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Titolo originale: The Evolution of God
Copyright © 2009 by Robert Wright
This edition published by arrangement
with Little, Brown and Company, New York, USA
All rights reserved
Traduzione dall’inglese di Valeria Leotta
Prima edizione: settembre 2011
© 2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-2261-1
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Stampato nel settembre 2011 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
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Daniela Francese
Sanità S.p.a.
La pandemia silenziosa
fino alla fondazione dei grandi istituti bancari.
Ricchezze nascoste, scandali e affari della Santa Sede
Newton Compton editori
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Ai miei figli
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio Marco Bruno per la collaborazione nell’inchiesta La sanità al mercato e
Daniela Zecchinelli per la cura dell’Appendice.
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Introduzione
In una fase di crisi tutti sono capaci di tagliare i costi
peggiorando la qualità dei servizi sociali.
La vera sfida è fare l’opposto.
Stephen GoLDSMIth
Un minuto di silenzio fu il tributo chiesto dal coordinamento regionale
degli infermieri per Mariarca terracciano, moglie, madre, infermiera e suo
malgrado eroina. Avrebbe fatto volentieri a meno di quest’ultimo ruolo, ma
i predoni della sanità hanno fatto di tutto per conferirle la medaglia. tangenti, sprechi, lottizzazioni, clientelismi: il rosso dei conti è diventato così
acceso da sembrare sangue. essere sangue. Quello di Mariarca, che si è letteralmente svenata per difendere il suo stipendio, ma anche quello di tanti
pazienti umiliati da un servizio fatiscente. perché gli ospedali sono sovraffollati, il personale scarseggia, c’è il blocco del turnover, la medicina di
base agonizza, i tagli sono pesanti. Alla ASL napoli 1 in pericolo erano le
spettanze di 14.000 dipendenti, già costretti a turni massacranti che non
hanno risparmiato nessuno. nemmeno i primari, come Filippo Minieri, che
al Cardarelli di napoli si è accasciato senza vita alla fine del suo turno, dopo undici ore di lavoro. e non è il primo caso. nell’ultimo anno i medici
del più grande ospedale del Sud lamentano il decesso di una decina di colleghi a cui fanno eco in tutto il paese i troppi casi di morti per malasanità
dovuti ad atti criminosi di medici avidi, come nel caso della Clinica Santa
Rita di Milano; all’uso di materiale scadente; alla negligenza del personale;
alla mancanza di posti letto; alla chiusura degli ospedali che allontanano
sempre più molti cittadini dai luoghi di cura; allo strapotere dell’industria
farmaceutica che propina prodotti inutili, a volte anche dannosi per la salute, che rappresentano una voce della spesa sanitaria pubblica da ridimensionare pesantemente.
Alcuni, molti, tanti, difficile dirlo − ma anche una sola vita salvabile e invece persa è troppo − sono i decessi per mancanza di una terapia efficace di
cui è responsabile anche l’inadeguata politica degli investimenti nella ricerca, oppure coloro che davanti ai costi proibitivi per le cure sono costretti ad arrendersi. o ancora quelli abbattuti nella vasta «macelleria sociale»,
richiamata all’attenzione generale dall’ex governatore della Banca d’Italia,
Mario Draghi, armata da migliaia di evasori che ogni anno caricano sulle
spalle dei loro concittadini 120 miliardi di euro, sufficienti a coprire tre
manovre del calibro di quella varata a luglio dal ministro Giulio tremonti.
Denaro che potrebbe ridurre il debito pubblico al punto da diventare, «in
rapporto al pIL, tra i più bassi della Ue». Dunque soldi che sottraggono linfa
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vitale al paese e che mettono in serio pericolo il sistema sociale e quello sanitario.
non un minuto di silenzio ci vuole allora, ma uno, dieci, mille grida. Un
frastuono che desti la società civile, quell’“invenzione” che risale a Marx,
forse ancor prima a Rousseau, e che designa l’insieme dei ceti che compongono una comunità con un’identità, dei valori, una cultura, degli interessi propri. Quella società che esprime proprie istituzioni, le quali diventano tanto più forti, e con esse lo Stato che ne è il coronamento, quanto più
essa è coesa, consapevole, partecipativa. Se, invece, la società civile è debole si assiste al sopravvento di una parte di apparato istituzionale, la casta,
quella che eugenio Scalfari definisce «la deformazione cancerosa della politica», che si traduce in un potere oligarchico con pochi potenti che tirano
le fila del sapere; manovrano la scienza umiliando i ricercatori; tiranneggiano i lavoratori; diffondono false verità; diramano «rassicurazioni di maniera», come edmondo Berselli definisce le troppe voci che hanno soffocato mediaticamente la crisi finanziaria, quindi industriale e sociale, spargendo nubi soporifere di omissioni e false verità. Serve allora una «riforma
morale e civile degli italiani», come scrive Carlo Galli su «la Repubblica»,
che inizi dal coinvolgimento della scuola in un processo, certamente lungo,
ma indispensabile. Quanto al presente, non bisogna però cadere nell’errore
di credere che nulla accada. Che niente si muova. Che tutti tacciano, perché, al contrario, molti sono i sussulti d’indignazione, i momenti di lotta e i
focolai d’impegno civile che si accendono in ogni angolo del paese: a tinchi come a Bologna, a Roma come a Milano. tanti sono i cittadini che sgomitano e si battono per tenere alta la guardia, per difendere l’articolo 32
della Costituzione, per fermare il piccone che vuole abbattere le due conquiste più importanti della seconda metà del xx secolo: il welfare e il nostro Sistema sanitario nazionale.
eppure nulla o poco trapela. Manca una vetrina mediatica che dia spazio e
voce alle azioni di tutela creando un vuoto in cui sprofonda una larga fetta
di popolazione lasciata priva di strumenti cognitivi. «La coltre del silenzio» è ciò che Guido Crainz definisce il velo calato sulla corruzione, sulla
ripresa del malaffare a livelli di gran lunga superiori al periodo precedente
tangentopoli, sui morsi di una crisi profonda con cui fare i conti. Una crisi
che ci rende tutti più poveri, come ha ricordato Ilvo Diamanti, e che intima
alla società civile di afferrare il timone per contribuire attivamente a mettere in salvo la barca. È questa una sfida che chiama in causa anche noi giornalisti, ricordandoci che è venuto il tempo di smettere di anteporre «la critica ai fatti e lasciar parlare la realtà». Un’esortazione che Mario Calabresi,
direttore de «La Stampa», ha lanciato al penultimo Meeting di Rimini, nel
dibattito Al cuore dell’informazione, in cui ha spiegato che è questo il modo per far sì che la verità salga a galla a dispetto del quotidiano «utilizzo
del falso come mezzo per attirare la gente con l’idea che la ragione stia dalla parte di chi la spara più grossa». perché la realtà è testarda e «non è possibile per nessuno inquinarla o manipolarla per sempre».
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Da questi presupposti si sviluppa la nostra inchiesta sui fatti e le politiche
che hanno progressivamente ammalato la sanità italiana con l’intento di
presentare la realtà del Servizio sanitario nazionale, senza dimenticare la
sua stretta relazione con lo stato sociale, a chi nella società civile è interessato al bene comune, al futuro di giovani e anziani, uomini e donne, italiani
e stranieri che calpestano il suolo di questo piccolo, splendido paese, e
ogni giorno con il loro lavoro, il loro impegno civile, ne onorano la storia.
perché la conoscenza non può essere un patrimonio di pochi, soprattutto
quando parliamo della salvaguardia d’importanti diritti come quello alla
salute.
Di fronte a un’industria che ha progressivamente medicalizzato la nostra
vita. Di fronte a un precariato che ormai è considerato come un’eredità, un
fastidioso incidente, piuttosto che un problema da risolvere. Di fronte a una
disuguaglianza e una povertà che afferrano porzioni sempre più consistenti
di società e che si riflettono nei nostri corpi come in uno specchio, così da
eleggerli a testimonianza fisica di condizione sociale. Di fronte a un divario crescente che imprime solchi profondi tra regioni di uno stesso paese,
separando chi ha una cura e chi non ce l’ha, chi può permettersela e chi no,
chi deve emigrare per guarire e chi invece gode di servizi sanitari di eccellenza con un’assistenza di livello alberghiero. tutti dobbiamo fare la nostra
parte. La posta in gioco è alta perché con la salute, oltre alla vita umana, ci
sono le sorti della stessa democrazia per la quale giovani uomini e donne,
nell’età in cui i nostri figli frequentano le università, vanno al pub, si spostano con l’erasmus, hanno donato le loro energie, il loro sacrificio affinché essa non fosse un guscio vuoto, un’utopia, ma la realtà di questo paese.
È molto ciò che possiamo fare perché la democrazia delle istituzioni, infangata da tante volgarità, non è l’unica possibile. non sono solo partiti,
elezioni, parlamenti e governi a garantire il rispetto della pluralità delle
idee, della collegialità delle decisioni e della tutela dei diritti umani. esiste
la democrazia della gente comune, non meno importante, e la sola che oggi
sembra in grado di aiutarci a passare il guado.
Gustavo Zagrebelsky, sviluppando la sua lezione su La buona politica,
tenuta l’11 settembre dello scorso anno a torino, si è chiesto, parafrasando
una frase dell’abate Siéyès: «Che cos’è la società civile? Molto. Che cos’è
nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa». Un qualcosa vigile, impegnato, in perenne lotta contro l’ignoranza: la
corda che il cittadino disinformato o malinformato offre al boia e che un
numero sempre maggiore di persone chiede di disarmare.
R.o., una giovane aspirante giornalista, con l’impeto dei suoi vent’anni
scrive sul blog di Beppe Grillo:
Sono una studentessa genovese di 21 anni e ti scrivo perché ho paura. ho paura di
non poter avere un futuro. ho paura di dover lasciare l’Italia, terra che amo, per avere
un briciolo di speranza per il futuro. ti scrivo perché vedo la disinformazione, vedo lo
sfruttamento dell’ignoranza, vedo una stampa mercenaria, non più oggettiva, come
dovrebbe essere. ti scrivo perché vedo un paese che ha perso l’idea del coerente, del
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lecito, del buongusto. ti scrivo perché sono stufa di vedere mio padre sfruttato per
1.000 miseri euro al mese [...].
ti scrivo perché anch’io, come te, voglio un’Italia diversa, ma il cambiamento non
deve incominciare tra i politici, il cambiamento deve cominciare da noi. Bisogna spegnere la tv e accendere più Internet. Bisogna smettere di permettere lo sfruttamento
della nostra ignoranza. Dobbiamo smettere di essere ignoranti, dobbiamo informarci,
cercare noi le informazioni, senza aspettare che ci vengano date, perché se no saranno
distorte e chi ci vuole fregare avrà campo libero per farlo. ti scrivo perché spero di poter fare quell’esame, appena sarò laureata, per entrare in quell’albo che, in passato, ha
accolto tanti grandi. e spero, come i grandi, di potermi staccare dal sistema, di poter
dare tutto ciò che il popolo italiano si merita: spero di poter diventare una vera giornalista, di poter scrivere l’Italia per quel che è, non per quel che vogliono farla passare.
Lo sfogo di R.o. è la dimostrazione che, anche se i canali della politica
sono secchi e inospitali, molti sarebbero disposti a dedicarsi «spontaneamente e gratuitamente con passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo bene comune» a patto che, ha spiegato Zagrebelsky a torino, se ne
intravedano «l’utilità e la possibilità». Soluzioni alternative non ce ne sono
se vogliamo mettere in pratica quella virtù civica che per hannah Arendt
significa stare «con» le altre persone, non «sopra», né «accanto» o, peggio,
«altrove».
Una virtù spesso ignorata dai media, eppur viva e pulsante, che rende indispensabile l’azione di strumenti d’informazione alternativi alle voci istituzionali affinché si diffonda la conoscenza di eventi che influenzano la
nostra vita. Sono le «questioni vitali» rappresentate dai problemi legati alla
fecondità, alla natalità, alla longevità, alla mortalità e alla morbilità1 che
forzano la scena politica e che alla Sapienza hanno trovato un loro spazio,
curato dalla filosofa e politologa Lorella Cedroni, perché l’università è
senza dubbio una delle vie di diffusione del contagio del sapere, insieme al
web e ai libri.
Lo scopo di questo saggio è appunto questo: rappresentare un’ulteriore
coltura del bacillo della conoscenza su un argomento – la salute – su uno
strumento – il Servizio sanitario nazionale – e su un obiettivo: la salvaguardia del diritto alla salute per tutti, invece minacciato da omissioni, mistificazioni, invasioni criminose e famelici attacchi affaristici.
Il presente è grigio, il futuro può essere nero. Affinché il colore muti verso
tinte meno fosche occorre che tutti noi, citando Gandhi, diventiamo «il
cambiamento che vogliamo vedere». Un concetto che applicato alla sanità
ci spinge a riflettere sulle parole scritte da Ivan Illich quasi quarant’anni fa:
La salute designa un processo di adattamento. non è frutto dell’istinto, ma il risultato
di una reazione autonoma e tuttavia plasmata dalla cultura, alla realtà creata socialmente [...].
La salute esprime un processo di cui ognuno è responsabile [...].
La salute è un compito [...], è in gran parte il risultato dell’autocoscienza, dell’autodisciplina e delle risorse interiori con cui ognuno regola il proprio ritmo e le proprie azioni quotidiane, la propria alimentazione, la propria attività sessuale [...]. Queste attività
personali sono plasmate e condizionate dalla cultura in cui l’individuo cresce: modelli
di lavori e di svago, di celebrazione e di riposo, di produzione e di preparazione dei cibi
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e delle bevande, di rapporti familiari e di attività politica. I modelli di salute lungamente collaudati, coerenti con un’area geografica e con una determinata tecnica, dipendono in larga misura da una prolungata autonomia politica. Dipendono dalla diffusa responsabilità per ciò che attiene le abitudini sane e l’ambiente sociobiologico [...].
Il livello della sanità pubblica corrisponde (dunque) alla misura in cui i mezzi e la responsabilità di far fronte alla malattia sono distribuiti fra l’intera popolazione2.
La medicalizzazione della vita, l’aziendalizzazione spinta e il paventato
federalismo fiscale e sanitario che il varo lampo del maxidecreto del 7 ottobre 2010 rende ormai una certezza, si muovono invece in tutt’altra direzione, andando a tarlare il tessuto su cui era fondato il diritto all’eguaglianza,
sociale e territoriale, nell’accesso ai servizi. tarli a cui si aggiunge il cancro
dell’“onorata sanità”: il malaffare, le lottizzazioni, la corruzione, ma anche
gli sprechi, le gestioni clientelari e la menzogna dei numeri. più chiaramente, parliamo dei dati che sono occultati o manipolati per spingere l’opinione
pubblica verso un liberismo presentato come soluzione per la garanzia di
una tutela della salute che una popolazione generalmente sempre meno autonoma di fronte ai piccoli, grandi dolori della vita, e progressivamente
sempre più anziana, è pericolosamente indotta ad accettare.
Una tendenza questa che abbiamo voluto verificare recandoci in cinque
mercati della capitale, selezionati in base al loro potenziale rappresentativo
di tutte le fasce della popolazione, sia sotto il profilo demografico che economico, sociale e culturale. I risultati ottenuti, la cui lettura è stata semplificata dai grafici pubblicati nell’inchiesta La sanità al mercato (vedi Appendice I), sono sorprendenti perché, indipendentemente dalle condizioni
di vita e lavoro degli intervistati, la maggioranza si è dichiarata favorevole
a spendere di più per avere servizi migliori e abbattere le liste di attesa dimostrando che il messaggio della peggiore propaganda è passato: la sanità
è allo sfascio anche perché il contributo che ci viene richiesto per il SSn è
nettamente inferiore a quanto sarebbe necessario.
non è così, o almeno non del tutto. per rendersene conto basta leggere i
dati sul deficit pubblico, sulla spesa sanitaria, scomporre, sviscerare e confrontare i numeri, rapportarli alla media europea. Capiremo così che il livello raggiunto dalla spesa sanitaria non è la causa, ma la conseguenza della profonda crisi che investe il SSn, frutto della cattiva gestione e organizzazione delle risorse, del malaffare, del malcostume e non dell’insufficiente contributo dei cittadini. Capiremo, come ha sottolineato Umberto veronesi, che siamo un’anomalia in tutta europa per aver basato la professione
medica «sull’assurdo principio secondo cui dopo aver lavorato nella mattinata in ospedale, il medico va in clinica privata. Come se un giornalista de
“l’espresso” nel pomeriggio andasse a lavorare a “panorama”». Con i «risultati che sono sotto gli occhi di tutti, incluse le liste di attesa»3. e soprattutto saremo consapevoli che da oltre trent’anni condividiamo con altri
paesi europei la conquista di un diritto alle cure mediche: la Legge 833 del
23 dicembre 1978, che ha istituito il Servizio sanitario nazionale rappresentando un momento alto della nostra democrazia perché il progetto, pur-
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troppo rimasto incompiuto, poggiava sì le sue basi nella scienza, ma anche
nella solidarietà umana.
Sulla carta c’era tutto: ambulatori di salute mentale, ambulatori per gli
adolescenti e per la famiglia, consultori pediatrici di zona, centri per la lotta
all’alcolismo, al fumo, alla droga, centri per la riabilitazione, task force per
la salute degli anziani, nuclei di prevenzione della nocività e degli incidenti sui luoghi di lavoro.
Invece? Avere un familiare malato psichico o non autosufficiente significa crisi in famiglia. Chi lo gestisce? Come fare fronte alle spese dovute alla
carenza, in alcune regioni alla mancanza, di strutture dedicate e adeguate
alla dignità della persona? nove miliardi di euro la cifra spesa nel 2008 per
le badanti, secondo i dati del Rapporto sull’assistenza ai non autosufficienti: un importo superiore a quanto erogato dallo Stato per le indennità di accompagnamento che ammontano a 6,3 miliardi di euro.
problemi infantili e adolescenziali? Anche qui la nota è dolente. Si preferisce patologizzarli, come la sindrome da deficit di attenzione e iperattività
che è stata inserita nel manuale di psichiatria, e trattarla con psicofarmaci
anziché con un’azione sinergica tra le varie componenti dell’assistenza sociale, familiare e psicologica. Ma pretendere di curare i disagi degli adolescenti con una pastiglia, ammonisce il cardinale ersilio tonini, «è pura illusione, un’idea grave e colpevole, una semplificazione ingiustificabile»4.
nuclei di prevenzione della nocività e degli incidenti sui luoghi di lavoro?
Rimasti anch’essi poco più che semplici parole, come testimonia il dramma delle cosiddette “morti bianche”, mille decessi l’anno, che di candido
non hanno proprio niente.
Se il nostro paese fosse come il regno del Bhutan, l’unico al mondo a calcolare regolarmente l’Indice nazionale lordo di felicità5, appariremmo davvero come una nazione molto triste. La percezione psicologica che hanno i
cittadini del servizio sanitario non corrisponde ai riconoscimenti internazionali che pur con tutti i problemi del settore ci sono attribuiti. L’organizzazione mondiale della sanità, ad esempio, confrontando i sistemi sanitari
di tutto il mondo, ci posiziona al secondo posto assoluto per capacità di risposta assistenziale universale in rapporto alle risorse investite; la capacità
e la competenza degli addetti alla sanità ci colloca nella zona alta della
classifica europea, eppure siamo convinti di avere servizi deficitari, addirittura fatiscenti secondo il giudizio di alcuni, migliorabili solo pagando di
più. Sono invece problemi di provenienza esterna al sistema a offuscare il
valore del SSn e a mistificarne i fondamenti.
Chi dunque ha tradito la legge di riforma sanitaria?
La mancata attuazione degli schemi e delle strutture di prevenzione, sostiene veronesi, ma anche «il passaggio delle competenze sanitarie dallo
Stato alle regioni», che «ha creato figli e figliastri»6 disegnando le tante
“Italie” della salute che un federalismo sanitario applicato brutalmente,
senza una vera programmazione, non potrà che inasprire irreparabilmente
lasciando al loro destino migliaia di cittadini delle regioni con i conti in
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profondo rosso. Un destino che, avverte Ignazio Marino, «potrebbe farci
ritrovare davvero nei guai»7 perché la sanità è anche un potente regolatore
sociale. Sembra ignorarlo la politica quando pilota le carriere senza nessun
rispetto per i criteri meritocratici costringendo alcuni dei nostri giovani migliori a espatriare: una distruzione di capitale umano che trasforma gli investimenti per la formazione in costi e che sta spazzando via più di una generazione. e sembrano ignorarlo i cittadini, quando barattano dignità e diritti
con la sudditanza, l’accettazione o l’assuefazione a pratiche delittuose che
gravano sul sistema e sulle sue strutture. In primis gli ospedali, sempre al
centro della cronaca per gli sprechi, il sovraffollamento, le baronie, le lottizzazioni, la malasanità ma anche, sottolinea l’ex ministro della Salute, la
mancata modernizzazione. privacy e comfort sono parole pressoché sconosciute; l’accesso dei visitatori è disciplinato con il rigore di un istituto
penitenziario; mancano sale comuni e quelle che esistono non sono adeguatamente attrezzate; i reparti sono ancora collegati da quei freddi e grigi
corridoi protagonisti di tanta filmografia.
progetti? Ce ne sono. Una commissione presieduta dall’architetto Renzo
piano, sotto il dicastero di veronesi, nel 2001 preparò un decalogo per l’ospedale del futuro. Da allora, però, le strutture nate con quei crismi si contano sulle dita di una mano.
Un altro lavoro è quello seguìto dall’architetto Romano Del nord dell’Università di Firenze, su incarico del ministro Ferruccio Fazio. tentativi importanti per la comodità di medici e pazienti che rientrano nelle buone proposte per un servizio migliore: argomento di trattazione del quarto capitolo
e ultima tappa del nostro viaggio nella sanità italiana che, dopo aver mostrato ciò che abbiamo, quello che stiamo perdendo e perché, si prefigge di
dare un respiro di sollievo, e di sollecitare i cittadini affinché anche loro, i
profani, recuperino, come proponeva Illich, «la volontà di farsi carico di se
stessi»8.
In questo senso, sottolineare la necessità di una maggiore partecipazione
politica non è certo un invito a fare vita di partito, ma a considerare che non
ci si può limitare a delegare le decisioni su importanti questioni della vita
ricorrendo alla sola espressione del voto, perché «in democrazia», ci ricorda il Mahatma Gandhi, «nessun fatto di vita si sottrae alla politica». Men
che meno la salute. Assolutamente da tutelare con idonei stili di vita, con
un’adeguata condotta alimentare, con una puntuale informazione, ma soprattutto con una politica attenta al bene comune, e dunque in prima linea
nella lotta all’evasione fiscale e alle contaminazioni mafiose che avvizziscono l’intero sistema. obiettivi a cui, noi cittadini-profani, dobbiamo partecipare attivamente superando gli egoismi e le apatie, rispolverando l’interesse per la vita, nostra e altrui, affinché si riesca ad arginare la caduta di
pezzi di salute e welfare che perdiamo ogni anno tra una legge e un decreto,
tra un piano di recupero e una manovra. Righe nere su un foglio bianco che
tritano carne umana.
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Note
1
Con il termine “morbilità” si vogliono intendere non tanto le epidemie, quanto piuttosto le «endemie ossia quelle malattie dominanti all’interno di una popolazione – es: cancro e AIDS, considerate come fattori permanenti, anche in termini economici». Cfr. L. Cedroni-p., Chiantera-Stutte (a cura di),
Questioni di biopolitica, Bulzoni, Roma 2003, p. 36.
2
I. Illich, Nemesi medica – L’espropriazione della salute, paravia Bruno Mondadori editore, Milano 2004, pp. 290-292.
3
U. veronesi, Sanità modello qualità, in «l’espresso», 7 gennaio 2010.
4
Aa.vv., Nessuno tocchi Gianburrasca, bambini e psicofarmaci, nuova emergenza sanitaria, Iv ed.,
p. 18, www.giulemanidaibambini.org, 2009.
5
L’indice della Felicità interna lorda (FIL) è nato alla metà degli anni ottanta e rappresenta il tentativo di definire uno standard di vita che contenga valutazioni di tipo sociologico in contrapposizione ai
meri calcoli economici da cui scaturisce il prodotto interno lordo (pIL).
6
U. veronesi, art. cit.
7
Colloquio con Ignazio Marino, Italiani, salvate voi stessi, in: D. Minerva, La fiera delle sanità,
Rcs Libri, Milano 2009, p. 283.
8
I. Illich, op. cit., p. 43.
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Il lungo cammino della sanità
pubblica
Le conquiste, i fallimenti e le sfide del futuro
Capire da dove è spirato il vento che ha condotto la barca della sanità a incagliarsi contro gli scogli di una politica indiscriminata dei tagli significa
innanzitutto conoscere la sua storia: quell’insieme di conoscenze e applicazioni, inserite in un determinato quadro politico e sociale, che ha trasformato una scienza a carattere squisitamente individuale in una grande e
complicata organizzazione a tutela di tutti i cittadini. Sarà utile per avere
gli elementi necessari a comprenderne l’evoluzione istituzionale e organizzativa, con il fine di riflettere su temi che potranno influire in modo tangibile sulla futura legislazione concernente la tutela della salute e, più in
generale, su uno dei più importanti diritti fondamentali riconosciuti dalla
nostra Costituzione.
1.1. Dallo Stato unitario al Sessantotto: un secolo di lotte
«La fede nell’armonia degli interessi ha fatto bancarotta nella storia. nessun dubbio che l’individuo possa fare del bene, ma la questione sociale non
può esser risolta che dallo Stato», scriveva non un filantropo, ma il liberista
Adam Smith. Così, anche nel nostro paese, con il sorgere dello Stato unitario, e la riconduzione della parcellizzazione politico-amministrativa del
territorio a un unico comune denominatore, chiamato Italia, si sentì forte il
bisogno di uniformare la legislazione su tutto il territorio nazionale, anche
nel settore dell’assistenza sanitaria e ospedaliera.
L’esigenza di base era dare un nuovo ordinamento alle numerose istituzioni e fondazioni realizzate da privati nel corso dei secoli (ospedali, cronicari, infermerie, orfanotrofi, istituti di ricovero, mense popolari, asili notturni), scopo che si perseguì nel 1862 con l’approvazione della legge Rattazzi1 con cui si ebbe una prima disciplina delle opere che si occupavano
del soccorso e dell’assistenza alla popolazione in difficoltà. Ad essa seguì
tre anni dopo la Legge 22482 che delineò un organigramma sanitario con al
vertice del livello centrale il ministero dell’Interno e di quello periferico
sindaci e prefetti3. parte integrante, e legge autonoma, era costituita dal cosiddetto Allegato “C”, che rappresenta la prima legge organica della sanità,
la quale, filtrata da un cammino di oltre un secolo e mezzo, appare oggi
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MALASANITÀ
ben poca cosa ma, all’epoca, la tutela della salute del singolo cittadino (ovvero, in quel contesto, la cura del suo stato di malattia) non aveva riconoscimento di bene pubblico e l’assistenza sanitaria era piuttosto un’opera di
carità, sostenuta finanziariamente da lasciti e opere di beneficenza. La solidarietà privata, specie quella religiosa con le opere pie, gestiva la maggior
parte degli ospedali, rappresentando la risposta più concreta alla domanda
di assistenza, che attraverso la figura del medico «dei poveri» garantiva a
quanti erano iscritti in apposite liste di ricevere cure gratuite4.
Circa vent’anni dopo, la legge venne sostituita dalla legge Crispi-pagliani5, mutuata dal Public Health Act britannico del 1848, che istituiva il Medical Officer of Health6, da cui prese corpo la figura del medico provinciale. In seno al ministero dell’Interno, invece, venne creata la Direzione generale della sanità pubblica, un abbozzo organizzativo che generò un dualismo fra le autorità fornite del potere di decisione, ma estranee in sé alle
problematiche sanitarie, e i funzionari tecnici, esperti nei temi della sanità
pubblica7, ma privi, in pratica, di effettive possibilità decisionali.
occorreranno molti decenni per un primo tentativo di superamento del
conflitto di competenze che si avrà solo nel 1945, con l’istituzione dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità (ACIS)8 presso la presidenza del
consiglio dei ministri, le cui funzioni comprenderanno «la tutela della sanità pubblica, il coordinamento e la vigilanza tecnica sulle organizzazioni
sanitarie e sugli enti che hanno lo scopo di prevenire e combattere le malattie sociali». Fu questo, l’affidamento delle competenze in materia sanitaria
a una specifica struttura amministrativa di vertice, il primo segnale dell’importanza che i problemi della salute assumevano nel Regno d’Italia,
anche se il mancato riordino delle competenze dell’amministrazione periferica, e la conseguente conferma delle funzioni di autorità sanitaria di sindaci e prefetti continuavano ad alimentare non pochi conflitti. Anche allora
di prevalente origine politica ed economica, come ci ricordano le parole di
Giulio Bizzozzero, patologo generale a torino, che pronunciò all’inaugurazione dell’anno accademico 1883-84:
voi udite, e udrete sempre più parlare di questioni sociali. Ma quando si tratta di bonificare terreni malarici, di costruire spedali, di migliorare le condizioni igieniche dei
quartieri operai, allora l’erario è esausto, allora si grida ai quattro venti la necessità di
ricorrere a nuove imposte. Ma al tempo stesso si trovano e si profondono milioni per
rendere più teatralmente pomposa un’incoronazione – come quella, cinque anni prima, del nuovo re Umberto I – o per ricostruire più splendidi palazzi dei parlamenti –
come quelli romani recentemente restaurati – o per imporre a colpi di cannone il proprio protettorato a popoli – come quello eritreo – che si vogliono sfruttare a beneficio
di pochi affaristi9.
Siamo al tramonto del xIx secolo, e lo stato liberale, spinto dalla volontà
di sottrarre all’ambito cattolico istituzioni di grande importanza dal punto
di vista del controllo sociale, approva un altro provvedimento di portata
storica per il mondo della sanità e dell’assistenza, la cosiddetta “legge Crispi”10. Con essa, gli ospedali, le case di riposo e le opere pie11 sono trasfor-
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mati in istituti pubblici di assistenza e beneficenza (IpAB), senza tuttavia
riuscire a migliorare le prestazioni assistenziali12. La tutela della salute continua – e così sarà fino alla fine della seconda guerra mondiale – a essere
intesa prevalentemente come tutela della salute collettiva, con particolare
attenzione ai profili della vigilanza igienico-sanitaria.
Con il Dopoguerra, l’assistenza sanitaria conosce la prima grande crisi finanziaria che indurrà diverse amministrazioni, che si reggono sui sempre
più insufficienti contributi di spedalità dei Comuni e delle opere pie, a scegliere la strada dell’offerta di servizi a pagamento. L’ospedale non viene
più concepito come una struttura caritatevole, ma in cambio le strutture si
modernizzano e si dotano di nuove attrezzature diagnostiche e strumentali.
L’avvento del Fascismo, e gli anni che ne saranno segnati, porteranno con
sé il traghettamento da un’assistenza di tipo generico sancita nel 1890 a
una di tipo specifico, senza tuttavia riuscire a superare la crisi che a cavallo
degli anni trenta si allarga contribuendo al dissesto delle strutture e delle
amministrazioni locali. A questo punto, il regime cambia strategia e decide
di dare corso alla cosiddetta “politica corporativa”, che in materia sanitaria
si traduce in un sistema assicurativo-previdenziale in grado di fornire, tra le
altre, l’assistenza sanitaria ai lavoratori. nascono l’Istituto nazionale per
le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro (InAIL)13, l’Istituto nazionale
di previdenza sociale (InpS)14, l’ente nazionale di previdenza e assistenza
per i dipendenti statali (enpAS)15 e l’Istituto nazionale di assicurazione contro le malattie (InAM)16.
nel 1931 viene stabilito l’obbligo di ricovero in istituto per le persone
inabili al lavoro, una norma che tre anni dopo verrà ulteriormente inasprita
con il divieto di nomina negli uffici di enti territoriali per coloro che sono a
carico di un’istituzione assistenziale pubblica17. nello stesso periodo si gettano le basi per la nascita dell’Istituto superiore di sanità, che ai suoi albori
si chiamerà Istituto di sanità pubblica, e si approva il testo unico delle leggi
sanitarie18. Si tratta di una raccolta di tutti i provvedimenti precedenti, coordinati in circa 400 articoli, che rappresenterà lo strumento di riferimento
per la disciplina della materia fino all’entrata in vigore della Costituzione,
ed è in parte ancora vigente.
Chiusa la parentesi fascista, l’Italia liberata continua a essere disseminata
di una pluralità di enti mutualistici19 tra loro divisi da peculiari diversità,
mentre nella Gran Bretagna del governo Attlee già nel 1947 nasce il National Health Service, il Servizio sanitario nazionale, con cui si attua il diritto
alla tutela della salute. Un diritto che per gli italiani risulterà ancora una
corsa a ostacoli, tra carenze e buchi neri, frutto di un’organizzazione dell’assistenza sanitaria così frammentata da risultare incontrollabile, sia sotto
il profilo qualitativo che quantitativo delle prestazioni erogate. Sarà impossibile raccapezzarvisi anche per il ministero della Sanità che nel divulgare la cifra del totale degli assistiti indicherà un numero superiore di ben
sedici milioni all’intera popolazione italiana.
Dominano sul territorio nazionale le sperequazioni e le disuguaglianze
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sociali, malgrado si registri una timida e seppur caotica risposta ai bisogni
sanitari della società italiana, che sta rapidamente conoscendo il “benessere”, e altrettanto rapidamente vede crescere il fabbisogno finanziario teso a
mantenere funzionante un sistema parcellizzato.
L’entrata in vigore della Carta costituzionale, il 1° gennaio 1948, modifica del tutto i termini della questione salute, che fa così il suo ingresso nel
diritto costituzionale contemporaneo e diviene oggetto di tutela da parte
della Repubblica, mentre gli unici precedenti legislativi si erano limitati
alla semplice previsione dell’obbligo statale di organizzare un sistema assicurativo unitario, che tuttavia legava il concetto di assistenza alla condizione di lavoratore quando addirittura non considerava la salute come un mero
problema di ordine pubblico.
operata la scelta di costituire uno stato sociale, che all’epoca poteva sembrare utopistica, quantomeno perché le risorse non erano adeguate a un simile progetto, l’Italia repubblicana si adopererà per rimuovere gli ostacoli
che impediscono il pieno sviluppo di ogni persona, anche la più debole,
promuovendone le potenzialità sociali. tutto è da ricostruire: le infrastrutture, il sistema produttivo, il sistema delle responsabilità istituzionali e sociali a diversi livelli, il sistema di fiducia nella convivenza civile per poter
garantire linfa vitale alla crescita sociale e democratica20.
L’inclusione dei diritti sociali (oltre quelli civili e politici) tra i fattori costitutivi del patto sociale avrà dunque i caratteri tipici di una opzione per certi
aspetti irrealistica e velleitaria. Come garantire il diritto alla salute e all’assistenza sociale in una società che ha molte emergenze da affrontare? non è
più opportuno procedere con una logica graduale, riproponendo, in tema di
bisogni sociali, la cultura assistenzialistica di matrice ottocentesca, ben collaudata anche nel secolo successivo dai regimi totalitari, dove le ragioni della beneficenza pubblica mascherano e si confondono con quelle del controllo e dell’acquisizione del consenso? Come si può parlare di un diritto alla salute senza un sistema di risposte sanitarie accessibili, di tutela sociale senza
un sistema di servizi adeguato, quando le risposte universalistiche per essere
tali devono essere effettivamente disponibili per ogni persona, anche per chi
non è in grado di acquistarle per sé o per la propria famiglia? La grandezza
della nostra Costituzione, dunque il merito dei nostri costituenti, consiste
proprio in questa capacità d’immaginare l’inimmaginabile, di tendere all’impossibile, spinti dall’incredibile forza che dà intavolare una discussione
avendo chiaro, al di là degli schieramenti, un imprescindibile unico denominatore comune rappresentato dalla salvaguardia della dignità dell’uomo.
Centralità, quella della persona, che in un momento di espansione del
welfare in senso universalistico, si ritrova nella Dichiarazione universale
dei diritti umani, dove all’art. 25 si legge che
ogni persona ha diritto a un adeguato livello di vita che assicuri a lui e alla sua famiglia
la salute e il benessere, inclusi il cibo, il vestiario, l’abitazione, l’assistenza medica e i
servizi sociali necessari, e il diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia,
disabilità, vedovanza e vecchiaia.
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In altre parole, ciò che viene sottolineato è il tema della sicurezza sociale
a cui i nostri costituenti avevano già dato ampia rappresentanza, enunciandone i princìpi all’art. 2, che sarà la base per lo sviluppo delle associazioni
di volontariato; all’art. 3, che costituirà le fondamenta di quel Servizio sanitario nazionale partorito trent’anni dopo; e agli artt. 4, 5 e 6 che sanciranno una specifica attenzione alla persona, rappresentando l’impegno a rimuovere gli ostacoli alla crescita globale di ogni cittadino e l’intenzione di
attuare una Repubblica delle autonomie21, base del successivo decentramento amministrativo regionale.
Sotto il profilo degli strumenti, si pone in questi anni il problema di unificare
sia le istituzioni preposte al governo del servizio pubblico di salute, sia il sistema delle prestazioni sanitarie, all’interno dell’ormai accettato principio dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie con il fine di superare la stratificazione dell’organizzazione mutualistica22, culturalmente e politicamente
legata a una nozione di salute non più rispondente ai canoni costituzionali.
nel 1958, dopo un’esistenza durata tredici anni, l’Alto commissariato per
l’igiene e la sanità, che era stato istituito presso la presidenza del Consiglio,
viene soppresso23, e sostituito da un vero e proprio ministero della Sanità, a
cui capo l’allora presidente del consiglio, Amintore Fanfani, pone il fisiologo vincenzo Monaldi. A livello centrale, il dicastero è coadiuvato nelle
proprie funzioni consultive dal Consiglio superiore di sanità, e dall’Istituto
superiore di sanità per gli aspetti tecnico-scientifici, mentre a livello periferico viene affiancato dagli uffici medici e veterinari provinciali, dai consorzi, dagli uffici sanitari comunali e dagli uffici sanitari specifici, ad esempio, nelle zone di confine.
Al pari delle istituzioni, anche la scienza medica e la nozione stessa di salute si evolvono: non più solo intervento igienista la prima, non più solo assenza di malattia, ma complessivo stato di benessere psicofisico, la seconda. Ciò che rimane al palo, per molti versi anche oggi, è il coinvolgimento
del cittadino nell’elaborazione di adeguati stili di vita, idonei a prevenire
quelle patologie che secondo i dati dell’organizzazione mondiale della sanità sono responsabili dell’86% dei decessi e del 75% della spesa sanitaria
in europa e in Italia. parliamo di malattie legate al fumo, all’obesità e al sovrappeso, all’abuso di alcol, alla sedentarietà, allo scarso consumo di frutta
e verdura, all’eccesso di grassi nel sangue e all’ipertensione arteriosa24 che
hanno in comune fattori di rischio25 modificabili da una cittadinanza consapevole e responsabile. Come è avvenuto in Finlandia.
Fino agli anni Sessanta il paese nordico aveva il più alto tasso mondiale di
morti per patologie coronariche, in modo particolare nella povera provincia orientale della Carelia del nord. Dopo un lungo dibattito politico e
scientifico, nel 1972 fu varato un programma di prevenzione coordinato
dall’università. Scopo principale era diffondere il più capillarmente possibile un messaggio che promuovesse stili di vita corretti come l’eliminazione del fumo, un adeguato esercizio fisico, una dieta bilanciata ricca di frutta e verdura, e povera di grassi saturi e sale. Attraverso le scuole, le biblio-
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teche, i media locali e i supermercati fu sensibilizzata l’intera popolazione,
contribuendo a far scendere il tasso di mortalità in età lavorativa a causa di
problemi coronarici fino alla ragguardevole cifra dell’85% registrata nel
200626. Il traguardo, ambizioso, fu raggiunto con poche semplici azioni,
ma sinergiche rispetto alla politica, alle istituzioni e alla società civile che
hanno dimostrato come la convergenza degli sforzi nella prevenzione e
nella promozione di regole salutari ripaghi ampiamente gli investimenti.
Ma c’è anche un altro importante insegnamento che possiamo trarre dall’esperienza finlandese: la capacità di mettere da parte politiche miopi, volte a raccogliere immediati quanto fugaci consensi, a favore di programmi
di medio e lungo periodo che consentono di raccogliere ben più lauti successi sociali. Ciò che gli amministratori locali compresero, mettendolo in
pratica, è che tutelare il diritto alla salute non significa solo rimuovere le
noxae patogene o ripristinare una ideale normalità organica, ma vuol dire
incoraggiare comportamenti e condizioni di vita che permettano alla persona di conseguire un pieno benessere psichico, fisico e relazionale dal quale
noi, invece, continuiamo ad allontanarci27.
Gli stili di vita peggiorano in tutte le regioni italiane anche se con specificità diverse. Aumenta il numero dei fumatori in Calabria, in puglia e più in
generale in tutto il Centro-Sud. Il Rapporto Osservasalute 2010 calcola
80.000 decessi l’anno a causa del fumo e addita il tabagismo come uno dei
principali fattori responsabili delle spese in ambito sanitario.
L’alcol scorre a fiumi invece al nord, con valori di prevalenza nella provincia autonoma di Bolzano e in Friuli venezia Giulia, mentre il consumo
si attesta su valori inferiori alla media in Sicilia, Lazio, Marche e Campania. Quest’ultima regione, insieme al Molise, vanta anche una schiera di
astemi sempre più folta, sebbene l’alcolismo resti comunque una piaga a livello nazionale difficile da contrastare per l’esiguità delle risorse a disposizione per la prevenzione che, si legge nel rapporto, ammontano a un misero milione di euro contro i 169 milioni investiti in promozione dai produttori di alcolici.
Altra nota dolente, che emerge quando si passano in esame le abitudini
alimentari e gli stili di vita della popolazione, è rappresentata dal sovrappeso e dall’obesità. La tendenza ovunque sta assumendo i caratteri di una vera e propria epidemia con 1,6 miliardi di adulti in sovrappeso nel mondo,
che si stima aumenteranno a 2,3 miliardi entro il 2015, e 400 milioni di
obesi che dovrebbero raggiungere quota 700 milioni nei prossimi cinque
anni. In Italia, gli adulti in sovrappeso sono il 35,5% della popolazione,
mentre è obesa 1 persona su 10, anche in questo caso con differenze marcate tra le regioni. valori superiori alla media si riscontrano in Basilicata e
Molise dove è in sovrappeso rispettivamente il 41% e il 40,1% dei cittadini, mentre è in emilia Romagna e Campania che abita il numero più elevato di obesi, anche se complessivamente, rispetto al 2008, il fenomeno mostra una curva in salita pressoché in tutte le regioni.
C’è poi il problema della sedentarietà. Quattro italiani su dieci, particolar-
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mente donne, dichiarano di non svolgere alcuna attività fisica. La situazione è più critica al Sud, soprattutto in Sicilia e Campania, mentre trentino e
Lazio sono le regioni più attive. eppure, i tagli ce lo ricordano, l’imperativo
moderno dovrebbe essere la promozione di sane abitudini che sono il primo
vero deterrente contro la «medicalizzazione della vita», come predicava già
negli anni Settanta il filosofo di origine dalmata, Ivan Illich, il quale riteneva la malattia un sottosistema politico usato per creare diverse categorie di
domanda, offerta e bisogni insoddisfatti. «Indirettamente», scriveva Illich,
«l’intervento terapeutico vistoso ha una grande forza di suggestione per
convincere la gente che occorre pagare più tasse»28. tendenza che proponeva di contrastare «con un recupero, da parte dei profani, della volontà di
farsi carico di sé stessi, e attraverso il riconoscimento giuridico, politico e
istituzionale di questo diritto a salvaguardarsi»29. Un diritto che è stato ribadito più di recente nel libro Il mercato del corpo, dove la partecipazione dei
privati cittadini, i profani appunto, è ritenuta requisito fondamentale «per
una democrazia minimale, anche nel caso in cui tale partecipazione dovesse diminuire le probabilità di successo delle decisioni»30.
tornando ora a ripercorrere le tappe del lungo cammino verso il Servizio
sanitario nazionale, universale e gratuito, centrale è la figura del chirurgo
Achille Dogliotti. Chiamato nel 1964 a presiedere la Commissione per la
riforma ospedaliera, affinché ripari alle insufficienze e agli sprechi del sistema mutualistico, Dogliotti riuscirà a cogliere i due elementi che saranno
sempre più sviluppati nelle riforme sanitarie che si succederanno: l’istituzione di un fondo derivante dalla fiscalità generale e quello, fin troppo esasperato, dell’attribuzione delle competenze e delle responsabilità alle Regioni. Allo Stato devono essere lasciate solo le funzioni di coordinamento e
di controllo che tanta polemica susciteranno, essendo numeroso e trasversale, nella maggioranza come nell’opposizione, il fronte moderato centralista. Bisognerà infatti attendere il 1° gennaio 1970 perché possa dirsi rispettata, almeno sotto il profilo formale, l’attuazione del capo vIII delle disposizioni transitorie e finali, che fissa a un anno dall’entrata in vigore della
Costituzione l’indizione delle elezioni del Consiglio regionale. e sempre
agli anni Settanta occorrerà giungere per vedere l’applicazione dell’art.
117 della carta Costituzionale con cui verrà ripartita la potestà legislativa
tra Stato e Regioni.
L’attuazione del decentramento amministrativo, e più in generale il farsi
strada di una politica guidata dalle leggi della finanza piuttosto che dai
principi di solidarietà ed equità sociale, portano con sé l’entrata in vigore di
una legge, la cosiddetta Mariotti31, con cui si gettano i presupposti per lo
sviluppo di un modello sanitario di tipo tecnicistico che come un cancro silente invaderà il sistema, alterandone le funzionalità e divenendo concausa
dell’attuale emergenza salute.
La legge trasforma gli ospedali, fino ad allora per lo più gestiti da enti di
assistenza e beneficenza, in enti pubblici (enti ospedalieri)32, li classifica in
categorie, li organizza e li finanzia nell’ambito della programmazione na-
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zionale e regionale, ma soprattutto li pone al centro del sistema facendoli
collassare sotto il peso della mole dei servizi che saranno chiamati a fornire.
1.2. Nasce il Servizio sanitario nazionale
È comunque in questi anni che si apre una stagione di grandi euforie e
speranze per la tutela dei diritti dei cittadini.
Un significativo successo è quello registrato dalla classe lavoratrice a seguito dell’approvazione dello Statuto dei lavoratori33, le cui norme a favore
della sicurezza e della medicina del lavoro influenzeranno anche la tutela
della salute. L’art. 9, ad esempio, sancisce il diritto dei lavoratori a controllare, mediante le rispettive rappresentanze, «l’applicazione delle norme per
la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali», e a «promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica».
Legati alle fabbriche nascono in maniera spontanea, in diverse regioni, i
servizi di medicina del lavoro sul territorio34, sebbene permangano dati negativi sul fronte della sicurezza sociale, quali una concezione paternalistica
dell’intervento pubblico; un’irrisolta disorganicità legislativa, in parte ancora datata all’Unità d’Italia; una mancata o parziale applicazione della
normativa vigente, specialmente in materia di controlli; una sovrapposizione di competenze e strutture in alcuni ambiti, come ad esempio, la cura
dei minori, mentre altri settori rimangono privi di un efficace sostegno;
un’attenzione agli assistiti in base a categorie di appartenenza anziché criteri di globalità; un utilizzo dell’istituzionalizzazione come forma privilegiata d’intervento.
È tuttavia in questo periodo che le prospettive dell’assistenza sanitaria
pubblica e privata in Italia si trovano come non mai al centro del dibattito
politico e costituiscono oggetto d’indagine da parte della Camera dei deputati, sebbene lo studio verrà interrotto dalla chiusura anticipata della legislatura.
Con le prime elezioni regionali35, il 7 giugno 1970, prende avvio il decentramento amministrativo previsto dalla Costituzione, a cui farà seguito, due
anni dopo, il decreto36 per il trasferimento delle competenze relative alla tutela della salute dallo Stato alle Regioni a statuto ordinario37.
Molti sono convinti che l’attività regionale sia ancora limitata da vari
condizionamenti, tra cui il non trascurabile caos generato dalle nuove attribuzioni e l’insufficienza degli strumenti per realizzare una politica organica di sicurezza sociale. tuttavia, nel 1974 il Consiglio dei ministri vara un
primo schema di riforma sanitaria che tiene conto dell’ordinamento regionale e di importanti norme contenute nel Decreto legge 264/7438, con cui si
stabiliscono regole per l’estinzione dei debiti degli enti mutualistici39, per
l’istituzione del fondo sanitario nazionale e per il trasferimento alle Regioni dei compiti d’assistenza nosocomiale nei confronti degli enti ospedalie-
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ri, che apriranno in modo definitivo la strada alla Legge 833/78, Istituzione
del servizio sanitario nazionale40 (consultabile in Appendice).
Giunge così a termine il trentennale processo che ha universalizzato41 la
tutela del diritto alla salute, mutuato dal National Health Service britannico42, traghettando il paese da un sistema mutualistico, noto come modello
Bismarck43, a un sistema basato su una sanità sovvenzionata da una quota
di gettito della fiscalità generale, il cosiddetto “modello Beveridge”44.
È il 23 dicembre 1978 quando l’Italia promulga la sua prima legge quadro
sanitaria. presidente del Consiglio è Giulio Andreotti, ministro della Salute
tina Anselmi, e l’opposizione guidata dal pCI di enrico Berlinguer appoggia dall’esterno il governo, cosiddetto di “solidarietà nazionale”, contribuendo a creare le condizioni affinché anche nella nostra legislazione s’inizi a parlare di salute come di uno «stato di benessere», e di prevenzione
come di una serie di misure igieniche e di sicurezza da adottare negli ambienti di vita e di lavoro.
La salute diviene formalmente un problema collettivo, non più privato e
individuale; un diritto di tutti e non una beneficenza fatta ai poveri, un problema di prevenzione più che di cura. Dunque, un diritto inalienabile e universale che lo Stato, attraverso il Servizio sanitario nazionale (SSn), deve
garantire a tutti, a prescindere dal reddito.
Ciò che prende corpo è un concreto avanzamento di civiltà, che traghetta
il passaggio da un’uguaglianza formale a una sostanziale, presupposto necessario affinché alla tutela delle libertà individuali siano uniti compiti di
promozione umana e di giustizia sociale.
In un certo senso, la Legge 833 è l’apertura di quel cantiere per i diritti di
cittadinanza, auspicato dalla conferenza di Alma Ata45, affinché l’obiettivo
espresso con il motto «Salute per tutti entro il 2000» potesse essere raggiunto, anche grazie a una maggiore attenzione all’assistenza sanitaria primaria, ovvero:
quell’assistenza sanitaria essenziale fondata su metodi e tecnologie pratiche, scientificamente valide e socialmente accettabili, resa universalmente accessibile agli individui e alle famiglie di una comunità attraverso la loro piena partecipazione, a un costo
che la comunità e i paesi possono permettersi a ogni stadio del loro sviluppo, in uno
spirito di fiducia in sé stessi e di autodeterminazione. essa è parte integrante sia del Sistema sanitario nazionale, di cui è il perno e il punto focale, che dello sviluppo economico e sociale globale della comunità.
1.2.1. Nubi all’orizzonte
La prima picconata ai fondamenti della legge quadro arriva solo tre mesi
dopo la sua promulgazione, con la nascita di una tassa sulla salute che si
esprime attraverso il ticket, quel contributo che i cittadini si abitueranno a
versare per tutte le prestazioni ricevute. Allo stesso tempo prendono corpo
alcuni gruppi di pressione che sotto lo slogan «meno Stato, più mercato»
spingono in maniera confusa verso un cambiamento della politica sanitaria
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sulla falsa riga di quella americana. non ci riusciranno. Il progetto di legge
decadrà alla fine della legislatura e il neonato SSn procederà verso l’attuazione della legge a partire dall’art. 1 che lo definisce come
il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che
assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio.
Compiti, questi, per cui il SSn viene finanziato dal fondo sanitario nazionale, il cui importo viene determinato annualmente dalla legge di approvazione
del bilancio dello Stato, affinché gli obiettivi di programmazione sanitaria
nazionale si muovano nel rispetto dei livelli delle prestazioni sanitarie essenziali (LeA)46, che lo Stato stabilisce in sede di approvazione del piano sanitario nazionale47. tutto ciò al fine di concretizzare – anche attraverso una
politica di piano – obiettivi di arrivo, tempi di realizzo, oneri necessari e risorse da utilizzare con cui sancire l’attuazione di una piattaforma istituzionale che consenta forme di controllo periodico e momenti di verifica globale48.
Sulla scia del tracciato indicato dalla legge, numerose sono le diramazioni
verso cui si muove la costruzione del sistema: dall’educazione sanitaria alla prevenzione; dalla cura e riabilitazione alla promozione della salubrità
degli ambienti di vita e di lavoro; dall’igiene degli alimenti alla disciplina e
all’informazione in tema di farmaci; dalla formazione all’aggiornamento
del personale. Una scaletta d’impegni eterogenea, ma convergente nel fine
di superare gli squilibri territoriali, e realizzare quell’uniformità delle condizioni di salute sull’intero territorio nazionale che è il principio fondante
della legge.
Aperto il cantiere sanitario-sociale difficile sarà tuttavia procedere alla
costruzione di un sistema-salute nel rispetto delle dichiarazioni di Alma
Ata. ostacolerà il processo un consenso politico e sociale labile e disomogeneo, dovuto a un’interpretazione della Legge 833/78 come mera attuazione dei princìpi costituzionali, che ignora una caratteristica fondamentale
del diritto alla salute: quello di essere un diritto condizionato49, e come tale
ha bisogno di una solida base programmatica nazionale e regionale, fondata su chiare responsabilità di gestione, su livelli di assistenza, su standard di
accessibilità, cioè su un sistema di risposte capaci di attuare al meglio la
missione sociale del Servizio sanitario nazionale.
Le diversità regionali, e persino territoriali, si frappongono alle azioni di
programmazione, integrazione e riorganizzazione della rete dei servizi e di
lotta agli sprechi, a cui si aggiungono anche alcune carenze insite nello
stesso impianto legislativo, che alimenteranno la confusione nella ripartizione delle funzioni politiche e tecniche. non trascurabile è poi la politica
di opposizione messa in atto da una grossa fetta della classe medica, categoria che avrebbe dovuto essere compatta, in prima linea, per garantire
quella piena applicazione della legge, vista e interpretata come processo di
lungo periodo, e frutto di sforzi congiunti e responsabilità istituzionali, gestionali, professionali e sociali.
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1. IL LUNGO CAMMINO DELLA SANITÀ PUBBLICA
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Rimane comunque innegabile che siano questi ultimi anni Settanta uno
dei momenti più fertili nell’azione legislativa a favore della salute a cui si
ascrive l’approvazione di una legge, rivoluzionaria nei suoi princìpi per il
cambiamento culturale che impartirà nei confronti del malato psichiatrico,
come la legge Basaglia50, o anche il DpR 384/78 con cui si avvia la fase, rimasta incompiuta, dell’eliminazione delle barriere, di cui è parte integrante
il trasporto scolastico gratuito, e l’inserimento dei disabili nelle classi della
scuola pubblica.
1.2.2. La salute a portata di mano
Con l’approvazione della legge quadro la gestione della salute sul territorio nazionale viene affidata a una rete di Unità sanitarie locali (USL)51 che
rappresentano le articolazioni di base del nuovo sistema sanitario. organizzate, programmate e finanziate dal fondo sanitario regionale e di vigilanza,
esse rappresentano l’elemento di maggiore innovazione, in quanto integrano all’interno dello stesso territorio tutte le fasi del processo assistenziale e
le attività di prevenzione, cura e riabilitazione a cui è demandata l’organizzazione e la gestione degli aspetti, sia sanitari che amministrativi52.
Ad esse, attraverso l’art. 21 della Legge 833, è esplicitamente assegnata
anche la tutela dei lavoratori, per il cui fine «organizzano propri servizi di
igiene ambientale e medicina del lavoro anche prevedendo, ove non esistano, presìdi all’interno delle attività produttive».
Il compito dei controlli è affidato agli ispettori del lavoro, nominati dal
prefetto su proposta del presidente della Regione, i quali hanno qualifica di
ufficiali di polizia giudiziaria con funzioni ispettive e di controllo, esclusivamente in materia di «prevenzione degli infortuni e d’igiene del lavoro».
Le verifiche riguardanti invece aspetti più generici: come turni, orari o lavoro minorile, restano di competenza dello Stato, il quale, nel rispetto dell’art. 27 della legge, distribuisce a tutti i cittadini tramite le USL un libretto
sanitario personale con l’indicazione dell’eventuale esposizione a rischi
dovuti alle condizioni di vita e di lavoro.
Sin dalla loro istituzione, gli enti di gestione sul territorio si occupano anche delle attività di consultorio, con assistenza al puerperio, post-puerperio,
visite ginecologiche e pediatriche già attribuite ai «consultori familiari»53
dopo lo scioglimento dell’opera nazionale per la maternità e l’infanzia (onMI)54 nel 1975. Al pari dei suoi predecessori, anche i nuovi centri si riveleranno un fallimento a causa della scarsità di personale, di attrezzature inadeguate e di un’insufficiente e difforme distribuzione nel paese. nel 1980 sono appena 917, di cui solo 10 al Sud, nessuno in Molise e uno in Sicilia.
Spesso al centro di polemiche per un improprio governo della spesa e per
le diffuse confusioni tra titolarità politica e amministrativa, le USL esprimeranno nel tempo quelle contraddizioni nella gestione che tuttora sperimentiamo. Ad esempi di eccellenza si contrappongono le molteplici esperienze
di sostanziali insuccessi che si riflettono negli ospedali, sempre più soli sul
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fronte assistenziale, nonostante, e a causa, della centralità del ruolo riservatogli dal SSn. Grave è poi la mancanza di un forte investimento nell’assistenza sanitaria primaria che getta nell’ombra i due pilastri della prevenzione e della promozione di salute. Il medico di medicina generale resta
una figura marginale, contrariamente alle intenzioni della legge, mentre le
future politiche di ripiano del deficit55 spesso disincentiveranno scelte gestionali responsabili. Il prevalere delle logiche burocratiche soffocherà lo
sviluppo di una managerialità positiva, necessaria a promuovere i cambiamenti. Il corporativismo ostacolerà l’evoluzione delle professionalità, premiando le specializzazioni settoriali a scapito dell’integrazione operativa.
Le mancate emanazioni dei piani sanitari nazionali e regionali e dei progetti obiettivo faranno venir meno i riferimenti necessari per dare attuazione
ai processi di riforma. e la spesa sanitaria continuerà a salire.
Stretta tra i morsi di una crisi economica mondiale che sul finire degli anni Settanta colpisce il nostro paese e trascina dentro anche la sanità, l’Italia
si rende conto che il passaggio dal quadro teorico a quello operativo per la
realizzazione del welfare deve fare i conti con l’esiguità delle risorse finanziarie. Diventa chiaro che non basta individuare i centri di erogazione
dei servizi e dei finanziamenti per avere una macchina efficiente. occorre
andare oltre ed elaborare precisi indirizzi organizzativi, utilizzare strumenti di verifica e di controllo sulle responsabilità per porre un argine al dilagare del fenomeno corruttivo. Si tratta in pratica di coniugare i due estremi
che vedono da una parte coloro che considerano il SSn come un sistema
che deve garantire a tutti un diritto alla salute, comprensivo di ogni tipo di
prestazione e privo di limiti, e dall’altra quelli che propugnano prestazioni
sanitarie condizionate alle disponibilità finanziarie, al fine di non dare «tutto a tutti», ma solo quanto è possibile fornire. Si fa sempre più largo l’esigenza, ampiamente condivisa, di porre un freno al consumo sanitario e alla
spesa.
nel 1981 emergono pesantissimi buchi di carattere finanziario ereditati
dagli enti soppressi: benzina sul fuoco degli oppositori alla legge, i quali
avviano una campagna contro la spesa sanitaria, dichiarata eccessiva. A
nulla valgono le statistiche che dimostrano come questa abbia inciso in tutto il decennio per circa il 6% del pIL, al contrario di Stati Uniti e Germania,
i cui valori si attestano rispettivamente sul 10 e l’8% del prodotto interno
lordo. Il battage prosegue martellante con lo scopo di configurare la spesa
sanitaria come un costo intollerabile per i cittadini: improduttiva, nei casi
migliori, fonte di sperpero di denaro pubblico, nei peggiori.
L’opinione pubblica si divide, la rabbia dei cittadini cresce, alimentata dai
primi evidenti fallimenti della 833, condannata dall’inefficienza, dall’incapacità e dalla corruzione dilagante dei «comitati di gestione delle USL». Ma
anche dai disagi per le lunghe liste di attesa, che favoriscono fenomeni di
clientelismo e, soprattutto, dall’esplosione di Sanitopoli, posta brutalmente
sulla scena dall’arresto di Mario Chiesa, il presidente del pio Albergo trivulzio56 colto in flagranza di reato mentre incassa una tangente di 7 milioni
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di lire il 17 febbraio 199257. parte da qui la dimostrazione di come il denaro
sia spesso gestito in modo mafioso da commissari governativi, presidenti
regionali e uomini di governo che, a vari livelli, con aziende parte della cricca, controllano appalti e subappalti. Una data storica, quindi, che è divenuta
emblema di una lotta della giustizia contro l’inquinamento morale della politica italiana, ma anche una pietra miliare che segna il fallimento delle politiche di contrasto alla corruzione, vanificate dallo sfacciato clientelismo
elettorale e dalla diffusa prassi delle tangenti nei pubblici affari che, poco a
poco, ha eroso anche il tessuto su cui era stato fondato il Servizio sanitario
nazionale.
L’applicazione dunque, non la legge, e l’avidità degli amministratori, non
l’estensione dell’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, hanno trasformato
un diritto in un’illusione giuridica. Cosicché, oggi come allora, diventa
quanto mai urgente scindere la validità assoluta della norma da quella relativa, «contaminata» da una cattiva applicazione, se si vuole arginare la deriva neoliberista che della lotta agli sprechi fa la sua bandiera per spingere
verso una privatizzazione della sanità, presentata sotto le mentite spoglie di
un «risanamento», nella sua versione soft, o di una «libera scelta», in quella
hard (di totale privatizzazione), sulla quale sono già pronte a gettarsi orde
fameliche d’imprenditori attirate da un mercato della salute in costante crescita di profitti.
1.3. La seconda (contro)riforma
Coincide con le prime avvisaglie del terremoto di tangentopoli una stagione di cambiamenti che gli oppositori definiranno delle «controriforme».
vi si prospettano tre possibili soluzioni: da una totale riscrittura della legge
quadro a misure meno drastiche, come la modifica dei punti essenziali della
Legge 833 contemplata dal progetto «neo riformista», o l’applicazione di
pochi ma validi correttivi previsti nella più blanda proposta «mini riformista». Il dibattito sarà acceso e condurrà a un primo, intermedio, risultato
con l’approvazione della Legge 111/9158, espressione della vittoria del fronte mini riformista, che darà un nuovo assetto istituzionale alle USL, realizzando una separazione tra ruolo politico d’indirizzo generale e attività gestionale. Sarà tuttavia l’anno seguente che il concetto universalistico del diritto alla salute, pietra fondante della Legge 833, subirà il primo di una lunga serie di duri attacchi.
nel 1992 viene approvata la Legge 421, Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico
impiego, di previdenza e di finanza territoriale da cui scaturiranno i due
decreti (consultabili in Appendice): il 502/9259, o decreto De Lorenzo, e il
517/9360, o decreto Garavaglia, con cui prenderà il via l’aziendalizzazione
della sanità.
per i fautori della nuova stagione, essi rappresentano l’inizio della fase
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neoriformista con cui ricreare le condizioni per fare di nuovo politica per la
salute. per le frange degli oppositori, invece, segnano l’inizio di una controriforma guidata da logiche economico-finanziarie che innesca la retromarcia al processo avviato per garantire la salvaguardia di un diritto alla
salute in forma equa e universale.
varato durante il primo governo Amato, sulla scia del motto «fuori la politica dalla sanità», che fu il cavallo di battaglia del ministro, il decreto De
Lorenzo61 spalanca le porte a una prima marcata contaminazione neoliberista della sanità pubblica, chiave necessaria per dare accesso a una privatizzazione dei servizi sanitari che vede la reintroduzione delle mutue, delle
assicurazioni private e la nascita di società a capitale misto pubblico-privato con cui le Regioni possono offrire forme di assistenza differenziate per
tipologia di prestazioni62. Da questo momento in poi l’ordine delle priorità
per garantire la tutela del diritto della salute sarà completamente sovvertito: non più i bisogni del cittadino, ma i bilanci, stabiliranno quanto di questo diritto potrà essere garantito.
per molti, il decreto De Lorenzo e il successivo decreto 517, approvato durante il governo Ciampi, rappresentano il piccone con cui inizia lo «smantellamento» del Sistema sanitario nazionale. Gli ospedali vengono trasformati in aziende, e così le USL, d’ora in poi denominate ASL, ovvero Aziende
sanitarie locali, pur restando enti strumentali della Regione, dotati di personalità giuridica pubblica, acquisiscono autonomia finanziaria, gestionale,
patrimoniale, amministrativa, contabile e tecnica. Sono dirette da un manager plenipotenziario, che non deve avere alcuna specifica preparazione in
campo sanitario ed è responsabile dell’azienda solo per quanto riguarda l’aspetto economico. Una scelta questa che si tradurrà spesso, come sapremo,
in tagli ai servizi, ai posti letto, al personale, alla sicurezza.
Con l’unica esigenza della quadratura del bilancio, la prima conseguenza
è l’impoverimento dei programmi di prevenzione, perché viene meno l’impegno di programmare investimenti che promettono risultati dilazionati nel
tempo, dunque godibili da dirigenze diverse dalla propria. Un handicap
considerato insormontabile dai nostri manager in carriera, spesso debitori
nei confronti del partito che li ha sostenuti, quindi poco inclini a scelte misurabili sul lungo termine.
Se, tuttavia, questa che non è una giustificazione può essere una spiegazione accettabile per quanto riguarda la miopia della dirigenza delle ASL,
altrettanto non può dirsi riguardo al disimpegno dello Stato nel settore sanitario, sociale, di cura e assistenza.
Contrariamente a quanto viene divulgato dalle istituzioni, circa l’onerosità
dei costi per la salute, la spesa sociale in Italia in rapporto al pIL è sempre
inferiore di diversi punti rispetto alla media europea. nel ’96 le uscite per
prestazioni e prodotti a carattere sanitario si aggirano intorno ai 131.000
miliardi di lire che tra contributi di malattia, ticket e spese dirette sono pagati per larga parte direttamente dai cittadini63. tuttavia, col pretesto del deficit pubblico si varano i piani sanitari regionali64 che, ispirati a una logica
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di privatizzazione e di risparmio, hanno i loro capisaldi nel taglio dei posti
letto65 e nella riduzione dei costi di degenza. Il risultato: le famiglie e le associazioni di volontariato subiscono l’onere dell’assistenza sociale e sanitaria che la Legge 833 affidava invece allo Stato. La salute si trasforma in un
“mercato” e il malato in “cliente”, il quale, in relazione alla sua capacità
d’acquisto, potrà ricevere prestazioni aggiuntive rispetto a quelle garantite
dal SSn, stipulando forme integrative di assistenza sanitaria o acquistando
di tasca propria.
Il concetto di universalità del diritto alla salute è stravolto, mentre pesanti
modifiche subisce la legge anche riguardo alle modalità di finanziamento
del Servizio sanitario in cui si trovano a convergere un insieme di fonti che
spaziano dai contributi sanitari ai tributi delle Regioni a statuto speciale,
dalle entrate proprie delle Unità sanitarie locali all’integrazione a carico del
bilancio statale. Soldi, la cui ripartizione viene rivista e diversificata, in rapporto al livello dei servizi posseduti dalla Regione, con un fondo triennale di
riequilibrio a cui possono essere associate risorse proprie per finanziare livelli di assistenza sanitaria superiori. Si ridisegna così la geografia del SSn,
non più garantito in modo uniforme in tutto il paese, ma distribuito a macchia di leopardo con forti disparità tra nord e Sud. nasce il modello lombardo, liberista e competitivo; quello emiliano, egualitario e statalista; mentre
prendono corpo anche le deficienze clamorose di Lazio e Campania.
primo effetto di tanta diversità è l’affermarsi di un fenomeno, noto come
pendolarismo sanitario, ovvero lo spostamento di malati da una regione all’altra alla ricerca dell’eccellenza o anche – dopo i ripetuti tagli dei posti
letto – della semplice cura, con un aggravio dei costi per la sanità pubblica
e per le famiglie. Già nel 2007 l’oMS individuava uno 0,7% di queste ultime a rischio di «bancarotta», persino davanti agli Stati Uniti a cui attribuiva un più ridotto 0,5%.
Il recente rapporto del CeIS dell’Università di Roma tor vergata è persino
più allarmante: in 3 milioni di famiglie almeno uno dei componenti rinuncia alle cure per mancanza di denaro e ben 15 milioni di italiani, il 9% della
popolazione, hanno seri problemi nell’affrontare le spese sanitarie. per un
sistema che vuole definirsi universalistico è, come ha scritto Fabrizio
Gianfrate, docente di economia sanitaria, un vero «macigno d’iniquità»66.
1.3.1. Il business dei ricoveri brevi
Diceva oscar Wilde che per ogni problema complesso c’è sempre una risposta semplice, quasi sempre sbagliata. È forse questo il caso dei DRG
(Diagnosis Related Groups)67, uno strumento importato dagli Stati Uniti
che permette a primari e direttori generali di massimizzare i ricavi, riducendo da un lato i posti letto e le giornate di degenza, e dall’altro aumentando il numero dei ricoveri così da avere maggiori finanziamenti regionali. È la “nuova” sanità in vigore dal 1995, garantita secondo un sistema di
tariffe massime decise dalle regioni, che rimborsa le strutture sanitarie non
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più in base ai giorni di degenza dei pazienti, ma alle patologie e ai relativi
ricoveri la cui durata è prestabilita in base alla diagnosi.
In teoria una buona idea, che avrebbe dovuto portare a un aumento del
numero di degenti per un singolo letto, il cui costo medio si aggira sui 500
euro al giorno, e a una migliore programmazione di tutto il sistema dell’assistenza ospedaliera. In pratica una zavorra sul sistema. La remunerazione
in base ai DRG è stabilita infatti anche tenendo conto del costo dei procedimenti diagnostici, più costosi se invasivi, e di quelli terapeutici, più dispendiosi se chirurgici piuttosto che medici. La conseguenza è un aumento ingiustificato del numero degli esami e degli interventi chirurgici più onerosi
e, dunque, l’aggravio della spesa sanitaria.
troppo spesso vengono prescritte analisi inutili apponendo su un foglio
prestampato delle apparenti innocue crocette che si traducono in ticket esosi per il malato e in sprechi per la finanza pubblica. Racconta un paziente
operato per dei calcoli alla colecisti che nel corso della visita gastroenterologica, eseguita presso una clinica privata romana, gli sono stati prescritti
esami ematici complessi, fino a coprire possibili malattie tropicali, per una
compartecipazione alla spesa di oltre 300 euro, nonostante il medico avesse chiaramente intuito la causa del suo malessere e si fosse pronunciato
nella diagnosi.
Un’altra storia arriva da un grande ospedale pubblico della Capitale, dove
una paziente ricoverata per una protesi d’anca, e munita di tutti gli accertamenti necessari eseguiti in regime di preospedalizzazione, come richiesto
dal reparto di ortopedia, ha invece vissuto il paradosso di una degenza di
otto giorni preintervento, rimasta ingiustificata nonostante la richiesta di
chiarimenti, a fronte dei tre giorni trascorsi dopo l’operazione. Un caso
tutt’altro che isolato.
L’eccesso di accertamenti, così come la sensibile riduzione del tempo di
degenza, sono i due opposti generati dal nuovo sistema ormai al suo sedicesimo compleanno. Con i DRG hanno infatti subìto un’impennata i ricoveri brevi di due o tre giorni che sono aumentati del 23,4% nelle aziende pubbliche; del 170,4% negli IRCCS (gli ospedali e gli istituti di ricovero e cura a
carattere scientifico) privati; del 53,3% nelle case di cura private68. Sono
numeri rilevanti, dai quali scaturisce il fenomeno delle dimissioni anticipate non protette, di cui scarsa è la conoscenza sulle reali ripercussioni sulla
salute dei cittadini, anche se sono spesso additate come la causa di un aumento del rischio d’infezioni a domicilio, di un successivo ricovero entro
trenta giorni, o ancora di un ricorso improprio a prestazioni di pronto soccorso.
Secondo i dati pubblicati nel Rapporto Osservasalute 2009 il tasso di dimissioni complessivo è composto per circa il 60% da DRG medici, con una
rilevante e spesso ingiustificata variabilità regionale, mentre le dimissioni
di pazienti chirurgici superano di poco il 40% e sono in lieve crescita rispetto agli anni precedenti. I ricoveri in day surgery, coprono il 46% del totale e mostrano una generale tendenza all’aumento, come è negli obiettivi
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del DpCM del 29 novembre 2001, Definizione dei livelli essenziali di assistenza, che prevede una riduzione del numero dei ricoveri ospedalieri.
L’esempio più eclatante della degenerazione di un sistema che retribuisce
a prestazione è stato offerto dallo scandalo della Clinica Santa Rita di Milano, esploso nel giugno 2008 grazie a una denuncia anonima alla Guardia di
Finanza. Coinvolti con l’accusa di lesioni colpose su 79 pazienti, falso e
truffa ai danni del SSn, un rampante chirurgo quarantenne, pier paolo Brega Massone, primario di chirurgia toracica della clinica milanese, e i suoi
aiuti pietro Fabio presicci e Marco pansera che sono stati condannati lo
scorso 28 ottobre rispettivamente a 15 anni e mezzo con l’interdizione per
5 anni dalla professione medica, 10 anni e 6 anni e 9 mesi di reclusione.
“Armati” di penna e bisturi i medici compilavano false diagnosi per giustificare interventi chirurgici inutili e invalidanti con il solo scopo di ottenere
più lauti rimborsi dal SSn.
I sospetti che hanno guidato gli inquirenti verso l’orrore sono stati generati dall’elevato numero di morti nel reparto di riabilitazione, assolutamente
spropositato messo a confronto con le altre strutture sanitarie lombarde.
Superiore di dieci volte rispetto ai decessi registrati nell’ospedale Maggiore di Milano, addirittura di venti volte se confrontato con i dati dell’ospedale niguarda. Il perché non ha tardato a emergere svelando un meccanismo tanto semplice quanto efficiente e perverso ai danni del SSn, che i
pM hanno descritto nelle loro conclusioni sulle ipotesi di truffa a carico del
proprietario-manager della clinica:
Si ricovera un paziente, di preferenza anziano, meglio se vecchissimo. Il primo esame sul campione esaminato ci indica che spesso si tratta di persone sole. Qualunque
sia la patologia acuta che ha motivato il ricovero quest’ultimo viene chiuso molto in
fretta (incamerando così il DRG corrispondente a ricovero per acuzie). Il paziente viene
poi trasferito, con il formale avallo del primario dell’unità operativa di riabilitazione e
indipendentemente dalle sue reali condizioni di salute, in questo reparto dove viene
aperta una nuova cartella clinica che darà luogo a un nuovo rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale. va detto che, ovviamente, il trasferimento di reparto è del
tutto virtuale in quanto il paziente rimane nel letto originario e continua a essere seguito dagli stessi medici che l’avevano in cura precedentemente. Le condizioni del paziente (abbiamo detto che la tipologia è molto anziana) si aggravano o subentrano
complicanze? poco male: si chiude il ricovero in riabilitazione, presentando la debita
richiesta di rimborso al SSn, e si ritrasferisce il paziente, sempre del tutto virtualmente,
nel reparto acuti. ed ecco che il giochetto ricomincia con la solita complicità del primario del reparto di riabilitazione sempre disposto ad accogliere nel suo reparto pazienti, atteso anche il guadagno che i medici ne potevano ricavare69.
optando per il patteggiamento della pena, l’anziano patron, 75 anni all’epoca dei fatti, sconterà 4 anni e 4 mesi agli arresti domiciliari a cui si aggiunge la condanna della Corte dei Conti a risarcire la Regione e la Asl di
Milano con 7 milioni di euro. Ma quanti altri continuano indisturbati i loro
affari delittuosi? False fatturazioni, prescrizione di esami e interventi inutili,
duplicazioni di accertamenti in pochissimi giorni solo perché si è cambiato
luogo di degenza: è qui che bisogna cominciare a tagliare. Subito. Senza di-
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menticare la fondamentale lotta al malaffare e all’evasione fiscale, freno alla crescita e concausa della scarsità di risorse per le politiche sociali. Lo ha
sottolineato lo scorso anno il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che «gli evasori sono i primi responsabili della macelleria sociale»70 di
cui complice è la grave carenza dei controlli sulla pertinenza delle prestazioni e sui bilanci.
La Finanziaria del 2001 aveva previsto la realizzazione degli obiettivi di
cui all’art. 72, comma 3, della Legge 23 dicembre 1998, n. 448, secondo cui
le regioni assicurano, per ciascun soggetto erogatore, un controllo analitico annuo di
almeno il 2% delle cartelle cliniche e delle corrispondenti schede di dimissione [...] secondo criteri di campionamento rigorosamente casuali.
Il provvedimento si è dimostrato però del tutto insufficiente, come è emerso con la gigantesca truffa scoperta in Lombardia nel 2007. oltre 18 milioni
di euro, incamerati grazie alla falsificazione di 80.000 cartelle cliniche da
parte di strutture ospedaliere, pubbliche e private, “garantite” da una norma
che prevedeva un preavviso di almeno quarantotto ore alla struttura oggetto
dell’ispezione. Un sistema, per dirla con le parole dei sostituti procuratori
ascoltati in Senato alla Commissione di controllo sul Servizio sanitario nazionale, tiziana Siciliano e Grazia pradella, che faceva «diventare i reati
una prassi».
1.4. Federalismo versus universalità
Leve principali del cambiamento di rotta avviato negli anni novanta sono
– come abbiamo detto – la regionalizzazione della sanità, l’aziendalizzazione delle USL, il finanziamento pubblico alle assicurazioni e alle strutture
private che entrano prepotentemente nel mercato sanitario, troppo spesso
grazie alle mille collusioni a tutti i livelli, ma anche alla politica sanitaria
nazionale e regionale che in maniera progressiva affama la sanità pubblica
e il suo sistema.
In un sol colpo i Comuni perdono gran parte delle loro funzioni in campo
assistenziale, mentre lo Stato vede scemare la possibilità di programmare e
verificare il riequilibrio territoriale e i livelli uniformi di assistenza. Anche
le USL subiscono un “ritocco”. Alcune vengono accorpate. tutte si trasformano in aziende.
Sorte non più felice arride ai distretti sanitari di base, i quali vengono ridotti, così come si taglia il budget a disposizione del fondo sanitario nazionale da erogare alle Regioni, le quali devono sopperire con le risorse che
derivano dal federalismo fiscale, quindi con tasse e tributi.
La spinta di questa nuova fase trova linfa vitale nei ritardi della costruzione di un moderno stato sociale che promuova la coesistenza dei diritti e dei
doveri sociali, anziché lasciare campo libero all’amplificarsi degli egoismi
corporativi, creando dinamiche perverse in cui prevalgono i più forti sui
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più deboli, anche nella fruizione dei servizi per la salute. Aggrava la situazione l’incapacità politica, amministrativa e della classe medica d’interpretare i cambiamenti e di proporre i necessari aggiustamenti strutturali,
ostacolati dal prevalere di logiche burocratiche, lobbistiche e clientelari.
Senza gli opportuni controlli sull’evoluzione e l’espansione della domanda sociale, sul consolidamento di nicchie di privilegio e sulle rendite di posizione tutelate per legge diventa oltremodo difficile gestire un modello di
welfare di tipo solidaristico e universalistico. La politica governativa assume toni sempre più thatcheriani, persino più aspri di quelli usati dalla lady
di ferro che, pur se fervida sostenitrice della deregulation capitalistica, non
se l’era sentita di abbattere il Servizio sanitario nazionale in casa Windsor.
L’Italia invece, sulla falsariga del modello britannico, spinge la trasformazione del servizio sanitario in un’area di “mercato sociale” che vede gli
ospedali nel ruolo di produttori e le ASL in quello di acquirenti di prestazioni per conto dei cittadini.
Anche la Commissione bicamerale per le riforme, presieduta nel 1997 da
Massimo D’Alema, conferma l’entrata dei privati nella sanità, e più in generale in tutte le funzioni attribuite allo Stato, secondo un principio che diventerà la bandiera del progetto federalista, in base al quale lo Stato interviene solo laddove il mercato fallisce o non trova abbastanza profitto da ricavare. Il risultato, tangibile, è l’aumento delle disparità geografiche nei
servizi ai cittadini che secondo una stima delle Regioni graverebbe per il
55% su enti territoriali che rappresentano solo il 20% dell’amministrazione
pubblica71, per la gran parte collocati al Centro-Sud.
Le disuguaglianze sono confermate dai dati dell’osservatorio nazionale
screening sulla prevenzione del tumore al seno in cui si rileva che al nord è
invitato a fare la mammografia il 90% delle donne, mentre lo è il 70% al
Centro e meno del 40% nel Mezzogiorno.
Sono cifre che delineano una situazione preoccupante che colpisce la sensibilità dell’opposizione come della maggioranza, di cui è espressione l’interrogazione presentata dal deputato pDL Gianni Mancuso, il quale chiede
al governo d’intervenire sulle Regioni affinché alcuni ambiti sanitari, come
i programmi di prevenzione, siano garantiti in egual misura su tutto il territorio nazionale. Comunque, azioni tampone a parte, la roccaforte della
Legge 833 è stata ormai espugnata dal mercato e non permette grandi ottimismi. o almeno questa è la visione di esperti come Carlo hanau, docente
di programmazione e organizzazione dei servizi sociali e sanitari all’Università di Modena e Reggio emilia, il quale afferma che l’aumento della
popolazione anziana e della domanda di salute dei cittadini hanno reso ormai certo l’abbandono di un sistema di tipo universalistico:
tanto per intenderci, ciò che ci aspetta non è le régime mutuel canadese, universale,
gratuito e finanziato dalla fiscalità generale. Aperto alle assicurazioni private solo per i
servizi sanitari non essenziali e chiuso invece a ogni polizza che integri il sistema sanitario nazionale per l’assistenza di base, bensì un ritorno alle mutue e a tutte le loro iniquità.
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1.5. La terza riforma
nel 1996, legittimato dalla vittoria elettorale, il governo di centro-sinistra avvia la discussione sulla terza riforma sanitaria con lo scopo di rimettere al centro dell’agenda politica i bisogni di salute dei cittadini, correggere alcune ambiguità del processo di aziendalizzazione, completare la regionalizzazione della sanità e potenziare il ruolo dei medici di base per una
maggiore valorizzazione della qualità e dell’appropriatezza dei servizi.
Il 30 novembre 1998, il lungo dibattito approda alla Legge 419 di delega
al governo per la razionalizzazione del servizio sanitario, che verrà attuata
dal Decreto legislativo 229/99 (consultabile in Appendice), noto come legge Bindi, i cui cardini sono costituiti dall’esclusività del rapporto di lavoro
per i dirigenti sanitari e dal potenziamento del ruolo del territorio e della
formazione. obiettivo dichiarato della discussione parlamentare e dei
provvedimenti legislativi che la seguirono è la messa a punto di mezzi e
strategie per raggiungere i fini della Legge 833 alla luce delle mutate condizioni sociali e istituzionali, in un quadro di maggiore responsabilizzazione delle Regioni e degli enti locali72.
negli articoli che compongono il decreto, gli organismi e le istituzioni
senza fini di lucro concorrono con le istituzioni pubbliche alla realizzazione dei doveri costituzionali di «solidarietà», un termine, questo, ritenuto
fuorviante dagli oppositori alla riforma che denunciano la restaurazione di
un sistema come quello ante Legge 833 basato sulla beneficenza, il volontariato e il no profit al posto delle opere pie.
In base alle nuove norme, nel piano sanitario regionale73 le Regioni definiscono il fabbisogno di assistenza per garantire i «livelli essenziali», che non
saranno misurati in base al bisogno della popolazione, ma «alle compatibilità finanziarie del documento di programmazione economico-finanziaria».
Il fine è quello di stabilire i «livelli integrativi» degli enti locali e delle mutue, delineare le aree con carenze di strutture, individuare le prestazioni che
eccedono quelle ritenute essenziali e dunque saranno pagate per intero dai
cittadini.
Si fa largo tra le difficoltà in cui si muove il sistema politico, con istituzioni e partiti che non riescono a dialogare proficuamente, attraverso regole
condivise e tavoli comuni di discussione, il fronte federalista. Il 13 maggio
1999 viene approvata la Legge 13374, a cui segue il Decreto legislativo n.
56/0075, che determina la soppressione nell’arco di tre anni del fondo sanitario nazionale, lasciando alle Regioni il compito di finanziare in maniera
autonoma il proprio servizio sanitario76. Un provvedimento che spazza via
la garanzia di un diritto alla salute erga omnes ed esaspera le differenze regionali. Servizi offerti e costi per fornirli diventano variabili ulteriormente
dipendenti dal territorio in cui vengono erogati, cancellando l’unitarietà del
SSn, essenza della legge quadro, che viene sostituita dal «complesso delle
funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali», ovvero
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la somma di venti sistemi diversi delineati da altrettanti piani sanitari regionali «strategici», mentre al piano nazionale restano solo compiti d’indirizzo puramente formali.
L’ultimo scorcio del xx secolo vede quindi dei livelli di assistenza individuati in maniera molto generica e inquadrati per il triennio 1998-2000
nell’«assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, nell’assistenza distrettuale e nell’assistenza ospedaliera», con l’esclusione delle
«tipologie di assistenza, servizi e prestazioni sanitarie che non soddisfano
il principio di economicità, efficacia e appropriatezza». Già un duro colpo,
reso ancora più esasperato dall’apertura offerta dalla riforma Bindi ai fondi
integrativi con cui coprire l’erogazione di quanto eccede i livelli uniformi
ed essenziali di assistenza. Si grida allo scandalo. I fondi, obietta il fronte
del no, sono un travestimento per delle nuove mutue che intaccheranno il
principio fondante del Servizio sanitario nazionale, in base al quale la salute si tutela a prescindere dal reddito e dall’appartenenza a “caste” più o meno privilegiate.
Con il Decreto di riforma n. 229 una strada viene aperta anche sul fronte
della precarizzazione e del lavoro sanitario pubblico consentendo la stipula
di contratti di diritto privato a tempo determinato, e di diritto pubblico con
durata variabile da due a cinque anni fino a coprire il 2% della dotazione
organica della dirigenza, e il 5% per profili aziendali diversi da quello medico.
Gli ospedali e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico sono trasformati in aziende autonome. Quelli tra questi ultimi che non subiscono la
trasformazione sono invece accorpati, mentre i capitali privati fanno il loro
ingresso per forme di collaborazione con strutture del SSn volte a «programmi di sperimentazione di nuovi modelli gestionali».
Un provvedimento della legge Bindi, atteso da molti cittadini e osteggiato
da gran parte della classe medica, è la norma sull’incompatibilità totale tra
attività privata e attività pubblica per chi ha funzioni dirigenziali, come gli
ex primari e i capi di dipartimento. vincolo successivamente molto mitigato offrendo la possibilità anche a queste categorie di prestare attività privata in intramoenia, ovvero all’interno della struttura pubblica, con il limite
di effettuare un numero di prestazioni non superiori a quelle ordinarie. «Il
risultato – sottolinea paolo Cozzi Lepri, segretario del Movimento dei cittadini – è sotto gli occhi di tutti. Le liste di attesa si allungano sempre più
perché forte è l’interesse di alcuni medici di incrementare i guadagni con
visite a pagamento». Misura di cui non c’era bisogno, sostiene Umberto
veronesi, oncologo di fama mondiale ed ex ministro della Salute. «perché
le frustrazioni», incalza polemico Giuseppe Di pasquale, primario dell’Unità operativa di cardiologia all’ospedale Maggiore di Bologna, «dovrebbero essere compensate da incentivi non solo economici: coinvolgimento
nelle progettualità strategiche dell’azienda, leadership nel governo clinico,
possibilità di ricerca e insegnamento»77.
Invece, che sia per riuscire a essere visitati dal medico prescelto o per non
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MALASANITÀ
rimanere intrappolati nelle lunghe attese, gli italiani spendono molto più
di tasca propria di quanto sarebbe necessario.
Un recente studio78 pubblicato dall’«european Journal of public health»
riporta i risultati di un’indagine condotta tra i cittadini italiani e quelli britannici per rilevare la loro propensione a pagare integralmente le prestazioni sanitarie, senza considerare tra queste quelle sostenute per cure odontoiatriche e farmaci.
tra i nostri connazionali l’80% ha dichiarato di aver pagato out of pocket
servizi medico-sanitari almeno una volta nella vita, contro il 20% dei cittadini di Sua Maestà. Una differenza che non passa certo inosservata, specie
se si considera che i due paesi hanno entrambi un sistema che si dichiara
universalista, equo, gratuito e finanziato tramite la fiscalità generale.
La risposta a questo divario, scrive uno degli autori, l’italiano Gianfranco
Domenighetti, sembra doversi cercare nelle diverse politiche scelte per risolvere il problema delle liste di attesa.
Il servizio sanitario britannico (nhS, National Health Service) ha optato
per un modello fondato su incentivi e concorrenza, teso a promuovere l’efficienza dei servizi e dei professionisti, che nel Regno Unito non hanno diritto, contrariamente all’Italia, a esercitare attività privata all’interno del
servizio pubblico. Un’offerta complementare è stata negoziata con il settore privato per l’acquisto di prestazioni chirurgiche elettive, ma lasciando
intatta la gratuità d’accesso per l’assistenza primaria a tutti i pazienti assistiti dal nhS, diminuendo così in maniera significativa le attese, che dal
1999 al 2005 sono state ridotte dell’85% per quanti erano in lista da più di
sei mesi.
L’Italia, invece – spiega Domenighetti – nel 1999 ha concesso la possibilità ai medici di svolgere attività privata all’interno della struttura pubblica
creando un «binario» privilegiato per i cittadini disposti a pagare l’intera
prestazione di tasca propria. Disponibilità che, è bene sottolineare, non è
sempre relazionata al reddito. per la salute ci si indebita anche. e molto,
come dimostrano i dati eurispes, secondo cui le richieste di finanziamento
per pagare le spese mediche sono aumentate dal 2008 al 2009 di quattordici punti percentuali coinvolgendo il 19,4% dei cittadini. ne consegue, conclude il ricercatore nella risposta alle numerose osservazioni stimolate dalla ricerca, e pubblicate sul blog «Salute Internazionale», che anche a causa
di una regolamentazione dell’intramoenia, così blanda come quella attuata
dalle Regioni e dalle ASL italiane, «l’attività privata trae oggettivo giovamento da significative liste di attesa del SSn». «nessuna novità per noi
Cassandre», interviene sullo stesso blog Carlo hanau, ricordando di aver
più volte messo in guardia sul dover presto «rimpiangere l’InAM, che garantiva equità a 30 milioni di italiani».
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