazione per la depressione e la mania Esistono ampie evidenze di come la depressione bipolare, ancora oggi, spesso non venga diagnosticata e trattata correttamente. Diversi fattori contribuiscono al mancato inquadramento diagnostico della depressione bipolare: mm la mancanza di accordo sulla definizione di spettro bipolare; mm la difficoltà nel misurare e quantizzare sintomi che vanno a caratterizzare lo stato misto; mm l’alternanza di sintomi che si collocano sulle estremità opposte del continuum dello spettro dell’umore; mm la presenza di strumenti di rilevazione che rilevano separatamente i sintomi depressivi e quelli maniacali. Attualmente la diagnosi viene effettuata facendo riferimento a strumenti di rilevazione che separatamente rilevano sintomi depressivi e sintomi relativi alla mania. A tal proposito allo scopo di fornire una visione d’insieme vengono qui di seguito presentati alcuni strumenti di rilevazione maggiormente utilizzati ai fini di ricerca e nella pratica 93 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione clinica, sottolineando che alla depressione e alla mania, per quanto facce del medesimo disturbo, la valutazione standardizzata ha riservato un trattamento molto diverso. Per la depressione, infatti, sono stati messi a punto numerosi strumenti di valutazione e si sono registrati, probabilmente, i maggiori progressi, mentre nel campo della mania, gli strumenti disponibili sono in numero molto limitato (Conti, 1999). Successivamente verranno presentate sistematicamente le interviste per la rilevazione del fenomeno depressivo, le scale di etero valutazione, le scale di valutazione della mania e due strumenti specifici per la rilevazione della depressione bipolare. a. Interviste per la rilevazione del fenomeno depressivo Le interviste strutturate maggiormente utilizzate nella ricerca e nella pratica clinica con un buon livello di affidabilità sono di seguito descritte: mm Schedule for Affective Disorder and Schzofrenia (SADS) (Endicott e Spitzer, 1978). Nella forma originale la SADS comprende due sezioni, la prima (SADS I) prende in considerazione l’episodio attuale o l’ultimo anno nel caso di un episodio recente, la seconda (SADS II) è centrata sull’anamnesi psichiatrica e sui trattamenti, ma prende in considerazione anche eventuali disturbi cronici che possono essere presenti al momento della valutazione. Lo scopo primario della SADS è l’identificazione di quei sintomi associati e importanti per la diagnosi differenziale dei disturbi affettivi. Il campo di applicazione privilegiato per la SADS è certamente quello delle ricerche sulla depressione, della quale fornisce i criteri per identificare fino ad 11 sottotipi di depressione maggiore. L’impiego di questo strumento deve essere fatto da persone esperte, che si siano sottoposte ad un training assai lungo ed impegnativo; mm La Structured Clinical Interview for DSM (SCID), è un’intervista semistrutturata sviluppata da Spitzer e collaboratori (1987) per la diagnosi della maggior parte dei disturbi di Asse I e per quelli di personalità sull’Asse II. Per i disturbi di Asse I, la SCID fornisce anche una valutazione di gravità e consente di stabilire la percentuale di tempo in cui i disturbi sono stati presenti negli ultimi 5 anni. Ciascuna delle tre versioni per le diagnosi di Asse I è composta da 8 o 9 moduli contenenti, ciascuno, le domande per indagare l’esistenza dei criteri per diverse categorie diagnostiche (disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, abuso di sostanze, etc.). mm Mini-International Neuropsychiatric Interview (M.I.N.I.) scala di valutazione diagnostica semi-strutturata messa a punto congiuntamente dai gruppi di Sheehan (USA) e di Lecrubier (Francia) (Sheehan et. al., 1998) e oggi tradotta in numerose lingue (oltre 35). Partendo da questo presupposto, gli Autori hanno scelto di focalizzare l’attenzione sui sintomi attuali (con l’eccezione del disturbo bipolare per il quale è rilevante sapere se un soggetto con un episodio depressivo in corso ha nell’anamnesi un episodio maniacale o ipomaniacale). La M.I.N.I si caratterizza per essere: • breve, semplice, chiara e facile da somministrare; • altamente sensibile, in grado, cioè, di identificare la massima percentuale possibile di soggetti con un determinato disturbo; • specifica, capace di escludere, cioè, i soggetti senza disturbi; • compatibile con i principali sistemi internazionali di classificazione diagnostica, l’ICD-10, il DSM-III-R (inizialmente) ed il DSM-IV successivamente; • in grado di cogliere le più importanti varianti subsindromiche; 94 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione • utilizzabile tanto nella pratica clinica routinaria (sia psichiatrica che di medicina generale) che in ambito di ricerca. b. L’etero-valutazione della depressione mm Hamilton Rating Scale for Depression – HRSD o HAM-D (1960), è senza dubbio la più conosciuta e la più usata nel mondo. Nella sua formulazione originale del 1960 l’HAM-D era composta da 17 item, portati a 21 nella versione successiva del 1967; oltre a queste ne sono calcolate numerose altre versioni con varianti più o meno arbitrarie, la più nota delle quali è quella a 24 item. La versione più diffusamente utilizzata è, probabilmente quella pubblicata nello “ECDEU Assessment Manual” (William, 1976). I criteri di valutazione sono, per la maggior parte degli item, la risultante dell’integrazione tra l’osservazione obiettiva dei segni e l’esposizione soggettiva dei sintomi, anche se il criterio di gravità fa riferimento prevalentemente agli aspetti obiettivi. La HAM-D non è uno strumento diagnostico e non deve essere usata a questo scopo (Hamilton,1967) poiché per porre una diagnosi è necessario che gli item accertino “non soltanto la presenza dei sintomi che il paziente ha, ma anche di quelli che il paziente non ha”. Come tutte le scale dimensionali, infatti, la HAM-D esplora e valuta la sintomatologia depressiva indipendentemente dal contesto psicopatologico-clinico in cui essa si colloca, dato che una componente depressiva la possiamo incontrare praticamente in qualsiasi ambito diagnostico (compresa la mania, vista l’esistenza dello Stato Misto). mm SADS-C, una scala derivata dalla Schedule for Affective Disorders and Schizophrenia- SADS, (Spitzer, Endicott, 1978). Gli Autori sono partiti dalla constatazione che una parte del successo della HAM-D è da ascriversi alla sua brevità, ottenuta peraltro a scapito della completezza dell’area esplorata, con omissione di sintomi comunemente considerati rilevanti per il concetto di depressione. La SADS-C esplora perciò, in maniera più ampia della HAM-D, la sintomatologia depressiva. c. Scale di valutazione della mania mm Maniac-State Rating Scale – MSRS ideata da Beigel e coll. (1971). La MSRS è costituita da 26 item per ciascuno dei quali è necessario fornire separatamente i due giudizi, di gravità e di frequenza, su una scala a 6 punti per la frequenza (da 0=nessuna a 5=sempre) e a 5 per la gravità (da 1=irrilevante a 5=molto). Le aree esplorate dalla scala comprendono il comportamento, la qualità del pensiero, l’attività motoria e lo stato dell’umore. mm Beck-Rafaelsen Mania Scale – BRMAS (Beck e collaboratori, 1979). Composta da 11 item valutati su di una scala a 5 livelli di gravità accuratamente descritti, esplora il livello di attivazione psicofisica. La scala misura, infatti, sintomi della sfera psichica, come l’umore, i sentimenti di grandezza, l’attività intellettiva ed il comportamento sociale, e sintomi somatici come l’attività motoria, il sonno, la libido. mm Mania Rating Scale – MRS, (Young e collaboratori, 1978). Strutturata sulla BRMAS è composta da 11 item che esplorano accuratamente i sintomi chiave della patologia maniacale. d. Scale di valutazione per la depressione bipolare mm la Hypomania Check List (HCL-32) di Angst J., Adolfsson R., Benazzi F., Gamma A., Hantouche E., Meyer T.D., et. al., 2005 è un questionario in autosomministrazione, 95 La depressione bipolare: linee guida per la diagnosi e la valutazione tradotto in diverse lingue, che comprende una lista di sintomi di tipo maniacale che il soggetto deve contrassegnare come “presenti” (o tipici) oppure “assenti“ (o non tipici). Il questionario comprende inoltre altri otto items che valutano la gravità e l’impatto dei sintomi di tipo eccitativo su diverse aree del funzionamento. Il punteggio totale viene ottenuto sommando i sintomi contrassegnati. Il questionario è stato sviluppato nell’ambito della ricerca di strumenti psicometrici per lo screening delle condizioni cliniche appartenenti allo spettro bipolare (Twiss J., Jones S., Anderson I. 2008). In particolare, il questionario è stato sviluppato come strumento di screening per l’ipomania, particolarmente cruciale per la distinzione tra disturbo depressivo maggiore ricorrente e disturbo bipolare di tipo II. mm Il MDQ (Mood Disorder Questionnaire) è un test per le versioni sottili di disturbo bipolare. Il questionario disturbi dell’umore (MDQ) è uno strumento di autovalutazione screening per una diagnosi ampia dello spettro bipolare (cioè, bipolare I [BD I], bipolare II [BD II], e non bipolare altrimenti specificato [BD NOS], secondo i criteri DSM-IV). Dispone di 13 domande che riguardano i sintomi di ipomania, il raggruppamento dei sintomi, e gli indicatori relativi alla compromissione della funzionalità della persona. Rispetto al colloquio strutturato Clinical per DSM-III-R (SCID), il MDQ presenta un’efficacia maggiore per una diagnosi di spettro bipolare. Considerazioni conclusive Il riconoscere lo SM come una condizione distinta sia dalla mania che dalla depressione ha notevoli implicazioni tanto dal punto di vista teorico quanto sul piano pratico. Gli episodi misti sono più frequenti nelle donne e sembrano indicare un’evoluzione del disturbo bipolare meno favorevole di quanto avviene generalmente. Lo SM viene a costituire una terza polarità dell’umore con proprie caratteristiche e non può essere considerato semplicemente la somma di sintomi depressivi e maniacali. La simultanea presenza di elementi contropolari comporta una presentazione psicopatologica polimorfa ed una difficile identificazione e differenziazione diagnostica, soprattutto quando essa è contaminata da sintomi psicotici (Dell’Osso, Pini, Tundo, Sarno, Musetti, Cassano, 2000). La difficoltà di individuare uno strumento diagnostico efficace e completo centra l’attenzione sull’expertise del professionista che nel corso del colloquio clinico deve saper riconoscere la sintomatologia espressa per individuare poi un piano di trattamento efficace, farmacologico e psicoterapico che possa contenere e supportare nello stesso tempo il paziente. Bibliografia Addington R.D., Addington J., Atkinson M., (1996), A psychometric comparison of the Calgary Depression Scale for Schizophrenia and the Hamilton Depression Rating Scale, Schizophrenia Research, 19:205. Aitken R.C.B., (1969), Measurement of feelings using visual analogue scale, Proceedings of Royal Society of Medicine, 62:989. Aitken R.C.B., (1975), Assessment of depression, J Int Med Res 3(s). Akiskal H.S., (1983), The bipolar spectrum: new concepts in classification and diagnosis. In: Grinspoon L, ed. Psychiatry update: American Psychiatric Association annual review, Vol II. 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Abstract L’articolo propone una riflessione e un’analisi degli elementi impliciti che entrano in gioco nella pratica clinica e nel percorso diagnostico con i pazienti migranti. Viene evidenziata l’importanza della lingua e del linguaggio all’interno del processo relazionale, della cultura come fattore determinante l’incontro tra il sistema di cura di provenienza e il sistema di cura del paese ospitante. Il lavoro di cura e di valutazione diagnostica di pazienti migranti è strettamente legato e connesso con il loro processo di integrazione con l’ambiente, e questo a sua volta può condizionare lo sviluppo, o meno, del disagio esistenziale. Nel processo dinamico e complesso della presa in carico di pazienti migranti, è buona prassi riconoscere i limiti dei sistemi di cura di riferimento per poterli utilizzare al meglio. Keywords: cultura, diagnosi, pazienti migranti, integrazione, etnopsichiatria, lingua, linguaggio, DSM IV, culture-bound syndrome, mediatore culturale, identità, diagnosi, presa in carico. È sempre più numerosa la presenza sul territorio italiano di persone provenienti da altri paesi e portatrici di altre culture. La presa in carico clinica di persone appartenenti a diversi gruppi etnici è esperienza sempre più comune e diffusa nei luoghi istituzionali, nei servizi pubblici, all’interno di reti di realtà locali che si occupano di servizi alla persona, e offrono sostegno e cura ai cittadini stranieri. 103 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti La presa in carico dei bisogni degli immigrati, compresi quelli di cura, pone diverse questioni. In generale si verifica che accanto a problemi di comprensione linguistica, emergono difficoltà sul piano relazionale e di gestione di aspetti relativi a diversi ambiti, tra cui quello psicologico, psicoterapico e diagnostico. Per chi partecipa alla presa in carico, per chi la conduce e guida, per chi fa valutazioni e diagnosi diviene necessario entrare in contatto con aspetti che secondo Tobie Nathan 1 (2003) costituiscono il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano: le tradizioni culturali e religiose, con i relativi sistemi d’interpretazione della realtà, con i diversi approcci al disagio, alla malattia, alla corporeità, al mondo emotivo. La cultura è qualcosa da cui non si può prescindere, la cultura significa genere umano. Affrontare ed accogliere le richieste di cura degli utenti migranti richiede un complesso dispositivo terapeutico che tenga conto della concezione e dei significati che la cultura dei partecipanti alla presa in carico (operatore e utente) attribuisce alla malattia e alla cura stessa. Dove questo non avviene, dove le categorie epistemologiche del pensiero della cultura occidentale si impongono e prevalgono sulla necessità di un riconoscimento reciproco, allora è probabile che i partecipanti alla presa in carico finiscano per provare un forte senso di solitudine o di sconfitta (operatore) e di sfiducia e di estraneità (utente). Il lavoro di cura con gli immigrati mi porta in primo luogo a fare alcune riflessioni, tra cui la questione dell’ospitalità. L’ospitalità non è mai semplice, non si riduce ad aiutare il bisognoso, pone piuttosto la questione di ricevere ed accogliere uno sconosciuto, che parla un’altra lingua, porta con sé altre sensazioni, è collegato ad altre forze. L’ospite non è mai un “chiunque”, pensare l’ospite come un ricco straniero o un povero immigrato? La lingua, in una comunicazione (il linguaggio verbale) ha il compito di facilitare la comprensione reciproca, lo scambio di informazioni, la conoscenza, l’incontro. La lingua poiché è un elemento fondante della cultura, in una concezione più ampia non può essere identificata solo nel linguaggio, questo è un aspetto della lingua, la quale ha piuttosto il compito fondamentale di decodificare significati, peculiarità, trasmettere valori, dare senso alla comunicazione. Tale prospettiva impone che nei percorsi di cura e di aiuto venga utilizzata e convocata la lingua madre, culturalmente determinata, per facilitare la comunicazione e la comprensione tra operatore e utente. La conoscenza delle culture è la conoscenza delle persone, anzi la cultura è un sistema talmente complesso e stratificato che ognuno di noi appartiene a più culture, che abitano dentro di noi, interagiscono con noi, stanno intorno a noi, con le quali entriamo in contatto, in uno scambio reciproco. L’etnopsichiatria si occupa delle connessioni tra psicopatologia e cultura e delle differenze tra cultura e cultura. L’approccio etnopsichiatrico formalizza un dispositivo di cura che possa permettere la presa in carico di pazienti immigrati: “le difficoltà che questi vivono nella relazione con il clinico occidentale non derivano da loro supposte carenze strutturali, ma dalle carenze del dispositivo clinico usuale che riesce ad accogliere solo alcuni aspetti del paziente e non altri” (Nathan T., 1996). Secondo Tobie Nathan “la cultura è una struttura specifica di origine esterna (sociale) che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico”, ovvero “un sistema Tobie Nathan professore di psicologia clinica e psicopatologia all’Università di Paris VIII, dove dirige il “Centro Georges Devereux per l’aiuto psicologico alle famiglie immigrate. 1 104 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti che contribuisce alla costruzione del mondo di una persona e la garantisce dalle sue crisi di presenza” (Nathan, 1996, pag. 15). Ciascun essere umano è culturalmente determinato e organizzato intorno ad appartenenze che contribuiscono a costruirne l’identità. La follia è legata alle società e alle culture in cui si manifesta attraverso stratificazioni di reti di significati. Obiettivo del lavoro entopsichiatrico è decodificare, ricostruire, dare senso a tali reti, alle associazioni tra cultura e psiche. Il paziente non è più solo portatore di disturbo, anche di una cultura da decodificare. Secondo Nathan (1996) la cultura è un involucro, un contenitore, che può essere però perforato per esempio in seguito ad un trauma, una perdita, una separazione, una partenza, una migrazione. L’integrità della persona nel suo percorso migratorio e di adattamento al paese ospitante è quindi temporaneamente in pericolo, possono verificarsi perdite e disorientamento, tanto da mettere in moto il processo di ri-definizine del Sé in relazione al nuovo ambiente. Attraverso la falda dell’involucro culturale possono viceversa insediarsi ed introdursi elementi esterni, estranei, nuovi e appartenenti al contesto ospitante. Questa condizione iniziale e/o temporanea, di assimilazione di elementi nuovi, avvia il processo di integrazione, che in senso più ampio si riferisce al fatto che lo straniero inizia ad appartenere al contesto ospitante, e nello specifico indica anche il cambiamento ad un livello più profondo, identitario, personale. L’evento migratorio può essere considerato un vero e proprio atto psichico: la rottura con l’ambiente d’origine provoca la frattura intrapsichica. Nathan (1996) conserva il pensiero di Devereux secondo cui l’evento migratorio è un evento potenzialmente traumatico, in cui si verifica la perdita del contesto culturale interno, necessario per codificare la realtà esterna. Nel percorso di integrazione, attraverso l’assimilazione, vengono fatti propri elementi esterni - estranei e vengono trattati “come se” fossero i propri. L’identità si modifica, anche se non in modo congruente con i bisogni del momento. Questa prima fase di assimilazione è quindi una tappa d’obbligo affinché si costituisca un percorso di integrazione sia esterno interpersonale che interno intrapsichico. L’assimilazione prevede però che sia l’ospite ad adattarsi, mentre spesso la società di accoglienza rimane intatta. Il processo integrativo avviene quando entrambe le parti vivono un cambiamento, dall’incontro e il mutamento reciproco nasce qualcosa di nuovo che è più della somma delle singole parti. Tale processo riguarda tutti i migranti, senza distinzione tra adulti, minori, uomini, donne. Può essere più o meno veloce, di solito è in parte influenzato dal grado di integrazione e partecipazione alla vita sociale nel paese di origine: il migrante che vive una buona condizione di partecipazione, valorizzazione ed integrazione nel proprio paese, avrà meno difficoltà nel processo di integrazione nel paese ospitante. Chi invece vive condizioni di emarginazione, degrado, scarsa realizzazione di sé nel paese di origine, incontrerà maggiori difficoltà nel paese ospitante, e spesso il processo di integrazione subisce arresti significativi. Nella mia esperienza, ciò che ho potuto notare è che mentre gli adulti affrontano con maggiore “integrità” (immaginiamo un involucro saldo che li protegga) il processo di assimilazione e quindi di integrazione, i minori e in particolar modo gli adolescenti sono per certi aspetti più sensibili e perturbati da ciò che si presenta come estraneo, sconosciuto. Tale incontro, con il paese ospitante, si insinua e condiziona il processo di crescita (Giusti, 2009). 105 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti Lo scenario culturale diviene un esterno da interiorizzare, necessario per costruire una propria identità, l’apertura all’esterno in questa fase è al massimo, anche perché è in corso il processo di separazione dalla famiglia (con numerose varianti da cultura a cultura), che spinge il giovane ad interessarsi di più a ciò che sta fuori di casa. Alcuni giovani descrivono la propria esperienza come contrassegnata da contraddizioni e distanze molto forti tra ciò che vivono in casa con i propri familiari e ciò che vivono esternamente. Ciò che sta fuori di sé (famiglie ed esterno) si presenta ricco di contrasti, mettendo a dura prova il processo di interiorizzazione: cosa faccio mio? cosa metto dentro, cosa mi caratterizza?. La scelta si complica perché spesso devono scegliere tra le loro origini e quindi gli affetti (ricordate e narrate perlopiù dai loro genitori, o dai nonni) e il loro presente, il loro futuro, anch’esso affettivamente connotato. Una strada alternativa spesso perseguita dai giovani immigrati è di non scegliere veramente ed autenticamente, bensì di appiccicarsi addosso qualcosa che li faccia sentire “come se” facessero parte del nuovo paese che li ospita. Accade che il processo di integrazione, nella sua fase di assimilazione possa colludere con il processo di integrazione per la costruzione del sé e della propria identità negli adolescenti: la scelta dei propri interessi, della scuola, degli amici, dello sport, il modo in cui esprimere le proprie esigenze e difficoltà, tutto è necessariamente condizionato perché molto è cambiato (Giusti, 2007). Spesso osservo esperienze di isolamento, in cui il giovane è ritenuto incapace di integrarsi, perché incapace di attivare comportamenti, atteggiamenti, risposte simili ai giovani autoctoni. Quando poi tale richiesta è presa alla lettera, si assiste ad una falsa scelta, a scapito di un autentico processo di costruzione del Sé. L’integrazione e la costruzione della propria identità sono facilitate e sostenute maggiormente dove avviene un processo di integrazione sociale, inteso come cambiamento e mutamento reciproco, dove non ci sia cultura minoritaria e cultura dominante, bensì un tutto che è maggiore della somma delle singole parti (Giusti., 2011). Per i giovani, l’esperienza che la realtà possa cambiare sotto il proprio e personale effetto, che possa essere modificata e ridefinita, produce il senso di autodeterminazione e di autoefficacia, e favorisce lo sviluppo dell’autostima. Se questo avviene ad un livello più sociale, dove la realtà dell’ospite modifica la realtà del paese ospitante e viceversa, si crea un buon modello, diverso dall’assimilazione, un passo in avanti, un contributo al processo evolutivo della crescita dei nostri giovani. Quali ostacoli nei percorsi di valutazione e diagnosi? In una relazione terapeutica con pazienti migranti possono insorgere alcune difficoltà. Colasanti e Geraci, due medici che sin dagli anni ’80 si occupano di medicina dell’immigrazione, e nello specifico della relazione medico-paziente straniero, individuano alcuni livelli d’incomprensione tra operatore sanitario e paziente straniero. Al livello pre-linguistico si possono manifestare alcune difficoltà dei pazienti stranieri a comunicare i propri vissuti (il proprio disagio) ad un interlocutore che non parla la propria lingua. La difficoltà può riguardare sia il riconoscimento sia l’espressione di aspetti profondi e simbolici, vissuti e stati d’animo legati al disagio, di conseguenza il terapeuta e chi fa la diagnosi può trovarsi di fronte a problemi di comprensione della natura e dell’entità del problema. 106 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti Secondo gli autori, al livello linguistico, anche laddove la comprensione è facilitata dall’utilizzo da parte di entrambi di un unico codice linguistico, le incomprensioni possono insorgere perché non sempre c’è una sovrapposizione completa dei significati delle parole nelle varie lingue: per esempio i somali chiamano “reni” l’area cutanea addominale anterolaterale, mentre in italiano questa parola designa l’area dorsale latero-rachidea. Altre sovrapposizioni terminologiche possano portare un terapeuta a dare per scontato di aver compreso benissimo, mentre questo non è affatto accaduto. Per tale motivo è importante che il terapeuta e chi fa la diagnosi “entri dentro la lingua, esamini a fondo le nozioni, ricerchi la pragmatica delle espressioni..”, come sostiene Nathan nel testo già citato (Nathan, 2003). Per esempio nelle lingue del Congo e dello Zaire la parola che tradotta significa “mangiare” è utilizzata anche per riferirsi all’azione del “vedere”, un termine non adeguatamente compreso da un punto linguistico può alterare completamente il significato di una comunicazione. A livello metalinguistico accade che ad un certo termine possano corrispondere, e possono essere attribuiti significati, immagini differenti appartenenti all’universo mentale di chi parla e di chi ascolta. Dato che il paziente è la persona più competente (anche se non necessariamente consapevole) rispetto al proprio disagio, alla sofferenza, e il modo che ha di comunicarlo è attraverso la propria lingua madre, Nathan (2003) suggerisce di fare una riflessione sull’importanza della lingua: non è mera comunicazione, bensì è un modello di comprensione fondamentale, ampio e vasto. La lingua è un prodotto della cultura di appartenenza, è in relazione con gli oggetti, i luoghi, tradizioni, miti, e se questi elementi sono implicati nel produrre il disagio, gli stessi devono essere recuperati e resi parte integrante del dispositivo terapeutico. Il quarto livello, quello culturale, si ricollega a quanto più volte detto, ovvero l’importanza dei riferimenti culturali, dell’insieme de valori spirituali e ideologici, del modo di “essere al mondo” che ognuno di noi ha. Nella concezione etnopsichiatrica sono gli stessi dispositivi terapeutici a produrre il disagio, e viceversa: un dispositivo terapeutico occidentale che utilizza strumenti e riferimenti nosografici e diagnostici di un certo tipo, produce malattie e disagi che portano il segno e le caratteristiche del dispositivo deputato alla cura. Dispositivi terapeutici che per la cura utilizzano oggetti, utensili, stregonerie, santoni e guaritori, si occupano e producono disagi con le stesse caratteristiche, dove il riferimento primario è quello della cultura madre. In altre parole i dispositivi terapeutici e i disagi di cui si occupano sono culturalmente determinati (Coppo, 2005). Le caratteristiche strutturali del setting per la presa in carico e la comprensione (non solo linguistica, anche culturale) sono decisive per l’innesco, lo sviluppo e gli esiti del processo terapeutico e di valutazione diagnostica. Come posso produrre una diagnosi e arrivare a una valutazione che permetta di strutturare l’intervento più adeguato? Mi devo affidare alle descrizioni cliniche tipiche della psichiatria, dove “l’osservatore possiede il quadro di riferimento a cui appartiene l’osservato”? È possibile inserire o seguire un percorso che non sia necessariamente lineare, diagnosi, prognosi e trattamento? Le risposte sembrano essere negli strumenti utilizzati, nei setting allestiti, negli operatori coinvolti nella presa incarico, che non si riducono al “solo” terapeuta o di chi fa la diagnosi. Spesso i setting dei pazienti immigrati sono abitati, frequentati da più persone, che facilitano quella comprensione profonda, necessaria per il superamento del dolore. 107 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti Il setting riproduce quindi non solo la lingua madre, anche le teorie implicite, i modi di fare, diventa luogo, scenario culturale che comunica al terapeuta tutto ciò che è necessario per rendere il proprio intervento efficace. Il dispositivo psicoterapico subisce delle profonde modificazioni poiché si rende necessaria nel setting la presenza di più figure: terapeuti, guaritori, famiglia, mediatori linguisticoculturali. Il ruolo del mediatore è importante nella misura in cui rende possibile la comunicazione nella lingua madre, garantendo quindi la presenza del piano simbolico e la codifica dei significati dell’esperienza soggettiva. Il Mediatore ha il compito di decodificare i codici linguistico-culturali che altrimenti potrebbero essere fraintesi, non colti, tralasciati se letti nella lingua di accoglienza. La presenza del mediatore crea all’interno della relazione terapeutica una terza dimensione, una tridimensionalità, che garantisce la presenza di significato e la sua decodifica, mettendo ai ripari da un appiattimento relazionale e da una relazione terapeutica sterile e priva di significati. Il lavoro terapeutico e diagnostico con i migranti (e in generale con tutte le persone) necessita quindi di una profonda attenzione agli aspetti culturali, di provenienza e richiede l’utilizzo di specifici setting terapeutici che tengano conto di tali necessità. In ambito strettamente diagnostico, sembrano esserci non poche difficoltà nel tentativo di costituire un manuale diagnostico che rifletta fedelmente la diversità di una società multiculturale. Le influenze culturali sono inevitabili, la definizione della malattia mentale non può prescindere da condizionamenti culturali. La prospettiva che offre rilevanza agli aspetti culturali contesta l’egemonia di particolari forme di scienza e le pretese di universalità della psichiatria occidentale, secondo la quale ciò che si osserva e si rileva in riferimento alla classe medio alta della popolazione europea ed americana, sia generalizzabile a tutta l’umanità. La necessità di interpellare e di tener presenti gli aspetti culturali su un piano diagnostico ha portato a sviluppare un interesse nei confronti di forme di disagio rilevate e non attribuibili alle categorie diagnostiche proposte dal manuale di riferimento, il DSM. Già Devereux in un suo saggio del 1956 (ripubblicato in Devereux, 1978), aveva offerto un contributo originale allo studio di disturbi esotici. Distinse quattro tipi di categorie etnopsichiatriche di disturbi della personalità: 1. Disturbi tipici, strettamente legati al tipo di struttura sociale. 2. Disturbi etnici, che si riconnettono al modello culturale proprio del gruppo. 3. Disturbi sacri, del tipo sciamanico. 4. Disturbi idiosincratici. Oggi si parla di sindrome culturalmente determinata o culture-bound syndrome (CBS), ed è oggetto di notevoli controversie. Tale espressione è divenuta indicativa di una serie di presunti disturbi mentali (amok, latha, koro, windingo, susto, ecc.), che si manifestano generalmente al di fuori dell’Occidente. Nel corso del tempo, le culture-bound syndomes sono state sottoposte a, più o meno riusciti, tentativi di collocazione all’interno degli strumenti della nosografia occidentale. Le CBS, nonostante i propositi, non hanno trovato posto all’interno degli assi diagnostici dell’ultima revisione del DSM IV. Tuttavia – probabilmente a scopo riparatore – in questa edizione è stato inserito un glossario all’interno del quale sono contenuti i nomi di 25 culture-bound syndromes accompagnate da una breve descrizione. 108 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti Tratto da DSM-IV: Il termine sindrome culturalmente caratterizzata si riferisce a modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica del DSM-IV. Molte di queste modalità sono considerate anche localmente “malattie”, o per lo meno fastidi, e molte hanno denominazioni locali. Per quanto quadri clinici corrispondenti alle principali categorie DSM-IV possano essere trovati in tutto il mondo, i sintomi, il decorso e le risposte sociali sono molto spesso influenzati dai fattori culturali locali. Al contrario, le sindromi culturalmente caratterizzate sono generalmente limitate a società e aree culturali specifiche, e rappresentano categorie diagnostiche popolari locali che conferiscono significati coerenti a certi complessi di esperienze ripetitive, strutturate e disturbanti e alle osservazioni relative. Per concludere, a lato di una riflessione attraverso autori, riferimenti, teorie, pratiche, “convoco” anche la mia esperienza personale e quotidiana di relazioni e rapporti, terapeutici e non solo, con i migranti. Come dice Nathan ponendomi la questione dell’ospitalità, è d’obbligo per me riconoscere posizioni sfumate tra l’ospitare il ricco straniero o il povero immigrato. Una scelta implicherebbe comunque un pre-giudizio (positivo o negativo) ed una conseguente esclusione, mentre ciò che ritengo efficace e in linea con l’importanza attribuita agli aspetti della relazione, è l’apertura alla conoscenza, il superamento di posizioni rigide, difensive. Tanto più in un lavoro terapeutico, dove l’estraneità è reciproca, ed è straniero ciò che aspetta di essere conosciuto. Glossario delle sindromi culturalmente caratterizzate Tratto da (DSM-IV) Questo glossario comprende alcune delle sindromi culturalmente caratterizzate ed espressioni di disagio meglio studiate che si possono incontrare nella pratica clinica in Nord America e riporta certe importanti categorie DSM-IV quando i dati consigliano che siano tenute in considerazione nella formulazione diagnostica. Amok. Un episodio dissociativo, caratterizzato da un periodo di incubazione seguito da una esplosione di comportamento violento, aggressivo, o anche omicida, diretto verso persone e oggetti. Gli episodi tendono a essere precipitati dall’impressione di ricevere offese o insulti, e sembrano frequenti solo tra i maschi. Gli episodi sono spesso accompagnati da idee persecutorie, automatismi, amnesie, esaurimento, e si ha ritorno alla condizione premorbosa dopo l’episodio. In certi casi l’amok può manifestarsi nel corso di un episodio psicotico breve, oppure rappresentare l’esacerbazione di un processo psicotico cronico. I resoconti originali che utilizzavano questo termine provenivano dalla Malesia. Un quadro comportamentale simile venne ritrovato in Laos, nelle Filippine, in Polinesia (cafard o cathard), nel Papua Nuova Guinea, a Portorico (mal de pelea), e tra i Navajo (iich’aa). Ataque de nervios. Un’espressione di disagio riscontrata principalmente tra i latini dei Caraibi, ma ritrovata anche in molti gruppi Latino Americani e Latino Mediterranei. I sintomi comunemente riferiti comprendono grida incontrollabili, attacchi di pianto, tremori, calore che dal petto sale alla testa, e aggressività verbale o fisica. Esperienze dissociative, episodi convulsivi o di mancamento, e gesti suicidi sono in primo piano in certi attacchi, 109 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti ma assenti in altri. Una manifestazione frequente degli ataque de nervios è la sensazione di perdere il controllo. Gli ataque de nervios facilmente si verificano come conseguenza diretta di qualche evento stressante riguardante la famiglia (per es., la notizia della morte di un parente stretto, la separazione o divorzio dal coniuge, conflitti con il coniuge e i figli, oppure il fatto di assistere a un incidente che coinvolge un membro della famiglia). Le persone possono avere amnesia per quanto succede durante l’ataque de nervios, ma in genere ritornano rapidamente ai loro livelli usuali di funzionamento. Per quanto la descrizione di alcuni ataque de nervios corrisponda da vicino alla descrizione DSM-IV degli Attacchi di Panico, l’associazione della maggior parte degli ataque con un evento precipitante e la frequente assenza dei sintomi patognonomici come la paura acuta e la apprensività li differenziano dal Disturbo di Panico. Gli ataque coprono una gamma che va da normali espressioni di disagio non associate con alcun disturbo mentale a quadri sintomatologici collegabili con la diagnosi di Disturbi d’Ansia, dell’Umore, Dissociativi, o Somatoformi. Bilis e colera (chiamato anche muina). La causa che sottostà a queste sindromi viene ritenuta essere un’esperienza intensa di irritazione o di rabbia. La rabbia viene considerata presso molti gruppi Latini un’emozione particolarmente potente, che può avere effetti diretti sul corpo, e può esacerbare sintomi preesistenti. L’effetto principale della rabbia è quello di disturbare gli equilibri fondamentali del corpo, intesi come l’equilibrio tra le valenze calde e quelle fredde nell’organismo, e tra gli aspetti materiali e quelli spirituali. I sintomi possono comprendere tensione nervosa acuta, cefalea, tremore, urla, mal di stomaco, e, nei casi più gravi, perdita di coscienza. Una forma cronica di affaticamento può subentrare agli episodi acuti. Bouffée delirante. Una sindrome osservata nell’Africa Occidentale e ad Haiti. Questo termine francese si riferisce a esplosioni improvvise di comportamento agitato e aggressivo, accentuata confusione, ed eccitamento psicomotorio. Talora possono concomitare allucinazioni visive e uditive, oppure ideazione paranoide. Questi episodi possono somigliare agli episodi di Disturbo Psicotico Breve. Brain fag. Un termine inizialmente usato nell’Africa Occidentale per descrivere una condizione sperimentata da studenti liceali o universitari in risposta agli impegni scolastici. I sintomi comprendono difficoltà di concentrazione, di memoria e di pensiero. Gli studenti spesso entrano nell’idea che il loro cervello sia “affaticato”. I sintomi fisici associati riguardano solitamente la testa e il collo, e comprendono dolore, sensazioni di peso o di apprensione, appannamento della vista, sensazioni di caldo o di bruciore. “Stanchezza del cervello”, oppure affaticamento da “eccessivo pensare”, sono espressioni di disagio presenti in molte culture, e le sindromi conseguenti possono ricordare alcuni Disturbi d’Ansia, Depressivi, e Somatoformi. Dhat. Un termine diagnostico popolare usato in India per definire gravi preoccupazioni ansiose e ipocondriache associate con polluzioni, colorazione biancastra delle urine, e sensazioni di debolezza e affaticamento. Simile al jiryan (India), al sukra prameha (Sri Lanka) e al shen-k’uei (China). 110 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti Falling-out o blacking-out. Questi episodi si riscontrano soprattutto negli Stati Uniti del Sud e tra i gruppi Caraibici. Sono caratterizzati da un improvviso collasso, che talora si manifesta senza preavviso, ma altre volte è preceduto da sensazioni di vertigine o di “galleggiamento” della testa. Gli occhi del soggetto sono di solito ben aperti, ma la persona si lamenta di non riuscire a vedere. La persona di solito sente e capisce quello che le accade intorno, ma non si sente in grado di muoversi. Ciò può corrispondere a una diagnosi di Disturbo di Conversione o Dissociativo. Hwa-byung (nota anche come wool-hwa-byung). Una sindrome popolare Koreana, che letteralmente corrisponde a “sindrome di rabbia” e viene attribuita alla repressione della rabbia. I sintomi comprendono insonnia, affaticamento, panico, senso di morte imminente, umore disforico, cattiva digestione, anoressia, dispnea, palpitazioni, dolori e dolorabilità diffusi, e sensazioni di peso epigastrico. Koro. Un termine, di probabile origine Malese, che si riferisce a episodi di improvvisa e intensa preoccupazione che il pene (nelle femmine la vulva e i capezzoli) possano rientrare nel corpo e causare la morte. La sindrome è stata riscontrata nell’Asia del Sud e dell’Est, dove è conosciuta con una varietà di denominazioni locali come shuk-yang, shook yang, e suo yang (Cinese); jinjinia bemar (Assam); o rok-joo (Tailandia). È stata riscontrata occasionalmente anche in Occidente. Il koro si manifesta talora in forma epidemica localizzata nelle aree dell’Asia Orientale. Questa diagnosi è compresa nella Classificazione Cinese dei Disturbi Mentali, Seconda Edizione (CCMD-2). Latah. Ipersensibilità agli spaventi improvvisi, spesso accompagnata da ecoprassia, ecolalia, obbedienza a comandi, e comportamento dissociativo o tipo trance. Il termine latah è di origine Malese o Indonesiana, ma la sindrome è stata riscontrata in molte parti del mondo. Altri termini per questa condizione sono: amurakh, irkunii, ikota, olan, myriachit e menkeiti (gruppi siberiani); bah tschi, bah tsi, baah-ji (Tailandia); imu (Ainu, Sakhalin, Giappone); e mali-mali e silok (Filippine). In Malesia è più frequente tra le donne di mezza età. Locura. Un termine usato dai Latini negli Stati Uniti e in America Latina per indicare forme gravi di psicosi cronica. La condizione viene attribuita a una vulnerabilità ereditaria, agli effetti delle difficoltà della vita, o a una combinazione di entrambi i fattori. I sintomi mostrati dai pazienti affetti da locura comprendono incoerenza, agitazione, allucinazioni uditive e visive, incapacità di seguire le regole della interazione sociale, imprevedibilità ed eventuale violenza. Malattia del fantasma. Una preoccupazione riguardante la morte o i defunti (talora associata a pratiche magiche), frequentemente osservata tra i membri di molte culture indiane americane. Vengono attribuiti alla malattia del fantasma molti sintomi, tra cui sogni angosciosi, astenia, sensazioni di pericolo, perdita di appetito, svenimenti, vertigini, paura, ansia, allucinazioni, perdita di coscienza, confusione, sentimenti di futilità, e sensazioni di soffocamento. Mal de ojo. Un concetto ampiamente diffuso nelle culture mediterranee e anche in altre 111 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti parti del mondo. Mal de ojo è una frase spagnola che andrebbe tradotta malocchio. Sono a rischio soprattutto i bambini. I sintomi comprendono sonno irregolare, pianto immotivato, diarrea, vomito, e febbre nei bambini e nell’età infantile. Talora anche gli adulti (soprattutto femmine) possono presentare la condizione. Nervios. Un’espressione comune di disagio tra i Latini degli Stati Uniti e dell’America Latina. Anche vari altri gruppi etnici hanno concetti simili di “nervi”, per quanto talora un po’ diversi (per es., i nevra tra i Greci del Nord America). Nervios si riferisce sia a uno stato generale di vulnerabilità alle esperienze stressanti della vita, sia a una sindrome causata da difficili condizioni di vita. Il termine nervios comprende una vasta gamma di sintomi di disagio emotivo, alterazione somatica e difficoltà di funzionamento. I sintomi più comuni comprendono cefalea e “male al cervello”, irritabilità, mal di stomaco, difficoltà a dormire, nervosismo, facilità al pianto, difficoltà di concentrazione, tremori, sensazioni di ronzio e mareos (giramenti di testa con occasionale esacerbazione a tipo vertigine). I nervios tendono a essere un problema di lunga durata, per quanto variabile nel grado di gravità e conseguente menomazione. I nervios sono una sindrome molto vasta, che spazia da casi in cui non vi sono disturbi mentali a quadri che assomigliano ai Disturbi dell’Adattamento, d’Ansia, Depressivi, Dissociativi, Somatoformi o Psicotici. La diagnosi differenziale dipende dalla costellazione dei sintomi accusati, dal tipo di eventi sociali che sono collegati all’esordio e al decorso dei nervios, e dal livello di menomazione presentato. Pibloktoq. Un episodio dissociativo improvviso, accompagnato da estremo eccitamento, della durata inferiore a 30 minuti, e frequentemente seguito da convulsioni epilettiformi e coma che dura fino a 12 ore. Viene osservato soprattutto nelle comunità eschimesi dell’Artico e del sub Artico, per quanto esistano varianti regionali della denominazione. Il soggetto può rimanere ritirato o lievemente irritabile per un periodo di ore o di giorni prima dell’attacco. Durante l’attacco stesso, il soggetto può stracciarsi i vestiti, distruggere mobili, gridare oscenità, mangiare feci, fuggire dai luoghi protetti, oppure commettere altri atti irrazionali o pericolosi. Reazione psicotica qi-gong. Un termine che descrive un episodio acuto, limitato nel tempo, caratterizzato da sintomi dissociativi, paranoidi, o altri sintomi psicotici o non psicotici, che possono manifestarsi a seguito della partecipazione alle pratiche salutari popolari cinesi del qi-gong (“esercizio dell’energia vitale”). Risultano particolarmente vulnerabili i soggetti che rimangono eccessivamente coinvolti nelle pratiche. Questa diagnosi è compresa nella Classificazione Cinese dei Disturbi Mentali, Seconda Edizione (CCMD-2). Rootwork. Un insieme di interpretazioni culturali che attribuiscono la malattia a fatture, magie, stregonerie, o all’influenza malefica di qualche altra persona. I sintomi possono comprendere ansia generalizzata, problemi gastro-intestinali (per es. nausea, vomito, diarrea), astenia, vertigini, la paura di essere avvelenato, e talora la paura di essere assassinato (“morte voodoo”). “Radici”, “incantesimi”, o “malocchio” possono essere “messi” o piazzati su altre persone, causando loro una varietà di problemi emozionali o psicologici. La persona colpita può anche temere la morte fino a che la “radice” non sia stata “tolta” (eliminata) di solito attraverso l’opera di un “root doctor” (un guaritore tradizionale), che può anche essere 112 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti chiamato per fare una fattura a un nemico. Il “root work” viene riscontrato negli Stati Uniti del Sud, sia tra gli Afro-Americani, che tra la popolazione Euro-Americana, e anche nelle società Caraibiche. È anche conosciuto come mal puesto o brujeria nelle società Latine. Sangue dormido (“sangue addormentato”). Questa sindrome si ritrova tra gli isolani portoghesi di Capo Verde (e tra gli immigrati da lì agli Stati Uniti), e comprende dolore, torpore, tremore, paralisi, convulsioni, colpi apoplettici, cecità, attacchi di cuore, infezioni, aborti. shenjing shuairuo (“neurastenia”) In Cina, una condizione caratterizzata da affaticamento fisico e mentale, vertigini, cefalea, altri dolori, difficoltà di concentrazione, alterazioni del sonno, e perdita di memoria. Gli altri sintomi comprendono problemi gastro-intestinali, disfunzioni sessuali, irritabilità, eccitabilità, e vari segni indicativi di una alterazione del sistema nervoso autonomo. In molti casi, i sintomi possono corrispondere ai criteri DSM-IV per i Disturbi dell’Umore o d’Ansia. Questa diagnosi è compresa nella Classificazione Cinese dei Disturbi Mentali, Seconda Edizione (CCMD-2). Shen-k’uei (Taiwan); shenkui (Cina). Una categoria popolare cinese, che si riferisce a una condizione di ansia marcata o di sintomi panici, accompagnata da lamentele somatiche per le quali non è dimostrabile nessuna causa fisica. I sintomi comprendono vertigini, mal di schiena, affaticabilità, astenia generalizzata, insonnia, frequenti sogni, e problemi di cattivo funzionamento sessuale (come ejaculazione precoce e impotenza). I sintomi vengono attribuiti a una eccessiva perdita di seme dovuta a frequenti rapporti sessuali, masturbazione, emissione notturna, o emissione di “urine bianche e torbide”, che si ritiene contengano sperma. L’eccessiva perdita di seme viene temuta a causa della convinzione che rappresenti la perdita della propria essenza vitale e possa pertanto rivelarsi pericolosa per la vita. Shin-byung. Un’etichetta popolare koreana per una sindrome in cui le fasi iniziali sono caratterizzate da ansia e lamentele somatiche (astenia generale, vertigini, paura, anoressia, insonnia, problemi gastro-intestinali), mentre successivamente si manifestano dissociazione e possessione da parte di spiriti ancestrali. spell Uno stato di trance in cui l’individuo “comunica” con dei parenti deceduti o degli spiriti. A volte questo stato è associato con brevi periodi di cambiamento della personalità. Questa sindrome culturalmente caratterizzata viene riscontrata tra gli Afro-Americani e gli Euro-Americani degli Stati Uniti del Sud. Gli spell non vengono considerati eventi di competenza medica nella tradizione popolare, ma possono venire erroneamente interpretati come episodi psicotici nei setting clinici. Susto (“spavento”, oppure “perdita di anima”). Una sindrome etnica diffusa tra i Latini degli Stati Uniti e tra la popolazione di Messico, Centro America, e Sud America. Il susto viene anche chiamato espanto, pasmo, tripa ida, perdida del alma o chibih. Il susto è una malattia attribuita a un evento terrorizzante che causa la fuga dell’anima dal corpo, e causa infelicità e malattia. I soggetti affetti dal susto sperimentano anche particolare tensione nelle principali situazioni sociali. I sintomi possono manifestarsi in qualsiasi momento, anche a giorni o anni di distanza dall’evento terrorizzante. Si ritiene che in certi casi estremi il susto possa causare la morte. I sintomi tipici comprendono alterazione dell’appetito, sonno insuf113 Riflessioni sulla pratica clinica e sulla diagnosi con pazienti migranti ficiente o eccessivo, sonno turbato o sogni angosciosi, sentimenti di tristezza, mancanza di motivazione a fare le cose, e sentimenti di bassa autostima o di sporcizia. I sintomi somatici che accompagnano il susto comprendono dolore e dolenzia muscolare, mal di testa, mal di stomaco e diarrea. Le cure rituali sono concentrate sul fatto di richiamare l’anima nel corpo e di purificare la persona al fine di ristabilire l’equilibrio corporeo e spirituale. Le diverse forme di susto possono essere collegate ai Disturbi Depressivi Maggiori, al Disturbo Post Traumatico da Stress, e ai Disturbi Somatoformi. Convinzioni eziologiche e configurazioni sintomatologiche simili vengono riscontrate in molte parti del mondo. Taijin kyofusho. Una fobia culturalmente caratterizzata presente in Giappone, che assomiglia un po’ alla Fobia Sociale del DSM-IV. Questa sindrome comporta da parte di un individuo un’intensa paura che il proprio corpo, le sue parti e le sue funzioni, risultino spiacevoli, imbarazzanti, od offensivi agli altri a causa dell’aspetto, dell’odore, delle espressioni mimiche, o dei movimenti. Questa sindrome è compresa nel sistema diagnostico ufficiale Giapponese per i disturbi mentali. Zar. Un termine generico utilizzato in Etiopia, Somalia, Egitto, Sudan, Iran, e in altre società Nord Africane e del Medio Oriente per indicare l’esperienza di possessione spiritica di un individuo. Le persone possedute da uno spirito possono sperimentare episodi dissociativi che possono manifestarsi con grida, risa, testate contro i muri, o pianto. I pazienti possono mostrare apatia e ritiro, rifiutandosi di mangiare o di svolgere i propri compiti quotidiani, oppure possono sviluppare un rapporto di lunga durata con lo spirito possessore. Localmente tale comportamento non viene considerato patologico. Bibliografia Coppo P. (2005), Le ragioni del dolore, Bollati Boringhieri, Torino. Devereux G. (1978), Saggi di Etnopsichiatria Generale, Armando, Roma. American Psychiatric Association (1997), APA: DSM-IV - Manuale diagnostico e statistico dei disturbi di personalità (4th edn.), Masson, Milano. Giusti M. (2011), Immigrazione e consumi culturali, Edizioni Laterza, Roma. Giusti M. (2009), L’educazione interculturale nella scuola, Edizione aggiornata con nuove cittadinanze e Costituzione, RCS/La nuova Italia, Milano. Giusti M. (2007), Pedagogia Interculturale.Teorie, metodologie, laboratori, Edizioni Laterza, Roma. Nathan T. (1996), Principi di etnopsicanalisi, Einaudi edizioni, Torino. Nathan T. (1995), Stengers I., Medici e stregoni, Bollati Boringhieri, Torino. Nathan T. (2003), Non siamo soli al mondo, Bollati Boringhieri, Torino. 114 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica 10 di Marusca Arcangeletti Marusca Arcangeletti è psicologa e psicoterapeuta, specializzata nel modello pluralistico integrato. Da anni conduce attività nell’ambito della psicologia dell’emergenza in qualità di formatore e psicologo. Svolge la libera professione clinica. Conduce seminari, workshop e gruppi terapeutici. Abstract Attualmente ancora la ricerca scientifica non ha dimostrato forti evidenze empiriche rispetto all’utilizzo dei test proiettivi in ambito clinico. Il presente articolo vuole avvalorare l’ipotesi che, nonostante la criticità delle tecniche proiettive, esse continuano ad essere utilizzate ampiamente dai professionisti della relazione d’aiuto nel loro contesto d’applicazione. Di conseguenza, è opportuno sottolineare i punti di forza e le potenzialità di questi strumenti che, al di là della valutazione diagnostica a cui è necessario sicuramente affiancare altri strumenti convalidati, contribuiscono ad una maggiore conoscenza s-oggettiva della persona sottoposta a valutazione, soffermandosi in primis sul processo terapeutico che tra i fattori comuni è quello che maggiormente determina l’esito terapeutico. Keywords: Evidence based, test proiettivi, reattivo mentale, proiezione, Rorschach, TAT, disegno della figura umana, validità, attendibilità, psicodiagnosi, validità di costrutto, validità predittiva, punti critici, punti di forza. Con il termine «evidence based» si fa riferimento ad un tipo di “intervento basato su evidenza”, concetto entrato in uso nella medicina a partire dagli anni ’60. Anche in psicologia da diverso tempo vengono impiegate espressioni come “trattamento empiricamente validato” o “empiricamente supportato”, anche se la massima attenzione a questo tipo di intervento avvenne intorno agli anni ’90 con il concetto di “evidence based practice” che venne definita nel 2006 dall’APA – American Psychological Association - come l’integrazione della migliore ricerca disponibile e dell’expertise clinica, nel contesto delle caratteristiche, cultura, 115 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica valori e preferenze dei pazienti. Questo concetto in realtà è relativo alla letteratura scientifica e vuole significare che è possibile basare le proprie decisioni, diagnostiche e terapeutiche, sulla valutazione critica dei risultati reperibili dalla letteratura scientifica (Wikipedia, l’enciclopedia libera). Le ricerche sull’efficacia della psicoterapia iniziarono intorno agli anni ’50 grazie ad Eysenck che sollevò un dibattito molto importante circa l’efficacia della psicoterapia, in particolare la psicoanalisi, a cui si deve il miglioramento alla cosiddetta “remissione spontanea” ossia in assenza di trattamento (Eysenck, 1952). Da qui in poi la ricerca ha cercato di dimostrare l’erroneità delle formulazioni di Eysenck e di fornire prove sperimentali sull’efficacia della psicoterapia. Un intervento psicoterapeutico non supportato da evidenze scientifiche desta molti dubbi e perplessità rispetto alla sua efficacia. Negli ultimi anni si è data molta attenzione all’efficacia dei trattamenti psicologici anche grazie alla proliferazione di ricerche inerenti ai trattamenti terapeutici più efficaci ed appropriati (Giusti, Montanari, Montanarella, 1997), selezionando solamente quegli interventi ad hoc che vanno nella direzione dei risultati attesi. È alla ricerca scientifica a prova di evidenza che si deve la valutazione di possibili rischi e benefici di determinati trattamenti psicologici e degli strumenti psicodiagnostici (Elstein, 2004). La psicodiagnostica si occupa della valutazione e della diagnosi psicologica; essa utilizza una vasta gamma di strumenti operativi tra cui questionari, inventari di personalità, batterie e tecniche testistiche (psicometriche e proiettive), colloqui clinici, esami neuropsicologici e valutazioni osservative (Wikipedia, l’enciclopedia libera). La varietà dei metodi utilizzati dipende da tanti fattori tra cui: l’ambito d’applicazione, lo scopo, l’età e le difficoltà della persona, il tipo di percorso formativo del professionista, ecc. In questa sezione ci occuperemo dei test proiettivi, della loro più o meno utilità nel contesto clinico, per meglio comprendere se effettivamente essi rispondono ad alcuni criteri scientifici. Secondo Anastasi (1982) “le tecniche proiettive dimostrano una curiosa discrepanza tra ricerca e pratica: quando sono considerati come strumenti, la larga maggioranza mostra scarsa validità, mentre la loro popolarità nella pratica clinica continua a non venire scalfita”. Al di là delle teorizzazioni ed impressioni personali, i test proiettivi sono gli strumenti che maggiormente e ampiamente vengono utilizzati dai clinici nel loro contesto d’applicazione. Prima di proseguire nella trattazione, è fondamentale fare una breve e sintetica panoramica di essi, partendo dalla loro stessa terminologia. In psicologia, con il termine “test proiettivo”, o “reattivo mentale” si fa riferimento all’utilizzo di stimoli ambigui, non strutturati, nei confronti dei quali il soggetto proietta parti di sé dando ad essi un significato personale che si basa sulle proprie esperienze di vita. Il termine “proiezione” deriva proprio dal meccanismo psicologico della proiezione introdotto per la prima volta da Freud (1896) per indicare quell’operazione inconscia e difensiva attraverso la quale l’individuo attribuisce all’altro (persona o cosa) i propri sentimenti e stati d’animo. Queste tecniche proiettive sono importanti in quanto consentono di risalire, indirettamente, alla personalità dell’individuo esaminato. L’origine di questi strumenti risale agli inizi del ‘900 in cui in Europa si verificò un enorme sviluppo in diversi settori: storico, culturale, filosofico e scientifico. Nel 1939 L.K. Frank, introdusse il termine di “tecnica proiettiva” indicando “un metodo di studio della personalità che consiste nel mettere il soggetto di fronte ad una situazione alla quale egli risponderà conformemente al significato che questa 116 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica situazione ha per lui, alla sua maniera di sentire, in pratica al suo Erlebniss, del suo vissuto”. Andando più indietro, nel 1880 Francis Galton, matematico e biologo inglese, aveva utilizzato il termine “Mental Test” per indicare uno strumento valido per la misurazione della reazione di un soggetto di fronte ad un determinato stimolo, anche se alcuni fanno derivare il termine a James Cattell nel 1890. In ambito scientifico, le tecniche proiettive possono essere prese in considerazioni in termini di utilità o non utilità piuttosto che di validità o meno. Ciò nonostante, quest’ultimo aspetto presenta una difficoltà da superare che è la distinzione tra le prove di validità di costrutto - capacità del test di riflettere il costrutto teorico di base che intende misurare- da quelle di validità predittiva- capacità del test di prevedere il futuro in base ai risultati ottenuti (Levy, 1963). Secondo Meehl (1945), un modo per superare questa problematicità è di collocare le tecniche proiettive lungo un continuum in base alle diverse risposte e alle diverse interpretazioni e/o ipotesi che esse suscitano. Infatti, le caratteristiche delle tecniche proiettive sono: 1. l’ambiguità dello stimolo che va strutturato e interpretato dal soggetto, rivelando così i contenuti e la struttura della propria personalità 2. la diversità delle risposte possibili, che non sono sottoposte a giudizio di vero/falso, giusto/sbagliato; 3. l’interpretazione delle risposte da parte dell’esaminatore. Tuttavia, queste peculiarità dei test rappresentano sia un punto critico che uno di forza: il rischio di ricavare una disomogeneità nelle risposte è alto cosicché è elevata la possibilità di ricavare tantissime altre informazioni inconsce sulla persona (Dosajh, 1996) che sarebbe pressoché impossibile ottenere con altri strumenti psicodiagnostici seppur più validi ed attendibili. Partendo dalla tassonomia di Lindzey (1959), è possibile fare una distinzione e classificazione in cinque macro-categorie delle tecniche proiettive: mm tecniche d’associazione: macchie d’inchiostro e associazione di parole; mm tecniche di costruzione: disegno di figure umane e creazione di storie; mm tecniche di completamento: completamento di frasi ed il Rosenzweig Picture Frustation Study; mm tecniche di selezione: Szondi Test ed il Luscher Color Test; mm tecniche di espressione: gioco con le bambole, i pupazzi e l’analisi grafologica. Questa suddivisione è presente nell’interessante articolo “The scientific status of projective techniques”, tradotto in italiano in forma sintetica a cura di Laura Villata (cfr Tab. 1): 117 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica Tab 1. Schema 5 macro-categorie delle tecniche proiettive CATEGORIA Associazione Costruzione Completamento Selezione Espessione ESEMPIO DESCRIZIONE Vengono mostrate 10 macchie simmetriche (5 bianche e nere 5 a colori) e viene chiesto per ognuna che cosa sembrano Vengono mostrati vari disegni di mani in Hand Test movimento e si chiede cosa stanno facen(Wagner, 1962) do Viene chiesto di disegnare una persona su Draw-A-Person Test un foglio bianco e poi un’altra persona del (Machover, 1949) sesso opposto. Thematic Apperception Si mostrano varie figure di situazioni soTest ciali ambigue e si chiede di raccontare una (Murray, 1938) storia in relazione ai vari personaggi. Washington University Sentence Vengono presentate varie frasi incomplete Completion Test e si chiede di completarle. (Loevinger, 1976) Rosenzweig Picture Vengono mostrati dei cartoncini rappreFrustation Study sentanti varie situazioni frustranti e si do(Rosenzweig, Fleming, manda ai soggetti come avrebbero rispoClark, 1947) sto verbalmente in tali situazioni. Si mostrano fotografie di pazienti psichiaSzondi Test trici e si chiede quale paziente fra questi (Szondi, 1947) piace di più e quale di meno. Luscher Color Test Si chiede di mettere in ordine di preferen(Luscher, Scott, 1969) za una serie di carte colorate. Ai bambini si chiede di giocare nel ruolo Projective puppet play di altri individui (es. la madre, il padre) o (Woltmann, 1960) di se stessi usando le bambole. Handwriting analysis Si chiede di scrivere frasi spontanee con la (Beyerstein, Beyerstein, propria calligrafia. 1992) Rorschach Inkblot Test (Rorschach, 1921) Di seguito, sono riportati sinteticamente e separatamente i tre test proiettivi maggiormente utilizzati: il Rorschach, il TAT e il disegno della figura umana indicando per ciascuno di essi i pro e i contro. 1) Il Test di Rorschach Il test prende nome direttamente dal suo ideatore, lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach (1884-1922) che lo introdusse nel 1920 negli Stati Uniti. 118 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica Inizialmente il test non ebbe successo almeno fino alla morte del suo ideatore; successivamente, guadagnò attenzione grazie al forte contributo di John Exner, che pubblicò nel 1974 “The Rorchach: A Comprehensive System (TRACS), cercando di dare un rigore statistico e standardizzato allo strumento. L’Autore aveva indicato un “sistema comprensivo” nella gestione ed attribuzione del punteggio diventando il metodo di valutazione più comune e utilizzato (Ackerman & Ackerman, 1997; Lees-Haley, 1992; Piotrowski, 1999). Inoltre, a supporto scientifico, in quegli anni troviamo la pubblicazione di diversi articoli (Garb, 1999; Meyer, 1997) e di alcune riviste come il “Psychological Assessment, Assessment, Journal of clinical Psychology” in cui vengono trattati argomenti fondamentali come l’accuratezza, la generalizzabilità, l’affidabilità, la validità e l’utilità clinica (Acklin, 1999; Garb, 1999; Weiner, 1996, 1999, 2000). Il Rorschach è uno dei test più studiati, grazie al suo considerevole uso sia in campo clinico che giuridico. Nonostante ciò, il dibattito sulla validità è sempre aperto e acceso vista la complessità dello strumento. Infatti l’interpretazione del test ha una propria caratteristica “olistica”in quanto non si può mai interpretare come evidenza di un costrutto (sindrome psicopatologica, disturbo di personalità, ecc) ma va interpretato nell’insieme. Il test è composto da 10 tavole, su ciascuna delle quali è riportata una macchia d’inchiostro simmetrica: 5 monocromatiche, 2 bicolori e 3 colorate. Trattandosi di un test proiettivo, le macchie d’inchiostro fungono da stimolo per la “produzione” di un’interpretazione di un processo “associativo” che è strettamente personale. L’utilizzo di stimoli ambigui, non strutturati, ha lo scopo di “creare una situazione” che consenta al soggetto di manifestare stati interni, aspetti di sé e delle sue relazioni. Come illustrato sopra, esso viene classificato nella categoria associazione perché, come sosteneva Rorschach, s’innesca un processo di percezione distinto in tre momenti: sensazione, ricordo e associazione. In altre parole, le sensazioni suscitate dalle macchie provocano il risveglio di vecchi insiemi di sensazioni sotto forma di immagini ricordo. Il Rorschach prevede essenzialmente sei passaggi fondamentali: 1. Somministrazione: il test viene somministrato dopo una preliminare fase di contatto (solitamente non viene somministrato alla prima seduta). Le tavole vengono consegnate all’esaminato una per volta, dalla I alla X. con la consegna di osservarle e descrivere quello che vede (produzione). Non ci sono risposte né giuste e né sbagliate e nemmeno un limite di tempo il quale viene registrato dall’esaminatore insieme a tutte le produzioni fornite dall’esaminato. 2. Prove supplementari: vengono eseguite subito dopo la somministrazione, nella stessa seduta, e consistono di due prove: la pinacoteca e la seriazione, che vengono date in questo preciso ordine. Nella pinacoteca le tavole vengono ripresentate alla persona per dare un titolo a ciascuna; nella seriazione invece le tavole vanno ordinate secondo le proprie preferenze. 3. Inchiesta: consiste nel chiedere delucidazioni sulle risposte fornite attraverso alcune domande che vengono fornite all’esaminato, come ad es. “Dove ha visto...?” “Me lo può descrivere?”, “Cosa le ha dato l’idea di...?”, come anche chiedere il sesso di persone viste in movimento; oppure specificare ad es. l’”animale” se la persona dice di vedere o gli è venuto in mente un animale, e via di seguito. 4. Siglatura; serve per siglare le risposte in un codice convenzionale il più possibile chiaro e comprensibile che possa essere letto da qualsiasi altro professionista. 119 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica Brevemente, vediamo le siglature frequentemente utilizzate: a. Localizzazione (semplice o composta): serve per posizionare all’interno della macchia ciò che l’esaminato ha visto (engramma); b. Determinanti: serve per determinare ciò che ha causato quella risposta (forma, movimento, colore); c. Contenuti: riguarda il “contenuto” dell’interpretazione fornita dall’esaminato; in particolare si fa’ riferimento alla categoria di appartenenza di quello che ha visto la persona sottoposta al test.; d. Frequenza: indica con che frequenza la risposta dell’esaminato è stata data da un campione normativo standardizzato; e. Manifestazioni particolari: si usa per commenti o altro forniti dall’esaminato e che non possono essere siglati nelle precedenti colonne. 5. Computo generale dei dati: riguarda lo spoglio delle risposte 6. Interpretazione. I metodi di interpretazione sono diversi: i più diffusi in Italia sono il metodo svizzerofrancese, facente capo a Marguerite Loosli-Usteri, titolare negli anni ‘40/’50 del corso di Rorschach presso l’Istituto Rousseau di Ginevra, e l’approccio della Scuola Romana di Rorschach, elaborato da Rizzo. Come si può ben evincere, visto la grandezza del test per la sua natura multi-dimensionale, è fondamentale per il professionista che intende utilizzarlo nel contesto clinico o forense, acquisire una preparazione adeguata e idonea in grado anche di sviluppare nuove competenze e capacità indispensabili per raggiungere il successo professionale (Giusti, Pagani, 2012) che solamente un percorso formativo è in grado di fornire. La validità del Rorschach dipende molto da chi lo somministra; questo aspetto oltre ad essere considerato un punto di criticità è anche la forza dello strumento perché se ben somministrato consente di ricavare molte più informazioni utili sulla persona esaminata. 2) Il Test di Appercezione Tematica. Il Test di Appercezione Tematica - il TAT - fu ideato da Murray e Morgan per valutare le reazioni a stimoli ambigui (Morgan, Murray, 1935; Murray, 1943). A differenza del Rorschach, il TAT è un test tematico per conoscere ed esplorare contemporaneamente emozioni, pensieri, conflitti e atteggiamenti, dando una visione complessiva del soggetto esaminato. Murray scelse il termine “appercezione” anziché percezione per sottolineare il fatto che i soggetti interpretavano attivamente lo stimolo in base ai loro tratti di personalità ed alle loro esperienze di vita (Anderson, 1999). Il test si struttura in 20 tavole che raffigurano delle immagini, delle situazioni-stimolo per creare e raccontare una storia che la persona interpreta e a cui attribuisce un significato in base alla sua esperienza di vita. L’aspetto svantaggioso del test è che esso richiede un tempo di somministrazione lungo (circa un’ora e mezza) per questo motivo di solito vengono utilizzate solamente le prime 10 tavole per facilitarne la somministrazione (Ball, Archer, Imhof, 1994). Inoltre, alcune tavole vengono somministrate solo a soggetti femminili ed altre solo a soggetti maschili, anche se non esiste alcuna discriminante significativamente associata al genere (Katz, Russ, Overholser, 1993). Il TAT presenta un modesto supporto alla validità di costrutto per l’assenza di un sistema di riferimento ben preciso e condiviso nell’interpre120 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica tazione del test. Inoltre, l’attendibilità del test-retest è discutibile per la scarsa conoscenza dell’influenza di variabili culturali al test e spesso molti professionisti fanno affidamento su una combinazione di metodi personali o a nessuna metodologia (Ryan, 1985). Purtroppo questi aspetti importanti destano molte perplessità rispetto all’attendibilità diagnostica del TAT che, allo stato attuale, non offre ancora una sicurezza e garanzia scientifica. 3) Disegno della figura umana. Il disegno della figura umana più famoso è quello ideato da Machover nel 1949 che, fin dai suoi esordi, si diffuse rapidamente tantoché divenne il test proiettivo più usato dopo il Rorschach, soprattutto per la sua facilità e rapidità d’applicazione a differenza del TAT. Nella consegna del test, si chiede alla persona di disegnare una figura umana, senza fornire ulteriori indicazioni circa età, sesso, ecc. L’interpretazione del disegno si basa principalmente su due tipi di approcci: mm approccio del particolare, teorizzato da Machover (1949) e altri e associato ad alcuni disturbi specifici di personalità e a caratteristiche psicopatologiche; mm approccio globale, sviluppato da Koppitz (1968) che introdusse un sistema di punteggio di 30 indicatori dal disegno dei bambini che poi vengono riassunti in un punteggio complessivo. Il presupposto di base del disegno della figura umana è che attraverso la rappresentazione di essa il soggetto raffigura se stesso, la propria immagine corporea entro lo spazio delimitato dal foglio bianco (Lis, 1998). Le informazioni che si ricavano da questa tecnica proiettiva sono molto importanti e preziose rispetto alla percezione della propria immagine, del proprio vissuto corporeo, dell’identità sessuale, nonché su alcuni atteggiamenti e sentimenti come l’ansia, l’aggressività, l’autostima, ecc. Il test presenta molteplici potenzialità tra cui il tempo di somministrazione è breve e veloce, solitamente sono richiesti circa 5 minuti per la somministrazione. Tuttavia c’è una forte divergenza e discrepanza di opinioni sulla sua validità ed attendibilità, visto che molte delle ipotesi interpretative si basano su osservazioni personali. Un altro aspetto che desta ancora oggi dubbi, non essendo stato del tutto superato, è l’abilità artistica della persona che esegue il disegno. Tuttavia, nonostante molte perplessità sull’utilizzo in ambito clinico di questo strumento (Gresham, 1993; Motta, Little, Tobin,1993), molti sostengono che può avere un’adeguata valida se viene utilizzato da professionisti esperti con elevati livelli di empatia (Scribner, Handler, 1987). Altri invece ribadiscono che la validità non è generalmente correlata all’esperienza o alla formazione clinica (Cressen, 1975; Hiler, Nesvig, 1965; Garb, 1989, 1998). Per superare gli scetticismi e le controversie inerenti allo stato attuale della ricerca scientifica sulle tecniche proiettive, è possibile stabilire tre criteri empirici: 1. correlazioni con uno o più criteri esterni, come ad esempio, tratti di personalità; 2. diversi studi sulla validazione metodologica; 3. intervento da parte di diversi professionisti. Inoltre, bisogna sempre tenere presente alcuni aspetti importanti quando si utilizza questa tipologia di test: a. sono fortemente controversi: è necessario che il professionista che utilizza questi strumenti informi la persona a cui restituisce i dati emersi dal test, ad es. in campo forense al giudice, che possono essere opinabili; 121 L’utilizzo dei Test Proiettivi: punti di forza e punti di criticità nella prassi clinica b. possono essere alterati: i condizionamenti sociali, lo stato d’animo e le caratteristiche dell’esaminato possono influenzare i risultati; c. la trascrizione può essere dubbia e incompleta: è sempre bene consultare e confrontarsi con un altro professionista esperto; d. le normative sono spesso scarse o inesistenti: l’assenza di precise norme di riferimento può portare l’esperto a commettere più facilmente degli errori di interpretazione. e. possono essere discriminanti: l’utilizzo dei test proiettivi in differenti gruppi culturali ed etnici, ad es. al di fuori del contesto Nordamericano, possono produrre delle interpretazioni errate (Handler, Habernicht, 1994). Ciò nonostante il forte contributo dei test proiettivi è quello di intensificare la relazione terapeutica in termini processuali per gli esiti terapeutici. L’uno implica l’altro: è impossibile somministrare un test senza che ci sia una buona fiducia e alleanza terapeutica e la conoscenza e l’empatia aumentano ancor di più grazie ai risultati ricavati dai test. Solamente attraverso una lettura S-Oggettiva è possibile calarsi nei pensieri e nello stato d’animo dell’altro per cogliere a fondo il suo mondo privato (Giusti, Locatelli, 2000) attivando maggiormente il coinvolgimento e la partecipazione. Decenni di ricerche in psicoterapia concordano nel dimostrare che il paziente, il terapeuta, la relazione tra i due, il metodo di trattamento e il contesto contribuiscono al successo o al fallimento del trattamento (Norcross, 2012). Una buona diagnosi si contraddistingue dal fatto che tiene conto dei diversi elementi costitutivi, tra cui l’aspetto idiografico, “dios”, cioè le specificità di ogni singolo individuo e l’aspetto nomotetico, “nomos”, delle regole e delle leggi universali (Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). Questi aspetti contribuiscono fortemente alla formulazione del caso come passaggio importante per l’esplicazione dell’intervento terapeutico e quindi alla strutturazione di un preciso piano di trattamento in grado di orientare sia il cliente che il terapeuta nella direzione attesa (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2000). In conclusione, rifiutare a priori le tecniche proiettive perché non valide e inattendibili può essere sbagliato perché, come abbiamo visto, i test proiettivi possono raggiungere livelli accettabili di validità e attendibilità, spetta al professionista farne buon uso lavorando con scienza e coscienza. 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Svolge attività di formazione, psicodiagnosi, consulenza e psicoterapia individuale e di gruppo occupandosi di Depressione, Ansia, Dipendenza da fumo di sigarette, Dipendenze affettive, Gestione dello stress, Difficoltà emotive, Difficoltà relazionali, Comunicazione, Sostegno al cambiamento, Crescita personale. Abstract Il lavoro presenta alcuni dei principali modelli diagnostici ad orientamento psicodinamico: contributi storici; le tipologie di organizzazione della personalità elaborata da Kernberg (nevrotica, borderline, psicotica); l’approccio multiassiale alla valutazione offerto dal Manuale Diagnostico Psicodinamico PDM e l’approccio elaborato da Nancy McWilliams. Viene esplorata l’utilità della valutazione degli stili difensivi (sia quelli di tipo primario e sia di tipo secondario), e descritte le tipologie di organizzazione della personalità (nelle dimensioni delle difese prevalenti, senso di sé e tipo di relazioni oggettuali). Infine, viene proposto uno strumento orientativo per il colloquio diagnostico, sviluppato secondo l’approccio di McWilliams. Keywords: organizzazione di personalità, nevrosi, psicosi, borderline, stili difensivi, colloquio diagnostico psicodinamico. Introduzione Ogni individuo è unico e irripetibile. Così come è irripetibile la sua storia e unici i suoi vissuti. Di fronte a questa considerazione le categorie e le etichette diagnostiche potrebbe125 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche ro risultare di difficile accettazione. Tuttavia ripetute osservazioni e studi clinici (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006) hanno evidenziato la presenza di dinamiche e tratti comuni, individuabili nelle varie organizzazioni di personalità e nei suoi disturbi. All’interno della grande variabilità individuale, vi sono, cioè, delle costanti che si ripetono e che, individuate, possono orientare e calibrare gli interventi terapeutici (Giusti, Militello, 2011). La valutazione ha come obiettivo quello di formulare una “diagnosi” del problema, ossia individuare e sistematizzare, in un quadro teorico coerente di riferimento, i segni e sintomi rilevati. La valutazione psicologica può avvalersi sia del metodo psicometrico sia di quello clinico (Falcone, 1999). Il primo deriva dalla psicologia differenziale e tende alla comparazione degli individui in base a tratti empiricamente definiti. Il metodo clinico, invece, studia l’individuo nella globalità del suo comportamento, visto nel suo ambiente naturale. Inoltre, il metodo clinico si fonda sulla relazione tra cliente e terapeuta (Muran, Barber, 2010). Le principali prospettive di valutazione sono quelle comportamentali, fenomenologiche e psicodinamiche (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). La prospettiva comportamentale si focalizza sulla misurazione dei comportamenti osservabili e degli stimoli che li controllano. Quella fenomenologica privilegia il significato che il soggetto dà alla sua esperienza, non riconoscendo alcuna utilità alla psicodiagnosi formulata da un professionista. Si presuppone che il soggetto sia l’unico depositario della conoscenza di sé e che intervista e autovalutazione assolvano in maniera adeguata il compito di raccogliere la storia che il soggetto può narrare di sé. Le motivazioni, le difese e le dinamiche inconsce non vengono ritenute rilevanti. Viene dato valore e considerazione a ciò che avviene nella relazione (terapeutica) nel qui ed ora, e meno alla diagnosi. Viene, inoltre, dato valore al rischio che le persone possano identificarsi con le etichette diagnostiche. Identificazioni che possono poi interferire se, non addirittura, ostacolare i processi di guarigione, crescita ed evoluzione della persona. La prospettiva psicodinamica, invece, focalizza il suo interesse proprio sulla rilevazione delle dinamiche inconsce, che hanno radici nelle vicende infantili, e che spesso non sono riferite o riferibili consapevolmente dal paziente, e che giocano un ruolo determinate nell’organizzazione della personalità. Le teorie psicodinamiche pongono l’accento sui processi intrapsichici, più che sui tratti. Questo le rende più ricche e clinicamente più pertinenti, rispetto agli elenchi statici (Spalletta, 2010). Le persone difatti sono complesse, come detto anche sopra. E, secondo gli approcci psicodinamici, le loro complessità non sono mai casuali, ma semmai causali e meritevoli di attenzione clinica. La struttura essenziale del carattere di un essere umano può essere compresa all’interno di due dimensioni distinte tra loro interagenti: mm il livello evolutivo dell’organizzazione di personalità (dimensione che descrive il grado di individuazione e di patologia – psicotico, borderline, nevrotico, normale – della persona) mm lo stile difensivo all’interno di quel livello (dimensione che identifica il tipo di carattere – paranoide, depressivo, schizoide, ecc…) Verranno illustrati, nei prossimi paragrafi, alcuni dei principali contributi teorici su queste dimensioni diagnostiche. Contributi teorici psicodinamici storici: cenni La valutazione e la comprensione dei disturbi psichici in un’ottica psicodinamica trae le 126 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche sue dimensioni da diversi contributi teorici, che possono essere così riassunti (McWilliams, 1994): mm Teoria pulsionale di Freud (fissazioni) mm Psicologia dell’Io (stili difensivi) mm Teorie delle relazioni oggettuali mm Psicoanalisi interpersonale americana mm Psicologia del Sè mm “Personologia” di Herry Murray mm “Teoria del copione” di Silvan Tomkins mm “Teoria del controllo e del padroneggiamento”, Weiss, Sampson, Mount Zion Psychotherapy Research Group. mm Fred Pine (integra teoria pulsionale, psicologia dell’Io, teoria delle relazioni oggettuali, psicologia del Sé). Freud, nella teorizzazione iniziale, riprese le categorie diagnostiche di Kraepelin: nevrosi e psicosi. Nella nevrosi la sofferenza è ritenuta correlata a difese dell’Io troppo automatiche e rigide, che non consentono un contatto con le energie dell’Es, utilizzabili per attività creative. Nella psicosi, invece, le difese dell’Io sono troppo deboli per arginare il contenuto primitivo proveniente dall’Es. A livello clinico ne conseguiva che per il nevrotico l’intervento doveva volgere a indebolire le difese, per favorire il contatto con l’Es; mentre per lo psicotico l’intervento doveva mirare a rafforzare le difese, risolvere le preoccupazioni primitive, incoraggiare l’esame di realtà e delimitare un Es invadente e traboccante. Un altro tema, introdotto da Freud, fu quello relativo ai problemi di maturazione intorno ai quali si può organizzare il carattere: la fissazione. Nella teoria freudiana classica delle pulsioni vengono considerate “appropriate” quelle cure materne in grado di oscillare con sensibilità da un livello di “gratificazione” sufficiente a creare sicurezza emotiva e piacere, a un grado di “frustrazione” appropriato al livello emotivo, che permetta, gradualmente, al bambino di affiancare nelle sue modalità di gestione dei bisogni al principio di piacere anche il principio di realtà. La funzione genitoriale, secondo questo modello, sarebbe una ricerca di equilibrio tra l’indulgenza e l’inibizione. Eccessiva gratificazione delle pulsioni determinerebbe impoverimento degli stimoli per il processo evolutivo. Eccessiva privazione provocherebbe danni collegati con l’esperire realtà frustranti, in un periodo di vita troppo precoce, in cui non sono ancora maturate le necessarie capacità e funzioni psichiche che ne consentirebbero una sana gestione. Un’eccessiva frustrazione o gratificazione in uno stadio psicosessuale precoce: determina “fissazione” della personalità ai “problemi” tipici di quello stadio. Il “carattere” viene perciò concettualizzato come un’espressione degli effetti a lungo termine di tale fissazione. A seconda della fase evolutiva, in cui si registra la fissazione e i relativi problemi, si parla di: mm carattere orale, personalità depressiva, 1-1,5 anni di vita (eccesso di gratificazioni o di frustrazioni), bisogni affettivi, attaccamento, nutrimento; mm carattere anale, personalità ossessiva, 1-3 anni, interferenze nei bisogni di gestione del controllo; mm carattere fallico, personalità isterica, 3-6 anni, interferenze nelle manifestazioni di interesse del bambino nei confronti della sessualità. 127 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche Riflessi del modello pulsionale nei processi psicodiagnostici si manifestano nelle concezioni psicopatologie che focalizzano gli arresti evolutivi o i conflitti in un particolare stadio, come in Stern (1985) e nella sua teoria sulle fasi di sviluppo prevedibili. Erikson (1950, 1968) riformula gli stadi psicosessuali in base ai compiti interpersonali e intrapsichici specifici di ciascuna fase: mm Orale: acquisizione della fiducia di base. Fissazione a problemi primari di dipendenza: fiducia/sfiducia; mm Anale: acquisizione autonomia. Fissazione a problemi secondari di separazione-individuazione: autonomia/vergogna; mm Fallica: sviluppo senso di efficienza (spirito di iniziativa contrapposto al senso di colpa), sentimento di piacere nell’identificazione con i propri oggetti d’amore. Fissazione a problemi di identificazione: iniziativa/colpa. Contributi teorici psicodinamici recenti: Otto Kernberg, Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM), Prospettiva psicodinamica di Nancy McWilliams. Otto Kernberg A partire dagli anni ’80 Otto Kernberg (1984; Kernerb, Caligor, 2005) ha sviluppato un sistema di classificazione delle organizzazioni (non dei disturbi) di personalità che integra la procedura diagnostica strutturale tipicamente psicoanalitica con la nosografia della psichiatria descrittiva. La diagnosi strutturale di Kernberg riconduce il funzionamento complessivo dei pazienti a tre grandi organizzazioni/strutture di personalità: nevrotica, borderline, psicotica utilizzando tre criteri inferenziali: 1. Diffusione/integrazione dell’identità, 2. Livello di maturità dei meccanismi di difesa, 3. Tenuta dell’esame di realtà. Kernberg orienta ogni organizzazione di personalità in senso introvertito o estrovertito. Per la valutazione dell’organizzazione di personalità ha sviluppato uno strumento empirico autosomministrato, l’Inventory of Personality Organization (IPO; Kernberg, Clarkin, 1995) e una intervista standardizzata, la Structured Interview of Personality Organization (STIPO; Clarkin, Caligor, Stern, Kernberg, 2004) che consentono una valutazione sistematica e oggettiva della personalità. In sintesi, la distinzione tra le tre grandi aree, psicotica, borderline e nevrotica si configura così: le persone vulnerabili alla psicosi possono essere considerate psicologicamente fissate ai problemi della fase simbiotica precoce; le persone con organizzazione borderline sono riconoscibili dalle loro preoccupazioni su temi di separazione-individuazione; coloro che hanno una struttura nevrotica possono essere più utilmente descritti in termini edipici. Più in dettaglio: Nevrosi Nella condizione nevrotica il paziente ha portato a termine i compiti di separazione128 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche individuazione, ma si dibatte in conflitti, per esempio tra ciò che desidera e ciò che teme, come nel dramma edipico. Le personalità organizzate a livello nevrotico sono quelle che ricorrono prevalentemente alle difese più mature o di secondo ordine. Le difese primitive anche se, occasionalmente, specie nei momenti di stress, utilizzate non hanno una grande influenza nel funzionamento globale. La presenza di difese primitive non esclude la diagnosi di struttura nevrotica del carattere. Esclude, invece, tale diagnosi la mancata presenza di difese mature. La letteratura psicoanalitica ha evidenziato la rimozione come difesa fondamentale, preferita a soluzioni di conflitto più indiscriminate come il diniego, la scissione, l’identificazione proiettiva e altri meccanismi arcaici. Cure genitoriali empatiche nei primi anni di vita permettono al bambino di poter provare forti emozioni e sentimenti primitivi senza doversi aggrappare a modalità infantili per gestirli. Più tardi, da adulto le esperienze dolorose verranno dimenticate e messe da parte e non ripetutamente vissute, scisse, negate, ecc. Il senso di identità è integrato. Il comportamento mostra una certa coerenza ed è presente un’esperienza interiore di continuità temporale del sé. Alla richiesta di descrivere se stesse, queste persone non hanno difficoltà a raccontarsi, a delineare valori, gusti, abitudini, qualità, difetti… alla richiesta di descrivere altre persone importanti della loro vita (genitori, partner, ecc.) forniscono un’immagine variegata, dimostrando di saper cogliere la complessità della personalità. Borderline Nella condizione borderline il paziente appare fissato su conflittualità diadiche tra fusione totale (che vive come una minaccia alla sua identità) e totale isolamento (equiparato ad un abbandono traumatico). Caratteristiche principali: mm difese primitive; mm scarsa integrazione del senso di sé; mm reazioni di rabbia a domande su l’identità propria e altrui; mm assenza di un Io osservante. Il terapeuta che faccia degli interventi presumendone la presenza, riconoscerà la presenza della struttura borderline dalle reazioni a questi tipi di interventi, percepiti come attacchi e critiche a parti di sé; mm appaiono intrappolati in un dilemma: non tollerano né la vicinanza, né la distanza, in quanto sembrano riuscire a viversele come esperienze rispettivamente di totale controllo o abbandono traumatico. È come se vi fosse una fissazione nella sottofase di riavvicinamento del processo di separazione-individuazione: è possibile che la madre non si sia resa disponibile quando il bambino, dopo la conquista di una certa quota di indipendenza, abbia sentito il bisogno di regredire. Un’ipotesi che potrebbe spiegare una parte del comportamento e delle richieste mutevoli, disorganizzate e ingannevoli portate da questi pazienti; mm transfert intensi. Terapeuta percepito come totalmente buono o totalmente cattivo. La sensazione può essere quella esasperata che può provare una madre con un bambino di due anni che non accetta di essere aiutato, ma che senza aiuto cade nella frustrazione. 129 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche Una buona terapia opera partendo dal livello organizzativo del carattere (personalità) accompagnando la persona nel suo compito evolutivo più pertinente, lungo un continuum che può andare dal pieno sviluppo della creatività personale, alla consapevolezza di esistere o di meritare di vivere. Tra gli scopi del trattamento vengono inclusi la rimozione degli ostacoli alla piena gratificazione nelle aree dell’amore, del lavoro, del gioco. Freud riteneva che obiettivo della cura fosse la libertà, e che a rendere liberi fosse la verità. La difficile e dolorosa ricerca di verità su di sé è possibile solo con persone con un disturbo a livello nevrotico, in cui c’è una sufficiente autostima e senso di sé che possano fare da supporto. Scopo della terapia con pazienti borderline è sviluppare un senso di sé integrato, complesso, affidabile e positivo. E parallelamente la capacità di amare gli altri, nonostante i loro difetti e le loro contraddizioni. Psicosi Nella condizione psicotica il paziente appare fissato ad un livello fusionale, precedente la separazione, in cui non riesce a differenziare ciò che è dentro di sé da ciò che è fuori. La persone con un problema a livello di funzionamento simbiotico, anche se non apertamente psicotiche, hanno una forte componente di paura: sono spaventate. Nelle condizioni schizofreniche funzionano molto bene gli ansiolitici maggiori, in quanto la persona suscettibile di disorganizzazione psicotica è priva del senso basilare di sicurezza nel mondo ed è sempre pronta a credere che l’annientamento sia imminente. Nell’area psicotica si riscontra anche una grande confusione cognitiva, riguardo alle emozioni e alle fantasie. Per pazienti di livello psicotico, dunque, la terapia elettiva è quella di sostegno. Altri tipi di terapia, come quella analitica, che lascino spazio all’ambiguità, sono meno indicate, perché incrementano e sollecitano la paura e l’insicurezza, non sostenibile da questo tipo di pazienti. Importante la dimostrazione dell’affidabilità, del dimostrare di essere un oggetto sicuro, attraverso un agire ripetuto nel tempo, che si dimostri diverso dalle aspettative spaventose che ha il paziente. Manifestare genuina accettazione. Comportarsi con ferma onestà genuina. Con i pazienti più disturbati è necessario avere una certa disponibilità a farsi riconoscere, da un lato. Dall’altro occorre mantenere un atteggiamento autorevole, che faccia sentire “al sicuro” i pazienti più spaventati. Col progredire del trattamento e della sicurezza nella relazione si potrà sviluppare una indipendenza psicologica e cominceranno a manifestarsi divergenze e opinioni non concordi del paziente. Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM Task Force, 2006) Il Manuale Diagnostico Psicodinamico (Psycodinamic Diagnostic Manual, PDM Task Force, 2006) rappresenta un importante strumento di valutazione multiassiale, che prova a sistematizzare le varie concezioni psicodinamiche per offrirle ad un processo psicodiagnostico condivisibile e confrontabile. Nell’approccio offerto dal manuale, lo sviluppo e l’organizzazione di personalità e dei 130 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche suoi disturbi vengono concettualizzati come risultanti del percorso di due grandi linee evolutive: mm Introiettiva: centrata sui problemi di definizione della propria identità, mm Anaclinica: connessa al bisogno di sviluppare relazioni oggettuali più stabili, intime e reciproche. mm In questo modello vengono differenziati due principali configurazioni psicopatologiche (Blatt, 1990, 1995) all’interno delle quali vengono ricondotti i diversi disturbi: mm Se prevalgono tematiche di tipo anaclinico: borderline, istrionico, dipendente, mm Se prevalgono tematiche di tipo introiettivo: schizoide, schizotipico, paranoide, narcisistico, antisociale, ossessivo. Il PDM (2006) articola la descrizione del funzionamento dei pazienti su tre assi: asse P, per la valutazione dei pattern e dei disturbi di personalità, asse M per la valutazione del funzionamento mentale, articolato su otto livelli di sanità/patologia e basato sulla valutazione di nove funzioni, asse S, per la valutazione soggettiva dei pattern sintomatici dei vari disturbi clinici. L’Asse P raccomanda, per diagnosticare l’organizzazione della personalità, oltre all’individuazione dello specifico disturbo di personalità, anche la valutazione della gravità indagando le seguenti capacità: mm identità: vedere se stessi e gli altri in modi articolati stabili e precisi; mm relazioni oggettuali: mantenere relazioni intime stabili e soddisfacenti; mm tolleranza degli affetti: fare esperienza dentro di sé, percepire negli altri, l’intera gamma degli affetti appropriati ad una certa età; mm regolazione degli affetti: regolare impulsi e affetti in modi che favoriscono l’adattamento e la soddisfazione, con un uso flessibile a difese o strategie di coping; mm integrazione del Super-io, dell’Io ideale e dell’Ideale dell’Io: funzionare secondo una sensibilità morale coerente e matura; mm esame di realtà: comprendere, anche senza doversi necessariamente conformarsi, le nozioni convenzionali di ciò che è realistico; mm forza dell’Io e resilienza: rispondere in modo positivo agli stress e riprendersi da eventi dolorosi senza difficoltà eccessiva; L’Asse M descrive nove livelli di funzionamento complessivo, da quello più sano a quello più disturbato, valutando le seguenti funzioni psichiche: 1. capacità di regolazione, attenzione e apprendimento; 2. capacità di relazioni e intimità; 3. qualità dell’esperienza interna; 4. capacità di esperienza, espressione e comunicazione degli affetti; 5. pattern e capacità difensive; 6. capacità di formare rappresentazioni interne; 7. capacità di differenziazione e integrazione; 8. capacità di auto-osservazione; 9. capacità di costruire o ricorrere a standard e ideali interni. L’Asse S, in ultimo, articola la descrizione dell’esperienza soggettiva in stati affettivi, pattern cognitivi, stati somatici e pattern relazionali. 131 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche Prospettiva psicodinamica di Nancy McWilliams Un’altra posizione interessante sulle questioni relative alla diagnosi e alla formulazione del caso è rappresentata da Nancy McWilliams (1994, 1999) e dal suo lavoro teso ad integrare la diagnostica psichiatrica con la soggettività dei clinici e dei pazienti. McWilliams (1994) sostiene che scopo finale di un colloquio valutativo debba essere quello di incrementare la probabilità di efficacia della psicoterapia per quella specifica persona. In altri termini per individuare l’intervento migliore per quel preciso paziente. Secondo il modello della McWilliams (1994, 1999, 2004) per elaborare una descrizione completa e clinicamente utile del funzionamento psichico del paziente è necessario raccogliere le informazioni su otto ambiti funzionali: 1. temperamento: caratteristiche psichiche di probabile natura ereditaria. Per poter formulare obiettivi realistici: ad esempio, sarebbe un errore voler intervenire “terapeuticamente” su una timidezza temperamentale (ossia, tratto di introversione); 2. affetti prevalenti: emozioni e affetti più frequenti, o del tutto assenti, o evitati, ecc. 3. pattern relazionali tipici: modalità relazionali costanti, situazioni e ruoli cercati o evitati in maniera sistematica, i copioni che sembrano ripetersi e quelli invece che sembrano assenti; 4. identificazioni: modi di pensare, comportarsi e reagire che il soggetto sembra aver appreso dalle sue relazioni significative. L’individuazione delle identificazioni permette la formulazione delle ipotesi eziologiche e motivazionali di tali pattern: per somiglianza o per differenza, o, ancora, come modalità per gestire una perdita non risolta, o per la presenza di ideali dell’Io molto forti, ecc.; 5. autostima: comprensione delle modalità di regolazione dell’autostima. Se è facilmente attaccabile, l’eventuale bisogno di conferme esterne, quanta impegno psichico assorbe per mantenersi a livelli funzionali; 6. credenze patogene: assunti più o meno impliciti che guidano la lettura degli eventi e relative aspettative. Per esempio, se la credenza è che tutte le situazioni sono “lotte di potere”, le alternative immaginabili divengono quelle che tutte le relazioni sono regolate dal potere e che il potere lo possa solo subire o esercitare. O, ancora, se la credenza è che la manifestazione dei propri bisogni affettivi determina un abbandono, la persona tenderà a non esprimere i propri bisogni o a scappare per prima, per non subire l’abbandono; 7. stili e meccanismi di difesa, abituali e ricorrenti nella gestione di situazioni emotivamente coinvolgenti, di stress, di conflitto, di dolore, di angoscia o di minaccia. Nessuna difesa è patognomica in sé. È possibile, comunque, individuare delle modalità difensive specifiche nelle varie organizzazioni di personalità. Una personalità organizzata in senso nevrotico, per esempio, tende a utilizzare difese secondarie come la rimozione, la formazione reattiva, la razionalizzazione e l’intellettualizzazione, mentre una personalità di tipo borderline tende a utilizzare meccanismi di difesa arcaici, come la scissione, l’identificazione proiettiva e l’acting out. Un soggetto con personalità depressiva gestirà il senso di colpa connesso ai sentimenti di rabbia rivolgendo contro di sé la propria aggressività e identificandosi con l’oggetto, mentre la personalità paranoide tenderà a proiettare ad altri i propri sentimenti di rabbia e rifiuto, inducendoli a comportarsi in conformità a questa aspettativa e finendo col dare 132 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche la colpa e la responsabilità alle situazioni esterne per i propri fallimenti e difetti. Una personalità ad organizzazione narcisistica tenderà ad idealizzare se stessa e a svalutare gli altri, o a svalutare se stesso e idealizzare quelle persone che ritiene importanti, e con cui si sente privilegiato solo per esserci entrato in rapporto; 8. problematiche evolutive principali: identificazione delle problematiche evolutive principali che possono, in maniera significativa, aver condizionato, o bloccato i processi evolutivi della personalità. Per esempio, un’assenza prolungata della madre nei primi anni di vita può aver generato modalità specifiche di attaccamento e di gestione delle separazioni e delle perdite. Diagnosi psicoanalitica del carattere e processi difensivi Le principali categorie diagnostiche utilizzate dalle prospettive analitiche fanno riferimento essenzialmente alle difese o meglio alle costellazioni di difese che l’individuo utilizzata in maniera consistente. Un’etichetta diagnostica può essere definita come un’indicazione del modello difensivo abituale di una persona (McWilliams, 1994). Le “difese”, qualunque esse siano, riscontrabili in una persona adulta, rappresentano delle modalità inizialmente adattive e sane di percepire e interagire con il mondo. Freud, che fu il primo ad osservare e a definire alcuni di questi processi, scelse il termine “difese” per due motivi. Il primo è legato alla sua passione per le metafore militari, che utilizzava a scopo pedagogico per illustrare gli avvenimenti psichici, battaglie, conflitti, obiettivi, etc. Il secondo nasce dal fatto che quando osservò per la prima volta, rimozione e conversione, questi erano utilizzati in una “funzione difensiva”. Le persone osservate da Freud, in gran parte isteriche, facevano di tutto per evitare di sentire e rivivere qualcosa che temevano come molto doloroso. Si diffuse per vari motivi l’idea profana che “difesa” equivalesse a problema. In realtà non si tratta realmente di un sinonimo di patologia. Per esempio, molti stati psicotici sono spiegabili proprio con una ‘carenza di difese’. I processi difensivi hanno funzioni positive, adattive e creative. Prevalentemente, riassumibili in: 1) evitare o gestire sentimenti minacciosi o dolorosi, come l’angoscia, 2) mantenere o preservare l’autostima, e, in generale, un senso di sé coeso, positivo e forte. Lo stile difensivo peculiare, riscontrabile in ogni individuo, può essere considerato la risultante dell’interazione tra quattro fattori: 1. il temperamento costituzionale; 2. la natura dei disagi subiti nella prima infanzia; 3. le difese utilizzate dalle prime figure significative, e involontariamente o volontariamente insegnate al bambino; 4. le conseguenze sperimentate nell’uso di particolari difese (es. eventuali rinforzi). Le difese vengono distinte in primarie e secondarie. Le difese primarie sono quelle relative a processi più antichi, primitivi che concernono il confine tra il sé e il mondo esterno. Le difese secondarie riguardano processi più evoluti, maturi che hanno a che fare con i confini interni, quelli tra le varie istanze della personalità, come Io, Es e Super-Io, o la parte dell’Io che esperisce e quella capace di osservare. 133 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche Vengono considerate difese primitive: mm ritiro, risposta autoprotettiva automatica, osservabile nel bambino sovrastimolato. mm diniego, modalità usata per affrontare situazioni eccessivamente spiacevoli e/o traumatiche, «se non lo riconosci, non è successo». mm controllo onnipotente, per il neonato la fonte di tutti gli eventi è interna. È una modalità che contribuisce a nutrire l’autostima, ed è evolutivamente normale. mm idealizzazione e svalutazione primitiva, si manifesta nella convinzione che i bambini piccoli hanno sui genitori, che vedono come perfetti e in grado di fare qualsiasi cosa. mm identificazione proiettiva e introiezione, in queste modalità difensive si riscontra una mancanza di confine psicologico tra il sé e il mondo. Nelle sue forme più mature, l’identificazione è alla base dell’empatia. mm scissione dell’Io, è una delle modalità primarie con cui i bambini piccoli organizzano la propria esperienza nel mondo: buono/cattivo, grande/piccolo, etc… mm dissociazione, “normale” e funzionale quando attivata da un trauma, di alto costo evolutivo e relazionale se rigidamente utilizzata, come nel disturbo dissociativo. Ciò che caratterizza le difese primitive sono due qualità associabili alla fase preverbale dello sviluppo: mancato raggiungimento del principio di realtà e mancata percezione della separatezza e della costanza di coloro che sono esterni al sé. Ad esempio, il diniego si differenzia dalla rimozione: il processo, nel diniego, assume forme diverse, il materiale, oggetto di diniego, non viene neanche per un momento riconosciuto, istantaneamente è negato “non sta accadendo”. Nella rimozione, invece, c’è un riconoscimento e la decisione di spostare il tutto nell’inconsapevolezza, «dimenticherò, per non soffrire». Questi processi preverbali che precedono il principio di realtà e la costanza dell’oggetto sono fondamentali per lo sviluppo psicologico e presenti in tutti. Costituiscono un problema se vi è un’assenza di processi psicologici più maturi o se vengono utilizzati in maniera pervasiva, escludendo altri tipi di difese. In altri termini, è l’assenza di difese mature, non la presenza di difese primitive, che definisce la struttura borderline o psicotica. Le difese secondarie, ossia i processi difensivi considerati di ordine superiore sono: mm la rimozione, la cui funzione essenziale consiste nel tenere lontano dalla coscienza un qualcosa, sia esso un’emozione, un ricordo, un pensiero, ecc. che in quel momento può risultare difficile da gestire; mm la regressione, una tendenza a fluttuare indietro lungo la via dello sviluppo, e che può essere intesa, in un’ottica di separazione-individuazione, come la manifestazione di una sottofase di riavvicinamento; mm l’isolamento, ossia la separazione dell’aspetto affettivo di un’esperienza dalla sua dimensione cognitiva, dunque un modo per gestire l’angoscia attraverso l’isolamento del sentimento dall’intelletto; mm l’intellettualizzazione, una versione di ordine superiore dell’isolamento dell’affetto dall’intelletto. La persona che utilizza l’isolamento riferisce di non provare sentimenti, mentre chi intellettualizza parla dei sentimenti, ma con una chiara e percepibile modalità “anaffettiva”. È una modalità difensiva che indica una notevole forza dell’Io: la persona riesce a rimanere lucida e razionale, grazie a questa difesa, anche in una situazione altamente emotiva. Il persistere di questa difesa, però, rischia di danneggiare diverse aree 134 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche vitali, come il sesso, il gioco, l’espressione artistica, e così via, che abbisognerebbero di una maggiore partecipazione emotiva. mm la razionalizzazione, può essere ben esemplificata dall’espressione “bene, è stata comunque un’esperienza”. Entra in gioco quando si vuole ad es. cercare di dare una spiegazione razionale, a una situazione difficile da accettare, per difendere l’autostima, o non incorrere nel biasimo, se si è agito, ricercando il piacere, e così via; mm la moralizzazione, è simile alla razionalizzazione, ma se ne differenzia per alcuni aspetti. Il principale, è che nella razionalizzazione la persona cerca di tradurre in un ragionamento coerente e razionale l’oggetto del suo desiderio, nella moralizzazione tale oggetto viene, invece, trattato come moralmente obbligatorio e doveroso. La moralizzazione è la difesa prevalente dell’organizzazione caratteriale definita “masochismo morale” (Reik, 1941), e di alcune personalità organizzate in senso ossessivo; mm la compartimentazione, difesa di tipo intellettuale, legata prevalentemente ai processi dissociativi. Viene utilizzata quando si abbracciano idee e atteggiamenti in conflitto tra di loro, senza coglierne la contraddizione. Si manifesta spesso in comportamenti additati dal senso comune come “ipocrisia”; mm l’annullamento, può essere considerato l’evoluzione del controllo onnipotente. È una difesa che viene utilizzata, in maniera inconscia, per «annullare», espiare pensieri e/o azioni che hanno provocato sensi di colpa o di vergogna. Aspetti di annullamento possono essere rintracciati in molti rituali religiosi, in quelli magici, nei giochi superstiziosi dei bambini (“faccio questo, sennò qualcosa di cattivo può succedere alla mamma”: annullamento dei sentimenti aggressivi nei confronti della madre); mm volgersi verso il sé, ossia lo spostamento di un affetto o atteggiamento negativo da un oggetto esterno verso il proprio sé. L’uso automatico e compulsivo di questa difesa è tipico nelle personalità depressive e in alcuni tipi di masochismo caratterologico; mm lo spostamento. Emozioni, pulsioni o comportamenti vengono spostati da un oggetto iniziale verso un altro, meno ansiogeno. La “triangolazione” nei rapporti relazionali, ne è un tipico esempio. Così come anche il feticismo, le fobie, il razzismo o il sessismo; mm la formazione reattiva. Trasformazione di qualcosa nel suo opposto, nel tentativo di renderlo meno pericoloso, o meno minaccioso. Per es., l’odio in amore, il desiderio in rifiuto o l’invidia in attrazione. Tratto caratteristico è la negazione a livello cosciente dell’ambivalenza insita nel vissuto; mm il capovolgimento. Modalità utilizzata per gestire sentimenti vissuti come minacciosi per il proprio sé, spostando la propria posizione da soggetto ad oggetto e viceversa. Manifestazioni tipiche di questa difesa sono ad es. i rituali di passaggio, il nonnismo nelle caserme, il volontariato; mm l’identificazione, come difesa è utilizzata, in specie dai bambini, sia per introiettare aspetti e qualità di persone che si ammirano, sia per assumere in proprio qualità che si temono, per gestirle e diminuirne la minaccia; mm l’acting out. Modalità difensiva attraverso cui la persona mette in atto ciò che la spaventa, trasformando la propria posizione passiva e impotente in attiva e di potere; mm la sessualizzazione (istintualizzazione). Tendenza ad erotizzare situazioni che provocano vissuti d’angoscia, per trasformarli in eccitamento. Alcuni esempi: la sessualizzazione della dipendenza (donne, più spesso), dell’aggressività (uomini), dell’apprendimento…; 135 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche mm la sublimazione. Freud chiamava sublimazione la trasformazione di impulsi e desideri istintivi, socialmente non accettabili, in forme espressive accettate. Ad es., il dentista sublimerebbe il sadismo, un avvocato il desiderio di uccidere gli avversari, ecc. Organizzazioni di personalità: tipologie (McWilliams, 1994) Mcwilliams (1994) individua e descrive, nel suo modello diagnostico psicoanalitico, alcune tipologie di organizzazione di personalità. Qui di seguito, ne riprendo alcune tra le principali, a titolo esemplificativo, riportando per ognuna le specifiche difese prevalenti, il senso di sé, e la tipologia delle relazioni oggettuali. Personalità psicopatica (antisociale) Difese prevalenti: controllo onnipotente, identificazione proiettiva, processi dissociativi e acting out. Il sé psicopatico: senso di sé irrealistico di grandiosità, che fatalmente fallisce e non riceve conferme nel confronto con la realtà, «sei solo un uomo». Senso di sé ripristinato con l’esercizio del potere. Altro aspetto dell’esperienza di sé è l’invidia primitiva, il desiderio di distruggere ciò che si desidera. Relazioni oggettuali: esperienze infantili caratterizzate da caos e insicurezza. Mancato attaccamento. Mancata identificazione con oggetti buoni Personalità narcisistica Difese prevalenti: idealizzazione e svalutazione. Il sé narcisistico: il vissuto del sé narcisistico si caratterizza per un senso di falsità, vergogna, invidia, vuoto, incompletezza, bruttezza, inferiorità o per controparti compensatorie: vanità, orgoglio, senso di superiorità, ipocrisia, disprezzo e autosufficienza. E ancora scarsa tolleranza alle critiche e timore della frantumazione del sé. Estremo bisogno di una conferma esterna per avere un senso di validità interiore. Relazioni oggettuali: dipendenza dalle conferme esterne e forte bisogno di oggetti-sé, ossia di relazioni e situazioni che attraverso la conferma, l’ammirazione e l’approvazione alimentino il senso di identità. Si ipotizza una storia di accadimento, per questa organizzazione di personalità, caratterizzata da figure genitoriali che abbiano apprezzato il bambino non per quello che era, ma per la funzione che svolgeva. Personalità schizoide Difese prevalenti: ritiro nel mondo interiore dell’immaginazione, in prevalenza, e anche proiezione, introiezione, idealizzazione e svalutazione, intellettualizzazione. Il sé schizoide: si caratterizza per un atteggiamento distaccato, ironico, indifferente alle aspettative sociali. Il sé schizoide sceglie di tenersi ad una distanza di sicurezza dal resto dell’umanità. L’essere inglobato è il pericolo più grande da cui deve difendersi. L’abbandono è un male minore per lo schizoide, che deve salvarsi dall’essere fuso in modo non sopportabile. Relazioni oggettuali: il conflitto relazionale primario della persona schizoide riguarda le dimensioni vicinanza/distanza, amore/paura. Personalità paranoide Difese prevalenti: proiezione. Il sé paranoide: rappresentazione di sé polarizzata da un lato su un’immagine di sé impo136 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche tente e umiliata e dall’altro su un’immagine onnipotente, vendicativa e trionfante. Nessuna delle due immagini può tra l’altro offrire sollievo, perché la prima è pervasa dal terrore del disprezzo e della sopraffazione, la seconda dal senso di colpa. Relazioni oggettuali: nella storia delle persone paranoiche si ritrovano spesso critiche, punizioni, mortificazioni, adulti difficili da accontentare. Le ripetute esperienze di sopraffazione e umiliazione producono dei danni nel senso della propria competenza. Personalità depressiva Difese prevalenti: introiezione. Il sé depressivo: forte convinzione di un sé fondamentalmente cattivo. Di aspetti normali dell’esperienza, come competitività, orgoglio, rabbia, invidia, vanità, egoismo, lussuria, se ne sentono pervasi e li ritengono estremamente pericolosi. Inoltre, sviluppano la convinzione di essere causa e responsabili (con le loro mancanze) dei rifiuti e degli abbandoni. Relazioni oggettuali: perdite precoci, o ripetute, noncuranza per i bisogni dei figli, atmosfera familiare in cui si scoraggia ogni tipo di sofferenza. Personalità maniacale Difese prevalenti: diniego, acting out. Il sé maniacale: impegnato in una vorticosità di movimento, che lo tutela in qualche modo dal rischio della frammentazione. Le persone maniacali hanno paura di crollare, se smettono di muoversi. Relazioni oggettuali: ripetute separazioni traumatiche, senza alcuna possibilità di elaborazione emotiva. Personalità masochista (autodistruttiva) Difese prevalenti: introiezione, rivolgimento contro la persona, idealizzazione, acting out. Il sé masochista: come il depresso, il masochista si ritiene indegno, colpevole, meritevole di rifiuto e punizioni. A differenza dei depressi, il masochista gestisce la propria aggressività proiettandola sugli altri e comportandosi in modo da dimostrare che era fuori di sé , negli altri, non in lui. Relazioni oggettuali: «un masochista è un depresso che spera ancora». Nel senso che l’abbandono qui non è così devastante come per i depressi. Spesso sono genitori inadeguati, ma che in caso di pericolo o danno riescono ad essere presenti e intervenire. Il bambino, dunque, impara che se si fa male o se soffre, può attirare l’attenzione su di sé. Personalità ossessiva e compulsiva Difese prevalenti: isolamento, annullamento, formazione reattiva, spostamento. Il sé ossessivo: le persone ossessive e compulsive hanno profonde preoccupazioni di controllo e di rettitudine morale. Si controllano molto nelle loro parti aggressive, libidinose e bisognose. Relazioni oggettuali: figure genitoriali rigide e molto esigenti, con richieste irragionevoli e premature. Personalità isterica (istrionica) Difese prevalenti: rimozione, sessualizzazione, regressione, acting out, dissociazione. Il sé isterico: l’immagine di sé corrisponde a quella di un bambino piccolo, bisognoso, 137 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche imperfetto. Appaiono controllanti e manipolativi, ma hanno una realtà interna totalmente opposta. La manipolazione altro non è che un tentativo messo in atto per gestire un mondo vissuto come minaccioso. La tendenza alla vanità e alla seduttività, pur avendo una funzione di supporto all’autostima, come per le personalità a organizzazione narcisistica, differiscono da queste in quanto non hanno un vissuto di vuoto interiore da gestire. Tendono a conquistare, ad esercitare il loro fascino, per non essere sfruttati e rifiutati. Relazioni oggettuali: nelle storia delle personalità a organizzazione isterica si riscontrano spesso atteggiamenti ed episodi che attribuivano ai due sessi valore e potere diversi (per es., preferenze per il fratello maschio, …). A contribuire alla struttura di personalità isterica è la sensazione che la propria identità sessuale sia problematica. Colloquio diagnostico ad orientamento psicodinamico: scheda orientativa (McWilliams, 1994) Per il colloquio diagnostico la McWilliams (1994) propone come strumento di orientamento e raccolta delle informazioni la seguente scheda: Dati demografici Nome, età, sesso, retroterra etnico e razziale, orientamento religioso, condizione relazionale, condizione genitoriale, livello di istruzione, condizione lavorativa, precedenza esperienza di psicoterapia, fonte dell’invio, informatori diversi dal cliente. Problemi attuali e loro in- Principali disagi e idee del paziente circa la loro origine, storia sorgenza di quei problemi, farmaci assunti, perché la terapia viene richiesta proprio ora. 138 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche Storia personale Presentazione attuale (stato mentale) Argomenti conclusivi Dove è nato, dove è cresciuto, numero di figli nella famiglia e collocazione del cliente tra di essi, importanti trasferimenti. Genitori e fratelli: ottenere dati oggettivi (se sono vivi, oppure causa e momento della morte) e dati soggettivi (personalità, natura della relazione col paziente). Problemi psicologici in famiglia (psicopatologie diagnosticate e altre condizioni, per esempio alcolismo). mm Prima infanzia e fanciullezza: se la nascita del paziente era voluta, condizioni della famiglia dopo la sua nascita, qualunque cosa di insolito nelle tappe evolutive fondamentali, qualunque problema precoce (alimentazione, controllo degli intestini, linguaggio, locomozione, enuresi, terrori notturni, sonnambulismo, mordersi le unghie, ecc.), ricordi più precoci, storielle o battute familiari sul cliente. mm Latenza: problemi di separazione, problemi sociali, problemi scolastici, problemi comportamentali, crudeltà verso animali, malattie, perdite, trasferimenti o tensioni familiari in questo periodo, violenza sessuale o fisica. mm Adolescenza: età della pubertà, qualunque problema fisico con la maturazione sessuale, preparazione alla sessualità da parte della famiglia, prime esperienze sessuali, preferenza sessuale, fantasie masturbatorie, esperienza scolastica, dal punto di vista sociale e dello studio, modelli autodistruttivi (disturbi dell’alimentazione, uso di droghe, giudizio sessuale dubbio, comportamenti eccessivamente rischiosi, impulsi suicidi, modelli antisociali, malattie, perdite, trasferimenti o tensioni familiari in questo periodo. mm Età adulta: storia professionale, storia relazionale, adeguatezza dell’attuale relazione sentimentale, rapporto con i bambini, passatempi, attitudini, piaceri, aree di orgoglio e soddisfazione. Aspetto generale, stato affettivo, umore, qualità del linguaggio, adeguatezza all’esame di realtà, valutazione dell’intelligenza, adeguatezza della memoria, valutazione dell’attendibilità delle informazioni. Effettuare ulteriori indagini in ognuna delle aree che suggeriscono problemi; per esempio, se l’umore è depresso, valutare le possibilità di suicidio. Sogni: vengono ricordati? Ce n’è qualcuno ricorrente? Esempio di un sogno recente. Uso di sostanze, prescritte o altro, incluso l’alcol. Chiedere al paziente se gli viene in mente qualche informazione importante su cui non gli è stata fatta nessuna domanda. Chiedere al paziente se si trova a proprio agio con voi e se ha qualcosa da chiedere. 139 Psicodiagnosi: prospettive psicodinamiche Deduzioni Principali temi ricorrenti, aree di fissazione e conflitto, difese preferite, individuazione di fantasie, desideri e paure inconsci, identificazioni centrali, contro identificazioni, perdite non elaborate, coesione del sé e autostima. Conclusioni La psicodiagnosi può essere considerata come un atto conoscitivo, finalizzato a sviluppare un processo di raccolta di informazioni, di conoscenza e di valutazione che richiede attenzione e riconoscimento dell’epistemologia implicita (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Telfener (2003) sostiene che occorre pensare alla “diagnosi, immaginando tante operazioni di scelta possibili – complementari e temporalmente conseguenti e temporanee – all’interno di un percorso fatto di vincoli e possibilità”. Il processo psicodiagnostico è potenzialmente un’arte, se guardato nella sua prospettiva (ineliminabile) di selezione delle informazioni, questo spiegherebbe la continua ricerca e il continuo confronto e sviluppo di approcci nuovi e diversi, (Giusti, Pagani, 2012), La varie teorie ed approcci sembrano talvolta offrire concezioni alternative, “logicamente”, in disaccordo tra di loro. Tuttavia, potrebbero essere considerate come “fenomelogicamente” in accordo, considerando la variabilità degli individui, e applicabili in maniera selettiva, a seconda della situazione e dei bisogni della persona, che potrebbe trarre vantaggio da un approccio piuttosto che da un altro (Gilbert, Orlans, 2012). Inoltre, la struttura del carattere delle persone è spesso provvisoria, non definitiva: la raccomandazione principale che prevale tra i vari autori psicodinamici è proprio quella di mantenere costante e aperta la disponibilità a rivedere la propria diagnosi iniziale, a continuare a dare valore e collocazione alle nuove informazioni e ai cambiamenti che possono maturare nel corso del processo psicoterapeutico. L’efficacia degli interventi è senz’altro significativamente legata a tali sensibilità, consapevolezze e aperture, nelle concettualizzazioni e negli atteggiamenti sia dei clinici e sia dei ricercatori (Giusti, Spalletta, 2012). Bibliografia Blatt S.J. (1990), Interpersonal relatedness and self-definition: Two personality configuration and their implication for psychopathology and psychotherapy. In Singer J.L. (a cura di), Repression and Dissociation: Implications for Personality Theory, Psychopathology and Health. University of Chicago Press, Chicago, pp. 299-335. Blatt S.J. (1995), Representational structures in psychopathology. In Cicchetti D., Toth S. (a cura di), Rochester Symposium on Developmental Psychopathology, vol. VI: Emotion, Cognition, and Representation. University of Rochester Press, Rochester, NY, pp. 1-33. Clarkin J., Caligor E., Stern B.L., Kernberg O.F. (2004), The structured interview of personality organization. Weill Medical College of Cornell University, documento non pubblicato. Erikson E.H. (1950), Infanzia e società, Armando Editore, Roma, 1966. Erikson E.H. (1968), Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma, 1981. Falcone A. (1999), Diagnosi clinica. Teoria e metodo, Borla, Roma. Gilbert M., Orlans V. 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Psicoterapeuta accreditato presso la scuola Aspic, Formatore al Master in Counselling Aspic. Psicologo coordinatore nella progettazione sociale della Cooperativa Sociale di Solidarietà Aspic. Psicologo dell’emergenza nell’equipe sull’emergenza psicologica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio. Psicoterapeuta Vocazionale presso l’Oasi di Elim. Abstract Si è riportata una ricerca meta-analitica (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011) sull’utilizzo del Test di Wartegg nella panoramica internazionale nella quale sono indicate le cause dello scarso utilizzo del WZT: isolamento degli studi di ricerca, data base che non includevano ricerche non in lingua inglese, ecc. Nonostante filoni di studio isolati, si riscontra una buona validità del test come discriminante di personalità come da alcune ricerche indicate. Si sono evidenziate le caratteristiche del Test di Wartegg, la metodologia di somministrazione e un modello di possibile siglatura (Crisi, 1998). Si indica come necessaria l’inclusione del WZT in una batteria di test per una psicodiagnosi integrata. Keywords: Test di Wartegg, Psicodiagnosi, Valutazione, Personalità, Proiettivo, Ricerca Introduzione Il Wartegg Zeichen Test (WZT, o prova di disegno Wartegg di completamento) è stato introdotto da Ehrig Wartegg (1939) come un metodo di valutazione della personalità all’interno della tradizione della psicologia della Gestalt a Lipsia, Germania (Fontana, 2012). In un recente studio meta-analitico sul Zeichen Wartegg Test (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011) sono state raccolte e valutate varie ricerche della letteratura sull’argomento. Si è evidenziato come la storia del Test di Wartegg sia influenzata da diverse tradizioni, spesso isolate in varie parti del mondo. La meta-analisi ha indicato una alta affidabilità e validità del test tuttavia non è stata in grado di stabilire una conoscenza cumulativa del metodo per l’isolamento delle tradizioni di ricerca (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011). 143 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg Teoricamente, le tradizioni Wartegg possono essere classificate in sistemi analitici di interpretazione, che riguardano i segni stampati come stimoli visivi e sistemi dinamici, che sostengono come i segni stampati abbiano determinati significati simbolici che rappresentano alcune aree della psicologia individuale. L’ipotesi dei significati simbolici risulta problematica, poiché è stata criticata per la mancanza di verifica empirica (Tamminen, Lindeman, 2000). Tuttavia è necessario considerare che la cultura contemporanea tende verso la perdita della soggettività, allo stesso modo, parallelamente alla cultura moderna, l’acuirsi dell’interesse di strumenti psicodiagnostici che rispondono principalmente a criteri di sofisticazione statistica segue un processo simile, svigorendo la psicologia clinica di quello che è la sua originalità (Pinkus, 2012). Il non considerare come scientifica l’osservazione e l’intuizione clinica, comporta il ridurre la scienza psicologia e così l’individuo, in un becero appiattimento statistico con la perdita di numerosi significati e informazioni. Non si vuole escludere acriticamente quel livello sperimentale che oggi si ritiene caratterizzante la “scientificità” di un discorso, ma si vuole sottolineare che la verifica del valore clinico e diagnostico non può essere ricondotto solo a questa presunta scientificità (Pinkus, 2012). In questa ottica il Test di Wartegg può a mio avviso coniugare la soggettività e l’oggettività, costituendo un ottimo strumento psicodiagnostico. Si osserva come i metodi di interpretazione dei protocolli WZT varino da approcci che enfatizzano l’interpretazione qualitativa a sistemi di valutazione più quantitativi (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011). L’interpretazione qualitativa e quantitativa è legata alla diversità di molti studiosi del test. Ad esempio, in Wass e Mattlar (2000) il sistema di punteggio delle variabili di personalità caratteristiche sono le seguenti: la vitalità, l’iniziazione e l’attività, l’ambizione, l’espansione, la spontaneità, l’energia, la forza dell’Io, il controllo dell’Io, l’indipendenza, l’obiettività, la soggettività, l’interesse per l’interazione emotiva, la capacità empatica e l’egoismo. Mentre in Crisi (2008) il sistema produce tre tipi di valutazione di un individuo. In primo luogo, una descrizione qualitativa su otto aree della personalità corrispondenti a ciascun quadrato del Wartegg; in secondo luogo, a tre livelli di classificazione della maturità della persona: emotiva, cognitiva e sociale (raggiunto, parzialmente raggiunto, non raggiunto); e, infine, una valutazione clinica (personalità ben strutturata, la necessità di una valutazione più accurata, e condizione psicopatologica). L’appropriatezza del disegno in relazione al segno stampato è un aspetto fondamentale in molti sistemi di punteggio, la logica di fondo è che la capacità di percepire e rispondere agli stimoli del test corrisponda alla capacità di attivare comportamenti funzionali negli ambienti sociali. Recenti indagini condotte da psicologi che utilizzano il test di Wartegg hanno confermato che il metodo Wartegg è comunemente usato in Italia, Svezia, Finlandia, Spagna, Francia, Svizzera, Germania, Stati Uniti, Brasile, Argentina, Uruguay, Israele e Indonesia. Questo indica che il test è o è stato ampiamente conosciuto in tutto il mondo, anche se la portata del suo utilizzo, a nostra conoscenza, non è stata ancora verificata (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011). Benché l’utilizzo del Wartegg in alcuni paesi sia criticato per la scarsa validità dovuta a 144 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg poche e soprattutto isolate ricerche empiriche, gli psicologi che lo utilizzano nella loro pratica clinica, d’altro canto, hanno sostenuto il valore pratico del metodo e l’utilità nella loro esperienza di lavoro (Heiska, 2005; Kosonen, 1999; Torazza, 1993). Pertanto, il problema non può essere la mancanza di ricerca sul Test di Wartegg, ma la difficoltà di trovare gli studi; le tradizioni di ricerca e sistemi di interpretazione si sono sviluppate relativamente in modo separato, senza riferimenti incrociati e quindi i riferimenti bibliografici sono relativamente scarsi (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011). Questa separazione è in parte causata dalle barriere linguistiche. Il WZT trova un pubblico interessato tra studiosi e professionisti in quasi tutte le parti del mondo tranne che nei paesi di lingua inglese, e spesso, negli anni, i riferimenti bibliografici sul Wartegg sono mancati dalle banche dati di ricerca più potenti, tutte di lingua inglese (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011). Solo negli ultimi anni lo sviluppo di banche dati on-line e motori di ricerca ha reso più visibile tutta la portata della ricerca sul Wartegg. Nonostante la ricerca sul Wartegg sia proceduta attraverso studi isolati e non sia possibile riconoscere una validità generalizzata del test, si sono riscontrati risultati sorprendenti sulla alta validità rispetto a studi specifici (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011). Quindi si ritiene che potenzialmente il test di Wartegg possa raggiungere livelli di validità paragonabili ad altri metodi di valutazione più cognitivi, se si riuscisse a unificare e integrare i diversi filoni di studio. Gli studi che utilizzano il metodo di Wartegg in genere non hanno fatto riferimento ai pertinenti risultati precedenti, sia perché tali studi non esistevano o meglio, le informazioni su di loro non erano disponibili. Nella storia politica mondiale, il WZT si è probabilmente trovato a svilupparsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e l’associazione con il regime nazista è stato condizionante per il suo utilizzo. Ehrig Wartegg ha lavorato a Lipsia nell’ex Germania Est, con limitate possibilità per lo sviluppo del metodo e poco aiuto per incrementare il suo utilizzo (Soilevuo Grønnerød, Grønnerød, 2011). Sulla base della meta-analisi di Soilevuo Grønnerød e Grønnerød (2011), viene messo in evidenza che non vi è alcuna ragione per respingere il metodo di Wartegg come un metodo per la valutazione della personalità. Tuttavia, è necessario costruire una solida tradizione cumulativa di ricerca per produrre conoscenza e creare una base per l’utilizzo del metodo Wartegg nella pratica psicologica. E considerando che è un metodo facile da amministrare ed è parzialmente indipendente dal linguaggio, il test di Wartegg può diventare un utile strumento da aggiungere al kit degli attrezzi diagnostici di uno psicologo. Caratteristiche del test di wartegg La forma del Test di Wartegg è costituita da un normale foglio di carta A4 con otto riquadri (4 cm x 4 cm) disposti su due righe sulla metà superiore del foglio (vedi Figura 1). Un segno semplice è stampato in ciascuno dei quadrati (Wartegg, 1972). Il compito della prova è di realizzare un disegno completo utilizzando il segno stampato come parte dell’immagine, e quindi fornire una breve spiegazione scritta o titolo di ciascun disegno sulla parte inferiore del foglio. 145 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg Figura 1 Nel momento in cui il soggetto si sottopone alla prova del Wartegg, affronta del materiale non familiare, semi-strutturato e non organizzato. Lo definiamo semi-strutturato perché i vari segni stimolo possiedono una loro precisa identità, cui esiste un livello iniziale di definizione condivisa dello stimolo (Crisi, 1998). Tali caratteristiche (non familiarità, semi-strutturazione e mancanza di organizzazione) determinano nel soggetto un processo di organizzazione che procede «con un gioco tra significato e aspetti oggettivi dello stimolo che si modificano vicendevolmente. Il risultato è costituito dalla risposta o interpretazione» (Rapaport, 1977). La risposta, a sua volta, rappresenta un segmento molare di comportamento capace di svelarci dinamiche specifiche e, quindi, rivelatrici l’organizzazione della personalità del soggetto in esame. In risposta, quindi, alla consegna del Test di Wartegg il soggetto, nel processo di organizzazione del materiale, mette in atto una strategia decisionale nella quale concorrono motivazioni diverse, gerarchicamente organizzate. Da un lato, troviamo motivazioni prossime, legate ad aspetti percettivi governati dalle leggi della Gestalt e al carattere evocativo dei vari Riquadri; dall’altro, motivazioni remote, altamente individualizzate che si collegano alla psicologia del profondo (Crisi, 1998). Come tutti i metodi proiettivi, il test di Wartegg fa appello alla produzione spontanea del soggetto a partire da una situazione standardizzata e uguale per tutti, il più possibile neutra ed ambigua, in modo da favorire il meccanismo di proiezione attraverso il quale il soggetto 146 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg organizza e struttura un’esperienza, proiettando su questa la sua esperienza interiore, la struttura stessa della sua personalità. In particolare, i test proiettivi che utilizzano il disegno, detti test grafici proiettivi, sono particolarmente utili per conoscere in maniera poco intrusiva, grazie al ricorso ad un’esperienza ludica e divertente, gli aspetti più intimi dei soggetti, che presi appunto dal piacere del disegno, proiettano senza accorgersene sentimenti, emozioni, paure e desideri. Nell’analisi del disegno vengono valutati sia gli aspetti di contenuto che i cosiddetti aspetti grafici formali, comuni a tutti i tipi di test grafico-proiettivi, e anche alle produzioni grafiche spontanee. I principali aspetti grafici formali che devono essere presi in esame sono l’impugnatura, l’utilizzo dello spazio (la dimensione, la collocazione e l’orientamento spaziale del disegno rispetto al foglio), il tipo di tratto e la pressione, la linea, il colore, la presenza di omissioni o di trasparenze. Nel momento in cui un soggetto si sottopone al test di Wartegg, intervengono, dapprima, aspetti percettivi strettamente determinati e guidati dalle leggi della percezione visiva (ad esempio, al Riquadro 1, il soggetto percepisce il segno stimolo come un punto al centro del Riquadro); dall’oggetto percepito, il punto al centro, origina un legame con ciò che nella nostra mente si collega ad un punto centrale, ovverosia, il concetto di centralità, di essere al centro (che costituisce il carattere evocativo del primo Riquadro). Solo a questo punto, scattano i legami associativi peculiari e caratteristici di quel determinato soggetto con il concetto di centralità (Crisi, 1998). In base alle sue caratteristiche individuali, al momento in cui si sottopone al test, il soggetto elabora ed organizza il dato percettivo evocativo in una risposta vera e propria (il disegno) che potrà spaziare nella sua natura lungo un continuum rappresentato, da un lato, da aspetti formali, di superficie, dall’altro, da aspetti altamente individualizzati e personalizzati (Crisi, 1998). Norme generali per la somministrazione (Crisi, 1998). Nessun test deve essere somministrato da solo ai fini di una psicodiagnosi. Il soggetto, prima di essere sottoposto ad un esame psicodiagnostico (colloqui clinici e test psicodiagnostici) deve essere messo al corrente di alcune informazioni: mm informazioni che hanno, in primo luogo, lo scopo di fornirgli tutti gli elementi di valutazione che lo condurranno ad una scelta più consapevole (un’indagine psicodiagnostica comporta notevole quantità di tempo, si colloca ben dentro la privacy del soggetto e richiede anche una spesa rilevante); mm in secondo luogo, prepararlo alla somministrazione per evitare non tanto le ansie o i timori ma, soprattutto, quell’atteggiamento di sospetto e di squalifica verso i test. Nella pratica clinica, dunque, si spiega al soggetto che i motivi che lo hanno portato ad un colloquio con uno psicoterapeuta necessitano, per essere meglio compresi e avviati a soluzione, di essere inquadrati in una descrizione della sua personalità. Si spiega che, per arrivare a questa descrizione, oltre ai colloqui, si ricorrerà alla somministrazione di test: ovvero di strumenti clinici. Sono prove che, al di là del giudizio che egli stesso (soggetto) se ne farà, necessitano di tempo, del suo impegno, della sua disponibilità altrimenti sarà tutto tempo (e denaro) sprecato. 147 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg Si continua dicendo che farà varie cose, diverse tra loro, nelle quali (se si ritiene di non dover utilizzare test di livello) non ci sarà mai una risposta giusta o sbagliata da dare perché, dovendo descrivere se stesso , ogni risposta sarà utilissima a tale scopo; inoltre si informa che, di volta in volta, verranno illustrate le cose da fare e che non ci saranno mai problemi di tempo. Si conclude ricordando al soggetto che tutto quello che farà nei nostri incontri è protetto e vincolato dal segreto professionale e che, insieme, prenderemo visione della stesura finale o psicodiagnosi (restituzione). Metodo di somministrazione In genere il Wartegg è vissuto in maniera piuttosto positiva dai soggetti, è il test che si può presentare per primo tra quelli che compongono la batteria di reattivi scelta. II test, che si presta alla somministrazione sia individuale che di gruppo, può essere somministrato dai quattro-cinque anni in poi (Crisi, 1998). Si fornisce al soggetto una matita, numero 2 (HB), ben appuntita (non si consente al soggetto di utilizzare la gomma per cancellare), quindi, mettendo davanti al soggetto un modulo del test, lo si invita a sottoporsi alla prova con la seguente consegna: «Come vede, questo modulo è diviso in otto Riquadri in ognuno dei quali c’è un piccolo segno. Prendendo spunto da esso, realizzi in ciascun Riquadro un disegno di senso compiuto, preferibilmente il primo che le viene in mente evitando, se possibile, i disegni astratti. Non è necessario che segua l’ordine numerico; lavori senza fretta, non ci sono problemi di tempo». Talvolta, il soggetto potrebbe obiettare di non saper disegnare, di non essere molto bravo, eccetera; il compito del somministratore sarà rassicurarlo dicendogli che ciò non ha importanza, che il saper disegnare non è quello che vogliamo da lui e che per gli scopi che ci proponiamo, tutto quello che farà andrà benissimo. Le domande che più frequentemente i soggetti rivolgono sono relative al significato del termine «senso compiuto» (il somministratore potrà dire «un disegno che rappresenta qualcosa» o, nei casi in cui il livello culturale del soggetto lo richieda «un disegno che significa, vuole dire qualcosa») e all’ordine di esecuzione da seguire (numerico o a piacere) che, come accennato in precedenza, viene lasciato alla libera iniziativa del soggetto. Durante la prova, il somministratore avrà cura di: mm tenere a mente l’ordine in cui il soggetto ha eseguito i disegni per poi annotarlo, al termine dell’esecuzione, sul foglio di notazione (in caso di somministrazione di gruppo comunicare al soggetto di scrivere l’ordine di esecuzione su un foglio di notazione consegnato); mm segnare il tempo di esecuzione; mm annotare tutto ciò che il soggetto dice, le domande che rivolge al somministratore, le valutazioni, le critiche, le interruzioni, le soste e ogni altro comportamento verbale o nonverbale di rilievo che accompagna l’esecuzione della prova; mm una volta terminata la prova, si chiede al soggetto di definire quello che ha disegnato in ciascun riquadro e lo si trascrive sul foglio di notazione; questa fase prende il nome di «pinacoteca» (in caso di somministrazione di gruppo comunicare al soggetto di scrivere il significato di ciò che ha disegnato su un foglio di notazione consegnato). 148 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg Significato dei segni Come detto in precedenza i segni stimolo del test di Wartegg implicano precisi aspetti relativi alle leggi percettive. Il principio della semplicità è il criterio logico del test: tanto più primitive e semplici sono le strutture, tanto più sono legate alla dinamica affettiva e tendono a suscitare la produzione di significati proiettivi (Scarpellini, 1962). La semplicità degli stimoli è uno dei tanti modi attraverso cui vengono aggirate le strutture difensive (Mc Cully, 1998). mm Riquadri 1, 2, 4 e 7: gli stimoli di questi riquadri vengono percepiti in rapporto allo spazio secondo la legge della pregnanza. mm Riquadro 3: le tre linee crescenti sono percepite in base alle leggi del destino comune, della vicinanza e della somiglianza. mm Riquadro 5: leggi del destino comune, della vicinanza e della somiglianza. mm Riquadro 6: leggi della chiusura, della somiglianza, del destino comune e della vicinanza. mm Riquadro 8: legge della chiusura tenendo presente che questo stimolo non si impone ma si presta ad essere elaborato in raffigurazioni altamente individualizzate. Per Crisi (1998) i segni stimolo del test di Wartegg hanno un definito carattere evocativo, cioè la capacità posseduta dallo stimolo di richiamare e di facilitare la proiezione di determinate categorie di concetti. Essa origina dalle caratteristiche percettive dello stimolo (che vengono recepite dal soggetto sia a livello cosciente, sia a livello subliminale, sia a livello inconscio) per collegarsi quasi istantaneamente alle categorie concettuali ad esse associate. I - SEGNO: punto Suggerisce il delicato, l’organico, l’inapparente ma pur tuttavia determinato, con posizione centrale (Wartegg, 1972). Il centro, il punto di vista: centro del mio conscio (Scarpellini, 1962). Lo stimolo sollecita una proiezione del proprio modo di sentire l’Io autonomo come sintesi del proprio modo di porsi dinanzi alla realtà. Evoca il concetto di centralità, dell’essere posto al centro di una situazione. In genere ad essere posto al centro di tutti siamo noi stessi. Risponde alla domanda del “Chi sei?” evoca principalmente i sentimenti, le autovalutazioni del soggetto riguardo la propria identità e in senso più profondo del proprio sé. Lo spazio intorno al punto è lo spazio vitale, l’ambiente in cui vive e agisce il soggetto, ambiente inteso nella accezione più ristretta (per es. famiglia) (Crisi, 1998). Il soggetto è “forzato” a rilevare la propria posizione di fronte alla realtà esterna, a indicare come valuta la propria modalità di esistere. Si impone una autoriflessione: su come si sente e su come si pensa; è una presentazione di sé (Fontana, 2012). II - SEGNO: la piccola linea ondulata Richiama un movimento affettivo molle e organico oppure una eccitazione (Wartegg, 1972), segno di movimento fluido e vitale, evidenzia la vitalità e l’adattamento all’ambiente (Scarpellini, 1962). Ambiente inteso come l’esterno-contrario, quindi evidenza l’adattamento interiore verso l’altro da se, per le donne richiama l’adattamento al maschile e per gli uomini al femminile. Richiamando dinamiche legate alla vitalità è possibile che richiami a esperienze legate all’origine della vita stessa, quindi in senso più profondo al rapporto con 149 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg il materno. È possibile che il soggetto tenda a proiettare vissuti collegati alle primitive esperienze relazionali con l’agente di cura (Crisi, 1998). Il soggetto è invitato quasi a mettere un ponte tra esterno e interno e attraverso questo ponte ricercare agganci con il mondo, per manifestare agli altri qualcosa di sé. Sarebbe come se gli si chiedesse: gli altri si accorgono che ci sei anche tu? Che esperienze hai fatto con gli altri? Lo stimolo fa esprimere il soggetto sulle possibilità di autocoinvolgimento, sui rischi che gli richiede una relazione (Fontana, 2012). III - SEGNO: Serie di tre linee verticali parallele che diventano sempre più grandi Stimolano la salita dinamica (Wartegg, 1972), si pongono percettivamente in modo unitario e suggeriscono una divisione spaziale e un aumento dinamico. Stanno ad indicare l’energia investita attualmente dal soggetto, il suo dinamismo e lo sviluppo intenzionale (Scarpellini, 1962), richiama il concetto di spazio, tempo e attiva la proiezione della disponibilità psicoenergetica presente nel soggetto e il suo modo di vivere il suo rapporto con lo spazio e il tempo. Tale energia se ben canalizzata è al servizio dell’Io, delle sue aspirazioni, dei suoi livelli di attività, e adattamento all’ambiente. Evidenzia la spinta verso l’azione e la direzionalità, la capacità di investire le energie verso un obiettivo o nelle attività della giornata (Crisi, 1998). Il soggetto è sollecitato a mettere la propria energia senza ripensamenti sopra schemi operativi, a indirizzare l’azione verso qualcosa di concreto, nell’intento del fare qualcosa a favore di sé, del quale poter dire “questo l’ho fatto io per me”. Sarebbe come gli si chiedesse: sei in grado di osare e fare qualcosa per te? Dato che la vita è nelle tue mani come vuoi realizzare il tuo futuro? Lo stimolo fa esprimere lo sforzo, la tenacia verso la costruttività a favore di sé (Fontana, 2012). IV - SEGNO: il piccolo quadrato nero Richiama angolosità, oscurità, pesantezza (Wartegg, 1972); quindi è indizio di ciò che è sentito oscuro, profondo, pauroso, ignoto, inconscio (Scarpellini, 1962). Potrebbe elicitare la proiezione del complesso dominante: è evidente lo stacco tra lo sfondo bianco (energia) e il nero (ombra). Lo spazio a sinistra bianco potrebbe rappresentare l’inconscio. Ciò che è pesante e profondo è al tempo stesso stabile, solido, punto di riferimento; è probabile che in questa accezione lo stimolo possa evocare il vissuto del soggetto verso l’autorità, quindi la relazione con il paterno (Crisi, 1998). Lo stimolo fa esprimere la personalità “primitiva” nel modo di sentire privo di controllo razionale: sentire istintivo senza regole fisse, rivolto alla gratificazione immediata, le paure della prima infanzia, gli abbandoni riportati, le imposizioni di regole per formare delle buone abitudini. Lo stimolo mette il soggetto nella condizione di percepire le proprie angosce e chiedersi: posso uscire dalle “esperienze drammatiche” del passato accumulate nel corso della mia crescita e entrare da protagonista nella mia vita guardando con fiducia il futuro? O è necessario tornare indietro per chiudere le cose rimaste aperte? Lo stimolo impone al soggetto uno sforzo per non lasciarsi sopraffare dalle proprie ansietà, per rimanere padrone di sé, per affrontare i pericoli e trovare una via d’uscita per non soccombere (Fontana, 2012). V - SEGNO: linee contrapposte in lunghezza e in direzione Stimola l’incontro tra due linee, il superamento simultaneo di un momento di tensione 150 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg (Wartegg, 1972), porta al significato di ostacolo e incitamento a superare l’opposizione: attività e volitività (Scarpellini, 1962). Evoca la sintesi degli opposti, la dimensione dell’aggressività, capacità di canalizzare l’aggressività verso comportamenti costruttivi. Si tende a considerare lo slancio verso l’alto come costruttivo mentre l’utilizzazione dello spazio verso il basso tende ad essere interpretata piuttosto come aggressività distruttiva, sia etero che autodistruttiva. Sta a indicare la modalità del soggetto a reagire alle frustrazioni (Crisi, 1998). Lo stimolo impone al soggetto di valutare le proprie energie e poi di impegnarle sopra un progetto che operativamente propone strategie di superamento di un blocco. Sarebbe come se al soggetto venisse chiesto: hai energie per opporti alla situazione che ti impedisce? Sei in grado di fare? Come puoi arrivarci? Il soggetto viene invitato a fare, a inglobare l’ostacolo e proseguire sulla linea di una realizzazione in modo da poter dire a se stesso sono riuscito (Fontana, 2012). VI - SEGNO: linee orizzontale e verticale Spinge a decidere tra l’unione e la separazione delle due linee (Wartegg, 1972). Percettivamente fa tendere all’unione, sta a evidenziare l’orientamento verso una decisione razionale, a unire in un tutto strutturato o a separare in parti figurative distinte (Scarpellini, 1962). Sta ad indicare la capacità di sintesi e struttura razionale e la capacità di organizzare, risolvere e gestire operativamente i problemi. Questo riquadro sembra fornirci indicazioni sulle funzioni di giudizio, esame di realtà, d’anticipazione e progettazione del soggetto. È il riquadro più cognitivo. Spesso vengono disegnate cose del proprio lavoro o dei propri interessi (Crisi, 1998). Lo stimolo spinge a soluzioni che includano le dimensioni di comprensione, integrazione, e strutturazione e risultino stabili e in equilibrio. Sarebbe come se al soggetto venisse chiesto: Come conviene utilizzare le tue forze per raggiungere un obiettivo? Fai dei tentativi insensati o usi l’intelligenza per guidare la tua attività? Il soggetto mobilita la propria parte razionale per impiegare le proprie energie in modo intelligente (Fontana, 2012). VII - SEGNO: il mezzo cerchio punteggiato Facilita la percezione sentimentale di strutture delicate (Wartegg, 1972), sta ad evidenziare la capacità di sentire ciò che è appena accennato, delicatamente suggerito: sensibilità (Scarpellini, 1962). Stimolo del femminile, visto come invito a proiettare il proprio rapporto con la femminilità per gli uomini e come possibilità di proiettare la propria esperienza del femminile per le donne. Può indicare anche il rapporto con la sessualità e l’erotismo (Crisi, 1998). Lo stimolo spinge il soggetto a “risuonare” con i contenuti affettivi dell’altro, a coinvolgersi emotivamente, a utilizzare per esprimere se stesso il sentimento e non le modalità irrazionali. Sarebbe come se al soggetto venisse chiesto: che cosa senti nell’intimo di te stesso quando ti accosti ai sentimenti? Cosa senti nei confronti degli altri? Su questo stimolo si condensano spesso problematiche affettive, relazionali e contenuti sessuali con problematiche inerenti la sessualità (Fontana, 2012). VIII - SEGNO: l’arco protettivo Spinge all’arrotondamento e alla chiusura armonica come completamento (Wartegg, 1972), suggerisce un riferimento all’espansione della personalità e al rapporto personale, etico e sociale (Scarpellini, 1962). Può rappresentare il rapporto tra il personale e il collettivo, fra personale e impersonale, cioè il passaggio tra la dimensione individuale a quella della 151 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg comunicazione. Mette in evidenza valenze psicoaffettive relative alla dimensione sociale e alla principale modalità di rapportarsi con altre persone (Crisi, 1998). Lo stimolo spinge il soggetto a rivelare l’autorealizzazione finora raggiunta: come il soggetto si percepisce nella situazione attuale e come desidererebbe essere. Sarebbe come se al soggetto venisse chiesto: in questo momento della tua vita, in queste attività, in queste circostanze, ti stai realizzando? Conosci le tue capacità e le metti a disposizione del tuo progetto o le lasci inutilizzate? Lo stimolo impone al soggetto uno sforzo verso il completamento di sé, sollecita la motivazione a divenire quello che si vuol realizzare (Fontana, 2012). Siglatura Come metodo italiano di siglatura viene qui riportato quello di Crisi (1998) sottolineando l’esistenza altrettanto valida del metodo di Fontana (2012) lo studioso al quale si deve la prima traduzione del Wartegg in Italia. Nei sui studi Fontana rielabora il WZT fondandolo da una parte sulla dinamica archetipica e dall’altra sviluppandolo nella prospettiva di alcuni concetti scientifici contemporanei più importanti: quello di immagine, di informazione e di regolazione (Pinkus, 2012). Per quanto riguarda il metodo di Crisi (1998) ogni singolo Riquadro viene valutato in base a determinate categorie di siglatura che riguardano: mm il Carattere Evocativo (C.E.); mm la Qualità Affettiva (Q.A.); mm la Qualità Formale (Q.F.); mm il Contenuto (Cont.); mm la Frequenza (FR); mm i Fenomeni Particolari (F.P.); mm il Movimento (MO); mm le Risposte Impulso (R.I.); mm l’Ordine di Esecuzione o Successione; mm l’Analisi della Successione. Carattere evocativo Il carattere evocativo costituisce la capacità del soggetto di entrare in relazione con il test e quindi con l’ambiente, evidenzia funzioni percettive e processi associativi integri. Se il soggetto coglie il carattere che vuole suscitare il segno stimolo viene dato il punteggio 1, in parte 0,5, per niente 0. Qualità affettiva Viene espressa da contenuti piacevoli, neutri o spiacevoli nei riquadri. In linea di massima, la Qualità Affettiva può essere: mm Positiva (valore = 1) riguarda i contenuti umani (H), animali (AJ, naturali (NAT), botanici (BOT), i contenuti cibo (CIB); mm Neutra (valore = 0,5) i contenuti oggetto (OBJ), segni e numeri (SIC), minerali (MIN), architettonici (ARC); mm Negativa (valore = 0) i contenuti anatomici (ANA), armi (OBJ/ AM), di esplosioni (ESP), patologici (PAT); sta a indicare la quantità e il tipo di affettività che caratterizza la vita emotiva del soggetto. 152 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg Qualità Formale Indica la comprensibilità del contenuto del disegno all’occhio dell’osservatore. mm 1 quando il significato è evidente e non necessita di spiegazioni; mm 0,5 quando il significato del disegno non risulta immediatamente percepito e si presta a più possibilità di lettura e per diventare comprensibile necessita di qualche spiegazione del soggetto; mm 0 quando il disegno è incomprensibile e arbitrario e nemmeno la verbalizzazione ne permette l’identificazione. Fornisce informazioni sulla qualità dei processi intellettivi, attitudine del soggetto di fare un esame di realtà adeguato e capacità di giudizio e autocontrollo Fenomeni Particolari Tra vari fenomeni particolare qui vengono riportati: mm Bordo oltrepassato (BO), cioè quando il soggetto con il tratto esce fuori dal riquadro, che va a rilevare la quantità dell’indice di impulsività (I.I.); mm Cancellazioni o annerimento del riquadro (CS) (cancellature, annerimenti o ispessimento del tratto) che va a rilevare la quantità dell’indice di ansia (I.A.). Dalla somma dell’I.I. con l’I.A. si ottiene la quantità dell’indice di tensione interiore (ITI). Il movimento Disegni dove sono rappresentate persone, animali, oggetti in movimento (tranne per le cose evidenti il movimento deve essere specificato dal soggetto). Sono indice di produttività di pensiero, della ricchezza della risonanza intima. Movimenti di oggetti inanimati, missili esplosioni, fontane che spruzzano, macchine che corrono, sono la testimonianza di tensioni interiori. L’Ordine di Esecuzione o Successione. L’Analisi della Successione La preferenza di un segno da parte del soggetto denota l’importanza per il soggetto dell’esperienza suggerita dal segno. L’anticipazione o scelta di un segno indica una più pronta adesione alle dinamiche evocate dal segno mentre la posticipazione o rinvio del disegno indica resistenza alle esperienze psichiche stimolate dal segno (Torazza, 1993). Se il riquadro viene realizzato nella prima metà viene siglato come scelta (S) se nella seconda metà come rinvio (R). Scelte e rinvii vanno integrati con la valutazione del carattere evocativo del riquadro. In genere le scelte indicano le aree di maggior sviluppo e integrazione della personalità. Mentre i rinvii sono aree non consapevoli e conflittuali della personalità. Alcune ricerche con l’utilizzo del WARTEGG Roivainen e Ruuska (2005) hanno verificato che persone alessitimiche che hanno difficoltà a identificare ed esprimere i sentimenti e non hanno fantasia, sono anche mancanti al test di Wartegg di figure umane. Ad esempio, tendono a disegnare un semplice cerchio completando il semicerchio del quadrato 8, poiché richiede meno immaginazione rispetto a disegnare un viso tondo sorridente, e l’emotività coinvolta è minore. 153 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg Nella loro ricerca essi concludono che l’assenza di disegni umani nel Wartegg non dovrebbe, di per sé, essere considerata un criterio sufficiente per diagnosticare l’alessitimia, tuttavia può essere un buon indicatore. In una ricerca COSPES del 1996 si sono sperimentate le capacità diagnostiche del WZT su un campione di adolescenti italiani (Fontana, 2012). Si è verificato che il diagnostico WZT sa cogliere la struttura di personalità e l’andamento della crescita facendo emergere le notevoli differenze dello sviluppo al maschile e al femminile. Ad es. i maschi in età evolutiva, appartenenti a tutte le fasce di età, fanno più fatica delle coetanee a controllare il mondo emotivo istintivo. Dal confronto dello stimolo del riquadro 1 si profila una differenza significativa a favore del femminile: le adolescenti presentano una migliore autopercezione e organizzazione di sé rispetto ai coetanei. Mentre dal confronto dello stimolo del riquadro 4 emerge che le ragazze nella prima fase di crescita sappiano meglio gestire gli stati ansiosi profondi mentre nelle fasi successive anche in loro si alza il livello di ansietà. Dallo stimolo del riquadro 2 emerge che le ragazze, partendo da una posizione di maggiore insicurezza, sentono di più il coinvolgimento verso l’esterno fino a diventare più diffidenti in tarda adolescenza, mentre i ragazzi mostrano inizialmente più sicurezza, probabilmente contando sulla propria fisicità, fino a passare a una fase più bisognosa dell’ambiente familiare, al quale chiede supporto per esplorare l’ambiente esterno; solo in seguito riprendono l’autonomia nel relazionarsi con l’altro non familiare. Sullo stimolo del riquadro 7 emerge la differenza maggiore. Le ragazze sembrano chiaramente più competenti nel mettersi in risonanza con i contenuti affettivi altrui. Si mettono nella relazione con gli altri in modo più diretto, più chiaro e sentito. I ragazzi rimangono invece più tempo ancorati ad una dimensione emotiva infantile senza saper cogliere la ricchezza dei propri sentimenti. Dal confronto dello stimolo del riquadro 8 maschi e femmine sembrano inizialmente percorre lo stesso cammino di crescita, entrambi aspirano con volitività a diventare se stessi e a realizzarsi; tuttavia successivamente si ricostituiscono le differenze e i ragazzi sembrano essere più timorosi di fronte alle prime difficoltà. Solo dal confronto dello stimolo del riquadro 3 sembrano emergere delle differenze a favore dei ragazzi che risultano più energici e capaci di orientare le loro attività verso mete personali; le ragazze recuperano questo gap verso i diciannove anni. Sugli altri due stimoli dei riquadri 6 e 5, che si riferiscono al controllo razionale e all’attività in favore di sé, le ragazze mostrano dei risultati migliori. Anche dall’analisi in blocchi A (3,5,6) e B (2,7,8) delle situazioni stimolo dei riquadri, emerge una differenza significativa nelle risposte tra adolescenti femmine e adolescenti maschi (Fontana, 2012). In un’altra ricerca italiana (Bianchi di Castelbianco, Crisi, Di Renzo, 1996) si è cercato di valutare quanto il test di Wartegg potesse essere utilizzato in ambito clinico e quanto fosse possibile trovare un riscontro oggettivo ai modelli di personalità. Si è riscontrato un facile utilizzo del Wartegg anche con i bambini ipoacusici, minima è stata la percentuale di rifiuto al test. L’interesse della ricerca si è indirizzato verso il tentativo di elaborare una forma di valutazione più oggettiva su ciò che i riquadri del Wartegg evocano nel soggetto al fine di 154 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg individuare differenze di personalità. E ciò è stato evidenziato statisticamente dall’elevato numero di differenze altamente significative tra gruppo normativo e gruppi clinici (Bianchi di Castelbianco, Crisi, Di Renzo, 1996). Conclusioni La valutazione è il processo attraverso cui raccogliere informazioni e trarre conclusione sui tratti, le abilità, le competenze, il funzionamento emozionale ed i problemi psicologici dell’individuo (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). L’individuo, nell’ottica di una psicologia umanistica integrata, è un sistema olistico e come tale va valutato in sede di Assessment. Il modo in cui si manifesta come persona è importante quanto il contenuto che esprime e la sua personalità va compresa inquadrandola nel contesto di una relazione (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Per questo motivo si ritiene che in una psicodiagnosi integrata, l’utilizzo esclusivo di test della personalità cosiddetti “obiettivi” sia insufficiente oltrechè depersonalizzante e operativamente povero per la pratica clinica. Di qui si ritiene necessario affiancare strumenti qualitativi a quelli quantitativi e reintrodurre la soggettività nell’oggettività di una valutazione. Da questo punto di vista il test di Wartegg, strumento troppo spesso rimasto nel cassetto dello psicodiagnosta, sembra coniugare quegli aspetti qualitativi e quantitativi come nei metodi di siglatura di Fontana (2012) e Crisi (1998). Si ritiene soprattutto importante, come riportato nella meta-analisi di Soilevuo Grønnerød e Grønnerød (2011) che si riprenda la ricerca sul Wartegg e gli studi non rimangano filoni isolati, affinché la validità dello strumento come discriminante di personalità venga sempre più accertata. Importante sottolineare la componente olistica presente nel test di Wartegg quale “strumento relazionale” più degli altri test standard. Mentre il soggetto si approccia al WZT, determinante diventa la presenza dello psicodiagnosta che ne osserva gli atteggiamenti, i quali assumano rilevanza nella valutazione. La realizzazione del disegno di ciascun riquadro diventa il fenomeno che, nel qui ed ora, il soggetto sottopone agli occhi dell’osservatore. Così come sarà rilevante, oltreché emotivamente intensa, la relazione nella restituzione dei risultati al soggetto e avrà già una valenza terapeutica di “nutrimento” per il soggetto. Si può concludere ritenendo necessaria la presenza del test del Wartegg in una batteria di test per la valutazione della personalità ai fini della progettazione di un piano di trattamento individualizzato. Per chi volesse avere ulteriori approfondimenti bibliografici sul Test di Wartegg si rimanda ai siti internet di Soilevuo Grønnerød J., Grønnerød C. http://wartegg.info Crisi A. http://www.wartegg.com/it/bibliografia-wartegg/11/ oltre all’ultima pubblicazione di Fontana U. riportata in bibliografia. Bibliografia Bianchi F., Crisi A., Di Renzo M. (1996), Il test di Wartegg nell’età evolutiva. Un contributo psicodiagnostica allo studio clinico delle balbuzie, della sordità, e dei disturbi di apprendimento, Edizioni Magi, Roma. Crisi A. (1998), Manuale del test di Wartegg, Edizioni scientifiche Magi, Roma. Crisi A. (2008, March). A new instrument for selection and career guidance within the armed forces: The Wartegg Test. Paper presented at the Society for Personality Assessment Annual Meeting, New Orleans, Louisiana. 155 Introduzione al test proiettivo: il test di wartegg Fontana U. (2012), Il Wartegg-Zeichen Test originale, libreriauniversitaria.it edizioni, Roma. Giusti E., Montanari C., Iannazzo A. (2006), Psicodiagnosi Integrata, Sovera, Roma. Heiska J. (2005), Projektiiviset testit—kylla vai ei [Projective methods—yes or no]. Psykologi, 23. Kosonen P. (1999), Tieteen papit ja kaytannön työvalineet, eli miksi Wartegg toimii? [The high priests of science and the tools of practice:Why does the Wartegg work?]. Psykologi, 30 –31. Mc Cully R. (1988), Jung e Rorschach, Mimesis, Milano. Pinkus L. (2012), Introduzione. Una introduzione….non formale…anzi quasi un “capitolo”!, in U. Fontana, Il Wartegg-Zeichen Test originale, libreriauniversitaria.it edizioni, Roma. Rapaport D. (1977), Il modello concettuale della psicoanalisi, Feltrinelli, Roma. Roivainen E., Ruuska P. (2005), The Use of Projective Drawings to Assess Alexithymia: The Validity of the Wartegg Test, European Journal of Psychological Assessment, 3, 21, 199201, Germany: Hogrefe & Huber Publishers. Scalpellini C. (1962), Diagnosi della personalità con il reattivo di realizzazione grafica. Dal reattivo di disegno di E. Wartegg, Contributi dell’Istituto di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, XX, 1-82, Milano. Soilevuo Grønnerød J., Grønnerød C. (2011 November), The Wartegg Zeichen Test: A Literature Overview and a Meta-Analysis of Reliability and Validity, Psychological Assessment: A Journal of Consulting and Clinical Psychology, US: American Psychological Association. Tamminen S., Lindeman M. (2000). Wartegg—luotettava persoonallisuustesti vai maagista ajattelua? [The Wartegg—A valid personality test of magical thinking?]. Psykologia, 35, 325–331. Torazza B. (1993), Contributi allo studio del Wartegg-Zeichentest, Borla, Roma. Wartegg E. (1972), Il reattivo di disegno, O.S., Firenze. Wass T., Mattlar C.-E. (2000), Warteggs teckningstest: Manual [TheWartegg Drawing Test: A manual]. Stockholm, Sweden: Psykologiförlaget AB. 156 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze relazionali: Un’indagine con gli adulti in terapia 13 di Veronica Rosa e Paola Prosperi Veronica Rosa, Psicologa clinica e di Comunità. Psicoterapeuta individuale e di gruppo. PhD con dottorato conseguito presso l’Università La Sapiena di Roma. Professore a contratto per l’insegnamento di psicologia clinica presso la facoltà di medicina e psicologia de La Sapienza. Direttrice didattica del Master di Counselling aziendale, socia della Coop. Soc. di Solidarietà Aspic e docente presso la Scuola di Specializzazione in psicoterapia Aspic. Svolge attività clinica privata e attività di consulenza, formazione, progettazione e supervisione. È co-autrice, con Edoardo Giusti, di un volume sulla psicoterapia della Gestalt. Paola Prosperi, Psicologa clinica e di Comunità. Psicoterapeuta specializzata nel modello pluralistico integrato. Ha collaborato con la cattedra di Psicologia di Comunità de La Sapienza. Svolge attività clinica privata, anche con EMDR. Si occupa di formazione aziendale e scolastica. Conduce corsi di Training autogeno, autostima, assertività, prevenzione dello stress e gruppi espressivi con bambini e adolescenti con DSA e ADHD. È docente presso la scuola di Specializzazione in psicoterapia dell’Aspic di Roma. Esperta in floriterapia e autrice di numerosi articoli. Abstract Il lavoro presentato in questo articolo illustra l’applicazione del Test 9AP per la valutazione multidimensionale delle relazioni interpersonali in pazienti adulti in terapia. Scopo dello studio è stata la creazione di un profilo di attaccamento attraverso l’analisi delle dimensioni, delle situazioni e dei fattori analizzati dal Test come indicatori dello stile di attaccamento. Il Test è stato somministrato a più pazienti sia in terapia individuale che in terapia di gruppo. Per questo lavoro sono stati selezionati un uomo e una donna, coetanei e con un lavoro molto simile, per l’interesse emerso dal loro profilo e dalle loro storie di vita. I risultati hanno evidenziato una forte coerenza con quanto già emerso diagnosticamente nella relazione terapeutica ed hanno consentito di progettare approfondimenti e orientamenti terapeutici ulteriori rispetto a quelli già programmati. Utilizzi diversificati del test e ulteriori linee d’indagine sono discusse. 157 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... Keywords: stili di attaccamento, relazione sé-altro, diagnosi, alleanza terapeutica, adulti in terapia, disturbi di personalità Tra i più recenti test relativi all’attaccamento, il Test 9AP può essere considerato uno strumento altamente innovativo che si pone come punto di incontro tra i test proiettivi e i questionari sullo stile di attaccamento. Secondo la Candilera (2007), autrice del Test, esiste una relazione tra lo stile di attaccamento dell’adulto e la qualità dei suoi rapporti interpersonali, che si evidenzia attraverso le diverse rappresentazioni mentali del Sé e dell’Altro delle persone (Modelli Operativi Interni). Dallo studio di queste rappresentazioni è possibile risalire alle modalità di attaccamento instaurate con le figure importanti di riferimento nel periodo dell’infanzia. Lo stile di attaccamento può essere identificato quindi secondo la rappresentazione che si ha di sé stessi e dell’altro. Se fino agli anni 70 l’Altro era un implicito all’interno di un processo intrapsichico, con Bowlby (1969, 1988) e la sua alla teoria dell’attaccamento, viene data maggiore importanza alla qualità dei processi interpersonali nelle esperienze dei primi anni con le figure di riferimento primarie. L’altro diventa esplicito e si comincia a postulare l’esistenza di Modelli Operativi Interni (MOI). I MOI, costituiscono quell’“insieme delle rappresentazioni mentali di sé stessi e degli altri” (Candilera, 2007, pag. 21), che crea strutture e processi cognitivi fondati su esperienze concrete (Liotti, 1994) e agli effetti di maggiore o minore sicurezza nell’attaccamento derivante dalle transazioni ripetute con i caregiver primari (Levy, Ellison, Scott e Bernecker, 2012). Tali “schemi” si formano a seguito delle relazioni che il bambino instaura con le figure di attaccamento primarie nei primi anni di vita e orientano e condizionano i successivi rapporti interpersonali adulti, consentendo agli individui di attribuire significati alle proprie esperienze attraverso la creazione d’immagini ed emozioni relative all’interazione con gli altri. Una rappresentazione positiva del sé e degli altri probabilmente si strutturerà se la figura genitoriale nel passato è stata interiorizzata come presente, amorevole e in grado di dare sostegno (Candilera, 2007). Viceversa, se la relazione di attaccamento è stata caratterizzata da rifiuti, abbandoni e distacco, il bambino si abituerà a contare solo su se stesso, la figura genitoriale sarà interiorizzata in modo “negativo”, dando vita ad attaccamento insicuro, che a seconda dei casi potrà essere ambivalente, evitante o disorganizzato (Lorenzini e Sassaroli, 1995). Young (1999) ha fondato il concetto di schema, che è alla base del suo modello di psicoterapia (Schema Focus Therapy), sui presupposti teorici dei Modelli Operativi Interni. Secondo l’autore lo Schema è una struttura conoscitiva organizzata, che si sviluppa durante l’infanzia e si manifesta in comportamenti, sentimenti e pensieri in cui viene espressa l’immagine di sé e dell’altro. Per Young si sviluppano schemi funzionali sani quando i bisogni basilari del bambino vengono soddisfatti. Ciò permette lo sviluppo di immagini positive degli altri, di sé stessi e del mondo. Se invece i bisogni non vengono adeguatamente soddisfatti si possono creare schemi disfunzionali, che portano a strategie altrettanto disfunzionali di coping, fino ad arrivare all’insorgenza di disturbi e problemi gravi (Arntz e van Genderen, 2011). Sulla base della teoria dell’attaccamento di Bowlby, molti studiosi hanno indagato diversi ambiti di sviluppo, influenza e relazione degli stili di attaccamento, osservando il funzionamento di variabili di predizione e di esito ad essi correlate. Gli studi svolti hanno portato a diverse definizioni dell’attaccamento e a suddivisioni delle sue dimensioni fondamentali 158 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... di attaccamento sicuro e insicuro (per un’interessante sintesi vedi Levy et. al., in Norcross, 2011, 2012). Per il nostro interesse di studio, molto importanti sono le indagini fatte da Hazan e Shaver (1990) sulla relazione tra l’attaccamento infantile e l’attaccamento in età adulta, che si manifesta soprattutto nelle relazioni amorose intime e profonde. Gli studiosi, prendendo a riferimento le definizioni di attaccamento sicuro, evitante e ansioso-resistente di Ainsworth e colleghi (1978), hanno desunto diverse dimensioni per l’attaccamento adulto, relative soprattutto al desiderio di vicinanza, ansia e dipendenza rispetto all’abbandono (Collins e Read, 1990; Simpson, 1990). Successivamente, partendo dagli studi di Hazan e Shaver (1990), Bartholomew e Horowitz (1991) hanno svolto un interessante ed utile lavoro di ridefinizione delle categorie, che da tre hanno portato a quattro, suddividendo lo stile evitante in timoroso e distanziante (vedi Tabella 1). Il lavoro di Bartholomew e Horowitz è stato importante soprattutto perché ha messo in risalto le due dimensioni relative ad un modello del sé che può essere positivo o negativo e ad un modello dell’altro che può essere altrettanto positivo o negativo. Tab. 1 Identificazione dell’Attaccamento di Bartholomew e Horowitz (1991, in Candilera, 2007, pag. 56). Attaccamento Sé positivo Altro positivo Sé negativo Altro negativo Sé positivo Altro negativo Sé negativo Altro positivo Sicuro (Riuscito) Disorganizzato (Evitante Timoroso-Impaurito) Evitante (Distaccato-Svalutante) Ambivalente (Ansioso-Preoccupato-Invischiato) Il Test 9AP fa senz’altro riferimento a questi studi. I risultati che produce, e che appunto attengono alla percezione generale della positività di sé e dell’altro, permettono di identificare nell’adulto lo stile di attaccamento, una struttura molto più articolata e complessa rispetto a quella infantile, poiché “nell’adulto entrano in gioco scopi nuovi che determinano il comportamento all’interno delle relazioni affettive, sociali e terapeutiche” (Candilera, 2007, p. 22). Nel 9AP, in base ai punteggi ottenuti, possono essere considerati 5 livelli qualitativi (basso, medio-basso, medio, medio-alto e alto) dell’attaccamento (Tab. 2), che consentono di definire 8 possibili classificazioni, per una metà relative agli stili derivanti dai MOI e per un’altra metà riferibile a stili non “puri”, nei quali sono presenti almeno due stili. 159 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... Tab. 2 Identificazione dell’Attaccamento sulla base della struttura fattoriale del 9AP (da Candilera, 2007, pag. 58). Sé Totale Altro Totale Basso Medio-basso Medio Medio-alto Alto Alto Ambivalente S-Ambivalente Sicuro Sicuro S-Mascherato Medio-alto Ambivalente S-Ambivalente Sicuro Sicuro Sicuro Ambivalente S-Ambivalente Sicuro Sicuro Sicuro Medio-basso Medio Disorganizzato S-Disorganizzato S- Evitante S- Evitante Evitante Basso Disorganizzato Disorganizzato Evitante Evitante Evitante Dai punteggi del Test, sia nel caso di punteggi fortemente negativi, che nel caso di punteggi fortemente positivi, è possibile quindi determinare se ci sono problemi relativi all’interazione con gli altri e/o nuclei irrisolti. Il 9AP rientra nella categoria dei Test Proiettivi (è un Test Semiproiettivo) e per questo, a differenza dei questionari esistenti sull’attaccamento, porta ad un livello di lettura più profonda un tema importante come quello sul Topic in questione nell’ambito della psicoterapia e della relazione terapeutica. I Test Proiettivi, infatti, permettono di rilevare anche dinamiche poco consapevoli o inconsce ed inoltre rendono difficili i tentativi di manipolare le risposte per nascondere, minimizzare o esagerare i risultati del test stesso. Obiettivo generale del test è identificare il Modello Operativo Interno o Internal Working Model (IWM) e identificare un profilo delle variabili di personalità nell’attaccamento, facendo in modo che si manifestino le dinamiche inconsce. A differenza di altri proiettivi, in cui la siglatura a carico dell’operatore ha una variabile d’errore che può modificare sensibilmente la validità del test, il 9AP, include una modalità di siglatura che rende più oggettivi i dati finali: al soggetto viene richiesto di esprimere direttamente, attraverso un punteggio, la sua risposta allo stimolo proiettivo, quantificandola quindi sin dall’inizio. Questo fa sì che si evidenzi una misura più ”esatta” e “numericamente fedele” dei comportamenti che vengono studiati. Il Test è composto di 7 tavole in bianco e nero molto stilizzate; al soggetto si chiede di identificarsi con un personaggio completamente scuro, la “figura nera”, che c’è in tutte le tavole. Volontariamente gli autori hanno evitato di aggiungere ulteriori stimoli (espressioni facciali, abiti, elementi decorativi, ecc.) che potrebbero influenzare la risposta e dare indicazioni sulle condizioni sociali, sul contesto ambientale, ecc. Inoltre nel 9AP, la posizione delle figure, il luogo rappresentato e la composizione delle tavole, sono fortemente ambigui, così da permettere al soggetto di proiettarvi i suoi vissuti, a differenza del TAT, ad esempio, dove invece sono state descritte ambientazioni particolari e i personaggi sono inseriti in paesaggi naturali o in interni di appartamenti e sono chiaramente identificabili per sesso, età e stile di vita. Nel compilare il Test 9AP, al soggetto quindi viene richiesto di identificarsi prima con la figura nera rappresentata in ogni tavola e poi di immaginare come si può sentire la figura bianca nell’interazione con la nera e scegliere, tra i nove item al di sotto di ogni tavola, i termini che descrivono meglio le sue rappresentazioni. Ogni Tavola ha un nome e un significato particolare, indicativo del tema-stimolo e che riguarda le situazioni psicologiche relative al sé e all’altro (Difficoltà Madre (figura femminile); Confronto Altro; Difficoltà Altro; Diffi160 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... coltà Padre (figura maschile); Cooperazione Amicizia; Esposizione; Intimità. Attraverso le tavole sono stimolati ricordi, esperienze e/o fantasie. Inoltre attraverso le tavole emergono meccanismi di difesa, nuclei irrisolti, strategie interpretative e aspettative rispetto alla rappresentazione delle figure significative. Secondo la Candilera (2007), attraverso le Tavole si avranno informazioni sia sugli aspetti qualitativi che su quelli quantitativi della dimensione psicologica indagata, ovvero sia sulla tendenza ad avere un certo comportamento che sull’intensità della presenza di questo. Il soggetto sceglie quindi quale dei termini rappresenta meglio quello che sente corrispondergli, facendo così una scelta quantitativa. Per ogni item sono stati inseriti anche termini non ovviamente contrapposti, così da mettere il soggetto di fronte ad “un’inattesa opposizione (uno spostamento semantico) che lo costringa, tramite un effetto di straniamento, a una maggiore riflessione e quindi ad una formulazione di una risposta meno casuale o automatica circa la sua posizione attuale su un versante piuttosto che sull’altro” (Candilera, 2007, p. 32). Il Test prevede anche due schede finali in cui viene richiesto di descrivere, per ogni tavola, cosa sta succedendo nell’evento rappresentato e come esso andrà a finire. Quanto emerge potrà poi essere utilizzato per eventuali elaborazioni e approfondimenti durante i colloqui. Ulteriore elemento d’interesse del Test, che lo distingue da altri test proiettivi, risiede nella possibilità di essere somministrato anche in gruppo, poiché il fatto che le risposte sono “oggettivate” dalla codifica numerica data dal soggetto stesso, non crea problemi di valutazione a posteriori da parte del terapeuta. Com’è intuibile già da quanto descritto, il 9AP offre informazioni precise e molto utili a livello terapeutico sulle varie dimensioni psicologiche relative al sé e all’altro che vengono indagate (Accettazione/Rifiuto; Amichevolezza/Ostilità; Potere/Sottomissione; Sicurezza/Insicurezza; Disponibilità/Indisponibilità; Calma/Agitazione; Soddisfazione/Insoddisfazione; Autonomia/Dipendenza; Assenza di competizione/ Competizione). Dall’analisi dei punteggi si potranno avere informazioni molto importanti sulla percezione che il soggetto ha di Sé e dell’Altro e sulla rappresentazione mentale, complessivamente positiva o negativa, che una persona ha in specifiche situazioni di se stessa e degli altri (che possono essere stati identificati come padre, madre, amico, partner, superiore) (Candilera, 2007). Informazioni ulteriori riguardo a ciò, sono date dal soggetto nelle ultime due schede, che si riallacciano alle situazioni psicologiche già sopra indicate. Il test oltre a determinare, come evidenziato, un profilo psichico che identifica le componenti positive e negative nella rappresentazione di sé e dell’altro, fornisce dati anche sui seguenti 4 fattori relazionali: 1. Apertura/Chiusura Sé (ricerca della vicinanza), ovvero su quanto la persona è socievole, equilibrata, comprensiva, generosa, leale, disponibile con gli altri, si coinvolge, vive positivamente i contatti con le altre persone, o se invece è ostile, sfiduciata nell’interazione con l’altro, intollerante alla vicinanza, litigiosa, distaccata, impassibile e severa. A nostro parere queste informazioni sono molto importanti per la costruzione dell’alleanza terapeutica. 2. Apertura/Chiusura Altro (aspettative su come si verrà trattati): dà informazioni sulla rappresentazione mentale dell’altro rispetto ai rapporti interpersonali, quindi se l’altro è visto come fonte di aiuto, disponibile, amichevole, coinvolto oppure ostile nell’interazione, impassibile, rifiutante, assente, non sincero e falso nella comunicazione, rigido. 3. Forza/Debolezza Sé (percezione della propria forza e autonomia). Questo fattore è 161 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... legato alle dimensioni del potere, della sicurezza, dell’autonomia; dà informazioni su quanto la persona si rappresenta capace di autogestirsi adeguatamente nelle relazioni sociali ed interpersonali, sentendosi intraprendente, determinata, stabile e autosufficiente o al contrario dipendente dagli altri, fragile, impotente nelle relazioni, instabile e incoerente, quindi debole. 4. Forza/Debolezza Altro: da cui emerge la percezione della forza e dell’autonomia dell’Altro (Candilera, 2007). Il Test fornisce, inoltre, la Percezione di Sé Totale del soggetto, attraverso dati che riguardano l’immagine di sé sia nelle relazioni con gli altri, sia rispetto alla propria efficacia e forza relazionale, sia sul piano emotivo. Il punteggio permette quindi di capire chiaramente se la persona ha difficoltà rispetto alle interazioni con gli altri (Candilera, 2007) e se la persona ha un’immagine dell’altro positiva rispetto all’apertura, alla forza, nonché alle capacità relazionali ed emotive (Candilera, 2007). All’interno di questo quadro teorico e metodologico, scopo principale del nostro lavoro è stato quello di sperimentare l’utilizzo del 9AP con alcuni clienti adulti in terapia, per cominciare a “collaudarne”, in modo senz’altro preliminare i seguenti aspetti: mm l’efficacia intesa dal punto di vista anamnestico e diagnostico, rispetto alle configurazioni di attaccamento degli adulti, ai modelli operativi interni e ai collegati stili di relazione interpersonali, strutturati e messi in atto dagli adulti nell’arco della loro esistenza; mm l’efficacia nel prevedere e definire linee di intervento terapeutico in relazione agli aspetti esplorati attraverso il Test; mm l’utilità della conoscenza dello stile di attaccamento del paziente per l’alleanza terapeutica. Come già accennato, uno degli elementi che maggiormente rendono interessante questo Test, sta nella sua capacità di “misurare” gli aspetti di fondamentale importanza nelle complesse ed articolate dinamiche che si delineano nelle relazioni interpersonali quotidiane degli individui (Candilera, 2007) e di raccogliere informazioni necessarie al processo terapeutico sui diversi aspetti di un modello di relazione sé/altro attraverso la lettura della rappresentazione che l’individuo ha del sé e dell’altro. Soprattutto, come già detto, il 9AP aiuta a leggere la realtà relazionale dell’individuo non limitandola ai modelli infantili di attaccamento, quanto piuttosto considerando che via via nella vita degli adulti entrano in gioco nuovi scopi che influenzano necessariamente le relazioni affettive, sociali e terapeutiche di tutti gli individui che vi sono coinvolti. Metodo. Soggetti e Procedure Per realizzare questo lavoro preliminare abbiamo somministrato il test a più di 20 pazienti. Volendo riportare qui una descrizione piuttosto articolata, seppur sintetica, del profilo emerso dal calcolo dei punteggi riportati dai pazienti e della lettura che ne abbiamo dato, nonché l’ipotesi di una modalità procedurale terapeutica da realizzare con il paziente, per ovvie ragioni di spazio, abbiamo scelto 2 profili (uno per ognuna di noi) da descrivere e discutere in questa sede. In ogni caso a tutti i pazienti coinvolti è stato restituito il profilo elaborato e si sta procedendo, all’interno della relazione e del processo terapeutico, nell’utilizzo di quanto emerso. I due profili descritti in questo lavoro riguardano un uomo e una 162 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... donna che chiameremo, per il rispetto della privacy, Francesco e Stefania, rispettivamente di 40 e 41 anni. Di seguito sono state descritte sinteticamente le caratteristiche demograficosociali dei pazienti scelti, alcune dimensioni del processo e della relazione terapeutica e le motivazioni che hanno portato alla scelta di questi specifici pazienti. Naturalmente lo spazio più ampio è stato dato alla descrizione del profilo e alla definizione di una prospettiva di intervento terapeutico. Francesco ha quarant’anni, ha un titolo di studio di scuola secondaria ed è impiegato in un’agenzia assicurativa, è sposato, ha una bimba di 4 anni e uno in arrivo. Ha iniziato il suo percorso terapeutico da circa 7 mesi e lo sta seguendo con una certa regolarità. La domanda terapeutica che Francesco ha portato nel primo incontro, riguardava prioritariamente la consapevolezza di non essere in grado di saper gestire le proprie emozioni e nello stesso tempo della necessità di riuscire a farlo per vivere una vita affettiva e relazionale soddisfacente. Francesco ha accettato volentieri, in seduta individuale, di compilare il test e si è mostrato interessato alla conoscenza di quanto sarebbe emerso, chiedendo delucidazioni sulle modalità di compilazione e sull’utilizzo e il significato che il test avrebbe potuto avere per il lavoro terapeutico che sta svolgendo. Durante la compilazione il clima era piuttosto disteso e il paziente ha preso tutto il tempo necessario per completare il suo lavoro in tutte le parti, senza mostrare segni di stanchezza o fastidio. Diversi motivi hanno portato alla scelta dell’analisi di questo paziente, prima tra tutti la fase di vita che sta vivendo: Francesco ha età in cui i compiti di vita chiedono di mettersi fortemente in gioco sia dal punto di vista relazionale che genitoriale. Negli ultimi anni, infatti, il paziente ha avuto cambiamenti importanti, soprattutto nell’assunzione di responsabilità a vari livelli: è un marito, un padre, un professionista in carriera, un amico e si rende conto che tutti questi ruoli implicano per lui la necessità di trovare un modo diverso, consono e soddisfacente, di porsi nelle relazioni e di risolvere problemi. In questo senso, per Francesco, conoscere il proprio stile d’attaccamento e le modalità relazionali prevalenti che mette in atto, può costituire un valido aiuto nella comprensione di come ha gestito nel tempo la sua vita di relazione e il proprio percorso di sviluppo e come questi si stanno ridelineando proprio in funzione degli ultimi cambiamenti avvenuti. Stefania è una donna di 41 anni, laureata, che lavora come impiegata presso un laboratorio chimico di uno studio polispecialistico. Vive da sola in una bella cittadina e solo nei mesi estivi la madre si trasferisce da lei. È l’ultima di tre figlie, i genitori si sono separati quando lei era un’adolescente, ha contatti sporadici con il padre, che vive in un’altra regione e anche con le sorelle si vede poco. Il rapporto con il padre e le sorelle è per lei motivo di sofferenza e spesso argomento della terapia: il primo è severo e distante, la sorella maggiore è una donna brillante, di successo, molto rigida e critica nei suoi confronti, mentre la sorella di mezzo vive all’estero, ha un lavoro interessante, una bellissima casa, una soddisfacente relazione di coppia e una bambina nata da poco. Stefania sente molto la differenza con le sorelle e somatizza i suoi disagi emotivi. Uno dei motivi per cui è arrivata in terapia è la difficoltà di mantenere una relazione stabile di coppia. Attualmente è insoddisfatta della vita che conduce e lamenta il fatto “che gli altri stanno sempre molto meglio rispetto a come mi sento io”. Il 9AP è stato somministrato in gruppo, lei è stata molto disponibile seppur ansiosa rispetto agli esiti. A tutto il gruppo sono state spiegate le finalità e le modalità di compilazione del test e nonostante questo lei ha omesso la risposta ad alcune domande che poi sono state riviste in terapia individuale. È stato scelto il profilo di Stefania, in quanto è una persona con molte potenzialità, ma anche tante resistenze alla “crescita”, per cui è stato molto interessante verificare 163 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... come il Test può dare informazioni utili sia rispetto ai suoi blocchi inconsapevoli che alle sue modalità relazionali. Risultati e Discussione dei risultati di due profili Francesco Primo dato da rilevare è che il test compilato da Francesco è valido poiché il numero totale di risposte di riferimento, ovvero il totale delle risposte 0, 4, e 8 è risultato nella norma. Dall’elaborazione e interpretazione della molteplicità dei dati, emerge un profilo (Fig. 1) di attaccamento non “puro” Sicuro, con delle lievi interazioni con uno stile di attaccamento Sicuro-Ambivalente e un leggerissimo posizionamento con lo stile Sicuro-Disorganizzato. Questo profilo rende evidenza della complessità e dell’articolazione dell’attaccamento e la gran mole di punteggi e calcoli che il Test 9AP ha permesso di realizzare hanno offerto la possibilità di esplorare proprio questa complessità. Da una prima lettura delle risposte aperte date alle ultime due tavole, che aiutano soprattutto ad avere una sintesi del profilo all’interno dei sistemi motivazionali, di cooperazione e di esposizione (Candilera, 2007), emergere un profilo positivo. In effetti, dalle risposte date, nelle quali raramente emerge un ruolo ben definito, entrambe le figure (il sé e l’altro), sembrano propense soprattutto ad offrire aiuto e sono connotate da una forte valenza affettiva (sia sul versante amicale che sentimentale). Francesco per descrivere cosa sta succedendo e come andrà a finire l’evento rappresentato, ha utilizzato sia verbi che potrebbero indicare sistemi motivazionali attivi nella disposizione verso l’altro (tendere, andare verso, ascoltare, ecc.), sia verbi che potrebbero far pensare ad un orientamento alla cooperazione e alla possibilità di esposizione. Fig. 1 Profilo 9AP di Francesco A) Accettazione/Rifiuto; B) Amichevolezza/Ostilità; C) Potere/Sottomissione; D) Sicurezza/ Insicurezza; E) Disponibilità/Indisponibilità; F) Calma/Agitazione; G) Soddisfazione/Insoddisfazione; H) Autonomia/Dipendenza; I) Assenza di Competizione/Competizione. 164 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... Questo e il posizionamento del cliente sulla polarità delle risposte positive, soprattutto per quanto riguarda l’altro, inducono una riflessione sulla maggiore attenzione di Francesco verso l’esterno piuttosto che verso l’interno. In effetti, entrando nel dettaglio, nella maggior parte delle tavole è evidente una posizione più tendente al negativo rispetto al sé, anche se sempre piuttosto positiva. Questo emerge in tutte le dimensioni, tranne che nell’Amichevolezza/Ostilità e nella Soddisfazione/Insoddisfazione per la vita di relazione, che riportano punteggi più positivi. Da una lettura dei punteggi di Francesco alle sottodimensioni è evidente che egli si percepisce soprattutto sincero, abbastanza chiaro, leale, schietto, autentico, soddisfatto e compiaciuto, mediamente appagato, felice, raggiante e divertito. Nell’Altro, queste sottodimensioni hanno punteggi simili se non più tendenti al negativo. In generale, lo stile di attaccamento S-Disorganizzato (S-Disorganizzato) è messo in luce soprattutto dai punteggi delle tavole di Soddisfazione/Insoddisfazione (nella quale il punteggio negativo è maggiore per il sé) e nelle tavole Potere/Sottomissione e Disponibilità/Indisponibilità, in cui il punteggio più negativo è per il Sé, diversamente da quello dell’Altro tendente allo stile di attaccamento Sicuro-Ambivalente. Punteggi che tendono allo stile S-Disorganizzato sono riscontrabili per il sé nella scala Assenza di Competizione/Competizione, mentre l’Altro si avvicinano allo stile S-Ambivalente. Francesco si percepisce sufficientemente solidale, indulgente, paziente, moderato, mediamente riflessivo, mite e parco. Su queste sottodimensioni posiziona l’altro in punteggi più positivi o più negativi che per il sé. Nel complesso emerge un profilo di Francesco soprattutto come proteso verso gli altri nel senso del supporto e dell’aiuto, dell’essere socievole, aperto, sincero, collaborativo, ecc., e nello stesso tempo piuttosto rigido ed orientato alle regole e al rispetto dei compiti e dei ruoli, quindi relativamente tollerante e paziente. Affettivamente, invece, mostra una propensione per la comprensione e la benevolenza. Per quanto riguarda l’altro, i punteggi, soprattutto nelle dimensioni della competizione, della sicurezza relazionale, della stabilità e della forza, sembrano assumere un’accezione positiva, e nello stesso tempo ci sono punteggi meno positivi nelle dimensioni più affettive e di socievolezza. Rispetto alla calma, pacatezza, tranquillità, distensione, felicità, contentezza, i punteggi per il sé non sembrano differenziarsi molto con quelli dell’Altro. Quanto emerge dal Test anche a questi primi livelli, sembra essere molto attinente con quanto già evidenziato negli incontri terapeutici. Francesco è sempre stato molto attento agli altri, a come questi lo percepiscono e all’immagine che dà di sé. Dai suoi racconti sono emerse spesso difficoltà relazionali dovute, soprattutto in tarda adolescenza, a problemi di obesità che lo hanno portato a sentirsi poco attraente ed accettato e a fare di tutto per perdere peso e costruire un fisico muscoloso, facendo molto sport e molte diete, fino ad arrivare al limite dell’anoressia. La percezione di non essere accettato e di essere rifiutato, torna anche nei racconti dell’infanzia, quando Francesco provava forti sentimenti di angoscia e solitudine nell’essere lasciato dai nonni “senza neppure la sorella”, che almeno gli avrebbe dato la sensazione di non essere solo e di avere accanto qualcuno della sua famiglia e della sua casa, elemento per lui fortemente rassicurante. Queste riflessioni sembrano essere confermate dall’analisi delle situazioni. Infatti, per quanto attiene alle Difficoltà con la Madre, i punteggi si pongono sullo stile sicuro sia per sé che per l’altro, e ci sono punteggi più elevati per la madre, in positivo verso l’alto (uguali per sé e per l’altro). Nel Confronto con l’Altro e nelle Difficoltà con l’Altro, i punteggi per il sé orienterebbero allo stile S-Disorganizzato (per l’Altro allo stile S-Ambivalente solo relativamente alla situazione Difficoltà con l’Altro). Per il sé e per l’altro, i punteggi sono positivi e tendenti al medio, quindi allo stile 165 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... S-Ambivalente, nella dimensione Difficoltà con il Padre e tornano ad essere piuttosto bassi per la situazione Cooperazione/Amicizia in cui l’altro ha punteggi che orientano allo stile S-Disorganizzato (maggiore ostilità, negatività, sfiducia). Autonomia/Dipendenza e Assenza di Competizione (soprattutto per il sé) evidenziano punteggi molto bassi, tendenti allo stile S-Disorganizzato. Lo stile prevalentemente ambivalente è congruo con quanto Francesco ha raccontato relativamente al rapporto con la madre e con il padre, che ha perso molto presto, all’inizio della sua età adulta. Poco dopo la madre si è ammalata, perdendo l’uso delle gambe e quindi la propria autonomia. Francesco si è preso cura di lei con molta amorevolezza e sacrificio, aiutato dalla sorella che tuttavia non aveva molto tempo essendo sposata e con figli. Rispetto a tutto questo ha sempre manifestato accettazione e impegno, considerando soprattutto sua la responsabilità e giustificando tutti esprimendo raramente i propri bisogni, desideri, sentendosi il maschio di casa e trovando quasi in questo impegno una forma di riscatto e di dimostrazione della sua importanza. La compensazione gli ha tuttavia impedito di “sentire” rabbia e dispiacere, sentimenti che aveva già da tempo, (molto probabilmente al tempo della permanenza dai nonni), imparato a bloccare e “rimuovere”. Entrando nello specifico dei fattori di Apertura/Chiusura per il sé e per l’altro, la performance al Test di Francesco rientra in quella di soggetti che hanno dato una prestazione al reattivo considerata normale dal punto di vista clinico. Il punteggio ottenuto si colloca tra il medio basso e il medio, per quanto riguarda Apertura/Chiusura del sé, e leggermente di più verso il punteggio medio per quanto riguarda l’altro. Quindi Francesco tende a descriversi come abbastanza coinvolto, con vissuti di piacevolezza per il contatto sociale, anche se emergono alcuni elementi di rigidità, tendenza alla chiusura e relativa fiducia nel contatto con l’altro. Tab.4 Livelli Fattori Apertura/Chiusura e Forza/Debolezza Sé e Altro di Francesco Sé Altro 166 Apertura/ Chiusura 49 53 Forza/ Debolezza 49 54 Tab. 5 Livelli Fattore Percezione ù Totale Sé e Altro di Francesco Sé Altro Percezione Totale 48 52 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... Non ci sono differenze sostanziali nella percezione di sé e dell’altro, anche se per quest’ultimo Francesco produce punteggi più positivi sia per l’Apertura che per la Forza (Tab. 3). Quindi l’altro potrebbe essere fonte di aiuto di amicizia e di coinvolgimento, ma anche deludente nell’aspettativa di aiuto, per l’incapacità di essere vicino e di sostegno nel giusto modo e rispondente ai reali bisogni del paziente. Anche nella Prestazione Totale i livelli del sé e dell’altro rientrano nei punteggi dei soggetti che hanno dato una prestazione al test che può considerarsi normale dal punto di vista clinico. Il punteggio totale sia per sé che per l’altro si attesta in un range che va dal medio/basso al medio (Tab. 4). Il sé è in una posizione intermedia tra i due e potrebbe far pensare ad una persona che si descrive come discretamente soddisfatta e appagata dalla vita relazionale, efficace e competente nelle relazioni interpersonali e discretamente rilassato. Nello stesso tempo i punteggi mostrano elementi di chiusura e ostilità verso gli altri e debolezza e fragilità nelle relazioni. Per l’altro il punteggio è più spostato verso la media ed è visto come accettante e predisposto ad aiutare, stabile e calmo, ma anche poco rassicurante, perché chiuso, fragile e fonte di rifiuto. È interessante vedere come, attraverso l’analisi dei punteggi delle dimensioni, delle situazioni e delle differenze tra fattori, emerge uno stesso profilo di Francesco che conferma senz’altro quanto già messo in luce negli incontri terapeutici. Gli elementi di rigidità, rispetto delle regole, il timore di uscire da confini auto-determinati per mantenere un certo stile di vita e di salute, nonché l’orientamento a non fare emergere alcuni bisogni per compiacere e soprattutto non dispiacere gli altri, ma soprattutto il desiderio di essere ben visto e apprezzato, sono ben rappresentati dal profilo che emerge dal Test 9AP. Questo rafforza gli obiettivi terapeutici già “contrattati”, soprattutto in relazione ad un miglioramento della capacità di Francesco di: mm comprensione e tutela dei propri bisogni all’interno delle relazioni familiari, amicali e professionali; mm aumento della propria competenza introspettiva e di riconoscimento ed accettazione delle emozioni; mm allentamento degli aspetti di rigidità e miglioramento degli stati di rilassamento, tranquillità e pacatezza, rispetto alle responsabilità; mm miglioramento della percezione di accettazione da parte di figure di riferimento importanti e di senso di appartenenza. Il raggiungimento di questi obiettivi dovrà passare per un approfondimento delle tematiche riguardanti nuclei profondi (ad esempio il rapporto con le figure parentali) che, come anche indicato dal Test, sono percepite in modo ambivalente e non costituiscono sempre una base stabile di riferimento. Sarà importante che Francesco esplori questi aspetti, come sta già lentamente avvenendo, senza troppi timori di destrutturare le credenze e i convincimenti che finora lo hanno sostenuto. Soprattutto si palesa la necessità di far emergere in terapia emozioni, come la rabbia e l’angoscia della solitudine, da sempre bloccate per timore di essere abbandonato o peggio di “andare in pezzi”. Stefania Il Test compilato da Stefania è valido. Infatti, il numero totale di risposte di riferimento, cioè il totale delle risposte 0, 4, e 8, è nella norma. Come evidente dal grafico della Figura 2, Stefania ha un profilo di attaccamento Ambivalente. Le persone con questo tipo di attaccamento in generale hanno una rappresentazione negativa di sé e positiva dell’altro, 167 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... considerano i rapporti interpersonali molto importanti, ma ne sono anche molto preoccupati, perché vedono gli altri come inaffidabili; contemporaneamente hanno bisogno di conferme continue, per cui agli altri viene data molta più attenzione di quanto ne venga data a sé stessi. Dal loro bisogno dell’altro, che arriva fino alla dipendenza, scaturisce un alto livello di ansia e disagio riguardo ai rapporti intimi, per la paura di essere rifiutati e per l’insicurezza e percezione di fragilità. Stefania rientra appieno in questo modello. La descrizione che fa di sé, infatti, tende prevalentemente al negativo, definendosi chiusa, sfiduciata è in relazione con l’altro perché pensa di non potersi fidare. Quando entra in una relazione d’intimità, è convinta che verrà tradita; percepisce infatti l’altro come poco affidabile, impassibile ed assente, rifiutante, poco sincero nella relazione, severo, rigido e poco disponibile nei suoi confronti. Allo stesso tempo l’altro significativo è visto come più forte e sicuro di sé, maturo, responsabile e deciso, a differenza di come invece percepisce sé stessa: la valutazione della Fig. 2 Profilo 9AP di Stefania A) Accettazione/Rifiuto; B) Amichevolezza/Ostilità; C) Potere/Sottomissione; D) Sicurezza/ Insicurezza; E) Disponibilità/Indisponibilità; F) Calma/Agitazione; G) Soddisfazione/Insoddisfazione; H) Autonomia/Dipendenza; I) Assenza di Competizione/Competizione. propria forza è infatti compromessa da tratti quali la dipendenza dagli altri, la fragilità, il senso di impotenza nelle relazioni, l’instabilità e l’incoerenza nei vari ambiti della propria vita (vedi Tab. 6). Rispetto alla percezione generale di Sé e dell’Altro, illustrata nell’istogramma, il punteggio di Stefania è basso e questo indica una “compromissione” in quasi tutte le dimensioni. Qui vengono messi in luce la sua difficoltà sul piano relazionale, la paura, il rifiuto e, nello stesso tempo il bisogno nei confronti dell’altro, la debolezza e la fragilità, accompagnate da un elevato stato di agitazione e preoccupazione con note di frustrazione e avvilimento. La percezione che la paziente ha dell’altro è quindi negativa e testimonia la presenza di aspettative tradite. Infatti, come già visto nelle precedenti descrizioni e come confermato 168 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... dalle esperienze di vita che Stefania ha avuto, nell’interazione con le figure primarie di attaccamento (soprattutto con il padre e le sorelle), si è sentita rifiutata. Il padre e le sorelle sono sentiti come ostili e chiusi nei suoi confronti e nello stesso tempo vulnerabili, per cui non possono essere fonte di una base sicura nei momenti in cui la paziente ha bisogno di aiuto (come si può anche notare dalle tavole III e V). Tab. 6 Fattori Apertura/Chiusura e Forza/Debolezza Sé Altro Apertura / Chiusura 24 42 Forza / Debolezza 46 59 Tab. 7 Fattore Percezione Totale Sé e Altro Sé Altro Percezione 35 47 Il Test permette anche di valutare se c’è conflitto tra la percezione di sé e dell’altro, rispetto ad alcuni fattori (Candilera, 2007): per l’Apertura/Chiusura, Stefania non ha avuto un risultato significativo, in ogni caso il suo punteggio indica una percezione dell’altro nelle situazioni di vita come coinvolto, interessato e aperto e descrive invece se stessa come sfiduciata, assente, poco sincera e ostinata nella relazioni sociali. Al contrario, c’è un conflitto significativo in generale e rispetto all’Efficacia che dimostra come l’altro viene visto autorevole, dominante e dipendente, mentre il proprio sé risulta indebolito, remissivo ed insicuro. Rispetto alla visione di sé e dell’altro nelle 9 dimensioni (Accettazione, Amichevolezza, Potere, Sicurezza, Disponibilità, Calma, Soddisfazione, Autonomia, Assenza di competizione) c’è uno scarto importante tra la percezione negativa che ha di sé in tutte le dimensioni psicologiche e la percezione dell’altro che è molto più positiva. In quest’analisi e interpretazione, è importante soffermarsi anche sulle 9 dimensioni specifiche. Un aspetto interessante del Test è che per tutte le dimensioni si possono fare riflessioni ulteriori in base ai punteggi realizzati. Ad esempio Stefania ha punteggi molto bassi nelle dimensioni dell’Accettazione/Rifiuto, Amichevolezza/Ostilità e Disponibilità/Indispo- 169 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... nibilità, e questo indica nuclei irrisolti e una probabile patologia, mentre nella dimensione della Sicurezza/Insicurezza non raggiunge punti critici, ma c’è una tendenza al negativo con la presenza di elementi di disagio. Nelle dimensioni Calma/Agitazione, Autonomia/ Indipendenza, Assenza di Competizione/Competizione, anche se emergono dei punti deboli, vengono messi in evidenza un buon numero di aspetti positivi su cui si può lavorare in terapia per rinforzare le parti sane. Nelle dimensioni del Potere/Sottomissione e Soddisfazione/ Insoddisfazione, i punteggi di Stefania possono considerarsi normali da un punto di vista clinico, nel senso che è presente un equilibrio tra i due poli, ovvero non ci sono né negatività né positività estreme. Rispetto all’altro solo le dimensioni Accettazione/Rifiuto, Amichevolezza/Ostilità e Disponibilità/Indisponibilità risultano tendenti al negativo e ciò conferma le considerazioni fatte precedentemente rispetto alla sua visione della paziente come ostile, poco disponibile, rifiutante. Tutte le altre dimensioni indicano un equilibrio tra il polo negativo e quello positivo, quindi non ci sono aspetti da notare nei due sensi. Ad esempio l’altro viene visto come né particolarmente sicuro né insicuro, né calmo, né agitato, né particolarmente autonomo, né indipendente, ecc. Quindi, come affermato precedentemente, non può essere comunque considerato una base sicura, in quanto non ci sono elementi positivi predominanti. Dall’analisi delle singole Tavole e quindi delle varie situazioni psicologiche emerge che Stefania ha punteggi bassi, quindi nuclei irrisolti, rispetto alla Tavola I (Difficoltà con la Madre), alla Tavola V (Cooperazione/Amicizia) e alla Tavola VI (Esposizione). Dalla Tavola IV (Difficoltà con il padre), emerge disagio mentre nelle altre i punteggi indicano valori medi, tendenti all’alto, quindi elementi positivi su cui lavorare. Un ottimo spunto di lavoro è dato dall’interpretazione dei punteggi della tavola VII (Intimità), in cui Stefania riporta valori medi nelle valutazioni di sé e dell’altro, poiché mettono in evidenza aspetti positivi e risorse della cliente da approfondire e rafforzare nel processo terapeutico. Stefania è in terapia individuale e di gruppo da due anni e il Test fornisce degli elementi che confermano le difficoltà e le dinamiche emerse nel percorso. Il lavoro che grazie ai risultati del 9AP si può ulteriormente realizzare, è quello di approfondire in terapia i nodi critici rispetto alla figura materna e paterna, nonché in relazione alle figure delle sorelle e degli amici, visto che la Tavola della Cooperazione/Amicizia indica serie difficoltà in questo senso. In essa infatti, sia lei sia l’altro vengono percepiti come chiusi, dubbiosi, arroganti, inflessibili, dipendenti, delusi, ecc. Stefania, grazie alla relazione terapeutica e al lavoro in gruppo avrà la possibilità di approfondire i suoi vissuti e viverne di nuovi, con l’obiettivo di aumentare la fiducia in sé e nell’altro, sperimentando interazioni nuove, positive e soddisfacenti. Le insicurezze che ha, infatti, la portano ancora a volte a confermare le sue convinzioni negative, con conseguente scoraggiamento. Inoltre sarà importante lavorare sull’Adulto, il Genitore e il Bambino (Berne, 1994) a livello cognitivo, emotivo e comportamentale, per arrivare ad un’integrazione sana di queste istanze, che la porti a dinamiche più efficaci e adattive, superando i blocchi e le paure che la caratterizzano. Stefania è stata contenta di avere la possibilità di fare il test e lavorare sugli esiti dello stesso sarà per lei fondamentale, in quanto si è resa più consapevole di alcune dinamiche che aveva la tendenza a minimizzare. Conclusioni Dell’utilità diagnostica del test 9AP all’interno di un processo terapeutico già avviato abbiamo ampiamente discusso per tutto il lavoro. Una considerazione ulteriore rispetto all’u170 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... tilità di questo test va fatta rispetto al rapporto terapeutico. Siamo infatti convinte che, se il 9AP è somministrato all’inizio del percorso, nella fase della conoscenza e della raccolta anamnestica, i risultati che produce e la loro interpretazione possono essere utilizzati per lavorare sulle eventuali difficoltà nella definizione e strutturazione dell’alleanza terapeutica. Ciò riveste un forte valore visto che la ricerca empirica degli ultimi quarant’anni ha dimostrato che l’alleanza terapeutica è uno dei fattori predittivi più importanti degli esiti di successo terapeutico (Muran e Barber, 2012), anche più incisivo dei diversi interventi tecnici utilizzati nei vari approcci (Giusti, Montanari e Iannazzo, 2000; Wampold, 2001; Horvath e Bedi, 2012; Giusti e Romero, 2005; Giusti e Germano, 2006; Giusti e Vigliante, 2009). Con molta probabilità l’interpretazione dei risultati del Test 9AP potrebbe essere utile a prevedere anche eventuali rotture dell’alleanza, fenomeno molto frequente in terapia (osservate con una frequenza fino al 50%), che possono portare ad una interruzione prematura o ad un esito negativo dell’intervento terapeutico (Muran, Safran e Eubanks-Carter, 2012). Il 9AP allora, potrebbe essere utilizzato efficacemente anche come strumento per ridurre i drop-out: infatti, dato che il Test fornisce informazioni sulle difficoltà relazionali e sulle aspettative che l’altro ha nei confronti del terapeuta, quest’ultimo può costruirsi un’idea più dettagliata di come il cliente percepisce le figure di riferimento e/o autoritarie, delle sue paure e resistenze ad affidarsi a delle dinamiche che potrebbero portarlo ad abbandonare il percorso. In fase diagnostica, l’utilità del Test può essere anche funzionale alla conoscenza delle modalità relazionali del paziente con gli altri e di ciò che si aspetta da loro, elementi di cui a volte, nelle fasi iniziali della terapia, le persone non sono ancora del tutto consapevoli. Nel senso sopradescritto, il Test 9AP costituisce un valido strumento che, insieme ad altri già ampiamente utilizzati e validati, consente di utilizzare la teoria dell’attaccamento per come Bowlby l’aveva concettualizzata: una guida per la pratica clinica (Levy et. al., 2012), e consentire al terapeuta di diventare per il paziente una figura di attaccamento sicura ed affidabile. In linea con quanto sosteneva Bowlby, un terapeuta che si rende disponibile come base sicura può contribuire ad far sì che l’attaccamento sicuro diventi sia un esito della terapia che una variabile moderatrice del processo terapeutico e dell’esito del trattamento. Infatti anche se i pattern di attaccamento sono stati riscontrati come piuttosto stabili nel tempo, non di meno essi sono soggetti a cambiamenti determinati da fattori diversi quali ad esempio nuove relazioni sentimentali e amicali, relazioni costanti e continue con i membri della famiglia, eventi traumatici di vita e, non ultima, la psicoterapia (Fraley, 2002). Infine, in base ai risultati ottenuti può essere facilitata la diagnosi dei Disturbi di Personalità, a volte difficilmente riconoscibili perché coperti dalla sintomatologia dei disturbi dell’Asse I. A testimonianza della validità del 9AP in questo ambito, gli approfondimenti psicometrici fatti dall’autrice (Candilera, 2007) hanno rilevato correlazione con altri strumenti psicometrici di personalità. In questa sede citeremo soltanto quelli che ci sono sembrati più interessanti dal punto di vista diagnostico e rispetto alla frequenza di utilizzazione nella nostra esperienza lavorativa. Studiando le correlazioni del 9AP con l’MMPI, la Candilera ha ipotizzando che ci siano relazioni tra i tratti di personalità patologici e le rappresentazioni negative di Sé e dell’Altro. Effettivamente anche nel DSM IV-TR, spesso viene fatto riferimento a come un soggetto, a seconda della particolare sindrome, percepisce gli altri e se stesso in modo diverso e disfunzionale. Dagli studi di validazione del Test è scaturita una correlazione sia per le scale di validità L, K, F dell’MMPI (Butcher, 1996) che con diverse scale cliniche come quella dell’Ipocondria (Hs), della Depressione (D), della Paranoia (Pa), 171 Efficacia dell’utilizzo del Test 9AP per l’analisi degli stili d’attaccamento e delle competenze... della Psicoastenia (Pt), della Schizofrenia (Sc), dell’Ipomania (Ma), ed altre ancora (per approfondimenti vedi Candilera, 2007, Cap. 3). Molto interessante anche la correlazione con il BFQ e quindi con il modello dei 5 Grandi Fattori, che permette di descrivere e valutare la personalità secondo 5 fondamentali dimensioni (Caprara, Barbaranelli e Borgogni, 1993; Spalletta, 2009). I due Test hanno in comune l’ipotesi che alle differenze di personalità corrispondono dei linguaggi (termini e aggettivi) particolari. Gli studi fatti hanno dimostrato convergenze e similitudini del 9AP con le dimensioni del BFQ (Energia, Amicalità, Coscienziosità, Stabilità Emotiva e Apertura Mentale). Come già detto questo lavoro preliminare vuole costituire una premessa per futuri studi maggiormente articolati, che prevedano a) un numero più elevato di pazienti, b) una somministrazione da effettuare all’inizio della terapia e dopo qualche mese e c) l’analisi, su questi casi, delle relazioni tra le dimensioni del 9AP e il BIG Five (Caprara et. al., 1993), con particolare riferimento alla dimensione della desiderabilità sociale. 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Abstract L’articolo ha voluto mettere in luce l’importanza dell’utilizzo di un test semiproiettivo come il 9AP all’interno del lavoro terapeutico, evidenziando come l’utilizzo di tale test non sia da ostacolo, ma semmai da agevolatore della relazione paziente-terapeuta. Si è voluto sottolineare come l’utilizzo di tale strumento, consenta al clinico di comprendere e far emergere le modalità di attaccamento del paziente, che permettono di orientare le scelte strategiche e tattiche di conduzione psicoterapica, al fine di aiutare il paziente ad avere maggiore consapevolezza di sé, delle proprie emozioni e dei propri meccanismi di funzionamento in relazione all’immagine che egli ha di se stesso, delle relazioni con gli altri e del proprio futuro. Keywords: Stili di attaccamento, Test Proiettivi, Psicoterapia Il 9 AP (attachment Profile) è un test semi proiettivo, indicato per soggetti adulti, che si propone di valutare in un’ottica multidimensionale le relazioni interpersonali del soggetto, al fine di definirne uno specifico profilo di attaccamento. L’innovativo strumento proposto da Gabriella Candilera (2007) pone le sue fondamenta sul presupposto teorico che vi sia una relazione tra stili di attaccamento dell’adulto e qualità dei suoi rapporti interpersonali, determinata da specifici modelli operativi interni che consentono al soggetto di avere una differente rappresentazione mentale di sé e degli altri. Lo stesso Bowlby (1989) definisce l’importanza di tali modelli operativi in grado di determinare 175 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... l’influenza e la qualità dei processi interpersonali nelle ripetute esperienze con le figure di attaccamento. Infatti, i sistemi motivazionali, e in particolare quello dell’attaccamento, non solo organizzano il comportamento interpersonale e l’esperienza emozionale, ma anche la rappresentazione mentale di sé e degli altri. Le memorie di precedenti attivazioni dei sistemi motivazionali e dei loro risultati influenzano le successive modalità di funzionamento dello stesso sistema motivazionale. Il bambino in fase di sviluppo costruisce nella propria mente modelli di se stesso e degli altri, basati sulla ripetizione delle esperienze vissute con la figura di riferimento più importante. Queste rappresentazioni, una volta generalizzate, formano modelli mentali stabili su cui il bambino basa le sue previsioni relative al comportamento degli altri e quindi il suo comportamento sociale (Lorenzini, Sassaroli, 1995). Questi modelli rappresentazionali, chiamati Internal Working Model (IWM) o Modelli Operativi Interni (MOI), diventano ben presto inconsapevoli e tendono a essere stabili nel tempo. La capacità di anticipare gli eventi, propria dei modelli operativi interni originati sulla base dell’attaccamento, è tale da influenzare fortemente le successive relazioni affettive, che, in un modo o nell’altro tenderanno a ripetere la primitiva relazione tra il piccolo e la figura di attaccamento, anche in età adulta. Poiché il soggetto si è costruito uno schema mentale (per lo più inconscio) di com’è l’altro e di come lo tratterà, finirà facilmente per selezionare proprio le persone che hanno quelle caratteristiche; il suo comportamento sarà complementare e tenderà a rinforzare quello dell’altro, in una sorta di circolo vizioso. I MOI sono quindi rappresentazioni mentali, costruite dall’individuo come strutture mentali che contengono le diverse configurazioni (spaziale, temporale, causale) dei fenomeni del mondo e che hanno la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi, consentendogli come già detto, di fare previsioni e crearsi aspettative sugli accadimenti della propria vita relazionale. “Nel modello operativo del mondo che ciascuno si costruisce, una caratteristica fondamentale è il concetto di chi siano le figure di attaccamento, di dove si possano trovare, e di come ci si possa aspettare che reagiscano. Analogamente, nel modello operativo del Sé che ciascuno si costruisce, una caratteristica fondamentale è il concetto di quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Sulla struttura di questi modelli complementari l’individuo basa le sue previsioni di quanto le sue figure di attaccamento potranno essere accessibili e responsive se egli si rivolgerà a loro per aiuto. Dalla struttura di quei modelli dipende inoltre la fiducia che il soggetto ripone riguardo le sue figure di attaccamento, l’idea che esse siano in genere facilmente disponibili e la sua paura più o meno grande, che non lo siano: “di quando in quando, spesso, oppure nella maggior parte dei casi” (Bowlby, 1983). La teoria dell’attaccamento considera, infatti, la propensione a stringere relazioni emotive intime con particolari individui come una componente di base della natura umana, già presente in forma germinale nel neonato che permane durante la vita adulta e la vecchiaia (Bowlby, 1989). Sviluppare un buon attaccamento consente quindi al soggetto, di legarsi e separarsi, di affidarsi agli altri e al contempo contare su di sé. Pertanto la capacità di stringere legami intimi con le altre persone è considerata una delle caratteristiche principali di un funzionamento efficace della personalità e della salute mentale. A oggi, nonostante l’importanza di tale argomento, non sono molti gli strumenti che possano vantare validità e attendibilità scientifica nella valutazione delle relazioni di attaccamento, soprattutto se si considera il fatto, che è piuttosto complesso riuscire a valu176 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... tare gli effetti nell’adulto di ciò che in realtà è avvenuto nei primi mesi di vita. Pertanto il lavoro della Candilera (2007) che vanta una buona attendibilità dello strumento e validità di costrutto, risulta un test molto utile nell’acquisizione di informazioni relative alle modalità di attaccamento del proprio paziente, aspetti fondamentali da tenere in considerazione nell’ambito di una psicoterapia, in particolar modo riguardo alla costruzione di una buona alleanza terapeutica, poiché una rilettura del concetto di Alleanza nei termini di base sicura è interessante soprattutto a livello predittivo del trattamento (Bowlby, 1988; Holmes, 2001). Una forte alleanza è infatti, generalmente considerata un indicatore positivo del risultato terapeutico finale (Muran, Baber 2010). Nell’approccio integrato la relazione terapeutica è l’elemento cruciale che “veicola” la costruzione narrativa dell’identità del soggetto. Il paziente narrerà del passato e del presente e attraverso la relazione potrà creare nuove esperienze utilizzabili per modificare la narrazione promuovendo la parte sana. Di norma infatti, il paziente arriva in terapia con un’immagine di sé come bisognoso di aiuto, mentre il terapeuta è collocato nel ruolo di chi sostiene. Questo copione mette in grado il paziente di comunicare la sua storia al terapeuta, il quale non solo ascolta e cerca di essere di aiuto, ma viene irretito nella storia in quanto si forma un legame con il paziente (Gold, 2000). La forma e il contenuto dell’interazione tra paziente e terapeuta rivelerà molto di ciò che è accaduto nel passato e anche di ciò che avviene nel presente tra il paziente e le persone significative della sua vita. Le risposte del terapeuta serviranno ad accrescere la consapevolezza di questi circoli viziosi e delle parti della narrazione che li comunicano e li contengono. Col tempo, il paziente imparerà ad anticiparli o a liberarsene (Gold, 2000). Un approccio integrato permette al terapeuta, di fronte alla narrazione delle diverse storie raccontate dai singoli pazienti, di adottare approcci interpersonali diversi. Il terapeuta stabilisce e costruisce su misura il tipo d’interazione terapeutica sulla base di ragioni cliniche individualizzate, piuttosto che su assunti teorici aprioristici. Col dispiegarsi della storia egli ne viene coinvolto e la necessità di relazioni terapeutiche diverse riflette gli aspetti particolari della narrazione di ciascun paziente. Il terapeuta potrà confutarne la narrativa distruttiva e disadattiva, fornendo un’esperienza nuova e “riparativa” (Clarkson, 1997). L’esperienza del terapeuta diventa quindi per il paziente, una nuova parte della storia di sé, degli altri e di ciò che è possibile, auspicabile e realizzabile nella propria vita (Giusti, Locatelli, 2000). Il 9 AP risulta quindi, particolarmente apprezzabile oltre che per la sua facile applicazione, anche per la possibilità che offre al clinico d’inserire questo test nel contesto terapeutico, utilizzando e condividendo i risultati con il paziente, in modo tale che esso non sia vissuto come un ostacolo, ma come un’agevolatore della relazione terapeutica. Infatti, a differenza di altri test proiettivi che richiedono che le risposte aperte siano siglate e codificate a posteriori, il 9AP, al fine di poter ricavare dati oggettivi, richiede al soggetto, dopo la presentazione dello stimolo proiettivo, di esprimere la sua risposta quantificandola. La possibilità che ha il soggetto di auto-valutare e campionare le proprie reazioni, produce una misura più fedele del comportamento in esame, riducendo il rischio di modificare sensibilmente l’attendibilità del risultato, così come rischierebbe di avvenire con una siglatura e codifica a posteriore da parte del terapeuta. Infatti, una compilazione falsata potrebbe avere delle conseguenze negative sul risultato finale, poiché non fornirebbe informazioni valide, rendendo inutile la prestazione stessa; il fatto stesso che il soggetto sia motivato a partecipare attivamente alla prova, costituisce un deterrente verso la manipolazione volontaria delle risposte. È inoltre, 177 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... importante sottolineare che l’originale modalità di siglatura del 9 AP consente di poter somministrare il test anche in forma gruppale, aspetto assai utile in alcuni contesti clinici. L’interazione che avviene tra paziente e terapeuta nello svolgimento del 9 AP è di notevole importanza se si considera, che il ruolo del terapeuta può fornire al paziente la possibilità di esplorare i propri modelli rappresentazionali relativi alle proprie figure di attaccamento. La relazione può consentire una nuova valutazione e ristrutturazione dei MOI alla luce delle nuove conoscenze che il paziente ha acquisito e delle nuove esperienze che ha avuto nella relazione terapeutica; consentendo al soggetto di subire meno le influenze dei dolori passati e di essere meglio in grado di valutare i compagni presenti. Infatti, anche la relazione terapeutica, segue le leggi della relazione di attaccamento, se tutto funziona alla fine il paziente si svincola dal terapeuta come il bambino si autonomizza dai genitori. Come già detto, secondo Bowlby (1969/1988) gli individui, nel corso dell’interazione col proprio ambiente, costruiscono dei Modelli Operativi Interni (MOI), del mondo fisico e sociale che li circonda, che comprendono i Modelli Operativi di sé e delle figure di accudimento o, ancor più precisamente, modelli di sé-con-l’altro (Liotti, 2001), vale a dire dunque della relazione. Non si può quindi prescindere dal fatto, che nel lavoro terapeutico, il tipo di relazione iniziale che s’instaura porti il paziente a vedere il suo terapeuta in base alle esperienze di accudimento e attaccamento precedentemente sperimentate, e si ponga come diffidente o bisognoso a seconda dello sguardo che i suoi modelli operativi interni gli consentono di avere. Pertanto, un clima emotivo di accettazione, di sicurezza e di empatia è necessario per consentire al paziente di contattare le sue difficoltà intrapsichiche e comportamentali; l’attaccamento e la confidenza che si sviluppano con il calore e l’empatia sono, nella psicoterapia integrata, fondamento dell’esperienza comportamentale, cognitiva ed emotiva, e scoperta della motivazione e del cambiamento (Gold, 2000). I terapeuti ad approccio integrato, ritengono infatti, che il clima emotivo di empatia e di sicurezza fornisca al paziente un nuovo senso di autostima, conferma, autoaccettazione e che esso sia un fattore significativo nella disconferma di vecchi e disfunzionali pensieri, opinioni e sentimenti sul sé e sugli altri (Greenberg et. al., 1993). Dunque il terapeuta può essere vissuto come una madre che fornisce al bambino una base sicura da cui poter esplorare. In quest’ottica la costruzione di una relazione terapeutica “Sicura” è un punto di arrivo della terapia ed è proprio attraverso la formazione di questa base sicura che si rende possibile la chiusura del percorso terapeutico. La possibilità offerta dal 9 AP di condividere e commentare i risultati con il paziente consente inoltre al terapeuta, di passare dall’approccio “ Io lo so; io te lo dico” alla posizione “Tu lo sai, dimmelo”. Questo consente al paziente di essere in grado di scoprire da se stesso la vera natura delle sue esperienze precoci, la relazione terapeuta-paziente potrà consentire a quest’ultimo di comprendere cosa l’ha condotto a costruire quei modelli ora attivi dentro di lui e sarà così libero di ristrutturarli (Casement, 1989). Nel definire le relazioni interpersonali e il profilo di attaccamento del soggetto, il test della Candilera utilizza 7 tavole-stimolo, rappresentanti situazioni relazionali, diadiche e sociali, che consentono una lettura profonda e una rilevazione di dinamiche inconsce relative al comportamento di attaccamento. Sotto ogni tavola si ritrovano due colonne, una posizionata a sinistra relativa alle risposte Sé, l’altra posizionata a destra relativa alle risposte Altro (altro da sé). Ogni colonna è costituita da nove item strutturati per coppie di termini contrapposti, che misurano le 9 dimensioni psicologiche seguenti: 178 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... mm Accettazione-Rifiuto; mm Amichevolezza-Ostilità; mm Potere-Sottomissione; mm Sicurezza-Insicurezza; mm Disponibilità-Indisponibilità; mm Calma-Agitazione; mm Soddisfazione-Insoddisfazione; mm Autonomia-Dipendenza; mm Assenza di competizione-Competizione. Il soggetto dopo aver osservato la tavola-stimolo, dovrà indicare l’intensità del suo vissuto emotivo in relazione agli item, barrando uno dei quadretti, di diverse grandezze, appartenente a una sequenza grafica decrescente per il polo sinistro e crescente per quello di destra. La quantificazione dell’item segue lo stesso criterio per tutte le risposte, ossia da 8 partendo dall’estrema sinistra (aggettivi positivi) a 0, terminando all’estrema destra (aggettivi negativi). Un punteggio finale alto indicherà quindi, la tendenza del soggetto ad aver scelto aggettivi positivi nella descrizione delle figure (Sé e Altro), analogamente un punteggio finale basso indicherà una prevalenza di scelte sul polo negativo. Il presupposto sul quale poggiano le 7 tavole si basa sul fatto che all’interno di esse la posizione delle figure e il luogo rappresentato sono fortemente ambigui. A tale proposito, è bene ricordare, che Il principale vantaggio di molte tecniche proiettive relative a test di personalità strutturati è principalmente la loro capacità di superare le difese consce del soggetto, permettendo al clinico un accesso privilegiato a informazioni psicologiche importanti non altrimenti ottenibili, di cui il soggetto stesso non è consapevole (Dosajh, 1996). Le tavole raffiguranti situazioni e soggetti ambigui stimolano, la memoria episodica piuttosto che quella semantica, consentendo quindi di accedere a ricordi assolutamente personali, piuttosto che al semplice sapere del soggetto. Le tavole inoltre non presentano alcun ambiente decorativo che possa richiamare a un qualunque stile di vita, influenzando chi svolge il test. L’obiettivo delle tavole è, infatti, quello di pervenire per quanto è possibile, non a una semplice descrizione di ciò che il soggetto osserva, ma a un’interpretazione soggettiva le cui fondamenta si inseriscono all’interno di un proprio schema o sistema personale di lettura, legato appunto al proprio specifico stile di attaccamento. La consegna data al soggetto, nella somministrazione del test, è di identificarsi con una figura nera (completamente scura, priva di qualsiasi rifermento ed espressioni facciali reali) che sulle 7 tavole interagisce con una o più figure bianche e, come già detto, identificare il punto che meglio in quel momento, rappresenta l’intensità del proprio vissuto emotivo. Il punto indicato, attraverso un segno su una sequenza grafica di nove quadretti di dimensioni diverse, consente di avere informazioni quantitative relative alle dimensioni psicologiche che il test si propone di misurare. Infatti, il pregio del 9 AP sta proprio nel suo aspetto quantitativo dimensionale, grazie al quale si possono identificare le varie forme sfumate e di passaggio di comportamento d’attaccamento che tipicamente s’incontrano nella pratica clinica. Nello specifico, le prime quattro tavole e la settima rimandano a un’interazione duale, mentre la quinta e la sesta rimandano a un’intesa con più figure. Inoltre le prime quattro tavole (Difficoltà Madre; Confronto Altro; Difficoltà Altro; Difficoltà padre) rimandano a con179 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... tenuti relativi la propria sfera personale-privata e passata, le ultime tre tavole (Cooperazione amicizia; Esposizione; Intimità), riguardano maggiormente invece, la sfera sociale attuale. Oltre alle 7 tavole-stimolo, la somministrazione del 9 AP prevede altre due schede finali in cui viene richiesto al soggetto cosa sta accadendo nell’evento raffigurato e come andrà a finire. Il clinico ha quindi la possibilità, attraverso la specifica inchiesta, che prevede risposte aperte da parte del soggetto di raccogliere ulteriori informazioni utili alla comprensione del profilo di attaccamento del proprio utente. In ambito clinico è piuttosto importante tenere in considerazione ciò che il soggetto esprime in queste due schede finali, poiché dalle risposte fornite a esse, possono essere tratte importanti informazioni non solo sulle rappresentazioni mentali, positive o negative, che il soggetto ha di se stesso all’interno di specifiche situazioni, ma anche di quelle relative agli altri, che possono essere stati identificati come madre, padre , amico, partner, superiore…ecc. Il modulo di tabulazione del 9 AP è organizzato per righe e per colonne. Le righe indicano le nove scale del test, mentre le colonne si riferiscono alle sette situazioni psicologiche. Completata la prova, viene quindi assegnato un punteggio alle risposte del soggetto che va inserito nel modulo, al fine di eseguire il computo sia per colonna che per riga, attraverso il calcolo dei punteggi che vanno, come già detto, da 0 (versante negativo) a 8 (versante positivo). Il punteggio ottenuto non serve solo a verificare la presenza o assenza della variabile psicologica, ma come già detto, ci fornisce anche informazioni sull’intensità di una data variabile. La prima fase di scoring prevede, quindi, il calcolo dei punteggi grezzi, e successivamente, utilizzando le tavole di conversione la trasformazione in punteggi T. Dai punteggi ottenuti nelle 9 dimensioni psicologiche si ottiene una prima lettura del profilo psichico che identifica immediatamente le componenti positive e negative nella rappresentazione di Sé e dell’Altro. Inoltre, lo strumento fornisce ulteriori quantificazioni relative ai seguenti fattori relazionali: 1. Apertura-chiusura sé (ricerca della vicinanza); 2. Apertura-chiusura altro (aspettative su come si verrà trattati); 3. Forza-Debolezza Sé (percezione della propria forza e autonomia); 4. Forza-Debolezza Altro (percezione della forza e autonomia dell’altro). In base ai risultati ottenuti dall’interazioni di questi quattro Fattori Relazionali con i seguenti Fattori Generali: 1. Percezione Sé totale; 2. Percezione Altro totale; sarà possibile definire lo stile relativo allo specifico legame di attaccamento del soggetto, che potrà risultare: Sicuro; Disorganizzato; Evitante; Ambivalente. A tale proposito è indispensabile ricordare che lo sviluppo di un attaccamento sicuro potrà considerarsi quale fattore “protettivo” contro la probabilità di sviluppare disturbi posttraumatici o lo strutturarsi di forme psicopatologiche, mentre l’esposizione a modelli di attaccamento insicuro/disorganizzato costituirà un fattore di “rischio” e vulnerabilità rispetto ai possibili esiti postumi (Dazzi e Speranza, 2005) o anche a disturbi precoci nello sviluppo 180 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... affettivo-cognitivo (Lieberman, Zeanah, 1995). La psicopatologia è, infatti, rappresentata da quelle relazioni primarie insicure, che oltre a determinare l’insorgenza di un deficit delle funzioni cognitive e metacognitive nell’elaborazione dei vissuti emotivi, provoca una disconnessione dei livelli fisiologici e comportamentali e la conseguente incapacità del soggetto ad utilizzare le emozioni come sistemi motivazionali e di organizzazione di comportamenti adeguati all’ambiente di riferimento (Carretti, La Barbera, 2005). Le persone con un attaccamento insicuro-evitante hanno un modello positivo di sé, ma a differenza di quelle con un attaccamento sicuro hanno un modello negativo degli altri, sono persone che cercano di contare solo su di sé che non riconoscono in sé alcuna debolezza e non richiedono mai il soccorso degli altri. Coloro che hanno sviluppato un attaccamento insicuro-ambivalente sono ancorati ad un modello negativo per il Sé e positivo per l’Altro, vivono con ansia i rapporti affettivi, si percepiscono incapaci di affrontare situazioni difficili o problematiche senza l’appoggio degli altri, si sentono sprovvedute in un mondo complicato e pericoloso. Infine coloro che hanno un attaccamento disorganizzato, percepiscono la figura di attaccamento come pericolosa e anche da adulti ripropongono costruzioni sociali che si sono già dimostrate fallimentari, ignorando e sopraffacendo l’altro che è la fonte dell’invalidazione (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2000). Durante la somministrazione del test, è necessario quindi, tener conto che nella psicopatologia, il processo narrativo s’interrompe. L’individuo si trova davanti a sensazioni poco esplorate o che sono state confuse durante il periodo di sviluppo. Pertanto il soggetto non riesce a spiegare quello che prova sensorialmente e a collegarlo ai significati personali; non riesce più a ordinare, tramite segnali autoriferiti, l’esperienza o ciò che esperisce (Giusti, Iannazzo, 1998). Diversi autori ad approccio integrato (Hayes, Newman, 1993; Papouchis, Passman 1993), hanno sottolineato l’importanza delle esperienze precoci di attaccamento nell’eziologia della psicopatologia, considerando alcune tensioni, come pensieri e sentimenti patogeni sull’attaccamento che posso essere testati ed eliminati sulla base di un’esperienza relazionale positiva e di successo con il terapeuta. L’utilizzo del 9 AP attraverso le sue diverse variabili permette di identificare a un primo livello di lettura profili relazionali con differenze specifiche e complessive relative alla rappresentazione che il soggetto ha di se stesso e dell’altro nei diversi contesti. A un secondo livello è possibile evidenziare la presenza di dinamiche più complesse, attraverso la lettura parallela delle due schede finali in cui è il soggetto liberamente a fornire spiegazioni sul cosa sta succedendo e come andrà a finire in riferimento all’evento raffigurato in ciascuna tavola. Quando s’intende, affrontare la tematica dell’attaccamento, nell’ambito del lavoro terapeutico, è necessario tener conto che solo cercando di individuare le possibili relazioni tra modalità di attaccamento ed esperienze problematiche si può entrare in una logica connessionista e costruttivista, in cui tali esperienze assumono risvolti psicologici più o meno gravi in rapporto allo stile di attaccamento che ha caratterizzato le relazioni primarie tra il caregiver e il bambino e si ripercuote in età adulta. Come afferma Siegel (1999), la valutazione e l’attribuzione di significati agli stimoli sono funzioni specifiche della mente, che trovano sede espressiva all’interno dei processi emozionali. Le emozioni sono intrinsecamente esperienze soggettive che coinvolgono processi di attribuzione di significati e d’interazione con l’ambiente. Le esperienze emotive sono all’origine di stati soggettivi complessi, che costituiscono il nucleo centrale delle nostre vite 181 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... mentali e delle nostre relazioni con gli altri. Nello sviluppo infantile, il caregiver e il bambino costruiscono insieme, sulla base delle loro vicende emotive e sensoriali, modalità regolatorie diadiche (comprendenti al tempo stesso modelli di autoregolazione e di regolazione interattiva) che avranno un destino importante nella vita psichica di entrambi. Attualmente l’infant research, studiando l’organizzazione della mente nelle prime fasi di vita, permette di descrivere in modo dettagliato l’origine presimbolica delle rappresentazioni del Sé e dell’oggetto, offrendo inoltre conoscenze che possono risultare particolarmente utili alla comprensione dei fenomeni psicopatologici in età evolutiva (Carretti, Capraro, et. al., 2005). Processi cerebrali e relazioni sociali danno vita, insieme, alla nostra mente (sia a livello conscio che inconscio), ai diversi stili di attaccamento, attraverso un continuo processo di percezione e valutazione delle informazioni provenienti da stimoli interni ed esterni (Gaddini, 1980). L’attaccamento può intendersi quindi, come modalità di regolazione affettiva messo in atto dal bambino per affrontare le interazioni idiosincratiche con i caregivers. Si tratta, pertanto, di modalità abituali sviluppate dall’Io per modulare l’angoscia e ottimizzare l’adattamento, che proseguono anche in età adulta (Fonagy, 2001). Nella narrazione psicoterapeutica si crea lo spazio dell’oggetto transazionale, la base sicura interiorizzata, il luogo in cui la perdita e l’assenza, e il ritrovamento e la presenza possono giocare il loro incessante gioco senza. Al riparo della base sicura le difese possono abbassarsi consentendo di accedere alla memoria. Nello spazio terapeutico base sicura è permesso rientrare in contatto fisiologico emotivo e cognitivo, con il mondo primario così che si possa vivere più pienamente in quello attuale. Un approccio eclettico, come quello che appartiene alla psicoterapia integrata, immagina una base sicura non uguale per tutti, e lavora sulla costruzione e il mantenimento della “giusta distanza” ottenuta ogni volta i maniera nuova e nel riconoscimento dell’unicità di ogni singolo paziente (Spalletta, 2010). In ambito clinico, l’utilizzo di test come il 9 AP, risulta quindi utile a comprendere ed interpretare fenomeni comportamentali, cognitivi ed emotivi adulti, ricostruendo ciò che storicamente ha condotto il soggetto a stabilizzarne l’espressione attuale e le modalità di attaccamento che li hanno generati. Consente di comprendere la rappresentazione del proprio Sé e la rappresentazione dell’Altro, senza ridurre le relazioni adulte solo ai modelli di attaccamenti infantili, poiché nell’adulto entrano in gioco scopi nuovi che determinano il comportamento all’interno di relazioni affettive, sociali e terapeutiche. Infatti nell’adulto, oltre agli scopi motivazionali di attaccamento o richiesta di cura, accudimento o offerta di assistenza, esistono anche quelli riguardanti la formazione della coppia sessuale, la competizione per il rango sociale e la collaborazione fra pari (Liotti, Monticelli, 2008). Come sostiene Cionini (2006): “il lavoro di valutazione in psicoterapia dura per tutto il processo terapeutico, in cui il terapeuta effettua una continua verifica della propria comprensione e delle proprie costruzioni professionali per orientare e ri-orientare le proprie scelte strategiche e tattiche di conduzione della relazione”. Pertanto, introducendo un test come quello della Candilera all’interno della relazione terapeutica si può aiutare il paziente ad avere maggiore consapevolezza di sé, dei propri pensieri, delle proprie emozioni e dei propri meccanismi di funzionamento, aspetti che hanno innegabilmente una valenza terapeutica molto importante, poiché consentono di comprendere maggiormente il problema del paziente, la valenza e i significati che esso assume ai suoi occhi nella vita quotidiana e rispetto all’immagine che egli ha di se stesso, delle relazioni con gli altri e del proprio futuro. Infatti, i ricordi, le esperienze o le fantasie attivate dalla situazione proiettiva consentono 182 Riflessioni sull’utilizzo del test 9AP Attachment Profile nell’ambito della relazione... di far emergere nuclei irrisolti, difese, strategie interpretative, attese e previsioni sulla rappresentazione di un altro o altri significativi presenti nello schema relazionale del paziente e consentono al clinico di poter orientare il lavoro terapeutico su tali specifiche tematiche. Bibliografia Bowlby J., (1969), Attaccamento e Perdita, vol 1; L’attaccamento alla madre, Tr. it Boringhieri, Torino, 1972 Bowlby J., (1983), Attaccamento e Perdita, vol 2; La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino. Bowlby J., (1989), Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Raffaello Cortina Editore, Milano Candilera G., (2007), 9AP 9 Attachment Profile, Scione editore, Roma. Carretti V., Craparo G., Ragonese N., Schimmenti A., (2005), Disregolazione affettiva, trauma e dissociazione in un gruppo non clinico di adolescenti. Una prospettiva evolutiva, Infanzia e adolescenza, Vol 4, 3. Carretti V., La Barbera D., (2005), Alessitimia Valutazione e trattamento, Astrolabio, Roma. Casement P., (1989), Apprendere dal paziente, Raffaello Cortina Editore, Milano. Cionini L., (2006), L’assesment, In Bara G.B. Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. Volume terzo: Patologie, Bollati Boringhieri, Torino. Clarkson P., (1997), La relazione psicoterapeutica integrata, Sovera, Roma. Dazzi N., Speranza A. M., (2005), Attaccamento e psicopatologia, Infanzia e adolescenza, vol 1, pp18-30. Dosajh N.L., (1996), Projective techniques with particolar reference to inkblot test, Journal of Projective Psychologyand Mental Health, 3,59-68. Fonagy P., (2001), Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento, Tr. it. 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(2001) Raffaello Cortina, Milano. Spalletta E., (2010) Personalità sane e disturbate. Un’introduzione propedeutica alla cura delle normopatie del quotidiano Sovera, Roma. 184 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale. Uno sguardo più da vicino al SAT (Separation Anxiety Test) 15 di Salvatore La Fata Salvatore La Fata, Psicologo, Psicoterapeuta e Counselor, Master in Programmazione Neuro-Linguistica e Formazione-Formatori. Formatosi all’ASPIC, si è occupato all’inizio della sua carriera di consulenza aziendale come free-lance. Da diversi anni è impegnato soprattutto in ambito clinico e, oltre a svolgere il ruolo di terapeuta in contesti individuali e di gruppo, sia con adulti che con ragazzi ed adolescenti, si occupa di Attività e Terapie Assistite dall’Animale domestico. Ha pubblicato “Quando il mio terapeuta è un cane”, in collaborazione con Prof. Giusti e “Parlare in pubblico e vincere la timidezza”. Vive e lavora a Roma. Abstract Nel presente lavoro, a partire dalla teoria dell’attaccamento, si è cercato di evidenziare gli strumenti di tipo psicodiagnostico oggi a disposizione del clinico per valutare lo stile di attaccamento in età scolare e adolescenziale. Se la valutazione dell’attaccamento nel bambino piccolo e nell’adulto è sempre avvenuto attraverso una metodologia la cui validità è largamente condivisa, lo studio dell’attaccamento dall’età scolare fino all’adolescenza risulta invece notevolmente problematico. Gli strumenti di valutazione utilizzati in queste fasce di età, basati principalmente sullo studio delle risposte verbali a prove eseguite in condizioni di relativa sicurezza, rivelano scarse capacità predittive e presentano problemi di validità e attendibilità. Per questo motivo, anche per questa fascia di età si è ricorso, negli ultimi anni, sempre di più a strumenti di tipo proiettivo. Nelle pagine che seguono verranno brevemente descritti gli strumenti più utilizzati con una maggiore focalizzazione sul S.A.T. (Separation Anxiety Test) nella rielaborazione di Grazia Attili. Keywords Teoria dell’attaccamento, base sicura, strumenti di valutazione, test proiettivi, Separation Anxiety Test, Attili. 185 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale... Presupposti teorici: la teoria dell’attaccamento A partire dagli anni cinquanta Bowlby (1951), sostiene che l’essere umano manifesti una predisposizione innata a sviluppare relazioni di attaccamento con figure genitoriali primarie. Lo scopo di queste relazioni, evidenziate sin dalla fine del primo anno di vita, sarebbe quello di garantire al bambino sicurezza e protezione nei confronti dei pericoli esterni ed interni. Non tutte le relazioni primarie, però, a detta di Bowlby, anche quando queste risultino essere significative, possono essere lette come relazioni di attaccamento. Solo la costanza e la qualità degli scambi affettivi, ovvero il ripetersi di sequenze interattive, permette di definire la relazione di attaccamento. Come Bowlby, Weiss (1982) afferma che perché un legame possa essere considerato un legame di attaccamento, debbano essere presenti all’interno della relazione almeno tre condizioni di base: mm la ricerca della vicinanza; mm la presenza di reazioni di protesta di fronte alla separazione, quelli cioè che vengono definiti “comportamenti di attaccamento” (proteste, grida, pianti) che hanno lo scopo di richiamare la figura di attaccamento quando questa si allontana o non è disponibile; mm lo sviluppo di una “base sicura”. Il concetto di base sicura, fu introdotto da Mary Ainsworth (1978), a partire dagli ormai noti studi attraverso la strange situation e descritto come la consapevolezza del bambino di potersi allontanare e di poter ritornare “sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato”. A partire da queste primarie relazioni di attaccamento, secondo Bowlby ogni bambino costruisce dei “Modelli Operativi Interni”, ovvero rappresentazioni interne del mondo, delle figure di attaccamento e di se stesso, relativamente stabili nel tempo, con l’aiuto dei quali sarebbe in grado di interpretare gli eventi esterni, prevedere il futuro e definire i propri programmi d’azione. Le esperienze passate, particolarmente quelle relative ai pericoli, possono in questo modo essere conservate nel tempo, generando aspettative rispetto al futuro e utilizzate come guida per i comportamenti da mettere in atto in una determinata situazione. Bowlby, inoltre, riteneva che questi modelli rappresentativi interni fossero “multipli”, ovvero relativi a diverse relazioni significative (madre, padre, nonni, fratelli, altri adulti), e caratterizzati, in ogni caso, da specifiche funzioni cognitive, in particolare da un utilizzo differente dei sistemi di memoria (quella procedurale, quella semantica o quella episodica). Ricerche sull’attaccamento hanno dimostrato che i Modelli Operativi Interni sono sottoposti ad un continuo processo di riorganizzazione e ristrutturazione e sono quindi modificabili soprattutto sulla base di esperienze significative nel corso del ciclo vitale. In questi termini alcuni fattori risultano essere di particolare importanza: mm la continuità delle cure genitoriali, mm la funzione riflessiva materna nel corso di tutta l’infanzia, mm i modelli operativi interni degli stessi genitori. Inoltre, sembra che il concetto di attaccamento sarebbe funzione di due dimensioni dei modelli operativi interni, entrambe correlate con la qualità della relazione primaria di attaccamento e del conseguente sviluppo della base sicura. Da un lato la ricerca di protezione nei confronti dei pericoli, messa in luce sin dai primi lavori di Bowlby e della Ainsworth, che 186 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale... valuta i comportamenti di attaccamento (ricerca della vicinanza, protesta per la separazione) e le conseguenti reazioni difensive di adattamento (come il distanziamento e l’evitamento) espresse nelle situazioni di pericolo. Dall’altra lo sviluppo della capacità di esplorazione. La qualità e le caratteristiche dell’attaccamento, infatti, non si evidenzierebbero solamente nelle situazioni di pericolo e di paura, ma anche in quelle in cui l’individuo può manifestare sicurezza, fiducia, curiosità e interesse nell’esplorazione dell’ambiente e nei confronti delle nuove esperienze. Quest’ultima risulterebbe particolarmente centrale per la valutazione dell’attaccamento nella tarda infanzia e in preadolescenza. La valutazione dell’attaccamento Lo studio dell’attaccamento all’interno del ciclo vitale si è, storicamente, basato principalmente su due modelli di valutazione: da un lato la Strange Situation per la prima infanzia, dall’altro l’Adult Attachment Interview per l’età adulta. La prima, sviluppata come è noto da Mary Ainsworth è una procedura standardizzata videoregistrata in cui un bambino di uno-due anni viene esposto a una serie di brevi separazioni dalla propria madre (o un’altra figura di attaccamento) in un ambiente sconosciuto e in presenza di un estraneo. Questo strumento consentì alla Ainsworth di cogliere le differenze di attaccamento nei diversi soggetti permettendo di classificare le risposte comportamentali ottenute all’interno di tre tipi di pattern: 1) Sicuro (B); 2) Insicuro-Evitante (A) ; 3) InsicuroAmbivalente (C). Successivamente Mary Main e Judith Solomon (1986) hanno identificato un quarto pattern, definito insicuro-Disorganizzato/Disorientato (D) e Patricia Crittenden (1997) un quinto denominato Evitante/Ambivalente (A/C). La seconda, ritenuta lo strumento più valido per la valutazione dell’attaccamento nell’adulto, è un’intervista semistrutturata ideata nel 1995 da Carol George, Nancy Kaplan e Mary Main elaborata inizialmente per confrontare lo stile relazionale dei genitori con quello dei loro figli, nel tentativo di verificare la possibilità di una “trasmissione intergenerazionale dello stile di attaccamento”. Lo strumento è basato su quattro pattern di attaccamento nell’adulto, ognuno dei quali in relazione con un corrispondente pattern infantile individuato dalla Ainsworth: 1) Libero-Autonomo (F, Free) (corrispondente al tipo B); 2) Distanziante (Ds,Dismissing) (corrispondente al tipo A); 3) Preoccupato (E, Entangled) (corrispondente al tipo C); 4) Irrisolto (U, Unresolved) (corrispondente al tipo D). Patricia Crittenden (1999) ha proposto una versione modificata dell’AAI sviluppando, all’interno del proprio approccio teorico noto come “Modello Dinamico-Maturativo”, un nuovo sistema di classificazione dell’attaccamento che presenta numerose integrazioni ed espansioni rispetto a quello di Main e Goldwyn. Se, infatti, la valutazione dell’attaccamento nel bambino piccolo e nell’adulto è sempre avvenuta attraverso una metodologia la cui validità è largamente condivisa, lo studio dell’attaccamento dall’età scolare fino all’adolescenza risulta invece notevolmente problematico. In questa fase della vita la capacità di verbalizzazione diventa molto importante, anche se non ha ancora raggiunto la complessità dell’adulto. Viene ricercata la disponibilità psicologica della figura di attaccamento, piuttosto che la sua vicinanza fisica. La relazione con i genitori diventa maggiormente simmetrica e il figlio non solo si aspetta da loro protezione e sostegno, ma diviene capace, in alcune occasioni, di fornire egli stesso aiuto alla famiglia. Infine, nonostante i giovani di quest’età trascorrano ancora molto tempo in casa, l’autonomia dalle figure di attaccamento è maggiore e divengono sempre più importanti il rapporto con i coetanei e le esperienze sociali. Alcuni di questi nuovi legami (con amici, educatori, insegnanti, allenatori 187 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale... sportivi) presentano spesso le caratteristiche di vere e proprie relazioni di attaccamento. Gli strumenti di valutazione utilizzati in queste fasce di età, basati principalmente sullo studio delle risposte verbali a prove eseguite in condizioni di relativa sicurezza, rivelano quindi scarse capacità predittive e presentano problemi di validità e di attendibilità. Per questo motivo, anche per questa fascia di età si è ricorso, negli ultimi anni, sempre di più a strumenti di tipo proiettivo. In ogni caso, rispetto alla fascia di età scolare , preadolescenziale e adolescenziale, sono, oggi, a disposizione dei clinici, diversi strumenti di valutazione. Tra questi: Il Test di Ricongiungimento, sviluppato da Mary Main e da Jude Cassidy (1988). Si tratta di una procedura basata su 5 minuti di osservazione del comportamento verbale e non verbale al momento della riunione con la propria figura di attaccamento dalla quale si è stati separati per circa un’ora. Inizialmente proposto per bambini di 5-7 anni è stato utilizzato anche con soggetti più grandi. Non valuta le capacità esplorative, ma solo la rabbia, la tristezza e la paura sollecitate da una condizione di stress moderato. La classificazione dell’attaccamento utilizzata deriva direttamente da quella sviluppata dalla Ainsworth alla Strange Situation (Modello A-B-C). L’Inventory of Peer and Parent Attachment (IPPA) è stato ideato da Armsden (1986) e perfezionato da Greenberg (1997). Concepito inizialmente per essere somministrato a soggetti in tarda adolescenza, è stato utilizzato anche in preadolescenti senza che fossero evidenziate particolari differenze sul piano statistico. Si tratta di un questionario di 25 item con risposte su scala Likert da 1 a 5 che intendono misurare il livello di fiducia del soggetto nei confronti dei propri genitori, valutando anche la qualità della comunicazione e il livello di alienazione percepito nella relazione. I punteggi più elevati evidenzierebbero un attaccamento sicuro. Recentemente è stata realizzata la People in my life (Cook, Greenberg e Kusche 1995), una versione alternativa della IPPA che valuta le relazioni che i preadolescenti instaurano non solo con i genitori, ma anche con gli amici, i compagni di scuola e i vicini di casa. L’Attachment Story Completion Test (ASCT): è una procedura ideata da Bretherton, Ridgeway e Cassidy (1990) basata sulla presentazione di cinque storie (più una introduttiva) che evocano tematiche importanti relative all’attaccamento. Ogni storia dura all’incirca tre minuti e viene presentata al soggetto attraverso l’utilizzo di “pupazzetti” tipo playmobil come se rappresentassero i membri della famiglia. Le tematiche sono le seguenti: il succo di frutta rovesciato sulla tavola (che provoca il rimprovero della mamma); il ginocchio ferito (che attiva i comportamenti di attaccamento e la ricerca di protezione); il mostro in camera da letto (indaga la reazione di paura); la partenza (indaga l’ansia di separazione); il ricongiungimento (indaga le modalità con le quali il bambino si riavvicina alla figura d’attaccamento). L’intera procedura è videoregistrata e successivamente codificata. Viene valutata la rappresentazione generale dell’attaccamento piuttosto che l’attaccamento a una persona specifica. La Security Scale (SS) elaborata da Kerns, Klepac e Cole (1996) è un questionario di 15 affermazioni che intendono valutare il grado di sicurezza percepito dai bambini di età compresa tra gli 8 e i 14 anni all’interno delle relazioni di attaccamento con la madre e con il padre. In ogni frase il soggetto deve scegliere tra quattro possibilità quella che si avvicina maggiormente alla propria esperienza. Da alcuni anni esiste una versione italiana (Calvo 188 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale... 1998) che ha dimostrato buone caratteristiche psicometriche (adeguata consistenza interna e stabilità testretest). Lo strumento non individua uno specifico stile di attaccamento, ma piuttosto valuta la percezione di sicurezza nei confronti dei genitori all’interno di un continuum. L’Attachment Interview for Childhood and Adolescence (AICA) conosciuta in Italia come Intervista sull’Attaccamento in Latenza (IAL) sviluppata da Ammaniti e collaboratori (1990). Un’intervista semistrutturata derivata dalla AAI adattata per i bambini in età scolare, i preadolescenti e i giovani adolescenti. Come nella procedura originale l’intervista viene audioregistrata e successivamente trascritta in ogni particolare. La struttura e la sequenza delle domande rimangono le stesse, ma il linguaggio è semplificato ed alcune domande sono modificate o eliminate in quanto poco pertinenti per un soggetto di quell’età. La durata della procedura varia dai 15 ai 30 minuti e risulta più breve della versione per adulti. Lo School-aged Assessment of Attachment (SAA) sviluppato da Patricia Crittenden (1997-2005). Una procedura che utilizza 7 disegni su cui sono raffigurate minacce comuni per bambini in età scolare: uscire da soli, traslocare, essere rifiutati dal miglior amico, il bullismo, il padre che se ne va di casa, fuggire di casa, la madre ricoverata all’ospedale. Le domande indagano la sequenza di eventi, i sentimenti, i punti di vista di diverse persone, il motivo per cui la persona ha fatto ciò che ha fatto e cosa farebbe se una situazione simile si presentasse di nuovo. Lo strumento valuta la capacità di integrazione concreta specifica dei bambini in età scolare (dai 6 ai 12 anni) ed è stato utilizzato per differenziare bambini con sviluppo normale da soggetti in condizioni di rischio psicosociale temporaneo o a lungo termine. L’Attachment Movie Test (AMT) (Baldoni, 2005c). Uno strumento di valutazione dell’attaccamento che si avvale della visione di alcuni filmati e pone il soggetto in una condizione standardizzata di moderato stress, impedendogli di riflettere eccessivamente sulle proprie risposte in modo da ridurre al minimo l’interferenza conscia. L’obiettivo non è classificare lo stile di attaccamento, ma valutarne alcune dimensioni significative. La procedura consiste nella visione di 9 brevi filmati alla fine di ognuno dei quali si chiede al soggetto di compilare una scheda. I filmati si riferiscono alle stesse tematiche analizzate dall’AAI : Famiglia dell’infanzia; Relazione con la madre; Relazione con il padre; Intimità – Sesso; Solitudine – Isolamento; Esperienze di separazione; Pericolo – Danno; Lutto – Morte; Futuro – Capacità di integrazione. La scheda compilata alla fine di ogni filmato è strutturata in 15 domande formulate su scala Likert da 1 a 10. Un’ulteriore domanda chiede al soggetto quale personaggio del filmato ha suscitato il suo maggiore interesse. I punteggi ottenuti alle 9 schede (una per filmato) vengono organizzati in 9 scale: 1) Affetti negativi del Sé (Ansia-Paura; Rabbia); 2) Coinvolgimento/Distanziamento; 3) Prospettiva Cognitiva/Emotiva; 4) Punto di vista degli altri/del Sé; 5) Rappresentazione positiva/negativa del Sé; 6) Rappresentazione positiva/ negativa degli altri; 7) Disagio nelle relazioni; 8) Tristezza-Depressione; 9) Riflessione. La procedura richiede circa un’ora di tempo e può essere utilizzata dalla preadolescenza all’età adulta anche in soggetti con capacità cognitive e culturali limitate. Il Separation Anxiety Test (SAT) Il Separation Anxiety Test fu originariamente sviluppato da Hansburg nel 1972 per gli 189 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale... adolescenti, poi rielaborato da Klansbrun e Bowlby nel ’76 e ulteriormente modificato da Main, Kaplan e Cassidy nell’85 per bambini dai 4 ai 7 anni e da altri autori per la fascia di età dagli 11 ai 14 anni e per giovani adulti (Hansburg, 1972; Reznick, 1993; Attili, 2001). Nella sua forma originale, quella di Hansburg il test consentiva soltanto di individuare alcune caratteristiche di personalità alcuni fattori di rischio di esiti psicopatologici in adolescenti di età compresa tra 11 e 17 anni. La prova era costituita da 12 vignette nelle quali erano rappresentate scene di separazione tra il ragazzo e i genitori (in alcune era il ragazzo a lasciare i genitori, in altre erano questi ultimi ad allontanarsi). La maggior parte delle vignette si riferivano a situazioni abbastanza comuni nella vita di un ragazzo, ma alcune rappresentavano situazioni veramente drammatiche (ad esempio un’ambulanza portava via la madre in ospedale). Klansbrun e Bowlby, al fine di rendere la prova più adatta anche a bambini più piccoli, trasformarono le vignette ad inchiostro in fotografie realistiche in bianco e nero. Si trattava di due serie da 6 foto (una serie per i maschi ed una per le femmine) tratte da celebri film dell’epoca che rappresentavano situazioni in cui il bambino/a è lontano o si sta separando dai genitori per un tempo più o meno lungo. Tre foto, per ogni set, rappresentavano separazioni che possono dare sconforto e che gli autori avevano codificato come “severe” (S) e tre separazioni di intensità medie, “mild” (M): mm i genitori escono per la serata e lasciano il bambino/a a casa (M); mm il padre o la madre vanno via per il we e lasciano il bambino/a con la zia (S); mm è il primo giorno di scuola ed è il momento di separarsi dal genitore (S); mm i genitori partono per due settimane e prima danno un regalo al bambino/a (S); mm il bambino/a è nel parco con i genitori e questi gli chiedono di allontanarsi perché vogliono parlare un po’ da soli (M); mm il padre mette il bambino/a a letto (M). Ai bambini venivano mostrate le tavole con le foto in successione e descritte le scene, successivamente ogni soggetto era invitato a dire cosa prova il bambino raffigurato nella foto (reazoni emotive) e come si sarebbe comportato una volta che i genitori si fossero allontanati (reazioni comportamentali), valutando soprattutto la comunicazione verbale e le modalità in cui il contenuto verbale è strutturato. Osservando le risposte attraverso un abbastanza complesso processo di codifica (che individuava prima14 categorie di risposta, successivamente raggruppate in 6 classi: attaccamento, mancanza di autostima, ostilità, fidarsi di sé stesso, evitamento, ansia) era possibile determinare lo stile di attaccamento del soggetto esaminato. Un bambino con Attaccamento sicuro infatti, normalmente non ha difficoltà ad ammettere che il bambino raffigurato possa provare dispiacere o ansia per la separazione, ma affermerà con certezza che il bambino, successivamente, sarà perfettamente in grado di orientarsi nella nuova situazione. I bambini con attaccamento insicuro riporteranno invece emozioni esagerate ed incapacità ad esplorare nuove situazioni, oppure attribuiranno al personaggio una quasi totale assenza di emozioni e una improbabile autonomia. Utilizzando la versione adattata da Reznick su un campione di studenti adolescenti, Freeman (1997) ha, inoltre, evidenziato che i soggetti sicuri (B) sembrano indicare più facilmente come principale figura di attaccamento nell’80% dei casi i genitori; i soggetti insicuri distanzianti (A) un amico o un fratello oppure se stessi; i preoccupati (C) un fratello o un amico (2/3 dei casi) o un genitore (1/3 dei casi). In questa fascia d’età, quindi, solo una minima parte dei soggetti insicuri riconosce nel proprio genitore una figura d’attaccamento. Considerato, però, che queste ri190 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale... sposte rappresentano dichiarazioni auto-valutative che non coincidono necessariamente con le rappresentazioni e gli schemi inconsci dei Modelli Operativi Interni. Nelle circostanze di pericolo, infatti, i soggetti insicuri di quest’età sembrano comunque continuare a rivolgersi alle proprie figure parentali. La versione italiana più nota è quella formulata da Grazia Attili nel 2001. L’autrice, pur mantenendo la differenziazione introdotta da Bowlby di scene maschili (B) e scene femminili (G), inserisce diverse modifiche, in primis ritrasformando le foto in immagini stilizzate al computer in modo da mantenere neutre le espressioni facciali. La scelta delle vignette viene motivata in base a due ordini di ragioni; da un lato le foto rappresentavano figure vestite con i costumi dell’epoca ed in contesti che si sarebbero mal adattati alle esperienze di un bambino o di un adolescente di oggi, dall’altro le vignette, in quanto volutamente più ambigue sono in grado di elicitare maggiormente meccanismi di tipo proiettivo. La Attili, inoltre, individua un’ulteriore categoria di attaccamento, definita Confuso (Co) che si aggiungerebbe a quelle identificate dalla Ainsworth (sicuro, ambivalente ed evitante) e della Main (disorganizzato). Questo stile sarebbe caratterizzato dalla difficoltà ad individuare in maniera chiara la connotazione dell’esperienza di separazione e l’emozione ad essa corrispondente. I bambini che manifestano questo modello di attaccamento, darebbero risposte incongruenti, con emozioni duplici o esprimerebbero reazioni comportamentali non in linea con le reazioni emotive da se stessi precedentemente descritte. Nel Modello della Attili, il test viene somministrato in interazione faccia a faccia col soggetto. Tre vignette rappresentano separazioni brevi (M) e tre separazioni lunghe (S). Le tavole vengono mostrate una alla volta e ne viene descritto il contenuto, indicando i personaggi (“…questa è la zia, … questa è la madre…”) e rendendo chiara la situazione, alternando una situazione M a una S: mm B1/G1: in questo disegno il papà e la mamma vanno fuori per la serata e lasciano il bambino/a casa, qui stanno uscendo e lo salutano (M) (S); mm B2/G2: questo è il primo giorno di scuola, ci sono la maestra ed i compagni. La mamma ha appena lasciato il bambino/a (M) mm B3/G3: il padre e la madre vanno via per il we, per due giorni, e la madre ha portato il bambino/a a stare dalla zia. Qui il bambino/a e la madre si stanno salutando (S); mm B4/G4: il bambino/a è andato al parco con i genitori. Qui gli stanno chiedendo di allontanarsi e di giocare un po’ da solo, perché vogliono starsene per conto loro a parlare (M); mm B5/G5: i genitori stanno per andare via per due settimane e lasciano il bambino/a a casa, prima di partire, però, gli fanno un bel regalo. Qui si stanno salutando (S); mm B6/G6: la mamma porta il bambino/a a letto, lo saluta e poi lo lascia nella stanza (M). Dopo la presentazione e descrizione della tavola al soggetto vengono poste quattro domande, due relative alle reazioni emotive e due a quelle comportamentali : mm secondo te cosa prova questo bambino?; mm perché pensi che questo bambino provi questo?; mm che cosa pensi che faccia ora questo bambino?; mm secondo te cosa farà dopo questo bambino?...quando rivedrà la madre…quando si riavvicina ai genitori…quando i genitori torneranno…se la madre decidesse di rimanere nella stanza…? Per tutte le sei tavole, dopo aver formulato le domande standard, a seconda dell’età del 191 I test di valutazione dell’attaccamento in età scolare ed adolescenziale... soggetto, è possibile riproporre le domande in maniera personalizzata (“ cosa proveresti tu se fossi questo bambino?...). Le risposte vengono registrate e trascritte su una scheda di risposta messa appunto dalla stessa autrice. Le risposte relative alle reazioni emotive vengono classificate in 17 categorie, successivamente raggruppate in 8 classi (attaccamento, mancanza di autostima, ostilità, fidarsi di sé stesso, evitamento, ansia, ansia incontrollabile/angoscia, confusione) cui vengono attribuiti dei punteggi che vanno da -2 a +2. Viene attribuito punteggio -2 a risposte che descrivono un attaccamento a rischio, ovvero disorganizzato e evitante (mancanza di autostima, fidarsi di se stesso in situazioni severe, ansia incontrollabile/ angoscia, confusione); -1 a risposte relative ad attaccamenti ambivalenti; +1 a risposte di norma suscitate da una separazione in funzione della durata; +2 ad attaccamenti perfettamente sicuri (classe attaccamento sulle situazioni S e fidarsi di se stesso sulle situazioni M) Le risposte di coping comportamentale sono codificate in accordo a tre categorie: 1. attività appropriate; 2. attività di controllo; 3. attività inappropriate (pessimismo irrealistico, ottimismo irrealistico, evitamento, mancanza di azione, pessimismo catastrofico). In questo caso l’attribuzione di punteggio andrà da -1 per almeno tre risposte di attività inappropriate a 0 per un numero di riposte appropriate maggiore di quelle inappropriate. Elaborando infine i punteggi sarà possibile evidenziare: mm Attaccamento Sicuro (B), per almeno 4 risposte di tipo attaccamento in S e fidarsi di se stesso in M o in S ma seguito da giustificazione appropriata (es. “perché comunque sta con la zia a cui vuol bene”) e attività di coping appropriata; mm Attaccamento Insicuro Ambivalente (C), per almeno 4 risposte di tipo attaccamento in M, seguite da attività inappropriate o ostilità, o ansia incontrollabile/angoscia; mm Attaccamento Insicuro Evitante (A), per almeno 4 risposte riconducibili a evitamento, fidarsi di se stesso in S o in M in modo inappropriato, azioni di coping prevalentemente pseudo mature, ottimismo irrealistico, mancanza di azione ; mm Attaccamento Disorganizzato (D), o A/C per almeno 4 risposte di tipo attaccamento in M, ansia, mancanza di autostima, almeno 2 di ansia incontrollabile e angoscia e di confusione con copyng inappropriato; mm Attaccamento Confuso (Co), per almeno 4 risposte riconducibili ad a attaccamento in M, ansia incontrollabile/angoscia; almeno 2 di confusione, coping con pessimismo catastrofico o mancanza di azione. 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Masson (con E.Giusti e C. Montanari), “Counseling scolastico integrato” (con C. Quaranta), Microcounseling e microcoaching (con F. Germano), Praticare il tempo (con K. De Luca), Psicoterapia e Counseling. Comunanze e differenze (con E. Giusti). Si occupa di clinica a livello individuale, di coppia e di gruppo, formazione e supervisione per psicoterapeuti, operatori socio-sanitari, counselor e professionisti della salute mentale. Esercita la libera professione a Roma in Via Alessandra Macinghi Strozzi, 42/A, 00145 – [email protected] - [email protected]. Giuseppe Itri Psicologo clinico e di comunità, Specializzando in psicoterapia. Counselor specializzato per l’età evolutiva. Conduce laboratori nella scuola primarie e secondaria, finalizzati alla promozione del benessere psicologico e alla prevenzione del disagio giovanile. Collabora con ASPIC per la SCUOLA svolgendo attività di sostegno psicologico con adolescenti e nei disturbi dell’alimentazione e del peso e conducendo gruppi di ludo-counseling con genitori e figli. Responsabile del Centro di Psicodiagnostica computerizzata dell’ASPIC per la SCUOLA. Svolge privatamente l’attività di psicologo. [email protected] Abstract Il lavoro presentato descrive i risultati derivanti dalla somministrazione abbinata di due test, quello relativo ai profili di personalità descritti attraverso il test di Millon – MCMI-III e 195 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... quello sugli stili di relazione e di attaccamento che emergono dal test semiproiettivo 9AP di Candilera. Dopo un breve descrizione del test di Millon e del 9AP, vengono descritti i profili di due soggetti ai quali sono stati somministrati i due test. Il binomio testologico consente di definire un profilo diagnostico accurato e un efficace piano di trattamento basato sulle specifiche caratteristiche cliniche e sulle risorse. Keywords: profili di personalità, atteggiamenti relazionali, attaccamento, indicazioni cliniche. La somministrazione del 9 Attachment Profile (Candilera, 2007), associato al MillonMCMI-III costituisce una valida batteria testologica per la definizione di un profilo diagnostico accurato e l’impostazione di un efficace piano di trattamento personalizzato (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004). L’integrazione dei dati rilevabili con i due test può contribuire in modo sostanziale ad avviare e condurre un piano terapeutico basato sulle caratteristiche specifiche del paziente (Norcross, 2012), mettendone in evidenza convinzioni, aspettative relazionali e comportamenti affettivi e sociali. Il MCMI-III (MILLON CLINICAL MULTIAXIAL INVENTORY – III) è un test di personalità con una struttura multiassiale che in questo aspetto ricalca quella del DSM-IV. La distinzione categoriale delle scale del test riflette la suddivisione fra Asse I e Asse II. Si tratta di un questionario composto da 175 item a doppia alternativa di risposta “vero/falso”, distribuiti in 24 scale e 4 indici di correzione. La peculiarità del test, che lo rende quasi unico nel genere, è il forte collegamento tra teoria e tassonomia. Lo schema tassonomico infatti è basato su una teoria evoluzionistica di personalità, che consente di valutare lo stile di personalità di un individuo indipendentemente dalla presenza della psicopatologia e dalle sue capacità di coping (Choca, Van Denburg, 1996; Choca, 2004). Con il test di Millon (1969; 1999; Millon, Bloom, 2008) si delineano 8 prototipi di stili di personalità piuttosto che un sistema basato su singoli tratti. Pattern di personalitá clinica 1 Schizoide 2A Evitante 2B Depressiva 3 Dipendente 4 Istrionica 5 Narcisistica 6A Antisociale 6B Sadica (Aggressiva) 7 Ossessivo-Compulsiva 8A Negativistica (Passivo-Aggressiva) 8B Masochistica (Autofrustrante) 196 Grave patologia della personalitá S Schizotipica C Borderline P Paranoide Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Le scale: Sindromi cliniche A Ansia H Somatizzazione N Bipolare: Mania D Distimia B Dipendenza da Alcol T Dipendenza da Droghe R Disturbo Post-traumatico da Stress Sindromi cliniche gravi SS Disturbo del Pensiero CC Depressione Maggiore PP Disturbo Delirante Gli indici di modifica forniscono informazioni sulla validità del protocollo. X Apertura Y Desiderabilità ZAutosvalutazione V Validità Le undici scale che vanno dalla 1 alla 8B permettono un inquadramento diagnostico rispetto all’Asse II del DSM-IV. Le scale S, C e P misurano stili di personalità particolarmente rigidi e disadattivi. Le scale dalla A alla R sono invece pertinenti alla misurazione di alcune sindromi cliniche dell’Asse I, a complemento delle quali vi sono le tre scale SS, CC e PP che indicano la presenza di sindromi cliniche particolarmente invalidanti o gravi. Applicabilità del test Il MCMI-III può essere utilizzato con pazienti (dai 18 anni) anche in condizione di ricovero e in psichiatria forense per: delineare il livello di patologia della personalità; valutare l’interazione fra disturbi di Asse I e Asse II, basandosi sul sistema di classificazione del DSM-IV; identificare le caratteristiche più profonde e pervasive della personalità, sottostanti la sintomatologia manifesta del paziente; ottenere una comprensione integrata delle relazioni che intercorrono fra caratteristiche di personalità e sindromi cliniche, per favorire l’individuazione del trattamento. Le 8 scale di Pattern di Personalità misurano le convinzioni di base che le persone hanno su se stesse e sul mondo, dalle quali derivano modelli di pensiero, modi di sentire e comportamenti compatibili con questa visione del mondo. Gli stili di personalità non sono quindi entità patologiche. Le 3 scale di Grave Patologia della Personalità (schizotipica, borderline, paranoide) non rappresentano uno stile di personalità, ma misurano un vero e proprio disturbo e sono associate a un funzionamento patologico. Le 7 Scale delle Sindromi Cliniche sono associate a ciò che la persona lamenta e sono all’origine di diagnosi sull’Asse I del DSM IV-TR. Le 3 scale delle Sindromi Cliniche Gravi (disturbo del pensiero, depressione maggiore, disturbo delirante) misurano la presenza dei sintomi psicotici (Millon, Davis, Millon, 2008). Il test di Millon è uno strumento diagnostico costruito in conformità con la nosologia ufficiale: le scale sono raggruppate in categorie di personalità (ASSE II DSM IV-TR) e per psicopatologie specifiche (ASSE I, DSM IV-TR). Le informazioni derivanti dal report sono a due livelli: permettono di individuare la necessità di approfondimenti diagnostici o di una 197 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... maggiore attenzione clinica. Le diverse dimensioni presenti nelle scale possono costituire una base per esprimere giudizi sulla gravità e la cronicità di una patologia e l’eventuale deterioramento provocato. Le informazioni contenute in ogni referto rappresentano una serie di giudizi sperimentali e probabilistici da integrare con altri dati clinici come:circostanze di vita, comportamento osservato, anamnesi, risultati di altri test (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Limiti: un self report non potrà mai essere una fonte assoluta di dati (pazienti simili possono interpretare in modo diverso le stesse domande; lo stato affettivo al momento della somministrazione; lo sforzo del paziente per apparire in un certo modo). Il MCMI è stato progressivamente strutturato in considerazione di questi dati e i suoi risultati risultano corretti per il 55%-65%, validi nel 25-30% e non corrispondenti nel 10-15% dei casi). Le variazioni dei livelli di accuratezza riflettono le difficoltà di rilevazione di un disturbo al momento della valutazione, come per esempio se si deve identificare un disturbo personalità istrionica in un paziente in fase depressiva. I profili individuano soggetti con media gravità clinica perché sia i punteggi soglia, sia le interpretazioni sono rivolti alla maggioranza dei pazienti a cui viene somministrato il test. Questo va a scapito dell’accuratezza diagnostica e interpretativa di quei soggetti che si situano nella zona più bassa e in quella più alta della curva. La teoria evoluzionistica dei disturbi di personalità Gli stili di personalità si collocano all’interno di un sistema dimensionale individuato da tre polarità: Piacere-Dolore, Attività-Passività, Sé-Altro. Forme deficitarie, sbilanciate o conflittuali di adattamento all’ambiente in cui si vive e di strategia riproduttiva possono essere utilizzate per spiegare struttura e disturbi di personalità. Sviluppo e funzioni dei tratti di personalità possono essere efficacemente esplorati attraverso la lente dei principi evolutivi. La sociobiologia esplora l’interaccia tra funzionamento sociale umano e la biologia evolutiva. Gli stadi evolutivi Esistenza: collegata al passaggio casuale da stati indistinti o meno organizzati a stati in cui sono presenti strutture ben distinte o maggiore organizzazione. La fase dell’esistenza interessa il mantenimento dei processi di integrazione (di particella nucleare, virus o essere umano) a fronte di un ambiente caratterizzato da entropia. I meccanismi evolutivi derivanti da questo stadio riguardano i processi di miglioramento della qualità della vita e i processi di preservazione della vita stessa, i quali orientano i soggetti allontanandoli da azioni o da ambienti che peggiorano o minacciano l’esistenza stessa. Questa è la bipolarità “PIACERE-DOLORE” degli scopi esistenziali. Ci sono persone che vivono situazioni conflittuali in relazione agli scopi e persone che invertono le polarità (es.: il sadico-aggressivo, il masochista), mentre altre possono manifestare un deficit in entrambi questi substrati cruciali (es.: lo schizoide). Nella fase evolutiva dell’attaccamento sensoriale avviene la discriminazione, ampiamente innata e automatica, tra gli indicatori del dolore e quelli del piacere. Adattamento. Si riferisce ai processi omeostatici utilizzati per consentire la sopravvivenza negli ecosistemi aperti (soggetti a cambiamenti). Una volta che la struttura esiste si deve mantenere in vita attraverso scambi di energia e informazioni dall’ambiente. Anche la modalità di adattamento ha una sua bipolarità “Attivo-Passivo”: la propensione (attiva) a intervenire sull’ambiente e a modificarlo oppure la tendenza (passiva) a rifugiarsi e restare nella propria nicchia ecologica. Nella fase evolutiva dell’autonomia sensomotoria il bam198 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... bino acquisisce l’attitudine più attiva verso il suo contesto fisico e sociale oppure mantiene uno stile di esistenza dipendente più simile a quello prenatale o infantile. Replica. Stili riproduttivi che potenziano al massimo la diversificazione e la selezione degli attributi rivelatisi efficaci da un punto di vista ecologico. Per superare la finitudine temporale gli organismi viventi hanno sviluppato le strategie di replica attraverso la progenie. A un estremo si trova la strategia R o di auto-propagazione e all’altro estremo la strategia K o di allevamento dell’altro. Sul piano psicologico alla prima strategia (polarità “Sé”) fanno riferimento azioni egoistiche, insensibili, sconsiderate e noncuranti dell’altro, mentre la seconda (polarità “Altro”) implica moti di aggregazione, intimità, protezione, impegno. Alcuni disturbi di personalità sono caratterizzati dal conflitto tra le due polarità (es.: compulsivo, negativista, passivo-aggressivo). Nella fase evolutiva puberale di identificazione sessuale si definisce l’atteggiamento verso sé o verso gli altri. Il prototipo di personalità evitante si colloca vicino ai versanti Sé, Attività e Dolore. La personalità evitante pur avendo desiderio dell’altro si allontana in maniera attiva da esso per paura del rifiuto. La personalità istrionica ha bisogno dell’altro e in particolare della sua attenzione e tende a creare forti legami (ma non intimi) in maniera attiva; al contrario la personalità narcisistica assume una modalità attiva poiché si vede superiore all’altro e il legame per lui è come se le fosse “dovuto” (Millon, Davis, Millon, 2008). Astrazione: emergere di competenze che favoriscono una pianificazione anticipatoria e una ragionevole formulazione di decisioni. Domini funzionali e strutturali: nella prospettiva di Millon la personalità è un costrutto multideterminato e multireferenziale che può essere studiato e valutato osservando e descrivendo ambiti (funzionali e strutturali) e livelli (comportamentale, fenomenologico, intrapsichico, biofisico), contestualizzati in un’unica unità integrata funzionale e strutturale dell’organismo. I pazienti variano per il grado in cui si avvicinano al prototipo di personalità e per quanto i vincoli incontrati in ciascun ambito contribuiscono a modellare il loro comportamento complessivo. Lo scopo della valutazione è far luce sui limiti che mantengono il funzionamento ridotto e rigido del “sistema personalità” e la conseguente incapacità di adattamento flessibile. Lo scopo della terapia dovrebbe essere quello d allentare queste specificità facilitando l’assunzione di una maggiore varietà di stati o comportamenti adattivi nelle diverse situazioni. Domini funzionali: rappresentano i modi espressivi di un’azione regolatoria, comportamento, condotta sociale, processi cognitivi e meccanismi inconsci che gestiscono, adattano, trasformano, coordinano, regolano, equilibrano e controllano il dare-avere della vita interna ed esterna. Domini rilevanti per i disturbi di personalità: azioni espressive, condotta interpersonale, stile cognitivo e meccanismi regolatori (auto-protezione, gratificazione, risoluzione del conflitto) Domini strutturali: rappresentano uno schema profondamente integrato e duraturo di ricordi, atteggiamenti, bisogni, paure, conflitti, ecc. che guidano l’esperienza e trasformano la natura degli eventi: gli eventi presenti sono percepiti come riedizioni, “variazioni sul tema” del passato, che guida, forma, distorce il carattere della realtà del momento attuale. Memorie e affetti associati con le concezioni su di sé e sugli altri, costituiti come substrato e disposizione all’azione di natura quasi permanente: Immagine di sé: la spinta evolutiva verso il senso di continuità e ordine nella percezione 199 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... di sé, l’identità (chiarezza, accuratezza e complessità della capacità introspettiva). Rappresentazione di oggetto: rappresentazioni interiorizzate di figure e rapporti significativi del passato (termini descrittivi come: superficiale, irritante, riservato, inconciliabile). Organizzazione morfologica: architettura psichica riferita alla forza delle strutture, alla congruità interna e all’efficacia funzionale del sistema personalità (rilevazione di punti di debolezza, scarsa coesione strutturale, coordinazione tra le componenti, carenza di equilibrio e armonia) Umore/temperamento: umori e sensazioni che pervadono insidiosamente rapporti ed esperienze attuali. Elementi espressivi dell’umore, come turbato, stabile, incostante, ostile, sono rilevabili indirettamente dal livello di attività del soggetto, dalla qualità del suo linguaggio e dalle manifestazioni fisiche. Questo parametro permette di evidenziare le polarità piacere-dolore e attivo-passivo (ibidem). Di seguito alcuni schemi e relative spiegazioni delle caratteristiche evolutive di adattamento dei diversi stili di personalità (Fig. 1,2,3,4) Fig. 1 Personalità distaccate. Entrambi i prototipi di personalità (schizioide, evitante) tendono a instaurare legami relazionali deboli, si differenziano nella modalità di adattamento. Lo stile schizoide tende ad essere solitario per apatica mancanza di iniziativa, distacco dal bisogno di ricompensa, mentre lo stile evitante si isola per difendersi dalla possibilità di essere ferito e provare dolore come risultato della relazione (rispetto alla quale nutre timore e sfiducia). Nonostante il desiderio di stabilire relazioni ha imparato a negare questi sentimenti e a mantenersi a una distanza interpersonale di sicurezza. 200 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Fig 2 Le personalità dipendenti I prototipi di personalità Dipendenti tendono a costruire forti legami relazionali con un alto investimento affettivo. Cambia il tipo di relazione a seconda della convinzione che la persona ha di Sé e dell’Altro nel suo ambiente. Il Prototipo Dipendente crede che gli altri siano più capaci e perciò stabilisce relazioni di sottomissione e attribuisce all’altro la responsabilità e il potere di scegliere per lui e garantire affetto, sicurezza e guida. L’Istrionico ha forte bisogno dell’attenzione altrui, che conquista con intraprendenza attiva sugli eventi, non assume un atteggiamento remissivo, piuttosto manifesta comportamenti sociali di fiducia in sé e autostima che in realtà mascherano la paura dell’autonomia e un forte bisogno di riconoscimento e affetto. Fig. 3 Personalità Indipendenti I prototipi di personalità Indipendenti caratterizzano persone che mostrano di credere 201 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... di essere più capaci, dotate e affascinanti. Il narcisista ha come fonte di piacere la concentrazione passiva su se stesso, è incline a dire agli altri cosa fare, anche sfruttandoli a proprio vantaggio, convinto che debba essere riconosciuta la propria superiorità. Questo atteggiamento fa richiedere poche conferme di risultati reali o di approvazione sociale. L’antisociale tende a vedere il mondo come un luogo di competizione in cui, per ottenere i propri scopi, è necessario essere forti e dominanti anche a costo di “ferire” gli altri, questo per contrastare le aspettative di dolore e danno che teme di subire da un Altro inaffidabile e sleale. Fig. 4 Le personalità ambivalenti I prototipi di personalità Ambivalenti descrivono la personalità ossessivo-compulsiva e negativistica (passivo-aggressiva). La prima reprime il risentimento (conflitto tra ostilità verso l’Altro e timore della disapprovazione) si relaziona in maniera dipendente/deferente verso chi occupa un rango più elevato, mentre assume un atteggiamento indipendente o autoritario verso chi ha uno status meno elevato. L’aperta passività e l’apparente conformismo sociale celano intensa rabbia e ostilità che a volte può generare episodi esplosivi. La personalità negativistica si considera inadeguata e bisognosa e nutre scetticismo sulle capacità degli altri, in lotta tra desiderio di ottenere i benefici offerti dalla relazione e la voglia di seguire i propri desideri (conflitti vicino alla coscienza). Indecisi tra obbedienza e contrapposizione, si comportano alternando rabbia esplosiva e ostinazione a sensi di colpa, vergogna e apparente cooperatività. Il MCMI-III comprende la misura di tre pattern di personalità gravi (patologici), schizotipico, borderline e paranoide per descrivere stadi più avanzati di patologia della personalità (Fig. 5). Questi disturbi infatti si differenziano dai disturbi di base per la presenza di deficit della capacità sociale e per la frequenza di episodi psicotici. Soggetti affetti da tali disturbi sono meno integrati a livello della struttura della personalità. Hanno strategie di coping meno efficaci e sono quindi più vulnerabili ai conflitti con l’ambiente (Choca, 2004). 202 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Fig. 5 Prototipi di personalità scompensate (ad.to da: Choca, 2004) La diagnosi implica l’analisi della funzionalità del modello di personalità. Per distinguere le strutture di personalità funzionali da quelle disfunzionali si rileva il livello della flessibilità adattiva. Quando la persona è in grado di comportarsi in maniera flessibile e usare tratti di personalità che non sono prevalenti nella propria struttura in risposta a specifiche richieste ambientali, con molta probabilità ottiene esiti positivi di successo adattivo, rispetto a chi tende a comportarsi prevalentemente o quasi esclusivamente in maniera ego-sintonica (Spalletta, 2010). Si potrebbe anche postulare che la rigidità conduce alla psicopatologia. 203 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Interpretazione 1 Formulazione diagnosi Primo passo: esaminare i picchi Punteggi BR tra 60 e 74: sintomi patologici della scala ma non sufficientemente indicativi degli stessi a meno che non siano i punteggi più alti in questo segmento del profilo. Tra 75 e 84: presenza sindrome clinica della scala Da 85 in poi: chiara conferma della presenza di sintomi patologici (stile rigido). Picchi nelle scale narcisistica, istrionica, ossessico-compulsiva possono indicare sia risorse sia patologia. Problemi: queste persone si descrivono in modo favorevole, tendono a minimizzare i problemi e a negare le difficoltà. Presentano tratti di adattabilità anche in presenza di intensità, diversamente da personalità poco patologiche ma molto rigide (antisociale, negativistica, sadica). Mentre i tratti sadici sono sempre problematici, livelli moderati di autostima e socievolezza sono considerati positivi (indici di salute), troppo alti o troppo bassi indicano difficoltà di adattamento. Quando i punteggi sono tutti bassi, non c’è nessuno stile che predomina ma diversi tratti possono manifestarsi in occasioni diverse. Lo svantaggio di questa condizione risiede nella perdita della risorsa dell’automatismo (per cui il soggetto in ogni situazione spende ogni volta molta energia per adattarsi alle circostanze). Dopo lo stile si valuta la gravità (S, C, P), poi le sindromi cliniche (quando le scale di ansia e distimia sono elevate, anche se non ci sono picchi nei pattern di personalità clinica, deve essere considerata la possibilità di un disturbo di personalità), poi le sindromi cliniche gravi -personalità scompensate (disturbi del pensiero, depressione, maggiore, disturbo delirante). Quando due o tre scale hanno elevazione simile si considerano gli item prototipici (Millon, Davis, Millon, 2008). 2. Configurazioni delle scale di personalità Quando molte scale sono elevate oltre BR 75, va data priorità a 2 o 3 che possono essere considerate come disturbi, le altre, più basse ma sempre sopra i 75 BR, potranno essere considerate come stili: occasionalmente e in alcuni contesti la persona potrà manifestare i tratti caratteristici di questi disturbi. 3. Gravità e funzionalità delle personalità patologiche Quanto più è alto il numero delle scale con un BR > 75 tanto più è estesa la patologia della personalità. Elementi caratterizzanti la patologia: minore stabilità in situazioni di stress soggettivo; mancanza di flessibilità. Gli schemi patologici di personalità creano circoli viziosi di mantenimento e aggravamento delle difficoltà (costrizione protettiva, distorsione cognitiva e generalizzazione limitano nuovi apprendimenti, deformano eventi positivi, per provocare negli altri reazioni che riattivano problematiche vecchie). Sindromi cliniche: scale A – R Le 24 scale cliniche sono suddivise in 4 segmenti principali, ciascuno dei quali è seguito da un doppia barra (//). Le scale dei pattern di personalità clinica (1-8B), le scale di grave patologia della personalità (SCP), le scale delle sindromi cliniche (A,H,N,D,B,T,R) e le scale delle sindromi cliniche gravi (SS,CC,PP). 204 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... I primi due segmenti costituiscono il codice di personalità, gli altri due il codice della sindrome. CODICE PERSONALITÀ // 7 **;- *; 4 5 +; 1 6B “; 6A 8A 2A 8B 3 2B // - **;- *// CODICE SINDROME // - H**; - *// - **; - *// Punteggio BR Simbolo >=85 ** Da 75 a 84 * Da 60 a 74 + Da 35 a 59 “ <35 Nessun simbolo Stili di personalità in base all’ordine di grandezza (1-8B) Grave patologia della personalità (S, C, P) Sindromi Cliniche: (A,H,N,D,B,T,R) Sindromi cliniche gravi Nella tabella che segue (Tab. 1) vengono delineate le linee guida essenziali per avviare una relazione terapeutica efficace con i diversi stili di personalità individuati attraverso il test di Millon (ibidem). Tab. 1 Stili di personalità e linee guida terapeutiche (ad.to da: Millon, Davis, Millon, 2008). STILI INDICAZIONI PER LA RELAZIONE TERAPEUTICA DI PERSONALITÀ Stabilire un’alleanza terapeutica può essere problematico, perché questi pazienti non apprezzano le esplorazioni e gli insight che spesso sono visti come una parte importante della terapia. Tipi di tratta1 Schizoide mento che diano meno valore al rapporto emotivo o alla comprensione psicodinamica possono essere più adatti al loro approccio alla vita. Dato questo stile di personalità è preferibile un terapeuta con atteg2A Evitante giamento accogliente ed empatico che sostenga l’autostima e che 2B Depressivo riconosca i passi fatti e rispetti i tempi del cambiamento. 205 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... 3 Dipendente 4 Istrionico 5 Narcisista 6A Antisociale 6B Sadico 7 Compulsivo 206 Alla luce di questo stile di personalità ci si può aspettare che questi pazienti formino una veloce alleanza con qualunque terapeuta disposto a svolgere un benevolo ruolo genitoriale. Un approccio in cui si dà loro guida in modo comprensivo e affettuoso sarebbe sperimentato come supportivo. Ci possono essere difficoltà qualora il trattamento debba spingere i pazienti verso una maggiore indipendenza o aumentarne la capacità di competere in modo assertivo ed efficace. In questo caso possono sentirsi vulnerabili e minacciati e rispondere con comportamenti non adattivi Dato il loro stile di personalità, l’enfasi sulle formalità, come l’essere puntuali alle sedute o il mantenere una distanza interpersonale durante la seduta, probabilmente verrà sentita come non amichevole e insoddisfacente. Il terapeuta può avere bisogno di tollerare l’emotività del paziente e anche un certo grado di conflitto. Il tipo di relazione che questi pazienti sentiranno ego-sintonica è quella in cui sono al centro dell’attenzione e le dimostrazioni d’affetto e sostegno fluiscono facilmente, specialmente dal terapeuta al paziente. Dato lo stile di personalità, ci si può aspettare che stiano meglio in situazioni in cui si sentono ammirati o almeno rispettati. Se in terapia li si confronta, si deve usare molto tatto per non offendere il loro narcisismo più di quanto possano tollerare. D’altra parte c’è anche il rischio che il terapeuta dia tanto sostegno al narcisismo del paziente da non dare alcun feedback negativo, non facilitando la crescita. Così è importante trovare un modo per aiutarli ad accettare le proprie imperfezioni e a lavorare sui problemi senza sentirsi disconfermati o umiliati. Dato questo stile di personalità si consiglia al terapeuta di trattare con tatto i problemi personali o imbarazzanti per evitare che loro rispondano impulsivamente e diventino arrabbiati e vendicativi. Tali pazienti troveranno più facile stabilire una relazione terapeutica con un professionista formale, decoroso, puntuale e prevedibile. Anche tenere una certa distanza e permettere loro di controllare parti significative della seduta li farà sentire a proprio agio. Saranno probabilmente molto apprezzate spiegazioni della diagnosi, della natura del disturbo e il previsto andamento del trattamento. Può tuttavia essere difficile portarli da un’alleanza terapeutica superficiale verso una più significativa dipendenza della relazione. Aiutarli a esplorare le difese che usano o accrescere la loro capacità di permettere agli altri di mantenere il controllo può essere difficile. Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... 8A Negativista 8B Masochista Può essere utile cercare di non controllare questi pazienti poiché sono portati a reagire a qualsiasi controllo su loro, questa tattica può impedire che la relazione terapeutica diventi eccessivamente conflittuale. Possono anche trarre benefici dall’apprendere come normalmente agiscono e come tendono a proiettare i sentimenti negativi sugli altri. Attachment Profile (9AP) (Candilera, 2007). Il 9AP è un test semiproiettivo per una valutazione multidimensionale delle relazioni interpersonali e la definizione di un profilo di attaccamento. Il test propone un modo innovativo e originale di valutazione del comportamento di attaccamento. Utilizza la tecnica semi-proiettiva, attraverso tavole-stimolo, allo scopo di portare ad un livello più profondo la lettura e la rilevazione di dinamiche inconsce. Lo stimolo proiettivo rende più difficile alla persona individuare la dimensione che si vuole analizzare e ciò riduce la probabilità di una manipolazione della risposta. Le tavole raffiguranti situazioni e soggetti ambigui stimolano la memoria episodica piuttosto che quella semantica. A differenza di altri test proiettivi che implicano che le risposte aperte siano siglate e codificate a posteriori, il 9AP, al fine di poter ricavare dati oggettivi, richiede al soggetto, dopo la presentazione dello stimolo proiettivo, di esprimere la sua risposta quantificandola. Il pregio del 9AP sta nel suo aspetto quantitativo dimensionale grazie al quale si possono identificare le varie forme sfumate e di passaggio di comportamento di attaccamento che tipicamente si incontrano nella pratica clinica. Composizione delle tavole L’obiettivo delle tavole è quello di pervenire, per quanto possibile, non tanto a una descrizione di ciò che si osserva, ma a un’interpretazione soggettiva radicata all’interno di un proprio schema o sistema personale di lettura, perciò sia il luogo che le figure sono fortemente ambigue. Per ogni tavola-stimolo si ritrova un item che misura 9 dimensioni psicologiche. La presenza di un punteggio finale indicherà la tendenza del soggetto ad aver scelto aggettivi positivi nella descrizione delle figure (Sé e Altro). In sintesi, le diverse variabili del 9AP permettono di identificare a un primo livello di lettura profili relazionali con differenze specifiche e complessive relative alla rappresentazione che il soggetto ha di se stesso e dell’altro nei diversi contesti; ad un secondo livello è possibile evidenziare la presenza di dinamiche più complesse, attraverso la lettura parallela delle due schede finali in cui è il soggetto liberamente a fornire spiegazioni sul cosa sta succedendo e come andrà a finire in riferimento all’evento raffigurato sulla tavola. L’utilizzo del 9AP offre una serie di informazioni cliniche supplementari di interessante valore applicativo. Se la somministrazione del Millon -MCMI-III fornisce indicazioni relative a come il soggetto rappresenta se stesso e l’altro (Choca, 2004), il 9AP ci dice come lo stesso soggetto si rapporta all’alterità nelle diverse circostanze della vita, dalla relazione con l’autorità, alla fiducia di base, alla vicinanza, all’esposizione sociale (tematiche che emergono dalle risposte a tavole come quelle del Confronto con il Padre, con la Madre, con l’Altro, con il partner, con il gruppo ecc.) (Candilera, 2007). Le informazioni specifiche possono poi essere ricondotte allo stile di attaccamento, descrivendone sicurezza e insicurezza 207 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... nei contesti relazionali significativi (Attili, 2007). Gli stili di personalità, così come definiti originariamente da Millon, si riflettono nelle risposte proiettive stimolate dalle tavole situazionali proposte dal 9AP. Per esempio è probabile che una personalità delineata dal Millon come evitante, dia al 9AP risposte superficiali riferite alla dimensione del Sé e dell’Altro. Potremmo invece aspettarci da una personalità narcisistica un profilo di punteggio al 9AP con un alto investimento del Sé e uno scarso investimento dell’Altro. L’esperienza clinica ci dimostra che sono rari i casi in cui la persona aderisce perfettamente a una categoria clinica e l’MCMI-III non è immune da ciò (Millon, Bloom, 2008). Rientra quindi in una “normalità empirica” il fatto che l’MCMI-III evidenzi nel soggetto più di uno stile di personalità, così come anche avere un profilo multiplo, come ad esempio quello “Narcisistico-Antisociale” oppure quello “Dipendente-Negativistico-Evitante”. In quest’ultimo caso si rilevano tratti predominanti dipendenti, negativistici ed evitanti e nel 9AP molto probabilmente la persona si rappresenterà bisognosa, vedendo nell’Altro una fonte di aiuto in quanto in possesso di qualità migliori delle sue e allo stesso tempo tenderà a diffidare e a risentirsi di quella che viene percepita come una superiorità dell’altro (Choca, 2004). Il 9AP evidenzia queste rappresentazioni di Sé e dell’Altro e le modalità relazionali con cui le esprime e ci indica in quale situazione relazionale manifesta principalmente un tratto di personalità rispetto all’altro (Candilera, 2007). È possibile, infatti, che il soggetto assuma comportamenti dipendenti nei confronti degli amici e si dimostri più evitante all’interno della propria famiglia. Di seguito sono illustrati due casi in cui sono stati somministrati l’MCMI-III e il 9AP. I caso M.R. donna, 32 anni. Ottiene al MCMI-III un punteggio clinicamente significativo nella scala 7 “OssessivaCompulsiva”. Tale scala delinea il prototipo compulsivo ed è sensibile ai criteri del DSM IV della personalità compulsiva. Persone con punteggi elevati in questa scala si rappresentano, in genere, come coscienziose, dedite al lavoro, diligenti, affidabili, meticolose ed efficienti. Tendenzialmente hanno paura di sbagliare e di essere valutate negativamente, e, quindi, sopravalutano alcuni aspetti di sé, quali la disciplina, il perfezionismo, la prudenza e la lealtà. Preferiscono rapporti personali improntati alla cortesia, alla formalità e alla correttezza. Tendono ad avere spesso pensieri positivi e comportamenti socialmente irreprensibili, diametralmente opposti ai sentimenti più profondi, che, proprio per questo, sono inaccettabili. M.R. ha riferito al test che la gente pensa a lei come una persona riservata, corretta e che crede nell’importanza delle regole. Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare da questo stile di personalità M.R. non dimostra un’eccessiva o una rigida cura nella pianificazione e l’organizzazione del proprio lavoro (Fig. 6; Tab. 2). 208 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Fig. 6 Il grafico del profilo di personalità al test MCMI-III. 209 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Tab.2 I punteggi nelle scale dell’MCMI-III. 210 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Tab. 3 Le risposte al 9AP. 211 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Fig. 7 Il profilo dei punteggi al 9AP Tab 4 Situazioni e dimensioni psicologiche delle tavole del 9AP 212 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Il 9AP test presenta tutti i punteggi T, relativi alle 9 variabili psicologiche dell’attaccamento, superiori a 50, i punteggi più alti sono relativi alla rappresentazione dell’altro e in questa colonna 6 punteggi su 9 sono superiori a 60 (Tab.3, Tab. 4). Questo profilo di punteggi indica uno stile di attaccamento sicuro della persona, all’interno delle situazioni psicologiche proposte dal test, che tende ad attribuire più aspetti positivi all’altro fino ad idealizzarlo (Barone, Del Corno, 2007). Infatti punteggi superiori a 60 T indicano una prevalenza di attributi positivi. Tale rappresentazione idealizzata dell’altro è confermata anche dal punteggio riferito alla descrizione del Sé relativamente basso rispetto agli altri (Fig. 7), ma che è compreso in un range medio-basso, della seconda tavola situazionale che riflette il confronto con l’Altro. Tale tendenza della persona a idealizzare l’altro è confermata anche nel MCMI-III. Sappiamo infatti che individui con stile di personalità compulsivo tendono a minimizzare i problemi, a negare le difficoltà e a presentarsi sotto una luce favorevole. La paziente potrebbe provare la difficoltà ad ammettere le proprie debolezze e i propri difetti tentando di celare le sue difficoltà emotive ed evidenziando eccessivamente gli aspetti positivi. Tipico di tale stile di personalità è il ricorso alla formazione reattiva, per cui il soggetto tende ad avere spesso pensieri postivi e comportamenti diametralmente opposti ai sentimenti più profondi che sono per lui inaccettabili. La persona nutre una rappresentazione di sé realistica mentre ha interiorizzato una rappresentazione dell’altro idealizzata. Al tempo stesso tende a esercitare un rigido controllo della rabbia che percepisce come pericolosa in quanto potenziale causa di abbandono. Il meccanismo di negazione di alcuni suoi tratti meno attraenti spiega i bassi punteggi riscontrabili in tutte le altre scale del MCMI-III. Le informazioni derivanti dai due test consentono di indirizzare il lavoro terapeutico considerando la necessità di creare in setting sicuro e di conferma, di lavorare per costruire confini definiti di un’identità personale individuata. Il contributo del 9AP sottolinea che, a fronte di una difficoltà relazionale intima (in cui si amplificano le conflittualità), la persona ha una buona capacità di avviare e mantenere relazioni sociali soddisfacenti in cui riesce anche a chiedere e ad accogliere (o rifiutare) con autenticità quanto riceve. II Caso A. R. donna 28 anni con disturbi del comportamento alimentare. La persona ottiene al MCMI-III diversi punteggi clinicamente significativi, tali da indicare la probabile presenza di un disturbo di personalità. Nel nostro caso la persona ha ottenuto punteggi elevati nelle scale 2A (Evitante); 2B (Depressivo); 3 (Dipendente) 8B (Autofrustrante), A (Ansia) e infine R (Post-traumatico) (Tab. 5). Presa singolarmente, la presenza di tratti dipendenti di personalità, fa supporre una struttura di personalità con un’immagine povera di sé e che tende ad avere bisogno del sostegno e della guida altrui. Associata alla presenza di tratti evitanti, la stessa persona assume comportamenti di ritiro sociale come strategie passive di difesa dal timore di un rifiuto o di un giudizio negativo. A. R. potrebbe essere caratterizzata da un umore incline alla depressione e alla solitudine. Può nutrire celatamente sentimenti di rabbia verso coloro da cui dipende o da cui si è sentita rifiutata. I tratti negativistici evidenziati dal punteggio della scala Negativistica fanno pensare anche che la persona sembra combattuta tra il desiderio di ricevere aiuto 213 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... e di nutrirsi dei benefici dati dalla relazione con gli altri e la voglia di esprimere il proprio modo di essere (anche se in contrapposizione alle convenzioni o alle regole culturali). Il profilo dei punteggi ottenuto dal MCMI-III (Fig. 8) indica la presenza di un conflitto interno dovuto dalla difficoltà di integrare parti di sé contrastanti. Una parte tende ad essere remissiva per conservare l’aiuto altrui e l’altra è contraddistinta da tratti di contrapposizione aggressiva. Fig. 8 Profilo dei punteggi al Millon. 214 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Tab 5 I punteggi del Millon MCM-III Le risposte al 9AP evidenziano che la persona ha delle rappresentazioni realistiche di Sé e idealizzanti dell’Altro (Tab 6, Tab. 7; Fig. 9). Questo scarto dei punteggi è più significativo nella prima e nella terza situazione proiettiva. La persona ha dei nuclei irrisolti relativi alla 215 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... rappresentazione materna, e attribuisce qualità positive a se stessa e negative alla figura femminile. Le risposte fornite descrivono la madre come una persona fredda, incapace di offrire sostegno e affetto. Lo scarto dei punteggi ottenuto nella terza situazione psicologica (Difficoltà Altro) è in negativo, nel senso che la persona attribuisce più qualità positive all’altro. Nella tavola sul Confronto con l’Altro si percepisce adeguata e ben voluta e rappresenta l’Altro come una persona forte, robusta, capace di offrire un valido sostegno. Si nota la tendenza della persona a sovrastimare le qualità altrui. Tab. 6 Le risposte 9AP 216 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Tab. 7 Situazioni e dimensioni psicologiche al 9AP Nella quarta situazione psicologica (Difficoltà Padre) il test evidenzia una sovrastima verso l’Altro (Figura paterna). Anche la nella rappresentazione paterna utilizza termini estremamente positivi e quasi assenza di attributi negativi. Questi ultimi punteggi confermano il profilo di personalità ottenuto nel MCMI-III. Bassi punteggi sono stati ottenuti alle variabili di attaccamento “Accettazione-Rifiuto” e “Soddisfazione-Insoddisfazione”. 217 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Fig. 9 Il profilo dei punteggi al 9AP Il soggetto è sensibile al minimo segnale di rifiuto e tende a rappresentarsi sfiduciata e ostile nel momento in cui entra in contatto con l’Altro e perciò potrebbe porsi come distaccata e severa. Allo stesso tempo desidera una relazione appagante che teme a causa dei forti giudizi negativi che ha di se stessa e del timore di essere rifiutata. La presenza del disturbo post-traumatico evidenziato nel MCMI-III fa riferimento a un evento estremamente negativo in cui la persona è stata pubblicamente disprezzata da qualcuno che riteneva amico. Anche in questo caso l’integrazione delle descrizioni che emergono dai due test consente di mettere in evidenza alcune linee guida importanti per la relazione terapeutica, in cui A.R. tenderà a proporsi con una posizione esistenziale “Io non sono OK e TU non sei OK”, con un’alternanza tra svalutazioni e idealizzazioni. Il distacco che potrà mostrare la protegge da percezioni dolorose di rifiuto (Lorenzini, Sassaroli, 2009) . Il 9AP ci dice che l’investimento delle figure genitoriali è diverso e comunque difficile, con una svalutazione della madre e un’idealizzazione del padre. Accudimento come attenzione empatica e guida come adesione a regole rassicuranti saranno un territorio tutto da costruire nel setting clinico per poter costruire un’alleanza efficace (Muran, Safran, 2012). Riflessioni conclusive La combinazione del test di personalità di Millon con il 9AP, consente di mettere in evidenza aspetti patologici, atteggiamenti e risorse della persona, indicando anche in quali situazioni e contesti saprà adattarsi e funzionare meglio, quale potrà essere il tipo di legame relazionale pronta a costruire, fornendo così la direzione per arrivare a stabilire una relazione terapeutica personalizzata ed efficace per il cambiamento. 218 Applicazione del 9AP e del MIllon MCMI-III per la pianificazione del trattamento: commento... Bibliografia Attili G. (2007), Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente, Raffaello Cortina Editore, Milano. Barone L., Del Corno F. (a cura di) (2007), La valutazione dell’attaccamento adulto, Raffaello Cortina Editore, Milano. Candilera G. (2007), 9 Attachment profile. Test semiproiettivo per una valutazione muldimensionale delle relazioni interpersonali e la definizione di un profilo di attaccamento, Scione, Roma. Choca J. 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Nel tempo ha maturato esperienze professionali con adulti e adolescenti, si occupa di coppie in crisi, genitori in difficoltà e svolge attività di mediazione familiare, gruppi di arte-terapia ed espressività corporea. Abstract L’articolo illustra brevemente Ia possibilità, da parte del clinico, di utilizzare test diagnostici (in particolare il test 9AP della Candilera) quali strumenti per il lavoro terapeutico sia in situazioni di presa in carico individuale che di gruppo. L’uso del test 9AP, per Ia diagnosi dello stile di attaccamento, permette di portare “alla luce” temi importanti per i soggetti mentre l’uso di tecniche specifiche rende possibile l’attivazione del processo di consapevolezza che consente alle persone di riappropriarsi di una realtà soggettiva senza subire Ie pressione di un passato vincolante a livello interpersonale che genera sofferenza e frustrazione Keywords: teoria dell’attaccamento, stile di personalità, test proiettivo, awareness. La diagnosi è il processo attraverso il quale cerchiamo di spiegare il funzionamento psichico di un determinato soggetto utilizzando una terminologia condivisa dalla comunità scientifica. La diagnosi è importante per la pianificazione del trattamento specifico idoneo per quel tipo di paziente, quella tipologia di disturbo, ecc., fornisce informazioni sulla prognosi ed eventuali ricadute, suggerisce la possibilità di invio ad altre professionalità, ecc. Uno degli strumenti utilizzati dal clinico per giungere ad una diagnosi è l’utilizzo di test e questionari. Esistono numerosissimi test che possono essere usati dagli psicologi per “fare diagnosi”, 221 L’uso in terapia del test 9AP per la valutazione dello stile di attaccamento come strumento... ovviamente ogni test si propone di misurare “qualcosa” che riguarda l’individuo. Esistono i test di personalità (es. la batteria di test oggettivi di Cattel 1965 - l’MMPI prima stesura di Hathaway e Mc Kinley 1942 - SWAP- 200 di Schedler e Westen, 2003), i test di abilità generale o di livello (es. scale Wechsler, 1939-44 e succ. adattamenti) , i test per misurare i livelli di ansia (es. STAI – State Trait Anxiety Inventory di Spielberger, 1989), ecc., ci sono test per bambini e test per adulti. Tutti i test hanno lo scopo di guidare il clinico nel suo lavoro per approcciare il proprio cliente/paziente nella maniera più adeguata ai suoi bisogni/problematiche/richieste/sofferenze. Tra i vari test alcuni possono essere utilizzati sia a scopo diagnostico sia più informalmente per guidare un lavoro terapeutico. All’interno di un processo di cura lo strumento diagnostico, in tal senso, viene utilizzato dal clinico non solamente per la formulazione di una valutazione ma per rilevare alcune tematiche importanti che riguardano il paziente e che meritano un approfondimento che il test può rendere maggiormente accessibile grazie alla possibilità che offre di lavorare su alcuni argomenti/tematiche che lo stesso test elicita. Il rapporto di fiducia tra clinico e paziente rende possibile un lavoro sulla consapevolezza, centrale nella terapia gestaltica, attraverso l’uso mirato di stimoli particolarmente efficaci per quel soggetto. Nauturalmente il test deve essere scelto ed usato sapientemente e soprattutto il paziente deve essere a conoscenza di tale duplice utilizzo. Un test di tipo proiettivo come ad esempio il TAT, messo a punto da Murray (prima pubblicazione 1960) quale strumento per lo studio di personalità normali, può essere utilizzato per sondare particolari argomenti (bisogno, pressione, tema) che rappresentano, per il soggetto, un interessante punto focale nella propria storia. Da circa vent’anni studio e approfondisco la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1958): il modo in cui un individuo è stato accolto e curato durante i primi mesi e anni della propria esistenza si imprime nella memoria delle persone e le segue durante il corso della vita, come un’impronta indelebile che orienta lo sviluppo emotivo e relazionale in maniera significativa e stabile nel tempo. Dai tempi di Bowlby questa teoria ha subito parecchi approfondimenti, spesso molto interessanti: ad esempio alcuni studi hanno evidenziato che il pattern “sicuro” sembra essere un fattore protettivo per l’insorgenza e lo sviluppo di disturbi psichici, [Bowlby, 1979], [Sagi, Lamb, Garner, 1986], [Thompson, Lamb, 1983], [Van Ijzendoorn, 1995] mentre altre ricerche recenti indicano che tra i pattern “non sicuri” quelli denominati “dismissing” e “fearful” sono maggiormente associati alla presenza di disturbi psichici [Shaver & Brennan, 1992], [Dutton et. al., 1994], [Congia, Melis, Piselli, 2003]. Le persone in terapia spesso si lamentano perché non riescono ad essere “felici” nelle relazioni affettive, non riescono a comprenderne il motivo dato che si “impegnano” e fanno del loro meglio perché tutto sia “perfetto” e vada bene. Ognuno di noi agisce nei contesti interpersonali uno stile relazionale determinato dagli atteggiamenti di cura dei propri genitori nei primi anni di vita. Il modo in cui approcciamo il mondo è condizionato dai messaggi impliciti e/o espliciti che attraverso il comportamento di cura ci è stato trasmesso e che costituisce la base sulla quale costruiamo la fiducia negli altri e il valore che attribuiamo a noi stessi (Bowlby. 1989). Come accennato molti studiosi hanno contribuito ad arricchire la teoria di Bowlby cercando di stabilire quali stili di attaccamento disfunzionali diano adito alla presenza di distur222 L’uso in terapia del test 9AP per la valutazione dello stile di attaccamento come strumento... bi della personalità in cui si evidenziano modelli operativi di sé e dell’altro corrispondenti e convinzioni disfunzionali che “disturbano” il sano sviluppo di un armonioso stile di relazione appagante (Lorenzini, Sassaroli 1995). Ovviamente, i disturbi di personalità ostacolano, nelle forme marcatamente disfunzionali, un adattamento realistico alla vita di relazione creando, a livelli differenti, uno stato di sofferenza più o meno percepito dai soggetti e che evidenzi possibilità di trattamenti più o meno lunghi a seconda della diagnosi iniziale che ci aiuta a valutarne la “gravità”. Lo stile di personalità, a differenza dei disturbi di personalità, è una modalità di espressione della personalità non strettamente patologica ma fonte di sofferenza quando l’individuo sente che il proprio raggio d’azione inquina e, a volte, rende difficile, frustrante e intollerabile il proprio vivere (DSM IV, 1996). Molte persone soffrono perché non riescono a stabilire con gli altri rapporti appaganti e relazioni intime piacevoli e durature. Si chiedono “cosa c’è che non va in me”, oppure “perché gli altri sono così cattivi” o semplicemente “perché sono così sfortunato!”. Queste persone spesso riferiscono di non capire come mai incontrano sempre lo stesso “tipo di partner... di amici...” che non riescono a rispondere ai propri bisogni affettivi e relazionali, e si ritrovano ad inseguire per tutta la vita un “rapporto ideale” che si trasforma in una “chimera” poiché non diventerà mai una realtà. Rendere esplicito uno stile relazionale può essere un primo passo. Il clinico spesso non ha bisogno di un test per rendersi conto della modalità relazionale privilegiata dal proprio cliente, ma far fare un test può aiutare il cliente a cogliere e divenire consapevole del proprio stile di relazione. Con il test ciascuno di noi può avere una risposta precisa che spiega il modo in cui tende a vivere i rapporti significativi nella propria vita di relazione sia passata che presente. Essere consapevole è il primo passo per un processo di cambiamento, in cui “decidere” il proprio futuro diventa parte di un lavoro personale, in cui la “responsabilità” per raggiungere la felicità risiede nella volontà di mettere in atto comportamenti ed atteggiamenti finalizzati. Recentemente ho conosciuto il test 9AP (9 AP. 9 attachment profile, G. Candilera, 2007) e dopo averlo studiato più approfonditamente e aver colto alcuni particolari interessanti, ho iniziato ad utilizzarlo sia in lavori in gruppo che in lavori individuali. Il 9AP è un test proiettivo recente e innovativo, per la valutazione del comportamento di attaccamento. Fino a questo momento erano stati messi a punto strumenti vari per la misurazione e l’interpretazione del comportamento di attaccamento negli adulti. Lo strumento più utilizzato è l’AAI (Adult Attachment Interview) messo a punto negli Stati Uniti da Mary Main, Nancy Kaplan e Karol George nel 1985, ed utilizzato per individuare il MOI (Modello Operativo Interno) dell’intervistato accedendo, attraverso una serie di domande, alla memoria semantica del soggetto per la valutazione e la presa in carico. Questo strumento è sconsigliato per casi clinici particolarmente vulnerabili. Lo strumento è molto interessante e l’ho utilizzato tutte le volte che ritenevo utile per il percorso terapeutico approfondire una serie di informazioni da utilizzare sempre durante il processo di cura. Il 9AP è, a parer mio, uno strumento relativamente semplice, che propone 7 tavole stimolo al soggetto che risponderà tavola per tavola non attraverso risposte aperte ma seguendo una lista di aggettivi contrapposti (differenziale semantico) e assegnando un punteggio che determinerà via via un profilo, che contraddistinguerà la visione di sé e dell’altro secondo la teoria dell’attaccamento. 223 L’uso in terapia del test 9AP per la valutazione dello stile di attaccamento come strumento... Lo stimolo proiettivo ha lo scopo di riproporre, nel momento della visione, una particolare situazione relazionale, strutturalmente ambivalente, alla quale il soggetto attribuisce un valore secondo una coppia di aggettivi (lungo un continuum positivo-negativo) che si riferiscono sia alla percezione di sé che alla percezione che il soggetto ha dell’altro. Le situazioni interpersonali proposte riguardano la storia dell’esperienza relazionale evolutiva in varie situazioni psicologiche emozionali importanti, le tavole mostrano figure diverse in cui un soggetto è di colore nero e l’altro/gli altri in bianco. In dettaglio ciascuna tavola propone un tema relazionale specifico: I Difficoltà con la madre. II Confronto con l’altro. III Difficoltà con l’altro. IV Difficoltà con il padre. V Cooperazione Amicizia. VI Esposizione. VII Intimità. I soggetti osservano le tavole, e vengono invitati a identificarsi con la figura nera ed esprimere un valore seguendo una lista di aggettivi che definiscono lo stato d’animo riguardo la situazione e riferendosi sia a se stessi che all’altro (emozioni e sentimenti che riguardano me e riguardano l’altro in quella situazione). Il differenziale semantico misura 9 dimensioni: Accettazione/Rifiuto, Amichevolezza/Ostilità, Potere/Sottomissione, Sicurezza/Insicurezza, Disponibilità/Indisponibilità, Calma/Agitazione, Soddisfazione/Insoddisfazione, Autonomia/Dipendenza, Assenza di Competizione/Competizione. Dopo una serie di calcoli si giunge ad una prima lettura che identifica le componenti positive e negative che il soggetto attribuisce al Sé e all’Altro. Dopo di che il test permette di rivelare 4 Fattori Relazionali: 1. Apertura/Chiusura di sé 2. Apertura/Chiusura dell’Altro - 3. Forza/Debolezza del Sé - 4. Forza/Debolezza dell’Altro. Infine, si aggiungono le determinazioni quantitative in relazione a due fattori Generali: Percezione del Sé Totale e Percezione dell’Altro Totale. Dall’interazione di queste ultime si evince lo stile di Attaccamento del soggetto secondo lo schema classico che individua quattro modalità relazionali prevalenti (Ainsworth, 2006): Sicuro F, Insicuro Ambivalente (preoccupato-invischiato) E Entangled, Insicuro Ansioso (Distaccato-Distanziante-Svalutante) D Dismissing, Disorganizzato (Evitante-TimorosoImpaurito) U Unresolved. Attraverso lo strumento il soggetto riesce ad inquadrare il proprio profilo relazionale rispetto all’esperienza emotiva che ha di sé e dell’altro. In una situazione sia individuale che di gruppo questa azione preliminare ha la funzione di spiegare e di approfondire il significato che il MOI assume nella propria vita personale dando senso ai vissuti in funzione dei diversi ambiti relazionali che possono configurare realtà interne diverse. La seconda parte del lavoro propone ai soggetti una lettura delle singole tavole evidenziando dinamiche profonde che emergono attraverso l’attribuzione di senso e significato agli eventi rappresentati. A tal proposito viene chiesto per ciascuna delle sette tavole: Cosa sta accadendo nell’evento rappresentato? Come andrà a finire l’evento rappresentato? Nella situazione di gruppo ho proiettato per 5 min. sulla parete le 7 rappresentazioni invi224 L’uso in terapia del test 9AP per la valutazione dello stile di attaccamento come strumento... tando le persone ad annotare le risposte sul proprio libretto in silenzio e senza fare commenti. A questo punto, sia nel contesto individuale che di gruppo, prende avvio la parte più coinvolgente ed interessante del lavoro che apre a tante possibilità dal punto di vista clinico. Il clinico, attraverso l’uso di tecniche diverse, “reinventa” l’uso del test che si trasforma, e permette l’esplorazione e la reinterpretazione di ciò che lo strumento ha aiutato a “evidenziare”. Attraverso la “sperimentazione” dei contenuti emotivi stimolati nel contesto protetto della terapia è possibile attivare un processo di awareness che porta a consapevolezze sempre più profonde rendendo intellegibile l’emotività vissuta ed espressa ma non pienamente riconosciuta dal soggetto stesso. Fino al momento della elaborazione il test ha prodotto un’immagine più o meno realistica che i soggetti possono apprendere ed elaborare dal punto di vista cognitivo, prendendo atto di alcune condizioni che rendono il proprio mondo interpersonale particolarmente difficile/ostile/problematico, ecc. Spiega alcuni aspetti del proprio vivere, del proprio sentire e sentirsi, del proprio vedere e vedersi ma lascia fuori il contesto esperienziale che investe la nostra esistenza a livello sensoriale, viscerale, emotivo e sentimentale. Rimane a livello del pensiero e pertanto superficiale e non coinvolge a tutto tondo il soggetto, sino a stimolare la parte più vera e produrre un lavoro personale più profondo ed efficace per un vero proposito di cambiamento attraverso il “processo di consapevolezza”. La lettura delle storie rivela fantasie, vissuti, emozioni, pensieri, paure, ecc., che possono divenire oggetto di un lavoro profondo dove il soggetto protagonista acquisisce attraverso la guida del terapeuta una consapevolezza del proprio ruolo all’interno delle relazioni. Io e mia madre, io e mio padre, io e l’amicizia, io e l’intimità ... gli argomenti espressi nelle tavole danno delle indicazioni preziose per esaminare i rapporti passati che hanno plasmato l’uomo/la donna che oggi sono diventato. Le figure aiutano anche a rivedere queste relazioni in funzione della vita presente, cercando similitudini che invadono la realtà e promuovono rapporti che ciclicamente si ripetono uguali e insoddisfacenti e/o infelici. Nel gruppo la drammatizzazione aiuta a scoprire in modo più evidente e forte tali rappresentazioni mentali che prendono forma e si appropriano degli spazi psicologici relazionali senza possibilità di obiezione come fossero già scritti e non modificabili. L’awareness, il continuum di consapevolezza, centrale nella psicoterapia della gestalt, viene agevolato dagli stimoli che via via aggiungono significato all’esperimento vissuto all’interno dell’intervento. Acquisire nel tempo una maggiore conoscenza di sé nel contatto con se stessi e con il mondo è l’obiettivo che ci proponiamo in un lavoro come questo.. È un processo graduale che può avvenire grazie all’accompagnamento da parte di un terapeuta, in una situazione protetta che genera fiducia, che a diversi livelli permette di sviluppare le capacità del soggetto di entrare dentro il proprio mondo emotivo e relazionale, attraverso un investimento delle proprie energie creative e riparative, per liberarsi da ciò che lo comprime e non gli permette di essere quello che veramente è. Gli stimoli scaturiti dal lavoro descritto permettono di lavorare con le figure di accudimento che in qualche modo hanno ostacolato la crescita sana e libera dell’individuo. Aiutano ad entrare in “contatto” con il sé bambino (D. H. Winnicott, 1971) per ritrovare un accudimento che genera una nuova immagine di Sé in relazione con l’Altro. Naturalmente stiamo parlando di un lavoro clinico, che avvicina il paziente a questo tipo di lavoro proprio attraverso il test e che si sviluppa attraverso una più ampia visione dello stesso. Il test non viene più utilizzato quale modo per fotografare la dimensione relazionale 225 L’uso in terapia del test 9AP per la valutazione dello stile di attaccamento come strumento... ma come punto di partenza per sviluppare un lavoro personale in cui il paziente possa integrare alcuni aspetti del proprio mondo personale e relazionale, non solo sul piano meramente cognitivo ma soprattutto sul piano esperienziale, per avviare un processo di cambiamento che lo porti a vivere nel mondo pienamente e in maniera più consapevole e responsabile. Bibliografia Ainsworth M.D., (2006), Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità, Raffaello Cortina Milano American Psychiatric Association, (1996), DSM-IV Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano - Parigi – Barcellona. 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H., (1971), Gioco e realtà. 227 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato per i disturbi diagnosticati in età evolutiva 18 di Grazia Spera Grazia Spera, psicologa clinica e di comunità e psicoterapeuta individuale e di gruppo, ha una specializzazione in Psicoterapia Pluralistica Integrata. Ha lavorato nell’ambito delle attività di valutazione, ricerca e abilitazione neuropsicologica presso il “Centro Sperimentale per L’Autismo” di Roma. È responsabile del Centro per il Benessere Psicologico di bambini, adolescenti e adulti “Metamorfosi” in Roma. Svolge attività clinica, di formazione nelle scuole di ogni ordine e grado, valutazione e riabilitazione neuropsicologica in età evolutiva, attività di supervisione, sostegno alla genitorialità e terapia familiare sistemica collaborativa per la costruzione della resilienza. [email protected] Abstract In questo articolo ci proponiamo di fornire, per passi, un esempio del possibile utilizzo della WISC III nei trattamenti Pluralistici Integrati in fase di diagnosi, di valutazione degli esiti del trattamento e di reimpostazione dell’intervento (attraverso re-test) per alcuni dei disturbi dello sviluppo che hanno suscitato, negli ultimi anni, maggiore attenzione da parte degli esperti. Keywords: WISC III, trattamento pluralistico integrato, disturbi dello sviluppo, disturbo autistico, disturbi dell’apprendimento, interventi evidence based. Introduzione La valutazione degli esiti del trattamento, nei casi dei disturbi dello sviluppo diagnosticati in età evolutiva, si basa su una valutazione quantitativa (analisi delle variabili misurabili attraverso l’utilizzo dei test neuropsicologici) e qualitativi (tramite la raccolta delle informazioni sulla soddisfazione rispetto alle aspettative del bambino, della sua famiglia, degli insegnanti, dei compagni di classe e amici) (Giusti, Militello, 2011). I modelli d’intervento abilitativo in neuropsicologia dell’età evolutiva hanno tutti in comune la convinzione che attraverso l’attuazione di strategie d’intervento precoce sia possibile aiutare il bambino a colmare le carenze mostrate attraverso uno specifico apprendimento di tipo “compensativo”. 229 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... Gli interventi si basano imprescindibilmente su una valutazione approfondita delle difficoltà mostrate dal bambino nelle aree di sviluppo e sulla conoscenza dei modelli interpretativi dal punto di vista clinico (SINPIA, 2005, 2006). In particolare, in quest’articolo ci soffermeremo sulla stima degli interventi “evidence based” utilizzando la Wechsler Intelligence Scale for Children Third Edition (WISC III) come strumento in grado di guidarci nelle fasi di: diagnosi, valutazione degli esiti del trattamento e reimpostazione dell’intervento. La WISC III è adatta a questo tipo di utilizzo poiché è: 1. la versione della scala d’intelligenza WISC per bambini di età compresa tra i 6 anni e 0 mesi e i 16 anni e 11 mesi attualmente utilizzata nella pratica clinica in Italia; 2. un test ben costruito, solido dal punto di vista psicometrico e con una standardizzazione migliore di quella delle altre scale per la stessa fascia di età; 3. una scala in grado, grazie alla sua composizione strutturale e fattoriale, di apportare chiarimenti a molteplici situazioni diagnostiche e di facilitare l’impostazione delle appropriate strategie d’intervento; 4. ampiamente utilizzata dalla comunità scientifica nella ricerca empirica e nella consultazione clinica; 5. basata sulla concezione dell’intelligenza di Wechsler. Tale concezione si colloca all’interno della tradizione psicometrica condividendone i principi, ma apportando una nuova visione. Secondo l’autore l’intelligenza non deriva semplicemente dalla dotazione genetica dell’individuo, ma dalla sua capacità di adattamento risultante anche dalle condizioni socioeconomiche, culturali, scolastiche e motivazionali (Padovani, 2006). Descrizione della Scala WISC-III La prima Scala WISC fu pubblicata da Wechsler nel 1949 e da marzo 2012 è disponibile l’ultima versione nell’edizione italiana (WISC IV). Il motivo principale per revisionare una scala d’intelligenza è dovuto al fatto che il QI della popolazione aumenta col passare del tempo e questo fenomeno è attualmente conosciuto come effetto Flynn (Flynn, 2009). L’edizione italiana della WISC-III è stata curata da Orsini e Picone (2006 a) che hanno anche fornito un importante contributo alla taratura italiana della WISC-III basato sui dati di 2.200 soggetti di età compresa fra i 6.0 anni e i 16 anni, 11 mesi e 30 giorni. La Scala è composta di due parti: la parte verbale e quella di performance, ciascuna delle quali dispone di propri subtest. Infatti, secondo Wechsler esistono due grandi modalità di espressione dell’intelligenza e ciascuna di esse si concretizza in un contesto di rapporti sociali. Un’adeguata misurazione dell’intelligenza deve, pertanto, indagare sia il dominio verbale sia quello pratico ed entrambi in maniera non settorializzata ma il più possibile integrato con le variabili di personalità e l’ambiente sociale (Wechsler, 1949). Coerentemente con questa concezione, la valutazione dell’intelligenza che si effettua con la WISC-III avviene attraverso la misurazione di una miscela di capacità di tipo verbale e di tipo pratico il più possibile riferite ad un contesto sociale e attuata in un setting individuale. Complessivamente, la scala è composta di 360 item selezionati attraverso l’analisi degli stessi item in modo da risultare altamente significativi per la misurazione dell’intelligenza. I subtest della scala verbale sono: Informazione (IN), Somiglianze (SO), Ragionamento aritmetico (RA), Vocabolario (VC), Comprensione (CO) e Memoria di cifre (MC). I subtest 230 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... della scala di performance sono: Completamento di figure (CF), Cifrario (CR-A/CR-B), Riordinamento di storie figurate (SF), Disegno con i cubi (DC), Ricostruzione di oggetti (RO), Ricerca di simboli (RS) e Labirinti (LA). Dalla somministrazione dei vari subtest si ricavano: punto ponderato di ogni subtest, QI verbale, QI di performance e QI totale. Inoltre possono essere ricavati i Quozienti di Deviazione Fattoriali - Comprensione verbale (CV), Organizzazione percettiva (OP), Libertà dalla distraibilità (LD) e Velocità di elaborazione (VE) - che costituiscono delle variabili opzionali. Le Scale Wechsler sono nate con lo scopo di aiutare nella discriminazione di vari tipi di disturbi psicologici in età evolutiva e per facilitare la possibilità di effettuare una corretta diagnosi differenziale. Sono stati individuati metodi di analisi del profilo utilizzando i valori del QI verbale e di performance, dei punteggi ottenuti dal soggetto nei differenti subtest e dei quozienti fattoriali. Inoltre è possibile effettuare i confronti ipsativi; la differenza tra confronti normativi e ipsativi consiste nel fatto che nei primi si confronta il rendimento di un soggetto con quello di un gruppo di riferimento rappresentativo (ad es. i punti del QI sono punti normativi), nei secondi è il soggetto stesso che funge da unità di misura. Il metodo dei confronti ipsativi consiste nel confrontare il punteggio di ciascun subtest con la media di più subtest, cui partecipa il subtest stesso allo scopo di identificare i punti cognitivi di forza e di debolezza del soggetto (Orsini, Picone, 2006 b). I confronti ipsativi sono molto utili nella pratica clinica poiché la conoscenza dei punti cognitivi di forza e di debolezza del soggetto si rivela importante in fase di pianificazione del trattamento individualizzato. L’analisi del profilo alla WISC-III e suo utilizzo nella clinica Negli ultimi anni gli studiosi hanno moltiplicato le tecniche d’indagine dei protocolli delle scale Wechsler ricercando metodi di analisi del profilo e indici che fossero caratteristici delle varie patologie. In particolare, per quanto riguarda la WISC-R e la WISC – III sono disponibili vari metodi di analisi del profilo dei punteggi e si stima siano state compiute alcune migliaia di studi applicativi (Padovani, 2006). Tuttavia, gli studiosi del campo sono ancora divisi in favorevoli e contrari all’analisi del profilo a causa di un atteggiamento nell’interpretazione dei punteggi principalmente clinico degli uni e statistico degli altri. Per uscire da questa diatriba e usufruire al meglio di questo strumento neuropsicologico si precisa che è bene intendere per “analisi del profilo” l’adozione della tradizionale metodologia di Wechsler di considerare la configurazione complessiva dei vari indici derivati dal protocollo della WISC – III (cioè i QI, i quozienti di deviazione fattoriali, i punti ponderati ai subtest e gli altri indici composti e da essi derivati). Inoltre, gli studiosi precisano che degli indici occorre definire la congruenza sia con gli indicatori generali della WISC – III sia con criteri esterni (altri test formali e informali, dati anamnestici, sull’ambiente del soggetto e resoconti dei genitori e insegnanti). Utilizzando una tale metodologia, possiamo affermare che, l’analisi del profilo alla WISC – III ha la valenza di strumento diagnostico insostituibile e fondamentale per alcune patologie e di strumento diagnostico sussidiario per altre. Nello specifico, l’analisi della configurazione complessiva degli indici permette d’effettuare una diagnosi differenziale fra ritardo mentale e disturbi specifici dell’apprendimento e quella fra disturbi specifici dell’apprendimento di tipo verbale e di tipo non verbale. Inoltre, i dati della WISC-III forniscono risultati sussidiari che, se pur non forniscono parametri diagnostici in grado di orientare validamente e attendibilmente la diagnosi formale del disturbo, individuano caratteristiche salienti della 231 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... struttura cognitiva del bambino nella consapevolezza che il miglioramento della funzionalità cognitiva costituisce un fattore protettivo e mitigante in alcune categorie di soggetti clinici (ad esempio, nell’autismo) (Padovani, 2006). L’analisi del profilo alla WISC-III in alcune categorie di soggetti clinici Disturbi specifici dell’apprendimento. Secondo il DSM-IV-TR (American Psychiatric Association, 2000), i disturbi specifici dell’apprendimento (acronimo DSA) comprendono il disturbo della lettura, del calcolo, dell’espressione scritta e il disturbo di apprendimento non altrimenti specificato, che non soddisfa i criteri propri di alcuno dei disturbi precedenti ma può ricomprenderli tutti in vario grado compromettendo in maniera significativa l’apprendimento scolastico. Il DSM-IV-TR precisa che la diagnosi di DSA è posta quando i risultati dei test specifici di apprendimento della lettura, della scrittura e di calcolo sono inferiori di “2 deviazioni standard” o più al punteggio del QI misurato con test standardizzati (come la WISC-III). In rapporto all’entità della differenza fra il livello di QI e quello di apprendimento dell’abilità specifica, il DSA è considerato di forma lieve, media o grave. La WISC-III, nel caso dei DSA, prende in considerazione gli studi sui fattori neuropsicologici coinvolti nelle difficoltà di apprendimento effettuati da Rourke (1998) utilizzando la distinzione fra disturbi nell’elaborazione fonologica di base (DSA-V) e disturbi di tipo non verbale (DSA-NV). È importante tenere presente che rispetto al test di personalità Personality Inventory for Children (PIC) i soggetti con DSA-V e DSA-NV presentano caratteristiche diverse e precise; i soggetti con DSA-V presentano al PIC un profilo normale (Fuerst, Fisk, Rourke, 1990) mentre i soggetti con DSA-NV presentano al PIC un profilo simile a quello dei soggetti emozionalmente disturbati. Sulla base dei risultati alle sottoscale del PIC, Rourke (1998) ha ipotizzato che il disturbo emotivo dei soggetti con sindrome non-verbale sia dovuto non a frustrazioni scolastiche, ma alla loro particolare modalità di funzionamento cerebrale. Ciò perché una determinata modalità di funzionamento, con la sua organizzazione di abilità e deficit, definisce contemporaneamente sia il tipo di DSA quanto a disturbo di tipo verbale o non-verbale, sia il tipo d’interazione psicosociale dell’individuo quanto a normalità o patologia. Mentre il DSA-V è caratterizzato da un’interazione psicosociale normale, il DSA-NV è caratterizzato da un’interazione patologica che implica un disturbo emotivo di tipo internalizzato. I soggetti con Disturbo nell’Elaborazione Fonologica di Base (DSA-V) presentano deficit nelle abilità di tipo audiopercettivo che riguardano la recezione dei suoni e delle parole, l’anticipazione sonora, la chiusura uditiva, la memoria di suoni, di configurazioni sonore e di frasi e, conseguentemente cadono in tutti i compiti che implicano un’analisi rapida e precisa delle istruzioni verbali. I soggetti con Disturbo di tipo non verbale (DSA-NV), invece, presentano deficit nelle abilità di tipo visuopercettivo, tattile-percettivo, propriocettivo e psicomotorio che riguardano il collocamento, l’orientamento e la rotazione di figure nello spazio, la motricità manuale e oculare, la coordinazione delle mani e occhio-mani e cadono in tutte le attività che richiedono un utilizzo rapido e preciso di queste capacità. Osservando le fasce di comparsa dei punti ponderati, dei QI e dei quozienti di deviazione fattoriale della WISC-III da attendersi nei protocolli di soggetti con disturbo specifico dell’apprendimento di tipo verbale (DSA-V) e di tipo non verbale (DSA-NV), si rilevano alcune caratteristiche specifiche. Tali caratteristiche sono 232 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... definite con il termine “configurazioni fondamentali” e sono rappresentate nelle figure 1 e 2. Nelle configurazioni fondamentali sono utilizzati altri indici ritenuti fortemente indicativi per effettuare diagnosi di DSA-V e DSA-NV. L’indice ACID è composto dai punti ponderati nei subtest di Ragionamento aritmetico, Cifrario, Informazione e Memoria di cifre ed è stato frequentemente riscontrato nei soggetti adulti con DSA soprattutto di tipo verbale. L’indice SCAD è composto dai punti ponderati nei subtest di di Ragionamento aritmetico, Cifrario, Informazione e Memoria di cifre ed è stato frequentemente riscontrato nei soggetti adulti con DSA soprattutto di tipo verbale. L’Indice di Sindrome Cerebrale Organica (SCO), suggerito da Wechsler stesso, è presente quando la media dei subtest di Memoria di cifre, Disegno con i cubi e Cifrario risulta minore risulta minore della media dei punti ponderati di tutta la scala. Studi condotti dal 1972 al 1990 da diversi autori (per la bibliografia vedi Padovani, 2006) confermano la capacità della SCO di segnalare situazioni di patologia dell’emisfero destro. Una caduta nel valore dell’indice SCO è stata frequentemente ritrovata in soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento di tipo non-verbale, con deficit di attenzione dovuti a patologia organica. 233 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... CONFIGURAZIONE FONDAMENTALE CONFIGURAZIONE FONDAMENTALE CARATTERISTICHE PRINCIPALI CARATTERISTICHE PRINCIPALI mm Media dei subtest verbali minore di quella mm QI totale attorno al punteggio di 85-90. QI dei subtest di performance di 2 punti ponverbale < QI di performance di 10 punti o più. Quoziente di deviazione fattoriale di CV < di derati o più. quello di OP di 10 punti o più. Quoziente di mm Punteggio nei subtest di performance a lideviazione fattoriale di LD e VE < di quello vello normale o superiore alla norma. di OP e generalmente collocati nei valori bassi mm È frequente la configurazione Media scala della media. verbale < CF, DC, RO, presi anche individualmente. mm Fra le categorie di Bannatyne esistono le relazioni AS > CV o AS > CV > Sq. mm L’indice ACID (RA, CR, IN, MC) assume segno positivo e spesso valori di -1 o inferiori. mm L’indice SCAD (RS, CR, RA, MC) assume spesso valore negativo. FIGURA 1. Fasce di comparsa dei punti ponderati, dei QI e dei quozienti di deviazione fattoriale della WISC-III nei soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento di tipo verbale DSA-V. (Tratto da: Padovani, 2006) 234 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... CONFIGURAZIONE FONDAMENTALE CARATTERISTICHE PRINCIPALI CONFIGURAZIONE FONDAMENTALE CARATTERISTICHE PRINCIPALI mm Punteggi dei subtest di performance < di quel- mm QI totale attorno al punteggio di 90-95. QI verbale > del QI di performance di 10 o più lo dei subtest verbali di 2 punti ponderati o più. Punteggio nei subtest verbali a livello normale punti. Quoziente di deviazione fattoriale di o superiore alla norma. È frequente la caduta CV > di quello di OP di 10 o più punti. Quonel Completamento di figure e nella Ricostruziente di deviazione fattoriale di LD e VE > a zione di oggetti, la cui media è spesso più basquello di OP e generalmente collocati attorno sa di quella di tutti i restanti subtest della scala ai valori bassi della media. di performance. Può essere presente l’indice SCO (MC, DC, CR). L’indice ACID (RA, CR, IN, MC) assume valori positivi o, se negativi, mai oltre il valore di -1. L’indice SCAD (RS, CR, RA, MC) assume valori positivi rispetto ai subtest della sola scala di performance. FIGURA 2. Fasce di comparsa dei punti ponderati, dei QI e dei quozienti di deviazione fattoriale della WISC-III nei soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento di tipo non verbale DSA-NV. (Tratto da: Padovani, 2006) Disturbi Pervasivi dello sviluppo (Disturbi autistici). In base al DSM IV-TR la diagnosi di disturbo autistico si effettua quando il bambino presenta problemi contemporaneamente nelle aree dell’interazione sociale, della comunicazione verbale e non verbale e del comportamento. Nei disturbi autistici i bambini manifestano spesso comportamenti stereotipati e ripetitivi (movimenti anomali delle mani, dondolamento del corpo, attività ripetitive con gli oggetti, resistenza al cambiamento di attività). Inoltre, presentano una particolare sensibilità alle esperienze sensoriali visive, uditive, tattili, olfattive, gustative, enterocettive e cenestesiche. Sempre, secondo il DSM-IV-TR circa il 75% dei soggetti con disturbo autistico funziona a un (con un QI minore di 50). In questa fascia si ritrovano i bambini che non parlano o hanno un linguaggio consistente di poche parole o brevi frasi, spesso utilizzate in modo ripetitivo ed ecolalico. Per questi bambini non è, ovviamente, indicato l’utilizzo della WISC III come strumento sussidiario per effettuare diagnosi. Il restante 25% di soggetti, definiti ad , pur mostrando sempre nei comportamenti le caratteristiche dell’autismo, acquisisce valori di QI maggiori di 70 che in alcuni soggetti possono estendersi anche ai limiti superiori dell’intelligenza (Happé, 1994). È possibile concludere che fra i soggetti autistici esiste grande variabilità nel tipo e nel livello di prestazione cognitiva e comportamentale e che in genere i soggetti con QI più elevato e migliori capacità di comunicazione hanno una prognosi più favorevole e mostrano maggiori miglioramenti nel corso del tempo. Per quanto concerne il disturbo di Asperger, nella letteratura sulle scale WISC i due disturbi sono considerati congiuntamente. Le due patologie, infatti, sembrano differenziarsi quantitativamente e qualitativamente pur presentando le medesime caratteristiche attribuibili al disturbo pervasivo dello sviluppo e, secondo i dati di riferimento degli studi condotti con la WISC, una simile distribuzione dei punteggi ponderati. Ricordiamo che, anche gli autori del DSM V concordano sull’accorpamento delle due sindromi per meglio sottolineare le somiglianze dei due disturbi, piuttosto 235 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... che le differenze. Secondo gli studi delle caratteristiche cliniche dell’autismo, svolti con le scale WISC, il deficit cognitivo di base del disturbo sembrerebbe consistere in una menomazione pervasiva e generalizzata delle capacità di rappresentazione simbolica, con particolare accentuazione del deficit nelle aree del linguaggio e dell’immagine corporea (Padovani, 2006). In base ai dati, derivati anche dagli studi del campione italiano di soggetti autistici, è ragionevole attendersi alla WISC III che i punti ponderati, i QI e i quozienti di deviazione fattoriale assumano le configurazioni indicate in figura 3. CONFIGURAZIONE SUSSIDIARIA CARATTERISTICHE PRINCIPALI CONFIGURAZIONE SUSSIDIARIA CARATTERISTICHE PRINCIPALI mm Punteggi dei subtest verbali < di quelli di mm QI totale nella fascia del borderline cognitivo. performance. Subtest di Somiglianze e ComQI verbale < Qi di performance di 10 punti o prensione < di tutti i subtest verbali. Disegno più. Quoziente di deviazione fattoriale OP > di con i cubi e ricostruzione di oggetti > di tutti tutti gli altri quozienti di deviazione fattoriai subtest di performance. Di soliti appare la li. Quoziente di deviazione fattoriale Cv < di configurazione [(CO+SF)/2 < (MC+DC)/2] + OP di 10 punti o più. Quozienti di deviazione di 2 punti ponderati o più. fattoriale LD e VE a livello di borderline cognitivo. FIGURA 3. Fasce di comparsa dei punti ponderati, dei QI e dei quozienti di deviazione fattoriale della WISC-III nei soggetti con disturbi autistici. (Tratto da: Padovani, 2006) 236 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... L’utilizzo delle scale WISC per la pianificazione e valutazione degli esiti del trattamento pluralistico integrato. Negli ultimi anni sempre più studiosi che hanno esaminato gli esiti dei trattamenti per i disturbi dello sviluppo, affermano che i vari modelli di presa in carico di fatto condividono aspetti cruciali comuni che rappresentano gli elementi di cura responsabili del successo terapeutico (SINPIA, 2005, 2006). L’insegnamento che proviene dallo studio accurato sull’evoluzione clinica dei disturbi dello sviluppo nel corso del ciclo vitale è che occorre spostare l’attenzione dalle “tecniche” ortodosse d’intervento terapeutico, che ovviamente vanno conosciute e utilizzate consapevolmente, all’organizzazione di un intervento integrato. L’integrazione pluralistica consiste nella costruzione di una psicoterapia su misura che rispetti i parametri di efficacia ed efficienza, per rispondere eticamente alla complessità del bambino. In questo senso la prospettiva pluralistica non è quella di affermare un modello capace di portare a sintesi le diversità; al contrario, il suo scopo è l’elaborazione e la pratica di un codice condiviso che permetta di organizzare le diversità in gioco. Il trattamento pluralistico integrato si pone l’obiettivo di validare i risultati in termini di efficacia del processo e delle procedure utilizzate grazie ad una dialettica permanente con la ricerca scientifica (Giusti, Militello, 2011). Il modello sottolinea la scelta delle strategie terapeutiche quale importante fattore che rende la psicoterapia tanto più efficace quanto più è compatibile con i bisogni del bambino (Vicari, Caselli, 2002, 2010). I piani di trattamento pluralistici integrati per i disturbi dello sviluppo prevedono: 1. trattamenti abilitativi neuropsicologici, affettivo relazionali, logopedici o di neuropsicomotricità individualizzati per il bambino; 2. sostegno alla genitorialità che miri alla comprensione ed elaborazione della diagnosi e conoscenza delle connessioni fra disturbo e disagio emozionale che può sottendere problemi comportamentali e adattivi (tecniche utilizzate: ascolto attivo, strategie di intervento riparativo per esprimere e spiegare la sofferenza ad approccio umanistico e interventi psicoeducativi di derivazione cognitivo-comportamentale); 3. colloqui periodici con gli insegnanti; 4. terapia familiare sistemica collaborativa centrata sulla costruzione della resilienza che incoraggi e sostenga una comunicazione efficace ed un clima affettivo relazionale positivo tra il bambino e i membri della sua famiglia. La pianificazione e valutazione degli esiti dell’intervento abilitativo nei casi di DSA e Disturbo autistico, utilizzando la WISC III può essere riassunto per passi: 1. individuazione delle configurazioni fondamentali e sussidiarie; 2. utilizzazione dei punti ponderati, dei rapporti tra QI verbale e QI di performance e dei confronti ipsativi, per evidenziare i punti di forza e limiti del soggetto e, quindi, l’implementazione dell’intervento individualizzato; 3. re-test e valutazione degli esiti del trattamento in base alla nuova configurazione degli indici della Scala. PASSO 1. Valutare se l’analisi del profilo alla WISC III abbia evidenziato le configurazioni tipiche dei DSA e dei disturbi autistici (vedi figure 1, 2, 3). Nei casi di DSA-V si ottengono riduzioni lievi o medie nei punteggi ponderati dei subtest verbali Informazione, Ragionamento aritmetico, Vocabolario e Memoria di cifre (evidenziate anche nei confronti 237 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... ipsativi). Ricordiamo che alcuni di questi subtest appartengono alla configurazione ACID (vedi sopra), che è particolarmente utile nell’individuazione dei DSA-V. Nei casi di DSANV si ottengono delle cadute significative nei seguenti subtest di performance: Completamento di figure, Cifrario, Disegno con i cubi e Ricostruzione di oggetti. Alcuni di questi subtest fanno parte degli indici SCO, SCAD e ACID (vedi sopra) che mostrano una certa validità nella discriminazione dei DSA-V dai DSA-NV. Nei casi di Disturbo Autistico si osservano cadute gravi nei seguenti subtest verbali: Somiglianze e Comprensione (i confronti ipsativi evidenziano che il punteggio ponderato in queste subscale cade di 2 punti ponderati o più sotto la già bassissima media dei punteggi ponderati della scala verbale). PASSO 2. Si procede all’utilizzo dei dati dei confronti ipsativi, punti ponderati e rapporti tra QI verbale e QI di performance per costruire un piano di trattamento abilitativo individualizzato e concepito nelle modalità qui di seguito descritte: Obiettivi principali dell’intervento neuropsicologico e affettivo relazionale per il bambino con DSA-V. a. favorire le capacità di prestare attenzione all’ambiente circostante, recepire e comprendere domande con formulazione lunga e richiamare informazioni dalla memoria a lungo termine; b. sollecitare nel bambino abilità di ragionamento più che di puro calcolo; c. favorire una capacità di ragionamento e astrazione su base verbale; d. potenziare la capacità di richiamo immediato d’informazioni presentate sotto forma uditiva; e. stimolare il bambino nelle attività d’apprendimento utilizzando strumenti compensativi (software attraenti per pc e Ipad); f. migliorare il senso di autoefficacia, autostima e motivazione al risultato. Obiettivi principali dell’intervento neuropsicologico e affettivo relazionale per il bambino con DSA-NV: a. potenziare le capacità visuopercettive nell’analisi di figure familiari identificando degli elementi mancanti, di memoria visiva a lungo termine e di capacità di attenzione e concentrazione; b. stimolare le capacità di analisi, associazione e richiamo visivi a breve termine di stimoli astratti, rapidità di esecuzione visuo-grafo-motoria e una più accurata coordinazione occhio-mano e delle mani; c. favorire le capacità visuopercettive, visuomotorie e di problem-solving (pianificazione); d. migliorare le capacità di anticipare mentalmente l’insieme complessivo dell’immagine e ricostruirla concretamente; e. stimolare il bambino nelle attività d’apprendimento utilizzando strumenti compensativi (software attraenti per pc e Ipad); f. migliorare il senso di autoefficacia, autostima e motivazione al risultato. Obiettivi principali dell’intervento neuropsicologico e affettivo relazionale per il bambino con Disturbo autistico - stimolare la comparsa dei seguenti processi di pensiero, 238 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... non presenti a causa della specificità del disturbo: a. capacità di percepire gli elementi comuni e significativi dei dati, di confrontarli fra loro e di riconoscerli all’interno di una stessa categoria concettuale; b. processo di astrazione, di generalizzazione, di giudizio formale, di distinzione fra dati essenziali e non essenziali degli elementi o dei concetti in esame; c. fluidità, flessibilità e originalità di pensiero; d. stimolare la comparsa della capacità di acquisire informazioni pratiche dalla vita quotidiana e di utilizzarle appropriatamente secondo criteri di buon senso; e. migliorare il senso di autoefficacia, autostima e motivazione al risultato. PASSO 3. Il metodo del test-retest consiste nella stima dell’attendibilità di un test basato sul coefficiente di correlazione o di stabilità, calcolato sui punteggi ottenuti dallo stesso gruppo di soggetti in due somministrazioni successive. L’attendibilità e la validità sono le caratteristiche che uno strumento deve possedere per poter essere considerato psicometricamente valido. Entrambe dipendono dall’affidabilità e dall’accuratezza con cui lo strumento misura e dalla costanza delle misurazioni. Somministrazioni ripetute allo stesso individuo nelle stesse condizioni, infatti, devono fornire risultati identici. Più specificamente, il giudizio di validità si basa sull’appropriatezza delle inferenze e delle conclusioni che si possono effettuare a partire dai punteggi del test. In altre parole, un test è valido se il punteggio ottenuto nella scala di misura rappresentata dal test, riflette le caratteristiche della persona che l’ha compilato (Boncori, 1993). In fase di re-test, per valutare gli esiti del trattamento (in base alla nuova configurazione dei punteggi dei QI), si attende un maggior equilibrio nei rapporti tra QI verbale e QI di performance (nella figura 4, sono rappresentati graficamente i punteggi teorici attesi dei QI in fase di test e re-test in alcune categorie di soggetti clinici). Il buon esito dell’intervento, dopo circa un anno di trattamento neuropsicologico, all’interno di una cornice di presa in carico globale del bambino in un’ottica pluralistica integrata (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006), è concepito in questi termini: in corrispondenza di un QI totale invariato si ottiene un minor divario nei rapporti tra QI verbale e QI di performance. Un tale risultato, su un piano di qualità della vita, corrisponderà al miglioramento delle prestazioni scolastiche, del funzionamento adattivo e dei fattori emotivi in gioco nel bambino. 239 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... FIGURA 4. Esempi di punteggi dei QI attesi alla WISC III in fase di test e re-test in alcune categorie di soggetti clinici. In conclusione, la WISC III è uno strumento che ci consente di attuare un’attenta valutazione neuropsicologica, una pianificazione del trattamento e una valutazione degli esiti degli interventi “evidence based”. Nei trattamenti Pluralistici Integrati per i disturbi dello sviluppo, l’utilizzo della Scala consente una valutazione quantitativa che sarà affiancata a quella qualitativa (raccolta delle informazioni sulla soddisfazione rispetto alle aspettative del bambino, della sua famiglia, degli insegnanti, dei compagni di classe e amici). Ci attendiamo che l’introduzione in Italia della WISC IV consentirà agli psicoterapeuti che si occupano 240 L’utilizzo delle Scale WISC nella valutazione degli esiti del trattamento Pluralistico Integrato... dei disturbi dello sviluppo, di utilizzare il nuovo strumento per perfezionare ulteriormente l’offerta dei trattamenti neuropsicologici in età evolutiva e il miglioramento della qualità di vita per i bambini con disturbi dello sviluppo e dei loro familiari. Bibliografia American Psychiatric Association, (2000), Diagnostic and Statistical Manual of Mentall Disorders. Forth Edition, Text Revision (DSM-IV-TR), trad. it. Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi Mentali, Masson, Milano, 2002. Boncori L., (1993), Teoria e tecnica dei test. Bollati Boringhieri, Torino. Flynn J., (2009), What is Intelligence? Beyond the Flynn effect, University Press, Cambridge. Fuerst D. R., Fisk J.L. e Rourke B. 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The Psychological Corporation, New York. 241 Somministrazione del Parents Preference Test (PPT) come strumento di consapevolezza nel lavoro con i genitori 19 di Silvia Della Morte Silvia Della Morte, psicologa, psicoterapeuta, mediatrice familiare. Svolge attività psicoterapeutica a Roma nell’area privata. Docente in corsi di formazione per enti pubblici e privati. [email protected] Abstract Il presente lavoro descrive il PPT (Parents Preference Test), test grafico a scelta multipla, come strumento di integrazione di una più ampia analisi dello stile di parenting nel lavoro con i genitori.Ne vengono presentate le quattro dimensioni: focalizzazione attentiva, modalità esperienziale, regolazione del comportamento ed energia, che misurate danno origine a un punteggio che aiuta a stabilire lo stile di parenting nell’adulto. L’edizione italiana del 2011 è stata validata su un campione piu ampio rispetto al reattivo originale di Westh. Di facile somministrazione incontra, contrariamente ad altri tipi di prove, bassissimi livelli di resistenza da parte dell’utenza. Keywords: parenting, dimensioni, stile educativo Introduzione Nell’ambito dello studio sullo sviluppo infantile e sui fattori che lo influenzano è stata sempre attribuita grande importanza al ruolo dei genitori e alle modalità con cui si prendono cura dei figli, interagendo con loro. Nella mia pratica clinica l’incontro con i genitori è parte essenziale di un percorso trattamentistico del bambino e momento di potenziamento e/o riorganizzazione delle risorse contestuali al bambino nella direzione di un miglior essere , in relazione allo stile di parenting. Con questo temine (da “parent”, colui che si prende cura) si intende l’insieme di comportamenti che operano nello sviluppo fisico, emotivo ed intellettuale dei figli. Il parenting viene considerato come un processo che include le caratteristiche del prendersi cura (caring), del nutrire (nurturing) e del proteggere (protecting). Numerosi autori (Baumrind, 1971, 1991; Hoffman, 1988) si sono interessati allo studio degli stili educativi genitoriali cercando, all’inizio, di individuare una sorta di stile ideale. La tipologia del “buon 242 Somministrazione del Parents Preference Test (PPT) come strumento di consapevolezza... genitore” era rintracciabile sull’asse di un continuum di modalità funzionali e disfunzionali (Maccoby, 2000). Dagli anni settanta la classificazione degli stili educativi più usata nelle letteratura scientifica è quella di Diane Baumrind (1971,1991) che descrive lo stile genitoriale secondo le due categorie della richiestività, cioè la capacità di porre dei limiti al comportamento del bambino e la responsività, cioè la capacità di rispondere ai bisogni del bambino. In funzione di queste due caratteristiche, secondo l’Autrice, emergerebbero le tre tipologie di parenting: autorevole, autoritario e permissivo. A queste tipologie se ne aggiungerà una quarta per mano di Maccoby (1983), quella permissivo- negligente identificabile in quello stile in cui la condotta genitoriale è disimpegnata sia sull’asse del calore affettivo che della richiestività. Ad aggiungere una visione più centrata sulla dimensione emotiva è Hoffman (1988), che, sulla base delle modalità di costrizione e persuasione, descrive le tipologie di stile genitoriale come: costrittivo basato sul potere fisico, costrittivo basato sulla sottrazione di affetto e induttivo empatico-emotivo. In seguito la genitorialità non è più stata indagata solo in chiave preditttiva del buono sviluppo del bambino ma ha assunto nel tempo un’elezione ad oggetto autonomo nel campo della ricerca (Sponchiado, 2000). Sono state così indagate le componenti cognitive, affettive e di personalità dei genitori (Ammanniti et. al., 2007; Baiocco, Laghi, Paola, 2009), per quantificare quanto esse influenzino le pratiche di accudimento . Spesso quello che trovo ella pratica clinica è qualcosa di più della preoccuazione per lo sviluppo del proprio figlio; ciò che si presenta sono dinamiche relazionali frutto di storie pregresse, blocchi sull’asse affettivo, resistenze e ansie di essere colpevolizzati in virtù del vissuto giudicante del “terzo che misura”. L’alleanza con la coppia genitoriale è allora il primissimo lavoro e la scelta degli strumenti operativi è delicata. Da quest’anno ho inserito nella batteria di test che somministro ai genitori, la versione italiana del PPT (Parens Preference Test) di Finn Westh adattata da Baiocco, Laghi e D’Alessio nel 2011. PPT: struttura e dimensioni del Test Il PPT é un test grafico a scelta multipla rappresentante scene di vita familiare . I soggetti, nel rispondere al test, descrivono il loro “modus operandi” come genitori, il modo in cui si comportano, descrivendo la loro interazione con il bambino all’interno della famiglia. Il test è composto da un libro di stimoli contenente 24 tavole con relative alternative di risposta (4 per ogni item). Ogni item è composto da 5 disegni: una figura più grande che funge da stimolo e quattro più piccole tra le quali il genitore sceglie quella più vicina al suo “stile”. I tempi di somministrazione variano dai 45 ai 60 minuti. Viene somministrato individualmente a genitori con figli di età compresa tra i 0 -15 anni. Può essere utilizzato anche con coppie in attesa del primo figlio o con coppie nel percorso adottivo. Può risultare un buon supporto anche nella mediazione familiare. Alla fase della scelta della scena segue quella della motivazione; viene infatti chiesto al genitore di motivare la scelta fatta. Le aree di principale interesse sono relative alla capacità di concentrarsi da parte del genitore sugli aspetti emotivi o razionali della relazione e sullo stile di regolazione del comportamento del bambino. Gli Autori, rifacendosi al concetto della famiglia come ambiente privilegiato per la crescita e lo sviluppo del bambino, riprendono il modello di Tizard (1984) relativamente al funzionamento familiare e identificano quattro variabili fondamentali per la definizione del parenting: La focalizzazione attentiva, la modalità esperienziale, la regolazione del comportamento e il livello di energia. Tali dimensioni non sono organizzate secondo un gradiente 243 Somministrazione del Parents Preference Test (PPT) come strumento di consapevolezza... positivo-negativo. Ci si allontana sempre di più dai primi modelli che volevano individuare modelli perfetti di risposta. Un genitore competente è in grado di muoversi in modo flessibile su entrambi i poli di queste variabili a seconda del contesto, degli stati d’animo del figlio e propri. Le quattro dimensioni Focalizzazione attentiva: figura-stimolo e alternative di risposta (Baiocco, Laghi, D’Alessio, 2011) Focalizzazione attentiva: questa dimensione descrive le modalità con le quali il genitore presta attenzione al bambino e ai suoi bisogni durante l’interazione. I due poli della dimensione sono focalizzazione su di sé e focalizzazione sul bambino. Modalità esperienziale: figura stimolo e alterative di risposta (Baiocco, Laghi, D’Alessio, 2011) Modalità esperienziale: la dimensione indaga se, nell’esperienza col bambino, il genitore si concentra maggiormente sugli aspetti emotivi o razionali della relazione. I due poli della dimensione sono: orientamento emotivo e orientamento razionale. Regolazione del comportamento: figura stimolo e alterative di risposta (Baiocco, Laghi, D’Alessio, 2011) Regolazione del comportamento: si riferisce alla gestione del comportamento del figlio disciplinato secondo le caratteristiche proprie della specifica situazione o influenzato da regole stabilite a priori dalla famiglia. I due poli sono: contesto/situazione e regole. Energia: questa dimensione riguarda tutte le tavole e i due poli sono: attivo e passivo. La dimensione Energia si presenta come sovradimensione che ricade sulle altre tre e non si configura come autonoma. Si andrà così a configurare un quadro genitoriale in riferimento ad un modello teorico che vede il parenting come il risultato le risposte alle tre dimensioni. PPT – modello teorico (Baiocco, Laghi, D’Alessio, 2011) 244 Somministrazione del Parents Preference Test (PPT) come strumento di consapevolezza... Interpretazione e validazione del test I risultati ottenuti al PPT permettono di delineare un profilo di soggetto nel suo stile di parenting. Tale profilo, in linea alle tre dimensioni misurate descrive come l’interazione tra genitore-bambino è stabilita/iniziata, come viene sostenuta/mantenuta e come tale interazione procede. Soggetti con punteggi nella parte centrale dei quadranti risultano più “ flessibili”: sono maggiormente in grado di modulare il loro comportamento in situazioni differenti adeguandosi al bisogno specifico di contesto. Più “rigidi “ invece gli apparenti stabili, quei soggetti i cui punteggi si posizionano nell’area periferica o esterna del profilo. È da sottolineare però che al di là del posizionamento, i risultati del PPT vanno integrati e combinati con quelli ottenuti da altre fonti quali , test o strumenti autovalutativi. Il test gode di una buona attendibilità; nella prima validazione (2002) è stato somministrato il PPT congiuntamente alla WAIS-R, al test di Rorschach, al NEO-PI-R e alla Adult Attachment Interview mostrando una buona validità divergente (Baiocco, Laghi, D’Alessio, 2011). La successiva validazione italiana ha vissuto due fasi: una relativa alla validità di facciata, comprensibilità delle immagini, essendo il PPT il primo test ad immagini per adulti e attendibilità, ed una seconda fase relativa alla validittà convergente inserendo il PPT in una batteria di test più ampia e somministrandolo a gruppi diversi di soggetti. Il campione italiano è stato ampliato e conta 525 soggetti (346 madri e 149 padri) tra 20 e 42 anni con figli di età compresa tra 1 e 11 anni. Gli strumenti di correlazione sono stati il PSI (Parenting Stress Index) e il Family Assessment Device. Riguardo alla validità di costrutto, il metodo dei gruppi contrapposti (famiglie in terapia familiare, famiglie con figli con disturbo di linguaggio/apprendimento e famiglie monogenitoriali) ha fatto emergere buoni risultati circa la validità del PPT e la sua utilità. 245 Somministrazione del Parents Preference Test (PPT) come strumento di consapevolezza... Conclusioni Ritengo che il PPT sia un valido strumento che, insieme ad altri test, permette di valutare le interazioni familiari negli interventi di promozione del benessere della famiglia e di soluzione dei conflitti. L’utilità sta nella novità del test che, utilizzando le vignette descrittive per scene di vita familiare, rispetto a un questionario, è più facilmente accessibile e coinvolge attivamente i genitori nel processo di testing ed è di facile somministrazione anche per coloro che incontrano difficoltà linguistiche a causa di una bassa scolarizzazione che spesso induce un’alta resistenza ai test con domande scritte.Un test nei confronti del quale i genitori non vivono resistenze permettendo così, in un clima di coinvolgimento, la possibilità di raggiungere un buon livello di consapevolezza delle proprie dinamiche e le relative connessioni con il comportamento del figlio. Si tratta di uno strumento nato per evidenziare la motivazione alla base dell’alternativa di risposta scelta, dove il soggetto è parte molto attiva. Spesso accade che, venendo alla luce tratti di cui il soggetto è aiutato a prendere consapevolezza, lo stesso colleghi quel comportamento ad altre aree della sua vita, non solo nell’esercizio della genitorialità, generando così una più “ampia consapevolezza”. Nella mia pratica con questo strumento una volta ottenuti i risultati, con il genitore, procedo alla lettura e riflessione alla luce di un’analisi i relazione tra la parte del suo essere Genitore e il suo Bambino interno. I dati raccolti finora appaionio interessanti e faranno parte diin ulteriore progìgetto di ricerca. Bibliografia Ammaniti M., Speranza A.M., Tambelli R., Odorisio F. e Vismara L., (2007), Sostegno alla genitorialità nelle madri a rischio: valutazione di un modello di assistenza della prima infanzia, Infanzia e adolescenza, 6(29,67-83) Baiocco R., Crea G., Fizzotti E., Gurrieri G., Laghi F. e Paola R., (2008), Attaccamento ai genitori e ai pari, Orientamenti Pedagogici, 55(3), 465-468 Baiocco R., Laghi F., Imbellone A., D’Alessio M., (2009), Parenting e funzionamento di coppia, Psichiatria ed adolescenza, 76(3),648-650. Baumrind D., (1991), Parenting styles and adolescent development, The encyclopedia of adolescence. Bornstein M., (2000), Macrocontexts of parenting. Contemporary research on parenting, American Psychologist 55 (2) 218-232. Maccoby E. E., (2000), Parenting and its effects on children, Annual Review of Psychology,51. Sponchiado E., (2000), Strumenti per la valutazione della famiglia e del parenting, In G. Axia e S. Bonichini (a cura di), La valutazione del bambino. Manuale di metodi e strumenti, Carocci, Roma 246 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata 20 di Ilaria Monticone Ilaria Monticone, psicologa e psicoterapeuta, laureata presso la facoltà di psicologia generale-sperimentale a Trieste e specializzata presso ASPIC, Istituto formazione Psicoterapeuti, ad indirizzo fenomenologico esistenziale della psicologia umanistica. Svolge attività privata occupandosi prevalentemente dell’area clinica e di formazione. ilaria_monticone@ hotmail.com Abstract L’autoefficacia è un aspetto della personalità. Partendo dagli elementi teorici che la caratterizzano, l’articolo pone l’accento sulla valutazione di tale costrutto. Valutazione intesa a vari livelli, esaminando inizialmente la tematica nel dettaglio per poi inserirla in un’ottica più ampia, trattando tematiche più generali quali diagnosi psicologica, formulazione del caso e assessment in psicoterapia integrata. La valutazione, in campo clinico, aiuta il professionista a raccogliere elementi necessari al trattamento terapeutico, in particolare nella psicodiagnosi integrata questo processo dura lungo tutto il percorso di cura. In conclusione l’articolo desidera offrire alcuni spunti teorici e di riflessione collegando le tematiche trattate. Keywords: autoefficacia, giudizio di capacità, specificità, valutazione, diagnosi psicologica, psicodiagnosi integrata. L’Autoefficacia La teoria socio-cognitiva è una teoria della personalità che si è occupata primariamente di processi cognitivi per l’analisi dell’agentività umana ovvero “quella facoltà di generare azioni mirate a determinati scopi ” (Bandura, 2000, p. 24-25). Le persone hanno la capacità di raggiungere determinati obiettivi mediante l’azione e l’esercizio di una forma di controllo sull’ambiente e sulla propria vita poiché la mente umana è generativa, creativa e proattiva. L’agentività umana si articola mediante una struttura interdipendente all’interno di un processo definito causazione reciproca triadica (Bandura, 1986). I fattori causali interagenti 247 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata che si influenzano reciprocamente sono: personali interni costituiti dagli eventi cognitivi, affettivi e biologici; il comportamento e l’ambiente esterno. L’influenza dei diversi fattori può variare a seconda dell’attività, delle circostanze e del tempo necessario ad un elemento per sviluppare i suoi effetti. Il comportamento è un fattore causale indispensabile in quanto si configura come stimolo e risposta, sia in relazione all’ambiente che alla personalità. Attraverso l’azione si può modificare non solo l’ambiente ma anche il sistema cognitivo, nel senso che il risultato ottenuto mi permette di rafforzarlo o meno in termini di autovalutazioni. L’ambiente condiziona il comportamento e i fattori personali interni guidano il comportamento sull’ambiente. I processi cognitivi hanno un ruolo fondamentale, in quanto la personalità dell’essere umano è un sistema di autoregolazione. Attraverso le capacità personali le persone sono in grado di conoscere se stesse e il mondo che li circonda al fine di regolare il proprio comportamento. Bandura identifica 5 capacità di base: di simbolizzazione (rappresentare la conoscenza attraverso il linguaggio), vicaria (acquisire la conoscenza attraverso l’osservazione), di previsione (anticipare gli eventi futuri), di autoregolazione (stabilire obiettivi e valutare le proprie azioni facendo riferimento a standard interni di prestazione) e di autoriflessione (capacità di riflettere su noi stessi in modo consapevole) (Caprara, 1997). Le persone gestiscono la propria vita emotiva e sociale grazie a questo sistema sinergico di processi autoreferenziali derivante dalle capacità di base. Stabilire obiettivi, monitorare il comportamento in funzione di standard personali, prevedere gli esiti delle azioni in relazione al contesto entro il quale si agisce, valutare e riflettere sulle capacità per affrontare le sfide future e capitalizzare dall’esperienza propria e altrui, consentono alle persone di esercitare quell’autoinfluenza alla base dei processi di causazione reciproca che rendono possibile l’agentività umana. L’individuo contribuisce a determinare il proprio funzionamento psicosociale mediante il più importante meccanismo di agentività definito senso di autoefficacia. Il senso di autoefficacia (self-efficacy) corrisponde alle convinzioni circa le proprie abilità cognitive, emozionali, sociali e comportamentali di organizzare ed eseguire una serie di azioni necessarie per produrre determinati scopi. La vita di una persona è guidata dalle convinzioni di autoefficacia: essere all’altezza di certe situazioni, dominare certi compiti, essere capaci di risolvere certi problemi. Se le persone non credessero di poter raggiungere gli scopi desiderati mediante le azioni non avrebbero gli stimoli per farlo. L’esercizio del controllo è messo in atto nei corsi d’azione per i vantaggi che derivano dal farlo nonostante comporti responsabilità e rischi (Bandura, 2000). Per aumentare le possibilità di determinare il corso della nostra vita dobbiamo possedere la convinzione di poter esercitare un controllo sugli eventi (Giusti, Testi, 2006). Non è rilevante la quantità di abilità ma ciò che si crede di poter fare con i propri mezzi in diverse circostanze (Bandura, 2000). L’autoefficacia non si misura attraverso la competenza bensì la credenza posseduta nell’essere all’altezza in certe situazioni mediante le capacità che si ritiene di avere (Borgogni, 2001). Tre sono le dimensioni che possono caratterizzare le convinzioni di efficacia (Bandura, 1977b, 1986): il livello inteso come grado di difficoltà del compito, la forza ovvero quanto si è convinti della propria efficacia e la generalizzazione, quanto le proprie convinzioni di efficacia in un determinato ambito possano influenzare un ambito affine. 248 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata Le fonti dell’autoefficacia Le convinzioni di efficacia nascono sulla base di informazioni ricavate da cinque fonti principali (Bandura, 1977, 1996; Maddux, 2005; Giusti, Testi, 2006): mm Le esperienze comportamentali dirette di gestione efficace. mm Le esperienze vicarie (modeling). mm La persuasione. mm Gli stati fisiologici ed emotivi. mm L’immaginazione. Le esperienze comportamentali dirette di gestione efficace sono la fonte di informazioni di efficacia più autorevole. L’azione diretta è stata messa a confronto con altri mezzi di influenza basati su esperienze vicarie, stimolazione cognitiva o insegnamento verbale con il risultato che le esperienze personali efficaci producono convinzioni di efficacia più forti (Bandura et. al., 1977, Biran e Wilson, 1981; Feltz, Landers e Reade, 1979; Gist, 1989; Gist, Schwoerer e Rosen, 1989). Il sentimento di efficacia deriva dall’esperienza vissuta di dominare una situazione attraverso un processo di assimilazione ovvero incamerando gli elementi dell’ambiente esterno nei propri schemi mentali (Caramelli, 1980). Le performance non sono l’unico strumento di valutazione della propria autoefficacia in quanto esistono altri elementi come le capacità personali, l’impegno profuso, le condizioni ambientali, la complessità della situazione e l’aiuto ricevuto da altri che pesano nel processo di valutazione (Giusti, Testi, 2006). In aggiunta, si devono considerare i giudizi sulle cause degli eventi ovvero le attribuzioni causali che possono essere classificate secondo diversi stili esplicativi. Lo stile esplicativo è il modo in cui usualmente spieghi a te stesso perché accadono gli eventi (Seligman, 1996). Uno stile è caratterizzato da tre dimensioni: stabilità, pervasività, personalizzazioni. Le cause degli eventi possono essere più o meno stabili o occasionali, ripercuotersi in diversi ambiti della vita o riguardare un settore specifico ed infine considerabili come cause interne di cui esserne responsabili in base alle capacità e caratteristiche, oppure esterne per cui la causa è legata al caso, alla fortuna, al destino o ad altre persone. Le esperienze vicarie (modeling) promuovono le convinzioni di autoefficacia attraverso l’apprendimento osservativo. È più semplice giudicare le proprie capacità se le attività intraprese presentano indicatori di valutazione oggettivi di adeguatezza. Ma nella maggior parte dei casi non esistono misure di adeguatezza assolute, quindi il parametro utilizzato è il confronto sociale ovvero osservare le prestazioni altrui e confrontarle con le proprie (Festinger, 1954; Goethals e Darley, 1977; Suls e Miller, 1977). L’osservazione di altri che riescono con successo nel compito incrementa il senso di autoefficacia. Un modello che mostra come affrontare il compito, spiega e fa vedere come si fa, trasmette a chi osserva conoscenza e insegna abilità e strategie utili per rispondere adeguatamente alle richieste dell’ambiente. Osservare persone simili a sé che, attraverso l’impegno e l’azione personale, raggiungono i loro scopi, incrementa la convinzione di avere le capacità utili per riuscire in situazioni simili. La persuasione è un altro strumento per rafforzare la convinzione nelle proprie capacità per ottenere ciò che si desidera. Se le valutazioni positive dei persuasori sono realistiche allora sono efficaci nel sostenere l’autocambiamento. Tuttavia la persuasione verbale come 249 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata unico strumento potrebbe non essere utile nel produrre una crescita nel senso di efficacia che permane nel tempo (Bandura, 2000). Soprattutto quando la vita pone di fronte alle difficoltà, se le persone significative esprimono fiducia anziché dubbi nelle capacità di chi agisce, producono effetti positivi nel mantenimento dell’autoefficacia. La persuasione ha un impatto maggiore con persone che posseggono un senso di autoefficacia rispetto a chi dubita di sé, in quanto hanno maggior probabilità di impegnarsi di più e più a lungo (Chambliss e Murray, 1979a; 1979b). Importante è tenere presente che la persuasione deve essere credibile e realistica altrimenti il rischio è quello di nutrire un falso senso di autoefficacia portando con maggior probabilità a degli insuccessi. Gli stati fisiologici ed emotivi sono informazioni somatiche che in parte influiscono sul giudizio delle proprie capacità e sono particolarmente importanti nell’ambito delle prestazioni fisiche, della salute e del padroneggiamento degli stressor. Uno stato di attivazione (agitazione, tensione, stanchezza, affaticamento, dolore) eccessivo può incidere negativamente sulla prestazione; contrariamente, quando le persone non sono tese e non percepiscono i segnali viscerali dell’agitazione prevedono di offrire prestazioni migliori. È un processo di giudizio complesso in quanto non è l’attivazione in sé ad avere un peso maggiore bensì il livello di attivazione. Un livello moderato migliora l’attenzione e facilita il compito, un livello elevato deteriora la qualità del funzionamento. Il giusto livello di attivazione dipende dal tipo di compito che si porta a termine. Non solo l’attivazione del sistema nervoso autonomo influisce sul giudizio di autoefficacia ma anche gli stati dell’umore. Per innalzare le convinzioni di efficacia bisogna migliorare le condizioni fisiche, ridurre i livelli di stress e la tendenza a provare emozioni negative ed agire sulle interpretazioni errate degli stati del corpo (Bandura, 1991a; Cioffi, 1991a). L’aspetto più importante è il modo in cui vengono percepite ed interpretate le reazioni emozionali e fisiche. Il modo in cui le persone percepiscono ed interpretano gli stati di attivazione fisiologica ed emotiva può determinare un aumento oppure una diminuzione nel senso di autoefficacia. Le persone sfiduciate, di umore negativo tendono ad interpretare le attivazioni come debilitanti e quindi spie della loro incapacità di affrontare una situazione, mentre le persone con un buon senso di autoefficacia considerano le attivazioni fisiologiche ed emotive come energia da spendere nell’azione (Hollandsworth et. al., 1979). Risultano utili per lo sviluppo ed il rafforzamento dell’autoefficacia quelle strategie che favoriscono il benessere psicofisico come il rilassamento, la ristrutturazione cognitiva dei segnali percepiti dal corpo e l’aumento delle capacità di controllo del proprio stato fisico ed emotivo. L’immaginazione è un’altra fonte che aiuta la persona ad innalzare la convinzione di autoefficacia. Sperimentare situazioni possibili o reali, attraverso la fantasia, rafforza e sostiene la fiducia verso le nostre capacità (Giusti, Testi, 2006). Inquadramento dell’autoefficacia nella psicodiagnosi Integrata Il concetto di valutazione ha subito nel tempo delle trasformazioni concettuali spostando l’attenzione dalla mera classificazione della patologia alla complessità del disturbo, esami250 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata nando la persona e i relativi fattori biologici, psicologici e sociali, osservando l’individuo da una prospettiva più ampia (Ruddell, 1997). La valutazione clinica o psicodiagnosi è una fase del piano di trattamento psicoterapeutico mediante la quale il clinico cerca di conoscere il funzionamento psichico di un determinato soggetto e la relativa denominazione condivisa dalla comunità scientifica. È una fase indispensabile in diversi momenti del piano di trattamento terapeutico al fine di conoscere gli elementi caratteristici della persona, monitorare il processo e gli esiti della terapia. Diversamente da una diagnosi psichiatrica tradizionale, quella psicologica raccoglie una serie di informazioni, caratterizzata da una consequenzialità di prassi che conferiscono alla diagnosi un rigore scientifico e verificabile (Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). La formulazione del caso è il risultato del sapere generale nomotetico adattato al caso specifico ovvero alla conoscenza idiografica. Si tratta di un resoconto narrativo delle informazioni raccolte durante i colloqui di valutazione diagnostica, in cui il clinico deve giungere alla comprensione anche grazie alla collaborazione del paziente. Questa fase, definita alleanza diagnostica, si conclude ottenendo dal clinico una riformulazione di ciò che è stato appreso restituendolo in modo chiaro e pertinente al paziente, momento di transizione tra la valutazione e l’inizio della terapia (Lingiardi, 2009). Esistono diverse tipologie di valutazione del funzionamento psichico poiché diversi sono i modelli che osservano l’essere umano da prospettive e finalità differenti. Il modello integrato considera l’oggettività della diagnosi psichiatrica, la complessità della psicologia clinica ed il rigore metodologico della psicologia accademica. Un modello che cerca di andare incontro alle esigenze del clinico, considerando le ricerche empiriche sulla personalità e tenendo presente quali informazioni deve fornire per una buona formulazione del caso. Una valutazione globale e chiara prende in considerazioni diversi domini del funzionamento della personalità: motivazioni, risorse psicologiche, esperienza del sé e degli altri, capacità relazionali e di sviluppo. In particolare troviamo nell’area delle risorse psicologiche sotto le funzioni cognitive, il sistema di convinzioni all’interno delle quali possiamo inserire l’autoefficacia (Westen, 1998). L’Assessment clinico prevede la misurazione e valutazione sistematica di fattori psicologici, sociali e biologici nella persona poiché è riconosciuto oramai un probabile disturbo originatosi da causalità multiple. Per cui nessun singolo approccio può essere così esauriente quanto l’integrazione di informazioni derivanti da più approcci, ponendo l’accento sulla visione olistica dell’individuo. L’Assessment nella psicoterapia integrata non si limita ad una fase iniziale di valutazione ma dura lungo tutto l’arco del processo terapeutico, usando tutti gli strumenti (test comportamentali, proiettivi e cognitivi) che la ricerca mette a disposizione tenendo presente la relazione e gli obiettivi del contratto terapeutico. Un’alleanza diagnostica in cui la valutazione non va condotta sulla persona ma con la persona, all’interno di una relazione empatica, condividendo obiettivi condivisi (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Un processo diagnostico che vuole far emergere una maggior consapevolezza di sé portando alla luce le caratteristiche legate non solo alla sintomatologia ma anche alle risorse (Handler & Meyer, 1998). L’essere umano nella sua unicità è un insieme di caratteristiche fisiche e di personalità. Nella personalità iscriviamo elementi innati ed appresi, ovvero abilità innate ed acquisite, temperamento, attitudini, qualità, tratti che caratterizzano pensieri, sentimenti e comporta251 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata menti. La personalità viene definita come lo stile di comportamento stabile e relativamente prevedibile nel tempo (Spalletta, 2010). Per valutare determinate caratteristiche di pensare e di agire ci si avvale di procedure complesse; attraverso una diversità di strumenti e tecniche (inventari, interviste, colloqui, osservazioni, checklist, rating scale e tecniche proiettive) (Aiken, 1999). Quando si parla di valutazione cognitiva si focalizza l’attenzione ai costrutti cognitivi e nell’ambito dell’autoefficacia, i prodotti cognitivi sono le convinzioni. (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Esistono due tipologie di personalità in relazione al grado di autoefficacia percepita: alta e bassa. Nella prima gli individui scelgono compiti in cui possiedono specifiche attitudini, un livello di aspirazioni realistico, si impegnano nelle situazioni di difficoltà e perseguono l’obiettivo con costanza, reagendo positivamente ai fallimenti e non facendosi prendere dall’ansia. Nella seconda evitano compiti impegnativi, presentano basse aspirazioni, l’impegno nelle difficoltà è scarso, abbandonano il compito e sono vulnerabili alle frustrazioni e allo stress. L’autoefficacia è un costrutto che va distinto da altri quali l’intenzionalità, l’autostima, il locus of control e le aspettative di risultato. Le convinzioni sono le maggiori determinanti dell’intenzionalità, l’autostima è un giudizio di valore, il locus of control è la misura in cui si ritiene che gli eventi siano determinati dalle proprie azioni o forze esterne infine le aspettative di risultato riguardano le conseguenze probabili legate alle prestazioni. Una caratteristica dell’autoefficacia è la specificità poiché le convinzioni di efficacia personale sono relative a determinate forme di essere, di sapere e di fare. Si possono avere convinzioni di autoefficacia in abilità o ambiti simili; ad esempio se conosco la matematica posso generalizzare la mia convinzione di efficacia anche in altre materie scientifiche. È possibile avere un sentimento di competenza generale per cui il senso di autoefficacia è diffuso in più ambiti. Alcuni autori ritengono che è plausibile una valutazione generale dell’autoefficacia (Schwarzer, 1992; Sherer et. al., 1982; Tipton, Worthington, 1984). Il testo di Giusti e Testi (2006) presenta un test di valutazione generale dell’autoefficacia General Self-efficacy di Jerusalem e Schwarzer (1986). Tuttavia nella realtà una persona può essere efficace in alcuni ambiti ma non in tutti. Si può essere bravi nello sport ma non nel lavoro; nell’ambito familiare si può essere un buon genitore ma al contempo non un buon figlio. Per tale motivo l’uso di misure volte a valutare l’autoefficacia generale è assai dibattuto in quanto ha un valore predittivo ed esplicativo limitato. Quando si valuta la personalità si usano autovalutazioni (self reports) prestando attenzione a che cosa si desidera misurare. Ad esempio, se si vuole misurare un tratto di personalità l’attenzione sarà rivolta alla frequenza dei comportamenti, in quanto il tratto è una costellazione di modi di pensare e di agire ricorrente in determinate situazioni e specificatamente caratteristico. Nel caso delle convinzioni di efficacia misuriamo quanto le persone ritengono di essere in grado di fare, sentire, esprimere, essere e divenire, ovvero dei giudizi di capacità personali. Indagare le convinzioni di autoefficacia personale relativamente ad un dato comportamento permette di predire la condotta dell’individuo in quell’ambito specifico. Quindi le scale di autoefficacia devono essere costruite in funzione dell’ambito di interesse di studio e con item semplici e chiari, evitando un linguaggio tecnico o inusuale. Inoltre per valutare 252 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata la forza delle convinzioni personali gli item devono presentare differenti livelli di difficoltà (Caprara, 2001). Oltre ad essere strumenti utili, agevoli e di rapida somministrazione rappresentano un modello di riferimento per costruire nuove scale in base all’esigenza. Si possono utilizzare all’inizio ma anche al termine del trattamento, al fine di monitorare il livello del senso di sicurezza che deriva dall’esperienza vissuta di dominare le situazioni. Le scale possono essere somministrate sia individualmente sia collettivamente. Prima della compilazione è importante creare un clima positivo spiegando l’utilità e lo scopo della somministrazione e degli strumenti impiegati per una corretta presentazione delle scale. Le persone registrano la forza delle proprie convinzioni su una scala lungo un continuum che prevede diverse posizioni di sicurezza. I punteggi grezzi ottenuti si calcolano sommando le risposte fornite dai soggetti alle asserzioni che compongono la scala. Per interpretare i punteggi sono fornite delle indicazioni di massima sulla base dei punteggi in percentili identificando cinque fasce di punteggio (bassa, medio bassa, media, medio alta e alta). Per l’individuazione della fascia a cui corrisponde il punteggio grezzo si usano le tabelle di conversione. Il testo di Caprara pubblicato nel 2001 presenta un ampio campionario di strumenti già collaudati per la misurazione dell’autoefficacia in diversi contesti (clinico, educativo, riabilitativo) e fasce evolutive (adulti, adolescenti). Sono strumenti diagnostici e pragmatici utilizzabili sia nella ricerca, sia nell’ambito dei servizi preposti alla tutela e alla promozione della salute. Troviamo misure delle convinzioni di autoefficacia emotiva, interpersonale, collettiva, familiare, scolastica, nelle scelte di carriera, sociale, regolatoria, genitoriale, nelle life skills e nell’ambito della salute (alimentazione, esercizio fisico, alcool e relazioni sessuali). Desidero citare nel dettaglio alcune scale del tutto nuove, utili in ambito clinico, che rappresentano il prodotto della collaborazione tra L’Università di Roma “ La Sapienza” e l’Università Cattolica di Milano con Albert Bandura: Nell’ambito dell’autoefficacia emotiva: (la Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative AP_EN e la Scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive AP_EP di Gian Vittore Caprara e di Maria Gerbino); Nell’ambito dell’autoefficacia interpersonale: (la Scala di Autoefficacia Empatica Percepita AEP e la Scala di Autoefficacia Sociale Percepita ASP di Gian Vittorio Caprara e di Maria Gerbino e Alessandra delle Fratte). Il costrutto dell’autoefficacia è un funzionamento chiave in tutte le fasce d’età poiché non solo influenza direttamente il comportamento ma anche indirettamente obiettivi, aspirazioni, aspettative di risultato, inclinazioni affettive, percezioni di ostacoli e opportunità nell’ambiente sociale (Bandura, 1995, 1997). Nell’ambito clinico l’autoefficacia è stata studiata e sviluppata in relazione all’ansia e alle disfunzioni fobiche, alla depressione, alle dipendenze. Esiste un’ampia letteratura nell’ambito della promozione della salute che si è occupata di studiare le leggi che regolano il cambiamento e l’apprendimento di nuovi comportamenti. A tal proposito, il Modello Transteorico suggerisce che un individuo passa attraverso un crescente grado di disponibilità verso il cambiamento stesso. Un processo che comporta un’evoluzione in 5 stadi: pre-contemplazione, contemplazione, preparazione, azione e mantenimento (Norcross, Krebs, Prochaska, 2012). Attualmente la ricerca indica che i trattamenti specifici e adeguati allo stadio risultano delle strategie potenti e globali per cambiare il comportamento (Norcross, Krebs, Prochaska 2012). 253 L’autoefficacia nella psicodiagnosi integrata Nella fase della preparazione troviamo, il senso di autoefficacia, un processo di auto liberazione in quanto le persone sono convinte di avere la capacità di cambiare il proprio comportamento, l’impegno e la perseveranza per agire in base a tale convinzione. Per favorire tale processo è opportuno fornire ai clienti consigli da esperti e diverse possibilità di scelta con un atteggiamento relazionale paragonabile ad un allenatore esperto. Una finalità del disegno psicoterapeutico pluralistico integrato di cura è l’elaborazione personalizzata delle strategie diagnostiche e delle relazioni terapeutiche (Giusti, 2011). Nella pratica clinica, valutare in quale fase di cambiamento si trova il cliente attraverso colloqui e strumenti diagnostici permette di adeguare su misura il trattamento terapeutico. Bibliografia Aiken L.R., (1999), Personality Assessment (3rd edn.), Hogrefe & Huber, Seattle. Bandura A., (1977), Self-efficacy: Toward a unifying theory of behavioral change, “Psychological Review”, n 84, 191-215. Bandura A., (1977b), Social learning theory, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J.Bandura A., (1995), (a cura di), Self-efficacy in changing societies, New York, Cambrige. Bandura A., (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, N.J., Prentice- Hall. Bandura A., (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health promoting behavior, In J. Madden, IV (a cura di) (1991), Neurobiology of learning, emotion and affect, New York, Raven, 229-270. Bandura A., (1997), Self-efficacy: The exsercise of control, New York, Freeman. 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Psychological Ass., Washington, DC. 255 Il monitoraggio del percorso clinico in gruppo 21 di Andrea Pagani Andrea Pagani, Psicologo, Psicoterapeuta a indirizzo umanistico integrato. Libero professionista, si occupa di psicoterapia individuale, di gruppo e di coaching. Docente presso la Scuola di specializzazione quadriennale in Psicologia clinica di comunità e Psicoterapia umanistica integrata ASPIC; presso la Scuola Superiore Europea di Counseling Professionale ASPIC; presso il Master in Mediazione Familiare MEDIARE. Ha pubblicato in collaborazione con Edoardo Giusti per la Sovera Il successo professionale 2.0. Abstract Il setting di gruppo è un ambito in cui la misurazione del processo terapeutico non è ancora molto approfondita. Gli studi riguardanti il gruppo si sono sviluppati verso tre direzioni simili e in qualche misura sovrapponibili: l’alleanza terapeutica, la coesione, il clima del gruppo. Uno dei pochi strumenti che misura la dimensione del clima di gruppo è il Questionario sul clima di Gruppo (GCQ, Group Climate Questionnaire), proposto da MacKenzie. Nella pratica clinica abbiamo deciso di utilizzare il CGQ all’interno di un gruppo psicoterapeutico a indirizzo umanistico integrato, allo scopo di monitorare i risultati ottenuti prima di inserire una modifica all’interno del setting. L’attività di valutazione del percorso di gruppo, al di là dei risultati specifici, ha avuto un’utilità importante per quel che riguarda gli elementi di discussione presenti nelle supervisioni svolte in modalità alla pari dai due conduttori, migliorando la qualità del monitoraggio del processo terapeutico in corso. Keywords: gruppo; monitoraggio; alleanza; coesione; clima. La prassi clinica necessita della costruzione di percorsi che possano rispondere con congruenza alle richieste di alta professionalità derivanti dal mercato attuale (Giusti, Pagani, 2012). Diventa quindi sempre maggiormente necessario coniugare la prassi clinica alla ricerca e al monitoraggio basato sull’evidenza. Questo chiama i professionisti della relazione d’aiuto ad aumentare lo sforzo per proporre una metodologia clinica sempre maggiormente efficace. La figura del professionista va quindi costruita su di una selezione delle procedure 256 Il monitoraggio del percorso clinico in gruppo a prova di evidenza, Evidence Based, e su un processo clinico basato sulla profonda e articolata esperienza esplicitata nella pratica clinica Practice Based (Giusti, 2012); coniugando queste due dimensioni è possibile costruire una professionalità solida e in continua crescita (Spalletta, 2011). Occorre quindi proporre un percorso psicoterapeutico nel quale sia presente un monitoraggio dei risultati ottenuti, così da sviluppare un’accurata valutazione del processo ed eventualmente apportare le dovute modifiche alla proposta clinica. Uno degli ambiti dove la misurazione del processo terapeutico non è ancora molto sviluppata è quello del gruppo (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Spesso le tecniche presenti privilegiano il monitoraggio del percorso personale, attraverso l’utilizzazione di strumenti che rilevano lo stato di benessere complessivo, la riduzione o la scomparsa dei sintomi, valutati in follow-up e confermati da questionari di self-report (Giusti, Nardini, 2006), al contrario sono poche le misurazioni ben utilizzate del percorso di gruppo valutato “come un tutto” (MacKenzie, 2002; Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Nel corso del tempo gli studi riguardanti il gruppo si sono sviluppati verso tre direzioni simili e in qualche misura sovrapponibili: l’alleanza terapeutica; la coesione, il clima del gruppo. L’alleanza terapeutica è uno dei fattori centrali per una riuscita del processo terapeutico (Giusti, Montanari, Montanarella, 1997). Questo costrutto negli ultimi quarant’anni ha ricevuto una grande attenzione da parte della ricerca empirica (Muran, Barber, 2012), focalizzandosi sulla validità predittiva di questo costrutto. Se per quel che riguarda la psicoterapia individuale il concetto di alleanza è centrato sulle due figure presenti all’interno del setting, il terapeuta e il cliente, per quel che riguarda la psicoterapia di gruppo studiare e analizzare questo fattore diventa estremamente più complicato; esistono le stesse difficoltà che si riscontrano nella psicoterapia individuale molteplicità di denominazioni, definizione e misure, inoltre sono presenti due elementi aggiuntivi: gli altri pazienti e il gruppo come insieme (Piper, Ogrodniczuk, 2012). Vi è un ulteriore costrutto che si va a sovrapporre in qualche modo all’alleanza, quello della coesione, generalmente definita come l’attrattiva del gruppo per i suoi membri. Il costrutto della coesione incorpora un insieme complesso di relazioni che esistono all’interno di ogni gruppo di terapia, incluse quelle tra i membri, tra ciascun membro e il terapeuta, e tra ciascun membro e il gruppo. Se alcuni ricercatori hanno argomentato che la coesione nella terapia di gruppo è analoga al costrutto di alleanza, se non addirittura suo sinonimo (Piper, Ogrodniczuk, 2012), sembra chiaro tuttavia che la coesione sia un costrutto maggiormente complesso, in quanto implica relazioni multiple e di conseguenza alleanze multiple, fenomeni che non sono presenti nella terapia individuale. Anche se non è stato dimostrato che l’alleanza terapeutica fra paziente e terapeuta presente nella terapia individuale sia differente rispetto al concetto di coesione presente nella terapia di gruppo, possiamo affermare che fino ad oggi non è stato raggiunto un consenso su come definire l’alleanza e la coesione per distinguere i due costrutti. Alcuni ricercatori (Burlingame, McClendon, Alonso, 2012) hanno evidenziato come la coesione abbia una struttura multidimensionale basata in particolare su due dimensioni. La prima riguarda la struttura della relazione terapeutica nei gruppi ed è distinta in coesione orizzontale e verticale; per orizzontale si intende la coesione di un membro con i suoi colleghi e con il suo gruppo in genere, per verticale si intende la descrizione della relazione 257 Il monitoraggio del percorso clinico in gruppo membro conduttore e si riferisce alla percezione da parte di un membro della competenza, genuinità e calore del conduttore. La seconda dimensione riguarda la coesione sul compito o sui lavori di gruppo con la coesione e l’affettività emotiva. Un altro fattore che è collegato al concetto di alleanza terapeutica è il costrutto del clima di gruppo proposto da MacKenzie (MacKenzie, 2002). Secondo quest’autore la caratteristica principale di un gruppo efficace è il livello di coesione, che si sviluppa nelle prime fasi di vita del gruppo attraverso un’identificazione positiva con il gruppo stesso. L’elemento fondamentale del termine coesione sta nel fatto che si applica al funzionamento del gruppo come un tutto e non alle interazioni dei singoli partecipanti. Il clima di gruppo secondo MacKenzie è la traduzione corrispondente dell’alleanza terapeutica nei gruppi psicoterapeutici. Qualora il clima sia positivo, i pazienti sembreranno motivati e impazienti di continuare il trattamento e avvertiranno un forte senso di coinvolgimento nel processo; il risultato dell’alto livello di coesione porta a una sempre maggiore collaborazione dei pazienti nei confronti del trattamento. Diventa più importante l’opinione positiva degli altri partecipanti, piuttosto che nei confronti del terapeuta stesso. Lo strumento proposto da MacKenzie per la misurazione del clima di gruppo è il Questionario sul clima di Gruppo (GCQ, Group Climate Questionnaire). Il GCQ è un questionario costruito su dodici item che contiene tre sub scale: La scala del Coinvolgimento (impegno) da indicazioni sul clima di lavoro positivo paragonabile all’alleanza di lavoro, coglie inoltre gli aspetti della coesione di gruppo e i fattori terapeutici di supporto (Giusti, Montanari, Iannazzo 2006); comprende: nell’item 1 le dimensioni rogersiane, nel 2 la comprensione cognitiva, nel 4 la coesione del gruppo, nell’8 la sfida reciproca, nell’11 l’apertura di sé. La scala Conflittuale individua un ambiente di gruppo negativo: l’item 6 evidenzia la rabbia, il 7 la distanza, il 10 la sfiducia, il 12 la tensione. La scala Evitante riguarda l’evitamento dei lavori personali nel gruppo: l’item 3 riguarda l’evitare problemi importanti per i partecipanti, l’item 5 la dipendenza dal leader, l’item 9 il seguire le norme del gruppo. I risultati di questo questionario sono mostrati semplicemente come punteggi item medi per ogni sub scala. I punteggi del GCQ variano nel tempo, diventa quindi utile ripetere le somministrazioni al fine di monitorare il clima di gruppo nelle differenti fasi temporali. Il limite maggiore del questionario riflette il punto di vista di Mackenzie, negli item, infatti, non viene affrontata se non marginalmente, item 5, la relazione fra terapeuta e paziente. Questionario sul Clima di Gruppo (GCQ) (MacKenzie, 2002) Cognome e Nome Gruppo Data Istruzioni: leggi accuratamente ogni affermazione con attenzione e cerca di pensare al gruppo nel suo insieme. Utilizzando la scala di valutazione come guida, per ogni affermazione segna il punteggio che descrive meglio il gruppo durante la seduta odierna. Sei pregato di scegliere solo UNA risposta per ogni affermazione. 258 Il monitoraggio del percorso clinico in gruppo Scala di valutazione 0 per nulla – 1 molto poco – 2 piuttosto – 3 moderatamente 4 abbastanza – 5 molto – 6 moltissimo 1 I partecipanti hanno simpatizzato e si sono interessati l’uno dell’altro 2 I partecipanti hanno cercato di comprendere il perché delle loro azioni, hanno cercato di ragionarci sopra 3 partecipanti hanno evitato di prendere in considerazione importanti problemi che si sono verificati tra di loro 4 I partecipanti hanno sentito che quello che stava accadendo era importante e che c’era un senso di partecipazione 5 I partecipanti si sono lasciati guidare dai conduttori del gruppo 6 Tra i partecipanti c’era attrito e rabbia 7 I partecipanti erano distanti e isolati l’uno dall’altro 8 I partecipanti si sono sfidati e confrontati reciprocamente per accordarsi sulle cose 9 I partecipanti sembravano fare le cose in modo che fossero accettabili da parte del gruppo 10 I partecipanti si rifiutavano e non avevano fiducia reciproca 11 I partecipanti hanno rivelato significative informazioni o sentimenti personali 12 I partecipanti sembravano tesi e ansiosi 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 0 1 2 3 4 5 6 Insieme a una collega, con cui conduco un gruppo psicoterapeutico da circa due anni, abbiamo deciso di svolgere un monitoraggio del clima di gruppo utilizzando a scadenze di tempo il CGQ, cosi da tenere presente i risultati ottenuti prima di inserire una modifica all’interno del setting. Pur nei suoi limiti, il CGQ a nostro avviso può fornire alcune indicazioni rispetto al livello dell’alleanza terapeutica presente nel setting. Il gruppo è nato con sei partecipanti e avevamo inizialmente deciso che la durata opportuna fosse di un’ora e mezza. Si tratta di un gruppo aperto (Giusti, 2012), che permette l’inserimento di nuovi pazienti nel corso dell’anno. Dopo alcuni mesi si sono aggiunti altri tre partecipanti e il tempo a nostra disposizione non ci ha consentito di lavorare in maniera sufficientemente approfondita per permettere il coinvolgimento dei partecipanti e dare il corretto tempo a disposizione per favorire il fluire delle esperienze espresse tramite i feedback (Giusti, D’Ascoli, 2000); in sostanza il ciclo del contatto (Giusti, 2012) dell’incontro del gruppo non era ben sviluppato. La durata insufficiente dell’intervento di gruppo era inoltre manifestata da sintomi di diminuzione della coerenza (Burlingame, McClendon, Alonso, 2012), intesa come sinonimo della relazione terapeutica nella psicoterapia di gruppo legata alle dimensioni dei livelli di fiducia, ostilità, silenzio, superficialità (Benson, 2009). 259 Il monitoraggio del percorso clinico in gruppo Prima di apporre dei cambiamenti abbiamo voluto utilizzare uno strumento per monitorare quello che stavamo facendo. Cambiare la durata di un intervento psicoterapeutico comporta, di fatto, la modifica del setting con tutto ciò che ne consegue. Abbiamo cercato di dare quindi una risposta alla necessità di proporre un cambiamento utilizzando uno strumento che monitorasse il prima e il dopo la modificazione dell’orario. Per far questo abbiamo scelto di utilizzare lo strumento proposto da MacKenzie (MacKenzie, 2002). Prima di descrivere la somministrazione e i risultati del questionario descriviamo brevemente la metodologia clinica del gruppo utilizzata, il cui contesto teorico, metodologico e operativo di riferimento è quello del modello pluralistico integrato (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2000). La conduzione del gruppo è condotta in svolti in co-terapia (Giusti, Montanari, 2005); prima di essere inseriti nel gruppo i clienti hanno tutti effettuato, per un periodo di tempo variabile, un percorso individuale con i conduttori (Giusti, 2012), con la funzione di costruire una base sicura di accoglienza e supporto al fine di contenere comportamenti emotivamente disorganizzati e stati di confusione e disorientamento mentale e affettivo, o di ansia eccessiva. Abbiamo somministrato il questionario in tre fasi: prima di effettuare il cambiamento dell’orario; a un mese di distanza dal cambiamento; dopo tre mesi dal cambiamento. La modalità di somministrazione prevedeva la consegna del questionario ai partecipanti al termine del gruppo, con l’accordo che l’avrebbero portato all’incontro successivo. Questa modalità si è rivelata poco efficace, in quanto se nella prima somministrazione i sei noni dei partecipanti hanno riportato il questionario, nelle successive somministrazioni ne sono stati riconsegnati rispettivamente tre noni e cinque noni. Certamente la modalità proposta è stata errata, il questionario va compilato al termine della seduta e ritirato immediatamente dai somministratori. I risultati sono stati, di fatto, poco attendibili quanto i dati in nostro possesso sono incompleti. Quello che possiamo trovare positivo del lavoro svolto, riguarda l’utilità indiretta di proporre questionari all’interno del percorso di gruppo con la funzione di monitorare il processo terapeutico in corso (Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). Questo, infatti, ha portato i co-terapeuti a confrontarsi e a porsi delle questioni riguardanti l’alleanza terapeutica presente fra pazienti e conduttori, iniziando ad affrontare un tema che ha necessità di essere approfondito quale lo sviluppo dell’alleanza in un gruppo a co-conduzione. Se è vero che nel gruppo una delle due dimensioni della coesione (Burlingame, McClendon, Alonso, 2012) è l’alleanza terapeutica verticale, ovvero quella esistente fra terapeuta e paziente, potrebbe essere interessante studiare la differenza di alleanza presente fra paziente e terapeuta con cui si svolge o si è svolto un percorso individuale e terapeuta co-conduttore. Questo elemento diventa un interessante campo d’indagine e di approfondimento sia per sviluppare al meglio la tecnica della co-conduzione, sia per proporre linee guida Evidence Based (Giusti, 2012) al modello umanistico integrato. Bibliografia Benson J.F., (2009), Gruppi. 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Spalletta E., (2011), La centralità della relazione nell’approccio umanistico integrato, “Integrazione nelle psicoterapie”, 2, 1-8, Edizioni Scientifiche ASPIC. 261 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari 22 di Cristina Povinelli Cristina Povinelli, Psicologa, Psicoterapeuta, Counselor. In passato si è occupata di adolescenti collaborando con i servizi sociali del Comune di Roma. Ha lavorato in progetti di prevenzione nelle scuole. Ha collaborato a numerosi progetti negli Istituti detentivi del Lazio. Svolge attività di formazione. Svolge attività privata come psicoterapeuta individuale e di gruppo. Abstract Sempre più diffuso, il Disturbo Bipolare è uno stato morboso caratterizzato da una grave instabilità dell’umore in cui si alternano periodi di depressione e di mania o di ipomania. Si tratta di una patologia difficile sia da diagnosticare, perché viene facilmente confusa con altre, sia da curare, perché chi la patisce, spesso, rifiuta l’idea di essere malato. La sindrome bipolare, quando esordisce con un episodio depressivo, può essere confusa con una depressione tout court (Depressione Unipolare). Tale errore diagnostico può comportare rischi molto gravi qualora il paziente assuma farmaci: i classici antidepressivi, infatti, causano nel paziente bipolare un rapido viraggio nella fase maniacale, un’induzione di rapida ciclicità e, caso ancor più grave, un aumento del rischio suicidario. Quindi per il professionista una diagnosi precoce è di primaria e fondamentale importanza a maggior ragione quando si rende necessario l’invio al collega psichiatra. Keywords: Disturbo Bipolare, Depressione Bipolare, Depressione Unipolare, Mania, Ipomania, suicidio Il Disturbo Bipolare dell’Umore, termine che ha sostituito la denominazione tradizionale di Psicosi Maniaco-Depressiva, è caratterizzato dall’alternarsi di una Sindrome Depressiva ad andamento episodico con uno stato di esaltazione dell’umore, anch’esso episodico, definibile come Sindrome Maniacale (DSM-IV-TR, 2001); il quadro clinico è quindi essenzialmente dominato da variazioni abnormi del tono dell’umore. Il Disturbo Bipolare rappresenta la punta estrema dell’insieme dei Disturbi dell’Umore 262 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari che nel complesso si definisce Spettro Bipolare. Tra i due poli opposti, Depressione e Mania, entrambi unipolari nella iniziale accezione di Kraepelin (nel DSM IV solo la depressione mantiene la forma unipolare), è possibile il declinarsi di uno spettro completo che copre tutte le gradazioni possibili delle due polarità (Perugi et. al., 2003). Le variazioni di umore non solo si manifestano nello spettro quanto a intensità e gravità, ma anche per la diversa frequenza temporale passando dai cosiddetti “cicli rapidi”- fino alla contemporaneità degli stati misti. Nel DSM IV TR (DSM-IV-TR, 2001) i Disturbi Bipolari comprendono: Disturbo Bipolare I: nella vita di un individuo vengono riscontrati almeno un episodio maniacale o misto e un episodio depressivo maggiore. La forma mista è caratterizzata dalla presenza contemporanea di manifestazione tipiche di una sindrome depressiva e di una sindrome maniacale (Giberti et. al., 2010). Il Disturbo Bipolare I, più grave (possibile presenza di sintomi psicotici), comporta una compromissione del funzionamento lavorativo o delle abituali attività sociali, o delle relazioni interpersonali Disturbo Bipolare II: la diagnosi è possibile quando nella vita di un individuo vengono riscontrati almeno un episodio ipomaniacale e un episodio depressivo maggiore Disturbo Ciclotimico: nell’arco di due anni sono presenti numerosi episodi ipomaniacali alternati ad episodi depressivi che non soddisfano i criteri per l’episodio di depressione maggiore Disturbo Bipolare Non Altrimenti Specificato: in base all’anamnesi e agli esami clinici e paraclinici si evidenzia che il Disturbo è dovuto agli effetti diretti di una sostanza o di una condizione medica generale Il Disturbo Bipolare I e il Disturbo Bipolare II, nel loro decorso, possono assumere la forma a cicli rapidi; l’andamento, in questi casi, è caratterizzato da episodi di polarità opposta relativamente brevi che si succedono durante l’anno praticamente senza soluzione di continuità, con un viraggio generalmente rapidissimo, soprattutto nel passaggio da depressione a mania Confrontando tale suddivisione con le descrizioni classiche della malattia maniaco-depressiva proposte da Kraepelin e Kretschmer, possiamo notare una sostanziale concordanza in quanto i suddetti hanno considerato gli stati affettivi lungo un continuum che varia dalle forme gravi a quelle attenuate spaziando, senza una netta linea di demarcazione, dalle forme psicotiche alle disposizioni temperamentali (Perugi, et. al., 2003). È, comunque, da rilevare che questi autori classici hanno descritto come appartenenti al medesimo spettro geneticocostituzionale della malattia maniaco-depressiva anche i temperamenti affettivi nei quali sono presenti oscillazioni stabili dell’umore, a esordio precoce, di natura sub-depressiva o ipomaniacale e che non necessariamente raggiungono un livello clinico patologico (Cassano et. al., 2008). Il concetto di uno spettro bipolare, che si estende dalle forme psicotiche gravi (maniacali o miste), alle depressioni attenuate (“caratteriali”), è sostenuto oggi da gran parte dell’evidenza empirica disponibile (Raja, 2006). Negli studi genetici, anche tra i familiari di probandi bipolari I (quindi con una chiara storia di gravi episodi maniacali), l’espressione fenotipica più comune dei disturbi dell’umore è rappresentata comunque dalla depressione. (Kiskal et. al., 1999) Questo concetto di ampio spettro è stato avvalorato recentemente dagli studi epidemiologici di Angst, uno dei ricercatori il cui lavoro ha esercitato originariamente una grande 263 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari influenza nel promuovere la dicotomia tra disturbi dell’umore di tipo bipolare e unipolare (Angst, 2003); Angst ha dimostrato l’elevata prevalenza lifetime (8.3%) di episodi ipomaniacali di breve durata, al di sotto della soglia dei 4 giorni richiesti dai criteri classificativi del DSM IV. (Angst, 1998) La prevalenza nel corso della vita dei Disturbi dell’Umore varia dal 2% al 25%; quella del Disturbo Bipolare è dell’1-6,5% (Biondi et. al., 2010). Il Disturbo Bipolare sta colpendo persone sempre più giovani e le cause probabilmente vanno ricercate nei cambiamenti di stile di vita (estrema competitività, uso di sostanze stimolanti e/o droghe, alterazioni del sonno) in soggetti con una predisposizione temperamentale (Koukopoulos et. al., 2005). Venendo a contatto con il Disturbo Bipolare ci si accorge immediatamente di essere di fronte ad un quadro altamente complesso e variegato che spesso reca importanti comorbilità con Disturbi di Personalità del Cluster B (Borderline, Istrionico, Narcisistico e Antisociale), con Disturbi d’Ansia e con Disturbi da Uso di Sostanze (molto comune è l’abuso di alcool). La diagnosi, quindi, può rivelarsi altamente complessa e insidiosa rispetto ad altri disturbi. La difficoltà maggiore nel Disturbo Bipolare risiede nell’identificare il tratto unificante di sintomatologie all’apparenza opposte, la Depressione e la Mania. A tal proposito è importante, ai fini di una corretta diagnosi, effettuare un’analisi che si svolga essenzialmente su due piani: Trasversale, basata sull’osservazione delle caratteristiche sintomatologiche dell’Episodio in sé (Episodio Depressivo Maggiore, Maniacale, Misto o Ipomaniacale). Longitudinale, ottenibile dall’anamnesi e dalla catamnesi del Disturbo, al fine di valutare il succedersi, l’alternanza, la durata e le altre caratteristiche degli Episodi della malattia. Nel suo piano di trattamento, accanto alla psicoterapia, in genere si rende necessario l’utilizzo di farmaci a seconda della gravità dei sintomi. Da “manuale” la cura farmacologica trova la sua “forte“ ragion d’essere sia nell’eziologia dei Disturbi dell’Umore sia nella loro evoluzione e prognosi. Per quanto riguarda l’eziologia la rilevanza dei fattori genetici è stata dimostrata ampiamente dalla trasmissione del Disturbo Bipolare; i parenti di primo grado di un paziente con Disturbo Bipolare hanno una probabilità del 4,1%-14,6% di sviluppare essi stessi un Disturbo Bipolare e una probabilità del 5,4%-14% di sviluppare un Disturbo Depressivo Maggiore (Biondi et. al., 2010). In particolare, il Disturbo Bipolare II presenta una propria familiarità: i pazienti che ne sono affetti hanno parenti ipomaniacali, ma non maniacali. Per quanto riguarda la biologia, l’ipotesi recente più accreditata fino ad oggi, che spiega le manifestazioni sintomatologiche dei Disturbi dell’umore, trova coinvolti i sistemi neuronali che utilizzano come mediatori chimici le amine biogene, noradrenalina e serotonina. In particolare si ipotizza un’alterazione dei meccanismi di trasduzione del segnale del neurotrasmettitore monoaminergico al suo neurone postsinaptico. Il deficit avviene quindi a valle del recettore postsinaptico e, con ogni probabilità, coinvolge i sistemi dei secondi messaggeri, deputati alla formazione dei fattori di trascrizione genica. Recenti dati sperimentali hanno evidenziato, per esempio, che un possibile difetto di trasduzione del segnale dal recettore per le monoamine potrebbe riguardare il gene che codifica il fattore neurotrofico di derivazione cerebrale (BDNF Brain Derived Neurotrphic Factor), il quale è coinvolto nel mantenimento del trofismo neuronale; in presenza di stress il BDNF verrebbe represso, con la conseguente tendenza all’atrofia dei neuroni cerebrali, fenomeno che avrebbe un ruolo importante nella patogenesi della depressione (Biondi et. al., 2010). In sostanza, sembra che i soggetti 264 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari predisposti ai Disturbi dell’Umore potrebbero andare incontro a un’eccessiva e prolungata attivazione della risposta allo stress, con la conseguenza di innescare una serie di ricadute negative, tra cui le modificazioni neurochimiche cerebrali, ritenute gli elementi mediatori dei Disturbi dell’umore. Per tale motivo gli individui con disturbo bipolare sono ad alto rischio di disfunzione relazionale come dimostrato nello studio di Rowe e Morris (Rowe et. al., 2012). Essi hanno meno probabilità di sposarsi o stabilire relazioni impegnate rispetto agli individui senza disturbo bipolare, più probabilità di avere stress relazionale e separazioni; inoltre, i loro partner sono a rischio di stress relazionale e di farsi carico del ruolo di caregiver (Dore et. al., 2001; Judd et. al., 2003; Kessler et. al., 1998). L’associazione tra disturbo bipolare e la relazione disfunzionale di coppia è importante non solo perchè mette in risalto il disagio vissuto dagli individui con questo disturbo e dai loro partner, ma anche perché è predittiva circa il funzionamento e il decorso della malattia. (Rowe et. al., 2012) In effetti, studi prospettici indicano che gli individui con disturbi bipolari, che hanno vicino un altro accudente e di supporto, sperimentano una sintomatologia depressiva minore nel corso del tempo (Cohen, 2004; Weinstock, Miller, 2010), mentre, con vicini ostili o critici, si notano una sintomatologia depressiva maggiore, una più povera risposta al trattamento, e più elevati tassi di recidività (Miklowitz, 2009). Nonostante questi risultati, non è chiaro perché alcuni individui con disturbo bipolare sono in grado di formare relazioni di coppia durature e soddisfacenti dove i partner si sostengono a vicenda, mentre altri non lo sono (Rowe et. al., 2012). Ci sono prove, tuttavia, che la mania può essere correlata a ostilità domestica (Dore, 2001; Perlis et. al., 2004), potenzialmente, mediante i meccanismi di impulsività e irritabilità e che il disturbo bipolare è caratterizzato da disturbi tali da incidere negativamente sulla funzionalità del rapporto, venendo a mancare l’empatia (Cusi et. al., 2010) e esasperando la reattività negativa (Cuellar et. al., 2009). Inoltre Rowe e Morris (2012) hanno cercato di dimostrare l’associazione tra i sintomi del paziente bipolare e del suo partner con il funzionamento della relazione. Se il partner ha bassi livelli di sintomi depressivi il funzionamento della relazione di coppia è garantito dalla funzione protettiva assunta dal partner stesso. Invece quando entrambi i partner hanno sintomi depressivi elevati la funzionalità del rapporto è più bassa e, in particolare, la persona con disturbo bipolare è probabilmente più portata all’ostilità o ad esprimere preoccupazione per la relazione stessa. Per quanto riguarda i sintomi maniacali, si è osservata una interazione tra ostilità del paziente e sintomi depressivi del partner e sue difficoltà nella relazione. In effetti, anche altre ricerche, hanno dimostrato che i sintomi maniacali sono particolarmente difficili da sopportare per i partner e gli altri membri della famiglia (Lam et. al., 2005), un risultato che non sorprende, visti i comportamenti problematici presenti nella mania. Alla luce di quanto detto sopra emerge la funzione positiva del litio quale farmaco stabilizzatore dell’umore, con più ampia e documentata azione profilattica sulle ricadute sia maniacali che depressive; è questo anche l’unico trattamento che si è dimostrato in grado di esercitare un’azione preventiva sui comportamenti suicidari. Accanto, o raramente in sostituzione, a questo stabilizzatore dell’umore possono essere impiegati alcuni derivati antiepilettici o farmaci antipsicotici. Alcuni studi segnalano che la terapia con il litio a lungo termine e a dosi adeguate ridurrebbe completamente il rischio di recidiva sino al 40% dei casi, 265 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari mentre in un altro 40-45% determina una riduzione parziale della frequenza e dell’intensità delle recidive (Giberti et. al., 2010). Molti ritengono l’eccitazione un processo lesivo, fortemente stressante per il sistema nervoso, e la depressione la sua conseguenza (Koukopoulos et. al., 2005). I dati sul fenomeno della eccitotossicità confermerebbero questa ipotesi. Questo modo di vedere le cose spiega anche perché gli stabilizzatori dell’umore sono tutti agenti antieccitanti, mentre gli antidepressivi inducono instabilità dell’umore. Secondo questa ipotesi si potrebbe dire metaforicamente che ”la mania è il fuoco e la depressione la sua cenere” (Koukopoulos et. al., 2005), pertanto, ridurre o sopprimere prima possibile gli stati di eccitazione dovrebbe essere la strategia adatta a prevenire anche le depressioni bipolari. È evidente, quindi, che l’esito diagnostico può avere importanti implicazioni nella scelta di una corretta terapia farmacologica: mentre il litio, stabilizzatore dell’umore, si conferma il farmaco d’elezione, gli antidepressivi, invece, utili nel trattamento della depressione “pura”, unipolare, possono rivelarsi inefficaci se non addirittura dannosi a breve e a lungo termine nel trattamento dei disturbi dello spettro bipolare. A questo riguardo nel caso di Disturbo Bipolare, rispetto a terapie antidepressive, è bene sapere che: mm I quadri maniacali che fanno seguito a trattamenti antidepressivi possono essere considerati forme appartenenti allo spettro bipolare nei quali i farmaci hanno svolto un ruolo di innesco. mm Gli antidepressivi sono ritenuti responsabili dell’evoluzione del disturbo bipolare nelle forme “a cicli rapidi”; lo sviluppo di rapida ciclicità è associato a una prognosi peggiore. mm È possibile osservare “quadri cronicizzati” di lunga durata, probabilmente innescati e poi mantenuti dalle terapie antidepressive, alle quali il paziente non vuole rinunciare per timore di cadere nuovamente nella polarità depressiva. In questi tipi di paziente sembra piuttosto venuta a mancare la capacità critica di riconoscere e accettare un livello di umore “normale”, ritenuto troppo “down” rispetto all’”up” maniacale e troppo prossimo alla temuta depressione. mm Evenienza più grave, il rischio di Suicidio aumenta qualora vengano somministrati antidepressivi durante la fase depressiva del Disturbo Bipolare. Il farmaco, infatti, favorendo il viraggio in senso ipomaniacale/maniacale, prima di elevare l’umore, potrebbe in primis agire sul blocco psicomotorio favorendo l’acting out. Questo esito è favorito perlopiù dagli antidepressivi triciclici o IMAO; gli SSRI, antidepressivi di ultima generazione, sarebbero la classe a minor rischio di viraggio (10% dei casi)(Biondi M, et. al., 2010). Nella maggior parte dei casi i pazienti si rivolgono per una consultazione a uno studio psicoterapico durante una fase depressiva. Sappiamo, infatti, che lo stato maniacale, e ancor più quello ipomaniacale, auto-percepito dal paziente perlopiù come stato di benessere, difficilmente costituisce uno stimolo ad una richiesta d’aiuto. Le condotte rischiose e la compromissione della vita sociale e lavorativa, inducono piuttosto i familiari a ricercare aiuto presso i servizi psichiatrici. Trovarsi di fronte ad un paziente con sintomatologia depressiva come Episodio attuale espone quindi lo psicoterapeuta ad una possibile erronea diagnosi. Il 10-15% dei pazienti, infatti, diagnosticati inizialmente come affetti da Disturbo Depressivo Maggiore riceve in 266 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari seguito una diagnosi definitiva di Disturbo Bipolare (Biondi, et. al., 2010). Tantissimi sono i test per diagnosticare i Disturbi dell’umore: Beck Depression Inventory, Centre for Epidemiological Studies Depression Scale, Hamilton Rating Scale for Depression, Minnesota Multiphasic personalità Inventory-2, Montgomery-Asberg Depression Rating Scale, Rorschac, Zung Self-Rating Depression Scale, Internal State Scale (Boncori, 1993) (Giusti., et. al.,2006), alcuni dei quali utilissimi anche per monitorare l’efficacia dei trattamenti terapeutici in atto. Quelli che appartengono ai Rapid Assessment Instruments (Beck Depression Inventory, Centre for Epidemiological Studies Depression Scale, Zung Self-Rating Depression Scale), in particolare, sono scale di valutazione standardizzate che, per la loro brevità e semplicità di somministrazione e valutazione, rappresentano agili strumenti di impiego per lo psicoterapeuta sia per la diagnosi sia per la valutazione in itinere (Giusti, et. al., 2006). Il Beck Depression Inventory si rivela molto utile rispetto al rischio di Suicidio e la Hamilton Rating Scale for Depression, cogliendo anche i correlati fisiologici della Depressione, stima il danneggiamento funzionale del paziente valutando così in termini quantitativi la gravità del quadro clinico (Boncori, 1993). Comunque, nessuno di questi, fino ad oggi, consente di cogliere, differenziandole, le due diverse forme depressive. Solo attraverso il colloquio anamnestico è possibile rilevare gli elementi utili ad una corretta distinzione diagnostica. L’analisi longitudinale, come già illustrato, consente di collocare l’episodio su una dimensione temporale, evidenziando i possibili legami con episodi pregressi di analoga e/o diversa natura, e di tracciarne una possibile storia. Dal suo canto l’analisi trasversale, può fornire gli elementi per l’identificazione dell’Episodio in sé, a maggior ragione quando l’episodio depressivo costituisce l’esordio del disturbo bipolare, la primissima fase, e ancora non ha una sua storia. Sono indicatori di un possibile sviluppo di un Episodio di Depressione Maggiore in senso bipolare l’insorgenza precoce, tra i 20 e i 30 anni, la familiarità per i disturbi Bipolari, il temperamento premorboso di tipo ipertimico o ciclotimico, il rallentamento psicomotorio, l’ipersonnia e iperfagia, i sintomi psicotici (Giberti et. al., 2009). La formulazione di una corretta diagnosi consente di predisporre il piano di trattamento. La terapia farmacologica, a seguito della gravità del disturbo, può rappresentare una valida alleata, soprattutto in una prima fase della terapia, per “lavorare” con il paziente. Un umore abnormemente depresso, infatti, ostacola sicuramente i primi movimenti necessari allo svolgersi del cammino terapeutico. Lo psicoterapeuta stesso, quindi, potrà essere l’inviante del paziente ad una consultazione psichiatrica. Una buona formazione in psicodiagnosi, anche per acquisire un linguaggio comune (Dazzi, et. al., 2009), una conoscenza di massima anche dell’aspetto farmacologico, inducono ad aprire un confronto con lo psichiatra che può dispiegarsi in una collaborazione senza dubbio proficua per il paziente: il margine di errore diagnostico si riduce, mentre si rinforza l’alleanza fra professionisti e tra professionisti e paziente, prevenendo, nei limiti di questa tipologia di pazienti, i drop-out. I fallimenti terapeutici, infatti, sono piuttosto frequenti sia nell’approccio farmacologico che in quello psico-relazionale. Tale situazione di fatto ha molte e ben comprensibili cause. Sono gli stessi disturbi psichici, la mania e l’euforia che ne deriva, che spesso impediscono al paziente di capire l’abnormità del proprio stato e del proprio comportamento. Inoltre il paziente inconsapevolmente, ma spesso consapevolmente, desidera l’euforia e trascura le cure che la possono diminuire o prevenire. L’euforia è una condizione di vita meravigliosa dove è presente 267 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari grande energia, sicurezza di sé, armonia con il tutto, profonde emozioni, lucidità e creatività mentale, intensa vita sentimentale e sessuale a cui è difficile rinunciare. Ecco quindi che la psicoterapia, soprattutto nei casi gravi di Disturbi Bipolari, può essere principalmente di supporto e appare necessaria sia nel trattamento dell’Episodio Depressivo sia nella fase di trattamento a lungo termine, al fine di sostenere il paziente nell’accettazione della sua condizione, nel mantenere alta la motivazione ai trattamenti farmacologici e nel supportarlo emotivamente a gestire gli eventi e le situazioni di vita stressanti, incluse le conseguenze psicosociali indotte dal disturbo stesso, visto il loro ruolo potenziale nel favorire le recidive. La Psicoterapia ad Approccio Integrato, mette in rilievo la ristrutturazione cognitiva e la terapia comportamentale (Persons, et. al.,2002), soprattutto per le fasi depressive, quali interventi funzionali con questo tipo di Disturbo. Il lavoro preliminare con il paziente è quello finalizzato a instaurare una buona alleanza terapeutica. L’alleanza, fondamento della relazione, costituisce, in base a ampie e comprovate ricerche, l’elemento predittore fondamentale di buon esito terapeutico, trasversale a molte e diverse modalità di trattamento (Safran, 2001). La difficoltà del paziente a riconoscere il proprio stato di disagio, i suoi cambiamenti nel tono dell’umore possono rendere molto precaria la relazione. Un contratto al non abbandono della terapia può rendersi necessario nei primi incontri, utile al rafforzarsi dell’alleanza operativa su scopi e obiettivi della stessa (Giusti, et. al., 2000). D’altro canto, le rotture dell’alleanza, particolarmente comuni con pazienti soggetti ad oscillazioni d’umore, anche molto marcate, possono consentire, qualora seguite da riparazione, un rafforzamento dell’alleanza stessa (Norcross, 2012). Anche la psicoterapia interpersonale si è dimostrata particolarmente efficace come trattamento per la Depressione (Klerman, et. al.,1989) Swartz, Levenson e Frank (2012) facendo riferimento alla psicoterapia interpersonale e dei ritmi sociali (IPSRT), trattamento empiricamente supportato per il disturbo bipolare di tipo I, hanno, attraverso un lavoro di ricerca con un gruppo di pazienti bipolare di tipo II, ricavato prove positive sull’efficacia di tale psicoterapia anche per tali pazienti In particolare hanno evidenziato l’importanza da parte dello psicoterapeuta di fornire motivazioni per apportare modifiche a ritmi sociali, identificare stati dell’umore, insegnare a regolare i livelli di stimolazione in base allo stato d’animo, gestire la grandiosità, rendere minima la disregolazione emotiva, intervenire sull’eventuale abuso di sostanze. Altro strumento importante nel trattamento e cura del Disturbo Bipolare è la Psicoeducazione. Attualmente molto utilizzata dalle ASL e dai Dipartimenti di Salute Mentali (Colom, et. al., 2006, Hadjichristos, et. al., 2010. De Girolamo, et. al., 2011), è volta a fornire informazioni e ad impartire istruzioni, in modo chiaro, didattico e concreto, sul Disturbo così che i pazienti ed i loro familiari possano imparare ad affrontarlo al meglio. A tal fine sono stati approntati veri e propri prontuari (Colom, et. al., 2006, Hadjichristos, et. al., 2010) che consentono al paziente e a chi lo circonda di conoscere la malattia, sapere come gestirla, riconoscere nuovi episodi di scompensi timici. Lavora quindi principalmente sull’empowerment (Giusti, et. al., 1999) dei pazienti e dei loro familiari. Attualmente rappresenta un fondamentale ingrediente di qualsiasi progetto di prevenzione, sostegno, assistenza e trattamento nell’area della salute mentale e del confronto con il disagio psichico. Essa dovrebbe pertanto essere integrata nel lavoro clinico, farmacologico, psicoterapeutico, e assistenziale, lungo un 268 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari percorso di trattamento che, data la cronicità di alcuni disturbi mentali, e nella fattispecie del Disturbo Bipolare, non si può non immaginare che come un work in progress. Elenco degli strumenti citati: Beck Depression Inventory (BDI): A. T. Beck et. al., 1976. Centre for Epidemiological Studies Depression Scale (CES-D): L. S.. Radloff, 1977. Hamilton Rating Scale for Depression (HRSD), M. Hamilton, 1967. Internal State Scale (ISS), M. Bauer et. al., 1991. Minnesota Multiphasic personalità Inventory-2 (MMPI-2), S.R. Hathaway & J. C., 1989. Montgomery-Asberg Depression Rating Scale (MADRS), S. Montgomery & M. Asberg, 1979. H. Rorschac, Rorschac 1921. Zung Self-Rating Depression Scale (ZSDS o anche ZDS): W. W. K. Zung, 1965. Bibliografia Angst J. 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VI Edizione aggiornata, Piccin 269 L’importanza di una corretta diagnosi nel caso di Disturbi Bipolari Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., (2000), Psicoterapie integrate, Masson Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., (2006), Psicodiagnosi integrata, Sovera Giusti E., Francescato D. (1999), Empowerment e Clinica, Edizioni Kappa Goodwin FK, Jamison KR., (1994), La malattia maniaco-depressiva, McGraw-Hill Libri Italia Hadjichristos A., Bandini I., (2010), Disturbo Bipolare – cosa sapere, SIPsi Società Italiana di Psicologia e Psichiatria Judd, L. L., & Akiskal, H. S., (2003), The prevalence and disability of bipolar spectrum disorders in the US population: Re-analysis of the ECA database taking into account subthreshold cases. , , 123– 131. doi: 10.1016/S0165-0327(02)00332-4 Kessler, R. C., Walters, E. E., & Forthofer, M. S., (1998), The social consequences of psychiatric disorders, III: Probability of marital stability. , , 1092– 1096. 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Questa scheda ha l’obiettivo di aiutare il clinico a sistematizzare i test somministrati, i vari aspetti della relazione terapeutica osservati durante tutto il percorso psicoterapeutico suddiviso nelle sue fasi principali, ad avere un continuo monitoraggio clinico e a visualizzare in modo più ordinato i dati del proprio paziente. Keywords: valutazione, monitoraggio clinico, raccolta dati integrati, psicoterapia evidence-based practice. La SPP (scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico) è costituita da un unico foglio. Nella parte davanti del foglio (Fig. 1) sono riassunti i dati essenziali del paziente rispetto al suo trattamento suddiviso nelle quattro fasi principali: mm fase iniziale, Accoglienza mm seconda fase, PreTerapia mm terza fase, Psicoterapia mm quarta fase, Conclusiva. Un processo che va dalla presa in carico, all’alleanza diagnostica, alla relazione terapeutica, alla fine del trattamento così come descritto dal modello pluralistico integrato (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004, 2006; Giusti, Vigliante, 2009). 272 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico In ciascuna di tali fasi è importante registrare i test utilizzati e alcuni degli aspetti principali che possono essere di aiuto per un continuo monitoraggio clinico. Tali aspetti si possono riferire al terapeuta per verificare il suo grado di accoglienza (GAT) o di rifiuto (GRT) verso il paziente, si possono riferire al paziente per verificare il grado di collaborazione (GCP), di aggressività (GAP) e di miglioramento sintomatico (GMS) durante il percorso psicoterapeutico. Il grado di presenza o assenza dei diversi aspetti può essere registrato su una scala che va da 0 – assente a 5 – elevato. Nella parte retro del foglio della scheda (Fig. 2) c’è anche la possibilità di visualizzare l’andamento del percorso psicoterapeutico attraverso la realizzazione di un grafico (tracciando delle linee di congiunzione dei gradi selezionati, di colore diverso) che prende in considerazione il grado di alleanza terapeutica (GAT), il grado di miglioramento sintomatico (GSM) e il grado di soddisfazione percepita dal paziente (GSP) rispetto al lavoro terapeutico suddiviso nelle quattro fasi. Anche in questo caso il grado di presenza o assenza può essere registrato su una scala che va da 0 – assente a 5 – elevato. Nel grafico è indicato il grado 2 in grigio per visualizzare un’area critica, al di sotto della quale si rilevano delle problematicità nella terapia. La rilevazione di questi aspetti è fondamentale in quanto, come sottolineato da Norcross “La relazione non può esistere a prescindere da ciò che il terapeuta fa in termini di metodo, né si può immaginare un metodo di trattamento privo di un impatto relazionale” (2012, p. 15). “Inoltre la relazione terapeutica deve procedere da uno stadio all’altro seguendo il percorso dei clienti” (Norcross, 2012a, p. 33). 273 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico Fig. 1 274 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico Fig. 2 275 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico Fig. 3 276 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico Fig. 4 277 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico È importante registrare i diversi stadi di cambiamento durante il percorso psicoterapeutico rispettando il tempo impiegato da ciascun individuo per passare da uno stadio all’altro e adeguando le varie tecniche psicoterapeutiche al momento più opportuno, adattando così la psicoterapia al processo di cambiamento in atto e non viceversa. Tale scheda vuole rispondere principalmente a due obiettivi. Il primo obiettivo riguarda la possibilità, appunto, di permettere una valutazione in progress del lavoro terapeutico che si sta svolgendo favorendo così un continuo monitoraggio clinico: “Il monitoraggio del processo terapeutico aiuta il clinico a determinare se la pianificazione è stata fatta ed è messa in opera in maniera appropriata per il cliente in un dato momento. Se così non fosse, è necessario fare degli aggiustamenti” (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006, p. 380). Alcuni studi clinici (Lambert, Ogles, 2004) hanno stimato che il 5%10% dei partecipanti ad una ricerca ha lasciato il trattamento in condizioni peggiori rispetto alla fase di inizio della terapia. È quindi di fondamentale importanza verificare di volta in volta come il paziente percepisce il lavoro terapeutico. “Se noi otteniamo delle informazioni su quello che sembra funzionare e, soprattutto su quello che non funziona, la nostra capacità di rispondere ai clienti potrebbe migliorare” (Lambert, Shimokawa, 2012, p. 284). Recentemente, infatti, nella pratica clinica si sta sviluppando sempre più un’ampia gamma di scale di valutazione standardizzate per raccogliere i feedback dei pazienti durante tutto il corso della terapia. Esempi di scale sono l’Outcome Rating Scale (ORS; Miller, Duncan, Sparks, Claud, 2003) che rappresenta una scala visuale analogica in cui il paziente deve valutare il suo stato di benessere soggettivo, le sue relazioni interpersonali, il suo funzionamento sociale e il suo senso globale di benessere e la Session Rating Scale (SRS; Duncan, Miller, 2008) che mira a misurare l’alleanza terapeutica; entrambe queste scale sono utilizzate da un sistema di garanzia della psicoterapia, il Partner for Change Outcome Management System (PCOMS; Miller, Duncan, Sorrell, Brown, 2005). Un altro sistema di controllo sulla psicoterapia è il sistema Outcome Questionnaire (OQ). L’Outcome Questionnaire-45 (OQ-45; Lambert, Morton et. al., 2004) è uno strumento selfreport di 45 item “attendibile, valido e sensibile ai cambiamenti che i clienti compiono durante il trattamento; fornisce ai clinici un segno vitale di salute mentale” (Lambert, Shimokawa, 2012, p. 291). Il secondo obiettivo della SPP si può suddividere a sua volta in due finalità. La prima riguarda la possibilità di sistematizzare la cartella clinica; tale scheda non sostituisce nulla di ciò che è già presente in essa, rappresenta uno strumento in più per una raccolta dati integrati (test utilizzati, ore di terapia effettuate, ecc.). La seconda finalità risponde alla possibilità si sistematizzare la cartella clinica anche per eventuali scopi di ricerca. La ricerca scientifica necessita nella sua prima parte di avvio, di avere la possibilità di raccogliere i dati in modo ordinato e semplificato. Tale procedura quindi potrebbe rappresentare anche uno strumento in linea con l’evidence-based practice (Goodheart, Kazdin, Sternberg, 2006) in quanto una registrazione sistematica della pratica clinica potrebbe avvicinarla all’integrazione della ricerca. Superare la dicotomia pratica-ricerca permetterebbe forse una crescita ad entrambi gli ambiti. Un punto di incontro arricchente, non escludente l’una o l’altra parte, porterebbe il vantaggio di migliorare la conoscenza della ricchezza e della complessità del processo psicoterapeutico sia per l’individuo in trattamento che per la comunità. 278 La SPP. Scheda di sintesi del percorso psicoterapeutico Bibliografia Duncan B.L. & Miller S.D., (2008), The Outcome and Session Rating Scales: he revised administration and scoring manual, including the Child Outcome Rating Scale. Chicago: Institute for the Study of Therapeutic Change. Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., (2004), Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti a breve, medio e lungo termine. Masson, Milano. Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., (2006), Psicodiagnosi integrata. Valutazione transitiva e progressiva del processo qualitativo e degli esiti nella psicoterapia pluralistica fondata sull’evidenza obiettiva. Sovera, Roma. Giusti E., Vigliante M., (2009), L’anamnesi psicologica. Tecniche e strumenti operativi integrati per la presa in carico. Sovera, Roma. Goodheart C.D., Kazdin A.E., Sternberg R.J., (2006), Psicoterapia a prova di evidenza. Dove la pratica e la ricerca si incontrano. Sovera, Roma. Lambert M.J. & Ogles B.M., (2004), The efficacy and effectiveness of psychotherapy. In Lambert M.J. Bergin and Garfi eld’s handbook of paychotherapy and behavior change. New York: Wiley. Lambert M.J., Morton J.J., et. al., (2004), Administration and scoring manual for the Outcome Questionnaire-45. Salt Lake City, UT: OQ Measures. Lambert M.J., Shimokawa K., (2012), Raccogliere i feedback dei pazienti. In Norcross J.C. Quando la relazione psicoterapeutica funziona… Ricerche scientifiche a prova di evidenza. Vol. I. Sovera, Roma. Miller S.D., Duncan B.L., Sorrell R. & Brown G.S., (2005), The Partners for Change Outcome System. Journal of Clinical Psychology: In Session, 61, 199-208. Miller S.D., Duncan B.L, Sparks J.A. & Claud D.A., (2003), The Outcome Rating Scale: A preliminary study of the riability, validity and feasibility of a brief visual analog measure. Journal of Brief Therapy, 2, 91-100. Norcross J.C., (2012), Quando la relazione psicoterapeutica funziona… Ricerche scientifiche a prova di evidenza. Vol. I. Sovera, Roma. Norcross J.C., (2012a), Quando la relazione psicoterapeutica funziona… Efficacia ed efficienza dei trattamenti personalizzati. Vol. II. Sovera, Roma. 279 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. 24 di Laura Rapanà Abstract Negli ultimi anni la possibilità di connettersi sempre e dovunque e sempre più con costi competitivi, ha generato un aumento di un utilizzo non adeguato di strumenti tecnologici. In questo articolo si propone il Questionario U.A.D.I. Uso, Abuso e Dipendenza da Internet come uno strumento di valutazione utile per l’individuazione del tipo e del grado di abuso che alcuni utenti fanno della Rete. Keywords: dipendenza, valutazione, Internet, questionario UADI. Lo IAD (Internet Addiction Disorder) è un termine coniato da Ivan Goldberg nel 1995 per indicare un disturbo da mancanza di controllo degli impulsi. Il primo lavoro pubblicato in Italia risale al 1998 (Cantelmi, Talli). L’età più vulnerabile per sviluppare uno IAD secondo la psicologa statunitense Young (1998) è indicata tra i 15 e i 40 anni, lì dove sono presenti, in generale, difficoltà comunicative, relazionali e familiari. Esistono dei fattori di rischio specifici per lo sviluppo di tale dipendenza, tra i quali, in particolare, la presenza di una diagnosi psichiatrica pregressa; seguono, le situazioni di emarginazione della persona, le situazioni lavorative in cui è richiesto un elevato grado di informatizzazione soprattutto con turni notturni e isolati e isolamento geografico (Cantelmi et. al., 2000). Valutare una possibile dipendenza da Internet è utile anche alla prevenzione di un eventuale sviluppo di condizioni molto gravi come, ad esempio, una Trance Dissociativa da Videoterminale caratterizzata, durante o dopo un lungo collegamento in Rete, dall’alterazione temporanea dello stato di coscienza, oppure dalla possibile assunzione di un’identità alternativa (Caretti, 2000; Caretti, La Barbera, 2001). Maggiormente esposte a questa nuova dipendenza sembrerebbero essere le personalità caratterizzate da tratti ossessivo-compulsivi e/o tendenti al ritiro nelle relazioni sociali e/o con aspetti di inibizione nei rapporti interpersonali, le quali arrivano a sviluppare un comportamento di evitamento dai propri problemi con la fuga nella Rete. Esistono anche caratteristiche narcisistiche della personalità che favoriscono un utilizzo inadeguato di Internet, così come molti aspetti narcisistici caratterizzanti 280 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. il mondo virtuale s’ipotizza possano sviscerare e/o generare aspetti narcisistici nell’utente (Giusti, Rapanà, 2011). Nel 2009 è stato aperto al Policlinico Gemelli di Roma il primo centro specialistico in Italia per valutare e curare la dipendenza da Internet. Nel 2010 al convegno “Naufraghi nella rete. Adolescenti e abusi mediatici”, tenuto a Grosseto e organizzato da U.F. Dipendenze, è stato riportato che l’abuso di Internet riguarderebbe il 13% degli adolescenti italiani, in prevalenza maschi tra gli 11 e i 14 anni. Negli ultimi dieci anni (Lavenia, 2012) si sta ponendo, quindi, una maggior attenzione proprio ai ragazzi cercando di promuovere un sano utilizzo di Internet per prevenire conseguenze negative, sostenendo e informando, in particolare, i genitori e le scuole (Tonioni, 2011). Negli Stati Uniti, Kimberly Young ha fondato il Center for Online Addiction, e ha individuato, in particolare, specifiche dipendenze online come la dipendenza ciber-sessuale, la dipendenza ciber-relazionale, il gioco sul computer e il Net Gaming, il sovraccarico cognitivo. Per identificare, in modo più preciso, l’intensità di tali dipendenze è stato sviluppato un questionario autovalutativo, lo Internet Addiction Test (IAT; Young, 1998), di 20 item, a cui è possibile attribuire un punteggio in base alla risposta data. In Italia spicca, invece, il Questionario U.A.D.I. Uso, Abuso e Dipendenza da Internet (Del Miglio, Gamba, Cantelmi, 2001) che non si propone come uno strumento per la diagnosi dell’Internet Addiction, in quanto termine questo che presenta ancora delle controversie (Block, 2008; Pies, 2009) e che, quindi, dovremo aspettare la quinta edizione del DSM per verificarne la sua inclusione o meno nel manuale e nel caso, con quali criteri specifici. È un questionario che mira piuttosto a valutare il rischio psicopatologico dell’abuso di Internet e la funzione psicologica presente nell’utente che utilizza la Rete. Nel campione di ricerca, composto da 163 maschi e 78 femmine di età compresa tra i 13 e i 57 anni, in cui la risposta al questionario è stata data secondo una modalità off-line, l’Analisi Fattoriale delle componenti principali ha portato gli Autori all’individuazione di cinque fattori, che spiegano la varianza del test: Evasione Compensatoria (EVA) cioè la tendenza a evadere dalle difficoltà quotidiane mediante Internet; Dissociazione (DIS) cioè la comparsa di esperienze sensoriali bizzarre, la tendenza all’alienazione e alla fuga dalla realtà; Impatto sulla vita reale (IMP) cioè la comparsa di conseguenze sulla vita reale, il cambiamento di abitudini, umori e rapporti sociali; Sperimentazione (SPE) cioè la propensione a usare Internet per sperimentare parti del Sé e/o per cercare nuove emozioni; Dipendenza (DIP) cioè la comparsa di sintomi di dipendenza, come il progressivo aumento del tempo di collegamento, la compulsività e l’eccessivo coinvolgimento. È stata, inoltre, studiata la variabile tempo di collegamento che è risultata con una correlazione negativa tra i mesi di utilizzo di Internet e la scala di Dissociazione e la variabile ore di collegamento che non ha presentato correlazioni con le cinque scale, rivelandosi un criterio non discriminante della dipendenza da Internet. Dalla validazione del 2001 del Questionario U.A.D.I., con un utilizzo sempre più diffuso del test si è giunti nel 2009 a una semplificazione delle procedure d’interpretazione dei risultati con una standardizzazione dei punteggi grezzi e loro trasformazione in punteggi T (Fig. 1) che ha permesso la stesura dell’ultima versione nella quale sono stati eliminati 5 item (Cantelmi, Toro, Talli, 2010). 281 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. Gli item sono seguiti da una griglia di risposta secondo una scala Likert a 5 punti: 1 2 3 4 5 Assolutamente Piuttosto falso Né vero né falso Abbastanza vero Assolutamente falso vero 1. Controllo la posta elettronica a intervalli regolari. 2. Quando sono in rete ho la sensazione che il tempo voli. 3. Preferisco contattare le persone via Internet, piuttosto che per telefono o di persona. 4. Mi emoziono a navigare o a comunicare in Internet. 5. Ho l’impressione che in rete sia tutto più facile. 6. Qualche volta penso a Internet per distrarmi da pensieri spiacevoli. 7. Quando sono in rete non nascondo la mia vera identità. 8. Divento di malumore se ho problemi tecnici di connessione (lentezza di collegamento, linea occupata, ecc.). 9. Internet è sinonimo di trasgressione. 10. Mi sembra che la rete sia una sorta di mondo parallelo. 11. Internet facilita i miei rapporti sociali. 12. Qualche volta, quando sono in rete, ho la sensazione di allontanarmi dalla realtà o di essere altrove. 13. In Internet uso un linguaggio scurrile o aggressivo. 14. Da quando uso Internet non mi è mai capitato di saltare i pasti o di modificare le mie abitudini. 15. Preferisco collegarmi quando sono solo o al riparo da sguardi indiscreti. 16. Mi capita di restare on-line più di quanto intendessi inizialmente. 17. Spesso mi trovo a pensare a quando mi collegherò la prossima volta. 18. Qualche volta mi diverto a mentire in rete. 19. Mi capita di collegarmi se non ho uno scopo preciso. 20. Mi capita di fare dei “sogni a occhi aperti” su Internet. 21. Internet mi stimola un’immaginazione senza limiti. 22. Amici o familiari non si lamentano perché trascorro troppo tempo “on-line”. 23. Internet mi provoca un senso di alienazione. 24. Mi capita di avere dei “flashback” o dei pensieri sconnessi durante o dopo un lungo collegamento in Internet. 25. In Internet tendo a comportarmi in modo diverso dal solito. 26. Spesso ho provato a ridurre il tempo o la frequenza dei collegamenti senza riuscirci. 27. Non mi è mai capitato di provare emozioni forti in internet. 28. Spesso le cose mi riescono meglio grazie a Internet. 282 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 1 1 1 1 2 2 2 2 3 3 3 3 4 4 4 4 5 5 5 5 1 2 3 4 5 1 1 1 2 2 2 3 3 3 4 4 4 5 5 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 1 1 1 1 2 2 2 2 2 2 3 3 3 3 3 3 4 4 4 4 4 4 5 5 5 5 5 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. 29. Mi collego anche se ho altre cose importanti da fare. 30. In Internet mi capita di cercare materiale erotico o di parlare di sesso. 31. Tendo a descrivermi in modo diverso da quello che sono quando uso chat, posta elettronica o giochi di ruolo. 32. Internet non influenza mai il mio umore o il mio stato d’animo. 33. A causa di Internet tendo ad evitare amici o familiari. 34. Qualche volta sento il bisogno di collegarmi a Internet, anche solo per un momento. 35. Non ho la sensazione di viaggiare, sognare o essere come in un film quando sono in Internet. 36. Spesso mi collego per scacciare la noia. 37. Mi sembra che in Internet la mia identità (sessuale, sociale o professionale) sia più sfumata e meno soggetta a vincoli. 38. Dopo alcune ore di collegamento, le persone o le cose intorno a me mi sembrano in qualche modo diverse. 39. Non provo imbarazzo né tendo alla riservatezza quando qualcuno mi chiede cosa faccio in rete. 40. Penso che Internet sia il mio rifugio. 41. Quando sono in compagnia di amici o familiari non mi capita mai di pensare a Internet. 42. Penso che tramite Internet sia più facile fare esperienze eccitanti. 43. Internet non interferisce negativamente con il lavoro, lo studio o i rapporti sociali. 44. Dopo alcune ore di collegamento mi sento più nervoso o più depresso. 45. In Internet mi sento più euforico. 46. Non mi innervosisco se, per qualche motivo, non mi posso collegare. 47. Ci rimango male se non ricevo posta elettronica. 48. Controllo spesso i miei siti, le chat, i newsgroup ecc. preferiti. 49. Non mi capita mai di preferire Internet a una serata con amici o familiari. 50. Dopo alcune ore di collegamento ho la sensazione che il mondo intorno a me abbia qualcosa di irreale. 51. Non penso che i rapporti sociali in Internet siano meno stressanti. 52. Trovo sempre un motivo per rimanere collegato ancora un po’. 53. Qualche volta penso che la vita reale sia più deprimente della vita “on-line”. 54. Quando sono collegato provo una vaga sensazione di onnipotenza. 55. In Internet mi sento più abile o scaltro. 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 283 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. 56. Non perdo ore di sonno a causa di Internet. 57. Qualche volta, dopo una giornata storta, sento il bisogno di collegarmi. 58. Qualche volta uso Internet come valvola di sfogo alle mie preoccupazioni. 59. Non cerco di nascondere agli altri la quantità di tempo che trascorro in rete. 60. Penso di trascorrere troppo tempo in rete. 61. Mi capita di pensare a ciò che sta accadendo, o a ciò che potrei fare in rete, quando non sono collegato. 62. Dopo alcune ore di collegamento mi sento leggermente stordito o ho delle sensazioni strane. 63. Mi riesce difficile scollegarmi da Internet. 64. Durante la giornata non sento mai la mancanza di internet. 65. Spesso mi collego per avere un mio spazio privato. 66. L’uso di Internet non mi dà problemi di affaticamento (fisico o psicologico). 67. Qualche volta trovo conforto nello stare da solo al computer. 68. In rete può essere eccitante cambiare la propria identità (sessuale, sociale o professionale). 69. Qualche volta ho l’impressione di perdermi nel cyberspazio. 70. Non penso che le relazioni “on-line” siano più soddisfacenti di quelle reali. 71. Spesso il mio umore migliora quando mi collego. 72. A volte Internet mi fa sentire più importante. 73. In rete non mi preoccupo di quello che gli altri possono pensare di me. 74. Internet influenza i miei pensieri o i miei sogni. 75. Qualche volta mi dico: “ancora un po’” ... e mi scollego. 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 1 2 2 2 3 3 3 4 4 4 5 5 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 Dopo la fase di somministrazione del questionario bisogna ricavare i punteggi degli item che corrispondono alle cinque dimensioni indagate. Nella griglia (Tab. 2) è possibile riportare i punteggi ottenuti per ogni risposta. Agli item contrassegnati da un puntino (item costruiti in forma negativa) deve essere applicata un’inversione del punteggio e quindi un’inversione del punteggio della risposta (per esempio, se il soggetto risponde 1 all’item contrassegnato con il puntino, il punteggio viene trasformato in 5; se 5, viene trasformato in 1 e così via). Il punteggio grezzo di ciascuna scala viene ottenuto dalla sommatoria dei punteggi di risposta agli item corrispondenti (Cantelmi, Toro, Talli, 2010). 284 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. Tab. 2 EVA 58 57 17 71 Item con i relativi punteggi 72 21 45 20 6 53 11 DIS 38 24 50 44 33 IMP 59· 49· 43· 64· 35· 41· 70· 22· 39· 14· 73· 32· 27· 66· 51· SPE 68 18 31 30 7· 36 13 25 15 37 9 42 19 60 65 DIP 75 16 47 1 8 52 2 67 46· 63 48 28 34 56· 10 Scale 61 4 3 5 55 26 29 12 Tot. 62 23 54 69 74 40 Tot. Tot. Tot. Tot. (Modificata da Cantelmi, Toro, Talli, 2010, p. 88) Fig. 1 285 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. I soggetti patologici hanno un punteggio superiore a 70. Punteggi inferiori a 30, invece, indicano soggetti non condizionati dalla navigazione o completamente disinteressati alla Rete. Punteggi compresi tra 31 e 69 rientrano in un indice di “normalità”. È possibile fare un’osservazione dei punteggi anche per ogni scala evidenziata, creando così un profilo specifico dell’utente che utilizza la Rete (Tab. 3). Tab. 3 Scale Punti T - Alto (70 e oltre) Punti T - Medio (da 31 a 69) La Rete può essere impiegata per Utilizzo della Rete come evasione EVA fini di evasione, ma contestualmendai problemi reali. Difficoltà a sta(evasione te a una condizione psicologica bilire relazioni sociali soddisfacenti. compensatoria) dove le esigenze reali prevalgono Euforia. su quelle immaginative. Esperienze sensoriali bizzarre. DIS Esperienze dissociative assenti o Depersonalizzazione. Derealizzazio(dissociazione) ridotte. ne. Alienazione. Fuga dalla realtà. Internet impatta sulla vita reale in IMP Disagio sociale. Affaticamento psimodo nullo o comunque contenuto. (impatto sulla cofisiologico. Stravolgimento delle Le attività reali si integrano con vita reale) consuete abitudini. quelle virtuali. Comportamenti trasgressivi, agSPE (speriVi è un naturale bisogno di esprigressivi. Eccitazione. Menzogna. mentazione) mersi in nuovi ruoli o identità. Identità fluida. Noia. Elevato controllo sui servizi di Rete. Adeguata gestione della Rete. DIP Tolleranza. Astinenza. Compulsivi- Collegamenti definiti in base alle (dipendenza) tà. Ipercoinvolgimento. esigenze iniziali. Umore stabile. (Modificata da Cantelmi, Toro, Talli, 2010, pp. 86-87) La possibilità di avere l’osservazione dei punteggi nelle diverse scale rende, quindi, il questionario utile anche per un monitoraggio continuo del soggetto rispetto al suo rapporto con Internet, permettendo di verificare, al di là dei rischi di una dipendenza, se in alcuni momenti esistono fragilità di altro tipo. Soprattutto con i giovani potrebbe rappresentare uno strumento di aiuto per lo scambio di riflessioni e sensazioni provate rispetto alla navigazione, permettendo lì dove necessario un’azione preventiva. Bibliografia Cantelmi T., Talli M., (1998), Internet Addiction Disorder. Psicologia Contemporanea, 150, 4-11. Cantelmi T., Talli M., Del Miglio C., D’Andrea A., (2000), La mente in Internet. Psicopatologia delle condotte on-line. Piccin, Padova. Cantelmi T., Toro M. B., Talli M., (2010), Avatar. Dislocazioni mentali, personalità tecnomediate, derive autistiche e condotte fuori controllo. Edizioni Magi, Roma. Caretti V., (2000), Psicodinamica della trance dissociativa da videoterminale. In Cantelmi T. et. al., (2000), La mente in Internet. Psicopatologia delle condotte on-line. Piccin, Padova. Caretti V., La Barbera D., (2001), Psicopatologia delle realtà virtuali. Masson, Milano. 286 La valutazione dell’uso/abuso di Internet attraverso il Questionario U.A.D.I. Block J.J. (2008). Issues for DSM-V: Internet Addiction. The American Journal of Psychiatry, 165, 3. Del Miglio C., Gamba A., Cantelmi T., (2001), Costruzione e validazione preliminare di uno strumento (UADI) per la rilevazione delle variabili psicologiche e psicopatologiche correlate all’uso di Internet. Giornale Italiano di Psicopatologia, 3, 293-306. Giusti E., Rapanà L., (2011), Narcisismo. Valutazione pluralistica e trattamento clinico integrato del disturbo narcisistico di personalità. Sovera, Roma. Pies R., (2009), Should DSM-V Designate “Internet Addiction” a Mental Diosorder? Psychiatry (Edgmont), 6, 31-37. Lavenia G., (2012), Internet e le sue dipendenze. Dal coinvolgimento alla psicopatologia. Franco Angeli, Milano. Tonioni F., (2011), Quando Internet diventa una droga. Ciò che i genitori devono sapere. Einaudi, Torino. Young K.S., (1998), Caught in the Net. John Wiley & Sons, New York. 287 Il Ruolo delle emozioni positive in Psicoterapia 25 di Marco Pacifico Marco Pacifico, Psicologo, psicoterapeuta, Direttore Scientifico Centro di Psicologia Integrata per il Benessere, Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla genesi e sullo sviluppo delle motivazioni Prosociali e Antisociali, Università Sapienza Roma. Abstract Il presente contributo vuole indagare il ruolo delle emozioni positive in letteratura con particolare riferimento alle pratiche psicoterapeutiche. Dalle evidenze scientifiche alle ricerche future vengono poste in luce connessioni e spunti clinici per lo sviluppo dell’orientamento positivo nel lavoro emozionale. Keywords: emozioni positive, benessere, risorse personali, psicopatologia, psicologia positiva Il ruolo e l’importanza delle emozioni positive è stato sia frainteso che sottovalutato nella ricerca in psicoterapia (Fitzpatrick e Stalikas, 2005). Solo nell’ultimo ventennio, per la sua promessa di migliorare il funzionamento umano e ridurre le sofferenze, è stata posta attenzione alla loro comprensione (Anderson, 2001; Seligman, Csikszentmihalyi, 2000; Greenberg, Safran 1987, 1989). L’interesse per lo studio delle emozioni positive in psicoterapia è testimoniato dal crescente numero di articoli pubblicati e presentati nelle grandi conferenze (ad esempio, APA, ICAP, SPR) (cf. Clarke, 1996; Fosha, 2004; Mergenthaler, 1996, 2003; Mertika, Seryianni, Fitzpatrick, Stalikas, 2005; Seryianni, Mertika, Stalikas, 2004; Stalikas, Mitskidou, Gazzola, 2004). I recenti sviluppi nella teoria umanistico-esperienziale hanno fornito una visione più completa del lavoro con le emozioni in terapia (Gendlin, 1996; Greenberg, Paivio, 1997; Greenberg et. al., 1993;. Mahrer, 1996). Essa considera l’emozione come adattamento biologico e come un sistema che informa le persone del significato degli eventi per organizzare una rapida azione adattiva necessaria per la crescita nell’organismo (Frijda, 1986; Izard, 1991; Tomkins, 1963; Greenberg, Safran, 1987, 1989; Oatley, Jenkins, 1992). Attraverso lo sviluppo della consapevolezza delle emozioni, le persone ricevono informazioni su ciò che li riguarda 288 Il Ruolo delle emozioni positive in Psicoterapia e attribuiscono significati agli eventi in grado di implementare il loro benessere (Greenberg, 2002). Il paradigma umanistico ha una struttura teorica inclusiva che comprende l’approccio centrato sul cliente, la gestalt, e le terapie esperienziali. Grande importanza è posta sugli atteggiamenti del terapeuta per la creazione di un setting di lavoro dove la crescita personale viene massimizzata (ad esempio, Bozarth, 1990; Rogers, 1959; Watson, Greenberg, 1994; Wheeler, 1991). Attraverso una relazione calda, rispettosa, accettante e congruente, il cliente è agevolato verso una continua sperimentazione personale che gli consente di integrare parti di se e di migliorare il suo benessere (ad esempio, Bozarth, 1990, Rogers, 1959; Watson, Greenberg, 1994; Wheeler, 1991). Il compito primariodella terapia è quello di approfondire l’esperienza del cliente (Greenberg, Rice, e Elliott, 1993). L’obiettivo del modello umanistico esistenziale è porre il cliente al centro del processo di cambiamento e considerarlo agente attivo di cambiamento personale (Bohart e Tallman, 1999).Tale modello offre una visione positiva della persona e ne considera in ottica salutogenetica, i punti forza lavorando molto nella ricerca e nell’empowerment delle risorse personali. La ricerca degli ultimi 50 anni ha dimostrato l’efficacia di questi modelli psicoterapeutici con particolare riferimento al lavoro sugli stati emotivi positivi (Elliott, Greenberg, e Lietaer, 2004; Smith, Vetro, Miller, 1980; Truax, Mitchell, 1978). Tutte le ricerche suggeriscono che i terapeuti potrebbero aumentare la loro efficacia considerando i punti di forza dei pazienti in trattamento (ad esempio, Seligman, 2002; Seligman, Peterson, 2003). Il lavoro sulle emozioni positive attraverso la psicoeducazione, l’aumento della consapevolezza degli stati positivi del loro corpo, l’uso di parole positive, l’empatia, l’uso di tecniche di rilassamento, meditazione, yoga, può rafforzare il coraggio e ispirare entusiasmo creativo (Resnick, Warmoth, e Serlin, 2001). Anche le recenti indicazioni della Task Force on Evidence-Based Therapy Relationships (APA) sottolineano l’importanza della relazione terapeuta-cliente e della considerazione degli aspetti positivi per produrre un cambiamento efficace (Norcross, Wampold, 2011). Emozioni, benessere e Psicopatologia La ricerca sulle emozioni e il benessere soggettivo parte da alcuni caposaldi: (a) le persone apprendono nel corso della loro esperienza di vita ad esperire le emozioni; (b) le emozioni vengono valutate e giudicate come positive o negative; (c) la maggior parte delle persone riferiscono di aver emozioni positive per la maggior parte del tempo (Diener, Lucas 2000). Alcuni ricercatori si sono concentrati su come mantenere e migliorare l’esperire emozioni positive e altri si sono concentrati sulle fluttuazioni giornaliere dell’affetto e su come le esperienze emotive influiscono sul benessere soggettivo globale. È noto che la ricerca ha studiato il modo in cui le persone stimano l’umore nel corso del tempo, compreso il peso che danno ai vari eventi (Kahneman 1999), nonché come gli stili di risposta e l’ordine di domande possono influire sulle stime globali (Schwarz, Strack 1991). Ad esempio, Diener et. al., (1991) hanno trovato che i giudizi globali di benessere soggettivo si basano sulla frequenza e l’intensità delle esperienze positive. In realtà, sembra che le emozioni positive intense sono spesso attese a partire da un miglioramento degli affetti spiacevoli (Larsen, Diener 1987). Inoltre, poiché il benessere soggettivo è in qualche misura dipendente dai tratti, le persone con elevato benessere soggettivo, rispetto a quelle con basso benessere soggettivo, probabilmente interpretano lo stesso evento in modo più positivo, e ciò rende ancora più chiaro quanto siano gli eventi della vita reale ad influenzare il benessere. Riveste grande interesse per noi clinici, la posizione di Rogers (1963) 289 Il Ruolo delle emozioni positive in Psicoterapia che vede il benessere soggettivo come la misura di quanto una persona è pienamente funzionante e capace di esperire l’emozione piuttosto che evitarla. Per esempio, un lavoro di recensione di King, Pennebaker (1998) suggerisce che reprimere le emozioni o trattenerle ha dei costi per la salute psicologica e fisica, mentre Denève, Cooper (1998) hanno scoperto che le persone ad alto contenuto di tendenze repressive tendono ad avere un basso benessere soggettivo. Un altro filone di ricerca sulle emozioni esamina le condizioni psicologiche che promuovono le emozioni positive, tra cui la felicità e la vitalità. Questo lavoro, che è stato fatto a due livelli con ricerche tra e entro i soggetti, ha considerato il rapporto tra la soddisfazione dei bisogni di base e tali indici emotivi di benessere. In uno studio, Sheldon et. al., (1996) hanno esaminato le fluttuazioni giornaliere di autonomia nella soddisfazione e competenza per oltre 2 settimane. Utilizzando HLM, hanno scoperto che nella ricerca tra i soggetti i sentimenti di autonomia e competenza erano in grado di predire la felicità e la vitalità, ma anche che nella ricerca entro i soggetti le fluttuazioni del livello di esperienze di realizzazione dei due bisogni era in grado di predire in modo significativo le fluttuazioni degli affetti. Successivamente, Reis et. al., (2000) hanno dimostrato che le fluttuazioni dei soggetti in tutte e tre i bisogni fondamentali della SDT erano in grado di prevedere l’affetto positivo. In particolare, le esperienze quotidiane di autonomia, competenza e relazionalità erano utili per la previsione di felicità e vitalità. Più recentemente Garland et. al., (2010), suggeriscono che le emozioni positive possono contrastare con i meccanismi di emozione e disturbi correlati. Essi illustrano gli effetti potenzialmente migliorativi degli stati affettivi positivi sulla psicopatologia attraverso due gruppi prevalenti di disturbi clinici, prima depressione e ansia e poi schizofrenia. Negli individui con depressione e disturbi d’ansia sono state evidenziate delle distorsioni cognitive verso gli stimoli e le memorie che hanno valenza negativa, attraverso i quali più rapidamente i soggetti individuano, recuperano, ed elaborano materiale congruente all’umore (Mathews, MacLeod, 2005; Mineka et. al., 2002). Individui depressi o ansiosi possono quindi essere sbilanciati verso l’elaborazione cognitiva di oggetti, persone ed eventi deludenti, sconvolgenti, o spaventosi, trascurando ciò che è bello o piacevole. Mentre gli individui ansiosi tendono ad aspettarsi informazioni negative (ad esempio, MacLeod et. al., 1986), gli individui depressi tendono a ricordare più le informazioni negative di quelle positive (Teasdale, Dent, 1987) ed elaborare o rimuginare su di esse (Mathews, MacLeod, 2005;. Mineka et. al., 2002; Nolen-Hoeksema, 2000). Tali biases di elaborazione delle informazioni rafforzano la disforia, la paura e il disgusto di sé, creando un equilibrio patologico affettivo che favorisce la negatività più che la positività. Nell’ultimo decennio grande rilevanza è stata conquistata da Fredrickson e colleghi che hanno elaborato la Broaden e Build Theory (1998). Il loro lavoro suggerisce che, oltre ad essere un antidoto all’eccitazione emotiva negativa (Fredrickson, Levenson, 1998), le emozioni positive contribuiscono in modo importante alla salute e al benessere (Fredrickson, 1998; Fredrickson, Cohn, Coffey, Pek, e Finkel, 2008). A differenza delle emozioni negative, che nascono in risposta alle minacce e alle circostanze indesiderate e attirano l’attenzione su problemi che richiedono una immediata attenzione, le emozioni positive aiutano ad identificare le opportunità che emergono nell’ambiente. In altri termini, le emozioni positive momentaneamente ampliano le capacità cognitive e percettive delle persone (Fredrickson e Branigan, 2005; Schmitz, De Rosa, e Anderson, 2009;Wadlinger, Isaacowitz, 2006). Tali risorse durevoli si possono utilizzare in momenti in cui le persone ne hanno più bisogno. Ad esempio, le evidenze empiriche mostrano che in momenti di stress, le esperienze di emozioni positive sembrano promuovere efficaci strategie di coping (Folkman, Moskowitz, 2000; Fredrickson, Tugade, Waugh, e Lar290 Il Ruolo delle emozioni positive in Psicoterapia kin, 2003). La scienza delle emozioni pertanto suggerisce che, oltre a ridurre la frequenza e la durata delle esperienze emotive negative, per la ottimale salute mentale e fisica, l’attenzione deve essere rivolta anche all’incremento della frequenza e della durata delle esperienze emozionali positive. Infatti, Fredrickson e Losada (2005) hanno sostenuto che il rapporto ottimale tra emozioni positive e negative risiede al di sopra di 3:1. La ricerca evidenzia che le persone che sono particolarmente abili ad auto-generare emozioni positive hanno maggiori probabilità di essere resilienti (Tugade, Fredrickson, 2004). Essere in grado di flessibilizzare la propria risposta emozionale consente più facilmente di risollevarsi dalle avversità. Lo sviluppo di interventi di psicologia positiva If you want to be happy, be – Henry David Thoreau Un gran numero di interventi di psicologia positiva hanno aiutato con successo le persone ad acquisire le competenze per migliorare l’umore e la costruzione di risorse personali. La ricerca mostra che molte persone sono disposte e in grado di imparare i metodi per autogenerare emozioni positive (Fredrikson, 2008), la gratitudine (Emmons, McCullough, 2003; Sheldon, Lyubomirsky, 2006), la ristrutturazione cognitiva (Seligman, Rashid, e Parchi, 2006; Seligman, Steen, Parco e Peterson, 2005), gli atti di gentilezza verso gli altri (Tkach Lyubomirsky, 2005), e risposte attivo-costruttivo nei confronti degli altri (Seligman et. al., 2005). Alcuni di questi interventi hanno prodotto benefici al di là delle emozioni positive, quali il miglioramento della salute fisica (Emmons, McCullough, 2003), la riduzione dei sintomi subclinici di depressione e malattia (Fredrickson, Cohn, Coffey, Pek e Finkel, 2008) e la riduzione del rischio di depressione clinica (Seligman et. al., 2006). Recentemente Algoe e Fredrikson (2011), propongono una formazione di base per coltivare competenze basate sulle emozioni in ambito militare attraverso tre fasi: Fase I – formazione di base - aiutare i soldati a diventare partecipanti attivi nella loro vita emotiva; Fase II – regolazione delle emozioni - consente ai soldati di regolare le emozioni per imparare le tecniche per affrontare un ottimo “rapporto di positività” 3 - 1 nella vita quotidiana, riducendo la frequenza e la durata di emozioni negative e aumentando la frequenza e la durata di emozioni positive; Fase III – ottimizzare l’utilizzo delle emozioni di attacco-fuga - in cui i soldati massimizzano l’impatto di resilienza emozionale per la collettività, per il funzionamento dell’unità militare, dai nuclei familiari, e delle comunità in cui i soldati vivono. Le fasi finali della formazione primaria si concentreranno sullo sviluppo dell’empatia e della comunicazione emotiva. Alla luce di queste evidenze empiriche le strategie che sembrano riscuotere maggiore consenso nella pratica clinica sono quelle orientate all’incremento del livello di consapevolezza. Questo processo attivo che riguarda il presente, vuole produrre un’implementazione delle capacità di esperire i vissuti stando nella situazione con una modalità non giudicante. Si tratta di partecipare all’ambiente esterno come ad esempio luoghi, suoni e odori, nonché alle sensazioni interne al corpo, ai pensieri e ai sentimenti, focalizzandosi sulle esperienze attuali interne ed esterne, osservandole con attenzione, accettandole e permettendo loro di fluire. Che si chiamino mindfulness, meditazione, yoga, etc., queste pratiche riecheggiano una modalità di lavoro nota a chi si è formato nell’approccio gestaltico e più in generale a quelli umanistici. Già molti anni fa, senza conoscere le recenti metodologie statistiche o avere supporti dalla ricerca, i fondatori dell’approccio gestalt sono stati influenzati da varie tradizioni 291 Il Ruolo delle emozioni positive in Psicoterapia spirituali e avevano identificato la necessità di coniugare degli aspetti transpersonali nel percorso di crescita personale come ad esempio il Buddismo Zen (Greaves, 1976; Joslyn, 1977; Eynde, 1999), il tantrico Buddismo (Greaves, 1976), il taoismo (Gagarin, 1976; Schoen, 1994; Wolfert, 2000), gli insegnamenti della Kabbalah (Snir, 2000), la filosofia orientale spirituale di Krishnamurti (Horne, 1973; Schoen 1994), e la teologia cristiana (Wells, 1985). Ciò che oggi conosciamo come ciclo del contatto gestaltico è la massima espressione della necessità di ritrovare consapevolezza emotiva. Ciò che la recente letteratura offre è una validazione scientifica. Conclusioni In definitiva, una considerevole quantità di evidenze suggerisce che la centralità della psicologia positiva è quella di comprendere e incoraggiare i fattori che agli individui, alle comunità e alle società permettono di sperimentare lo star bene (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000). L’equilibrio tra emozioni positive e negative delle persone è in grado di predire i loro giudizi di benessere soggettivo (Diener, Sandvik, Pavot, 1991; Fredrikson, 2001). Nelle ultime due decadi, c’è stata una forte spinta allo studio di vari tratti psicologici e processi presumibilmente positivi che sono a beneficio del benessere. Questa spinta ha acquisito considerevole impeto durante il discorso del Presidente dell’APA del 1998, Martin E. P. Seligman che ha formalmente istituito il campo della psicologia positiva. Questo campo si è sviluppato considerevolmente da allora in poi con lavori su riviste (American Psychologist, Seligman, Csikszentmihalyi, 2000a; Psychological Inquiry, 2003, Vol. 14, No. 2; Review of General Psychology, Baumeister, Simonton, 2005), con manuali (Linley, Joseph, 2004; Ong, van Dulmen, 2007; Snyder, Lopez, 2002), e con libri (Carr, 2004; Compton, 2005; Peterson, 2006). Le scoperte summenzionate convergono in un unico punto che vede l’orientamento positivo come una predisposizione di base che tiene conto della regolazione del successo individuale per un esistenza considerevole. Così qualcuno potrebbe chiedersi quale e come ciascun cambiamento può essere intrapreso per promuovere un modo di vedere e influenzare le esperienze delle persone (Caprara, Alessandri, Tisak, 2011). C’è bisogno di ulteriori lavori empirici per esaminare l’impatto dell’orientamento positivo sui vari indicatori di salute mentale, in particolare in riferimento alla depressione. Probabilmente l’orientamento positivo si colloca al polo opposto rispetto alla depressione, in accordo con le prime intuizioni cliniche di Beck (1987; Clark, Beck, Alford, 1999). I ricercatori suggeriscono che il lavoro sulla consapevolezza interna aiuta gli individui a evocare e intensificare i sentimenti di amore, compassione e altre emozioni positive. Questo tipo di intervento dovrebbe essere volto ad imprimere un modo di vedere se stessi, gli altri e il futuro in una modalità positiva. Per il futuro, un numero di importanti questioni rimane non indagato. La necessità principale è quella di studiare il rapporto tra la positività (Caprara, 2010) e i principali fattori connessi al cambiamento terapeutico monitorando gli indicatori di funzionamento psichico. In tal senso la Scuola di Psicoterapia ASPIC, sempre attenta ad individuare nella ricerca la base della strutturazione di nuovi interventi terapeutici, in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma, sta partecipando ad un disegno di ricerca nel quale, grazie al contributo di psicoterapeuti SENIOR certificati dalla Scuola, è stato reclutato un campione di 120 soggetti che sono in un percorso di psicoterapia individuale. La positività è stata indagata grazie al recente contributo di Caprara e colleghi (Alessandri, Caprara, Tisak, 2012; Caprara, Steca, Alessandri, Abela, McWhinnie, 2010), che individuano questo costrutto in ciò che hanno in comune l’autostima, la soddisfazione di vita, e l’ottimismo. Per la misura del costrutto, si è utilizzato uno strumento composto da otto items, dotato di robuste proprietà 292 Il Ruolo delle emozioni positive in Psicoterapia psicometriche e validato in più di cinque paesi diversi (Caprara, et. al., 2012). In questa fase si stanno raccogliendo i follow up a sei mesi dalla prima somministrazione per verificare quali relazioni si sono modificate a seguito del percorso terapeutico. L’obiettivo è quello di estendere la validazione dello strumento in una popolazione clinica, e di identificare le relazioni presenti tra le varie dimensioni così da supportare scientificamente ciò a cui quotidianamente assistiamo nella nostra pratica professionale. Bibliografia Algoe, S. B., Fredrickson, B. L., Gable, S. L., & Strachman, A., (2011), Beyond “Thanks!”, Highquality expressions of appreciation strengthen relationships. Manuscript submitted for publication. Anderson, N. B. (Ed.), (2001), Positive psychology [Cover Story], American Psychologist, 56, 101–114. Baumeister, R. F., & Simonton, D. K. (eds.), (2005), Positive psychology [Special issue], Review of General Psychology, 9(2). Beck, A.T., (1976), Cognitive Therapy and the Emotional Disorders. New York, International Universities Press. Bohart, A. 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Svolge attività privata di psicoterapia individuale, di coppia, di gruppo. Abstract La ricerca di un metodo scientifico, che possa validare i vari approcci psicoterapeutici, non è ancora addivenuta a risultati definitivi. Molte scuole, come l’ASPIC, si stanno impegnando per raggiungere un livello accettabile di scientificità, che sia condiviso e che risponda ai criteri della validazione moderna. Keywords: Validazione, manualizzazione, protocollo, scientificità, ricerca. Il pensiero di svolgere la mia professione di psicoterapeuta in modo responsabile mi spinge continuamente a farmi domande sul mio operato. Soprattutto quanto è ‘scientifico’ quello che faccio con i miei pazienti. Il master in psicodiagnosi mi ha fatto considerare molti aspetti che mi hanno tranquillizzato non poco. Intanto è impossibile pensare che la manualizzazione farà sì che ogni terapia venga effettuata nello stesso modo da ogni terapeuta e soprattutto che ogni terapeuta si comporti nello stesso modo con ogni paziente. Un aspetto difficile è proprio coinvolgere il paziente in un processo di cambiamento e questo il manuale non lo può insegnare. Non esistono due persone con le stesse caratteristiche ed è impossibile trattare due persone in modo identico. Due terapeuti di formazione diversa con il passare degli anni di lavoro tendono ad assomigliarsi: con il tempo si tende ad abbandonare le indicazioni scolastiche apprese e si è più attenti al processo. La manualizzazione, che garantisce la validità di un protocollo, con gli anni va in secondo piano ed emerge invece 298 Riflessioni sul concetto di validazione in psicoterpia l’attenzione all’individuo (Wampold, 2001). Diversi approcci si sono dimostrati efficaci per lo stesso disturbo. Ad esempio la Terapia Cognitiva (Beck, 1978) e la Terapia Interpersonale (Klerman et. al., 1989) sono ugualmente efficaci per la cura della depressione. Questo cosa vuol dire, che sono intercambiabili? Allora cosa funziona veramente? Cosa in un percorso terapeutico entra maggiormente in gioco? Molte ricerche (Norcross et. al., 2002, Lambert, 2002, Greenberg, Paivio, 2000) ci dicono ad esempio che l’aspetto tecnico, la metodologia d’intervento della tecnica, contribuisce in piccola parte al successo del trattamento.Molto sarebbe dovuto alla relazione tra terapeuta e paziente (un terapeuta caldo, emotivo, coinvolto dà maggiori risultati di un terapeuta distaccato e freddo. Un cliente che riferisce a sé le proprie difficoltà psicologiche dà maggiori risultati di uno che si ritiene vittima di quello che gli accade), ai fattori extraterapeutici (cambiamenti di vita, il genitore problematico si riavvicina, innamoramento ecc ecc). L’effetto placebo ha una sua rilevanza: sapere di stare in terapia fa star bene. Così come le aspettative di guarigione contribuiscono a stare meglio (Giusti, 1997). Beck (Beck, Emery, 1979), rappresentante di quella terapia (cognitiva) considerata scientifica e validata, scriveva che ‘non si può fare terapia cognitiva con un manuale, più di quanto si possa fare chirurgia con un manuale’. Pensiamo poi al ruolo fondamentale del cliente: al di là di tutto quello che noi possiamo fare di ‘scientifico’, quale è il ruolo del cliente? Quale è il suo contributo al processo? Naturalmente è determinante e in grado di polverizzare ogni concetto di ‘scientificità’. Possiamo infatti applicare in modo pedissequo i protocolli d’intervento e avere tuttavia un cliente che non risponde, che regredisce, che non offre agganci di aiuto, che non si motiva al cambiamento, che manca di compliance. Molte ricerche inoltre sostengono che i tassi di risposta positivi ai trattamenti, a tutti i trattamenti, si assestano tra il 60 e il 70 percento. Questo conferma la teoria secondo cui terapie diverse funzionano in modo diverso ma raggiungono gli stessi risultati o risultati equivalenti. (Lambert, 2010). Anche Norcross (2011) ricorda che “ogni psicoterapia sembra ottenere una quantità di cambiamenti simile a qualsiasi altra, un fenomeno chiamato ‘verdetto dell’uccello dodo’”. I ricercatori che hanno comparato diversi approcci terapeutici hanno osservato che pochissimi erano validati e che tra questi gli esiti raggiunti erano quasi sovrapponibili (Seligman, 1997). Quello che mi colpisce è che non sono stati ancora superati molti problemi metodologici riguardo la validazione. Intanto chi valuta? Il terapeuta o il paziente con questionari prima del trattamento e dopo il trattamento? (e quanto sono attendibili questi questionari?). Quante volte il terapeuta nota i progressi del paziente mentre il paziente sostiene che nulla migliora e che lui continua a stare male… E poi, gli strumenti di validazione (cioè la metodologia e le tecniche che possono conferire scientificità) devono scaturire all’interno del metodo di intervento che si intende validare (e quindi calato nella procedura specifica di quel modello)? Oppure dovrebbero essere ateorici? E in questo caso (il più auspicabile), come mettere d’accordo psicanalisti e cognitivisti, terapeuti corporei e terapeuti suggestivoipnotici. Ciascuno rivendica la propria specificità: chi dà risultati nel tempo, chi in poche sedute, chi si occupa di sintomi chi ristruttura personalità ecc ecc. Credo sia impossibile un accordo. “È indispensabile la costruzione di protocolli di ricerca condivisibili da tutti e scuola-indipendenti, di facile applicabilità in contesti clinici mediamente attrezzati, in grado di cogliere le interconnessioni tra processo ed esito del trattamento in relazione alle caratte299 Riflessioni sul concetto di validazione in psicoterpia ristiche sintomatologiche e personologiche degli utenti e alle caratteristiche teorico-tecniche e personologiche dei terapeuti” (Dazzi, Lingiardi, Colli, 2006) Consideriamo tra l’altro che i trials di ricerca attuali sono tarati su poche sedute (circa dieci) con pazienti altamente selezionati che però sono non reali, non si incontrano nella pratica clinica, dove invece è richiesta una responsività: la capacità di adattarsi alla personalità del paziente e motivarlo. In questo senso, beneficiano di riscontri positivi solo le terapie brevi. Un altro dubbio riguardo la ‘scientificità’ della valutazione del trattamento è come valutare ciò che fa il terapeuta durante la seduta, di un percorso che sarà poi valutato ai fini della validazione. È impensabile seguire una scaletta d’intervento, è impossibile applicare una tecnica in modo pedissequo, senza pensare che quella variabile che abbiamo inserito può avere effetti decisivi (un certo non-verbale, un tono di voce, un’espressione partecipativa, un frase di vicinanza…). Chi può garantire che quel terapeuta selezionato per la validazione stia applicando il manuale d’intervento in modo rigoroso? Io ho molti dubbi! Come ho molti dubbi riguardo la differenza tra un setting ‘naturale’ con pazienti che usualmente afferiscono agli studi, con terapeuti scelti casualmente, e un setting di ricerca, con pazienti fortemente selezionati e con terapeuti selezionati dalla scuola di appartenenza. (Pazienti riuniti insieme nel gruppo di osservazione accumunati per la presenza, ad esempio, di attacchi di panico, senza considerare la personalità che li sottende, e tuttavia riceveranno lo stesso trattamento, quello che dovrà essere validato). Non è ancora possibile, secondo me, garantire quelle caratteristiche che fanno di una disciplina una disciplina scientifica. Ad esempio la replicabilità dei protocolli: se io applico un protocollo di intervento con una paziente con un disturbo dovrò avere risultati sovrapponibili a quelli ottenuti da un mio collega che utilizza lo stesso protocollo con un paziente con disturbo simile. Chi può garantire che questo avverrà, considerato che non esistono pazienti diagnosticati ‘puri’, che ciascun terapeuta ha la sua personalità e le sue manovre non possono essere inquadrate ed estinguersi in un intervento pilotato? Talvolta una frase detta in un momento particolare (‘ho sentito molto il tuo dolore e sono ancora toccato…’) può produrre più risultati di una interpretazione, o ristrutturazione cognitiva, o sedia vuota… E quindi c’è anche il discorso dell’oggettività dell’osservazione, che deve essere garantita in ogni disciplina per essere considerata scientifica. Tuttavia nella nostra disciplina, la psicoterapia, le variabili intervenienti sono infinite e attengono in gran parte alla specificità di quel cliente e di quel terapeuta. Mentre io osservo il mio paziente e intervengo mi porto dietro la mia storia e apporto la mia personalità la quale, se è ben ‘lavorata’, aiuterà molto il paziente. (Gabbard, 2010) Da questo punto di vista, l’INTEGRAZIONE mi sembra veramente un ottimo apporto nel pensiero della psicoterapia. Nessuno possiede la verità sulla mente, non esiste una teoria esaustiva su come funziona la mente, come originano i disturbi (eziopatogenesi) e soprattutto nessuno ha la verità su come cambiare la mente. Osservare i contenuti cognitivi, emozionali, psicodinamici e sistemici dell’individuo dà sicuramente possibilità in più nell’intervento. E secondo me è più importante sviluppare un senso critico nel terapeuta che fornire verità precostituite. Inoltre, “la decisione su quali variabili selezionare come esiti dipende dai motivi che hanno condotto il paziente al consulto. Alcune domande aiutano in questa selezione: 1. Perché il paziente è venuto? Perché il paziente ha cercato adesso questo tipo di aiuto? Perché è venuto 300 Riflessioni sul concetto di validazione in psicoterpia proprio da me? 2. Che cosa spera di ottenere dal trattamento? 3. Quali sono i suoi criteri per stabilire che il trattamento sia stato efficace? 4. Quali sono i miei criteri per stabilire che il trattamento sia stato efficace? (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006). Una formazione pluralistica fornisce da questo punto di vista maggiore aiuto al paziente. Anche l’apprendimento di due ‘soli’ metodi di intervento, molto distanti da loro, seconde me preserva un terapeuta dalla ‘fissità’ e dall’autoreferenzialità. Dunque credo sia molto importante che si migliori quanto più possibile un protocollo. È fondamentale che si cerchi di uniformarsi ai protocolli internazionali. Che si possa portare nella propria prassi clinica gli interventi di eccellenza riguardo quel particolare disturbo. Che si utilizzino tutte le metodiche che possano garantire appropriate diagnosi e valutazioni. Che venga utilizzata la psicodiagnosi onde muoversi con maggiore consapevolezza professionale (e anche deontologica, quindi). Tutto nella consapevolezza dell’umiltà che dobbiamo utilizzare quando abbiamo davanti un individuo che soffre e che, nella maggior parte dei casi, sfugge ad ogni inquadramento diagnostico e dunque ad ogni protocollo terapeutico standard. E forse considerare anche che la nostra disciplina ha anche un certo margine di sapienza individuale, che ha a che fare con la storia del terapeuta; ha a che fare con le capacità e sensibilità personali del terapeuta; ha a che fare con l’impegno del terapeuta nello studio e nell’aggiornamento professionale; ha a che fare con la sua crescita umana ed emotiva. Bibliografia Beck A., (1978), La depressione; Boringhieri, Torino, 1978. Beck A. e Emery G., (1979), Cognitive therapy of anxiety and phobic disorders; Center of Cognitive Therapy, Philadelphia. Dazzi N., Lingiardi V., Colli A. (a cura di), (2006), La ricerca in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano. Gabbard G., (2010), Le Psicoterapie. Teorie e modelli d’intervento, Raffaello Cortina, Milano. Giusti E., (1997), Psicoterapie: denominatori comuni, Franco Angeli, Milano. Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., (2006), Psicodiagnosi Integrata, Sovera, Roma. Greenberg L.S., Paivio S.C., (2000), Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata, Sovera, Roma. Klerman et. al., (1989), Psicoterapia interpersonale della depressione, Boringhieri, Torino. Lambert M.J., (2002), La valutazione della psicoterapia, Atti Intervento Seminario Internazionale di Studi, Palermo. Lambert M.J., (2010), Prevention of Treatment Failure, A.P.A., Washington. Norcross J.C. et. al., (2002), The face of 2010: A Delphi Poll on the future of Psychotherapy, ‘Professional Psychology: Research and Practice’. Norcross J.C., (2011), Quando la relazione terapeutica funziona, Sovera, Roma Seligman M.E.P., (1997), L’efficacia della psicoterapia, in “Rivista Integrazione nelle Psicoterapie e nel Counseling”, ASPIC Ed. Scientifiche, 1997. Wampold B.E., (2001), The great Psychotherapy Debate, Erlbaum 301 Convinzioni di autoefficacia e tecnica del “Cerchio dell’eccellenza” 27 di Elvino Miali Con il presente articolo voglio dare il mio contributo alla realizzazione di un questionario di autovalutazione del senso di autoefficacia ad uso di clienti e operatori della relazione di aiuto. La proposta è preceduta da una presentazione ragionata di una delle tecniche base della PNL (Programmazione Neurolinguistica): il “Cerchio dell’eccellenza”, in grado di potenziare significativamente il senso di autoefficacia, applicabile in vari ambiti della crescita personale. Cos’è l’autoefficacia. “Secondo Bandura (2000) le convinzioni di autoefficacia rappresentano uno dei meccanismi fondamentali attraverso cui opera il sistema del Sé e influiscono in larga parte sulla capacità delle persone di agire efficacemente nell’ambiente in cui vivono, in quanto portano a trarre il massimo del vantaggio sia dalle proprie potenzialità sia dalle opportunità ambientali” (cit. in Caprara, 1996) “Una valutazione ragionevolmente accurata delle proprie capacità svolge un ruolo importante nel funzionamento di successo. I giudizi di efficacia più funzionali sono probabilmente quelli che eccedono leggermente ciò che si è in grado di fare in un dato momento. Tali autovalutazioni conducono le persone ad intraprendere compiti realisticamente stimolanti e forniscono la motivazione per il progressivo auto sviluppo delle proprie capacità (…) Se non sono irrealisticamente esagerate tali credenze sul Sé incoraggiano lo sforzo perseverante necessario per raggiungere risultati personali e sociali.” (Giusti, Testi, 2006) È abbastanza intuitivo che sentirsi sicuri di potercela fare influenza positivamente le prestazioni e Bandura (2000) lo ha confermato scientificamente in vari ambiti nei suoi esperimenti. La sensazione di fiducia nelle proprie capacità e quindi nelle proprie convinzioni di autoefficacia è variabile e situazioni stressanti o giornate “no” possono influire in maniera negativa anche in chi solitamente esprime prestazioni di alto livello e questo vale sia in ambito sportivo che relazionale. È possibile cambiare volontariamente il proprio stato d’animo così da aumentare la fiducia in se stessi, anche in maniera rapida o addirittura istantanea? E 302 Convinzioni di autoefficacia e tecnica del “Cerchio dell’eccellenza” con quale grado di efficacia? Quando può essere utile? Vi sono delle credenze abbastanza diffuse sul fatto che non sia possibile o appropriato influenzare volontariamente il proprio stato emozionale, senza correre il rischio di effettuare una negazione o soppressione psicologica o incorrere in chissà quali effetti collaterali. A volte queste tecniche vengono vissute da alcuni colleghi come il tentativo di negare la sofferenza e suggestionarsi con il pensiero positivo. Non nego che in ambito terapeutico bisogna tenere in considerazione questa evenienza; non bisogna nemmeno cadere nell’atteggiamento opposto di volere far attraversare il dolore ai clienti e di non avere poi la stessa cura, né spesso le capacità e gli strumenti per farli stare meglio entro il termine della seduta, prima di tornarsene a casa! Dal punto di vista degli operatori e dell’opportunità di munirsi di strumenti idonei , efficaci e rapidamente implementabili per aiutare le persone, voglio citare la considerazione del prof. Allen E. Ivey, professore di Counseling all’università del Massachusetts “Mi piace pensare e riflettere sul pensiero, ma il mio interesse per una esplorazione profonda della condizione umana non è quello che molti clienti, anzi la maggior parte, richiedono (..). Ritengo che attualmente ogni Counselor o terapeuta che non sia in grado di fornire ai propri clienti una trattamento breve riveli una preparazione inadeguata (cit. in Littrell, 2001). Tuttavia spesso non si posseggono gli strumenti per gestire il proprio stato d’animo. La gran parte delle persone al massimo sa che la propria canzone preferita li mette di buonumore senza andare molto al di là. “Il Cerchio dell’eccellenza” é un classico esercizio della Programmazione Neurolinguistica - noto anche in altre fonti come il quadrato, il pilastro del potere, - che si propone l’obiettivo di permettere a chi lo sperimenta di accedere rapidamente alle sue risorse interiori, anche quando il senso di fiducia sembra abbandonare la persona. Voglio qui descrivere il processo che seguo con i miei clienti quando uso questa tecnica, cercando di mettere in evidenza i passaggi chiave. Si parte col chiedere al cliente: “C’è uno stato psicofisico o una risorsa che vorresti richiamare e sentire a comando quando ti serve? Si? Bene! Immagina allora un cerchio luminoso per terra lì davanti a te e mettici dentro un’immagine grande e luminosa di te stesso come se fossi nella piena espressione di questa risorsa o stato d’animo”. È possibile rievocare un ricordo del passato e riviverlo oppure immaginare una specie di “te stesso ideale”. Successivamente si invita la persona ad entrare fisicamente nel cerchio “magico” e lo si guida ad “incarnare” quello che ha dapprima immaginato. Entrando nel cerchio si immaginerà di vedere, ascoltare e provare le stesse sensazioni del ricordo positivo o di una immagine di se stessi al meglio delle proprie possibilità. Ho effettuato questo esercizio con clienti decine di volte e altrettante nelle dimostrazioni dal vivo nei corsi di formazione. Benché l’abilità dell’operatore possa fare la differenze in alcuni casi, il processo di per sé è così efficace, che anche un operatore alle prime armi può proporlo con efficacia. A questo punto, se il cliente dentro al cerchio sente lo stato risorsa dal 7 al 9 su 10 (che è già ottimo) non ho bisogno di amplificare e al passo successivo poi dico alla persona: “ok! ti do una brutta notizia: lascia la sensazione positiva dentro al cerchio ed escine fuori”. La reazione potrebbe essere più o meno di questo tipo: “ma no, ehm, ma si stava così bene!” 303 Convinzioni di autoefficacia e tecnica del “Cerchio dell’eccellenza” Io: “non ti preoccupare! Poi naturalmente ti ci farò rientrare nel cerchio e recuperai la sensazione positiva”. Fuori dal cerchio succede in genere che gli rimanga addosso un po’ di positività; cerco comunque di fargli perdere lo stato portando la sua attenzione su argomenti “meno gratificanti”. Dopodiché gli dico: “Ti piacerebbe riprovare lo stato positivo? Ti senti pronto per rientrare? Ok, VAI!” La persona rientra nel cerchio riprova le sensazioni, rivede quello che vedeva ecc. Si testa nuovamente: chiedo: “da 0 a 10”? Uso quindi delle tecniche “amplificanti” per fargli vivere ancora più intensamente lo stato Poi ripeto: “lascia il positivo dentro e rifai un passo fuori“ “Caspita però!” sottolineo: “Un metro di distanza fa la differenza! ma come può essere possibile! Basta fare un passo in avanti e tutto cambia!” In definitiva succede che dopo aver ripetuto l’esperienza di entrare ed uscire dal cerchio almeno tre volte, già insegno alla persona a cambiare stato volontariamente! Naturalmente una volta appreso il processo è lecito pensare tra sé e sè “ma è possibile che nella vita di tutti i giorni io debba entrare in un cerchio immaginario per sentirmi meglio?… Beh, dopo tutto posso sempre immaginare che il cerchio di luce (come quello che a teatro accompagna gli attori) mi segua ovunque vada. È molto più comodo! No?” Nella malaugurata ipotesi che il nostro cliente non abbia ricordi positivi possiamo sempre fargli immaginare di mettersi ne panni di un personaggio carismatico o che abbia semplicemente la risorsa che si desidera. Supponiamo che il nostro cliente per sentirsi sicuro scelga di entrare mentalmente nei panni di Barak Obama, entra nel cerchio e vi si immedesima. Quello che poi diremo alla fine dell’esperienza è che li non c’è nessun Barak Obama che era lui e che quindi può avere fiducia in se stesso! Ci sono alcuni esempi in cui questo processo di immedesimazione avviene anche inconsapevolmente. Supponiamo che una persona timida vada sul palcoscenico per interpretare una persona molto disinvolta; non è raro meravigliarsi poi di quanto ci riesca abbastanza bene se non a volte in modo eccellente. Infatti la persona in queste condizioni si toglie mentalmente i propri panni di timido per indossare quelli un altro personaggio acquisendo le sue caratteristiche. Grazie a questa “scusa” o stratagemma, anche in modo del tutto inconsapevole, la persona supera limiti ed ostacoli che la propria “normale” condizione lo porta a percepire. Attenzione però! Non sto consigliando di far finta di essere un altro nella vita! Tutte queste esperienze insegnano qualcosa perché fanno consapevolizzare come e quanto ci si autolimiti. Per me lo scopo di queste esperienze con i clienti nel Counseling e spesso anche in terapia, non è il mero “caricarsi “ in maniera positiva quanto quello di sfidare le loro convinzioni limitanti. Infatti, uno dei motivi per cui questa tecnica del “come se” funziona è perché è in grado di aggirare i limiti che le persone si attribuiscono rispetto alle proprie capacità e che diventano poi delle vere e proprie convinzioni limitanti. Ho fatto l’esempio di Barak Obama, ma si potrebbero utilizzare come modelli positivi anche un amico o un conoscente che sia dotato di una naturale capacità di vivere lo stato desiderato. Prima di far entrare la persona nel cerchio immaginario aggiungo a volte qualche 304 Convinzioni di autoefficacia e tecnica del “Cerchio dell’eccellenza” altro passaggio, per esempio faccio fare alla persona un giro intorno al cerchio prima di entrarci per assicurarsi che sia davvero desiderabile; a volte un’immagine perfetta in realtà non ci convince del tutto e “spettinarla” un po’ può renderla più simpatica. Una volta all’interno del cerchio chiedo alla persona in quale parte del corpo inizia la sensazione positiva, e in che direzione si espande; in genere si ha la sensazione che l’emozione si espanda in senso circolare, orario o antiorario, oppure che il respiro di espanda come un fontana. Do la suggestione che la sensazione si espanda oltre i confini del proprio corpo sino a occupare lo spazio nella stanza e oltre, amplificando la sensazione positiva. A questo punto chiedo alla persona: “da 0 a 10 quanto stai bene?” se ci dice 7, 8, 9 proseguo dicendo: “lascia il 7, 8 o 9 dentro il cerchio ed escine fuori”. La chiave è che deve sentire la differenza tra come sta dentro e come sta fuori e tutto questo attraverso un processo che può gestire autonomamente. Si potrebbe pensare che se la persona uscisse fuori dal cerchio con un 10 già al primo colpo, ci si potrebbe già fermare, invece siamo solo a metà del lavoro. È importante che il cliente faccia l’esperienza di fare il passo e cambiare lo stato d’animo! Che è il vero apprendimento. Intatti una volta tornata a casa la persona con uno stile cognitivo tendente al pessimismo potrebbe pensare: “e si grazie, mi ha ipnotizzato e mi ha fatto sentire bene con le sue arti magiche e quindi bravo lui!” L’utilità maggiore sta proprio nell’insegnare alla persona l’abilità di gestire poi autonomamente il processo. In appendice a questo articolo allego il questionario di autovalutazione che suggerisco di far effettuare al cliente prima e dopo l’esercizio nonché a distanza di una settimana per valutare la permanenza degli effetti. Ecco di seguito un questionario che ho elaborato per verificare i progressi del senso di auto efficacia prima e dopo la tecnica. Sarà utile anche una verifica dei risultati a distanza di una settimana. Questionario di autovalutazione del senso di autoefficacia Per ciascuna delle seguenti affermazioni indica il tuo grado di adesione scegliendo tra queste alternative: a = per nulla vero per me b = poco vero per me c = abbastanza vero per me d = proprio vero per me mm Ritengo di essere in grado di affrontare efficacemente, se mi impegno, situazioni an- che complesse. mm Riesco a telefonare ad una persona che ho conosciuto e che desidero conoscere in modo più approfondito. mm Mi considero abile nel trovare mezzi e modi per raggiungere i risultati che desidero, anche nel caso in cui vengo contrastato da qualcuno. mm Ritengo di riuscire ad affrontare anche le situazioni impreviste. mm Grazie alle mie capacità e risorse personali sono in grado di affrontare anche situazioni insolite. 305 Convinzioni di autoefficacia e tecnica del “Cerchio dell’eccellenza” mm Ritengo di essere capace di risolvere la maggior parte dei problemi se mi impegno. mm Riesco ad andare ad una festa o ad un evento sociale dove è probabile che non ci sia nessuno che già conosco. mm Quando mi trovo in situazioni difficili riesco a rimanere calmo in quanto posso fare affidamento sulle mie capacità. mm Riesco a prendere il mio spazio in una conversazione. mm Quando devo affrontare un problema in genere riesco a pensare ad una sua soluzione. mm Riesco a chiedere ad un gruppo di persone che stanno decidendo di fare qualcosa se posso unirmi a loro. mm Mi ritengo capace di imparare a fare cose nuove. mm Riesco ad avere rapporti soddisfacenti con il mio superiore e/o con i miei colleghi. mm Sono capace di prendere decisioni nel mio lavoro mm Mi ritengo capace di gestire le emergenze o gli impegni improvvisi mm Riesco a portare a temine i miei impegni. mm Sono in grado di gestire le emozioni negative che posso provare nel lavoro. mm Sono capace di gestire qualsiasi cosa possa capitarmi. mm Sono in grado di affrontare e risolvere eventuali difficoltà con i colleghi. mm È semplice per me rimanere legato ai miei obiettivi e raggiungere i miei scopi. mm Sono in grado di assumermi le responsabilità che mi vendono assegnate. mm Riesco ad iniziare un dialogo con una persona che non conosco molto bene. Maggiore sarà il numero delle risposte “d”, più elevata sarà la tua autoefficacia generale. Bibliografia Bandura A., (2000), Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Centro studi Erickson, Trento. Caprara G., (1999), Le ragioni del successo, Il Mulino, Bologna. Dilts R., (2004), Il manuale del Coach, NLP Italy, Roma. Giusti E., Testi A., (2006), Vincere quasi sempre con le 3A. Autostima, Assertività, Autoefficacia, Sovera, Roma, Littrell J. M., (2010), Il Counseling breve in azione (libro + DVD), Sovera, Roma. Videocorsi Miali E., (2010), Autostima e assertività. Miali E., (2010), Più successo personale con le tecniche di Coaching e PNL. 306 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia 28 di Leonarda Giannini e Maria Antonietta Quitadamo Leonarda Giannini, psicologa e psicoterapeuta. Da anni lavora nell’ambito della riabilitazione cognitiva in età evolutiva. Docente presso la Scuola di Specializzazione quadriennale di Psicologia clinica e di comunità e Psicoterapia Umanistica integrata Aspic. Svolge la libera professione clinica e attività di formazione. Maria Antonietta Quitadamo, psicologa, psicoterapeuta individuale e di gruppo, svolge attività di formazione e psicodiagnosi. Docente e Supervisore ASPIC nella Scuola di Specializzazione Quadriennale per Psicoterapeuti e nella Scuola Superiore Europea di Counseling Professionale. Referente Sedi Territoriali ASPIC. Abstract Il presente articolo si propone di rilevare le caratteristiche inerenti la stesura di una relazione diagnostica che rispetti le caratteristiche di chiarezza e comprensibilità tali da garantirne l’efficacia nel raggiungimento degli scopi comunicativi. Vengono prese in esame ricerche di differenti autori volte a definirne le criticità e al tempo stesso gli aspetti legati ad un suo uso efficace. Si vuole sottolineare come la restituzione rappresenti un aspetto fondamentale del processo diagnostico, che può preludere ad un percorso psicoterapeutico o può anche configurarsi come un intervento di per sé. Il soggetto, attraverso quanto gli viene rimandato, può dare senso a quanto gli sta accadendo e può prendere in considerazione nuovi aspetti di sé. Keywords: processo diagnostico, assessment, feedback, comprensibilità, efficacia, presa in carico. Definizione e finalità dei resoconti psicologici I report psicologici assolvono importanti scopi, inclusa la comunicazione delle informazioni relative al funzionamento del paziente e le indicazioni al trattamento (Smith, 1997). Ownby, Wallbrown, Tallent, Teglasi affermano che la stesura di relazioni psicologiche 307 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia efficaci consente di raggiungere molteplici obiettivi. Favorisce la descrizione del paziente da una nuova prospettiva, tale da consentire un approccio più adeguato e aderente alle sue modalità comportamentali, cognitive e affettive; relazioni psicologiche efficaci consentono di comunicare informazioni relative al livello intellettivo, scolastico, alle competenze sociali e di fornire indicazioni per un eventuale presa in carico. Sebbene il resoconto di test psicologici rappresenti la sintesi finale di un percorso di valutazione e quindi il momento conclusivo del processo diagnostico, alcuni autori hanno rilevato come questo argomento sia stato trascurato, come siano state fatte poche descrizioni sulla struttura e sulla forma dei report psicologici e come questi ultimi raramente siano stati sottoposti a valutazioni critiche (Ownby, 1987; Ownby, Wallbrown, 1986; Tallent, 1988; Teglasi,1983 in Smith,1997). Criticità nella stesura di un report psicologico efficace Per assolvere ai compiti cui è preposto, un buon report deve essere scritto in modo chiaro e deve essere facilmente comprensibile (Smith, 1997). Per un periodo di almeno 20 anni nella breve storia della psicologia clinica, la relazione psicologica è stata considerata penalizzata da un problema di comunicazione (Tallent, 1966). Gli autori di testi utilizzati nei corsi di assessment sono concordi nel raccomandare che i report psicologici siano scritti in modo leggibile. Invitano a utilizzare una forma chiara e a scegliere vocaboli di uso comune, aventi un significato preciso. Le relazioni devono essere facilmente comprensibili, dato l’enorme impatto psicologico che possono avere per i pazienti. La loro difficoltà di lettura deve essere ridotta, per evitare il pericolo di fraintendimento e che importanti informazioni in esse contenute vengano ignorate o non vengano comprese. Nonostante queste indicazioni, tendenzialmente i report sembrano essere caratterizzati da vaghezza, ambiguità, conclusioni basate su un numero insufficiente di elementi, interpretazioni errate o sovrabbondanti rispetto alla qualità e alla quantità dei dati (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). Sin dalla pubblicazione dei Diritti educativi della Famiglia e l’Atto di privacy del 1974, i pazienti e i loro familiari generalmente hanno accesso al report. Sono state successivamente estese le condizioni in cui pazienti e familiari possano leggere documenti e relazioni psicologiche. È oramai pratica comune che ai parenti del paziente vengano consegnate le copie dei report psicologici ed è sempre più rilevante far sì che le relazioni psicologiche siano comprensibili alla popolazione media. È sempre più rilevante che le relazioni psicologiche siano comprensibili alla popolazione media. Tuttavia Tallent, (1988), Rucker (1967), Shively e Smith (1969) (in Smith, 1997) evidenziano come gli psicologi che lavorano in ambito scolastico, clinico e liberi professionisti, tendano spesso a scrivere relazioni con un linguaggio complesso o tecnico, di difficile comprensione per i destinatari, soprattutto per i familiari (Smith, 1997). Gli autori hanno rilevato che i professionisti preferiscono resoconti in cui i termini tecnici siano ridotti o spiegati. Gli insegnanti sembrano preferire resoconti che contengano soluzioni comprensibili, esempi chiari e spiegazioni. 308 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia Smith (1997) ha evidenziato come, nella popolazione generale degli Stati Uniti, il 72% dei genitori dei bambini ritenga che le relazioni psicologiche siano redatte con un linguaggio di un livello superiore a quello del loro grado culturale. Sono stati esplorati i diversi possibili motivi per cui gli psicologi scrivono relazioni difficili da leggere. In primo luogo possono scriverle utilizzando una forma espressiva complessa nel tentativo di colpire l’attenzione dei lettori e di rafforzare il proprio prestigio, come è stato rilevato nel caso di autori di articoli di riviste (Armstrong, 1980; Lichtenberg, 1985 in Smith 1997). Gli psicologi possono inoltre ritenere che i loro interlocutori siano prevalentemente altri professionisti. Mentre, in realtà, relazioni psicologiche difficili da comprendere penalizzano gli stessi professionisti (Smith, 1997). Gli autori di report psicologici sembrano scrivere in una modalità che risulta corrispondere al proprio livello di istruzione, questo tuttavia può essere di grado superiore rispetto a chi legge. Gli autori possono ritenere di esprimersi in modo chiaro, mentre in realtà i loro report risultano incomprensibili se non si adeguano al livello culturale e al grado di comprensione del soggetto. Relazioni diagnostiche che utilizzino un gergo o costrutti specifici possono risultare difficili da comprendere, per persone non specializzate nel campo. Questa realtà risulta particolarmente vera nel caso di relazioni scritte riguardanti temi complessi, come i rapporti neuropsicologici. Garfield (1954) ha sottoposto a valutazione i resoconti di differenti professionisti. Sono emerse diversità nella stesura dei report da parte di professionisti differenti, ad esempio gli psichiatri sembrano essere più critici, gli assistenti sociali meno. Le relazioni degli psichiatri erano più frequentemente criticate per una sovrabbondanza di interpretazioni, omissione dei dati di supporto, risultavano vaghe, poco chiare e incoerenti. I resoconti degli psicologi sono stati criticati per la presenza di dichiarazioni formulate in modo generico contenute nelle loro relazioni. Inoltre, sembra emergere una tendenza all’uso di clichè e di gergo tecnico che peraltro risulta “confusivo e inutile” (Del Corno, Lang, 2009). Sulla base di questo studio pilota si può affermare che, affinchè siano maggiormente utili ed efficaci, i resoconti dovrebbero essere più concisi, evitare generalizzazioni e l’utilizzo di termini tecnici, fornire dati di supporto per alcuni tipi di inferenze, evitare interpretazioni. Si possono prendere in considerazione tre diversi modelli in cui articolare una relazione diagnostica (Del Corno, Lang, 2009): mm modello focalizzato sull’ipotesi che si vuole validare È il modello più usato quando si risponde al quesito posto da chi ha fatto l’invio; mm modello focalizzato sulle aree si utilizza quando colui che ha fatto l’invio chiede una valutazione diagnostica complessiva del paziente e non delle singole funzioni; in questo approccio vengono descritti i punti di forza e i punti di debolezza del paziente. La relazione che viene strutturata secondo questo modello delinea un quadro del funzionamento del paziente e per questo chi legge preferisce questo tipo di restituzione (Weiner, 1986). 309 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia Poiché contiene un notevole numero di informazione viene suddivisa in tre parti: 1. una prima parte descrittiva, in cui vengono riportati i dati quantitativi 2. una seconda parte in cui vengono presentate le ipotesi formulate e si riportano i dati a livello quantitativo e a livello qualitativo, utilizzati per confermare le ipotesi 3. una terza parte, più sintetica, in cui viene presentata l’ipotesi diagnostica; mm modello orientato sui singoli test. È utilizzato dai clinici meno esperti o quando i clinici si rivolgono a un inviante che ha già una competenza psicodiagnostica. Klare (1976 in Siegel, 1979) in 36 studi sperimentali studiò le correlazioni esistenti tra leggibilità e comprensione e trovò che la chiarezza del materiale scritto può essere inficiata da variabili afferenti a tre categorie: 1. la competenza di chi legge e il suo livello di educazione; 2. la difficoltà delle affermazioni; 3. la difficoltà delle parole La lunghezza delle frasi e la difficoltà delle parole potrebbero non essere le uniche cause di una lettura poco chiara. Sono state sviluppate formule per calcolare la leggibilità del testo scritto. Al di là delle controversie sull’utilità delle formule, queste possono essere usate come strumenti approssimativi per aiutare che scrive relazioni ad incrementare e migliorare la chiarezza dei loro testi. Queste formule sono incluse in programmi di computer destinati a controllare la grammatica. Un altro aspetto critico nella stesura dei report psicologici è costituito dal rispetto della riservatezza. Uno studio di Siegel e Cameron (in Cameron, 1981) ha descritto l’utilizzo di strategie che sono risultate essere efficaci nel ridurre le violazioni della riservatezza causate da una diffusione non autorizzata delle relazioni psicologiche. Gli autori rilevano come le copie dei report siano normalmente depositate da personale autorizzato afferente alle istituzioni e riferiscono come queste copie siano arrivate ad altri professionisti o istituzioni senza il consenso del paziente e dello psicologo, anche quando il report riportava chiaramente il timbro con la scritta “riservato”. Gli autori hanno cercato di dissuadere nel proprio ambiente di lavoro questa pratica, che mina seriamente la riservatezza delle loro relazioni psicologiche. Si sono rivolti a persone che avevano rilasciato le relazioni senza autorizzazione ed è emerso come la dicitura “riservato” fosse in realtà ambigua. Alcune persone interpretano, infatti, tale disposizione nel senso di ritenere che sia accettabile rilasciare informazioni e una copia della relazione ad un altro organismo o ad una persona senza autorizzazione, in quanto chi richiedeva le informazioni era in qualche modo “legittimato” e avrebbe trattato le informazioni come confidenziali. Il problema di fondo sembra essere la mancanza di consapevolezza, piuttosto che la violazione intenzionale della privacy del paziente, in quanto alle persone intervistate non era venuto in mente che il materiale da loro consegnato potesse essere trattato in modo da vio310 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia lare il loro diritto alla privacy. (Cameron, Roy Shepel, Larry, 1981) Caratteristiche di un report psicologico efficace Il livello di difficoltà nella lettura di un report psicologico diventa evidente e migliorabile solo quando lo psicologo, che ne è l’autore, riceve un feedback dall’esterno, sia che si tratti di un paziente, di un genitore, di un collega, di un programma al computer. Uno studio ha evidenziato come sia possibile scrivere relazioni psicologiche a livelli comprensibili e in grado di comunicare informazioni psicologiche essenziali. Gli psicologi possono applicare le seguenti linee-guida per incrementare la leggibilità delle loro relazioni psicologiche: mm Abbreviare la lunghezza delle frasi; mm Ridurre il numero di parole difficili utilizzate; mm Ridurre l’utilizzo di un linguaggio gergale; mm Ridurre l’uso di acronimi; mm Omettere l’utilizzo di verbi in forma passiva; mm Aumentare l’uso di sottovoci. Gli autori ritengono che occorra intervenire in modo più sistematico sullo stile di scrittura, infatti, può essere necessario richiedere valutazioni specifiche sulla leggibilità della forma con cui vengono redatti i report. Questo feedback può essere ottenuto grazie all’aiuto di revisioni tra pari e sollecitando il feedback dei destinatari, calcolando il livello di leggibilità a mano o con l’utilizzo di correttori grammaticali al computer (Smith, 1997). La periodica valutazione del livello di scrittura di un resoconto psicologico può aiutare i professionisti a scrivere più chiaramente. Un aspetto importante del resoconto psicologico efficace è, inoltre, relativo all’uso effettivo e al grado di informazioni significative che vengono date e alla possibilità di indurre cambiamenti nelle decisioni per il soggetto e per il professionista. Affleck e Strider (1971) hanno effettuato uno studio per determinare la misura in cui le relazioni psicologiche forniscono informazioni in modo significativo al destinatario e il contributo finale di esse nella gestione del paziente. (Affleck, Strider, 1971). Le relazioni erano state sottoposte alla valutazione di colleghi psicologi. I valutatori hanno assicurato la riservatezza delle loro valutazioni. Sembra esserci una probabilità molto alta che in ogni relazione diagnostica alcune informazioni forniscano un contributo significativo. Studi di Grayson, Tolman e Korman (in Tallent 1966) sugli aspetti comunicativi che tanto peso sembrano avere nella stesura del report psicologico, si sono focalizzati sull’importanza non solo della modalità di trasmissione utilizzata ma soprattutto sul contenuto della relazione. È importante considerare quali principi vengano applicati, nel decidere ciò che è appropriato, in termini di contenuti, nella trasmissione di un report da parte dello psicologo. Klopfer (in Tallent 1966) affronta la questione del contenuto della relazione psicologica, in riferimento a ciò che il report vuole mettere a fuoco. Ciò è determinato dallo scopo e dalla funzione dello stessa relazione. Tallent, facendo riferimento alla missione specifica dello psicologo nei confronti del paziente, parla di “messa a fuoco” contro l’inserimento indiscriminato di contenuti senza logica. Robinson e Cohen (Tallent, 1966) affrontano il tema dell’influenza degli aspetti personali del professionista nelle relazioni psicologiche, ipotizzando che la sua personalità ne influenzi le interpretazioni. 311 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia Rientrano tra le “qualità personali” competenza e integrità. La comunicazione dei dati diagnostici che sono stati ottenuti attraverso i test permette di rilevare le capacità di chi li ha somministrati, di “dare una spiegazione scientifica a ciò che è stato rilevato” (Del Corno, Lang, 1997). La somministrazione di una batteria di test costituisce per il paziente un notevole impegno emotivo, cognitivo, di tempo ed eventualmente economico. Risulta un diritto per lui avere un feedback sui risultati. Se i test fanno parte di un processo diagnostico, questo feedback risulta parte integrante della restituzione e le conclusioni che si basano su di esso risultano per il soggetto quelle più efficaci. Tuttavia anche in tutti gli altri casi non si può prescindere dal rimandare al paziente un commento sui risultati (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). Vi sono in letteratura opinioni sempre più diffuse e condivise nel sottolineare l’importanza di una adeguata restituzione al paziente dei risultati della diagnosi testologica. Vi sono invece pareri discordanti sulla modalità della restituzione, se orale o verbale. Per operare una scelta occorre rispettare l’individualità del paziente ed eventualmente la sua patologia (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). Confermando la necessità di esprimere concetti e di utilizzare un linguaggio adeguati al livello culturale e di comprensione del soggetto, per alcuni pazienti può essere efficace avere una relazione scritta, per altri invece è preferibile solo una restituzione verbale (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). Condividere i risultati di una valutazione con il soggetto esaminato è stato per lungo tempo ritenuto, anche da importanti autori, “potenzialmente dannoso”. Come riporta Abbate (in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009) Klopfer, infatti, era di questa opinione (1954, p. 603). Nel corso degli anni invece sono aumentati i consensi verso un approccio alla valutazione che si basa sulla collaborazione tra soggetto e clinico (Abbate, 2009 in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). La condivisione dei risultati con il cliente sembra favorire un coinvolgimento efficace. In riferimento a ciò risulta molto interessante quanto descritto da Abbate (in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009) rispetto a una modalità di valutazione/restituzione strutturata da Stephen Finn e chiamata Therapeutic Assessment (Finn, Tonsanger, 1992; Finn, 1996a, 1996b, 2007). In questo approccio il momento della restituzione dei risultati dell’assessment non avviene più come una comunicazione unidirezionale ma si trasforma un processo interattivo, in cui il soggetto partecipa, esprime opinioni sui risultati, su ciò su cui è d’accordo e sugli aspetti che ritiene discordanti. In questo ambito si ritiene che la combinazione di un feedback verbale e un feedback scritto sia più efficace del solo feedback verbale. Qui viene messo in evidenza quanto già accennato, anche precedentemente, rispetto all’importanza di dare una restituzione. Infatti, i soggetti che ricevono un feedback sono più soddisfatti rispetto a chi non lo riceve, possono mostrare una attenuazione del malessere, un aumento dell’autostima e una maggiore fiducia nella soluzione dei problemi (Abbate in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). In tale ottica la raccolta delle informazioni, che prima veniva abitualmente utilizzata per facilitare la comunicazione tra professionisti, ora diventa una modalità di valutazione ideata per dare al soggetto una “visione trasformativa di sé” (Abbate in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). 312 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia Allen (1981, p. 247) diceva che “tutti i concetti che sono impiegati per comprendere la relazione terapeutica sono centrali anche nel processo di valutazione (testing)“. Per cui l’obiettivo del Therapeutic Model of Assestment è quello di utilizzare la valutazione come occasione per il soggetto di nuove esperienze, dalle quali ottenere nuove informazioni su di sé che lo possano agevolare a fare dei cambiamenti. Il paziente attraverso quanto prodotto può: mm dare senso a quanto gli sta accadendo mm consolidare o creare l’“alleanza diagnostica”. In tale approccio il valutatore è un osservatore partecipe (Abbate in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). Per quanto riguarda ad esempio il paziente adolescente, molto spesso è il materiale dei test che favorisce la comprensione di quello che gli sta capitando, a rafforzare e a creare, talvolta, l’alleanza diagnostica (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). Questo avviene perché riproponendo al ragazzo, con le sue stesse parole, quanto da lui detto, accompagnandolo con descrizioni e commenti, viene favorito il processo di autoriconoscimento e rispecchiamento necessario all’adolescente per poter essere disponibile a considerare ipotesi su di sè (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). Vedere che i dati concreti emersi dai test vengono presi in considerazione dal clinico e associati a quanto il ragazzo ha raccontato di sé nei colloqui, gli consente di ridurre la diffidenza. Il contatto diretto con la narrazione della propria storia, con le rappresentazioni di sé, con l’espressione dei propri sentimenti, può permettere il riconoscimento di parti di sé ancora ignote (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). Permette al ragazzo di sentirsi coinvolto, incuriosito, attivando l’attenzione e stimolando la riflessione. In tal modo può ridurre la paura della dipendenza e anche la controdipendenza (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002). La restituzione psicodiagnostica può far sì che l’adolescente (Mucciarelli, Chattat, Celani, 2002): 1. possa decidere in modo autonomo se fermarsi rispetto al percorso psicoterapeutico che sta facendo. Il clinico valuterà se allearsi o no con lui, esprimendo il proprio consenso o dissenso; 2. venga stimolato nella sua curiosità e voglia così proseguire il percorso per prendere in considerazione quanto emerso; 3. cambi il proprio punto di vista iniziale, riconoscendo che prima pensava di non avere difficoltà, o che le sue difficoltà fossero causate dalle preoccupazioni dei genitori, o che la colpa fosse del mondo esterno, della sfortuna, del destino. I dati concreti invece gli hanno permesso di accorgersi che c’è realmente qualche dissonanza. In tal modo può riconoscersi come soggetto attivo e quindi pensare che può fare qualche cosa per sé; 4. senta di poter rivolgere la sua fiducia a qualcuno perché l’ha sentito in un contatto reale e autentico con la sua sofferenza. Per concludere si sottolinea ancora una volta che un’ottica collaborativa, in cui il paziente viene incoraggiato a vedersi come partecipante attivo nel rapporto con il clinico, facilita la 313 La stesura di una relazione diagnostica: criticità e caratteristiche di efficacia possibilità di comunicare una diagnosi e un feedback diagnostico comunicato in modo empatico e comprensibile evoca emozioni positive nel soggetto che lo riceve (Abbate in Dazzi, Lingiardi, Gazzillo, 2009). Bibliografia Affleck, D. C., Strider F., (1971), Contribution of psychological reports to patients management, Journal of Consulting and Clinical Psychology1971, Vol. 37, No. 2, 177-179. Allen, J.G., (1981), The clinical psychologist as a diagnostic consultant. In Bulletin of the Menninger Clinic, 45, pp. 247-258. Cameron R., Shepel L., (1981), Strategies for Preserving the Confidentiality of Psychological Reports, Canadian Psychology/Psychologie canadienne, Vol 22(2), Apr, 1981, pp. 191-193. Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di), (2009), La diagnosi in psicologia clinica. Personalità e psicopatologia, Raffaello Cortina, Milano. Del Corno, F., Lang M., (2009), La Diagnosi Testologica. Test neuropsicologici, test di intelligenza, test di personalità, testing computerizzato, Franco Angeli, Milano. Finn S.E., (1996a), Assessment feedback integrating MMPI-2 and Rorschach findings. In Journal of Personality Assessment,67, pp. 543-557. Finn S.E., (1996b), Manual for Using the MMPI-2 as a Therapeutic Intervention. University of Minnesota Press, Minneapolis. Finn S.E., Tonsanger M.E., (1992), Therapeutic effects of providing MMPI-2 test feedback to college students awaiting therapy. In Psychological Assessment, 4, pp. 278-287. Klopfer B., (1954), Principles of report writing. In Klopfer B., Ainsworth M.D., Klopfer W.G., Holt R.R. (a cura di) Development in the Rorschach Technique and Theory. Hartcourt,Brace &World, New York,pp 601-610. Mucciarelli G., Chattat R., Celani G., (2002), Teoria e pratica dei test, Piccin, Padova. Siegel M., (1979), Guidelines for Ineffective Presentations, Professional Psychology. 10. 249-258. Smith V. H., (1997), Improving Readability of Psychological Reports, Professional Psychology: Research and Practice Vol. 28, No. 3, 271-274, University of Massachusetts Boston. Tallent N., (1966), Clinical communication and the psychodiagnostic process. Canadian Psychologist/Psychologie canadienne, Vol 7a(3), Jul, 1966. pp. 197-208. Weiner I.B., (1986), Conceptual an empirical perspectives on the Rorschach assessment of psycopatology,Journal of Personality Assessment, 50 pp. 472-479. 314 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based 29 di Edoardo Giusti La consultazione psicologica implica la valutazione del comportamento e dei processi psichici, allo scopo di orientare un intervento nella molteplicità di significati possibili. L’analisi esplicita delle esigenze, dei bisogni e delle necessità, enunciate dall’interlocutore, include anche una domanda semiotica relazionale implicita. L’assessment richiede una psicodiagnosi interattiva, collaborativa, dinamica e bidirezionale dei soggetti coinvolti nel processo relazionale (Del Corno, Lang, 2009). La diagnosi, parola di origine greca, significa riconoscimento dei segni e dei sintomi di funzioni alterate misurabili obiettivamente con strumenti testologici basati su criteri di norma o devianza che differiscono nelle culture e di epoca in epoca. La formulazione di una diagnosi clinica include l’accertamento, da parte dell’osservatore sia della comunicazione palese (digitale), sia di quella paraverbale (sonorità) e non verbale (congruenza dell’espressione gestuale dialogica). La valutazione di un’ipotesi diagnostica preliminare serve a coordinare gli interventi in evoluzione oppure indirizzare il soggetto affinché siano reperibili nuove informazioni o si rivolga a consulenze più specifiche e mirate. La psicodiagnosi dovrebbe individuare tramite indagini complesse i fattori, le dinamiche e la struttura di personalità del soggetto (Spalletta, 2010). È un procedimento che va eseguito con alta responsività empatica, leggendo la richiesta del paziente esattamente come vuole essere compreso e restituire tempestivamente, nel modo in cui ha bisogno di sentirsi capito e fornendo anche un’indicazione calibrata. Ci rende empatici e autoriflessivi la nostra disponibilità a percepire istantaneamente il quadro interno di riferimento del nostro interlocutore, immedesimandoci e cogliendo i suoi sentimenti, i suoi stati d’animo e i suoi pensieri per sintonizzarci nella condivisione (Giusti, Locatelli, 2007; Giusti, Militello, 2011). 315 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based Qui di seguito viene esplicitata una panoramica del processo e delle procedure psicodiagnostiche: A- Accoglienza e osservazione clinica (fase iniziale) Dopo aver acquisito i dati di base compilando la scheda anagrafica e aver effettuato, nella fase dell’accoglienza, il colloquio iniziale, la chiarificazione dei problemi e l’insorgenza delle difficoltà, si contestualizzerà il soggetto nel suo sistema (genogramma sintetico), valutando la gravità psicopatologica, nonché l’impatto e le conseguenze sulle persone vicine (eventi a rischio iatrogenici) (Giusti, Bruni, 2009). L’ipotesi microdiagnostica include la previsione per la fattibilità di un intervento di counseling psicologico o le indicazioni e le controindicazioni a un trattamento psicoterapeutico. In ambito clinico sono previsti vari test e inventari: questionari, test proiettivi e cognitivi (d’intelligenza, di attenzione e concentrazione, di rendimento) (Giusti et. al., 2007). Il processo diagnostico ha lo scopo di rilevare l’entità dei disturbi espressi per individuare strategie atte a ridurre, modificare o eliminare le cause che provocano la sofferenza. Include uno screening sulla qualità di vita e la compliance a un trattamento. Va ricordato che i test servono al clinico e al paziente, prima, durante e dopo un trattamento. Rilevano ostacoli non percepiti che potrebbero manifestarsi durante il trattamento e portare ad esiti negativi. La valutazione testologica serve al paziente per valutare le risorse potenziali di personalità e concordare l’intervento per il trattamento più idoneo. 316 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based Il funzionamento sintomatico e quello interpersonale sono le variabili più significative per l’indicazione al trattamento. Consigliamo che le operazioni di somministrazione, di scoring e lettura dei dati delle batterie composte da diversi reattivi vengano effettuate da un valutatore esterno e non direttamente dallo psicoterapeuta per evitare che gli aspetti valutativi possono incidere negativamente sull’accoglienza e l’alleanza. Il Centro di Psicodiagnostica Computerizzata fornisce dei testing automatizzati (per una maggiore obiettività) e trasmettano al clinico inviante, il report e il resoconto completo con una relazione scritta dei risultati (Giusti et. al., 2006). Sarà lo psicoterapeuta ad aver cura d’interpretare i dati selezionati durante la restituzione al paziente. Generalmente si esaminano i “quadri tipici” emersi, che comprendono i sintomi bersaglio riportati dai soggetti osservati per poi proseguire con la diagnosi di valutazione del funzionamento globale e del modo in cui il paziente si presenta, si muove, parla, reagisce al tipo di rapporto che instaura con l’osservatore e che ha la funzione di co-valutatore del protocollo. Inoltre l’intervistatore, con la sua capacità di partecipare al vissuto del paziente, osserva a livello dinamico (transfert e controtransfert) i motivi incosci, i conflitti profondi e i meccanismi di difesa che il soggetto utilizza per ripararsi dalla sofferenza generata. Il colloquio può risultare più o meno direttivo lasciando che l’intervistato si racconti in un clima di comprensione empatica per una comunicazione più libera. La scelta e la gestione della piano psicoterapico si baserà sulle più recenti e disponibili ricerche in ambito scientifico (Norcross, 2012). B - Fase di preterapia (seconda fase) In questa seconda fase si effettua una valutazione dopo un percorso di diagnosi differenziale per accertare le caratteristiche della personalità dell’individuo: le sue risorse potenziali (salutogenesi) oltre ai deficit e vulnerabilità (patogenesi). L’assessment procede con l’analisi dei sintomi clinici osservabili attraverso i quali tali elementi si manifestano, identificando una condizione ragionativa nosologica per mettere in luce aspetti disfunzionali rilevabili e 317 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based collegare con la raccolta anamnestica, una ricostruzione esplicativa provvisoria di causa/ effetto (Giusti, Vigliante, 2009). La storiografia, con l’osservazione di rilievi peculiari dei disturbi disfunzionali inerenti la vita e i trascorsi patologici remoti e attuali, consentirà di fornire una spiegazione ipotetica delle alterazioni/disturbi, per poter determinare le successive operazioni decisionali utili da compiere (Manucci, Di Matteo, 2004). In questa fase è determinante l’adattamento del terapeuta alle aspettative del paziente per favorire l’alleanza e non indurre troppo presto delle reattanze. 318 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based 319 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based La finalità e lo scopo determinano l’osservazione più specifica per l’inquadramento nello schema nosografico, descrivendo comportamenti, stati opprimenti, relazioni difficili, complessi sintomatici, rapporti di senso e relazioni causali, tenendo presente anche l’influenza dei fattori socio-culturali. La ricerca scientifica a prova di evidenza cerca di classificare, in modo provvisorio, diverse possibilità opzionali di lettura talvolta anche discordanti a causa delle ambivalenze dei soggetti esaminati (Norcross et. al., 2006). 320 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based Dopo la raccolta complessiva della narrazione anamnestica e l’accertamento di possibili deficit del funzionamento psichico, il terapeuta prescriverà ulteriori reattivi mentali: categoriali (nomotetici descrittivi) o dimensionali (idiografici strutturali). Avranno lo scopo di costruire un profilo di personalità approfondito sulla base di parametri precisi con indicazioni di livelli di stress, collegati anche ad eventuali somatizzazioni espresse. Inoltre sarà misurato il livello di soddisfazione nelle relazioni d’intimità e nelle prestazioni lavorative nonché la creatività espressa nel funzionamento adattivo sociale. Il completamento di questi rituali consentirà il passaggio progressivo da una buona psicodiagnosi alla formulazione del caso con prognosi e previsione attendibile. La diagnosi comparativa differenziale propone il maggior numero di rilievi reperibili, probabili e plausibili, accrescendo o riducendosi l’ottica per coincidere con un valore di certezza accettabile per un intervento psicoterapeutico efficace. Il valore segnaletico dell’insieme dei dati affidabili porta a una conferma utile per impostare la scelta decisionale inerente al tipo e piano di trattamento (Giusti et. al., 2004): mm tempi brevi di bassa intensità: ‘progetto restaurativo’ psicoeducativo anti-stress; mm tempi prolungati di media intensità: ‘progetto ristrutturante sintomatico’ di modificazione del comportamento; mm tempi lunghi di alta intensità: ’progetto ricostruttivo profondo’ riparativo della personalità e di individuazione creativa. 321 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based La presa in carico è facilitata se si realizza un’alleanza diagnostica che include l’adesione al contratto psicoterapeutico con il consenso informato e le regole della prassi di cura. Quest’ultima sarà condivisa con il paziente concordando la pianificazione, gli obiettivi e gli scopi psicoterapeutici del trattamento compresa la frequenza, l’onorario, il format e l’intensità. Prima di effettuare il trattamento viene fornito un chiarimento su quanto sta accadendo nel paziente e sulla convenienza di adottare con flessibilità la strategia più adatta alla sua particolare situazione. L’indagine testologica offre al clinico una conferma supplementare. L’attento ascolto, il dialogo, l’analisi narrativa e i tentativi di trovare insieme al soggetto una spiegazione al suo malessere e ai suoi disturbi (credenze e opinioni culturali) consente l’adozione di appropriate misure terapeutiche: tra modello scientifico di disturbo e quello di senso comune di vita quotidiana. Saper motivare strategicamente i pazienti, per superare l’ambivalenza verso la cura e sostenere la decisionalità per aderire, in base ai sintomi specifici, a un progetto psicoterapeutico, sarà l’obiettivo susseguente (Arkowitz et. al., 2010; Giusti, 2011). C - La relazione psicoterapeutica (terza fase) La relazione è l’espressione del coinvolgimento tra psicoterapeuta e paziente include lo scambio di sentimenti, atteggiamenti e attitudini interpersonali che confermano il legame reciproco. La costruzione dell’alleanza terapeutica è un processo progressivo di adesione e collaborazione costituito con il paziente verso la scelta degli obiettivi concordati. La valutazione dell’alleanza e della compatibilità relazionale sarà monitorizzata attraverso i relativi protocolli. L’alleanza è basata sulla fiducia, il rispetto, l’impegno, la rassicurazione, l’incoraggiamento e la speranza. È in sé un processo curativo/maturativo per tutte le fasi del trattamento. Una buona alleanza consente di rimotivare il paziente all’adempimento dei compiti anche 322 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based in assenza di un risultato immediato. L’alleanza subisce tensioni con andamenti incostanti e fluttuazioni mediante cicli di rotture e ricomposizioni, richiedendo quindi di cambiare marcia continuamente. È un processo di negoziazione per garantire un legame idoneo che favorisce il transfert e per dosare modi/tempi di interventi interpretativi e/o prescrittivi. Le fratture dell’alleanza vanno riparate e ricucite tempestivamente per superare gli ostacoli (eccessiva aggressività: disaffiliativa e ostile, ritiri ingiustificati dovuti a paure e vulnerabilità). Quest’attenzione e sensibilità serve a prevenire i drop-out precoci di pazienti che hanno difficoltà a formare relazioni d’intimità e di attaccamento sereno (Safran, Muran 2001; Muran, Barber, 2012). Il processo psicodiagnostico in itinere consente di aggiustare e riformulare la domanda iniziale del trattamento, composto da una relazione personalizzata e da un metodo di trattamento, entrambi variabili in base allo stato del cliente e del suo divenire in terapia. In questa fase l’intervento contemplerà le aspettative circa il trattamento, la resilienza, la gravità disfunzionale sintomatica e il livello di reattanza al cambiamento. Il desiderio del cliente di migliorare tende ad essere autoconfermante e predittivo dei risultati. Il monitoraggio periodico serve a controllare l’andamento tra lo stato attuale e lo stato desiderato e va effettuato tramite “strumenti rapidi e scale di valutazione specifiche” con check -list circa la psicopatologia emergente e i relativi sintomi, fronteggiando possibili reazioni negative dei clienti (Wolf et. al., 2013). L’intento è di potenziare le competenze di coping e le abilità di fronteggiare lo stress e gli eventi negativi, incoraggiando il paziente ad assumere stili di vita salutari (riposo, alimentazione, attività fisica). L’equilibrio mentale prevede lo slancio vitale situato tra la psicologia della devianza (deficit) e la psicologia positiva delle risorse e della salute. Uno stato realistico include una dose di ottimismo e un po’ di pessimismo utile a prevenire le difficoltà impreviste. Sarà opportuno distinguere per quanto riguarda la personalità dell’individuo in cura, lo stile di comportamento stabile e relativamente prevedibile nel tempo (Madden et. al., 2013). Il suo modo di pensare includerà le credenze e il suo sistema valoriale nonché i suoi ideali impliciti ed espliciti il suo aspetto socio-affettivo e relazionale e l’espressione del controllo pulsionale. Tutto questo emerge nei test di personalità. 323 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based I paradigmi scientifici, teorici e diagnostici variano, così come le strategie e le tecniche, cioè i principi attivi necessari per il cambiamento, da selezionare progressivamente nel corso di tutta la psicoterapia. Le procedure psicoterapeutiche negli interventi brevi hanno lo scopo di accrescere il benessere personale attraverso un allentamento dello stress emotivo (Giusti, Di Fazio, 2008) e risolvere problemi contingenti (Giusti, Bianchi, 2012). Ogni modello terapeutico preso singolarmente risulta spesso insufficiente; è quindi utile adattare sempre il metodo d’intervento alla domanda, per valutarne l’efficacia misurando i mutamenti avvenuti (il grado di miglioramento sintomatico). Il potenziamento dell’immaginazione e della creatività consentono agli utenti in cura lo sviluppo di nuove opzioni decisionali verso la salute (Giusti, 2007). I processi di funzionamento della personalità vengono esaminati con i test specifici, sul carattere dell’identità, evidenziando l’indice dell’espressione della tenerezza e degli impulsi aggressivi sessuali. Inoltre, andranno distinti lo stile, il tipo, il tratto e il temperamento del soggetto esaminato (Oldham et. al., 2008). L’interpretazione degli inventari e dei test deve essere tradotta in un linguaggio comprensibile e chiaro per conseguire un insight consapevole ed esplicitare il senso delle condotte del soggetto (Castonguay, Hill, 2008). L’interpretazione è una spiegazione che sostiene l’autoconoscenza, svelando parti nascoste, consentendo di riflettere concretamente sulle esperienze (Giusti, Minonne, 2004). La psicodiagnostica offre un ampliamento oggettivo di orizzonti evidenziando i copioni ripetitivi e, con una restituzione coerente, fornisce un senso causale plausibile dei frammenti di narrazioni sconnesse, per motivare il soggetto ad agire diversamente contrastando la psicopatologia (Castonguay, Hill, 2012). 324 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based Quando si interpreta non è necessario essere perfetti né precisi, ma sufficientemente accurati e utili, senza mai umiliare, colpevolizzare o ferire il narcisismo dell’interlocutore. Alcuni test sono una fonte di chiarimento e una conferma per approfondire conflitti inconsci, manovre difensive, resistenze, pulsioni aggressive distruttive che aiutano a comprendere i sentimenti nei confronti di altri e anche verso lo psicoterapeuta (Dazzi et. al., 2009). Nella psicoterapia a medio termine si cercherà di trovare una coerenza degli stati emotivi in cui vi sia un significato di vita, e la griglia anamnestica sarà la cornice per individuare i contesti in cui emergono i sintomi; attraverso la confutazione dei pensieri irrazionali e delle credenze assolutistiche disfunzionali si assegneranno i compiti necessari per sperimentare comportamenti più adattivi (Giusti, Germano, 2006). Nelle psicoterapie a lungo termine si lavorerà sulle esperienze traumatiche nel corso dello sviluppo e sui deficit psicogenetici, in particolare relativamente al transfert in corso come riedizione. Si interpreterà il bisogno di riproporre copioni di un antico danno subito e di ripetere esperienze antiche distruttive (perdite, lutti, abusi, maltrattamenti, violenze, umiliazioni) che generano dissociazioni e mancate strategie di azioni unitarie e di significato coerente. L’approfondimento dell’attachment interview sarà utilizzato per i collegamenti storiografici ripetitivi e favorire una trasformazione strutturale circa l’ansia, l’evitamento, con lo scopo di facilitare il paziente a creare strategie di azioni unitarie e di significato coerente. D - Conclusione e valutazione degli esiti (quarta fase) Nella quarta fase conclusiva del trattamento si somministreranno al paziente un formulario sulla sua percezione rispetto alla qualità della cura e alcuni questionari sulla soddisfazione rispetto agli esiti (Outcome Questionnaire 45, Client satisfaction questionnaire, VIA - IS). Per la prevenzione dei rischi di ricaduta bisognerà porre domande sulla persistenza degli effetti del trattamento; inoltre dovrà essere previsto un follow-up per accertare la stabilità dei risultati e dei traguardi conseguiti. Qualora ci fosse un ritorno in psicoterapia, in quanto il congedo può anche essere provvisorio, il trattamento sarà per un periodo più breve e con un’intensità traslativa minore. Possono essere somministrati diversi strumenti che misurino un profilo di cambiamento multidimensionale affidabile (Health Sickness Rating Scale) oppure l’Indice Prognostico per la Psicoterapia, entrambi di Luborsky (Giusti, Sica, 2006). 325 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based Durante i colloqui conclusivi si cercherà di rinforzare selettivamente alcune delle competenze acquisite, per confermare il conseguimento dell’obiettivo desiderato e prevenire rischi di ricadute. I professionisti che hanno più successo in ambito consulenziale sono quelli che utilizzano pratiche psicoterapeutiche a prova di evidenza (Goodheart et. al., 2007). La visibilità professionale dovrà mettere in risalto il proprio stile personale, talenti particolari e la specifica area di specializzazione (Giusti, Calzone, 2006; Giusti, Pagani, 2012). Potenziando il livello della qualità di vita e il benessere dei propri pazienti (Frish, 2001), lo psicoterapeuta contribuisce a generare un sistema sanitario più ecologico e sostenibile (Giusti, Vetrano, in press). 326 L’Assessment per la psicoterapia integrata procedure psicodiagnostiche evidence based Bibliografia Arkowitz H. Westra H.A., Miller W.R., Rollnick S. (2010), Il colloquio motivazionale, per i trattamenti dei problemi psicologici, Sovera, Roma. Castonguay L.G., Hill C. (2008), L’insight in psicoterapia. La scoperta illuminante nell’interazione psicoterapeutica, Sovera, Roma. Castonguay L.G., Hill C. 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