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Divisione
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Sommario
Presentazione di Pierangelo Raineri
(Segretario Generale FISASCAT-CISL) . . . . . . . . pag. 5
Prefazione di Francesco Longobardi
(Presidente Nazionale ANCL-Su)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro
e del diritto sindacale
8/9 maggio 2014. . . . . . . . . . .
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2
Il welfare contrattuale tempi di vita
e tempi di lavoro
3/4 giugno 2014 . . . . . . . . . . .
» 137
3
La rappresentanza tra legge,
contrattazione e giurisprudenza
6/7 ottobre 2014 . . . . . . . . . .
» 253
4
La riforma della riforma del lavoro
1 dicembre 2014 . . . . . . . . . . .
» 385
Seminari Congiunti FISASCAT CISL – Ancl-Su
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Presentazione di Pierangelo Raineri
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PRESENTAZIONE
di Pierangelo Raineri
Segretario Generale FISASCAT-CISL
Dopo l’intervallo del 2013, dovuto all’appuntamento congressuale che ha visto
impegnate tutte le categorie della CISL – mentre l’ANCL a sua volta celebrava
il 60° Anniversario di fondazione nel Congresso Nazionale di Rimini il 19 e
20 Aprile 2013 – si è svolta nel 2014 la terza edizione dei Seminari congiunti FISASCAT-ANCL, che nel corso dell’anno hanno permesso ai dirigenti dei
due sindacati di aggiornarsi efficacemente, con l’aiuto di uno scelto gruppo di
esperti del settore, sulle problematiche di maggior attualità attinenti al mondo
del lavoro nel settore dei Servizi.
Come è noto, i Seminari, previsti da un protocollo d’intesa sottoscritto il 16 settembre 2010 nell’ambito di un più generale accordo di collaborazione tra le due
associazioni, si ripropongono di realizzare occasioni di interscambio operativo
in funzione dell’applicazione delle norme finalizzate alla gestione del mercato
del lavoro, per quanto riguarda le peculiari caratteristiche dei settori del Terziario, Turismo e Servizi.
Sulla scorta di queste finalità il comitato scientifico dei Seminari – costituito dal
professor Marco Lai, Responsabile dell’Area Giuslavoristica del Centro Studi Nazionale CISL di Firenze, Rosetta Raso, Segretario Organizzativo della
FISASCAT-CISL, e Diana Onder, responsabile del centro studi ANCL-SU – ha
deciso di approntare nel corso del 2014 i seguenti convegni:
• Bilateralità, sostegno al reddito e ricollocazione dei lavoratori, al
quale hanno partecipato, in qualità di esperti, MICHELE TIRABOSCHI
(Professore ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università di Modena
e Reggio Emilia), ROBERTO SARTORE (Presidente ANCL Venezia e
Componente del CdA di E.BI.PRO), SILVIA SPATTINI (Direttore e Senior Research Fellow di ADAPT) e GIUSEPPE GALLO (Direttore del
Centro Studi CISL di Firenze);
• Welfare contrattuale, tempi di vita e lavoro, al quale hanno partecipato, in qualità di esperti, TIZIANO TREU (Ex Ministro del Lavoro), ANTONELLA MARSALA (Project Manager presso Italia Lavoro) e GERMANO
ASSUMMA (membro della Direzione Generale di CADIPROF);
• La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza, al
quale hanno partecipato, in qualità di esperti, STEFANO BELLOMO
(Professore Ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università di Perugia), ALBERTO BERRINI (Economista) e PAOLO FERRETTI (Consulente del Lavoro di Ancona);
• La riforma della “Riforma del Lavoro”, al quale hanno partecipato,
in qualità di esperti, ancora ALBERTO BERRINI (Economista), GIULIANO CAZZOLA (Professore di Diritto della Previdenza Sociale presso la
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna) ed EMMANUELE
MASSAGLI (Presidente di ADAPT).
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Presentazione di Pierangelo Raineri
Un contributo molto importante alla riuscita dei seminari è stato dato poi dagli
interventi del professor Marco Lai, il quale ha introdotto ed approfondito gli
argomenti al centro di ciascun seminario, sulla scorta delle sue notevoli competenze professionali. A loro volta Rosetta Raso e Diana Onder hanno sottolineato le posizioni delle organizzazioni di appartenenza relativamente a ciascuno
dei temi trattati.
Ma voglio in questa occasione ricordare anche il fattivo contributo dei partecipanti ai Seminari: una folta platea costituita da dirigenti sindacali e consulenti
del lavoro, i quali si sono confrontati con i relatori sulla scorta delle proprie
esperienze professionali, conferendo così agli incontri quel carattere di operatività che le due organizzazioni sindacali hanno voluto attribuire a questi appuntamenti sin dal momento della stipula del protocollo d’intesa.
A tutti i gli intervenuti devo dunque un grande ringraziamento per aver permesso, ciascuno di essi e tutti insieme, la più che soddisfacente riuscita di questa
terza edizione dei seminari congiunti FISASCAT-ANCL.
Prefazione di Francesco Longobardi
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PREFAZIONE
di Francesco Longobardi
Presidente Nazionale ANCL-Su
Anche quest’anno si è compiuto il percorso formativo congiunto ANCL-Fisascat, con la partecipazione sempre attenta dei comuni dirigenti ed operatori.
Anche in questa edizione, si è ulteriormente compresa la necessità del confronto e della formazione su tematiche del lavoro, essendo materia in continua
evoluzione e di comune interesse.
I temi trattati nel progresso del percorso formativo – peraltro – sono risultati di
estrema attualità e di notevole attrattiva. Non posso quindi esimermi dal ringraziare tutti gli organizzatori di questa annualità che come è stato agevole constatare, hanno speso tempo e risorse per la migliore riuscita dell’iniziativa.
E’ utile ribadire che i seminari di Fiesole sono forse l’unica esperienza del
settore delle libere professioni e del sindacato in cui le due realtà si parlano,
si confrontano, per accostarsi a tematiche di concreta applicazione nel mondo
delle imprese, del lavoro, e dell’economia.
La centralità dell’iniziativa formativa è proprio qui: sta nell’ampiezza che la
tematica del lavoro espande su ampi settori della nostra società e sull’evoluzione ed il progresso della stessa.
L’ANCL, nel suo operato quotidiano, è protagonista del confronto con le forze
politiche per il miglioramento della legislazione e delle normative che si intendono introdurre. Forse è per questo che l’ANCL stessa ha maturato la capacità
di elaborare il confronto tra quelle che sono le disposizioni introdotte e quelle
che invece potevano più incisivamente introdursi. Lo spirito critico dell’esame
delle normative, non può peraltro essere disgiunto dalla profonda conoscenza
delle stesse, che la formazione in genere consente di approfondire.
Ecco perché sono profondamente convinto che simili iniziative formative, rappresentano decisamente quell’arricchimento personale e professionale che si
legge “qualità”.
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sessione mattutina
Intervento di:
Rosetta Raso
(Segretario Organizzativo FISASCAT_CISL)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Buongiorno a tutti. Iniziamo questa due giorni del primo seminario congiunto
FISASCAT-ANCL di quest’anno, sulle trasformazioni del diritto del lavoro e del
diritto sindacale. In particolare oggi svilupperemo il tema della bilateralità, dei
nuovi compiti della bilateralità per il sostegno al reddito, quindi per la ricollocazione dei lavoratori.
Nel 2013 non abbiamo fatto seminari congiunti, che sono una delle azioni previste dal protocollo d’intesa, che abbiamo firmato qualche anno fa, un protocollo
di intesa tra l’ANCL, l’Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro, e la
FISASCAT, che, devo dire, ha prodotto buoni risultati.
È un’iniziativa che ha avuto grande successo perché, pur rispettando i diversi
ruoli, nei territori in cui entrambe le parti hanno partecipato ai seminari, si è
avviata una collaborazione che ha avuto riscontri positivi, in quanto comunque
è diminuita la conflittualità, si sono trovate la via per la conciliazione e la via per
la collaborazione nell’interesse reciproco, in modo da trovare beneficio per i
lavoratori e nel contempo tutelare le parti datoriali.
Questa è la terza edizione dei seminari: l’anno scorso non ne abbiamo fatti,
perché era l’anno del Congresso Nazionale della FISASCAT, ma nel 2014 e nel
2015 è prevista la ripresa dei seminari ed abbiamo già programmato i quattro
seminari dell’anno in corso. I seminari sono dunque diventati una consuetudine, che riscuote grande successo, vista la partecipazione.
Il mio ringraziamento va al Presidente di ANCL ed a tutti voi che siete presenti,
in particolare a Diana Onder, Coordinatrice del Centro Studi nazionale ANCL,
che, insieme al Segretario Generale della FISASCAT, Pierangelo Raineri, ha
voluto fortemente questo protocollo d’intesa, il quale prevede appunto di realizzare dei percorsi formativi congiunti.
Noi abbiamo creduto in questa esperienza, perché riteniamo che i temi trattati
siano temi di interesse comune, che possono senz’altro aiutarci nel nostro lavoro quotidiano, anche se, ovviamente, rappresentiamo due mondi diversi.
Quindi, nel rispetto dei ruoli di rappresentanza, possiamo condividere un lavoro
comune, mettendo assieme le conoscenze, il che ci può sicuramente aiutare
a fare meglio il nostro lavoro sia dal punto di vista del sindacato, sia dal punto
di vista dell’importante ruolo sociale che svolgono i consulenti del lavoro, nel
rispetto del contratto di lavoro, nel rispetto delle norme e grazie alla conoscenza
delle stesse, che sicuramente può portare grandi benefici ai lavoratori che noi
rappresentiamo.
Ho visto delle facce note tra i consulenti del lavoro, che mi fa piacere rivedere,
ma ho visto anche delle facce nuove, il che dimostra che la nostra iniziativa è
accolta favorevolmente e ciò mi dà grande soddisfazione.
La parola ora a Pierangelo Raineri, Segretario Generale della FISASCAT-CISL.
Grazie.
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Intervento di:
Pierangelo Raineri
(Segretario Generale FISASCAT_CISL)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Questa esperienza nasce da un incontro con il Centro Studi nazionale della
CISL, il quale ci ha dato la propria disponibilità ad ospitare questa iniziativa,
che è giunta alla terza edizione, il che vuol dire che l’esperienza è evidentemente stata ritenuta positiva da entrambi le associazioni, come diceva poc’anzi
Rosetta Raso.
Visto dal nostro punto di vista, che è quello di un sindacato il quale si occupa
di settori abbastanza complicati, il valore aggiunto che noi abbiamo ricavato da
questa iniziativa è la capacità di confronto fra il sindacato, la struttura dell’ANCL
e i suoi aderenti.
Essere aderenti all’ANCL è una cosa importante, dal nostro punto di vista, perché l’ANCL in questi anni ha saputo avvicinare posizioni normalmente inconciliabili. Siamo partiti da una situazione più complessa di quella odierna, da un
convegno al quale io avevo partecipato molti anni fa, nel quale c’era molto più
conflitto che dialogo. Forse anche noi stavamo sbagliando percorso, perché
non ritenevamo possibile il colloquio che poi si è sviluppato.
Devo dare atto dunque alla dirigenza dell’ANCL che è stata fatta una scommessa e che questa commessa è stata vinta. Si trattava di scommettere sul fatto
che fosse possibile passare da un conflitto, una lotta senza quartiere tra due
associazioni sindacali, ad una fase in cui ognuno continua a difendere le proprie posizioni, perché altrimenti non ci sarebbe nemmeno un rapporto dialettico
efficace, però si sono creati dei meccanismi di dialogo, che sarebbe interessante esaminare nelle prossime occasioni, in modo da mettere in luce quanto
di positivo nei territori questi seminari hanno prodotto. Infatti queste possono
essere esperienze esportabili anche negli altri territori.
E credo che per l’ANCL sia stato importante aprire un dialogo con un’organizzazione sindacale come la nostra, la quale si occupa del settore Terziario, Turismo e Servizi e che sta allargando i propri orizzonti perché, come sapete, abbiamo in corso un’operazione di accorpamento con la FELSA, la Federazione
del lavoro autonomo, dei lavoratori parasubordinati, quelle figure di lavoratori
che sono ritenute anomale, le quali però in questi anni hanno garantito l’occupazione dei giovani attraverso formule che non sono solo quelle del lavoro
dipendente.
Noi abbiamo costituito una nuova organizzazione, di cui vi diamo ufficialmente
notizia, che si chiama FIST, Federazione Italiana Sindacati Terziario, e comprende la FISASCAT e la FELSA: lo abbiamo fatto perché nel pianeta lavoro
oggi bisogna dare delle risposte a forme di occupazione che non sono più quelle classiche.
Il dibattito che è in atto in questo periodo, non è confinato ai dipendenti della
fabbrica, come poteva essere quarant’anni fa, è un dibattito che si sta orientando soprattutto verso settori nei quali il lavoro fortunatamente ancora c’è,
anche se in questi anni ci sono state molte difficoltà, perché noi abbiamo gestito
centinaia di procedure di riduzione del personale o di mobilità o di cassa integrazione in deroga, che hanno consentito di affrontare crisi occupazionali gravi,
considerato che in questi anni nel settore Terziario sono stati persi 100.000
posti di lavoro.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
15
Non sono questi i settori che hanno evitato la crisi, anzi sono settori nei quali
la crisi sta perdurando più che in altri ambiti, visto che in alcuni segmenti del
mondo del lavoro un po’ di ripresa c’è, cosa che non si intravede invece nel
settore dei Servizi.
Soprattutto in alcuni settori, come quello del Commercio, e del Turismo, noi
purtroppo rischiamo una situazione per la quale il nostro Paese uscirà dalla
crisi più tardi di altri Paesi. Se consideriamo il comparto del Turismo, che è
un settore importante dell’economia del nostro Paese, possiamo vedere che
la Spagna ed in parte anche la Grecia, oltre ad altri Paesi del Mediterraneo,
stanno uscendo dalla crisi anche grazie allo sviluppo di questi settori, mentre in
Italia ci troviamo ancora in difficoltà.
Le difficoltà poi sono di diverso segno, ma, per come vediamo noi la questione,
sono legate soprattutto alla mancanza di reddito delle persone. È questo un
problema del mondo intero, ma in particolare è un problema dell’Italia.
Perciò noi innanzitutto dobbiamo cercare di non uscire da certi parametri di
costo del lavoro, perché oramai le aziende effettuano un confronto globale tra i
Paesi, per cui molte di esse – che investono non solo in Italia, ma anche altrove
– hanno come principio base quello del benchmark, ovvero il riferimento ai costi
medi che si hanno in tutto il mondo. Purtroppo nel nostro Paese, soprattutto per
una differenza tra i salari effettivi ed il costo del lavoro, si rischia di rimanere
fuori da certi parametri.
Noi abbiamo una struttura salariale che certo non è la più premiante nel mondo
e questo è un problema per chi ci lavora, un problema di reddito effettivo per la
gente, in coincidenza con un costo del lavoro che è uno dei più alti del mondo.
Questi parametri mixati rischiano di metterci fuori mercato e questo è appunto
il problema che l’Italia dovrà affrontare nei prossimi tempi.
Non c’è una ricetta unica: sono importanti gli € 80, che sono stati decisi dal
Governo Renzi come bonus fiscale, nella speranza che questa misura venga
poi consolidata definitivamente, ma il vero problema è la differenza tra il salario
lordo e il salario netto e noi dovremo risolvere questo problema, se non vogliamo rinunciare definitivamente a quella serenità che invece altri Paesi hanno
saputo riconquistare.
Non è pensabile agire solamente su una riduzione dei costi: noi ci troviamo a
fare trattative contrattuali nelle quali la discussione è se dobbiamo ridurre l’incidenza degli scatti di anzianità o se dobbiamo ridurre l’incidenza dei permessi
individuali retribuiti. È una discussione che può anche essere interessante in
questo particolare momento di crisi, perché capisco che oggi è più importante
un posto di lavoro che uno scatto di anzianità, ma non credo che sia questo il
modo per affrontare la questione.
Noi abbiamo nel nostro Paese un altro grave problema, che è quello dell’occupazione dei giovani; anzi, questo è il problema più grande che abbiamo:
se il sindacato non si occupa di questo tema, rischia di essere dipinto come
un’organizzazione che si interessa solo degli occupati e questo da parte nostra
sarebbe un gravissimo errore.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Occuparsi di questo tema non significa fare solo dei convegni, ai quali peraltro
io partecipo volentieri, quando mi invitano, perché non è questa la soluzione
del problema: bisogna che si varino davvero delle norme che risolvono la questione. Dalla struttura contrattuale – quindi anche noi abbiamo una strada da
percorrere – alle norme di legge, ci si deve porre l’obiettivo di favorire l’occupazione dei giovani.
Qualche anno fa si sarebbe detto “incentivare”, ma oggi nessuno incentiva più
niente, perché, quando si parla di incentivi, tutti pensano che debba intervenire la mano pubblica, come faceva fino a qualche anno fa, ad esempio con i
contratti di formazione-lavoro, mentre oggigiorno non è più possibile proporre
meccanismi di questo tipo.
Bisogna avere la capacità di trasformare l’apprendistato in una porta vera di
ingresso nel mondo del lavoro, la capacità di creare un meccanismo di salari
d’ingresso, che consentano di favorire l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro. Altrimenti ci troveremo prigionieri della riforma Fornero, di cui oggi tutti
parlano male, come se non ci fosse stato nessuno a votarla, e invece questa
legge è stata votata, esiste ed è uno degli interventi che sicuramente hanno
risolto alcuni problemi, perché non sarebbe giusto dare giudizi sommari su una
legge che è intervenuta seriamente nei confronti di alcune disfunzioni gravi del
nostro Paese, ma certo è stata una cosa negativa per i giovani.
Infatti è aumentato il permanere della gente al lavoro e la riforma ha fatto proprio questo, per risolvere un problema di cassa dello Stato: per ridurre i costi
dell’amministrazione pubblica, si è fatta una riforma che ha immediatamente
previsto il ritardo del pensionamento, impedendo un normale turn over.
Quando ho detto questo in qualche convegno, sono stato contestato, perché
mi è stato detto che, ad esempio in Germania, pur essendo stata elevata età
pensionabile, l’occupazione giovanile si è sviluppata. Purtroppo noi siamo in
Italia e non in Germania: è del tutto possibile che ciò sia accaduto in Germania,
la quale ha una competitività diversa da quella del nostro Paese, per cui, nonostante la riforma là attuata, l’occupazione ha continuato a crescere.
Io credo che nel nostro Paese sarebbe stato meglio ragionare un po’ più a
lungo sul meccanismo della legge Fornero, ma la morale della favola ormai è
che oggi bisogna occuparsi di questo tema e, per farlo, dobbiamo innanzitutto
comprendere che le aziende si trovano in una situazione di obiettiva crisi, alla
quale devono fare fronte, per cui anche a partire dalla contrattazione, sarà necessario fare qualche cosa di diverso rispetto al passato.
Però io credo che ciascuno degli attori debba contribuire per la propria parte: vale
per il sindacato, ma vale anche per le associazioni datoriali, che in questo marasma generale hanno pure deciso di dividersi tra di loro.
Si teorizza che in Italia ci siano troppi contratti di lavoro: io, intervenendo in un
recente Esecutivo nazionale della CISL, di cui facciamo parte sia io che Rosetta Raso, ho detto che non bisogna più dire che ci sono troppi contratti di lavoro,
perché tutte le volte che al nostro interno – parlo della mia organizzazione – diciamo che sono troppi, il giorno dopo ce ne troviamo qualcuno in più.
Questo è accaduto nel settore del Commercio, nel quale oggi c’è un contratto,
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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ma non so quanti ce ne saranno alla fine della trattativa in corso: temo che presto ci troveremo di fronte ad una situazione, in cui la divisione delle controparti
comincerà ad essere un problema serio.
Ho fatto l’esempio del settore del Terziario, in cui avremo probabilmente più
di un contratto di lavoro, per non parlare del settore delle piccole aziende, le
quali hanno vissuto una fase di difficoltà che ha generato delle divisioni, il che
ci provocherà ulteriori complicazioni dal punto di vista contrattuale nei prossimi
anni, invece di una semplificazione.
Riteniamo quindi molto importanti occasioni come questa, che ci ha visto affrontare temi fondamentali, come quello della conciliazione e arbitrato, quello
della certificazione dei contratti di lavoro, tutti temi che erano difficili da affrontare, quando noi lo abbiamo fatto, perché il dibattito era ancora aperto.
E poi il tema della formazione continua, quello della bilateralità, che talvolta
nelle discussioni tra di noi si intuisce motivo di attrito, la questione della salute e
sicurezza: tutti temi che hanno caratterizzato il nostro dibattito, il quale ha avuto
il pregio di non essere un dibattito da tavola rotonda o da convegno.
Infatti il dibattito che si è sviluppato nelle passate edizioni di questi seminari si
è basata intanto su una analisi per la conoscenza dei temi, su un approfondimento dei medesimi attraverso l’intervento di esperti, in testa a tutti Marco Lai,
a cui si sono accompagnati docenti universitari di vaglia, come quelli che avrete
modo di incontrare in questi giorni.
Da un’esposizione documentata si parte per fare un dibattito, mentre troppe
volte io vedo dei dibattiti fatti da persone le quali probabilmente non hanno
neanche letto i testi di cui stanno parlando. Questo fatto in Italia è diventato ormai drammatico, perché alcuni temi vengono trattati nei talk show e si capisce
lontano un miglio che gli interlocutori sono digiuni della materia di cui stanno
trattando.
Capiterà anche a voi, come capita a me, di spegnere la televisione disgustati
da questa perdita di tempo: dibattiti e talk show vengono fatti su temi che richiederebbero una conoscenza specifica ed invece ognuno degli intervenuti parla
perché, come si suol dire, ha la lingua in bocca.
Questa cosa non è possibile in un momento del genere, che è così drammatico
per il lavoro: devono invece essere valorizzate alcune capacità di conoscenza
vera delle questioni. Noi crediamo che il modo di affrontare i temi congiuntamente, che abbiamo scelto noi, ANCL e FISASCAT, sia il modo giusto, non
perché ce lo siamo inventati in un pomeriggio di qualche anno fa, ma perché
è giusto affrontare in maniera documentata gli argomenti di cui si tratta, avendone innanzitutto la conoscenza indispensabile. Poi si possono approfondire i
temi, altrimenti si parla per il gusto di farlo e alla fine non si risolve niente.
Noi pensiamo dunque che questa sia la strada giusta, per affrontare dei temi
importanti in uno scenario globale, che è sempre più preoccupante per il nostro Paese ed è più complicato di quanto non si faccia comunemente apparire;
infatti, tornando al ragionamento di prima, occorre che il nostro Paese diventi
un Paese competitivo, per le cose di cui stiamo parlando, perché la materia del
lavoro è una delle componenti essenziali della competitività di un Paese.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Non siamo più negli anni del Piano Marshall, allorché qualcun altro al di fuori
del nostro Paese pensava ai nostri bisogni: oggi di Piani Marshall non ne fa più
nessuno, ogni Paese è solo e deve cercare di affrontare i propri problemi.
Questo vale anche per il nostro Paese: noi abbiamo una situazione complessa,
dopo aver avuto anni nei quali c’è stato uno sviluppo, che ha consentito di accogliere in Italia tante persone di altri Paesi, i quali non avevano lavoro nel loro
luoghi d’origine; ora forse questa tendenza si invertirà, perché cambieranno
degli equilibri a livello planetario e non è detto che il nostro potrà continuare ad
essere un Paese manifatturiero, che potrà competere nelle cose per le quali è
stato competitivo sino ad oggi.
Se produrre questa poltrona domani mattina costerà di meno in Tunisia che in
Italia, probabilmente la produzione della poltrona verrà spostata in Tunisia e
non resterà a Firenze, a Milano o a Reggio Calabria.
Questo è uno dei temi che vanno tenuti presenti, perché, parlando di lavoro,
noi abbiamo innanzitutto il dovere di cercare di mantenere il lavoro che c’è, poi
dobbiamo pensare alle prospettive di sviluppo: bisogna parlare di questi temi,
inquadrarli nel giusto modo senza demagogia, perché oggi non è più possibile
farne, senza inventare strane soluzioni di salari automatici per legge, cosa sulla
quale noi non siamo assolutamente d’accordo, perché, secondo noi, ciò creerebbe una situazione di mancato governo del mercato del lavoro.
Invece va valorizzato il ruolo della contrattazione, il ruolo delle parti che si occupano di lavoro. Le figure che si occupano davvero del lavoro purtroppo nei
talk show non sono quasi mai presenti: se ne invita qualcuna quando è proprio
inevitabile, ma per lo più a discuterne sono degli incompetenti, perché si dà più
importanza all’aspetto esteriore, alla capacità di apparire in maniera positiva in
tv, che non alle reali conoscenze degli interlocutori.
Bisogna passare da questa infarinatura globale sul lavoro alla capacità di distinguere analiticamente le questioni, di inquadrare i temi del lavoro nel giusto
modo.
L’ANCL insieme a noi ha affrontato lo scenario globale delle relazioni e della
contrattazione e noi crediamo che questa esperienza possa essere utile a tutti
quanti per imparare qualcosa in più.
Quando partecipo a qualche evento, io non tento mai di spiegare certe cose
agli altri, perché non mi ritengo una persona in grado di svolgere questa funzione, ma penso che sia utile parteciparvi per imparare qualche cosa in più.
Questo è il significato della condivisione delle questioni: aver la capacità di
ascoltare gli altri, di imparare, di fare sintesi. Questa è una cosa che tutti quanti
dovrebbero imparare, a partire dai politici, perché il nostro Paese avrebbe tanto
bisogno di imparare, conoscere e poi discutere, mentre in troppe circostanze
prima si discute e poi si cerca di capire.
Questa inversione delle funzioni e dei fattori della discussione a volte è dannosa
e molto spesso ha creato dei mostri proprio sulla materia del lavoro. Di questo si
occuperà Marco Lai, che ci spiegherà in maniera precisa il significato degli ultimi
atti, che sono stati prodotti in merito al lavoro, con i quali ci dovremo inevitabilmente confrontare nei prossimi tempi. Vi ringrazio della vostra attenzione.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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ROSETTA RASO
(Segretario Organizzativo FISASCAT-CISL)
Io devo precisare che la formazione che la FISASCAT sta facendo, in pratica
viene svolta quasi tutta al Centro Studi: si veda, ad esempio, il Corso Lungo
della FISASCAT. Anche l’ANCL fa la propria formazione qui al Centro Studi,
perciò anche in questo senso c’è una condivisione di esperienze, nella determinazione di portare avanti un percorso formativo proprio in questa sede della
CISL, che per noi è il luogo deputato alla formazione sin dalla sua fondazione.
Questa collaborazione con il Centro Studi per noi della CISL è molto importante e le nostre attività qui sono rese possibili dall’impegno del professor Lai,
che ringrazio per la preziosa collaborazione, il quale ci ha affiancato in tutto il
percorso che abbiamo fatto e stiamo facendo, un percorso che non è di poco
conto, cosa che ogni tanto fra di noi andrebbe ribadita.
A questo punto diamo la parola a Diana Onder, Coordinatrice del Centro Studi
Nazionale ANCL.
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Intervento di:
Paola Diana Onder
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL_Su)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Grazie, buongiorno a tutti ed un bentornato anche da parte mia rivolto a coloro
che sono tornati, benvenuti invece coloro che sono qui per la prima volta, sia
per quanto riguarda i consulenti del lavoro, sia per quanto riguarda gli operatori
sindacali.
Giustamente Rosetta Raso ha sottolineato che le attività formative vengono
svolte qui anche da noi dell’ANCL. Noi siamo quest’anno al 10º anno di promozione, di sviluppo e di realizzazione della formazione per la nostra associazione
sindacale, che io ed il collega Roberto Morini, consulente del lavoro, abbiamo
attivato dal 2005.
Oltre al mio personale saluto vi porto quello del Presidente Nazionale, Francesco Longobardi, il quale sarà presente domani, e quello del Consiglio Nazionale
dell’ANCL che qui io rappresento. Saluto Rosetta Raso con grande piacere,
simpatia e stima e la voglio presentare ai colleghi consulenti del lavoro: Rosetta
Raso è il Segretario Organizzativo della FISASCAT. Saluto poi il Segretario Generale Nazionale della FISASCAT, Pierangelo Raineri: avete già visto lo spessore ed il carisma di queste due persone.
Grande stima per loro da parte mia e stima non minore per il Coordinatore del
Centro Studi di Firenze, Marco Lai, che, come ha sottolineato molto bene Rosetta Raso, ci accompagna per il terzo anno in questo percorso formativo.
Abbiamo avuto nel 2013 una sosta dovuta ai rinnovi elettorali della FISASCAT
e con piacere devo dire che, in qualità di organizzatore, ho avuto molte richieste di riprendere questo percorso formativo, non solo da parte dei consulenti
del lavoro, ma anche da parte degli operatori sindacali, che sono diventati nel
frattempo i nostri amici, grazie alla frequentazione ed al rapporto che abbiamo
potuto prima instaurare qui dentro e poi sviluppare nel territorio.
È corretto quello che ha detto Rosetta Raso: il fatto di esserci conosciuti qui
dentro ha favorito sicuramente una minore conflittualità sui territori, con il raggiungimento più efficace di un obiettivo di reciproca soddisfazione per le parti
che rappresentiamo.
Intervenire dopo Pierangelo Raineri è arduo: io lo ringrazio particolarmente e
sempre in queste occasioni, perché ha avuto il coraggio – come hanno detto
molto bene sia Rosetta Raso che lui stesso – di dare corso insieme a noi a
questa novità sul fronte della relazione e della formazione.
Abbiamo avuto il coraggio di mettere a confronto insieme due realtà che normalmente e generalmente sono conflittuali: noi invece abbiamo compreso che
è importante che le organizzazioni sindacali da un lato e chi rappresenta le necessità delle imprese dall’altro convengano per incontrarsi, riflettere, approfondire i temi che riguardano le trasformazioni, le evoluzioni del diritto del lavoro.
Abbiamo aggiunto quest’anno la dicitura “del diritto sindacale”, che non a caso
è il titolo del percorso formativo nazionale che abbiamo ideato.
È necessario incontrarci per fronteggiare i cambiamenti del mondo economico,
nel quale ciascuno di noi opera, ed è necessario prepararci per uno scenario
futuro delle relazioni industriali, che hanno sicuramente bisogno di un cambiamento, rispetto a quello che abbiamo visto e vissuto partecipativamente fino a
qualche tempo fa.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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Diceva molto bene Pierangelo Raineri che questa è stata una sfida, una scommessa, ma lo è tuttora, una sfida tra l’altro contrastata da altre organizzazioni
sindacali, che sono venute a conoscenza di questa nostra sperimentazione. Io
personalmente nel mio territorio sono attaccata dalla Cgil: non conosco questi
operatori sindacali, ma mi è stato riferito che ce l’hanno con me, perché facciamo questa sperimentazione qui a Fiesole.
Per me questo è un motivo di orgoglio: vuol dire che siamo sulla strada giusta,
vuol dire che stiamo facendo qualche cosa di importante, qualche cosa che
in altre parti, in altre occasioni, con altre persone, con altre mentalità non è
possibile fare, perché non è stato sufficientemente compreso l’obiettivo che noi
stiamo portando avanti.
È una sfida ed una scommessa, ma noi ci poniamo positivamente rispetto al
domani, perché noi riteniamo che il dirigente di un’associazione, sia quella dei
professionisti, che quella sindacale, debba avere come prerogativa quella di
saper guardare avanti, di saper tracciare le strade future, tenendo conto di
quello che è il cambiamento del mondo nel quale si trova ad operare.
E noi siamo in un periodo di grande difficoltà economica, da cui molte aziende non si riprenderanno sicuramente, ma necessiteranno di una riconversione
non solamente a livello industriale, ma anche di una riconversione a livello di
Servizi, perché in futuro molto probabilmente, come diceva Pierangelo Raineri,
non saremo più un Paese manifatturiero, ma saremo coinvolti in tutte le attività
ricomprese nel comparto dei Servizi.
Questo riguarderà le imprese che si sono reinventate, che sono sopravvissute
rispetto alla débâcle della crisi finanziaria, che imperversa dal 2008 e, a quanto
pare, non tende ad affievolirsi.
Mi diceva un cliente pochi giorni fa che siamo arrivati ad un’azienda che fallisce
ogni due ore: questo è assolutamente drammatico, perché un’azienda che fallisce significa perdere una fonte di reddito in generale, ma perdere anche molti
posti di lavoro.
Noi ci siamo: proseguiremo su questa strada, che abbiamo condiviso con la
FISASCAT e che risponde ad una delle parti del protocollo che abbiamo sottoscritto insieme nel settembre 2010; poi abbiamo le altre parti da sviluppare, ma
c’è un problema di tempo, che purtroppo è sempre tiranno.
Mi fa anche piacere che, come consulenti del lavoro, siamo un po’ più numerosi
rispetto alle edizioni precedenti: io auspico – e siamo tenaci su questo – che
raggiungeremo il limite numerico che ci eravamo prefissati. Vedo che la sala
è affollata: c’è una prevalenza di operatori sindacali, cosa che permetterà la
creazione di un buon rapporto.
Noi oggi torniamo a trattare di un tema, la bilateralità, che abbiamo già affrontato nel settembre del 2011 e che oggi approfondiamo meglio. Lo faremo con
una prima relazione, che verrà tenuta dal professor Marco Lai, dopo la presentazione del programma e dopo il momento di socializzazione.
Vi ringrazio dell’attenzione, vi auguro buon lavoro e passo la parola a Marco
Lai.
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Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Buongiorno a tutti. Io vorrei utilizzare l’immagine di un segno zodiacale: il Sagittario, perché è un personaggio strano, il quale da un lato ha i piedi ben piantati per terra e quindi il senso delle radici, dei valori di riferimento, però, tutto
sommato, è un segno che ha un arco puntato su verso il cielo e che dunque
necessita di visione strategica.
Io credo che questa sia proprio la dimensione migliore per affrontare i problemi: non perseguire necessariamente la velocità dei cambiamenti senza nessun
punto di riferimento, ma avere un punto di riferimento ed al contempo sapere
dove andare o quantomeno sforzarsi di avere una visione strategica.
Siccome oggi si parla molto di rinnovamento, che è una parola molto importante, il rinnovamento a mio avviso necessita di entrambi questi aspetti: non soltanto sapere dove andare, ma avere anche consapevolezza di quelle che sono
le proprie basi, le proprie radici, quello che è stato costruito grazie ad altri.
Che cosa significa rinnovamento della formazione? Il rinnovamento della formazione, quanto meno della formazione sindacale, delle parti sociali, passa, a
mio avviso, attraverso tre aspetti: il primo è quello del rinnovamento sotto un
profilo dell’approfondimento. La formazione non può più essere informazione
di carattere generico, ma deve avere momenti di approfondimento e, se volete,
anche un taglio per certi versi di carattere universitario, con un riconoscimento
della formazione stessa sotto questo profilo.
Secondo: la formazione, anche quella sindacale, anche quella delle parti sociali, deve essere spendibile sul mercato, quindi deve avere un taglio di carattere
professionale, non deve servire soltanto per perseguire un percorso di studio,
ma deve anche essere utilizzabile dalle persone che partecipano ai percorsi
formativi. Ad esempio, FISASCAT ha predisposto un libretto formativo, in cui
questo aspetto, che riguarda la spendibilità della formazione sotto il profilo professionale, viene messo in grande risalto.
Terzo: la formazione non deve essere chiusa fra addetti ai lavori e persone che
si legittimano a vicenda, ma la formazione deve essere aperta ed in questo
ambito io faccio rientrare anche la formazione congiunta.
Quella che stiamo inaugurando oggi è una prima esperienza di formazione
congiunta nel panorama nazionale italiano. Non mi risulta che tra le parti sociali
ci siano altre iniziative con i consulenti del lavoro analoghe a questa.
Io sono molto orgoglioso che questi primi passi di formazione congiunta vengano fatti qui a Firenze, che è il cuore dell’Italia ed è anche il cuore della formazione sindacale di un’organizzazione che è aperta agli altri, che non è arroccata
in se stessa: la CISL.
Infatti solamente attraverso l’essere aperti, attraverso il confronto si può crescere, dato che abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Se vogliamo rappresentare
bene le persone che rappresentiamo, dobbiamo adoperarci tutti da diversi punti
di vista per costruire delle soluzioni condivise. Non c’è soltanto il momento della
protesta o quello della difesa degli interessi particolari, c’è anche un passaggio
ulteriore che considera il tipo di soluzioni che si possono intravedere.
E le soluzioni nascono soltanto se le parti, una volta contrapposte, si parlano le
une con le altre, si stimano, sviluppano insieme alcuni punti, dopodiché posso-
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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no rimanere divise, però l’importante è che non venga meno questo rapporto di
confronto, di dialogo e di stima tra le persone.
Questo il calendario di questo ciclo di seminari:
• 1° seminario - 8 / 9 maggio 2014: Bilateralità, sostegno al reddito e
ricollocazione dei lavoratori;
• 2° seminario - 3 / 4 giugno 2014: Welfare contrattuale, tempi di vita e
tempi di lavoro;
• 3° seminario - 6 / 7 ottobre 2014: La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza (e qui la novità è la differenza tra diritto
sindacale e diritto del lavoro, nel senso che il 10 gennaio 2014 è stato
firmato un importante testo unico per la rappresentanza, che si pone il
problema di come estenderla ad altri settori, a cui appunto al momento
questo concetto non si applica, alla luce anche delle sentenze dei rappresentanti della Corte Costituzionale);
• 4° seminario - 1 / 2 dicembre 2014: La riforma della “Riforma del mercato del lavoro”.
Credo che tutti abbiamo contezza del fatto che ieri sono state approvate al Senato delle modifiche al primo provvedimento del Governo Renzi. Si parla molto
di Jobs Act, mentre a mio avviso bisognerebbe cominciare a chiamarli Jobs
Acts, nel senso che i provvedimenti sono almeno due.
C’è un decreto legge, che ieri è stato modificato al Senato, che dovrà tornare
alla Camera dei Deputati e sarà approvato entro il 20 maggio, mentre c’è poi un
disegno di legge delega molto importante, che è di là da venire, perché non ha
ancora iniziato l’iter in Parlamento, e che riguarderà più in generale la riforma
complessiva del mercato del lavoro.
Noi dobbiamo tener conto del fatto che i nostri seminari si collocano in questo contesto di cambiamento non soltanto economico e sociologico, ma
anche di carattere normativo, per cui abbiamo cercato di predisporre gli
argomenti tenendo conto anche delle novità, che molto probabilmente si
presenteranno.
Tenendo conto che il tema di oggi è quello della bilateralità e del sostegno al
reddito, di cui dopo un minimo di socializzazione cominceremo a parlare, siccome personalmente ho seguito minuto per minuto i mutamenti al provvedimento,
che sono stati fatti ieri al Senato, se a fine giornata avete necessità in qualche
modo di parlare di questo argomento, potrebbe essere un’occasione di confronto, alla quale non mi sottraggo.
Dopo la socializzazione si passerà ad una introduzione al tema della bilateralità
nella riforma del mercato del lavoro, in cui cercherò di fare una ricognizione
di ciò che è la bilateralità, di quali sono stati tutti i provvedimenti, che hanno
riguardato la materia della bilateralità nella riforma del mercato del lavoro.
Nel pomeriggio con la relazione del professor Michele Tiraboschi si affronterà in
particolare il tema specifico “Bilateralità, sostegno al reddito, ricollocazione dei
lavoratori”, dato che la legge Fornero ha previsto l’istituzione di fondi bilaterali
di solidarietà, al fine del sostegno al reddito di quei settori che non l’hanno e
bisogna capire che sviluppi hanno avuto questi fondi.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Senza trascurare la ricollocazione dei lavoratori, perché la domanda è: “Come
metto insieme, come posso intrecciare le politiche passive, cioè il sostegno al
reddito, con le politiche attive, quindi con la ricollocazione dei lavoratori mediante la loro riqualificazione professionale?”
Domani mattina sarà dedicata ad una parte specifica, che credo sia di fortissimo vostro interesse, la quale riguarda il tema della bilateralità e del sostegno al
reddito nel settore degli studi professionali, perché, se non sbaglio, in data 22
ottobre 2013 è stato stipulato un accordo specifico per il settore degli studi professionali, in cui appunto si stabiliscono alcuni elementi nuovi e si introducono
alcuni aspetti interessanti che, oltre ad essere scritti, devono essere applicati.
È stato molto importante rivolgere, in una logica in cui non c’è soltanto il sostegno al reddito, ma ci sono anche la riqualificazione e la ricollocazione, un’attenzione particolare a che cosa possono fare i fondi di formazione professionale
continua, per aiutare la ricollocazione e la riqualificazione dei lavoratori, che è
un pezzo, quello finale, dell’accordo per gli studi professionali.
Seguirà la conclusione di carattere politico sindacale di questi due giorni, che è
affidata da un lato a Giuseppe Gallo, attuale Direttore del Centro Studi, il quale
farà riferimento anche al ruolo della formazione, e dall’altro lato a Francesco
Longobardi, Presidente di ANCL, che parlerà dell’attività dei consulenti del lavoro. La chiusura sarà quindi affidata a Rosetta Raso.
Dunque si parte dal generale per passare poi allo specifico ed entrare infine
nello specialistico: come già diceva Pierangelo Raineri, obiettivo di questi seminari è da un lato l’approfondimento delle tematiche, per far sì che quanto meno
ci sia una condivisione, la più larga possibile, del merito delle cose, dall’altro
lato lo scambio di esperienze tra di voi, la conoscenza reciproca e la possibilità
di intravedere anche delle soluzioni per risolvere delle questioni di carattere
operativo.
Quindi molto probabilmente non tutto potrà essere dato e risolto, però è importante che si stabiliscano dei momenti di contatto, magari tra persone che nello
stesso territorio lavorano all’interno del sindacato oppure lavorano nell’ambito
dei consulenti del lavoro, è importante che si cominci a creare una conoscenza
e, se possibile, anche una stima reciproca.
Segue la presentazione dei partecipanti al seminario e l’enunciazione delle aspettative di ciascuno rispetto al seminario medesimo.
Vorrei sottolineare che, oltre ad una cospicua presenza femminile, registriamo
una notevole partecipazione di giovani a questo seminario, che è cosa, a mio
parere, molto importante.
In secondo luogo, siccome ho visto nascere questi percorsi, mi ha fatto piacere
sentire da qualcuno di voi che si percepisce un senso di crescita: in quest’aula
non c’è più la diffidenza che era presente quando abbiamo dato il via a questa
iniziativa, c’è già uno spirito che accetta l’idea di condivisione.
Ringrazio dunque tutti voi, ringrazio Rosetta Raso, Paola Onder e Pierangelo
Raineri, che hanno consentito di sviluppare ulteriormente questo percorso.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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Passiamo ora all’introduzione generale sul tema della bilateralità connessa al
mercato del lavoro, fermo restando che l’affondo di carattere specifico rispetto
al tema “Bilateralità e sostegno al reddito alla luce dei fondi di solidarietà bilaterali” sarà sviluppato dal professor Tiraboschi nel pomeriggio.
Nel Jobs Act, o nei Jobs Acts, non mi pare che vi sia un grande richiamo al tema
della bilateralità: soprattutto il decreto-legge n. 34, che ieri è stato esaminato ed
approvato dal Senato e tornerà alla Camera dei Deputati, si occupa principalmente di contratto a termine, di apprendistato e dei contratti di solidarietà.
In questo decreto-legge, che sarà convertito in legge il 20 maggio prossimo,
non viene toccato il tema della bilateralità, mentre è probabile, anche se non
viene esplicitamente citato, che un richiamo al tema della bilateralità possa trovare riconoscimento, anche se al momento non mi pare di aver visto nominato
espressamente questo termine, nel disegno di legge delega.
Oltre al decreto-legge n. 34, che sarà immediatamente convertito in legge, è in
presentazione alla Camera dei Deputati un disegno di legge delega più generale, con cui il Parlamento delega il Governo ad intervenire su cinque aree, una
delle quali riguarda gli ammortizzatori sociali.
Quando inizierà la discussione sulla delega in tema di ammortizzatori sociali, è
probabile che il tema del sostegno al reddito – e dunque anche del possibile ruolo
della bilateralità – possa trovare espressione, ma stiamo parlando del 2015. Rispetto agli elementi generali, a me pare importante collegarli ad altri tre termini.
Primo: il rapporto tra bilateralità e partecipazione, nel senso che la bilateralità
è uno strumento, una sede in cui si realizza quella cultura partecipativa, che
è propria di una parte del mondo sindacale. La bilateralità è uno strumento di
partecipazione, se bilateralità significa appunto che le parti contrapposte si siedono attorno ad un tavolo e cercano di risolvere dei problemi a livello aziendale
o a livello territoriale.
In questo senso la bilateralità diventa uno strumento importante, indispensabile
in ordine ad una cultura partecipativa: la bilateralità come strumento di applicazione di una cultura della partecipazione.
In certi casi si può parlare addirittura di pariteticità, cioè questa cultura della
partecipazione è talmente forte, che se ne afferma anche la natura paritetica.
Non a caso da un punto di vista terminologico si parla di enti bilaterali, ma
anche di organismi paritetici. Con la distinzione, che credo tutti voi sappiate,
che gli enti bilaterali sono il contenitore più ampio, in cui si possono muovere
gli organismi paritetici, che sono invece lo strumento specifico della bilateralità
applicata alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Perché di organismi paritetici si parla in maniera specifica nel Testo Unico Salute e Sicurezza, che è un pezzo dell’area più rilevante della bilateralità.
Bisogna essere attenti anche ai profili terminologici, perché altrimenti quella
logica di chiarezza e di approfondimento, che abbiamo posto come obiettivo,
si perde. Avrei una sana diffidenza nei confronti di chi utilizza, ad esempio, il
termine “enti paritetici” o “organismi bilaterali”, perché rappresentano aspetti
differenti. Ripeto che il termine corretto è “ente bilaterale”, che è la scatola
grande, all’interno della quale c’è la scatola piccola, che sono gli “organismi
30
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
paritetici”, ovvero la bilateralità applicata al tema della salute e sicurezza sui
luoghi di lavoro.
Secondo, che mi pare veramente molto importante e che non è soltanto un profilo teorico, ma anche un’applicazione pratica molto utile a risolvere problemi
concreti, è il rapporto tra bilateralità e contrattazione collettiva.
La bilateralità nasce a sé stante o nasce come derivazione della contrattazione
collettiva? Credo che ci sia uno stretto legame tra bilateralità e contrattazione
collettiva, nel senso che le regole, le norme fondamentali, su cui si muove
la bilateralità, sono scritte dalla contrattazione collettiva. Gli ambiti entro cui
si può muovere la bilateralità sono scritti e sono regolati dalla contrattazione
collettiva.
Possiamo dire che la contrattazione collettiva costituisce la genesi, svolge una
funzione legislativa della bilateralità. Facendo un pendant tra il ruolo del Parlamento e il ruolo del Governo, possiamo dire che la contrattazione è il potere
legislativo, mentre la bilateralità è lo strumento con cui si attuano le norme
previste dalla contrattazione, per cui ha un compito di applicazione delle norme,
ovvero di Governo.
Prima viene la contrattazione, che stabilisce le norme, le regole e gli ambiti, in
cui può operare la bilateralità; e di conseguenza poi viene la bilateralità, che,
sulla base di quanto scritto dalla contrattazione collettiva, specifica come dovranno essere gestiti determinati ambiti di intervento.
Questo legame tra bilateralità e contrattazione collettiva deve sempre essere
ricordato, perché tutte le volte che la legge rinvia alla bilateralità, non rinvia ad
una bilateralità astratta, rinvia ad una bilateralità che trova la sua fonte nella
contrattazione collettiva, altrimenti si corre il rischio di legittimare enti bilaterali
strani, che non trovano un ancoraggio nella contrattazione collettiva.
Se si ha chiaro questo raccordo tra contrattazione collettiva e bilateralità, questa chiarezza teorica servirà anche per rispondere a questioni pratiche: è legittimato a svolgere tutta una serie di funzioni, che la legge riconosce, non qualsiasi ente bilaterale, che nasca dalla mente di Zeus, o dagli interessi specifici
che qualcuno ha, ma sono legittimati a svolgere il ruolo, che la legge riconosce
loro, soltanto quegli enti bilaterali che trovano un riferimento nella normativa
contrattuale applicata in una certa unità lavorativa.
Terzo e ultimo termine: sussidiarietà. È questo un termine che vedremo applicato non solo in questo primo seminario, ma ancor più nel secondo, in cui si
parla di un welfare contrattuale territoriale.
In un contesto di crisi economica e di risorse scarse, qual è quello in cui si
cimenta il nostro Paese – e non solo esso – le rivendicazioni salariali sono
sempre più difficili e forse anche non possibili, perché dall’Unione Europea
viene l’indicazione che le rivendicazioni salariali devono essere rapportate
alla produttività del Paese e siccome il nostro Paese è molto carente sotto
il profilo della produttività, almeno fino a quando non ci sarà una prospettiva
di crescita, è difficile poter giustificare, non soltanto nei confronti della controparte, ma anche nei confronti dell’Unione Europea, rivendicazioni salariali
particolarmente spinte.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
31
Allora, se questo non sarà più di tanto possibile e non si avrà la possibilità di
farlo, ecco che si apre un terreno nuovo, del tutto innovativo anche per l’azione
sindacale, che è quello della sussidiarietà e sostanzialmente quello del welfare
integrativo.
Più che richiedere aumenti monetari si possono richiedere prestazioni di servizi. Servizi che lo Stato, o comunque le Regioni, non sono in grado di assicurare e che, se ci sono le risorse sufficienti, si può tentare di avere sul piano
negoziale.
Dunque in questo contesto di risorse pubbliche scarse la contrattazione può
occuparsi di nuove aree di intervento, che sono gli elementi di novità che si
hanno nel panorama contrattuale.
Non è una scoperta del 2014: oramai negli ultimi tre-quattro anni la produzione
scientifica, che viene via via pubblicata, parla molto di welfare contrattuale o
addirittura di welfare territoriale. Quindi si tratta di un filone molto interessante,
molto importante, tramite il quale la contrattazione può da un lato rivendicare e
dall’altro ottenere delle prestazioni integrative, ma c’è il problema di capire chi
gestisce queste prestazioni.
La bilateralità diventa uno strumento anche per gestire e assicurare queste
prestazione di welfare, in un regime sostanzialmente di sussidiarietà, che si
potrebbe definire orizzontale.
Voi sapete che noi siamo non soltanto all’indomani del Jobs Act, ma siamo
anche alla vigilia di una riforma abbastanza importante del Titolo Quinto della
Costituzione. Infatti non ci sarà soltanto la riforma del Senato, ma ci sarà anche
la riforma del Titolo Quinto della Costituzione ed uno dei terreni nei quali il Titolo
Quinto aveva già suscitato un grande contenzioso giudiziario, è costituito dalle
materie cosiddette “di legislazione concorrente”, in cui non era chiaro se l’ambito di intervento fosse del legislatore statale o di quello regionale.
Tutti i conflitti, che si hanno se una legge regionale interviene su prerogative
statali o se viceversa una legge statale interviene su prerogative regionali, derivano dal fatto che, ai sensi dell’articolo 117, comma 4 dell’attuale Costituzione
certe materie, come, ad esempio, la materia della tutela e sicurezza del lavoro
– che non è il tema della salute e sicurezza sul lavoro, ma è molto di più – sono
attribuite alla legislazione concorrente di Stato e Regioni.
Questo ha innescato una serie di contenziosi davanti alla Corte Costituzionale,
perché le Regioni o il Governo avevano impugnato qualche legge statale o
qualche legge regionale, per capire quale fosse l’esatta interpretazione dell’articolo 117 della Costituzione.
In prospettiva questo terreno di contesa della legislazione concorrente non ci
sarà più, perché la prospettiva è quella di riportare tutte le materie concorrenti
alla legislazione statale, oppure di affidarle tutte alla legislazione regionale, per
cui non resti più spazio per questo tipo di contenzioso.
Questo però riguardava la sussidiarietà cosiddetta verticale, cioè il rapporto
che esiste tra intervento dello Stato e intervento delle Regioni, invece qui noi
stiamo parlando della sussidiarietà orizzontale, per la quale si intende la definizione del confine tra ciò che può e deve essere assicurato dallo Stato e dalle
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
istituzioni e ciò che invece può essere assicurato da altri soggetti, tra cui le parti
sociali.
Quindi la bilateralità diventa anche uno strumento in una logica di allargamento
dei confini del welfare contrattuale, per affermare il principio, che già l’attuale
nostra Costituzione all’articolo 118 prevede come sussidiarietà orizzontale.
Il terzo termine con cui si deve dunque raffrontare la bilateralità è questo rapporto tra bilateralità e sussidiarietà orizzontale, che dovrebbe trovare nuova linfa nelle nuove aree di intervento contrattuale, che hanno come riferimento giustappunto il welfare, termine per il quale si intende previdenza complementare,
assistenza sanitaria integrativa, trasporti, spese per motivi di studio, sostegno
al reddito, ecc., insomma tutta quell’area che per certi versi diventa elemento
innovativo di contrattazione collettiva.
Ieri qui al Centro Studi è finito un importante corso sul welfare contrattuale, in
cui si è cercato di cogliere quali sono le diverse aree di intervento. È emerso
che ci sono molte esperienze già realizzate di contrattazione, anche aziendale,
generatrice di welfare e questo è un aspetto specifico che troverà sviluppo nei
nostri moduli successivi.
Cerchiamo ora di capire che cosa sono gli enti bilaterali, se esiste una definizione di ente bilaterale. La definizione di ente bilaterale esiste ed è stata molto
valorizzata, in particolare a partire dalla legge Biagi che, vi ricordo, è del 2003,
quindi oltre 10 anni fa.
Infatti la prima definizione di carattere generale di ente bilaterale è contenuta nell’articolo 2, comma 1, lettera H del decreto legislativo n. 276 del 2003,
che è attuativo della legge Biagi, il quale definisce come “enti bilaterali” gli enti
costituiti da una o più associazioni datoriali e sindacali comparativamente più
rappresentative, quali sedi di regolazione del mercato del lavoro. Dopodiché vi
è un lungo elenco di materie in cui gli enti bilaterali possono intervenire:
“Enti bilaterali”: organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni
dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso: la promozione di una occupazione regolare e di qualità; l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; la programmazione
di attività formative e la determinazione di modalità di attuazione della
formazione professionale in azienda; la promozione di buone pratiche
contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del
reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità
contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti
collettivi di riferimento.
Però la definizione principale dell’ente bilaterale e quella di “strumento di regolazione del mercato del lavoro”, poi c’è l’assistenza sanitaria, c’è la conciliazione, c’è la salute e sicurezza, c’è la certificazione dei rapporti, però la “scatola
grande” è appunto rappresentata dalla definizione degli enti bilaterali come
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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strumenti di regolazione del mercato del lavoro. Quindi siamo di fronte ad una
definizione legislativa.
“Una o più” significa che, secondo il legislatore del 2003, non è indispensabile
la presenza di tutte le associazioni datoriali e di tutte le associazioni sindacali, per costituire enti bilaterali, l’importante è che siano comparativamente più
rappresentative.
Condizioni di opportunità indicano che è meglio che vi siano più associazioni,
però il dato di fatto fondamentale è che la bilateralità va avanti se quelli che ne
fanno parte ci credono, mentre difficoltà si incontrano non solo rispetto a quegli schieramenti che si presuppone siano contrapposti, ma anche sull’utilizzo
concreto della bilateralità con soggetti che appartengono allo stesso schieramento.
Nel fronte sindacale, così come nel fronte datoriale, così come nel fronte dei
consulenti del lavoro le opinioni rispetto al possibile ruolo della bilateralità sono
molto diverse, quindi ci sono delle difficoltà che riguardano innanzitutto l’univocità dei soggetti datoriali e aggiungerei anche i consulenti del lavoro come
terza parte.
Ci preme far capire l’importanza della bilateralità in queste sedi di formazione congiunta, perché dobbiamo costruire reti, rapporti e condivisione anche
con chi ha un atteggiamento molte volte pregiudiziale, contrario alla bilateralità,
nell’ambito dei consulenti del lavoro.
Voi state a testimoniare appunto che esistono queste resistenze molto forti ed
altrettante resistenze esistono sul fronte sindacale, come voi ben sapete. Si
tratta di superare queste resistenze, per dare risposte concrete e utili. Ed il
modo migliore per superare le resistenze non è fare ulteriori leggi, ma dare
delle risposte concrete, che siano apprezzate dalle persone.
Il legislatore molte volte ha rinviato alla definizione degli enti bilaterali di cui
sopra, però ci sono delle questioni ancora aperte, che io mi limito soltanto ad
elencare: non ho la soluzione per affrontarle, ma le posso individuare. Sono
questioni di carattere tecnico-giuridico e questione di carattere funzionale.
Per quanto riguarda le questioni di carattere tecnico-giuridico, quelle aperte
sono principalmente due: la prima, che in qualche modo ho già cercato di evidenziare, è quella dei soggetti che sono legittimati a costituire enti bilaterali:
chiunque si costituisca associazione sindacale o associazione datoriale, è legittimato a costituire enti bilaterali?
Ad esempio, in tema di salute e sicurezza, sulla base di sviluppi abbastanza recenti, che hanno a che fare con la formazione dei lavoratori, siccome, secondo
la legge, la formazione dei lavoratori oltre a quella dei dirigenti e dei preposti,
deve essere fatta in collaborazione con gli organismi paritetici, in alcuni territori
stanno nascendo degli organismi paritetici strani, che si presentano come soggetti legittimati ad erogare formazione ai sensi del Testo Unico.
In questo caso abbiamo la necessità di stabilire quali sono i soggetti legittimati
a costituire enti bilaterali, che si occupino della formazione relativa a salute e
sicurezza negli organismi paritetici, a cui il legislatore fa rinvio, fermo restando
che voi sapete che esiste nel nostro ordinamento un principio importante, che
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
molte volte viene tirato da una parte e dall’altra, il quale è il principio della libertà
di associazione sindacale, articolo 39 della Costituzione.
Libertà sindacale non significa soltanto libertà per i lavoratori di iscriversi o no
ad un sindacato, ma significa anche libertà per l’impresa di aderire o no ad
un’associazione datoriale e anche di costituirne di nuove.
La risposta che darei a questo primo interrogativo dal punto di vista tecnico
giuridico è – ferma restando la libertà sindacale, per cui chiunque può costituire
un sindacato e, se vuole, anche il proprio ente bilaterale, se trova il corrispettivo disponibile a farlo – se ci ricordiamo di quanto abbiamo detto poc’anzi sul
rapporto tra bilateralità e contrattazione collettiva, che il legislatore non legittima tutti gli enti bilaterali allo stesso modo, ma che sostanzialmente i soggetti
legittimati a costituire enti bilaterali sono i soggetti comparativamente più rappresentativi, in quanto sono firmatari dei contratti collettivi, che sono applicati in
una certa unità produttiva.
Quindi soggetti legittimati a costituire enti bilaterali – legittimati dal legislatore
a svolgere le funzioni in tema di salute e sicurezza, di assistenza integrativa,
ecc. – sono quelli la cui la contrattazione collettiva – ed è la contrattazione
collettiva che è applicata in una certa realtà produttiva – prevede tali enti, soggetti che hanno una rappresentatività tale da poter firmare quella contrattazione
collettiva.
La seconda questione tecnico-giuridica, che si pone rispetto al tema della bilateralità – ed è una questione ancora aperta, di cui abbiamo già parlato tantissimo – è il problema dell’applicazione generale della bilateralità: posso costringere un’impresa a versare contributi all’ente bilaterale e a che titolo posso
costringerla?
L’impresa che non applica il contratto collettivo o anche l’impresa che applica il
contratto collettivo, facendo distinzione tra la parte obbligatoria la parte normativa del contratto collettivo, può essere costretta a versare questi contributi?
La rara giurisprudenza che si è pronunciata, lo ha fatto anche sulla base di
alcune circolari improvvide del Ministero, che risalgono al 2004.
La legge Biagi diceva che, soprattutto nel settore del Commercio e dell’Artigianato, le agevolazioni previste sarebbero state date a quei soggetti che prevedessero l’integrale applicazione del contratto collettivo. Questo lo dice l’articolo
10 della legge Biagi, ma una circolare interpretativa del Ministero, risalente al
2004, afferma che è sufficiente la sola applicazione della parte normativa del
contratto.
Normalmente si fa distinzione fra la parte economica e la parte normativa, ma
un’altra distinzione classica è proprio quella tra la parte normativa e la parte
obbligatoria. La distinzione tra parte normativa e parte obbligatoria del contratto
consiste in questo: la parte normativa consiste di tutte quelle regole del contratto che vanno ad incidere direttamente sulla disciplina del rapporto individuale
di lavoro. Se io parlo di ferie, se io parlo di retribuzione, se io parlo di mansioni,
ciò che dice il contratto collettivo si ripercuote automaticamente sul contratto
individuale: questa è la parte normativa del contratto collettivo.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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Per parte obbligatoria del contratto collettivo invece si intendono tutte quelle
clausole, che sono impegni tra le parti che firmano il contratto, ma che non
ricadono automaticamente sul contratto individuale. In un contratto collettivo,
firmato dall’associazione datoriale e dall’associazione sindacale, c’è una prima
parte del contratto, ad esempio quella che riguarda i diritti di informazione, che
elenca gli obblighi imposti all’impresa non nei confronti del singolo lavoratore,
ma nei confronti delle rappresentanze sindacali, quindi obblighi che hanno come
destinatari dei soggetti collettivi. Questi obblighi non incidono direttamente sulla
disciplina del rapporto individuale e costituiscono la parte obbligatoria.
La circolare del 2004, che per certi versi è stata smentita da una successiva circolare del 2010, dice sostanzialmente che le imprese, pur aderendo al contratto,
sono obbligate ad applicare la parte normativa, ma non necessariamente la parte obbligatoria e, guarda caso, tutte le norme che prevedono il pagamento agli
enti bilaterali, ricadono nella parte obbligatoria, non nella parte normativa, da qui
il problema dell’applicazione alle imprese della parte relativa agli enti bilaterali.
A questo proposito ci può essere una risposta di carattere legislativo o una
risposta di carattere contrattuale: questa è un’altra questione aperta e non del
tutto risolta, che alcuni però hanno risolto in maniera molto intelligente, distinguendo tra oggetto della tutela e soggetti che possono erogare questa tutela,
nel senso che, se il lavoratore ha diritto ad alcune prestazioni, non si può obbligare l’impresa ad aderire agli enti bilaterali, però quelle prestazioni devono
comunque essere assicurate.
In alcuni settori si è cercato per via contrattuale di risolvere questa lunga e
ancora aperta controversia rispetto alla obbligatorietà delle prestazioni, che riguardano gli enti bilaterali, da parte delle aziende: il tutto è stato risolto, prevedendo che l’azienda possa scegliere se aderire o meno agli enti bilaterali, ma
se ciò si traduce in uno svantaggio per il lavoratore, l’azienda deve comunque
assicurare un aumento retributivo tale da compensare il mancato introito della
prestazione fornita dall’ente bilaterale.
Queste sono questioni aperte, che al momento sono risolte per via di circolare
ministeriale o per via contrattuale, le quali però necessiterebbero di ulteriori
sviluppi.
Parliamo ora di bilateralità e sostegno al reddito. Vediamo quali sono le iniziative
legislative, piuttosto che contrattuali, precedenti alla legge Fornero riguardo a
questo tema. La prima esperienza di questo tipo risale addirittura al 1993 e rappresenta una prospettiva molto interessante, che è stata poi ripresa nel 2009.
Io sto esaminando ora le fonti legislative che si sono occupate della bilateralità,
però ricordo che, per quanto detto in precedenza, la bilateralità trova il suo
punto principale di riferimento nella contrattazione collettiva, per cui, fermo restando che la contrattazione collettiva rimane la pietra miliare in cui trovare tutte
le fonti della bilateralità, vediamo come il legislatore ha supportato o ha cercato
di valorizzare la bilateralità.
L’articolo 5, comma 8 della legge n. 236 del 1993 per il solo settore dell’Artigianato prevedeva l’estensione dei contratti di solidarietà, nel caso in cui la
bilateralità avesse previsto un intervento integrativo.
36
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
I contratti di solidarietà, che sono quei contratti che si stipulano per evitare dei
licenziamenti ed in base ai quali sostanzialmente si riducono l’orario e la retribuzione del lavoratore, al fine di garantire lavoro a tutti, trovano le principali norme
di riferimento nella legislazione di inizio anni 80, la legge n. 864 del 1983, che
ha introdotto per la prima volta i contratti di solidarietà, sia di carattere difensivo
che di carattere espansivo.
Il fatto era che i contratti di solidarietà si applicavano soprattutto nel settore
industriale e soprattutto nelle aziende con più di 15 dipendenti, per cui c’era
il problema di come cercare di estendere l’applicazione dei contratti di solidarietà, per i quali c’è un intervento dell’Inps, che viene a coprire una parte della
perdita della retribuzione derivante dal minor orario. Se c’è un contratto che riduce l’orario e riduce la retribuzione, al fine di garantire lavoro tutti, in quel caso
interviene l’Inps, che paga il 50% della perdita della retribuzione sopportata dai
lavoratori.
Per la prima volta nel 1993 la legge n. 236 in maniera, secondo me, molto
intelligente prevede la possibilità di estendere questo strumento, che è molto
importante soprattutto nell’attuale contesto dei contratti di solidarietà, ad una
condizione: che ci sia un intervento integrativo – mi pare che fosse del 50% –
da parte degli enti bilaterali.
Il settore dell’Artigianato, il quale è un settore che già dalla fine degli anni 70
ha cominciato a dotarsi di enti bilaterali a livello regionale, poteva godere dello
strumento dei contratti di solidarietà, qualora la bilateralità fosse intervenuta per
evitare i licenziamenti.
Questo modello, che mi pare molto interessante e intelligente e che non capisco
come mai non sia stato già da tempo recuperato nell’integrazione tra intervento
pubblico e intervento privato, è stato esteso non solo al settore artigiano, ma a
tutti, nel 2009: l’articolo 19 della legge n. 2 del 2009 estende questo modello,
che era previsto solo per il settore artigiano, a tutti i settori, con estensione in
via sperimentale dell’indennità di disoccupazione ai casi di sospensione – non
di cessazione – del rapporto per i settori non coperti da cassa integrazione
generale.
C’è in questo caso l’utilizzo di un termine non del tutto corretto: per dei lavoratori,
che erano sospesi – e quindi non licenziati – si estendeva l’indennità di disoccupazione. Ma il principale autore di diritto previdenziale, che è Mattia Persiani, già
a metà degli anni 2000 parlava di “disoccupazione totale” e di “disoccupazione
parziale” per i casi di sospensione del rapporto. Quindi il concetto di disoccupazione parziale era già in qualche modo introdotto nella dottrina con riferimento a
coloro che erano solo sospesi e non ancora cessati dal rapporto.
Abbiamo comunque in via sperimentale il recupero di questo mix tra intervento
pubblico e intervento privato e poi abbiamo soprattutto quella che è stata ribattezzata la “previdenza contrattuale”, nel senso che per alcuni settori, che precisamente sono il settore del credito, le poste ed il trasporto aereo, sulla base di
una legge finanziaria di metà anni 90, del 1996 per la precisione, si prevedeva
la costituzione di appositi fondi presso l’Inps.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
37
Tenete conto che sono settori ricchi: questi settori hanno fatto un po’ da apripista, perché, avendo la necessità di gestire degli esuberi, attraverso dei fondi,
che non erano fondi di carattere generale, ma erano fondi di categoria, validi
solo per un settore specifico e previsti dalla contrattazione collettiva, si è potuto
accompagnare l’esodo incentivato di lavoratori a cui mancassero, per esempio,
cinque anni ai fini pensionistici.
Capite bene quanto è importante questa prospettiva, soprattutto oggigiorno,
che la legge Fornero ha innalzato enormemente l’età per andare in pensione,
per cui le persone, che pensavano di andare entro 2-3 anni in pensione, si sono
ritrovate di fronte un periodo di 7-8 anni.
Ripristinare – la domanda però è: con quali risorse? – dei meccanismi per cui
sul piano contrattuale – qual è stata l’esperienza dei bancari – si possa in qualche modo incentivare l’esodo di coloro, che hanno maturato tutta una serie
di contributi ed a cui manchino non troppi anni per andare in pensione, è una
prospettiva di grande interesse.
Io spero peraltro che questo tema della riforma pensionistica sia un tema in
cui, al di là delle battute di campagna elettorale, le parti sociali unitariamente
riescano a convincere il Governo a rimettere mano, perché non si può far sì che
questo Paese abbia per eccesso di zelo un’età tra le più elevate di tutta Europa
dal punto di vista pensionistico, senza un minimo di flessibilità rispetto all’età
del pensionamento. Pensate che si è passati dal nulla a tutto senza nessun
profilo di accompagnamento.
L’esperienza della cosiddetta “previdenza contrattuale” di alcuni settori a questo proposito è molto importante. La legge Fornero prevede al proposito una
misura, che non era prevista nella stesura iniziale, ma che è entrata a far parte
del testo definitivo grazie all’intervento della CISL: l’istituzione di fondi bilaterali
di solidarietà, secondo un duplice modello.
C’è un primo modello obbligatorio presso l’Inps, che vale per le imprese con
più di 15 dipendenti, per cui ci vuole un accordo istitutivo, dopodiché questo
accordo istitutivo viene recepito in un regolamento e quindi questo modello,
che è gestito dall’Inps, diventa obbligatorio per tutte le aziende che non abbiano
strumenti di copertura in caso di sospensione del rapporto di lavoro.
Accanto a questo modello obbligatorio è previsto che, se non vengono fatti gli
accordi che istituiscono i fondi, scatta il “fondo residuale”, cioè viene comunque
istituito un apposito fondo presso l’Inps; e la cosa è già iniziata dal 1 gennaio 2014, perché la legge Fornero dava sei mesi di tempo, che poi sono stati
prorogati, ma ad un certo punto si è deciso che, in assenza di accordi, i fondi
dovevano essere costituiti.
Dunque per quei settori, che non hanno una copertura tramite un sistema di
ammortizzatori sociali, se non ci sono stati gli accordi istitutivi, è scattato il
fondo residuale.
Ma accanto a questo modello obbligatorio, la stessa legge Fornero prevedeva
un modello alternativo, non presso l’Inps, bensì dando la possibilità tramite la
contrattazione collettiva di prevedere l’istituzione di appositi fondi in sostegno
al reddito dei lavoratori, al limite riconvertendo, o adeguando fondi già esistenti
38
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
per altre finalità, a questa ulteriore prerogativa del sostegno al reddito dei lavoratori.
Accanto ad un modello obbligatorio presso l’Inps per le aziende con più di 15
dipendenti, per le quali, in assenza di accordi, scatta il fondo residuale, la legge Fornero prevede dunque anche un modello alternativo per via contrattuale
in quei settori in cui siano già operanti consolidati sistemi di bilateralità quali,
ad esempio, l’Artigianato; e questo potrebbe valere per il sostegno al reddito
anche per le imprese con meno di 15 dipendenti. Questo è quanto era previsto
dalla legge Fornero e a questo punto si tratta di capire in qualche modo quali
sono gli sviluppi.
La legge Fornero recuperava anche la norma premiale già posta dalla legge n.
2 del 2009, però lasciava tutta una serie di problemi aperti. Innanzitutto uno dei
problemi aperti riguardava i tempi: questo rinvio alle parti sociali di istituire i fondi è stato utilizzato, oppure no? C’è poi il problema delle risorse: questi fondi,
per reggere e per dare delle prestazioni efficaci, di quale ammontare di risorse
possono godere? Terzo problema è quello costituito dal livello di intervento:
questi fondi devono essere necessariamente di carattere nazionale, o possono
essere previsti anche a livello regionale o territoriale?
I problemi aperti possono dunque essere principalmente ricondotti a tre questioni: il problema dei tempi, per cui anche le parti sociali si devono dare delle
mosse utili, per realizzare in tempi rapidi ciò che la legislazione rinvia loro; il
problema delle risorse: si possono utilizzare le risorse della formazione professionale, per integrare le risorse di sostegno al reddito? Il problema del modello
su cui intervenire, che probabilmente dipende dalla scelta delle diverse categorie: c’è un modello che prevede soltanto il livello nazionale, oppure c’è un
modello che decentra le prestazioni e gli interventi a livello locale?
E poi: la prestazione deve essere gestita ed erogata direttamente dall’ente, oppure dal fondo? Che rapporto c’è tra fondo specifico ed ente bilaterale? Credo
che tutte queste questioni siano molto pregnanti soprattutto per voi.
Fondi di solidarietà bilaterali e legge di stabilità 2014: questi sono gli sviluppi
recenti, che sono venuti dopo la legge Fornero. Il comma 185 della legge n.
147, che è la legge di stabilità, prevede sostanzialmente la cancellazione dei
termini per la stipula degli accordi istitutivi dei fondi.
Poiché i termini sono già scaduti, per i settori che non hanno fatto gli accordi,
si va nel fondo residuale, però, se si dà luogo agli accordi, non si possono stornare le risorse, che sono già state date, e tuttavia per il futuro si può dar luogo
a dei fondi specifici, sostanzialmente sottraendosi all’obbligo di aderire al fondo
residuale, tranne che siano già state elaborate delle procedure per avviare tali
trattative, nel qual caso non si confluisce nel fondo residuale.
Ma quali sono stati gli sviluppi applicativi? Mi pare che ci sia stata l’istituzione
di un fondo bilaterale di sostegno al reddito proprio nel settore artigiano: è stato
previsto alla fine di ottobre e addirittura c’è stata una costituzione formale del
fondo, come associazione riconosciuta, che credo abbia anche elevato il contributo richiesto al fondo.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
39
Quindi il settore artigianale, che già aveva quel fondo particolare dal 1993, in
cui c’era un contributo integrativo da parte della bilateralità, è riuscito un po’ in
extremis, perché il termine era il 31 ottobre 2013, ad istituire un apposito fondo,
che ha dato concretezza a quel modello alternativo, che già la legge Fornero in
qualche modo individuava.
Mi pare che un altro esempio performante, che io ho letto con grande favore –
poi mi direte voi l’esito dell’applicazione concreta – sia l’accordo sul sostegno al
reddito nel settore degli studi professionali: il 20 ottobre 2013 è stato realizzato
questo accordo che, se non ho letto male, non prevede per l’immediato la costituzione di un fondo, ma prevede che attraverso l’ente bilaterale specifico si
possano dare delle prestazioni particolari.
Questo sarà oggetto di approfondimento domani mattina, ma mi è sembrato
molto interessante che tra i pochi esempi di settori, in cui si è costituito un intervento specifico per il sostegno del reddito, ci sia anche il vostro settore, il che
vuol dire iniziare per certi versi con il piede giusto.
Ho trovato anche di un certo interesse, siccome stiamo parlando agli operatori del settore Commercio e Terziario, l’accordo sul settore Terziario. Questo
accordo è stato realizzato il 20 febbraio 2014 ed ora occorre capire come si
accorderanno tra di loro i diversi enti bilaterali che esistono, quali tipi di sinergie
potranno sviluppare, che differenza ci deve essere tra chi svolge funzioni di
indirizzo politico e chi svolge funzioni di gestione amministrativa degli enti e
dei fondi.
Conclusa la fase di presentazione del nostro tema odierno, diamo spazio ora
alle vostre domande di chiarimento.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Ricordo che il termine specifico di sussidiarietà è stato introdotto dal buon Tiraboschi con la legge Sacconi nel 2009: allora anche l’atteggiamento sindacale
era quello di parlare di intervento integrativo, non già sussidiario.
Il sindacato ha oggi mutato quell’intendimento di allora? possiamo arrivare alla
sussidiarietà, intesa come sostituzione dell’intervento, che doveva essere fatto
comunque dalla collettività, ancora nell’ottica dell’intervento integrativo relativo? Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
La perplessità maggiore da parte delle imprese – e quindi di noi consulenti – è
stata sempre determinata dal fatto che è la bilateralità ad alzare il costo del
lavoro, anche per effetto delle contrattazioni.
Quanto le reciproche parti – e soprattutto la parte che rappresenta il lavoro
dipendente – insisterà per avere sotto il profilo della bilateralità l’assistenza
integrativa e la previdenza complementare negli istituti contrattuali iniziali?
Faccio riferimento proprio a quello che ha detto all’inizio il Segretario Generale
della FISASCAT, Pierangelo Raineri: i permessi a riduzione di orario, sui quali
c’è una grossa riserva mentale, diventano anacronistici, nel momento in cui la
riduzione dell’orario di lavoro da 40 ore ad un orario inferiore non avviene più
40
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
con una modalità di esplicazione del lavoro fordista, per cui non c’è bisogno di
una riduzione così massiva.
Se invece queste risorse fossero utilizzate per avviarle ad una canalizzazione
nelle medesime sussidiarietà e quindi nella bilateralità, sicuramente ci sarebbe
un’esplosione degli accordi con la previsione di un’assistenza che oggi manca.
Infatti oggi lo snodo cruciale è l’aumento del costo del lavoro. Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Bisogna misurarsi su un altro campo, differente dal mero riconoscimento economico del rinnovo contrattuale, perciò c’è difficoltà da parte del sindacato a
far capire ai lavoratori che è meglio ricevere € 10 in meno in busta paga, però
avere un’assistenza integrativa migliore.
Dobbiamo inoltre fare il confronto con ciò che ci propone la politica, con gli
€ 80 di bonus fiscale, che forse non saranno mai € 80 e magari andranno a
finire nell’aumento delle tasse.
Ma come incide la notizia della concessione di questi € 80 sui lavoratori, che
fanno la coda per capire come bisogna agire per ottenerli ed a cui interessa
poco la questione dell’assistenza integrativa e della previdenza complementare? Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
La sussidiarietà nei servizi mi pare che risponda ad una logica che tutti noi
abbiamo scelto, almeno per quanto riguarda questi sindacalisti e questi consulenti, ovvero alcune parti rappresentative delle imprese. Si tratta di uno scambio
di servizi ai lavoratori e alle aziende, sussidiari di alcuni interventi, che prima in
forma generica erano compito dello Stato.
Da questo punto di vista voglio ricordare che negli enti bilaterali attivi oggi,
come si diceva prima, molto presenti tra gli artigiani, ma anche nel Commercio,
nel Turismo e nei Servizi, l’intervento è in parte delle aziende e in parte del
lavoratore, proprio perché assolve all’obbligo della parola bilateralità e assolve
all’obbligo di cercare di reperire, anche se non tutte e non sempre, le risorse
necessarie.
Sposterei il tiro, che andrà probabilmente chiarito nel tempo, anche sul punto
di vista legislativo, ricordando però che il legislatore ha disposto l’intervento di
solidarietà non a caso e che le parti lo hanno inteso come intervento al 20%
delle necessità.
Non a caso, perché, se immaginiamo un intervento totale di cassa integrazione,
è chiaro che nessun ente bilaterale, neanche quello più ricco d’Italia, che io
continuo ancora a rappresentare in questi giorni, cioè l’EBAV, l’Ente Bilaterale
Artigianato Veneto, sarebbe in grado di intervenire. Mentre, limitandosi al 20%,
il più grosso ente bilaterale d’Italia è potuto intervenire con 5 milioni di euro, che
ha distribuito a circa 36.000 lavoratori.
È evidente quindi che dobbiamo distinguere tra bilateralità intesa come sussidiarietà ed il fondo di solidarietà, che naviga all’interno della bilateralità, ma è
una cosa a parte. Tutti gli accordi nazionali prodotti, anche gli ultimi, tendono a
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
41
dire che il fondo di solidarietà, pur nell’ambito della bilateralità, viaggia a parte,
tanto è vero che i fondi si stanno dando consigli di amministrazione – spero
non solo per creare cariche – si stanno dando un percorso autonomo, parallelo,
all’interno della bilateralità, proprio per cercare di non confondere gli interventi
e i servizi che si realizzeranno. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Partiamo dall’ultimo intervento: mi pare molto importante quello che è stato detto: la bilateralità vede il contributo non solo dell’impresa, ma anche del lavoratore, cioè la bilateralità non è solo un costo per l’impresa, perché alla bilateralità
contribuisce anche il lavoratore.
Dall’altro lato il servizio non è solo un servizio nei confronti del lavoratore, ma è
anche un servizio nei confronti dell’impresa. Probabilmente c’è da lavorare su
entrambi i crinali, ma su quest’ultimo forse c’è da lavorare di più: quanto il servizio offerto dalla bilateralità viene percepito come interessante dall’impresa?
Perlopiù viene percepito dall’impresa come costo e forse bisognerebbe incominciare a trovare qualche primo esempio, qualche prima buona prassi, per
cui l’impresa possa considerare che la bilateralità riceve il contributo anche
del lavoratore sotto il profilo delle risorse, invertendo l’ottica corrente, per cui
ora non viene percepito il fatto che anche l’impresa ricava dei vantaggi dalla
bilateralità.
Quanto all’operato del Governo Renzi: siamo di fronte ad un soggetto che offre
direttamente ai lavoratori un bonus e quindi salta in qualche modo tutti gli intermediari, perché si rapporta direttamente con i lavoratori. Il problema è forse
capire innanzitutto a quanto ammonta realmente il bonus, ma non credo che
le persone siano meno attente ai profili di welfare negoziale: dipende probabilmente dal modo in cui vengono informate.
Se a chi in casa ha problemi di disabilità, o di anziani, o di cure si pone nel
modo giusto una riflessione, per cui la contrattazione può risolvergli anche questi aspetti, non sono totalmente sicuro che la risposta possa essere negativa e
che l’interesse prevalente sia relativo al denaro in più in busta paga.
Dipende anche dal modo in cui ci si pone nei confronti dei lavoratori: da un lato
c’è una grande sfida ed un grande pericolo, rappresentato dal rapporto diretto
tra le istituzioni e i lavoratori, saltando tutti i corpi intermedi, dall’altra però c’è il
modo in cui i corpi intermedi, tra i quali è compreso anche il sindacato, propongono le novità alle persone in funzione dei loro bisogni.
Quanto al tema bilateralità e costo del lavoro, da un lato le prestazioni della
bilateralità dovrebbero essere maggiormente evidenti e dall’altro dovrebbero
forse anche essere incentivate attraverso interventi della fiscalità, di detassazione e quant’altro.
Però mi pare che alcune risposte della contrattazione siano utili a questo riguardo, perché, laddove io leggo che le imprese, che non sono iscritte all’ente
bilaterale, sono comunque impegnate a pagare per via contrattuale quanto è
42
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
assicurato come reddito al lavoratore, ciò rappresenta un aspetto utile di intervento.
Il fatto che l’azienda non paghi il contributo all’ente bilaterale, non vuol dire che,
con questo sistema, non abbia alcun costo. Comunque è tenuta ad assicurare
ai lavoratori la stessa prestazione dell’ente bilaterale, più un onere retributivo
maggiorato, perché così è scritto negli accordi di alcuni settori.
Credo che questo sia un aspetto importante, fermo restando che rimane la questione di come incentivare dal punto di vista fiscale e contributivo l’intervento
della bilateralità.
La sussidiarietà nasce a mio avviso da molto lontano e mi piace richiamarla
quando si parla della Costituzione. Indubbiamente nel 2008-2009 ha avuto uno
sviluppo, nel senso che, più che di sussidiarietà, si parlava di prossimità e c’era
un intervento per cui la contrattazione poteva sviluppare un’azione in questo
senso.
Probabilmente sta tramontando una visione, a cui io aderisco maggiormente,
che è la visione del doppio pilastro, per cui ci sono delle prestazioni di welfare che dovrebbe assicurare allo Stato, a cui si aggiunge ciò che può fare la
bilateralità; quindi siamo in presenza di un modello di bilateralità di carattere
integrativo.
Mi pare questo il modo più corretto, perché, se guardo, non mi pare che compaia nelle materie della riforma del Titolo Quinto, tra quelle di competenza del
legislatore statale. Ma la Costituzione dice che devono essere assicurati i livelli
essenziali delle prestazioni di carattere economico sociale su tutto il territorio
nazionale. Questa è dunque una materia di intervento della competenza legislativa esclusiva da parte dello Stato ed io posso intendere prestazioni di ogni
tipo, quelle di carattere sociale, quelle di carattere sanitario, quelle riguardanti
l’offerta di lavoro.
Oggi si parla molto di Garanzia Giovani, ma il problema è: come si potranno
spendere i fondi per gli interventi per l’occupazione giovanile, per cui c’è 1
miliardo e mezzo da spendere in due anni? I centri per l’impiego sono in grado
di assicurare quei livelli essenziali delle prestazioni, che anche la Costituzione
sancisce?
Sicuramente io sono più legato al modello del doppio pilastro, per cui c’è sia
l’intervento dello Stato che l’intervento della bilateralità, però mi pare che stiamo andando verso un modello sostitutivo per cui l’intervento della bilateralità
non è integrativo dell’intervento pubblico, ma va a prendere il posto di quanto
dovrebbe essere assicurato dallo Stato.
Il modello del doppio pilastro a me pare più aderente a ciò che può fare il sindacato, perché penso che lo Stato debba assicurare qualche cosa, che può poi
essere eventualmente integrato da parte dei soggetti sociali. Grazie.
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sessione pomeridiana
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Buon pomeriggio a tutti. È con noi oggi il professor Michele Tiraboschi, che
ci aiuta nei percorsi formativi di approfondimento di questa terza edizione dei
seminari congiunti, con i quali si cerca di mettere insieme operatori sindacali
e consulenti del lavoro, al fine di sviluppare concretamente un profilo di conoscenze reciproche rispetto a possibili soluzioni condivise, fermo restando che
poi ognuno ha i propri interessi specifici.
In questi seminari cerchiamo di fornire il punto di vista di coloro che nel panorama italiano rappresentano dei punti di riferimento importanti, e questa iniziativa
ci pare significativa, in quanto quella che realizziamo qui al Centro Studi della
CISL di Firenze, è una delle prime occasioni in Italia di formazione congiunta.
Ringrazio molto il professor Tiraboschi di aiutarci in questo senso. A lui abbiamo
chiesto principalmente di ragionare sullo snodo, molto particolare e molto importante, del rapporto tra interventi a sostegno del reddito e ciò che può servire
per la riqualificazione e la ricollocazione dei lavoratori, che mi pare essere una
parte ancora mancante nel nostro quadro normativo.
Bisogna dunque capire quanto il quadro normativo attuale consente di pensare
ad un legame tra gli interventi a sostegno del reddito, sia in caso di sospensione, sia in caso di cessazione, e le iniziative per la formazione, per la riqualificazione e la successiva ricollocazione dei lavoratori e se questa azione deve
essere garantita dalle imprese che chiudono.
Più che il decreto-legge in via di approvazione entro il 20 maggio, mi pare
che tutto ciò sia oggetto, sullo sfondo, del disegno di legge che comprende le
cinque deleghe assegnate al Governo Renzi, tra le quali compare l’ulteriore
riforma degli ammortizzatori sociali e dei fondi bilaterali.
In esso si parla di servizi attivi, si parla di nuove tipologie contrattuali, tutta una
materia molto delicata. Ma, al di là di quanto dice il quadro normativo, che cosa
si può fare concretamente per collegare il sostegno al reddito con la ricollocazione dei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo?
La parola va dunque a Michele Tiraboschi, che ringrazio della disponibilità che
continua a darci per queste iniziative così innovative nel panorama della formazione sindacale.
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Intervento di:
Michele Tiraboschi
(Professore ordinario di Diritto del Lavoro
Universita' di Modena e Reggio Emilia)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Vi ringrazio per l’invito e per l’occasione che mi offrite di confrontarmi con mondi
che operano su piani diversi, ma in maniera integrata. Mi piace partecipare a
queste iniziative, che non sono chiuse, autoreferenziali, ma tentano di far dialogare mondi, operatori, realtà diverse tra di loro.
Io ho provato ad interpretare il titolo dell’intervento, che mi è stato dato, che è
“Bilateralità, ammortizzatori, sostegno al reddito, ricollocazione” nei termini di
uno scenario, che va a ricostruire un percorso ormai avviato da più di 10-15
anni.
Domani Silvia Spattini affronterà principalmente l’aspetto pratico-operativo, legato alla realtà in cui operate, però questi strumenti devono essere collocati
nello scenario giusto, perché altrimenti non se ne capisce la portata, non se ne
capisce la potenzialità.
Forse questo era un po’ anche l’atteggiamento, che aveva il legislatore della
riforma rispetto alla logica bilaterale. Il tema era quello di come riformare il mercato del lavoro, di come introdurre maggiore flessibilità, dando però un quadro
di garanzie al reddito o di continuità di rapporti in caso di sospensioni temporanee, oppure in caso di perdita del lavoro.
Si costruiva quindi un sistema di ammortizzatori – vocazione ormai da tempo
richiamata, di tipo universale – e sullo sfondo restava il tema più o meno sconosciuto o negletto dei sistemi bilaterali, dei fondi bilaterali, che in realtà in qualche territorio e in qualche settore da tempo operano nella direzione di costruire
i mercati del lavoro e quindi di prendersi carico delle persone che trovano difficoltà a ricollocarsi e che devono essere appunto aiutate temporaneamente, per
rimanere nel posto che hanno, oppure per dar loro un accompagnamento verso
un’altra occupazione, tramite la formazione e la riqualificazione.
Quindi scontiamo un po’ questo difetto: quando parliamo di sistemi bilaterali in
relazione agli ammortizzatori, sembra quasi un capitolo a sé stante, importante,
ma comunque molto tecnico, molto per specialisti, quando invece è probabilmente il cuore delle riforme.
Ed il fatto che si parli già oggi di una nuova riforma degli ammortizzatori, di
nuovi interventi in chiave universale, lascia un po’ presagire delle ombre, delle
perplessità, perché – e questo lo vediamo in tutti i campi in cui voi operate, con
qualunque istituto giuridico – la stabilità del quadro normativo aiuta a fare le
scelte, aiuta a dare dei consigli alle imprese, aiuta a costruire dei sistemi.
Noi non abbiamo un sistema di ammortizzatori sociali moderno, perché continuamente interveniamo con nuove norme, o interveniamo superando le norme
attraverso interventi in deroga o attraverso degli interventi temporanei emergenziali, sull’onda magari di situazioni particolari, che colpiscono l’opinione
pubblica e inducono la politica ad intervenire.
Io vi suggerisco a tale proposito una lettura, che è già un po’ filtrata attraverso
i giornali: questa settimana il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo su
quanto sono costati gli ammortizzatori sociali ed in particolare gli ammortizzatori in deroga, dandogli molta evidenza.
Cito questo articolo perché in realtà il giornalista Enrico Marro ha fatto la sintesi
di un documento molto importante, che è facile reperire sulla rete Internet e che
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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è una relazione della Corte dei Conti, pubblicata proprio poche settimane fa, il
23 aprile 2014, sull’evoluzione del sistema degli ammortizzatori sociali e sul sistema che si sta costruendo, con anche dei cenni molto importanti in relazione
al ruolo ed allo spazio dei sistemi bilaterali.
Faccio riferimento a questo testo, perché il tema dei sistemi bilaterali è un tema
un po’ evanescente e vago, visto che abbiamo tanta teoria e poca pratica, o
della prassi che è poco conosciuta, che è legata a specifici settori, che è legata
a specifici territori.
C’è quindi molta più teoria che prassi in merito e molta di questa teoria è di
stampo ideologico. Infatti quello degli enti bilaterali è un tema divisivo: c’è chi li
adora, chi li considera la modernità delle relazioni industriali, una chiave condivisa di costruzione del mercato del lavoro, di gestione del mercato del lavoro,
di sostegno alle scelte contrattuali e chi invece li considera una sorta di cavallo
di Troia, per far entrare in gioco logiche partecipative, che magari non sono
gradite, oppure per favorire lo sgretolamento dell’idea storica di che cosa è il
sindacato, di ciò a cui serve il sindacato, per farlo andare più verso una logica
di servizio, che verso una logica di rappresentanza e di tutela.
Perciò suggerisco la lettura di questo documento: non sono moltissime pagine
e non sono neppure troppo tecniche, anzi sono scritte in maniera molto chiara
e semplice, in modo da consentire una lettura priva di tutte quelle complessità
che solitamente i teorici mettono nell’esposizione di questi argomenti: un documento che aiuta capire di che cosa stiamo parlando.
Ciò di cui stiamo parlando è legato da un lato all’idea di welfare che noi abbiamo, la quale è legata all’idea di mercato del lavoro che noi abbiamo, che a
sua volta è legata all’idea del ruolo dello Stato nel mercato del lavoro, al ruolo
delle parti sociali nel mercato del lavoro, del sindacato in particolare, ed anche
al ruolo dei tecnici e degli operatori, che assistono in termini di consulenza le
imprese nelle loro scelte.
Quindi non stiamo parlando di un tema che deve essere affrontato quando c’è
un’emergenza, ma di uno dei pilastri di una società, che ha l’ambizione di dare
delle garanzie, delle tutele a chi è in difficoltà, ma nello stesso tempo sa utilizzare le risorse, che poi si traducono in tutele, anche per progettare il cambiamento, per progettare l’innovazione. Quindi si tratta della ricerca di un sistema.
Questa relazione è molto importante, perché copre l’evoluzione storica degli
ammortizzatori sociali, ma si focalizza moltissimo sulla fase che va dall’inizio
della crisi, nel 2007-2008, fino ai nostri giorni. Essa ci parla di un sistema molto semplice ed anche molto razionale costruito sulla carta dal legislatore e di
come questo sistema sia stato tradito nella prassi applicativa, perché gestito
probabilmente in termini automatici, in termini deterministici, più su impulsi politici che su scelte condivise attraverso le parti sociali.
Il sistema è molto semplice: se un’impresa in difficoltà strutturale ha chiuso
il suo ciclo, quell’impresa deve chiudere con il minor impatto possibile sulle
persone che hanno lavorato in quest’impresa, che devono essere coperte nel
reddito per una fase di transizione verso un nuovo lavoro. Se invece l’impresa è ancora sana, è ancora forte, ha ancora prospettive di mercato, allora il
48
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
sistema di welfare deve intervenire per darle il sostegno temporaneo atto a
superare la crisi.
Quindi c’era un sistema ben preciso, che agiva attraverso la cassa integrazione
ordinaria e la cassa integrazione straordinaria. Poi nel 2001 si è inventata con
la legge finanziaria per il 2002 una forma diversa di sostegno al reddito per situazioni peculiari, che si chiama “cassa integrazione in deroga”, potenziata nel
2004 con la crisi del tessile e diventata infine uno strumento centrale dal 2008
in avanti per gestire la crisi.
Questa relazione è molto precisa nel dire che il legislatore in realtà nel 2008
aveva pensato – ed è qui il punto di aggancio con il ragionamento che vorrei
fare oggi – accanto al sistema coperto dalla cassa integrazione ordinaria e
straordinaria, ad un coinvolgimento, ad una valorizzazione dei sistemi bilaterali,
secondo una logica che si chiamava di cofinanziamento, per cui, se ci sono dei
sistemi bilaterali che mettono delle risorse in una situazione di difficoltà, lo Stato
partecipa cofinanziando l’intervento con una quota.
Era il decreto n. 185 del 2008, che costruiva un percorso per far nascere dei
sistemi più o meno consolidati bilaterali, che andassero a costruire un sistema
di protezioni nei settori in cui questo sistema non c’era, perché non era stato
proprio previsto, o perché si era in presenza di dimensioni aziendali ridotte.
La relazione è puntualissima nel dire che anche in quei settori che potevano
utilizzare questo strumento – si parlava in particolare dell’Artigianato, che già
aveva delle esperienze. in particolare in Veneto, che avevano ispirato il legislatore – si è scelta nel nostro Paese la via più comoda, che è stata quella della
cassa integrazione in deroga, anche quando era possibile o utilizzare lo strumento straordinario o attivare questi enti bilaterali.
Questo è il punto nodale del ragionamento: perché è importante oggi parlare
dei sistemi bilaterali per dare sostegno al reddito a chi perde lavoro o rischia di
perderlo, o comunque ha un lavoro sospeso, e dei sistemi bilaterali per aiutare
le persone a ricollocarsi nel mercato del lavoro?
È importante parlarne perché l’Italia è uno dei pochi Paesi che non hanno un
sistema adeguato al proprio sistema produttivo per le dimensioni aziendali che
ha, per le tipologie di aziende che ha, perché noi siamo ancora incentrati su
un modello di diritto al lavoro di tipo industrialista, per cui c’è un sistema che
ha retto in parte per l’industria manifatturiera, ma per il resto non sa come intervenire.
Voi lo vedete in continuazione, perché c’è sempre il dubbio interpretativo,
quando il legislatore interviene ed usa la parola “impresa”, se si sta rivolgendo
all’impresa in senso tecnico, o se si rivolge invece anche a chi opera in termini
imprenditoriali, ancorché non sia un’impresa, ma magari uno studio professionale o altro.
Il tema che affrontiamo oggi, non è dunque un tema banale, tecnico da relegare
appunto a delle tecnicalità, peraltro molto difficili da maturare, molto complesse, ma è il cuore della modernizzazione dell’intero quadro del mercato del lavoro, perché, se non abbiamo un sistema di ammortizzatori e di intermediazione,
incontro tra domanda ed offerta di lavoro, ricollocazione, riqualificazione –
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
49
sostanzialmente le politiche attive – non c’è un futuro del mercato del lavoro e
questa relazione lo indica molto bene.
Non avere un sistema, operare in deroga, operare per tentativi più o meno
riusciti di tamponare le emergenze regge fino ad un certo punto, poi questo
sistema crolla, perché finiscono le risorse, in quanto i sistemi in deroga sono
coperti dalla fiscalità generale.
Non è un caso che nel primo triennio della crisi, ovvero gli anni 2008, 2009
e 2010, l’Italia abbia tenuto benissimo nella gestione dal punto di vista degli
indicatori del mercato del lavoro, al pari di Paesi come la Germania, che hanno
fatto ampiamente ricorso agli strumenti di riduzione dell’orario di lavoro, compensata con delle integrazioni salariali.
In Germania la disoccupazione è al 6% e sta calando, aumenta il numero degli
occupati, invece noi sappiamo che dal 2008 ad oggi la disoccupazione in Italia
è raddoppiata ed è diventata ancora molto più grave, più rilevante per i giovani,
perché dal 20% siamo passati ad oltre il 40%.
Il sistema non ha retto, perché non era un sistema tale per cui l’intervento
emergenziale consentisse alle imprese ed ai lavoratori di utilizzare le risorse
non passivamente, ma per rimettersi in gioco, per rilanciare la produttività, lo
sviluppo, la crescita come impresa, come sistema produttivo, oppure, come
lavoratore, per rimettersi in gioco, per riqualificarsi e riproporsi.
Nel funzionamento degli ammortizzatori è mancato, come dice benissimo questa relazione, l’intervento delle politiche attive del lavoro.
In realtà sulla carta quel modello era perfetto, perché nel 2008, nel disegnare attraverso un decreto questo pacchetto anticrisi, il decreto n. 185, con gli
accordi Stato-Regioni, con gli accordi fatti con l’Unione Europea, si faceva il
tentativo di utilizzare questo ingente monte di risorse attraverso una logica volta
a compensare, a trovare un equilibrio tra la parte delle politiche passive e la
parte delle politiche attive del lavoro: un 70% era destinato all’integrazione del
reddito ed un 30% era funzionale a percorsi formativi di riqualificazione in caso
di sospensione, che sarebbero stati utili al reinserimento di un lavoratore, se
egli avesse perso il posto di lavoro.
La parte delle politiche attive non ha proprio funzionato, perché manca il sistema. È importante fare questo ragionamento, perché io intravedo per alcune
tipologie di impresa, per alcuni settori produttivi, quelli che non hanno la tradizione della cassa integrazione, la necessità non tanto di avere un nuovo quadro
legislativo, come viene prospettato, un sistema universale, che è tanto bello
sulla carta, tanto razionale sulla carta, quanto lontano dalla realtà, ma quella di
avere dei sistemi radicati nei territori, nei settori produttivi, per far camminare
queste leggi, per dare un contenuto a queste leggi.
Serve la formazione, servono le politiche attive, ma chi se ne fa carico? Se
ne fa carico l’attore pubblico? È in grado l’attore pubblico di farsi carico sia
dell’erogazione del sostegno al reddito, sia del controllo che il lavoratore venga
inserito in processi di formazione, o che gli venga proposta un’offerta alternativa e congrua di lavoro?
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Questo sistema non ha funzionato da noi e con le dimensioni aziendali di cui
stiamo parlando, per i settori di riferimento, mi pare ben difficile che possa funzionare. Diversa è invece la prospettiva, se questo sistema viene messo nelle
mani degli stessi protagonisti del settore di riferimento, che hanno un interesse
condiviso a che quel settore viva, a che quel settore guardi avanti, che faccia
delle scelte di prospettiva, non di breve periodo, ma di lungo periodo.
Io collocherei il tema degli enti bilaterali, con riferimento ad ammortizzatori e ricollocazione dei lavoratori, proprio in questa prospettiva. Cioè nella prospettiva
della modernità di un sistema che il nostro Paese non ha e che trovo difficile
venga costruito a tavolino.
E lo stesso il legislatore ne è ben consapevole, perché ha sempre la tentazione
– forte era nella bozza originale della legge Fornero, ma potrebbe tornare nella
realizzazione del Jobs Act – di dire: “Facciamo un sistema universale, per cui
tutti devono essere coperti e solo lo Stato può garantire questa applicazione
generale, senza affidarsi a dei corpi intermedi”.
Questo pone in gioco tutti gli attori, che sono coinvolti nella gestione del mercato del lavoro, per cui si tratta di capire qual è il futuro del sindacato, qual è il futuro delle associazioni di rappresentanza datoriale, che tipo di rappresentanza
avranno, che tipo di compito avranno, perché, se noi introduciamo nel quadro
delle regole una flessibilità, che non prevede mediazioni – si può assumere a
termine quanto si vuole – se prevediamo un salario minimo, che è lo standard
nazionale, che poi era il cuore del contratto collettivo nazionale, se prevediamo
un sistema universale di ammortizzatori per il sostegno al reddito in caso di
disoccupazione, stiamo togliendo ruolo al sindacato.
Non si tratta semplicemente di decidere se convocare il sindacato a Palazzo
Chigi oppure no: quella si chiama concertazione, che può piacere oppure no,
che si può volere in chiave evolutiva di dialogo sociale, di ascolto, ma poi le
responsabilità decisionali restano in capo all’organo politico.
Quello che è all’attenzione oggi dei media in realtà non è il vero problema o è
solo uno dei problemi, perché ogni Governo è libero di fare ciò che vuole dei
corpi intermedi nella costruzione dei testi legislativi. Qui non si tratta tanto della
costruzione del testo legislativo, quanto dell’idea di società, dell’idea di mercato, dell’idea di economia che c’è dietro e quindi dell’idea della rilevanza che
hanno le parti sociali, il sindacato, ma anche dell’idea che si ha in riferimento
agli operatori del mercato del lavoro ed anche agli operatori giuridici del mercato del lavoro.
Pare che oggi il mercato del lavoro non funzioni in Italia, perché da un lato c’è il
sindacato – ma anche l’associazione datoriale – e dall’altro lato perché il sistema è mortalmente complesso; invece qualcuno sostiene che si potrebbe fare
tranquillamente un quadro di regole di pochi commi, che potrebbe applicare
tranquillamente l’imprenditore, perché in realtà non c’è bisogno del consulente,
anzi le norme normalmente sono complicate proprio per dar lavoro al consulente e non consentire invece all’imprenditore quel rapporto libero e diretto, che
potrebbe avere con il lavoratore.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
51
Occorre dunque fare attenzione, perché il ragionamento che si sta portando
avanti, non riguarda solo il sindacato, ma riguarda anche il ruolo di altri soggetti
intermedi tra la legge e il cittadino, tra la legge e l’imprenditore, tra la legge ed
il lavoratore.
Questa è la visione che sta nascendo ora e lo vediamo benissimo nelle ultime
normative, con cui si vuole proprio eliminare non solo l’intermediazione sindacale e datoriale, ma anche l’intermediazione consulenziale, mediante la norma
chiara, semplice, di applicazione automatica, che qualunque imprenditore probabilmente riesce ad applicare per conto proprio.
Poi magari si farà – lo dico come battuta – una bella liberalizzazione anche degli ordini professionali – l’Europa spinge moltissimo su questo – così le grandi
multinazionali si occuperanno direttamente dei cedolini e delle buste paga dei
lavoratori.
È per questo che io dico che il terreno del confronto fra i consulenti, gli operatori
giuridici, il sindacato e le rappresentanze datoriali è quello dei sistemi bilaterali
– non tutti, non quelli che non funzionano, non quelli fatti da finte sigle sindacali,
che non sono rappresentative – per costruire un sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro, che serva a mantenere il posto dove è possibile mantenerlo, ma che serva, in base ai fabbisogni professionali, in base alle esigenze
dei settori di oggi e del futuro, a costruire questo matching.
Domani voi consulenti avrete un doppio interesse, perché, oltre ad essere consulenti dei datori di lavoro, che si chiamano imprenditori, siete anche datori di
lavoro come titolari dello studio professionale, quindi avete modo di osservare
entrambi le posizioni.
Questo è il primo messaggio che vorrei sottolineare: sebbene la normativa sia
messa un po’ di dettaglio, c’è sempre un modello centrale, anche sui sistemi
bilaterali di tipo pubblicistico, presso l’Inps, che vale per decreto.
La bilateralità nasce dal contratto, ma comunque poi interviene lo Stato, quindi
c’è un sistema alternativo e poi c’è un sistema residuale: ma non è solo questo
che ci stiamo giocando, ci stiamo giocando una visione del lavoro, la visione del
mercato del lavoro che c’è dietro.
Quindi io lo vedo la possibilità di una alleanza tra di voi, un’alleanza non facile,
perché occorre che questi soggetti operino in modo trasparente, che operino
per le esigenze del settore dei lavoratori, del settore delle imprese e non in
chiave autoreferenziale per altre esigenze, quindi c’è un processo molto importante da compiere.
Del resto Confcommercio ha firmato con i sindacati un accordo Interconfederale sui sistemi bilaterali, dando l’idea dell’importanza che c’è dietro a questo
tema, per cui oggi io vorrei ragionare con voi proprio su questa premessa di
visione, su questa premessa culturale, che è poi una premessa normativa e
giuridica.
So benissimo che nei manuali di diritto del lavoro, nei convegni questa è sempre considerata una materia marginale, tecnica per cui agli studenti del diritto
del lavoro normalmente non si spiegano gli enti bilaterali e tanto meno lo si
fa quando si parla di ammortizzatori sociali: ed invece potrebbero essere un
52
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
pilastro di questo processo di modernizzazione del mercato del lavoro, di cui
parliamo da 10-15 anni, ma che ancora non si vede.
La soluzione non sta nel liberalizzare in maniera più o meno marcata il lavoro
interinale, il lavoro a termine, o nello smontare l’apprendistato, la modernizzazione sta nel fare regole utili per i nuovi mercati ed i nuovi mercati sono dei
mercati molto più fluidi, dinamici, dove l’aspetto più importante non è il contratto
di lavoro.
Noi come operatori del diritto del lavoro ci siamo sempre incentrati sullo studio
del contratto individuale di lavoro o del diritto sindacale: i mercati moderni si
basano su un concetto molto più importante, che è legato alle transizioni occupazionali.
Le transizioni occupazionali sono gli spazi tra un contratto e l’altro, tra un lavoro
e l’altro: chi si occupa di questo? Chi si occupa di accompagnare le transizioni
occupazionali?
La Corte dei Conti è chiarissima: l’Italia non ha un sistema di monitoraggio
con riferimento alle crisi occupazionali aziendali, per controllarne l’andamento
e capire quando la situazione sta per diventare irreversibile, in modo che si
possa intervenire anticipatamente, prima che la situazione sia appunto non più
gestibile, se non attraverso deroghe, attraverso la finanza pubblica, che non c’è
più, e via dicendo.
Il ragionamento, che per me oggi vale la pena di fare, è proprio questo: ecco
perché io dico di non soffermare l’attenzione solo su un pezzo della legislazione
di riferimento, quindi sulla legge Fornero, o sul fatto che è stato comunque possibile – le proroghe sono significative, perché servono per dare il tempo di agire
alle parti sociali dei settori che per contratto non avevano le coperture della
cassa integrazione ordinaria o straordinaria – costruire questi sistemi.
Il tema non è solo farsi un nuovo sistema di protezione attraverso un fondo di
sostegno al reddito, attraverso un fondo bilaterale, attraverso un fondo residuale, ma è far funzionare questo strumento.
Domani Silvia Spattini si occuperà della tecnicalità, di come vengono costituiti
questi fondi, ma non è questo il tema, e non è neanche il tema quello delle
soglie, se sotto i 15 o sopra i 15 dipendenti. Forse non ci è chiara qual è la
media delle nostre aziende, che stanno quasi tutte ben al di sotto dei 15 dipendenti, per cui abbiamo costituito un sistema per una mediana di imprese, che
tendenzialmente non c’è e forse era più utile per voi andare verso un sistema
universale, costruire un sistema che comprendesse tutti, a prescindere dalle
dimensioni.
Però, al di là delle questioni tecniche, io volevo soprattutto evidenziare quest’altra questione: perché la scelta bilaterale e perché non la scelta pubblicistica?
Perché non fare come dice Renzi: “Siccome non c’è la cassa integrazione, ricorriamo ad un fondo residuale, ad un fondo pubblico gestito dall’Inps, per dare
un reddito a chi lo ha perso”?
Il tema è quello di un vostro protagonismo, capace di costruire un sistema alternativo, che chiaramente è possibile solo laddove esiste un insieme di sistemi
bilaterali consolidati, che andavano aggiornati e adeguati, perché il sistema bi-
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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laterale autonomo, non quello pubblicistico o mezzo pubblicistico, è quello che
consente di completare il ragionamento, cioè di avere tutti i pezzi del sistema.
Non l’ennesimo strumento di erogazione passiva di sostegno al reddito, visto
che nessuno sa dirci se occorre dare al lavoratore un sostegno al reddito, perché poi comunque l’attività prosegue, oppure occorre dargli un altro tipo di sostegno al reddito, perché l’attività si chiude ed è giusto che lui venga collocato
in un percorso finalizzato a trovargli un altro lavoro.
Chi può esercitare questo tipo di controllo? Un sistema bilaterale, se è costruito correttamente, può avere tutti i pezzi di questo ragionamento. Un sistema
bilaterale inteso non solo come welfare, non solo come protezione, non solo
come intervento passivo, che si deve comunque dare, ma innanzitutto come
strumento che conosce il mercato di riferimento.
Quindi una regola di intervento calibrata sulle logiche del settore: il Terziario,
gli studi professionali sono una cosa diversa dall’edilizia, dall’agricoltura, dalle assicurazioni, dal credito, dal trasporto aereo, dal trasporto ferroviario. Le
norme generali che si applicano a tutti i settori, sono norme che non operano
nel settore di nostro interesse, perché sono costruite ancora una volta per la
dimensione del modello industrialista.
Questa logica è importante, perché apre ad un pluralismo, quindi riconosce
le diversità, riconosce le identità dei settori ed anche, se si vuole, dei territori,
perciò è la logica di un mercato del lavoro vero, perché nasce dal basso e non
è costruita a tavolino dall’alto.
Questa è una prima acquisizione importante per convincersi di dover andare
in quella direzione: conoscenza del settore vuol dire possibilità di fare norme
adeguate. E poi ci porta dentro un sistema dinamico di gestione delle regole: la
cosa bella di un sistema bilaterale è che non si limita, come può fare una mero
esecutore di cose scritte dagli altri, ad applicare delle regole, ma dà vita ad un
contratto collettivo.
Il sistema bilaterale può dire: “Io ho un contratto collettivo che dura tre anni,
però questo contratto giorno per giorno vive attraverso persone, operatori, funzionari; non solo quelli di ciascuna delle due parti che lo hanno firmato, ma
quelli di una sede congiunta, condivisa, partecipata, che sta attuando giorno
per giorno quanto si è scritto sulla carta.”
Se si prendono in mano i contratti collettivi, ad esempio quello degli studi professionali, quello del Terziario ed altri, si vedrà che molti segmenti non sono
coltivati, non sono applicati, che ci sono tanti osservatori che producono poco,
tanti sistemi, come quello dell’apprendistato, quello della formazione, quello
dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro che sono utilizzati poco.
È un modo per rendere operative le regole: la logica bilaterale è un modo per
costruire quell’incontro tra domanda e offerta di lavoro che per me rappresenta
un capitolo molto importante, perché specialmente noi, consulenti del lavoro,
consulenti giuridici, veniamo da una tradizione per cui, una volta che abbiamo
chiuso il contratto, riteniamo di aver risolto il problema, di aver fatto adeguatamente la nostra consulenza.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
In realtà quando uno firma un contratto, fa nascere un rapporto, mentre il formalismo si ferma alla firma del contratto, allo svolgimento degli adempimenti,
delle comunicazioni, delle firme del contratto: tutto appare regolare e si aspetta
una controversia per tornare, noi giuristi, a dare il nostro parere su chi ha ragione o chi ha torto.
Invece il cuore di un’azienda, il cuore del lavoro sta nel rapporto che nasce da
un contratto e quindi la logica bilaterale può essere lo strumento che segue
quel rapporto, che segue quella relazione. Chiaramente se è un sistema bilaterale, che sa seguire la relazione, perché ne ha le competenze tecniche, progettuali, formative e quindi ha bisogno di contenuti, non è una sede bilaterale solo
perché si è fatto un organismo congiunto. Questa per me è la modernità delle
relazioni di lavoro: meno formalismo, meno Stato, più società.
Sono relazioni tra persone che vogliono semplicemente stare bene: l’impresa vuole crescere, il lavoratore vuole avere certezze, sicurezze, un guadagno
giusto rispetto allo sforzo che fa. Se c’è dietro un sistema, è molto più facile
e lo vediamo dalle genesi di rapporti che fanno fatica a partire, come quello
dell’apprendistato: l’azienda, il datore di lavoro, l’apprendista non riescono ad
incontrarsi, perché non c’è un sistema.
Un contratto che fa nascere una relazione, che ha un contenuto formativo, che
ora non c’è, rispetto ai fabbisogni professionali del settore, attraverso percorsi
formativi, che ora non ci sono, coerenti con i fabbisogni, con una certificazione
delle competenze, che ora non c’è, coerente ai sistemi di classificazione e inquadramento: manca tutto questo sistema, quindi la logica bilaterale dovrebbe
servire proprio a costruirlo.
Se ci fosse questo primo aspetto, se ci fosse questo sistema, il sistema del
mercato, il sistema dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, quindi non
solo la tipologia contrattuale (stabile, precario, a termine, intermittente), ma ci
fossero i contenuti, quindi anche ciò che per noi giuristi è importante – l’oggetto
del contratto è il lavoro, è la mansione, è la prestazione – si potrebbe dare
maggiore spazio alle logiche sostanziali del rapporto: la produttività, la crescita,
la congrua remunerazione per la prestazione che viene resa.
Il primo tassello del ragionamento è dunque la costruzione di questo modo di
fare incontro tra domanda e offerta di lavoro. Ma questi sistemi bilaterali, che
poi possono anche intervenire per il sostegno del reddito in una fase di difficoltà
temporanea, strutturale, sono operatori del mercato del lavoro? Sono soggetti
autorizzati a fare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro? Sono forse il frutto
di scelte fatte per mettere insieme i fondi interprofessionali, quindi la parte attiva
con la parte passiva? Le opzioni sono delle parti sociali: stanno nel contratto
collettivo, ma sono scelte che hanno delle conseguenze molto importanti.
Io posso scegliere di non fare un sistema gestito dalla contrattazione collettiva
fino in fondo in via autonoma, posso scegliere di non fare nulla sul fondo residuale, di andare sull’Inps, posso scegliere di costruire un sistema di fondi che si
fa dare anche l’autorizzazione per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro?
Sono scelte che hanno delle conseguenze completamente diverse, per cui io
vedo due prospettive di ragionamento. Io vedrei molto bene una rilettura della
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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riforma Fornero, della sua applicazione ed evoluzione, insieme a tutto quello
che ci doveva essere prima: in particolare la legge Biagi, gli articoli dal 3 in
avanti, in particolare l’articolo 6, ma anche l’articolo 7, che sono gli articoli sui
regimi di autorizzazione speciale all’incontro tra domanda e offerta di lavoro e
che riguardano il sistema degli accreditamenti regionali per la rete dei servizi,
che è poi quella che fa le politiche, quella che prende in carico le persone, gestisce i posti di lavoro, gestisce i bandi pubblici regionali e via dicendo.
Se io voglio costruire un sistema di tutela del reddito, che non sia quello che
abbiamo ereditato, che non sia l’emergenza per tappare un buco o una deroga
alla legge per buttare soldi pubblici, che poi finiscono, ma che sappia usare
quelle poche risorse pubbliche che abbiamo, o le risorse che nascono da coperture assicurative dentro i sistemi bilaterali, o addirittura da logiche congiunte
con il cofinanziamento, per cui un po’ ci mette lo Stato ed un po’ ci mette il
sistema bilaterale, se voglio che queste risorse non vadano spese perché finiscano, ma siano spese perché sono un investimento, io devo avere in mano la
costruzione del mercato del lavoro, quindi devo sapere quali sono i fabbisogni
professionali, perché solo così posso capire che cosa può fare la persona che
è sospesa, o la persona che ha perso il lavoro.
Ma perché fare la fatica di scegliere il percorso bilaterale e non invece il percorso pubblico? Il percorso pubblico lo conosciamo, lo abbiamo visto in maniera
enfatica il 1 maggio con il lancio di Garanzia Giovani, la più grande misura di
politica attiva, ancorché pensata solo per i giovani, volta a dare orientamento,
presa in carico, formazione a partire dal 1 gennaio … e poi il 5 maggio abbiamo presentato l’ennesimo portale per l’incontro tra la domanda e l’offerta di un
lavoro, che non c’è. Tra l’altro un portale nazionale, quando poi le risorse e le
offerte sono di tipo regionale.
Dico questo per sottolineare che da noi non c’è un sistema pubblico di incontro
tra domanda e offerta di lavoro, che non è tanto e solo un discorso di centri
per l’impiego, che possono funzionare o non funzionare, ma dovrebbe essere
proprio un sistema di raccordo fra le varie fasi delle transizioni occupazionali,
dalla prima transizione scuola-lavoro alle successive transizioni da un posto
all’altro.
Il sistema pubblico non c’è: è da anni che ci promettono la riforma del collocamento e dei sistemi per l’impiego, ma ora si aboliranno le province e quindi non
sappiamo che cosa succederà di questo segmento, perché oggi le province sono
il perno delle politiche attive e dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro.
Di fronte a questo vuoto, che porterà il sistema universalistico pubblico della
Fornero ad erogare passivamente risorse e a non fare politiche attive, come
certificato dalla Corte dei Conti per gli anni passati, noi abbiamo la possibilità di
costruire un vero sistema per la vera realtà italiana, che, piaccia o non piaccia,
è fatta di imprese sotto i 15 dipendenti, di imprese che vogliono vivere, che
sono genuine, che non vivono di relazioni politiche.
Io richiamavo dunque le logiche dei sistemi di autorizzazione e accreditamento
al placement, ma poi il discorso si può aprire anche su altri versanti: la certificazione dei contratti, i sistemi di qualificazione delle imprese, la previdenza,
56
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
la sanità; possiamo aprirlo a tutto, perché questo ancora una volta è molto più
di un sistema pubblico di incontro fra domanda e offerta di lavoro o di welfare,
questo è un modo di fare rappresentanza e di accompagnare il cambiamento
del mercato del lavoro.
Noi oggi siamo fermi a questa contrapposizione fra chi ama il decreto n. 34,
perché liberalizza il contratto a termine, e chi dice che invece era meglio liberalizzare il tempo determinato, ma stiamo parlando di un modello vecchissimo
di lavoro, di organizzazione del mercato del lavoro: la subordinazione propria
dell’impresa fordista, che non c’è nello studio professionale, che non è l’impresa di Servizi che voi conoscete, che non è l’impresa del Turismo, del Terziario,
del Terziario avanzato, perché è cambiato il modo di lavorare, sono cambiate
le logiche della produttività, le competenze richieste, il valore della prestazione
che ciascun lavoratore rende in base alle competenze che ha.
Questo perché l’impatto tecnologico fa differenziare moltissimo due lavoratori,
che magari operano fianco a fianco, infatti c’è chi ha delle conoscenze e delle
competenze, delle abilità nell’uso delle tecnologie, che magari il collega non
ha, per cui la produttività diventa veramente una variabile incredibile. Quindi la
logica bilaterale di lettura, non solo di quello che sta nel contratto, ma di quello
che sta fuori dal contratto, prima del contratto, durante il contratto e dopo il
contratto, è tutto.
Sarebbe un’idea nuova della rappresentanza del mondo del lavoro: io sindacato mi occupo non solo di tutelare chi ha un lavoro, ma mi occupo anche di
capire, nel settore produttivo in cui opero, come sarà quel mercato tra due-trecinque anni.
Lo stesso vale per i consulenti: quando il consulente dà un’assistenza tecnica,
una consulenza alle imprese che segue, non sta dando solo una risposta tecnica ad un problema pratico del momento, sta orientando quell’azienda, quell’im
presa a fare delle scelte, che sono scelte di investimento sul futuro. Se le scelte
sono sbagliate, quell’impresa chiuderà e noi abbiamo visto che dalla crisi in
avanti molte imprese hanno chiuso.
Se un’impresa chiude, non solo chiude l’impresa e i lavoratori vanno a casa,
ma anche il consulente perde il suo bacino di clienti. Quindi è nell’interesse di
tutti costruire un sistema nuovo, che non sia più quello formalistico, che andava bene per le imprese fordiste con delle logiche formalistiche più giuridicodogmatiche, legate alle tipologie, agli obblighi, ai doveri, ma che sia un sistema
di relazione.
Quindi la logica bilaterale ha questa funzione: io non l’ho mai vista nell’ottica
dei servizi, io la intendo come modalità di tutela, di accompagnamento, di garanzia del sindacato per i lavoratori, delle parti datoriali o dei consulenti per le
aziende e magari del consulente nell’ottica di entrambi, per la terzietà che lo
contraddistingue.
Domani vedrete nel dettaglio di che cosa stiamo parlando, delle diverse tipologie, ma teniamo ben presente che questo ragionamento ha un senso se mettiamo questi piccoli frammenti informativi, le poche esperienze che ci sono, dentro
un sistema che attualmente non c’è.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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E la cosa bella è che in questo caso il sistema non viene costruito dal legislatore, che ogni anno fa una legge e poi la cambia, in questo caso il sistema può
essere costruito da voi, dai sindacati con le rappresentanze datoriali, dalle rappresentanze delle parti sociali avvalendosi dell’apporto tecnico dei consulenti,
che conoscono le materie, le normative, le problematiche.
Questa è la sfida dei sistemi bilaterali nell’ottica del raccordo tra politiche attive
e politiche passive, quindi non è solo una questione di sostegno al reddito e
delle varie articolazioni che la normativa ci indica, ma è proprio la costruzione
di un mercato del lavoro, la costruzione di un settore produttivo. Ecco perché,
a questo proposito, servirebbero delle scelte, che non siano meramente tecniche, ma che siano proprio scelte di rappresentanza.
Se la scelta la fa l’associazione datoriale, la fa Confprofessioni, la fa Confcommercio, la fa Federdistribuzione, ma fa una scelta diversa dalla CISL, dalla UIL,
dalla CGIL, non si va da nessuna parte. Se invece queste scelte, che sono scelte di identità associativa, di cambiamento della rappresentanza, vengono fatte
in sedi condivise, queste scelte hanno probabilità di essere operative, hanno
probabilità di procedere.
Questo chiaramente impone – qui in casa CISL è facile fare questo discorso
– un problema legato innanzitutto alla riqualificazione non tanto dei lavoratori,
che devono essere protetti, ma degli operatori di questi enti bilaterali: questo
è un compito molto delicato, molto difficile e c’è bisogno di competenze molto
importanti.
Quanto alle competenze, in altri Paesi, come ad esempio la Germania, ai sindacalisti viene chiesto di saper leggere i bilanci aziendali, le prospettive macro
economiche e quelle micro aziendali del settore produttivo, mentre forse la via
italiana alla partecipazione porta invece a saper leggere il mercato del lavoro,
a saper leggere i fabbisogni professionali.
Ma chi fa la mappatura dei fabbisogni professionali oggi? Credo nessuno. Che
cosa serve agli studi professionali, come sta evolvendo la figura dello studio
professionale nelle sue diverse articolazioni, quali analisi abbiamo? Non le analisi fatte da uno studio, da una piccola università, ma quelle fatte dal settore di
riferimento? Come queste analisi dei fabbisogni vengono lette in dialogo con
l’attore pubblico, che è regionale? Chi dialoga con l’attore pubblico? Le rappresentanze separate? Le rappresentanze separate sul lavoro fatto in via congiunta attraverso gli enti bilaterali? Come potrà una Regione costruire i repertori delle professioni e quindi poi destinare le risorse finanziarie per la riqualificazione
e la ricollocazione, se non conosce i fabbisogni, i profili e le competenze?
Noi abbiamo un contratto bellissimo, come quello del Commercio, che sui sistemi di classificazione e inquadramento dà l’etichetta – quello è il vetrinista,
quella è la commessa – ma non dice chi è, che competenza deve avere. Non lo
diceva nel passato e non lo dice neanche oggi, che le competenze sono cambiate, quindi non specifica da dove viene il lavoratore, che formazione deve già
avere, quale formazione deve ricevere in azienda.
I fondi interprofessionali quindi agiscono, ma non sanno come formare: si veda
il caso del fondo interprofessionale For.Te, che fa il 95% di formazione come
58
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
formazione d’aula, non in situazione di compito, una formazione di tipo trasversale sulle classiche materie che vengono fatte, perché è comodo farle, dall’informatica alle lingue, e non invece una formazione mirata, fatta sulle esigenze
espresse dal settore.
È chiaro che un lavoratore di quel settore, quando perderà il proprio lavoro,
potrà aspirare a beneficiare di un sussidio ed il nostro Paese è uno di quelli
che garantisce ancora un sussidio in via ordinaria, o straordinaria, oppure in
deroga, anche se poi non sappiamo che cosa succederà quando verranno progressivamente meno le risorse per le casse in deroga, se partiranno i sistemi
bilaterali, se verrà applicata questa nuova riforma.
Da noi c’è l’erogazione del sussidio, ma non si sa che cosa far fare alla persona
che lo riceve e quindi questa preziosa risorsa pubblica rischia di essere buttata
via, di essere un tesoro sprecato, perché non è valorizzato. Le risorse sono
poche e dovrebbero essere raddoppiate per essere investite in veri percorsi
formativi: l’informazione è cieca se non c’è qualcuno che la guida.
Ci affidiamo alla Regione? Ci affidiamo alle agenzie accreditate a livello regionale per la formazione? Forse è meglio affidarsi al sistema bilaterale, che
conosce quello che serve a quel settore e dice: “Quel lavoratore riceve delle
risorse per il sostegno al reddito: è importante cominciare a pensare ad una
sua riqualificazione, perché possa rientrare in azienda, se la sospensione è
solo temporanea, più forte di prima, più competente di prima; o se invece sta
per lasciare quell’azienda, affinché venga attrezzato per essere più forte sul
mercato del lavoro”.
A quel punto la logica basata sulla contrapposizione lavoro temporaneo, lavoro a tempo determinato verrebbe meno, perché il lavoratore giocherebbe su
quello che sa fare e non sarebbe invece preda della disperazione e della paura
che, se perde il contratto, perde tutto, perché non sa chi può assumerlo, chi lo
conosce, chi gli certifica le competenze. Tutto questo segmento del ragionamento attualmente manca.
Quando parliamo di enti bilaterali, ognuno ha una sua idea e una sua rappresentazione di cosa essi possono essere e qui ci sono grandi limiti nel nostro
modo di atteggiarci nei confronti degli enti bilaterali, perché, se uno opera nel
Terziario, non sa come operano nell’Artigianato, nel Turismo, come operano le
casse edili e via dicendo.
È come quando si parla di sindacato: si dice che il sindacato non va bene, ma
ci sono tanti sindacati e tanti modi di fare sindacato. Così ci sono tanti modi di
fare bilateralità e di essere bilateralità.
Qui viene il secondo messaggio importante: noi stiamo parlando di fondi bilaterali, di organismi bilaterali, di organismi che hanno uno statuto, hanno dei
compiti, delle risorse, dei modi di gestione, ma quello che emerge, mettendoli
insieme uno ad uno, è una filosofia che si chiama bilateralismo, che va ben oltre
il singolo corpo, che va ben oltre il singolo organismo, ma è proprio la filosofia
di riferimento.
Io penso che dopo tanti anni, fra le parti sindacali, ma anche fra i consulenti,
deve emergere una visione positiva verso il bilateralismo, specialmente a fronte
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
59
di un Governo che non condivide il trilateralismo (Sindacato, Imprenditori, Governo), che si chiama concertazione, ma lo definisce consociativismo, dice che
consiste nel subire veti, nel subire ricatti.
Ma quello è un versante politico nazionale, che ci interessa molto di meno, qui
invece c’è il bilateralismo, cioè l’essere protagonisti e padroni del proprio futuro:
questa è la battaglia da combattere. Invece di aspettare che intervenga la politica, per poi metterci le mani nei capelli, è meglio contare sulle nostre risorse.
Il nostro è un Paese di scarica barile, per cui c’è lo Stato che deve dare e noi
pronti a criticare lo Stato, perché è inefficiente, perché è elefantiaco, perché è
in ritardo, perché non capisce i cambiamenti; ma lo Stato siamo noi e lo Stato
è fatto dai cittadini che votano i politici, dai cittadini che decidono di iscriversi
o di non iscriversi al sindacato, dai cittadini che sono operatori qualificati del
mercato del lavoro.
Quando il Presidente dei consulenti del lavoro parla dei nuovi compiti da dare
in via sussidiaria alla categoria dei consulenti, vuol dire questo: vi sta includendo in quel numero di soggetti che, accanto ai corpi intermedi tradizionali del
sindacato e delle associazioni datoriali, hanno un ruolo utile per avvicinare lo
Stato al cittadino; quindi non si tratta solo di essere protagonisti ma di essere
responsabili.
Si può dunque aprire l’altro capitolo, su cui si può parlare a lungo, della responsabilità: un conto è il modello, un conto è la sua attuazione, un conto è il
modello, un conto è come viene costruito e condiviso ed altra cosa è poi come
questo modello viene attuato bene, oppure viene attuato malamente e, nell’attuarlo malamente, si getta discredito non solo sull’operato di chi ha agito, ma
anche sul modello in sé.
Con molti di voi abbiamo già provato a fare varie volte un passo in più: quattro o
cinque anni fa parlare ai consulenti degli enti bilaterali non era molto popolare,
anzi, questi venivano visti come elementi di disturbo. Io ora non voglio parlare
di cattive pratiche, che magari ci sono state, o che ci sono, o ci saranno, ma
questo c’è nel sindacato, nei professori universitari, c’è anche nei consulenti e
via dicendo: è nella natura delle persone fare errori, farli talvolta in buona fede
e a volte invece in malafede.
Io oggi vorrei chiudere con voi, chiedendovi se condividiamo una modello: fino
ad oggi abbiamo fatto una battaglia, a prescindere dalla sua attuazione, sull’ente bilaterale, sul sistema bilaterale, sulla loro funzione, ci siamo chiesti se sia
solo un appesantimento burocratico, un impiccio in più.
Quando io vedo che smontano l’apprendistato, perché dicono che è pieno di
burocrazia, ed in essa mettono l’ente bilaterale, io vedo che smontano il sistema dell’apprendistato di quel settore. Per qualche imprenditore smontarlo è
una comodità, ma se poi gli domando se ha fatto la formazione all’apprendista,
si scopre che la formazione non è stata fatta.
Dunque l’apprendistato è facile, se non c’è formazione, se non c’è un piano
formativo, una verifica in entrata ed una in uscita, una certificazione delle competenze e magari una presa in carico del profilo, se c’è una crisi aziendale o
una difficoltà di qualche tipo.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Questo è il tema: si può non affrontarlo, andare sul sistema pubblico, chiedere
che Renzi crei un sistema universale, che, come tale, è pubblico – e questa
è la richiesta di una parte del sindacato – o aderire alle logiche bilaterali, che
al limite possono fare qualcosa di diverso, oppure prendere atto che spetta a
ciascuno di noi costruire un pezzo di questo sistema.
Questo è il ragionamento che si fa sul modello e quindi non si considera la
legge Fornero a se stante. Sappiamo che nel progetto originario della legge
Fornero il sistema bilaterale non era incluso, ma è stato aggiunto in extremis,
controvoglia, a malincuore. E forse a ragione, perché, se poi le parti sociali impiegano così tanto tempo a decidere se applicarlo o non applicarlo, se interessa o non interessa, è chiaro che così si forniscono molti alibi e molti argomenti
ai detrattori di questo modello.
Però questa normativa va letta insieme a quello che la precede, a normative
che sono ancora vigenti e che partono nel 2003 con la legge Biagi, a cui si
aggiunge l’impianto della legge n. 185: la Corte dei Conti valorizza molto il fatto
che queste norme consentivano e consentono le logiche di cofinanziamento.
Tutti spunti ed elementi importanti e positivi: mancano forse la voglia o la capacità progettuale di mettersi in gioco ed accettare queste dinamiche.
Vi consiglio di leggere almeno le raccomandazioni della relazione della Corte
dei Conti, che si trova nel sito della Corte alla voce “Ammortizzatori sociali” e
che si trova anche in testa al Bollettino del sito adapt.it. Nella sintesi si dice
che il problema non è tanto né solo quello degli ammortizzatori sociali. Non
pensiamo che i fondi di solidarietà, i fondi bilaterali siano solo un tema di ammortizzatori: a questo abbiamo sempre sopperito con le norme in deroga, che
hanno funzionato, anche se avrebbero potuto funzionare meglio. Qui la Corte
dei Conti, che è attenta alla spesa pubblica, dice che è stata una spesa a perdere, che sono state spese male le poche risorse disponibili.
D’altra parte la vicenda di corruzione dell’Expo 2015 dimostra che, là dove
ci sono tante risorse disponibili, prospera il malaffare, per cui meglio sarebbe
che le risorse fossero sottoposte al controllo sociale degli enti bilaterali, i quali
devono rispondere alle persone che rappresentano, perché ne va della loro
credibilità e della loro logica di rappresentanza.
Altrimenti il sindacato o l’associazione datoriale scompaiono non perché è il
Governo che dà le spallate, ma perché non sono ritenute più credibili dai lavoratori e dalle imprese. Renzi sta dando questa spallata alle parti sociali ed
insiste su questo terreno, lanciando continue provocazioni, perché sa che gli
elettori vedono negativamente dei fenomeni che sono invece importantissimi.
Vogliamo una società senza corpi intermedi, senza rappresentanza? Una società così è una società veramente debole, che non ha la capacità di costruire una
visione per il futuro, per cui è in gioco molto di più dell’aspetto previdenziale.
So benissimo che stiamo parlando di una logica di erogazione di prestazioni
previdenziali, che domani vedrete nel dettaglio tecnico giuridico ed anche operativo, con le prassi delle esperienze che stanno nascendo, però ha molto più
valore legare questo aspetto del sostegno passivo a quello che proprio la Corte
dei Conti dice essere la massima criticità: non bisogna buttare via le risorse, ma
utilizzarle veramente, per rafforzare il lavoratore e l’impresa.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
61
Quindi occorre maggiore certezza nel dire quando un’impresa deve chiudere e
non si può continuare a darle sostegno al reddito come se tutto andasse bene.
Ma chi fa queste scelte? Chi si prende la responsabilità di queste scelte? Finora
in Italia non l’ha fatto nessuno. Bisogna invece poter capire quando l’impresa
non c’è più, quando deve chiudere, che cosa bisogna far fare delle persone
che vi operavano.
Questo è il dramma italiano, legato al fatto che sanno tutti benissimo, i lavoratori per primi, che, se perdono il lavoro, poi difficilmente rientreranno in azienda,
perché non c’è niente, c’è il deserto.
C’è l’attore pubblico, ci sono i centri per l’impiego, c’è l’Inps, c’è il sistema di
previdenza, ma ad un certo punto scadono le coperture previdenziali, passa il
tempo, cambiano i Governi, ci sono meno risorse pubbliche, non c’è il decreto
che dà l’autorizzazione ad erogare il sostegno e chi è stato espulso dal mondo
del lavoro, o si mette a lavorare in nero, o sfugge, non cerca più lavoro, cosa
che noi non possiamo più permetterci.
Questo significherebbe infatti distruggere i territori in cui il consulente opera e,
se il territorio è povero, anche il consulente ci rimette a livello professionale e,
se il territorio è povero, anche il sindacato è in difficoltà, perché non riesce a
dare risposte alle persone che rappresenta.
Spero di aver fatto capire perché credo che valga la pena fare questa scommessa: una scommessa che tuttavia si può anche perdere. Infatti chi legge il
testo della Corte dei Conti, saprà che la scommessa rischia di essere persa,
perché non saremmo arrivati alla riforma Fornero fatta in questo modo, agli
esodati e a tutto il resto, se gli articoli 18 e 19 della legge n. 185 fossero stati
applicati.
Mi ha stupito leggere che la Corte dei Conti, che è un organismo pubblico, che
è una magistratura, dice che quella era una strada importante e positiva. Mi
stupisce che parli bene dei sistemi bilaterali non un giurista, un consulente o un
sindacalista, ma la Corte dei Conti, e non degli enti bilaterali della Fornero, ma
di quelli che erano nati – ed in quel caso erano molto più genuini – nella logica
del cofinanziamento dentro il decreto n. 185.
Il paradosso è che la Corte dice che è incredibile che i settori, che erano i più
maturi, pronti per usare queste risorse, per farsi il sistema, abbiano scelto la
scorciatoia comoda della cassa integrazione in deroga, di cui ora noi vediamo
gli esiti: risorse che stanno finendo e non sono certe ed incertezza su che cosa
far fare alle persone che a questo punto hanno esaurito le coperture della politica passiva.
Mi è piaciuto molto il titolo di questo convegno “Bilateralità, ammortizzatori e
ricollocazione”: questo è l’impianto. Avete avuto l’intervento di Marco Lai su che
cosa sono i sistemi bilaterali e a che cosa servono – la visione e l’impianto – la
logica degli ammortizzatori, che però non può funzionare, se non c’è la logica
delle politiche attive.
Altrimenti ripeto che tanto vale non fare questa scommessa sui sistemi bilaterali: se pensiamo di mettere in piedi un piccolo organismo bilaterale, tanto
per erogare qualcosa, sappiate che questa soluzione non funzionerà. Questo
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
funziona – e funziona molto meglio del pubblico – se è incardinato nel mercato
del settore di riferimento e quindi si occupa anche della formazione, della riqualificazione, che si può fare, se si conosce il settore, se si sanno individuare i fabbisogni professionali e leggere le tendenze del mercato di riferimento in Italia e
nel mondo, se si sa costruire il matching, e quindi, quando si ha la persona in
difficoltà di fronte, la si sa inserire nel binario più opportuno.
Non basta dire: “Ti do il sostegno”, ma bisogna dire: “Ti do un percorso ragionevole, plausibile, perché tu possa con la testa alta, con dignità ritornare presto e
bene sul mercato del lavoro”.
Questo è il sistema che da noi manca: noi negli ultimi anni parliamo solo di
contratti a termine, di articolo 18, di flessibilità in entrata e in uscita, mentre io
ribadisco che quello che a noi deve interessare – perché altrimenti la produttività non cresce – è quello che sta dentro il contratto e non quello che sta prima
o dopo il contratto.
Al lavoratore occorre poter dire: ”Non mi interessa sapere come sei andato in
crisi, non mi pongo il problema di come esci, mi pongo il problema di cosa farti
fare quando sarai di nuovo dentro, per renderti utile, per farti crescere professionalmente, perché, se cresci tu, cresce la mia azienda e comunque ho delle
reti di protezione sociale, preferibilmente e plausibilmente bilaterali, che ti sanno prendere in carico, riorientare accompagnare lungo i tuoi percorsi”. Sarebbe
bello costruire un percorso di presa in carico.
Noi adesso stiamo parlando ancora una volta chiaramente in termini settoriali
e comunque in termini un po’ astratti: sarebbe interessante che questi sistemi
bilaterali prendessero in carico le persone che entrano a far parte del settore
dal primo giorno in cui vi entrano come ragazzi, giovani, stagisti, apprendisti,
lavoratori interinali, lavoratori a termine e che costruissero con loro un percorso
professionale, non un percorso di carriera aziendale, di cui si occupano l’azienda ed il lavoratore stesso.
Un percorso che prenda in carico quella persona in maniera attiva e la accompagni verso un suo radicamento dentro quel settore per le specializzazioni che
ha, per le qualifiche che ha, per le competenze che ha, per gli appuntamenti
formativi e di qualificazione che gli vengono ragionevolmente prospettati.
Sentiremo ora le vostre richieste di approfondimento, che mi giungono particolarmente gradite, perché è piacevole scambiare opinioni con chi opera fattivamente nel settore, nel territorio, per capire se c’è spazio per costruire questo
percorso. Ma perché non lo si è fatto nel 2008? Perché non lo si è fatto addirittura nel 2003 nei momenti decisivi.?
So che la FISASCAT sta facendo partire un portale per l’incontro tra domanda
e offerta di lavoro e questa cosa ha un senso incredibile: se io ho un portale per
l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, posso metterci i percorsi professionali
di chi ha questi sussidi, per sostenerne l’uscita dall’azienda in cui si trovava.
Il portale di Borsa Lavoro oggi non esiste, Clic Lavoro è un motore di ricerca,
insomma: non ci sono strumenti. È paradossale che ci sia tantissima gente che
cerca lavoro, che non si sa dove sia, non si sa dove cercarlo. Alcuni centri per
l’impiego tengono nascoste le liste in maniera gelosa, gli operatori che ci fan-
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
63
no il business – le grandi agenzie del lavoro – non le danno, invece voi avete
capito che è nel vostro interesse creare la circolazione di queste informazioni,
che sono persone, sono storie, sono competenze, sono professionalità, le quali
costituiscono la ricchezza ed il futuro di un settore. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Ringraziamo Michele Tiraboschi del suo prezioso contributo.
Riprendendo la metafora del Sagittario di questa mattina, possiamo dire che ora
stiamo seguendo la traiettoria della freccia: a questo punto si tratta di riempire
questa visione strategica di esperienze che vadano in questo senso. La parola
dunque a voi per l’esposizione di vostre eventuali esperienze in questo ambito.
ANNETTE LERNA
(Segretario FISASCAT-CISL Milano Metropoli)
Parto da una cosa concreta, la quale mi ha provocato un po’ di amarezza: la
vertenza dei lavoratori delle farmacie municipalizzate. Più di 40 persone di età
adulta ed anche over 60, a fronte degli strumenti proposti dalla FISASCAT, hanno alla fine accettato solo del denaro, perché, ahimè, non possiamo costruire
questa strada da soli e la FILCAMS CGIL ha chiesto appunto di monetizzare
l’outplacement.
Mi spiace dirlo, perché mi appassiona moltissimo il modello ed è qualcosa in cui
credo: è una sfida interessante e vorrei poter dire alle persone, che vengono
quotidianamente, perché perdono il lavoro, che io so dove mandarle, perché
qualcuno le possa aiutare a ritrovarlo. Però anche un territorio vissuto come
ricco, qual è quello di Milano, ancora non ha acquisito questa mentalità.
Ci terrei a dire una cosa a proposito del fabbisogno formativo, siccome è una
cosa che da anni mi inquieta. In passato ho partecipato alle commissioni politiche del lavoro della Provincia di Milano e siccome l’associazione degli artigiani
diceva che essi avevano bisogno di parrucchieri ed estetiste, la Provincia organizzava la formazione in base alle esigenze particolari degli artigiani.
Ed io continuavo a chiedermi: “Ma Milano ha veramente bisogno di tutti questi
parrucchieri ed estetiste?” A me sembrava strano il rapporto tra le tante risorse
investite nella formazione ed un numero così elevato di operatori di questo
settore.
Sempre ragionando sul fabbisogno, mi sembrava di essere continuamente alla
rincorsa e dicevo: “Non si può fare un’analisi previsionale? Non si può sapere
che cosa vuole veramente il mercato?” Mi rispondevano che i tempi di preparazione dei lavoratori non coincidevano, per cui, una volta finito di preparare quei
lavoratori, essi non servivano più. Riporto questa cosa perché non ho capito
come si esce da questa situazione.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Quanto ai centri per l’impiego, non solo sono gelosi delle loro liste, ma hanno
una percentuale bassissima di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, quindi
occorre capire, in una riorganizzazione istituzionale e politica del settore, se
qualcuno ha qualche idea per migliorarne il funzionamento. Grazie.
LOREDANA NICOLI
(Consulente del Lavoro Bergamo)
Mi rifaccio a quanto ha detto la collega sindacalista per quanto riguarda la
mappatura dei fabbisogni: nella mia esperienza lavorativa, anche se sinora si
tratta di un’idea utopica, che non sono ancora riuscita a realizzare, vorrei che
la politica attiva della riqualificazione e della ricollocazione fosse strettamente
collegata alla mappatura dei bisogni del mercato.
Io personalmente sono stata docente di alcuni corsi organizzati dalla Provincia
di Bergamo per la riqualificazione di persone estromesse dal mondo del lavoro,
perché potessero poi essere riassunte, ma anche in quel caso si era fatto un
discorso di fantasia, nel senso che si era deciso che in quel periodo c’era bisogno di personale all’interno degli studi professionali – che fossero di commercialisti, che fossero di avvocati, che fossero di medici o quant’altro – per cui si
è costruito un percorso di riqualificazione di quelle persone soltanto in funzione
di quelle figure.
Come può essere organizzata una mappatura dei fabbisogni delle figure lavorative? Come possiamo noi, operatori del settore, aiutare gli enti pubblici
deputati a questo, per far sì che effettivamente si organizzino dei corsi di riqualificazione che siano fruttuosi, che siano utili alle persone che devono essere
riqualificate?
Proprio a ieri risale un’altra mia esperienza del tutto negativa. Sono d’accordo
su tutte le politiche attive, però noi dobbiamo pensare che purtroppo l’italiano
– e parlo di parecchi milioni di persone – ha ancora in testa l’idea di uno Stato
assistenzialista e gli anziani trasmettano questa idea ai giovani
Un mio cliente ieri mi dice: “Io vorrei assumere un giovane come apprendista
da giugno a settembre”. Al che io gli rispondo: “Da quel che ho capito io, è uno
studente, che vuole trovare occupazione nel periodo estivo: il percorso più opportuno sarebbe uno stage curricolare estivo”. Risposta: “No, è il figlio di mio
cugino, il quale vuole che il figlio abbia una copertura assicurativa pensionistica
per il futuro”. Grazie.
NICOLA PEGORARO
(Operatore FISASCAT-CISL Vicenza)
Noi sappiamo benissimo che i centri per l’impiego stanno fallendo come operazione sociale: l’anno scorso a me è successo che abbiano lasciato a casa 15
persone che lavoravano nelle cooperative sociali e si trattava di professionisti,
che seguivano malati che avevano bisogno di assistenza medicale.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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Non è possibile che nel 2014 queste persone non siano collocate da un centro
per l’impiego e che nessun centro per anziani abbia bisogno di persone che
hanno lavorato per 15 anni in questo settore. Mi sembra di essere a Dresda,
praticamente in mutande, e di dover fare il cammino di Santiago di Compostela.
Grazie.
ROBERTO SARTORE
(Presidente ANCL Venezia)
Vorrei chiedere al professor Tiraboschi una precisazione in merito ad un suo
passaggio che riguarda i consulenti del lavoro, ma che in realtà riguarda anche
i sindacati e l’azione bilaterale. Da più parti è stato detto che le norme vengono
fatte per dar lavoro ai consulenti del lavoro e lo ha detto anche il professor
Giampiero Falasca, per cui io mi chiedo come può un giurista di quel livello
non tener conto dell’azione che i consulenti del lavoro fanno per la pubblica
amministrazione.
Non si rende conto che, se noi non ci fossimo, crollerebbe la pubblica amministrazione, per tutto il lavoro che noi facciamo gratis per lo Stato? Questo
ovviamente vale anche per i sindacati e vale anche per gli enti bilaterali, perché
sono tutti soggetti che lavorano per la pubblica amministrazione. Per cui io mi
chiedo come è possibile che un professionista di quel livello faccia affermazioni
di questo genere. Grazie.
MICHELE TIRABOSCHI
(Professore ordinario di Diritto del Lavoro - Università di Modena e Reggio Emilia)
Partiamo dall’ultima domanda, perché ci consente di fare un ragionamento un
po’ più complessivo: nell’incontro di oggi vorrei proprio affrontare questi temi.
Qualcuno dice che i consulenti del lavoro non servono, qualcuno dice che i
professori di diritto del lavoro non servono, qualcuno dice che il sindacato non
serve: noi siamo abituati a scaricare le colpe sugli altri e poco a riflettere sui
nostri limiti, su quello che noi facciamo.
Sicuramente i professori, a partire da me, hanno delle grandissime colpe per
come formano gli studenti, per come li motivano, per quello che danno loro;
sono colpe individuali ed anche colpe di sistema: se non ti aiuta la scuola, se
non ti aiuta l’università a fare bene il tuo mestiere in chiave moderna, è evidente
che poi tu porti fuori dall’aula quello che ti hanno insegnato a fare.
Lo stesso può valere per il sindacato: domani è il giorno della memoria delle
vittime del terrorismo ed io ricordo sempre, al di là di Marco Biagi, Walter Tobagi, che scrisse del sindacato molto prima di Ichino – e ricordo che le tesi di
Renzi si trovano nei libri di Ichino, che è autore di un libro intitolato A cosa serve
il sindacato?
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Tobagi negli anni 80 scrisse un libro più o meno con lo stesso titolo: Che cosa
contano i sindacati, in cui diceva, lui che era un sindacalista dei giornalisti della
Lombardia, che l’errore più importante del sindacato era quello di non aver
capito le grandi trasformazioni in atto.
Le norme sono fatte da dei legislatori che si avvalgono di consulenti, di esperti,
però non funzionano quasi mai, perché ogni caso è diverso, ogni azienda è
diversa, ogni studio professionale è diverso, i lavoratori sono diversi, quindi
io torno al primo principio che ho enunciato: il pluralismo. Il futuro del diritto al
lavoro sta nella pluralità.
Noi si parlava nello Statuto dei Lavori di un mondo del lavoro che non è più
monolitico: l’impresa, la fabbrica e poi collateralmente le attività libero professionali, più l’agricoltura e poi basta. Il mondo del lavoro invece sta cambiando
moltissimo e noi non riusciamo ad interpretarlo, nessuno riesce ad interpretarlo, perché anch’io, che sono molto critico con la nozione di subordinazione, la
quale non serve più a misurare il valore della prestazione e quindi a misurare
l’equilibrio del contratto, non ho alternative.
L’indipendenza economica, il lavorare per un unico committente? La risposta
per me non può essere in seminari come questi, in incontri come questi, che,
seppur si portano avanti nel tempo, permettono degli incontri abbastanza sporadici. La sede bilaterale invece, se frequentata da consulenti e sindacalisti
che vi portano le loro esperienze, permette di vivere giorno per giorno questa
grande trasformazione in atto che non capiamo: bisogna condividerla, capirne
le logiche, le dinamiche, i problemi da risolvere, dare risposte concrete alle
persone e poi elaborare, dopo un po’ di tempo, quello che si è visto.
A me non interessa in sé l’ente bilaterale, chi lo amministra, con quali risorse,
se la contribuzione deve essere obbligatoria o facoltativa: sono tutte cose che
vengono dopo; a me interessa dire che le logiche bilaterali sono quelle che
consentono dal basso – e non sulla base di teorie calate dall’alto come quelle
della Fornero o altre – di gestire le trasformazioni del mercato del lavoro, perché sono sedi che portano a dialogare e a condividere, sul quadro di regole
legali e contrattuali esistenti, i problemi di quelli che ci vivono: gli imprenditori, i
lavoratori, i sindacalisti, i consulenti del lavoro.
La complessità sta nel fatto che il mondo è complesso, che lavorare nei Servizi
o nel Turismo non è come lavorare in edilizia, in agricoltura, nella meccanica. Il
tema allora è: chi gestisce questa complessità? Cancellarla per legge sarebbe
come nascondersi il problema. È complesso formare i giovani, far entrare i
minorenni in azienda, dare loro un percorso formativo? Siccome è complesso,
non lo facciamo. Poi, se arriva l’ispettore e non trova la formazione, pazienza:
convertiamo l’apprendistato in un contratto a termine.
Queste sono cose assurde, che non risolvono il problema, che al limite tolgono
la pressione delle sanzioni, la paura di sbagliare, ma poi si sbaglia ugualmente,
perché non c’è un quadro di sistema, il quale appunto sia stato costruito per il
settore, per le parti.
Quindi vengo alla seconda sollecitazione: questo tema storico, che ci portiamo dietro da una vita, dei fabbisogni professionali. Perché il lavoratore di una
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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municipalizzata preferisce prendere denaro e non avere storie di formazione,
riqualificazione, presa in carico, burocrazia regionale? Perché è fondamentale
avere una copertura assicurativa? Qui ci sono degli aspetti di tipo culturale, ma
soprattutto manca una tecnicalità.
Gli enti pubblici, che sono abilitati a definire il fabbisogno, la Provincia nel caso
nostro, agli artigiani dice: “Va bene, allora ti faccio il corso di…” Ma io non immagino la cosa così: i fabbisogni professionali non sono generici, sono quelli
della Provincia di Milano, quelli della Provincia di Bergamo, per il settore delle
aziende municipalizzate, per il settore artigiano, per il settore del Commercio,
che sono tutti mercati completamente diversi.
Poi è chiaro che occorre costruire dei ponti, perché magari un lavoratore entra nel Commercio, poi transita nella meccanica, o nell’edilizia, o nello studio
professionale: questo all’inizio non si può sapere. I ponti vanno costruiti, ma
soprattutto occorre capire che questo compito sta alla FISASCAT, sta alla
CISL e sta anche a chi ha in mano le aziende e quindi ha la percezione di ciò
che è necessario nel territorio, più di quanto possa fare qualunque statistica
nazionale.
Il fabbisogno professionale si costruisce nel territorio settore per settore e le
informazioni, che voi avete a livello territoriale, devono confluire al livello regionale, che a sua volta le fa confluire al livello nazionale: sulla base di queste
informazioni si costruisce il settore e poi le macro aree e infine il quadro generale e non viceversa.
Quanto a quelli che dicono che non serve determinare i fabbisogni professionali, perché il mercato del lavoro è in troppo celere movimento, che, se servono
tre anni per formare una determinata figura, quando questa è formata, il mercato è già andato oltre, rispondo che in realtà non è così, perché oggi le aziende
non cercano gente formata tecnicamente.
E lo sapete bene voi attraverso i vostri studi, perché, quando un ragazzo viene
a fare i colloqui, per entrare nel mondo del lavoro, scoprite che nessuno mai
sa già il mestiere: lo volete sveglio, motivato, che conosca gli orari di lavoro,
l’educazione e queste sono le competenze trasversali. Lo volete che sappia
leggere e scrivere, che sappia relazionarsi, comportarsi, che abbia un potenziale di crescita, che abbia voglia di fare: queste sono le competenze richieste
e nessuno le sta formando.
A scuola noi insegniamo la matematica, la geometria, il diritto al lavoro e non
invece come si usano le cose tecniche. Le famiglie sono sparite, quindi non
danno un’educazione di base. E poi arriva questa idea di parlare direttamente
con il cittadino, eliminando tutti quei punti di riferimento, che invece aiutano a
costruire un territorio, una città, un settore produttivo.
Certo poi c’è il corso per i parrucchieri, il corso per le estetiste, ci sono anche
queste piccole cose, ma il nostro problema è che noi non sappiamo gestire le
transizioni, perché non sappiamo verso dove stiamo andando e difendiamo le
casse in deroga o i contratti accesi, che devono poi essere stabilizzati e confermati, perché si sa che, se uno entra, è fortunato, per cui non molla quello che
ha trovato, considerato che, se esce, non trova più nulla.
68
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Il sistema bilaterale ha questa funzione: la grande opportunità che dà la legge
Fornero con riferimento agli ammortizzatori, va letta in questa prospettiva. È
uno dei tanti tipi di tutela, che si può dare alle persone e che funziona, se funzionano anche gli altri pezzi delle tutele, che devono essere date.
L’ammortizzatore è fondamentale, perché in una fase di difficoltà aiuta il lavoratore nel reddito, aiuta l’azienda che è sana e non vuole perdere le persone che
ha, perché sono brave e qualificate e ci tiene; e siccome una fase transitoria
può durare tre mesi, sei mesi, è logico aiutarla.
Se la fase transitoria è, come avviene oggi, lunga cinque anni chiaramente non
si tratta di una fase transitoria, ma di una fase strutturale e allora qualcuno si
deve prendere la responsabilità di decidere che l’intervento non deve essere
di tipo sospensivo, ma deve essere un intervento di altro tipo, che impone una
riqualificazione per un nuovo inserimento.
Rilancio dunque questo tema, perché degli enti bilaterali ormai parliamo dal
2003, ne abbiamo parlato in chiave di ammortizzatori, in chiave di formazione,
in chiave di fondi interprofessionali, in termini di intermediazione. E infatti qualcosa viene fatto, come dimostra il portale, che sta per partire, della FISASCAT
e dell’Ente Bilaterale Nazionale del Turismo, che dà proprio l’idea che qualcosa
stia camminando.
Oltre alle teorie che ci diciamo qui, alle visioni che ci diciamo qui, ora abbiamo
anche un canale dove mettere questi fabbisogni, dove raccogliere queste persone che cercano lavoro. Ed abbiamo un sindacato, che apre uno sportello,
che ci mette la faccia, perché sa che avrà qualcuno che busserà alla porta e
chiederà qualcosa, per cui occorre attrezzarsi per dargli una risposta, altrimenti
si perde credibilità.
Questo è un servizio? È un collocamento? No, questa è una tutela che si dà al
lavoratore: non basta garantirgli un buon reddito, quando lavora, ma che trovi
un’altra occupazione decente, se gli capita di dover interrompere il suo lavoro.
Dall’intuizione che ho della grande trasformazione in atto, di questa complessità, ricavo l’idea che giocheremo sempre più sui mercati e meno nei contratti
di lavoro e nelle tutele, per cui si arriverà anche a quest’idea che il contratto
sarà a tempo indeterminato a tutele progressive con meno articolo 18, ma a
me interessa capire se lo scenario, che si prospetta, è comunque bilanciato da
un mercato che è attivo, che prende in carico le persone, che crea dei percorsi
plausibili, che dà delle risposte, che aiuta le persone a non sentirsi abbandonate – e quindi a chiedere assolutamente di rimanere in azienda, di non essere
licenziate a livello individuale o collettivo – o comunque, se vengono licenziate,
a non stare per lunghi periodi in cassa integrazione.
Sarebbe bello poter vedere realizzate le interazioni tra intermediazione nazionale e regionale, un’intermediazione nazionale che può essere qualificata e
arricchita dall’accreditamento regionale; il che vuol dire non soltanto essere
autorizzati a fare il placement: l’accreditamento vuol dire entrare nella rete negoziale dei servizi per il lavoro delle Regioni e quindi, anche se è vero che il
centro per l’impiego fa solo il 3%, non sono costretto a limitarmi a dire che non
funziona, perché io sono accreditato a fare quel 30% che lui non fa e posso
costruire un valido sistema di servizi.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
69
Io ho fatto una mappatura della miriade di incentivi economici per giovani o
per over 50, che ci sono e che non funzionano. Questa mattina parlavo con
dei responsabili di Confprofessioni di un progetto della Regione Lazio, Torno
Subito, che mi pare valga fino ai 35 anni ed in base al quale ad un giovane
pagano sino ad un anno di inserimento lavorativo, fatto in altre realtà nazionali
e all’estero, come strumento innovativo per favorire la creazione di opportunità
per un qualificato e duraturo inserimento occupazionale all’interno del tessuto
produttivo regionale.
Nessuno ne sa niente: su quale portale trovo questi ragazzi? Non si sa. Su
quale portale i ragazzi trovano le aziende? Non si sa. Non c’è niente.
Quindi occorre protagonismo e responsabilità da parte di chi si accolla un determinato settore e che si preoccupa di dare al settore una sede che sia accessibile, che riporti le offerte, che sappia prendersi carico di chi ha perso il lavoro,
di chi è sospeso, che sappia fare dei percorsi formativi di un certo tipo.
Noi abbiamo fatto con la CISL, con la FISASCAT, con Confcommercio un bellissimo lavoro su come funziona il fondo For.Te: si prendono i bandi, che sono
preziosissimi, e poi si vede che, mancando il sistema, l’offerta formativa è solo
d’aula, come quella che facciamo noi.
È bello fare l’offerta formativa d’aula, ma noi invece dovremmo fare anche degli
incontri, in cui ci mettiamo a scrivere lo statuto di un fondo bilaterale, o a capire
come deve essere creato uno sportello, un portale o altro, nella Provincia di
Bergamo o in quella di Milano, per renderlo operativo. Questa è una formazione
più per competenze, per situazioni di compito, che è quello che serve.
Poi ciò che dicono Renzi o altri colleghi suoi, è una questione politica e lo dimostra bene l’alleanza Renzi-Landini, che sono all’opposto ideologicamente,
ma la cui alleanza a livello politico funziona molto bene, perché hanno obiettivi
comuni: hanno l’obiettivo di costruire un sistema che funzioni.
La comunicazione politica sfrutta il fatto che il sindacato oggi non è molto popolare: si conquistano molti voti se si dice male del sindacato; ma il problema è:
se si toglie il sindacato, che cosa rimane?
NICOLA PEGORARO
(Operatore FISASCAT-CISL Vicenza)
Si diceva della necessità di avere una visione di prospettiva, in base alla quale
gli enti bilaterali possono essere uno strumento funzionale. Io seguo il settore
del Commercio e negli ultimi anni abbiamo assistito ad uno sgretolamento degli
enti bilaterali, inoltre in certi territori questi enti non sono presenti, o non sono
sufficientemente strutturati.
Io vorrei dunque sapere come si può valorizzare o rendere efficace da Nord a
Sud il sistema bilaterale, che da noi, come FISASCAT, è sempre stato portato
avanti, perché lo riteniamo uno strumento valido, che dà delle risposte alle esigenze dei lavoratori, che sono rimasti senza lavoro. Grazie.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Io vorrei ricollegarmi a quanto detto dalla sindacalista di Milano relativamente
alla ricollocazione dei dipendenti. Nella nostra zona di Venezia ci sono alcuni
studi che hanno ridotto il personale, che hanno licenziato: queste persone cercano in rete un’altra collocazione di lavoro ed abbiamo mantenuto dei rapporti
con loro.
Le agenzie interinali del centro annunciano in bacheca che cercano del personale, cercano dipendenti per studi di commercialista, per studi di consulente del
lavoro: queste persone sono andate ad iscriversi presso l’agenzia interinale e
mi hanno segnalato che non sono state assolutamente contattate per alcun colloquio di lavoro, ma soltanto da agenzie interinali, per fare dei corsi finanziati.
Evidentemente queste agenzie devono raggiungere un numero minimo di persone, per essere finanziate e per poter partire con questi corsi, così promettono
a chi ha bisogno di ben altro un breve periodo di inserimento presso qualche
consulente, che li accoglierà nel proprio studio, o presso qualche azienda. Altre
volte questi lavoratori vengono contattati proprio da privati per corsi a pagamento su paghe e contributi.
Quindi le offerte dovrebbe essere fatte in una maniera un po’ più seria, non attraverso un cartello che trae in inganno, perché queste cose sono poco serie e
creano l’illusione di un mercato che non esiste. Le persone vanno ad iscriversi,
perché credono di poter essere contattate per un lavoro ed invece si trovano
praticamente in una lista della spesa di aziende, che invece sfruttano le loro
difficoltà. Grazie.
MAURIZIO BUONOCORE
(Consulente del Lavoro Napoli)
In una visione un po’ critica di quanto è stato detto e che sapevo benissimo,
ricordo che nella parte iniziale di ogni contratto collettivo, tra i vari strumenti
bilaterali, ce n’è uno, che dovrebbe essere quello principe e che probabilmente
non ha funzionato: l’osservatorio del mercato del lavoro.
Se l’osservatorio del mercato del lavoro avesse funzionato nella contrattazione
collettiva, avremmo avuto la necessaria indicazione di finalizzazione delle esigenze formative e di conseguenza avremmo potuto orientare adeguatamente
l’ente bilaterale, che deve intervenire proprio per realizzare l’offerta formativa.
Ma tutto questo non ha comunque senso, se non ha un finalizzazione nella
certificazione delle competenze, perché non è pensabile che un ragazzo possa
fare un percorso formativo, all’infinito e reiterato, perché non c’è ancora ad oggi
il famoso libretto formativo.
Poi questo è un processo che va completamente informatizzato e noi consulenti del lavoro, in una visione prospettica futura, già siamo sul pezzo, perché
attraverso la Fondazione Consulenti per il Lavoro facciamo attività di collocamento per i privati.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
71
Quindi quale occasione migliore per partire proprio da qui, da Fiesole, mettendo insieme queste sinergie, per creare un archivio generale delle competenze,
che siano poi effettivamente spendibili nel modo del lavoro e che non siano la
solita chimera, che illude i ragazzi che vanno alla ricerca di un posto di lavoro,
senza avere alcun orientamento effettivo.
Il collocamento pubblico ha completamente fallito la propria finalità, collocando
meno del 3% della forza lavoro ed è solamente ciò che rimane del vecchio
partito dei collocatori. Grazie.
GIAMBATTISTA COMIATI
(Operatore FISASCAT-CISL Vicenza)
Ringrazio il professor Tiraboschi per il ragionamento che ha fatto, il quale guarda al futuro e si ricollega ad un articolo di qualche tempo fa, in cui si diceva che
i giovani hanno bisogno di maestri.
Infatti chi in questi ultimi mesi e in questi ultimi anni ha firmato consultazioni sindacali di cassa integrazione in deroga, qualche presentimento, che non
fosse una logica che potesse portare a grandi risultati, forse lo aveva. Anche
perché gli attori tutti – chi è senza peccato lanci la prima pietra – a partire dalle
organizzazioni sindacali, dai consulenti, dai lavoratori e dai datori di lavoro, lo
sapevano bene.
Sembra quasi una terapia di mantenimento, come quella che si fa con il metadone somministrato ai tossicodipendenti, che va a scalare, perché comunque
nessuno si prende la responsabilità di fermare questa macchina, visto che il
mercato del lavoro è comunque povero.
Mi è piaciuta molto l’immagine di una nuova bilateralità, che segue il rapporto e
la relazione di lavoro: ci sono a questo proposito degli ottimi esempi; però funziona solo se noi cominciamo a pensare al contratto di lavoro come ad un luogo di
formazione, non solo per i giovani veri, ma anche per i diversamente giovani.
Ad esempio, a Vicenza nella grande distribuzione c’è bisogno di persone al
banco dei freschi e su 20 persone in mobilità, cinque sono state assunte: erano
persone che venivano dal manifatturiero e li hanno messi non a fare corsi d’aula, ma a tagliare il prosciutto crudo.
Qui ci sono la grande sfida e la responsabilità della bilateralità: penso che ciascuno di noi possa fare la propria parte ancora più in grande, perché ci sono dei
consulenti e dei sindacalisti, i quali possono dare dei buoni consigli e dei quali
il datore di lavoro ed il lavoratore per lo più si fidano.
Quanto all’apprendistato, si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca,
però l’apprendistato in effetti è tutta una serie di complicazioni per risparmiare
contributi previdenziali ed anche a questo proposito chi è senza peccato, scagli
la prima pietra.
È un sistema che non funziona e non può funzionare soprattutto perché manca
l’essenza vera della formazione. Una sollecitazione, che ho lanciato al sindacato, è quella di cercare una sinergia con la scuola, che ritengo fondamentale,
perché altrimenti non c’è un futuro. Grazie.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
MICHELE TIRABOSCHI
(Professore ordinario di Diritto del Lavoro - Università di Modena e Reggio Emilia)
Mi rendo conto che spesso si immaginano scenari, ma poi la vita quotidiana è
completamente diversa. Tuttavia, se non c’è una visione, si vive nell’emergenza, senza capire quel che si fa, senza darsi una direzione di cammino; ma il
mondo cambia, l’obiettivo si sposta un po’ più in là, oppure deve essere calibrato e cambiato e si rischia di rimanere spiazzati.
Oggi tutti insieme abbiamo fatto emergere una certezza: il nostro Paese così
non va avanti, non va avanti il sindacato, non vanno avanti le imprese, quindi
non vanno avanti neanche i consulenti; e poi siamo tutti genitori, abbiamo dei
figli, vogliamo bene ad una serie di persone, per le quali vogliamo che il futuro
sia migliore di quello che stiamo vivendo.
Io sono un giurista del lavoro, però spesso questi dibattiti tecnici a colpi di fioretto, su come interpretare un comma piuttosto che un altro, mi lasciano un po’
freddo. Ad esempio, con il decreto n. 34 è stato fatto un autogol incredibile, perché, secondo me, sul contratto a termine dire che ci sarà una sanzione amministrativa, equivale a dire che si escludono le sanzioni civili; quindi può essere che
un magistrato, che non vede di buon occhio questa riforma – e credo che siano
il 99% – dica: “Bene, c’è la sanzione amministrativa, ma se si supera il tetto del
20%, si ha in aggiunta anche una sanzione di tipo civile di conversione”.
Il formalismo giuridico ci porta ben poco lontano, mentre la cosa bella è realizzare fatti concreti.
È vero che in alcuni territori gli enti bilaterali funzionano, mentre in altri no, per
cui suggerisco di fare come hanno fatto le Regioni: le Regioni del Sud non
sapevano come spendere i fondi europei, come fare alcune attività sul mercato
del lavoro, così hanno fatto dei gemellaggi con altre Regioni.
Io insegno in Emilia-Romagna ed ho anche un centro studi in Puglia: ho così
potuto vedere che la Regione Puglia si è fatta assistere tecnicamente dalla
Regione Emilia-Romagna ed anche dalla Regione Toscana, per fare quello che
bene si faceva in quei territori.
L’impiantistica dei bandi ora sta funzionando e dunque perché Vicenza non viene a fare una bella iniziativa, magari a Napoli o in Calabria, dove la bilateralità
non funziona, e spiega come fanno i vicentini a farla funzionare? Basterebbe un
interscambio di tre settimane e si potrebbe così far circolare le buone pratiche
che esistono.
Non c’è più nel vostro settore la contrattazione territoriale ed è questo un peccato incredibile: non c’è quella aziendale, perché le aziende sono in crisi, e non
c’è quella territoriale, eppure sappiamo che il lavoro nasce nei territori, nelle città, che hanno vocazioni completamente diverse, perché quello che c’è a Napoli
non è quello che c’è a Milano o a Bergamo e c’è bisogno appunto di integrare
le regole nazionali, le regole del contratto collettivo, per cui serve gente che sa
fare contrattazione territoriale, serve gente che porta un modello che funziona.
Se il modello a Vicenza funziona, io te lo vengo a spiegare, poi tu vieni a vedere
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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come funziona da me, non per un giorno, ma per un mese, magari mediante
il distacco di un dipendente, per imparare metodi e procedure, che possono
essere esportati.
Ci sono delle piattaforme informatiche che vengono utilizzate per il placement
e possono essere utilizzate per creare una piattaforma organizzativa, la quale
metta in rete tutte le strutture bilaterali che esistono e che hanno dei patrimoni
comuni.
Occorre fare il piano formativo dell’apprendistato? Non basta lamentarsi che la
Regione Veneto ha un piano formativo diverso da quello della Regione Calabria, perché del resto tutti gli enti bilaterali hanno piani formativi diversi.
Che cosa costa in Italia fare una struttura informatica su FISASCAT o sul sito
dell’associazione dei consulenti, che unisca tutti i pezzi?
Certo poi manca l’aspetto finale, che chiude il cerchio: chi certifica che quello
che è stato fatto, effettivamente ci sia? Il libretto formativo è una barzelletta: sta
nell’accordo Stato-Regioni del 2000, nella legge Biagi del 2003, ma ancora non
è operativo. Questo ancora una volta dà la dimensione del nostro Paese: prima
di riformare il contratto a termine per 14 volte in 10 anni, sarebbe stato meglio
far partire il libretto formativo.
Noi sappiamo fare le leggi, ma non sappiamo attuare le leggi che ci sono, anche quelle buone.
Il fatto è che c’è un accordo Stato-Regioni, che delega molte funzioni alle Regioni, le quali però la pensano in maniera completamente diversa le une dalle
altre, per cui realizzare un libretto formativo nazionale, a cui sia garantita la
portabilità su tutto il territorio dello Stato, diventa impossibile.
Aspetteremo che si faccia la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, che
tolga le competenze del mercato del lavoro alle Regioni, e risolveremo questo
problema.
Un sistema di incontro fra domanda e offerta di lavoro, per ricollocare le persone, che stanno uscendo dall’azienda, si basa su una procedura certa. Il mio collega tedesco Weiss, quando ci dice che in Germania l’apprendistato funziona,
ci spiega che ciò avviene grazie alla burocrazia, che per lui è un valore, perché
in Germania il burocrate dice velocemente come stanno le cose, quel che dice
vale in tutta la Germania e non si può far altro che applicare quanto lui dice.
Questa è la pubblica amministrazione che funziona.
Io però non tornerei a tirare in ballo lo Stato, la Regione, mi pare vincente l’idea
di metterci in gioco tutti quanti: dopo questo incontro troviamo un aspetto concreto e costruiamolo in un territorio, per cui nel prossimo seminario potremo
parlare di quest’esperienza, che abbiamo costruito assieme.
Magari un bel gemellaggio Vicenza-Napoli, oppure Vicenza-Bari, che si basi su
una visione: confrontiamo regole, contratti, incentivi regionali per ricollocare,
per riqualificare, e vediamo che cosa si può migliorare.
A me piace questa idea della necessità di avere dei maestri, sottolineo che
ciascuno può essere maestro di chi gli è prossimo: verso chi lavora nello stesso
studio, verso il giovane sindacalista, che entra nell’organizzazione, verso i bor-
74
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
sisti che vengono al Centro Studi di Firenze: il nostro problema è che mancano
gli esempi.
Mancano gli esempi dei genitori, mancano gli esempi degli insegnanti, mancano gli esempi degli educatori, dei sindacalisti, dei consulenti.
Questa mattina mi trovavo in una grande azienda, che mi proponeva di fare
il consulente tecnico di un gravissimo incidente, che ha paralizzato una persona: mi sono venuti i brividi e non ho accettato la consulenza, perché avrei
dovuto dire delle cose in cui non credo, rispetto ad un’azienda, la quale aveva
una reportistica che segnalava che c’erano rischi di incidenti e nessuno ha
fatto niente.
Ho perso una consulenza interessante, forse ho sbagliato e se alla fine del
mese farò fatica a pagare i miei collaboratori, magari la prossima volta deciderò di accettare. Oppure resterò della mia idea, perché nel nostro piccolo
ciascuno deve essere maestro verso i propri figli, verso i propri collaboratori,
verso i propri clienti, verso le imprese, con cui si lavora. Se tutti noi fossimo
maestri, avremmo già messo in piedi una bella piattaforma di cooperazione
bilaterale, per fare delle cose importanti e positive.
Se le aziende chiudono, come stanno chiudendo, è un problema nostro, come
consulenti, come professionisti che hanno a cuore il territorio in cui lavorano,
perché la prosperità del territorio è la prosperità della professione e curarsene
è un modo per fare bene la propria professione. È più comodo dare un consiglio sbagliato, ma poi l’azienda chiude e il consulente non viene pagato.
Altrettanto vale per il sindacato: mettere nello stesso calderone tutto il sindacato è un errore, ci sono diversi sindacati, perché il sindacato è azione e rappresentanza e rappresentazione e ci sono almeno cinque o sei visioni differenti di
rappresentare i lavoratori, di rappresentare il mondo del lavoro, di affrontare le
grandi trasformazioni che abbiamo in atto.
Il fatto è che non abbiamo più il quadro del passato, non possiamo applicare
le regole del passato, gli strumenti del passato e non esistono più regole universali.
I sussidi universali mi fanno paura per questo: non può essere universale il
sussidio per lo studio professionale e per la Fiat. Così è altrettanto incomprensibile l’uso opportunistico, che può fare una grande azienda – la quale ci fa su
milioni di euro – degli ammortizzatori, anche quando potrebbe fare attività e
poi ricorre alla delocalizzazione, mentre c’è uno studio professionale, che non
è coperto, perché non è all’interno di un sistema strutturato.
Realizziamo dunque una buona esperienza, perché tramite la circolazione
delle buone esperienze si rompono i pregiudizi, le diffidenze, si collabora e si
lavora insieme, che è cosa bellissima, perché c’è uno scambio incredibile di visioni ed è un mezzo anche per riattivare il modo di agire dei professionisti: non
ci si forma solo quando si è a scuola, ma ci si deve formare in continuazione.
Le buone esperienze ci sono, ad esempio, i piani formativi per l’apprendistato
in Provincia di Vicenza, che funzionano e che risolvono problemi che sembravano irrisolvibili. Ciò vale per l’apprendistato e vale a maggior ragione per i
fondi interprofessionali e per i fondi bilaterali per il sostegno al reddito.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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Si possono fare tante cose importanti, invece che accontentarsi, invece di dare
la colpa agli altri, mentre il Paese sta affondando. Mi viene in mente la classica
immagine dei capponi di Renzo, per cui litighiamo tra di noi, mentre veniamo
portati al macello, perché presto noi troveremo i lavoratori, che sono stati licenziati e che non sono stati riqualificati, i quali ci faranno le penne. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie a Michele Tiraboschi per questa conversazione così importante, che
con lui abbiamo avuto. Adesso diamo inizio ai lavori di gruppo.
LAVORO DI GRUPPO
Diamo ora la parola ai cinque relatori per l’esposizione di quanto elaborato dai
singoli gruppi, per vedere se sono emerse delle esperienze, che potrebbero
entrare a far parte del portale di cui parlava il professor Tiraboschi.
• RELATORE PRIMO GRUPPO:
NICOLA PEGORARO (Operatore FISASCAT-CISL Vicenza)
Ci siamo confrontati su tutte le esperienze provinciali; le problematiche
sono comuni a tutti quanti: la bilateralità funziona, anche se a rilento, anche
se con qualche problema. Uno dei problemi principali è rappresentato dalla
burocrazia, per cui talvolta non è agevole ottenere il finanziamento previsto
nella sua interezza.
Le politiche attive per la ricollocazione del personale che ne ha bisogno,
sono abbastanza scarse e insufficienti: in Emilia-Romagna non hanno dato
frutti, in Veneto ne hanno dato pochi, ancora meno in Umbria.
Per la ricollocazione va sicuramente rivista la presa in carico come numero
dei lavoratori, ma anche la formazione dei soggetti coinvolti. Grazie.
• RELATORE SECONDO GRUPPO:
MARIA TERESA BONANNI (Consulente del Lavoro Cesena)
Intanto voglio precisare che il nostro gruppo comprendeva persone provenienti da diverse parti d’Italia, quindi è stato un confronto a livello nazionale.
Riguardo alle esperienze a livello nazionale l’ente bilaterale comunque ha
funzionato. Per rispondere alla domanda specifica del professor Lai in merito alle attività svolte dagli enti bilaterali, abbiamo l’ente bilaterale della
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
zona di Belluno, che quest’anno, in seguito alla calamità naturale della
neve, ha attivato un sostegno al reddito per tutti i lavoratori che erano stati
coinvolti da questa calamità, con un intervento molto tempestivo, perché
per ogni lavoratore hanno assicurato € 30 di rimborso a giornata persa ed
lavoratori hanno avuto questo rimborso nel giro di 20-25 giorni.
Di queste esperienze in Veneto negli enti bilaterali, sia del Commercio che
degli artigiani, ce ne sono moltissime e sono frutto di un accordo tra le parti,
a cui ha fatto seguito la delibera dei consigli di amministrazione degli enti
bilaterali.
Sempre per quanto riguarda l’ente bilaterale, abbiamo visto nelle diverse
zone premi legati alla natalità, al matrimonio, rimborsi per spese mediche
specifiche, come, ad esempio, i rimborsi per le protesi, piani maternità, ecc.
Un punto molto importante è comunque la formazione, che viene fatta su
due livelli: una formazione specifica, legata alla mansione richiesta dall’attività che deve svolgere il lavoratore, e poi anche una formazione generica, che può interessare tutti i lavoratori su argomenti come l’informatica e
l’inglese.
In Versilia, sempre a proposito di formazione, si è visto che i lavoratori
avevano bisogno della conoscenza di lingue diverse, per cui sono stati
attivati dei corsi di inglese e spagnolo e quest’anno si parla di fare dei corsi
di russo.
Per quanto riguarda la ricollocazione, devo dire che sono presenti in alcune zone degli sportelli, dove si cerca di far incontrare domanda e offerta
di lavoro.
Per quanto riguarda il secondo argomento, che erano i problemi di mal
funzionamento, devo dire che ci sono due macro argomenti; il primo è
sicuramente un problema di risorse: gli enti bilaterali vorrebbero fare di
più, attraverso di essi effettivamente si potrebbe fare di più, ma si parla in
generale di un 20% di gestione fissa per gli enti bilaterali e rimane un 80%
per poter eventualmente svolgere delle attività.
L’altro problema che hanno sollevato i colleghi, è quello legato al frazionamento delle associazioni datoriali, quando si è in contrattazione, perché i
colleghi hanno detto che come minimo si trovano di fronte tre sigle: quando
sono al tavolo della trattativa, comunque si cerca di trovare un accordo
comune, ma l’accordo soffre poi del funzionamento delle associazioni datoriali, perché ciascuna di esse vuole mantenere un proprio ruolo distinto,
cosa per cui non si riesce mai a raggiungere un accordo definitivo.
Per quanto riguarda invece l’impostazione dello sportello domanda e offerta di lavoro, dalla discussione sono emersi alcuni spunti: ci si è resi conto
del fatto che chi ha in questo momento la possibilità di offrire lavoro, ha
comunque in mano un potere non indifferente. Quindi l’utilizzo di questi
sportelli deve essere gestito nella maniera più trasparente possibile e soprattutto alcuni di noi devono superare la mentalità per cui si dice: “Io ti do
lavoro, quindi io posso avere questo e quest’altro…”
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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A proposito delle politiche attive previste o avviate, che era il terzo punto
del questionario, devo dire che di politiche attive avviate non ce ne sono.
Grazie.
• RELATORE TERZO GRUPPO:
ROBERTO SARTORE (Presidente ANCL Venezia)
Parto dall’ultimo punto, perché abbiamo un’esperienza particolare, sulla
quale volevamo spendere alcune parole. In merito alla ricollocazione c’è
un’esperienza di un’agenzia di Milano, la quale cercava di far incontrare
domanda e offerta di lavoro, ma poi con l’andar del tempo la cosa è naufragata, mentre per quanto riguarda un organismo bilaterale specifico, che è
quello degli alberghi di Abano, loro fanno una formazione specifica per gli
addetti a questi alberghi, che hanno delle specificità che riguardano l’assistenza ai fanghi e quant’altro.
Per quanto riguarda il sostegno al reddito, abbiamo invece l’ente bilaterale
di Vicenza il quale è partito quasi contemporaneamente con l’EBAV – e
forse anche prima – con l’erogazione del 20% al momento della sospensione e poi con lo sfruttamento pieno della cassa integrazione in deroga.
Sempre un ente bilaterale di Vicenza ha previsto un’erogazione anche per
le aziende. Problema ben più grave invece è il ritardo nell’erogazione dei
fondi da parte dell’Inps.
Quanto alle esperienze di bilateralità sul territorio, ritorniamo all’esperienza
specifica dell’organismo bilaterale di Abano, che ha una sua caratteristica
peculiare e poi abbiamo una riflessione da fare su un’esperienza, che non
riguarda direttamente gli enti bilaterali del nostro settore, ma potrebbe avere dei riflessi, per cui ci teniamo ad evidenziarla.
Voi sapete che l’EBAV è arrivato un po’ per ultimo per quanto riguarda
l’assistenza sanitaria, perché San.Arti, il Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa per i lavoratori dell’Artigianato, è nato quest’estate. Partendo da
San.Arti, in Veneto è nato Sani.In.Veneto ed abbiamo fatto dei convegni
con il professor Maresca per vedere la fattibilità di questa cosa.
Citiamo questa iniziativa perché è un precedente sul quale bisogna meditare: praticamente qui abbiamo il frazionamento a livello regionale di una
parte di bilateralità che gli altri hanno a livello nazionale. Bisogna ripensarci,
perché potrebbe essere un fattore trainante anche per altri settori. Grazie.
• RELATORE QUARTO GRUPPO:
CANDUCCI CRISTINA (Consulente del Lavoro Savignano Sul Rubicone)
Io speravo di raccogliere qualche esperienza positiva dalle altre province, perché, per quanto riguarda il nostro territorio, quello che io conosco
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
bene, purtroppo gli enti bilaterali lamentano sempre la mancanza di fondi,
la mancata adesione da parte delle aziende, il mancato interesse da parte
dei consulenti, ma purtroppo questo si riscontra anche nelle altre realtà
territoriali.
Fa eccezione la Provincia di Rovigo, che ha l’ente bilaterale Ebiro, di cui mi
è stato detto che riguarda soprattutto il Commercio: esso riesce a garantire
il sostegno al reddito per i 90 giorni di sospensione ed ha tutta una serie di
pacchetti legati alla maternità, al matrimonio, alla disabilità e dei progetti
per contributi per gli asili nido. E poi rimborso di protesi, pacchetti malattie,
pacchetti per la formazione, ma non finalizzati alla ricollocazione.
In altri territori questi interventi sulla formazione esistono: io ne conosco
alcuni in Emilia-Romagna che sono sicuramente utili, perché, quando si
organizza un corso in un territorio a vocazione turistica per barman, per
pizzaiolo, o per qualche altra figura particolare, chiaramente qualcuno può
trarre beneficio da queste iniziative. Tuttavia non sono iniziative finalizzate
ad una ricollocazione specifica o ad una richiesta reale del mercato del
lavoro.
Gli strumenti che sono utilizzati sono soprattutto la cassa integrazione in
deroga e qualche contratto di solidarietà: questo è quanto viene proposto
anche da parte sindacale, quindi andare oltre questo concetto è molto difficile.
Di esperienze reali nel territorio non ne abbiamo riscontrate, mentre i problemi di funzionamento sono rappresentati principalmente dalla mancanza
di fondi; e mi dispiace molto dirlo, ma i consulenti comunque non consigliano alle aziende di aderire a questi enti bilaterali, anzi, magari li spingono in
direzione opposta e quindi l’ente bilaterale mette in campo dei corsi, che
forse sono attuati più per utilizzare le scarse risorse di cui dispone, che
perché sono finalizzati ad un’effettiva occupazione. Grazie.
• RELATORE QUINTO GRUPPO:
LAURA RAVARA (Consulente del Lavoro)
Per quanto riguarda la bilateralità, noi abbiamo individuato nel territorio
alcune criticità.
Il nostro gruppo era costituito da una sindacalista di Rovigo, da due persone di Ravenna, da me, che vengo da Venezia, e da un collega di Napoli.
Abbiamo messo insieme le nostre esperienze e di comune accordo anche
con la parte sindacale abbiamo evidenziato che, prima di tutto, c’è una
scarsissima informazione alle aziende – e devo dirlo anche ai consulenti
– per quanto riguarda il funzionamento degli enti bilaterali, la loro applicazione e le opportunità che questi possono offrire.
La prima cosa da fare, vista l’azione positiva di questi enti bilaterali, sarebbe fare proprio una formazione mirata per noi consulenti e per le aziende
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
79
che noi rappresentiamo. La spesa di iscrizione all’ente bilaterale infatti non
deve essere vista come un costo, ma deve essere vista come un investimento, perché da questa possono derivare, sia per l’azienda che per i
dipendenti, delle opportunità di crescita, se non anche dei ritorni economici
a sostegno del reddito e quant’altro.
Io posso dire per esperienza personale che questa informazione è parziale, perché ho portato l’iscrizione di un’azienda del mio territorio, che
ha delle sedi a Venezia, Roma e Firenze, e mi sono trovata in difficoltà
con l’iscrizione all’ente bilaterale, perché mi sono trovata di fronte tre enti
bilaterali differenti con regole diverse da applicare, versamenti diversi da
effettuare, ecc.
L’unica cosa comune è quella relativa alla formazione: se ci si iscrive
all’ente bilaterale, tutte le aziende hanno diritto alla formazione, per quanto
riguarda l’applicazione del contratto, mentre, per quanto riguarda tutte le
altre provvidenze, le aziende devono adeguarsi a quelle che sono le iscrizioni a livello territoriale.
Queste scarse informazioni, passando dalla parte del lavoratore, fanno sì
che l’azienda paga le quote di adesione all’ente bilaterale, però non informa i lavoratori e questi non usufruiscono delle provvidenze che l’ente
bilaterale offrirebbe loro, perché il lavoratore guarda al netto in busta paga,
tante volte non ritira nemmeno il cedolino, che gli viene spedito a casa, via
e-mail, controlla se lo stipendio è arrivato in banca, a quanto ammonta, ma
non si informa delle altre opportunità che pure il CCNL gli riconosce.
Ne parlavamo soprattutto a proposito del personale assunto come stagionale, delle cooperative sociali, che operano per le nostre aziende: abbiamo verificato che i dipendenti di queste cooperative si fanno verificare lo
stipendio alla fine della stagione o se devono controllare l’Aspi, quindi non
vedono nemmeno la trattenuta, che subiscono per l’ente bilaterale, e non
sanno delle opportunità di cui possono usufruire. Si trovano ad aver pagato
un servizio del quale non sono nemmeno consapevoli e di cui non riescono
ad usufruire.
Ciò rappresenta una criticità massima, perché queste casse possono dare
rimborsi per quanto riguarda l’assistenza personale, per quanto riguarda gli
asili nido, per quanto riguarda il ristorno di spese mediche, per il rimborso
dell’acquisto di occhiali, ecc., in base a quanto sta scritto nel regolamento
di ciascun ente, che sappiamo essere differente dagli altri.
Secondo noi comunque ci sono troppi enti bilaterali, per cui è difficile orientare il datore di lavoro per l’iscrizione.
Invece abbiamo visto delle cose positive per quanto riguarda Ravenna,
perché lì gli enti bilaterali hanno identificato le persone che avevano bisogno attraverso l’isee, per fornir loro un’assistenza al reddito, senza dare
a pioggia una contribuzione a tutti quelli che ne facessero domanda, ma
individuando le situazioni di maggior bisogno, che potevano essere soddisfatte in maniera più opportuna.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
80
Ci sono altre esperienze positive avviate dall’EBAC (Ente Bilaterale Artigianato Campania), ma, tornando a Ravenna, va detto che non hanno previsto soltanto il sostegno al reddito dei lavoratori, ma anche una provvidenza
per le aziende, perché dell’ente bilaterale ovviamente possono usufruire
anche le aziende, ed in questo caso esse hanno goduto di quote di provvidenze per l’acquisto o il rinnovo di macchinari.
Per il collocamento e per l’apprendistato nel napoletano sono riusciti ad
inserire dei lavoratori con un bonus di € 5.000 e queste persone sono state
collocate, compresi i tirocinanti, con esito positivo.
Sempre nell’ambito dell’EBAC le aziende hanno avuto delle provvidenze
ed uno dei colleghi è riuscito a dimostrare al proprio cliente che i soldi investiti nell’ente da quell’azienda hanno portato poi in provvidenze, erogate
nel momento del bisogno, molto di più di quanto questi soldi avrebbero potuto apportare, se fossero stati investiti in qualsiasi altra forma di attività.
Una volta convinto questo suo cliente della bontà della scelta fatta, è riuscito a fare promozione, aggregazione, ecc. ed è riuscito ad iscrivere molte
altre aziende artigiane, che si sono convinte della bontà di questa operazione. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Abbiamo sentito l’intervento di cinque consulenti del lavoro, adesso integriamo
con l’intervento da parte sindacale.
(Operatore FISASCAT-CISL Ravenna)
Noi abbiamo diversi enti bilaterali, che fortunatamente funzionano: io ho seguito direttamente l’ente bilaterale del Terziario, tramite il quale ogni anno bene o
male eroghiamo ai lavoratori dai 60.000 agli 80.000 euro, perché è un sistema
ben consolidato con delle controparti affidabili, che sono l’ASCOM e la Confesercenti.
Noi abbiamo degli ottimi rapporti anche con CGIL e UIL e ciò ci permette di
portare avanti il discorso delle relazioni sindacali in modo positivo.
Per quanto riguarda il Turismo, EBTur Ravenna è stato consolidato da non
molto tempo e fra le tante novità abbiamo realizzato un progetto per le colf e
badanti, sempre riferendoci al reddito delle famiglie, perché effettivamente la
spesa per le badanti incide molto sul bilancio familiare, perciò abbiamo deciso che, per le famiglie che rientrano in una certa fascia Isee, sia previsto un
contributo.
In questo stesso ente abbiamo previsto degli interventi a favore delle azien-
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
81
de che hanno pagato i contributi per almeno due anni: anche in questo caso
dall’altra parte siedono ASCOM e Confesercenti.
Abbiamo costituito da poco l’organismo paritetico per la salute e sicurezza
delle cooperative sociali. A Ravenna abbiamo ottime relazioni sindacali anche
con le centrali cooperative, infatti devo dire che circa l’80% delle cooperative ha aderito all’associazione all’organismo paritetico, che funziona in questa
maniera: le cooperative che hanno al loro interno l’RLS, parteciperanno con
lo 0,02% della retribuzione annua lorda di ogni dipendente o socio di cooperativa, mentre le cooperative che non hanno al loro interno il rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza, parteciperanno con una quota pari allo 0,05%
ed in questo caso faranno riferimento al rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza territoriale.
Attraverso l’Enel di Ravenna abbiamo cercato di fare una mappatura degli
infortuni e delle malattie del settore, ma purtroppo non ci hanno saputo rispondere, perché loro hanno una mappatura più in generale, che riguarda tutto il
sistema socio sanitario. Grazie.
(Operatore FISASCAT-CISL Vicenza)
Noi abbiamo messo un contributo per l’assunzione a tempo indeterminato dei
lavoratori: se essi vengono assunti a termine per un periodo superiore ai sei
mesi e dopo vengono riconfermati a tempo indeterminato, le aziende ricevono
un contributo di € 1.000 pro capite. Grazie.
(Operatore FISASCAT-CISL FISASCAT Udine)
Per quanto riguarda l’ente bilaterale, da quest’anno si è prevista una quota
pari a € 30.000 per le aziende che ne facciano richiesta, per fare formazione
professionale aziendale. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Abbiamo cercato di unire il profilo di carattere teorico o di visione del mercato
del lavoro, che ci è stato fornito da Michele Tiraboschi, con la dimensione operativa, pratica, attraverso una ricognizione delle esperienze, proprio per dare
corpo a quell’immagine di cui abbiamo parlato questa mattina.
Io credo che sia molto importante che queste esperienze siano monitorate e
considerate anche a livello nazionale, per cui ribadisco quanto detto all’amico
di Belluno, ovvero che mi farebbe molto piacere avere tutte le delibere innovative, che cercano di mettere insieme sostegno al reddito, riqualificazione e
ricollocazione.
82
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Siccome tutti quanti noi giriamo per l’Italia, queste esperienze possono essere usate come apripista per altri territori, quindi cominciamo noi stessi a fare
quest’opera di diffusione delle buone pratiche, che credo sia una cosa molto
importante.
A questo punto abbiamo gli strumenti generali per affrontare il tema specifico
dell’accordo del vostro settore, che sarà sviluppato domani mattina.
Distribuisco ora due contributi, uno sulla bilateralità in generale, in cui trovate
molte delle cose dette nella scaletta di questa mattina, ed un altro su una parte
che il professor Tiraboschi ha volutamente trascurato, perché ha tarato il proprio intervento su uno scenario strategico, dando minor peso alle questioni di
carattere legislativo pratico relative ai fondi bilaterali di solidarietà.
Quindi, a proposito di welfare integrativo, questo materiale costituisce una
sorta di integrazione rispetto a quanto è stato detto nel corso della giornata
di oggi. Inoltre nel contributo sui fondi bilaterali di solidarietà, per chi volesse
cimentarsi in uno studio approfondito, si trovano tutti i riferimenti possibili.
A questo punto possiamo occuparci del Jobs Act. Non parlerò però del disegno
di legge basato sulla delega, che il Parlamento ha dato al Governo, per emanare, entro un termine indefinito, probabilmente nel 2015, un provvedimento
riguardo a cinque punti:
1. l’ulteriore riforma degli ammortizzatori sociali;
2. le politiche attive, con l’istituzione di un’agenzia nazionale per le politiche
attive, che torna a centralizzare l’intervento, anche se sotto questo profilo
si pone il problema della partecipazione delle Regioni ad un’agenzia di
carattere nazionale;
3. la semplificazione normativa;
4. il riordino delle diverse tipologie contrattuali e cioè tutto il dibattito sul cosiddetto contratto unico a tutele progressive, considerato che nel nostro
ordinamento esistono oltre 40 tipologie differenti di contratto, per cui si
pone il problema di riordinarle. Il problema è: questo riordino deve essere
fatto in una logica di semplificazione, per cui tutti vengono ridotti ad una
sola tipologia contrattuale, oppure si prevede l’introduzione di una ulteriore
tipologia contrattuale di carattere indeterminato? Nel testo si utilizzano le
parole “… eventuale introduzione di ulteriori tipologie contrattuali” quindi
si parla di “eventuale” e di “ulteriori” al plurale, non al singolare: temo che
questo dibattito sul contratto unico a tutele progressive sia ancora lontano
dall’essere esaurito;
5. la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Queste sono le deleghe contenute nel disegno di legge di riforma del mercato
del lavoro complessivo, che sarà probabilmente discusso nel corso del 2015.
Nel frattempo occorre rispondere ad esigenze di immediatezza, visto che il 1
aprile abbiamo avuto uno sgradito pesce d’aprile: l’Istat ha reso noti i dati sulla
disoccupazione e risulta che il tasso di disoccupazione medio è del 13%, dato
che potrebbe apparire buono, ma bisogna tener conto del fatto che abbiamo
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
83
molti lavoratori in cassa integrazione, in deroga o meno, senza la quale saremmo molto al di sopra del 13%.
Abbiamo poi un tasso di disoccupazione giovanile, pari al 42,3%, che è quasi
il doppio della media europea. Quindi, mentre quello generale è del 13%, abbiamo una disoccupazione della fascia che va dai 15 ai 24 anni, che è estremamente elevata, mentre la media europea è intorno al 24-25%.
Ciò che spaventa ancor di più è il bassissimo tasso di attività, perché non bisogna guardare soltanto il tasso di disoccupazione, ma chiedersi anche quante
persone lavorano: noi abbiamo un tasso di occupazione che è pari a circa il
55%, quindi, grosso modo, lavora una persona su due; ed abbiamo anche un
bassissimo tasso di attività, che è il numero di persone che lavorano, rispetto
al numero di persone in età da lavoro, pari al 33,5%.
Bisogna dunque combinare questi dati, che hanno a che fare con la disoccupazione, con i dati che hanno a che fare con l’occupazione, che sono molto
problematici.
In questo contesto l’attuale Governo ha pensato di dare una scossa attraverso
un decreto-legge. Il 12 marzo c’è stata la conferenza ed il decreto-legge è
stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 20 marzo, però di queste cose si è
parlato già a gennaio-febbraio, anche se a quell’epoca non c’era alcun provvedimento approvato.
Il decreto-legge di cui stiamo parlando porta il n. 34, è stato approvato con modifiche alla Camera dei Deputati ed è stato approvato ieri con ulteriori emendamenti dal Senato. Dal momento che sono stati apportati ulteriori emendamenti,
deve tornare alla Camera dei Deputati per l’esame definitivo, dopo di che sarà
tradotto in legge; il tutto deve essere fatto entro il 20 maggio 2014, data in cui
sono trascorsi i 60 giorni dal 20 marzo, periodo entro il quale bisogna approvare definitivamente il decreto-legge, altrimenti esso decade.
Questo decreto-legge interviene principalmente su due istituti contrattuali: da
un lato sul contratto a termine e dall’altro lato sull’apprendistato. Poi parla anche della smaterializzazione del DURC e dei contratti di solidarietà, però ora ci
limitiamo agli istituti contrattuali.
In materia di contratto a termine cambia molto: entrambi le modifiche apportate agli istituti di cui ci occupiamo sono improntate ad una forte flessibilità,
il che apre altri interrogativi sul motivo per cui non si parla di altre tipologie
contrattuali, che sono altrettanto precarie, se non addirittura più precarie: lavoro a progetto, partite Iva, false partite Iva, associazione in partecipazione.
La prima domanda dunque è: perché si parla solo di contratto a termine e di
apprendistato?
E poi che rapporto c’è tra questo decreto-legge, che apre una linea di flessibilità spinta per l’immediato, rispetto invece ad un disegno di legge, che dovrebbe dare maggiore stabilità occupazionale? Come si coniuga la flessibilità
nell’immediato, rispetto al riordino ed alla stabilità del medio-lungo termine?
Non c’è una contraddizione tra il decreto-legge, che è improntato ad una forte
flessibilità, ed invece la logica più organizzata e stabile della delega?
84
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Entrambi sono nati dallo stesso soggetto, il Governo, e si auspicherebbe che
ci fosse un’unica logica.
Vediamo che cosa cambia a proposito del contratto a termine: considerando
le modifiche e gli emendamenti, che sono stati apportati al testo originale del
decreto-legge n. 34, notiamo innanzitutto che ritorna il concetto di contratto a
termine acausale, che era stato introdotto dalla legge Fornero per il primo contratto a tempo determinato, sotto la forma del contratto a termine o nell’ambito
di un contratto di somministrazione.
Infatti c’è anche il rapporto tra contratto a termine e contratto di somministrazione a tempo determinato, che nella legge Fornero era limitato ai 12 mesi,
grazie al quale si poteva assumere a termine senza causale.
Ricordo a tutti noi che la disciplina sui contratti a termine, che è prevista dal
decreto legislativo n. 368 del 2001, all’articolo 1 prevede che in Italia si possa
assumere a termine soltanto per comprovate ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo, sostitutivo; ma sarebbe più giusto utilizzare l’imperfetto
piuttosto che il presente indicativo, nel senso che questa è una previsione che
valeva fino al 20 marzo 2014, dato che la legge Fornero aveva previsto come
eccezione alla regola della giustificazione del termine per 12 mesi il contratto
a termine acausale, mentre oggi l’eccezione diventa la regola.
Con un tratto di penna si è eliminata la necessità di specificare le causali e
si può assumere con contratto a termine senza causale fino a 36 mesi, che,
guarda caso, è il periodo massimo entro il quale può essere reiterata una pluralità di contratti a termine.
Una delle prime novità di fondamentale rilievo è dunque la scomparsa delle
causali, cosa che ora vale non più solo per il primo contratto, come era nella
legge Fornero, ma vale sino a 36 mesi.
Già qualcuno ha fatto notare che c’è qualche sfasatura tra questa scomparsa
delle causali ed il fatto di poter godere di benefici, qualora si assuma a termine
in sostituzione, ad esempio, di lavoratrici in maternità, perché dal punto di vista
contributivo soltanto per le assunzioni che hanno un valore sostitutivo di altre,
scattano benefici contributivi.
Quindi c’è un primo problema di armonizzazione della normativa, perché il
legislatore non sempre ha fatto un lavoro certosino, allo scopo di considerare
l’intero quadro normativo che si va a toccare. Si sono eliminate le causali, ma
non si è tenuto conto del fatto che alcune causali sono importanti, per poter
godere di determinati benefici contributivi.
Come corrispettivo di questa eliminazione delle causali si è introdotta per legge
una percentuale di assunzioni a termine pari al 20%, non rispetto al complesso
del personale utilizzato, come diceva la versione originale del decreto-legge, ma
rispetto ai lavoratori dell’impresa interessata, assunti a tempo indeterminato.
Anche in questo caso sussiste qualche piccola distonia dal punto di vista tecnico, che sarebbe opportuno precisare: il decreto legislativo n. 368 del 2001
non è composto soltanto dall’articolo 1 e dall’articolo 2, che sono quelli oggetto
di modifica, ma contiene anche un articolo 10, comma 7 – che nel testo del
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
85
decreto-legge è fatto salvo – il quale dice che la fissazione di percentuali di
contratti a termine da assumere, è demandata alla contrattazione collettiva
nazionale di categoria.
Se nell’articolo 1 viene posta la percentuale di sbarramento del 20%, ma si
salva l’articolo 10, comma 7 del decreto legislativo n. 368 del 2001, ciò significa che io dovrei considerare il 20% solo laddove la contrattazione collettiva
nazionale di categoria non ha regolato la percentuale di sbarramento rispetto
al contratto a termine.
Questo è il tipico caso dell’utilizzo di una normativa in cui si vuole dare l’impressione della flessibilità, ma di fatto – e questo a me fa molto piacere, perché
significa che il ruolo della contrattazione collettiva nazionale è molto importante – l’emendamento fatto ieri al Senato dice che il limite quantitativo dei
contratti a termine, che possono essere stipulati, è affidato alla contrattazione
collettiva nazionale.
Ma poi c’è una norma transitoria, in cui si dice che fino al 31 dicembre 2014
il datore di lavoro potrà mantenere i diversi limiti previsti dalla contrattazione
nazionale, però dal 1 gennaio 2015 sarà tenuto ad adeguarsi alla nuova normativa, per cui sorge una questione: i limiti previsti dai contratti valgono, come
sembra che sia leggendo l’articolo 10, comma 7, oppure no, come sembra
leggendo la norma transitoria?
E c’è altresì un amletico dubbio se in questo 20% debbano essere considerati
anche i contratti di somministrazione a tempo determinato, oppure no.
Con l’emendamento di ieri parrebbe di no, nel senso che il 20% viene a riguardare soltanto i contratti a termine, perché la somministrazione è stata esclusa
dalla percentuale del 20%.
Altro aspetto di rilievo è il tema delle proroghe. Il testo originario prevedeva
che il contratto a termine potesse essere prorogato sino ad otto volte, mentre
ora le proroghe sono state abbassate a cinque nell’arco di un periodo massimo che non può essere superiore ai 36 mesi. Questo è un contentino dato a
qualche parte politica, tuttavia, ad onor del vero, si parla della riduzione del
numero delle proroghe aggiungendo “indipendentemente dai rinnovi”.
Ma una cosa è la proroga, un’altra cosa è il rinnovo. Il primo termine significa
che c’è un primo contratto, che poi viene prorogato, a parte il fatto che ci si
dovrebbe anche domandare per quale motivo si può prorogare fino a cinque
volte lo stesso contratto, se scompare l’onere della prova delle ragioni della
proroga, che invece c’erano in precedenza.
Ma il problema è che il provvedimento aveva ridotto le proroghe, senza essere
intervenuto sul rinnovo, che significa fare un altro contratto; e siccome nel nostro mercato del lavoro è vero che c’è un grande utilizzo di contratti a termine,
ma abbiamo un grande utilizzo di contratti a termine di brevissima durata, ad
esempio di un mese, in sostanza io potrei fare 36 contratti di un mese senza
nessun limite, perché sono 36 i mesi entro i quali si può utilizzare questa forma
contrattuale. L’abbassamento del numero viene a riguardare le proroghe, ma
non interviene rispetto al numero dei rinnovi.
86
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
A questo proposito io inviterei il Governo italiano – ed anche i suoi consulenti
– a stare abbastanza attenti, visto che siamo a forte rischio di condanna da
parte della Corte di Giustizia Europea, non solo perché prima erano scomparsi
e poi sono ricomparsi, grazie alla pressione delle parti sociali, la formazione e
l’apprendistato, ma anche perché nell’emendamento di ieri si fa in premessa
un’improvvida citazione della direttiva 1999/70, che è la direttiva sul contratto
a termine.
Se si va a leggere il testo di questa direttiva, essa dice espressamente che la
reiterazione dei contratti a termine deve essere basata su ragioni giustificate.
Ma se sono state tolte le causali, come si può in qualche modo giustificare la
reiterazione?
Questo è un aspetto che io non vedo molto sottolineato: le proroghe sono state
ridotte, ma non si è detto nulla rispetto al tema dei rinnovi, che è altrettanto importante e può esporre il nostro Paese a delle sanzioni di carattere europeo.
Terzo aspetto, che mi pare molto interessante, è il diritto di precedenza. Deve
essere esplicitato, nel momento in cui un lavoratore viene assunto con il contratto a termine, che, se quel contratto dura più di sei mesi, il lavoratore ha un
diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni, sia a tempo indeterminato
che a tempo determinato.
Un altro aspetto interessante è il fatto che il congedo di maternità viene considerato utile al fine della maturazione dei sei mesi, che danno luogo al diritto
di precedenza.
Sull’apprendistato si rischiava molto, perché l’intervento iniziale era improntato ad una flessibilità e ad una semplificazione molto spinte, nel senso che
si andava ad intaccare il fatto che l’apprendistato si caratterizza come unico
contratto formativo, perché ci deve essere la formazione, ed è l’unico contratto
a causa vista.
Ma se, come era nel testo originario del decreto n. 64, si dice che il piano
formativo non deve risultare dall’atto scritto, ciò significa che non mi interessa
il lato della formazione: infatti si dice che per atto scritto basta che ci sia la
stipula del contratto, ma non si prevede il piano formativo. Così facendo però,
nel caso in cui un ispettore del lavoro vada a verificare se si fa la formazione
o meno, egli non può avere alcun elemento di riferimento, se non c’è nulla di
scritto.
Altro punto è che questa formazione, molto spesso giustamente bistrattata,
trasversale, per l’apprendistato professionalizzante – le famose 120 ore in tre
anni – da obbligo era diventata una sorta di facoltà. Intervenendo sulla norma
specifica, che riguardava l’apprendistato di secondo tipo, cioè quello professionalizzante, cambiando il “deve” con un “può”, nella formulazione originaria
si cercava di dire che la formazione di 120 ore diventava facoltativa e non più
obbligatoria.
Anche su questo aspetto ci sono state delle modifiche, che forse hanno tenuto
conto delle sollecitazioni delle stesse parti sociali, perché da un lato è stata ripristinata la forma scritta del piano formativo, seppur con una procedura
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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semplificata, visto che nel contratto scritto deve essere specificata, anche se
in forma più semplice.
Dall’altro lato si dice sostanzialmente che viene mantenuto l’obbligo della formazione trasversale pubblica, però a quel punto è la Regione che, entro 45
giorni dall’instaurazione del rapporto di apprendistato, che viene comunicato
ai centri per l’impiego, dovrà indicare le modalità, la durata e le sedi della formazione trasversale.
Quindi per certi versi si sfidano le Regioni, che sono molto diversificate tra di
loro sotto questo profilo: alcune sanno spendere, altre non sanno spendere,
alcune sanno programmare, altre non sanno programmare; a loro viene imposta una sorta di onere di comunicazione rispetto alla formazione.
È stato poi introdotto il concetto che questa formazione di carattere trasversale
può essere effettuata anche avvalendosi delle imprese, o delle loro associazioni: questo mi risulta un po’ strano, perché io mi sarei aspettato quantomeno
un richiamo alla bilateralità, invece si è guardato soltanto alle associazioni
imprenditoriali e non anche a quanto già la bilateralità poteva realizzare.
Altro aspetto importante, che riguarda l’apprendistato, è il tema della stabilizzazione. Con la legge Fornero era previsto un periodo transitorio, per cui uno
poteva assumere nuovi apprendisti soltanto se dimostrava di aver assunto a
tempo indeterminato o il 30% o il 50% degli apprendisti precedenti, ora questa
percentuale innanzitutto scende al 20% e poi si dice che questa percentuale
non si applica per le aziende fino a 50 dipendenti, quindi per la maggior parte
del mondo produttivo del nostro Paese.
Torna in ballo allora il ruolo della contrattazione collettiva, perché non si deve
scordare che la percentuale di stabilizzazione degli apprendisti molte volte
è scritta nei contratti collettivi nazionali di lavoro. Ricordo l’accordo di Confindustria, ma anche l’accordo di Confcommercio, che è uscito all’indomani
dell’emanazione del testo unico sull’apprendistato del 24 aprile 2012, data in
cui sono stati firmati gli accordi applicativi del testo unico dell’apprendistato.
Per l’apprendistato di primo livello, quello rivolto all’acquisizione di un diploma
professionale, si prevede che ci sia quantomeno la retribuzione del 35% delle
ore di formazione, anche in questo caso fatto salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva.
Sull’apprendistato c’erano due ordini di problemi, a cui poteva andare incontro
il decreto: da un lato, se scompariva la formazione, il provvedimento poteva
essere configurato come inadempimento delle normative comunitarie, cioè
come un aiuto di Stato, vicenda per la quale l’Italia è già stata condannata per
i contratti di formazione lavoro, una volta che era scomparsa la formazione.
Dall’altro lato però, in attesa della riforma del Titolo Quinto, sull’apprendistato
c’era anche un problema di conflitto di competenze con le prerogative delle
Regioni, perché non si può per legge o per decreto-legge intervenire sulla
formazione, senza in qualche modo rapportarsi con le Regioni, che sono competenti ad intervenire sotto il profilo della formazione.
88
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Mi pare che sull’apprendistato siano stati fatti dei passi in avanti, nella logica
di dare maggiore importanza all’impianto formativo dell’apprendistato, mentre
non sono stati fatti altrettanti progressi sul contratto a termine. E rispetto a
questo bisogna capire qual è il ruolo che può giocare la contrattazione collettiva, perché su molti aspetti, a mio avviso – dato che il legislatore in maniera
improvvida è intervenuto su alcuni articoli, non tenendo conto del panorama
generale della disciplina – probabilmente c’è ancora uno spazio molto rilevante, che può essere giocato dalla contrattazione collettiva.
Grazie.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Buongiorno a tutti. Nella giornata di ieri il tema della bilateralità e del sostegno
al reddito è stato affrontato al mattino in generale e poi nello specifico nel pomeriggio con l’intervento di Michele Tiraboschi, il quale ha cercato di delineare
la propria visione del mercato del lavoro, che è diversa da quella di chi, sotto
particolari punti di vista, pretende o vorrebbe un rapporto diretto con i lavoratori,
saltando tutte le forze intermedie, tra cui le parti sociali ed i consulenti del lavoro, i quali invece sono molto importanti perché in effetti rappresentano appunto
le persone.
È una visione in cui non c’è soltanto il rapporto tra chi decide ed il singolo,
che sia lavoratore o imprenditore, ma una concezione per cui nel mercato del
lavoro più che guardare, come abbiamo fatto ieri, nell’ultima parte, le tipologie
contrattuali, cioè il contratto a termine o l’apprendistato, si considerano anche
i passaggi occupazionali, ovvero quanto aiutare le persone a transitare da un
lavoro all’altro, a seconda di quelli che sono i fabbisogni occupazionali di uno
specifico territorio.
Bisogna stare dunque attenti a non intervenire soltanto sulle differenti regole
delle diverse tipologie contrattuali, ma introdurre delle sedi e degli strumenti i
quali possano prendere in carico le persone, aiutarle a continuare a mantenere
un posto di lavoro o aiutarle a passare da un posto di lavoro all’altro, al fine di
evitare dei traumi in questo passaggio.
In questo modo si avrebbe una risposta efficace per le imprese e per le figure
che il mercato del lavoro richiede, ma anche il lavoratore sostanzialmente non
sarebbe lasciato da solo in questo difficile frangente.
Il discorso di Tiraboschi valorizzava inoltre la contrattazione collettiva, attraverso cui la bilateralità ha trovato sostanza, al momento soltanto a livello di
scambio di esperienze, che voi avete socializzato nei lavori di gruppo, perché,
oltre ad una visione strategica, bisogna avere delle prime sperimentazioni sul
campo, che aiutano tanto più quanto maggiormente sono specializzate.
A questo punto abbiamo tutti gli strumenti per affrontare questo accordo che il
22 ottobre 2013 è stato fatto nel vostro settore specifico, il settore degli studi
professionali, accordo il quale cerca di dare una risposta ad un settore molto
frantumato, formato da piccole realtà lavorative, da piccole strutture lavorative
ed è caratterizzato anche da una grandissima componente di lavoro femminile,
rispetto al quale non c’è una tutela legislativa di sostegno al reddito.
Quanto la contrattazione in questo caso e quanto anche la bilateralità possono
realizzare?
Per rispondere a questa domanda abbiamo chiesto aiuto a Roberto Sartore, di
ANCL, componente del Cda di E.BI.PRO, il quale, partendo da alcuni dati relativi al vostro settore, affronterà l’aspetto più generale di questo accordo e poi,
sotto un profilo più tecnico, questo accordo sarà esaminato da Silvia Spattini.
Quindi avremo una presentazione a due voci di questo accordo: Silvia Spattini è il
Direttore di ADAPT, un’associazione che raccoglie un gruppo di dottorati del diritto
del lavoro, di giovani ricercatori, che danno una mano alle parti sociali, alla CISL,
ai consulenti del lavoro, per analizzare alcuni elementi del diritto del lavoro.
La parola va ora dunque a Roberto Sartore.
93
Intervento di:
Roberto Sartore
(Presidente ANCL Venezia
Componente Cda E.BI.PRO)
94
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Innanzitutto devo ringraziare la nostra coordinatrice del Centro Studi nazionale,
Diana Onder, la quale mi ha dato l’opportunità di questo intervento, nonché
Marco Lai.
In effetti essere dentro il Cda di E.BI.PRO a volte crea qualche problema: è stata
per me un’esperienza, naturalmente molto utile, che mi ha fatto capire certe dinamiche ed è proprio da queste dinamiche che desidererei partire in premessa.
L’argomento è già stato introdotto da Marco Lai, ma, per comprendere queste
dinamiche, vorrei fare un’altra premessa. Generalmente noi consulenti del lavoro, quando ci approcciamo ad un contratto collettivo o ad un rinnovo, miriamo
subito a quella parte che è di interesse diretto sia delle nostre aziende, ma
anche dei lavoratori.
Sono i titoli che riguardano retribuzione, ferie, orario di lavoro e tendiamo a
bypassare il resto: nel nostro contratto collettivo molto probabilmente siamo
partiti dal titolo 8 ed abbiamo tralasciato la prima parte, che sono tutte le relazioni sindacali.
Anche perché lì si usano delle terminologie, come governance, soft law, stakeholder value, che ci dicono poco per quello che ci interessa davvero. Invece in
realtà questa prima parte del contratto è importante, per comprendere poi quali
sono l’andamento e l’applicazione contrattuale nella sua interezza.
Consideriamo dunque innanzitutto le terminologie che individuano gli attori interessati. Quando parlo di governance, individuo subito le parti sociali, che io
definisco le controparti contrattuali. In realtà in ambito di E.BI.PRO c’è una
sigla sindacale che continua ad usare il termine “controparti”, ma ovviamente,
come dice Marco Lai, sono le parti: i rappresentanti dei datori di lavoro e i rappresentanti dei lavoratori, che assieme si danno le regole.
Le parti sociali poi individuano nella Commissione Paritetica Nazionale l’organo
che deve vigilare. Se voi guardate l’accordo del 16 luglio 2010 all’articolo 3 e
all’articolo 12, che sono stati recepiti in toto dal contratto del 2011, viene definito qual è il ruolo di questa Commissione Paritetica Nazionale: ha il compito di
formulare progetti di azioni positive per il raggiungimento delle pari opportunità,
nonché la costituzione degli strumenti paritetici bilaterali, finalizzati e funzionali
alla crescita professionale, alle tutele sociali, all’offerta di servizi, con il controllo
quindi di E.BI.PRO, di CADIPROF e di Fondoprofessioni e deve esprimere le
sue valutazioni in materia di ammortizzatori sociali.
È un organo estremamente importante: qualche volta io lo definisco anche il
refugium peccatorum, perché, quando nell’ente bilaterale abbiamo qualche
problema, lo si demanda alla Commissione Paritetica.
Ho aggiunto il gruppo delle pari opportunità, perché effettivamente molte volte
i contratti non vengono poi rispettati in tutte le parti. Infatti la Commissione
Paritetica doveva lavorare su questo gruppo di lavoro, ma di questo non si è
mai parlato.
Altro organo è E.BI.PRO, che nasce innanzitutto per gestire l’ente bilaterale
a livello regionale, il che ha come conseguenza la contrattazione di secondo
livello. Anche in questo frangente la cosa non è ancora partita e poi vedremo le
motivazioni di questo fatto.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
95
Quindi abbiamo CADIPROF ed infine abbiamo Fondoprofessioni. A differenza
dell’altra bilateralità, in cui spesso nasce l’ente bilaterale come scatola vuota,
all’interno della quale poi si aggiungono dei valori, negli studi professionali è
successo esattamente l’opposto: l’ente bilaterale E.BI.PRO è l’ultimo nato ed il
primo nato è invece proprio Fondoprofessioni, che nasce il 7 novembre 2003
ed ha lo scopo di promuovere piani e progetti formativi.
Risultano aderenti a Fondoprofessioni 56.404 studi professionali e vengono
gestiti 188.011 dipendenti: questi numeri sono importanti per quel che vedremo
tra poco.
L’altro organismo, che è nato subito dopo, è CADIPROF, la quale diventa operativa nel 2005 ed è la cassa di assistenza. Rappresenta un valore aggiunto
del nostro contratto, in quanto poi è stata imitata da molte altre bilateralità e
mi piace ricordare che l’EBAV, che è stato il primo ente bilaterale a nascere in
ordine cronologico, è arrivato ad avere questa cassa solamente l’anno scorso.
Quindi con il nostro contratto siamo stati quelli che hanno aperto questo tipo
di strada.
La cassa opera con 22 dipendenti divisi in tre aree, più un collaboratore. Attualmente la cassa conta 338.623 lavoratori iscritti e gli studi iscritti sono 88.835.
Rispetto ai numeri che ho citato in precedenza c’è evidentemente qualche cosa
che non quadra e tuttavia nel 2013 La cassa è intervenuta in 203.240 casi, il
che dimostra la valenza di questo strumento.
E.BI.PRO è l’ultimo nato, nasce nel 2009 ed ha una serie di funzioni che permettono di avere dei servizi di qualità per i titolari e i lavoratori. Qui si applica
a pieno la bilateralità: ha solo tre dipendenti, ha 65.430 studi iscritti e 138.470
lavoratori iscritti. Anche questi sono numeri diversi rispetto a quelli iniziali, ma ci
può essere una motivazione di base.
Il lavoro di E.BI.PRO: sono stati formati 5.500 dipendenti in materia di sicurezza
del lavoro, siamo intervenuti sulle malattie gravi, quelle previste dall’articolo 98
del contratto collettivo nazionale di lavoro, e lo abbiamo fatto 15 volte.
Ovviamente non abbiamo i numeri di CADIPROF, ma è vero che siamo partiti
molto dopo. Anche in questo caso tuttavia direi che occorre fare una riflessione
su questi numeri, perché sono numeri che ci dicono qualche cosa.
Fatta questa premessa basata sui numeri, per farvi capire a grandi linee in che
ambiente ci stiamo muovendo, andiamo all’accordo del 22 ottobre 2013: già la
data è importante e poi vedremo perché.
In questo caso si attua l’accordo del 16 settembre 2010, che è stato recepito
dal nostro contratto per intero. L’accordo parla di intervento in caso di sospensione dell’attività lavorativa, intervento in caso di cassa integrazione in deroga,
intervento integrativo con i contratti di solidarietà, ulteriori prestazioni da parte
del sistema della bilateralità e per ultimo c’è l’impegno a verbale.
Quest’ultimo è molto importante, perché riguarda quei famosi fondi di solidarietà, di cui si è parlato ieri, e recita così: “Le Parti si impegnano a valutare in occasione del prossimo rinnovo contrattuale l’opportunità di costituire e di finanziare
un Fondo Bilaterale per il sostegno al reddito. Le Parti si impegnano, nella medesima sede, altresì, a valutare l’opportunità di definire strumenti di sostegno
96
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
al reddito anche in favore degli addetti con le diverse forme di cui all’Impegno a
verbale del CCNL studi professionali del 29 novembre 2011”.
6.000 sono i dipendenti che hanno fatto ricorso alla cassa integrazione in deroga, che non sono pochi, se parliamo di studi professionali: questi dipendenti
erano tuttavia in servizio presso grossi studi con numeri molto alti, o appartenevano a settori del tutto particolari, pensiamo agli architetti, pensiamo ai geometri, i quali hanno avuto una caduta pesante in termini lavorativi.
Pur augurandoci che la crisi evolva in senso positivo, non possiamo dimenticare che la coda può essere pesante anche per quei studi in cui non manca
il lavoro: pensiamo ai consulenti del lavoro, che magari hanno avuto anche
un incremento di lavoro, ma sia negli studi dei consulenti del lavoro che in
quelli dei commercialisti sorge il problema dei mancati pagamenti, per cui vi
è un problema di solvibilità nei confronti dei propri dipendenti. Ecco perché
quest’accordo, che sembra arrivare un po’ dopo rispetto ad altri accordi, ha la
sua importanza.
Partiamo dagli interventi in caso di sospensione dell’attività lavorativa e degli
interventi in caso di cassa integrazione in deroga. All’interno di E.BI.PRO già da
tempo mi avevano dato l’incarico di studiare questo intervento sospensivo, in
applicazione dell’articolo 2 e dell’articolo 3, comma 10 e 17 della legge n. 92 e
facciamo riferimento anche all’articolo 19 della legge n. 12 del 2009.
Sapete benissimo che, se l’ente bilaterale interveniva con il 20%, c’era la possibilità di un’integrazione da parte dell’Inps e si arrivava ad una copertura per la
sospensione pari a 90 giorni, sospensione che non va intesa a zero ore, come
comunemente si pensa, ma che altro non è se non un’altra forma di cassa
integrazione in deroga.
Però, sfruttando questa possibilità, nel 2012 – faccio sempre l’esempio
dell’EBAV, che avevamo tramutato in ente bilaterale – ci sono stati 90 giorni di
sospensione con l’intervento del 20%, e poi, terminato questo, si è potuto adire
alla cassa integrazione in deroga normale, per cui praticamente, giocando con
le giornate, si è data la copertura per quasi tutto il 2012.
Lo stesso è accaduto nel 2013, ma si sono invertiti i termini, perché il Ministero
non aveva dato da subito le coperture, infatti nel 2013 si è partiti prima con la
cassa integrazione in deroga – parlo sempre dell’EBAV – e poi si è passati alla
sospensione.
Visto questo esempio, si è arrivati a portarlo nell’accordo: purtroppo però sono
intervenuti due fattori che ci hanno creato qualche problema.
Il primo fattore è che noi consulenti ci siamo abituati a fare ieri quello che dovremmo fare domani ed è successo che c’è stato un ritardo nell’applicazione
di questa parte dell’accordo. In effetti le parti sociali hanno voluto istituire una
commissione, che doveva regolamentare l’accesso a questo 20%: era una
commissione che doveva essere istituita da subito, ma purtroppo questa commissione non è partita. Non si è capito bene se erano le parti sociali, come è
scritto, che dovevano intervenire, o se era la Commissione Paritetica. Si è palleggiato un po’, si è perso del tempo, intanto le cose sono andate avanti.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
97
Il secondo fattore invece proviene dall’articolo 4, comma 2 della legge n. 85 del
2013, la quale prevedeva l’emanazione di un decreto, di cui si ebbe solo una
bozza, che, applicando la famosa definizione di imprenditore del codice civile,
ci aveva lasciato fuori: hanno detto che gli studi professionali non potevano
aderire alla CIG in deroga.
A questo punto, un po’ di ritardo nell’istituire la commissione e questa bozza di
decreto, la quale mi pare che poi non si sia mai concretizzata, hanno creato il
problema, quindi i due punti di intervento del nostro accordo, sia la sospensione
che anche l’intervento integrativo in presenza della CIG in deroga, non sono
partiti.
È vero che nel 2014 continuiamo ancora ad applicare la cassa integrazione
in deroga anche per gli studi professionali, almeno in certe Regioni: Veneto,
Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna, perché il 16 dicembre 2013 c’è stata
una nota del Ministero, la 43.332, la quale prorogava l’intervento della cassa
integrazione in deroga del 2013 anche per il 2014, dando però un limite temporale di sei mesi.
Le Regioni prudentemente non sono partite subito con i sei mesi, ma hanno
fatto un primo step di scadenza al 31 marzo, però so che in questi giorni la stanno prorogando fino al 30 giugno. Ovviamente, essendo una proroga del 2013,
ecco che anche gli studi professionali hanno potuto applicarla.
In merito a questo mi confrontavo ieri l’altro con la Federazione dell’Artigianato
veneto i cui aderenti pensano che, giocando sempre sulle giornate, anche se
c’è la scadenza del 30 giugno, si possa proseguire con l’intervento. Io non so se
effettivamente potrebbe essere così, ma intanto per quest’anno effettivamente
stiamo andando avanti.
L’altro intervento dell’accordo, che reputo molto importante, è l’intervento integrativo dei contratti di solidarietà difensivi. Si è rivisitato l’articolo 5, comma 5
della legge n. 236, integrato dall’articolo 7 ter, comma 9 della legge n. 23 del
2009. I contratti di solidarietà difensivi sono di due tipologie: la tipologia A per
le aziende che possono applicare l’articolo 24 della legge n. 223, e la tipologia
B, nella quale adesso ricadiamo anche noi, laddove si vogliono evitare licenziamenti individuali plurimi, riducendo l’orario dei dipendenti dello studio, cosa che
permette di evitare questa problematica.
L’ente bilaterale interviene con un anticipo, laddove l’intervento ministeriale
prevede il 25% di integrazione delle ore non lavorate ai dipendenti ed un altro 25% di integrazione delle ore non lavorate all’azienda; normalmente però
l’azienda lascia ai dipendenti il suo 25%.
Se l’azienda lascia il suo 25%, allora l’ente bilaterale anticipa all’azienda, che
chiaramente è in difficoltà, affinché l’azienda possa dare subito ciò che deve,
perché voi sapete che è una procedura estremamente lunga e complessa, dato
che qui entrano in campo le DTL con tutta una serie di controlli e di verifiche,
anzi è la DTL stessa che alla fine determina l’importo della CIG e richiede quindi anche un po’ di documentazione.
Proprio perché c’è questa lungaggine burocratica, l’ente bilaterale ha deciso di
fare un prestito alle aziende. Se devo fare il componente del Cda, tuttavia qual-
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
che perplessità ce l’ho, perché se si anticipa ad un’azienda in crisi di solvibilità,
non si sa se poi questi soldi torneranno indietro.
Ovviamente questa è una parte dell’intervento; abbiamo poi dei casi in cui non
possiamo avere il licenziamento individuale plurimo, ma abbiamo solo il licenziamento individuale: lo studio che ha un dipendente non può fare diversamente. Che cosa fare per quel lavoratore? L’accordo prevede un intervento anche
per questi casi e prevede che, laddove ci sia un dipendente unico, si riduce
l’orario e si integra direttamente il 50% da parte dell’ente bilaterale per un massimo di 520 ore, percentualizzabili laddove ci sia un contratto a part-time.
Questo è un intervento diretto, che reputo molto importante: per fortuna abbiamo fatto cassa in questi anni, poiché non sono partiti da subito gli enti bilaterali
regionali, ai quali dovevamo dare il 70%; inoltre avremmo dovuto dare il 20%
alla Commissione Paritetica. Noi perciò avevamo 5 milioni di euro messi da
parte ed abbiamo potuto fare queste cose. È infatti importante intervenire laddove gli studi abbiano un solo dipendente, per poterli salvaguardare.
Noi inizialmente eravamo fuori anche dall’intervento del contratto di solidarietà
difensivo, ma a questo proposito sono intervenuti i consulenti del lavoro. È il
famoso interpello n. 33 del 2011, a cui è stata data risposta positiva, ma prima
c’era stato un altro interpello, che riguardava il fatto che i dipendenti licenziati
dagli studi professionali non potevano iscriversi alle liste di mobilità, anzi, potevano iscriversi nelle liste di mobilità, ma chi li assumeva, non aveva diritto agli
sgravi fiscali previsti per altre categorie.
Su questo punto da parte del Ministero c’era stata una risposta, che si rifaceva
alla direttiva UE 98/59, la quale conseguiva ad una sentenza della Corte di
Giustizia Europea, che, entrando nel merito della definizione di imprenditore,
diceva che l’imprenditore è qualunque soggetto che svolge attività economica
ed è attivo sul mercato.
Questa definizione ci riportava dentro i contratti di solidarietà difensivi e ci dovrebbe portare dentro anche nel discorso dell’iscrizione alle liste di mobilità dei
dipendenti licenziati dagli studi professionali per la crisi.
È proprio di questi giorni una risposta dell’Inps ad una lettera che aveva inviato il nostro Presidente, il quale richiedeva che avesse diritto agli sgravi fiscali
chi assumeva i dipendenti licenziati dagli studi professionali, iscritti alle liste di
mobilità.
Ci ha risposto Mauro Nori, che attualmente è facente funzione del Presidente,
che, come si sa, ha avuto qualche problema. Dalla lettera si vede bene come
riescono ad arrampicarsi sugli specchi per giustificare delle risposte negative:
i nostri lavoratori sono lavoratori di serie B, con tutto quello che i nostri studi
fanno per la pubblica amministrazione.
Abbiamo poi le “Ulteriori prestazioni da parte del sistema della bilateralità”: che
cosa deve fare secondo l’accordo Fondoprofessioni? Deve provvedere a fare
dei corsi di riqualificazione per i dipendenti che escono dal mercato del lavoro
degli studi professionali. Mi permetto di dire che Fondoprofessioni deve stare
attento a chi dà incarico di fare questi corsi di formazione, perché non si ripetano esperienze passate, che non sono state molto edificanti.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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Quanto a CADIPROF, E.BI.PRO aveva pensato che, quando si è in presenza
degli ammortizzatori sociali, non c’è il versamento delle quote e quindi decade
l’intervento di CADIPROF. In realtà con E.BI.PRO avevamo pensato proprio di
versare i contributi che vengono a mancare per il lavoratore, che è soggetto agli
ammortizzatori sociali.
Per quanto riguarda le politiche attive io mi fermerei all’articolo 5 del nostro contratto collettivo al punto C e successivi, dove sono previste le politiche attive,
che devono essere applicate dalla Commissione Paritetica Nazionale.
Sapete che l’articolo 3 della legge n. 92 aveva previsto i fondi bilaterali ed aveva dato sei mesi di tempo per la loro attuazione, poi la legge di stabilità n. 228
li aveva prorogati a 12 mesi e la legge di stabilità del 2014 ha fatto decadere
questo limite; però non ha fatto decadere il fatto che dal 1 gennaio i fondi residuali presso l’Inps dovevano partire.
Questi fondi prevedono una contribuzione da parte dell’azienda pari allo 0,50%,
ma ancora non sappiamo quale contribuzione dovrebbero dare gli studi che
superano i 15 dipendenti, se le parti sociali sono state inerti e non hanno realizzato il fondo.
Nell’impegno a verbale il primo periodo scadeva il 31/10/2013, quindi noi possiamo considerare di non essere stati inerti e non ricadiamo in quella fattispecie
che l’Inps aveva prorogato al 31 marzo con la circolare 15 del 29/1/2014.
Non ci ricadiamo perché noi non ci siamo mossi, anche se abbiamo previsto
di farlo nel prossimo contratto; ma secondo me ricadiamo nell’adeguamento
dei fondi, in quanto il fondo è già esistente. E tuttavia l’adeguamento prevede
anche il fatto che possiamo fare la sospensione. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Ringraziamo Roberto Sartore, perché ha fornito molto sinteticamente gli elementi essenziali di questo accordo, cercando di dare anche delle interpretazioni, alla luce delle indicazioni che vengono dall’Unione Europea, cosa che mi
pare molto interessante, perché apre una finestra anche per altri settori, i quali
non sono caratterizzati da un profilo di impresa in senso stretto.
Abbiamo il piacere ora di avere con noi Silvia Spattini, che è Direttore di ADAPT
e che da molto tempo ha approfondito questo tema degli ammortizzatori sociali.
Nell’ambito della collana ADAPT ha pubblicato dei volumi su questo tema specifico e quindi le abbiamo chiesto di aiutarci a capire un po’ meglio dal punto di
vista tecnico – non politico o interpretativo – quali sono gli elementi di novità di
questo accordo e come questo accordo si colloca in un sistema più generale.
Prego.
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Intervento di:
Silvia Spattini
(Direttore e Senior Research Fellow di ADAPT)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Il contratto collettivo, riorganizzando e ridefinendo i compiti dei vari enti o delle strutture bilaterali, ha previsto che l’ente bilaterale nazionale del settore si
occupasse anche del sostegno al reddito, sia in caso di cessazione che di
sospensione temporanea del rapporto di lavoro.
Invece l’accordo specifico è andato a definire più nel dettaglio la questione
dell’iscrizione all’ente e quindi dei destinatari dei servizi. È interessante sottolineare, anche per differenza rispetto agli enti bilaterali degli altri settori, la
questione dei destinatari: non sono soltanto gli addetti o i dipendenti degli studi
professionali, ma sono anche i titolari degli studi stessi.
A questo si lega la questione dei finanziamenti: mi limito a ricordare l’obbligatorietà dei versamenti. Infatti è stato ribadito anche da una circolare ministeriale
che le tutele e i servizi erogati dal sistema della bilateralità sono da considerare un diritto, cioè fanno parte della parte economica e normativa del contratto
e conseguentemente devono essere garantiti attraverso i versamenti, o erogando direttamente ai lavoratori questi servizi.
Naturalmente il contratto deve essere applicato integralmente da parte degli
studi professionali, i quali devono aver regolarmente versato quanto da loro
dovuto.
Vediamo dove si collocano le prestazioni previste rispetto alla normativa: la
prima tipologia di prestazioni è l’integrazione del 20% dell’indennità di disoccupazione. Questa tipologia di misura consiste nell’utilizzo dell’indennità di
disoccupazione in caso di sospensione e l’attivazione di questa misura è strettamente legata al fatto che esista un’integrazione all’indennità erogata dall’ente bilaterale.
La misura così disegnata non è ovviamente una misura nuova, ma fu per la
prima volta introdotta dal decreto-legge n. 185 del 2008, sostanzialmente la
prima disposizione, che consideriamo facente parte della cosiddetta legislazione anticrisi. Nel 2008, all’indomani del conclamarsi della crisi, sono stati
fatti diversi interventi, tra cui anche questo, la cui finalità evidentemente era
quella di dare una risposta ai settori, che non erano coperti dalla cassa integrazione. Infatti sappiamo che il problema italiano è la mancata universalità di
certe misure ed in particolare delle misure relative alla cassa integrazione.
Questa norma è stata riproposta sostanzialmente identica all’interno della legge Fornero, la legge n. 92 del 2012. Viene specificato che si tratta ancora
di una misura sperimentale, una norma specifica che deve coprire il periodo
2013-2015. Anche nel vostro accordo si specifica che viene creato un sistema
sperimentale, perché si riferisce a delle norme che non sono a regime.
In questo caso si parla di norma sperimentale, perché la finalità generale della
legge Fornero era quella dell’universalizzazione delle tutele, di una copertura
da parte delle tutele, in caso di sospensione dell’attività lavorativa e del rapporto di lavoro, per tutti i lavoratori. Ma la scelta fatta non è stata quella, come
poteva essere, di estendere il sistema della cassa integrazione a tutti i settori:
è stato scelto di costituire un sistema basato sui fondi di solidarietà, principalmente bilaterali.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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Da un lato c’era il fatto che la crisi nel 2012 non era stata ancora superata,
per cui il periodo transitorio per la costituzione del nuovo sistema consigliava
di mantenere anche questo strumento, già utilizzato. L’ambito di applicazione
sono i lavoratori sospesi per crisi aziendale ed occupazionale da aziende a cui
evidentemente non si applicano i trattamenti di integrazione salariale.
Trattandosi di una determinata misura, cioè l’indennità di disoccupazione, per
accedere a questo strumento, devono ovviamente essere soddisfatti i requisiti, che normalmente devono essere soddisfatti per accedere all’indennità di
disoccupazione, ovvero i due anni di assicurazione, almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente, oltre all’integrazione dell’indennità da parte
di un ente bilaterale, perché questa è la condizione principale, la conditio sine
qua non. La durata delle 90 giornate in un biennio mobile invece rappresenta
una modifica rispetto alla misura precedente.
L’altra prestazione prevista dall’accordo del settore degli studi professionali è
l’integrazione in caso di cassa in deroga: anche in questo caso, tornando alla
finalità, all’obiettivo generale della legge Fornero, le tutele sono basate su due
sistemi, quello tradizionale della cassa integrazione ed il nuovo sistema dei
fondi di solidarietà.
In questa visione uno degli obiettivi era proprio il superamento della cassa
integrazione in deroga più volte accennato ed ancora per questo motivo – la
crisi e la fase transitoria – la legge ha previsto che fosse possibile concedere
in deroga la cassa per il periodo 2013-2016.
Sappiamo che nel corso di questi anni in vari momenti è stata rifinanziata la
cassa, perché il problema fondamentale della cassa è appunto il finanziamento ed anche in questi giorni si chiede al Ministro se ci sono fondi per finanziarla
ulteriormente.
Rispetto all’anticipo ai lavoratori del contributo erogato in caso di contratto di
solidarietà, quello che è importante, perché questo funzioni, è che il datore di
lavoro ceda sostanzialmente la propria parte al lavoratore, infatti sapete che
normalmente in questo ambito quello che viene riconosciuto è pari al 50%
della retribuzione persa, ma la metà è destinata al lavoratore e l’altra metà è
destinata all’imprenditore.
È una misura particolarmente interessante, per come è stata concepita, quella
di prevedere che tutto vada al lavoratore ed è altrettanto importante che ci
sia l’impegno alla restituzione da parte del lavoratore all’ente della parte che
spetterebbe a lui.
Rispetto alle ulteriori prestazioni che sono previste, mi pare in questo caso
interessante sottolineare il fatto che ci sia l’impegno non soltanto di prevedere
delle prestazioni a sostegno del reddito, ma di individuare anche delle politiche
attive per il reinserimento dei lavoratori ed in particolare che sia data la possibilità di accedere alla riqualificazione professionale.
L’ultima parte dell’accordo, o meglio l’impegno a verbale, fa riferimento al fatto
che le parti si impegnano a valutare, in occasione del rinnovo contrattuale, la
possibilità di costituire e finanziare un fondo bilaterale per il sostegno al reddito.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Questo dà l’occasione per evidenziare che nel settore è stato sviluppato un
sistema di sostegno al reddito in un certo senso alternativo a quello che le
normative propongono.
Ovviamente le parti hanno tutto il diritto di decidere in piena autonomia che
cosa, sulla base di accordi di questo tipo, offrire ai lavoratori. Ma la costruzione
è diversa da quello che suggerisce, o anzi prevede, la legge n. 92 del 2012,
ovvero un sistema alternativo a quello delle casse, per i settori evidentemente
esclusi dall’ambito di applicazione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria, che abbia sostanzialmente le stesse finalità e che si basi su fondi
di solidarietà principalmente bilaterali. Dico “principalmente bilaterali” perché
poi esiste un fondo residuale, che non ha evidentemente la caratteristica della
bilateralità.
Questi sono i fondi che dovrebbero esistere per costruire un sistema di fondi di
solidarietà alternativo al sistema delle casse e capace di garantire ai lavoratori,
in costanza di rapporto di lavoro, un’integrazione del reddito che perdono.
Vediamo, in base alla normativa, dove si potrebbe collocare il settore, per
quello che è stato fatto e per quello che non è stato fatto: noi dovremmo avere
un cosiddetto modello principale ed un modello alternativo, comunque costituiti da fondi bilaterali, ed un fondo residuale, che per definizione appunto
dovrebbe coprire gli ambiti che non hanno un fondo bilaterale di settore.
E questo è abbastanza logico, per il fatto che, benché esista una legge che
prevede la costituzione di questo fondo, d’altra parte la legge non può obbligare i settori a costituire dei fondi bilaterali, perché questo andrebbe contro alla
libertà sindacale.
Non si può affermare dunque che esista l’obbligatorietà di istituire dei fondi
bilaterali all’interno di tutti i settori per la ragione appena detta e proprio per
questo è stato concepito nel sistema, anche se non ancora costituito, un fondo
residuale, a cui però obbligatoriamente devono versare tutti i datori di lavoro
dei settori che non hanno un fondo bilaterale.
L’obbligatorietà esiste per il versamento di questi contributi, ma non evidentemente per la costituzione di un fondo bilaterale, come si è detto. La questione
è capire dove ciascun datore di lavoro deve versare: o nel settore esiste un
ente bilaterale, che ha costituito un fondo, oppure il datore di lavoro deve fare
riferimento al fondo residuale.
Nella norma, rispetto al versamento al fondo residuale, si fa riferimento, come
ambito di applicazione, ai datori di lavoro che abbiano più di 15 dipendenti e
questo è effettivamente un vincolo: quelli che sono al di sotto dei 15 dipendenti
non hanno questo obbligo, ma se parliamo solo di fondo residuale. Se invece
parliamo dei fondi bilaterali, l’accordo tra le parti può decidere che l’ambito di
applicazione del fondo riguardi tutti i datori, indipendentemente dal numero dei
dipendenti, tanto è vero che lo statuto del fondo degli artigiani, che è uno dei
pochi ad essere stato costituito, prevede appunto l’applicazione, indipendentemente dal numero dei dipendenti.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
105
La finalità è una tutela del reddito dei lavoratori in costanza del rapporto di
lavoro nei casi di riduzione o di sospensione dell’attività, per le causali esattamente identiche a quelle previste dalla normativa in materia di integrazione
salariale ordinaria o straordinaria. Ci possono poi essere delle finalità aggiuntive, che ora non consideriamo.
È più interessante esaminare la costituzione dei fondi bilaterali, che vengono
costituiti in base ad un accordo tra le parti, ma devono essere istituiti presso
l’Inps mediante un decreto. Quindi sono effettivamente bilaterali, ma sono bilaterali spuri, perché di fatto sono una gestione Inps.
Siccome l’idea è appunto quella di creare un sistema alternativo a quello delle
casse, che è destinato a chi è escluso dalle casse medesime, le causali sono
le stesse e l’importo previsto è praticamente lo stesso, perché deve essere
pari all’integrazione salariale, mentre è diversa la durata.
Questi fondi non hanno una natura privatistica, come normalmente accade
per le attività degli enti bilaterali, ma hanno una natura pubblicistica, visto che
ricadono tra le gestioni dell’Inps, tanto è vero che l’aliquota è stabilita da un
decreto ministeriale – che non esiste ancora – ed anche in questo caso è in
linea con quanto accade nel sistema delle casse, per cui, nel caso di ricorso
alla prestazione, è previsto un contributo addizionale.
Ovviamente deve esistere un comitato amministratore, composto in un certo
modo, paritetico, ma con anche la presenza di componenti designati dall’Inps
e con obblighi vari.
È previsto, come abbiamo visto all’inizio, anche un cosiddetto modello alternativo. Qualcuno dice che gli piace di più perché è bilaterale: il problema è che
questo modello alternativo è stato previsto, per salvaguardare la bilateralità
esistente, gli enti bilaterali che sono già consolidati, tant’è vero che la stessa
norma fa l’esempio dell’Artigianato, che è uno dei settori in cui il sistema bilaterale è più sviluppato, come dimostra il fatto che l’Artigianato ha creato il
fondo specifico.
In questa caso si parla di “adeguamento”, il che significa che nei settori, in
cui esistono già dei fondi bilaterali, questi fondi possono essere modificati, in
modo che la finalità dall’organizzazione si adegui a quanto prevede la legge
Fornero rispetto alla formazione di fondi di solidarietà bilaterali.
La differenza principale è che in questo caso non sono del tutto autonomi,
perché qualcuno sostiene che svolgono una funzione sostanzialmente pubblica, ma restano autonomi, nel senso che non si tratta di gestioni Inps, come
è invece il modello principale, ma rimangono, anche se vigilati, nella gestione
delle parti sociali.
La norma ci dice che l’aliquota ordinaria viene stabilita dal contratto collettivo,
ma la norma ci dice anche che non deve essere inferiore al 20%, quindi pone
delle condizioni. Altre condizioni sono rappresentate dall’onorabilità o dai requisiti delle persone che gestiscono il fondo.
Il sistema è necessariamente completato dal fondo residuale, a cui gli imprenditori devono fare riferimento ed a cui devono versare le quote previste, nei
106
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
settori per i quali non esiste un fondo di solidarietà, ovvero quasi tutti, e per i
quali le ultime modifiche hanno previsto l’aliquota dello 0,50%.
La problematicità rispetto al sistema è determinata dal fatto che la norma, nel
momento in cui è entrata in vigore, prevedeva che i fondi dovessero essere
istituiti entro 6 mesi, poi entro 12, poi è stato posto il termine del 31 ottobre
2013, poi la legge di stabilità per il 2014 ha eliminato qualsiasi termine previsionale e questo, secondo me, è un fatto molto importante.
Infatti i termini, che non si capiva se fossero perentori o ordinatori, creavano
un problema, perché sembrava, anche se non era questa la nostra interpretazione, che chi non costituiva un fondo entro il termine dato, non aveva più
la possibilità di costituire il fondo bilaterale, il che in un certo senso è un po’
un’assurdità, perché così si elimina la libertà delle parti.
Avendo eliminato il termine, almeno in questo caso la legge ha chiarito la
questione, per cui, a questo punto, il sistema dice che possono esistere i fondi
bilaterali con le caratteristiche che abbiamo visto, che esiste il fondo residuale,
ma nulla esclude che un settore ad un certo momento decida di creare un
fondo di solidarietà bilaterale, per cui a quel punto le imprese, i datori di lavoro di quel settore, dovranno versare non più al fondo residuale, ma al fondo
bilaterale.
Il fondo residuale, che avrebbe potuto essere costituito nel momento stesso
in cui la legge lo prevedeva, perché non c’erano termini, poi è stato detto che
decorreva sostanzialmente dal 1 gennaio 2014. Il problema attuale è che non
è ancora stato costituito: in realtà non ci sono decreti ministeriali che lo abbiano costituito né che abbiano definito altri punti, che dovrebbero essere invece
definiti.
Il riferimento, che veniva fatto prima, al 31 ottobre 2013 prevedeva che chi ha
intrapreso la strada della costituzione del fondo, non deve versare al fondo
residuale, ma la norma dice anche che si tratta di una fase transitoria, che
cessava comunque al 31 marzo 2014, perché nei confronti di chi non avesse
costituito entro tale data il fondo, ma fosse intenzionato a farlo, era sospeso
l’obbligo di versare al fondo residuale, mentre dopo tale data l’obbligo veniva
ripristinato.
Il problema attuale è che in realtà non esiste comunque neanche il fondo residuale a cui versare. Seguirà il confronto, nel quale cercheremo di determinare
quale potrà essere la soluzione a tutta questa serie di problemi. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie a Silvia Spattini. C’è dunque l’obbligo di pagare un contributo ad un
fondo che non esiste. A Silvia Spattini vorrei porre una domanda: il sistema
del sostegno al reddito del settore degli studi professionali non si colloca in
nessuna delle tipologie previste, dove dunque potrebbe trovare collocazione
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
107
rispetto al modello prefigurato dalla normativa Fornero? Pongo la domanda
rispetto all’idea che il sostegno alla cassa integrazione in deroga dovrebbe
essere superato da questa normativa.
Invece a Roberto Sartore vorrei porre questa domanda: rispetto alle tre strade:
integrazione del 20% dell’indennità di disoccupazione, integrazione alla cassa
integrazione in deroga, anticipo di quanto dovuto dalla cassa, quale delle tre
modalità pare praticabile da un punto di vista operativo?
Adesso la parola ai partecipanti al seminario, i quali vogliono a loro volta porre
delle domande ai nostri due relatori.
Prego.
NICOLA PEGORARO
(Operatore FISASCAT-CISL Vicenza)
Anch’io faccio parte del Cda di un ente bilaterale robusto, ma tutti gli enti
bilaterali dovrebbero svolgere le stesse funzioni in proporzione alle proprie
dimensioni. Io per l’esperienza fatta penso che ci debba essere un aggancio
alla legge, la quale attualmente parla di sospensione e integrazione al 20%,
ovvero di una cassa integrazione in deroga, che tutti diciamo che dovrebbe
sparire ed essere sostituita da qualcos’altro, ma che finora ha una sua ragion
d’essere. Nel mezzo ci sta l’ibrido di alcuni comportamenti e di certi atteggiamenti, di scelte contrattuali differenti.
Ritenete voi che il fondo, qualsiasi esso sia, qualsiasi ente bilaterale lo proponga, debba avere una sua autonomia ed una solidità fatta dai numeri? L’intervento del 20% riguarda il 20% di un salario? Se facciamo un intervento su
5.000 persone con 5.000 soci, non ci stiamo dentro, se stiamo parlando di un
intervento di 150.000 soci per 30.000 persone allora ci stiamo dentro.
Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Era così difficile estendere la contribuzione della cassa integrazione a tutto il
mondo del lavoro e poi, laddove gli enti bilaterali potevano integrare, integravano in base alla loro capacità economica?
A me sembra che le grandi menti pensanti siano un po’ burn out: si poteva
migliorare la cassa integrazione, che è uno strumento che conosciamo e sappiamo utilizzare da un po’ di tempo, naturalmente affinandolo e dando anche
delle regole più precise, per evitare che ci sia qualcuno che ci specula, dato
che sappiamo che c’è qualche azienda che lo utilizza come ammortizzatore
gestionale, invece che sociale.
Affinare qualche cosa che funziona da anni, secondo me, è meglio che partire
con un sistema del tutto nuovo.
Grazie.
108
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
ANNETTE LERNA
(Segretario FISASCAT-CISL Milano Metropoli)
Se verrà prorogato l’accordo degli ammortizzatori sociali in deroga in Lombardia, come pare, verranno esclusi i lavoratori degli studi professionali, questo
mi dice la collega che siede al tavolo regionale. Questo è uno strumento che
potrebbe sicuramente recuperare questo gap e far fare anche iscritti al sindacato, cosa che mi sembra assolutamente importante, però in merito io non
ricevo risposte dal 1 luglio scorso. Grazie.
LUIGINO PEZZUOLO
(Segretario Generale FISASCAT CISL Milano – Legnano – Magenta)
Premetto che, secondo me, forse tutti quanti si stanno nascondendo un po’ rispetto alla situazione di carattere generale e perciò l’utilizzo di ammortizzatori
in deroga diventa prevalente rispetto alla ricerca di qualche cosa di alternativo,
tanto è vero che nelle realtà in cui noi operiamo, abbiamo anche tentato di implementare sistemi di questo genere, ma poi il fatto che ci siano autorizzazioni
rispetto alla cassa integrazione in deroga, ha fatto mettere da parte questo tipo
di esperienze.
Abbiamo tentato di fare un’operazione rispetto ai call center proprio perché
diventava indispensabile trovare uno strumento rispetto ad un settore che si
avvicinava ad una crisi importante.
Noi riteniamo che bisogna partire, perché l’alternativa è che tra un po’ le risorse, così come le conosciamo, saranno sicuramente molte di meno e non
verranno distribuite in questa logica degli ammortizzatori in deroga. È vero
che in Lombardia succederà questa cosa, ma è altrettanto vero che questo
non potrà essere uno strumento a disposizione sine die, senza prevedere in
qualche modo come alimentarlo.
Bisogna dunque decidere quale strada seguire: o si fanno strumenti di questo
genere – e noi siamo d’accordissimo, perché è qualcosa che, rispetto alla
situazione precedente, non esisteva – oppure bisogna decidere a livello governativo di implementare un sistema universale, cosa che oggi non è e che probabilmente non sarebbe neanche gestibile rispetto a tutta la partita dei costi.
Noi della Regione Lombardia siamo estremamente disponibili a portare a quel
livello questo tipo di esperienza, perché oggi a quel livello non c’è la costituzione degli enti bilaterali. Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Per quanto riguarda tutto lo scenario che ci state prospettando e che comunque appare abbastanza chiaro, è evidente che lo Stato sta facendo marcia
indietro su tutto.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
109
Ha cominciato tempo fa con i fondi pensionistici integrativi – e questa esperienza scimmiotta sistematicamente quell’esperienza secondo la sequenza
fondi aperti - fondi chiusi - fondo di garanzia per chi non ha deciso – ed oggi
ci vengono a dire che dell’unica alternativa che ha funzionato, cioè la cassa
integrazione in deroga, invece di rivederla come ammortizzatore sociale in
maniera stabile, si dichiara la morte da un giorno all’altro, salvo poi mettere in
piedi questo sistema, che altro non è che scaricare sul datore di lavoro e sulle
spalle del sistema produttivo l’inefficienza sistemica dello Stato.
Lo si sta facendo anche nella Sanità, tanto è vero che rivedendo i LEA, i livelli
essenziali di assistenza, quello che prima era un diritto sacrosanto alla salute,
viene oggi in parte ridimensionato. Quindi, come vedete, su tutti e tre i fronti
– previdenza, assistenza sanitaria, e adesso ammortizzatori sociali – lo Stato
sta facendo una clamorosa marcia indietro.
La domanda perciò sorge spontanea: perché a questo punto, per tutto quello
che giustamente ci stiamo preoccupando di coprire, lo Stato non fa una pari
politica di defiscalizzazione o di decontribuzione? Se prima incassava una
quantità di quattrini che serviva anche a pagare queste cose e oggi non ce la
fa più e ci dice di organizzarci dal punto di vista contrattuale – e le parti sociali
in maniera molto lungimirante ci stanno già pensando e si stanno già attrezzando – perché a questo punto lo Stato non fa il gesto di decontribuire quello
che noi dobbiamo andare ulteriormente a sostenere?
Questo non è un ostacolo di poco conto, perché fa la differenza e non viene
visto come un orpello in più rispetto alla contrattazione collettiva o alla contrattazione di livello aziendale: se diventasse sostanzialmente la prassi, anche il
datore di lavoro in quest’ottica non farebbe assolutamente una piega. Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Noi sul territorio piemontese stiamo notando sempre di più, rispetto a questa
sorta di ammortizzatori sociali, che si può venire a creare una sorta di gestione
di recupero al reddito delle imprese, come diceva precedentemente il collega, se si dà spazio alla riqualificazione professionale, nel momento in cui va
applicato l’accordo in essere. Pertanto, a mio avviso, occorre una più attenta
valutazione delle politiche di settore ed occorrono delle regole più precise e
più mirate. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Occorre uscire dalla logica di avere soltanto gli ammortizzatori sociali come
sostegno al reddito, ma bisogna dare spazio al profilo, che veniva messo in
rilievo proprio ora, dell’utilizzo dei fondi per la riqualificazione e per la ricollocazione dei lavoratori, che è un pezzo che manca nel nostro Paese.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Se le imprese riescono a farsi anche carico della rioccupabilità delle persone
che licenziano, questo a me pare un aspetto molto importante, perché credo,
vedendo i venti che spirano, che o le parti sociali si pongono direttamente questo problema, o altrimenti si rischia che le risorse, che sono state accantonate
per svolgere attività formativa, vengano poi incamerate per fare altre cose e
questo è un problema molto delicato e importante.
ROBERTO SARTORE
(Presidente ANCL Venezia - Componente Cda E.BI.PRO)
Mi meraviglio che nessuno abbia posto delle domande sui numeri che ho elencato prima, però su di essi una riflessione voglio farla, perché ci coinvolge in
maniera importante.
Mi sembra che ci sia un filo comune tra gli interventi che sono stati fatti: non
dimentichiamo però che è prevista una revisione degli ammortizzatori sociali,
perciò, se noi dobbiamo lavorare, gli spunti devono poi arrivare al legislatore.
È prevista la riforma integrale, per cui il nostro intervento deve andare in questo senso: se abbiamo delle idee, anche se il Governo non ci vuol ascoltare,
noi in qualche modo ci faremo ascoltare. Noi, come lavoratori autonomi, qualche idea l’abbiamo e insieme siamo in grado di farci sentire.
Noi stiamo ancora a discutere sull’aumento contributivo per dare la cassa integrazione a tutti, quando questo strumento a volte, secondo me, è usato male,
e purtroppo sono i rappresentanti delle associazioni di categoria, che per primi
nelle loro aziende giocano con la cassa integrazione.
Lo stesso fanno i lavoratori, visto che un vostro collega della CISL di Treviso,
per farsi firmare la sospensione, chiamava i lavoratori e quelli rispondevano
che potevano venire solo dopo le cinque, perché, pur essendo in cassa integrazione, evidentemente facevano un altro lavoro.
È un ammortizzatore che deve essere rivisto e ci dobbiamo essere noi a rivederlo, proprio per evitare questi abusi, che fanno male, che sono patologie
ben radicate.
È evidente che gli enti bilaterali possono intervenire fino a capienza: nel momento in cui sussidiarietà vuol dire che gli enti bilaterali devono fare tutto,
perché lo Stato non intende fare più niente, noi diventiamo un altro Stato, che
a sua volta deve tassare, per incamerare quanto gli occorre.
Io spero che la riforma degli ammortizzatori sociali porti ad una soluzione seria, poi noi dovremo essere presenti con la bilateralità, perché alla fine siamo
noi che siamo portatori di esigenze, siamo noi che conosciamo la realtà. E il
bravo Renzi può tenersi le mani in tasca, però lo sfido a conoscere, come conosciamo noi e conoscete voi sindacalisti, i veri problemi delle aziende, giorno
per giorno e azienda per azienda.
Quando prima esponevo i miei numeri, avrete notato una differenza di 30.000
aziende tra quelle che aderiscono al nostro Fondoprofessioni e quelle che
sono iscritte a E.BI.PRO.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
111
E già sono poche 80.000 aziende, già sono pochi 300.000 iscritti, anche se
forse qui ci dimentichiamo che la filosofia della nostra CADIPROF – ad esempio, rispetto al fondo EST – era quella di invitare i nostri dipendenti ad iscriversi solo se erano convinti: noi non abbiamo mai mandato lettere minatorie a
nessuno, ma abbiamo cercato la strada della convinzione ed in effetti, laddove i nostri dipendenti assaporano CADIPROF, la sfruttano. 200.000 iscritti su
300.000 dipendenti vuol dire che CADIPROF lavora bene.
Mi meraviglio di quelli che non ci sono e mi meraviglio della differenza tra i
300.000 della CADIPROF e i 160.000 di E.BI.PRO. Va bene che E.BI.PRO.
è nato dopo, va bene che dobbiamo entrare nell’ottica degli enti bilaterali, ma
dobbiamo fare anche un’altra riflessione molto importante: quello che diamo in
alternativa in busta paga a parte, costa di più, perché ci dobbiamo aggiungere
i contributi. Perciò, quando consigliamo all’azienda l’una o l’altra opzione, se
la consigliamo noi, dobbiamo ricordarle che una delle due opzioni comporta un
costo maggiore rispetto all’altra, a quella della bilateralità.
Detto questo, facciamo poi la riflessione che monetizzare la bilateralità non
garantisce totalmente l’azienda, perché, se il dipendente va dal giudice e gli
dice che gli sono stati dati € 25, però la CADIPROF gli avrebbe dato molto di
più per una certa operazione, il giudice gli darà ragione e condannerà il datore
di lavoro a versare la differenza.
È una riflessione importante che dobbiamo fare e mi rivolgo non ai presenti,
che sono già sensibilizzati in questo senso, ma a quella parte dei consulenti
del lavoro, che magari fanno i consulenti part-time, perché devono fare altre
cose, i quali devono tenere ben presente questo problema.
Quando si consiglia ad un’azienda una certa strada, oppure quando un consulente, senza consultare l’azienda, decide di persona, bisogna agire con consapevolezza, perché, oltre a dare un danno all’azienda, si arreca un danno a
tutto l’ordine dei consulenti, che, per questi motivi, vengono additati da qualcuno – ad esempio il Dott. Falasca – come coloro che si fanno le norme a proprio
uso e consumo per poter sopravvivere.
Io ribadisco quel che ho detto ieri: forse questi signori non si rendono conto di
quanto fanno i consulenti, che fanno i consulenti per la pubblica amministrazione, né di quanto verrebbe a costare alla pubblica amministrazione fare il
lavoro che facciamo noi. Grazie.
SILVIA SPATTINI
(Direttore e Senior Research Fellow di ADAPT)
Rispetto a dove si colloca l’intervento di sostegno al reddito nell’ambito della
bilateralità, dicevo poc’anzi che le parti in causa ovviamente possono decidere
come intervenire in questo ambito; la considerazione era che non c’è un’indicazione all’interno della normativa, nel senso che non è stato fatto l’intervento
che prevede la normativa della legge Fornero: non è stato costituito il fondo di
solidarietà bilaterale, come prevede la legge.
112
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Ma d’altra parte ci dovrebbe essere il fondo residuale, che non è stato ancora
attivato, o l’impegno a verbale, secondo il quale si discuterà in un futuro se
costituire o no il fondo di solidarietà bilaterale.
Rispetto al fatto di prevedere un intervento collegato alla cassa in deroga,
visto che comunque è stato costituito un sistema che è sperimentale, tutto ciò
può avere una sua coerenza, perché in teoria anche l’integrazione del 20% è
comunque sperimentale ed ha un termine, che è il 2015. La cassa in deroga
alla normativa attuale ha il termine del 2016, quindi può sussistere questo
riferimento.
Come qualcuno sottolineava, sicuramente la cassa integrazione in deroga è
la cosa più semplice, volendo universalizzare, come era obiettivo della legge
Fornero, le tutele esistenti, o comunque garantire a tutti i lavori – indipendentemente dal settore di appartenenza, dalle dimensioni aziendali, ecc. – una
tutela in caso di disoccupazione, come è stato fatto con il sistema dell’Aspi e
dell’indennità di disoccupazione, ma anche in costanza di rapporto di lavoro.
Si poteva molto semplicemente prendere la norma ed estenderne l’ambito di
applicazione. Questo non è stato fatto anche per volontà delle parti o degli
interessati, sia perché da un lato esistevano già dei sistemi consolidati di bilateralità e c’era la volontà di tutelarli, di proteggerli, di continuare ad agire in
quel senso, sia perché dall’altro lato si cercava di attivare delle risorse private,
da affiancare a quelle pubbliche.
Da una parte c’era la facilità operativa di agire in un certo modo, già consolidato, dall’altra non soltanto la non volontà politica dei decisori, che hanno fatto la
legge, ma anche quella delle parti, che erano interessate, le quali non hanno
voluto andare in questa direzione.
È sicuramente vero che ci sono delle patologie nell’ambito della cassa, quindi
un intervento era necessario, ma è importante sottolineare la modernità, fra
virgolette, di uno strumento che moderno non è, ma è molto antico.
Lo abbiamo visto nella crisi: io ed il professor Tiraboschi abbiamo fatto degli
studi di confronto, per capire che cosa succede negli altri Paesi, in Europa o
anche fuori dall’Europa, e quello che è evidente, osservando le dinamiche del
mercato del lavoro dal 2008 ad oggi, è che i Paesi come l’Italia, che avevano
un sistema di questo tipo –l’Italia, la Germania, l’Austria, il Belgio – sono riusciti a frenare l’impatto della crisi, quindi il sistema ha funzionato veramente
da ammortizzatore, l’effetto negativo sul Pil non si è riversato totalmente sul
mercato del lavoro e non si è tradotto automaticamente in disoccupazione.
Nei Paesi in cui non c’è questo ammortizzatore sociale, per cui in assenza di
domanda di lavoro si procede ai licenziamenti, tutta la crisi economica invece
si è trasformata in disoccupazione: la famosa Danimarca in due anni ha raddoppiato il tasso di disoccupazione; fortunatamente per lei partiva dal 3,5% ed
è arrivata al massimo al 7,8% nel 2010, ma comunque ha più che raddoppiato,
mentre noi fino al 2011 avevamo aumentato la disoccupazione di due punti e
mezzo.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
113
Il problema per noi c’è stato nel 2011, quando abbiamo avuto uno scatto di
altri due punti e mezzo di disoccupazione. Qualcuno ha detto che è accaduto, perché fino a quel momento la cassa ha funzionato e dopo ha smesso di
funzionare, ma in realtà il problema non è stato neanche quello: c’è stato un
aumento del tasso di attività, quindi non c’è stato un travaso di persone dall’occupazione alla disoccupazione, ma persone che erano fuori dal mercato del
lavoro, hanno cominciato a cercare occupazione.
Questo può anche essere un effetto della crisi, tanto è vero che è aumentato il
tasso di attività delle donne, il che vuol dire che donne che prima non lavoravano, forse perché il marito aveva perso il posto di lavoro, hanno tentato di occuparsi, per avere, se non un secondo stipendio, almeno un primo stipendio.
Ribadisco comunque che certamente occorrerebbero degli interventi, per eliminare tutte le patologie: la norma lo dice, ma il problema è quello di renderli
effettivi. A livello teorico si parla di condizionalità, ovvero dei legami tra le politiche attive e passive del lavoro.
A dire il vero, esistono delle norme per tutte le persone, non soltanto per i
disoccupati, che devono partecipare dei corsi di formazione o che devono rispondere ai centri per l’impiego, i quali fanno attività di riqualificazione.
Non era male una norma del decreto-legge n. 135, la quale prevedeva una
dichiarazione di disponibilità, che veniva fornita all’Inps, ma poi tale norma è
stata eliminata.
Il problema, che riguarda questa norma, come tante altre in Italia, è l’effettività
delle norme, cioè il renderle funzionanti, in questo caso controllando che il
lavoratore in cassa sia disponibile tutto il giorno e non sia impegnato fino alle
cinque del pomeriggio a fare qualche attività in nero.
Bisogna dunque far funzionare meglio uno strumento che va visto dal punto
di vista del mercato del lavoro, della tutela dei lavoratori, non tanto della loro
occupabilità, quanto del loro reddito. Se ragioniamo in questi termini, interviene anche la questione della ricollocazione: forse, piuttosto che spendere tanti
finanziamenti in lunghi ed inutili anni di cassa integrazione, meglio sarebbe
utilizzare quei finanziamenti per la ricollocazione effettiva, che sappiamo essere molto costosa. Magari, così facendo, potrebbe venire ad essere una spesa
non inutile.
Ritornando all’effettivo collegamento tra le prestazioni e la disponibilità dei
lavoratori per un nuovo impiego, ad esempio in Olanda, in un passaggio intermedio, l’istituto previdenziale, che erogava prestazioni, in caso di disoccupazione era competente al reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro,
anche se non lo faceva direttamente, ma lo faceva esternalizzando il compito
ed affidandolo a delle agenzie private. Il compenso all’agenzia però era legato
al risultato, quindi si faceva un controllo sull’efficacia dell’intervento e poi si
agiva di conseguenza.
Ma torniamo a come effettivamente il settore può costituire un fondo di solidarietà: è vero che il modello alternativo dice che le parti possono adeguare
un fondo esistente, però potrebbero d’altra parte adeguare anche un fondo
paritetico, eventualità che tuttavia io lascerei perdere.
114
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
L’ente bilaterale ha un fondo già esistente, perciò si potrebbe adeguare quello;
il fatto è che l’ente bilaterale espleta tante funzioni diverse, non soltanto quella
del sostegno al reddito, che adesso gli è stata attribuita, quindi dovrebbe ragionare su una trasformazione, o assumersi come funzione primaria quella di
fondo di solidarietà bilaterale, come previsto dalla norma. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Ringraziamo dunque molto sia Roberto Sartore che Silvia Spattini dei loro
contributi.
La parola ora va a Rosetta Raso, che ci parlerà di Fondoprofessioni.
115
Intervento di:
Rosetta Raso
(Segretario Organizzativo FISASCAT_CISL)
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Dobbiamo completare l’analisi del sistema bilaterale degli studi professionali, che ha imparato a leggere le caratteristiche del settore, per offrire tutele e
servizi adeguati sia alle necessità dei datori di lavoro, che alle aspettative dei
lavoratori.
Abbiamo visto dalle relazioni precedenti quali sono i nuovi compiti e gli strumenti della bilateralità, inoltre vi sono stati presentati sia CADIPROF che E.BI.
PRO, sia la cassa di assistenza sanitaria integrativa che l’ente bilaterale degli
studi professionali.
Per completare il quadro, parliamo adesso di Fondoprofessioni, il fondo paritetico interprofessionale per la formazione dei dipendenti degli studi e delle
aziende collegate.
I soci di Fondoprofessioni sono gli stessi firmatari del contratto collettivo di lavoro: Confprofessioni, Confedertecnica, Cipa, FISASCAT, FILCAMS e UILTUCS.
Confprofessioni è il mondo delle professioni intellettuali, Cipa è la Confederazione Italiana Professionisti e Artisti e Confedertecnica rappresenta il mondo
delle professioni tecniche e si rivolge ad agronomi, agrotecnici, architetti, avvocati, commercialisti, esperti contabili, consulenti del lavoro, geometri, dentisti,
ingegneri, medici, periti industriali, agrari, revisori contabili, veterinari, ecc.
Grazie a Fondoprofessioni è possibile per i titolari degli studi professionali destinare lo 0,30% del monte salari ad interventi formativi per i propri dipendenti.
Qui occorre fare una piccola precisazione rispetto a quanto diceva prima il collega Sartore: c’è una grande differenza tra i numeri dei vari enti che costituiscono il sistema: E.BI.PRO., CADIPROF e Fondoprofessioni. Le motivazioni sono
da ricercare nella mancata informazione, che riguarda tutti i membri del settore
delle professioni.
È necessario quindi approfondire sempre di più questa formazione congiunta
fra FISASCAT e ANCL, proprio per condividere le conoscenze a tutti i livelli,
perché molti non sanno, anche se per fortuna c’è gente che si forma e si informa, e c’è tanta confusione in questo settore.
L’adesione a Fondoprofessioni non è un costo aggiuntivo, ma viene già versata
tra i contributi previdenziali obbligatori e, se non si fa una scelta di formazione,
va a finire nel calderone dell’Inps. Solo nel caso in cui si faccia la scelta, lo
0,30% viene destinato infatti ai fondi interprofessionali.
È un fondo che è regolato da una normativa di legge, ma successivamente,
tramite accordi interconfederali, è stato destinato alla formazione continua. Inizialmente vi ricordo che lo 0,30% era destinato alla disoccupazione, ciò risale
al 1975, però ora, in seguito ad una scelta, si può, senza aumentare il costo
del lavoro, fare la formazione per i propri dipendenti degli studi professionali e
per quelli delle aziende collegate. Per l’adesione è sufficiente riportare la sigla
FPRO una sola volta nel flusso mensile UNIEMENS, quindi è ovvio che l’adesione è gratuita.
Ritornando ai numeri, la differenza è dovuta non solo alla mancata informazione sulle opportunità che la scelta di un fondo interprofessionale può dare, sia
per i dipendenti che per i datori di lavoro, ma al fatto che la legge prevede che
la scelta può essere fatta a prescindere dal contratto collettivo applicato.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
117
Questo purtroppo è il limite, però in tutta questa vicenda della gestione della
formazione continua dei fondi interprofessionali io devo dire che c’è molta confusione, c’è molto pressappochismo ed anche tanto business, perché ci sono
tanti professionisti che la utilizzano in maniera corretta, che si appoggiano ad
enti attuatori accreditati presso il fondo, che la fanno con molta serietà e con
molta responsabilità, ma in giro c’è anche tanta, tanta superficialità.
Per esempio, mi risulta che ci sono fondi costituiti, per essere chiari, dagli autonomi, i quali praticamente fanno formazione solo sulla carta, quindi con nessuna agevolazione né per i lavoratori dipendenti né per lo studio professionale,
perché, se la formazione continua viene fatta, deve rivelarsi un vantaggio; e
non solo un vantaggio, ma anche un’opportunità e deve essere maggiormente
diffusa, per far sì che dalle politiche passive si passi alle politiche attive.
È uno strumento fondamentale: noi abbiamo chiesto al Governo, la CISL in
particolare, di fare un piano straordinario per la formazione continua, facendo seguito alle linee guida sulla formazione continua, che aveva già elaborato
nel 2012, perché, unendo le risorse già messe a disposizione dalle Regioni e
quelle dei fondi interprofessionali, lavorando in maniera sinergica, collaborativa
e congiunta, con responsabilità e con serietà, sicuramente si poteva e si può
raggiungere il risultato di pensare all’occupabilità dei lavoratori, quindi di ampliare le tutele.
Ma non solo ampliare le tutele: fare una formazione come quella di cui parlavamo – che deve essere spendibile sul mercato, che deve essere certificata,
che viene fatta con strategie innovative, mediante metodologie messe in atto in
maniera finalizzata al miglioramento ed all’ottimizzazione dell’organizzazione
dello studio – permette di raggiungere l’obiettivo della competitività.
Se questa formazione non viene poi fatta e non vengono utilizzati i fondi, si
provoca un danno notevole non solo al settore, ma anche alla società.
A chiedere i finanziamenti, cioè gli enti proponenti la formazione, possono essere: il singolo studio-azienda; lo studio professionale per le aziende collegate;
studi o aziende consorziati; le associazioni di rappresentanza, le associazioni
sindacali, le confederazioni datoriali; ATS (Associazione temporanea di scopo)
e ATI (Associazione Temporanea di Imprese).
Chi eroga la formazione sono gli enti attuatori, ovvero soggetti specializzati
nella formazione continua e accreditati presso il fondo.
Come viene erogata alla formazione? La richiesta può essere presentata in
seguito alla pubblicazione di un avviso, accompagnato dal relativo regolamento
e pubblicato sul sito di Fondoprofessioni.
Vi preciso che gli enti accreditati al momento sono circa 500. Noi abbiamo fatto
più di una volta qualche avviso, proprio per scremare, per cercare di eliminare
ogni volta quelli che non hanno i requisiti previsti. Però purtroppo, pur scremandoli, questi soggetti continuano a presentarsi: noi non siamo forze di polizia
giudiziaria, che possono andare a controllare preventivamente, così abbiamo
un controllo interno molto rigido.
Nell’ultimo consiglio di amministrazione che abbiamo fatto, abbiamo deciso di
rendere ancora più rigide le procedure, perché, come sapete, non è solo la que-
118
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
stione che con Renzi è cambiata l’aria e si vogliono operare dei cambiamenti:
noi siamo convinti che i cambiamenti vadano governati, ma è importante che
nel governo dei cambiamenti ci siano delle regole.
Il Ministero del Lavoro ha inviato in queste settimane una lettera ai Presidenti
dei revisori dei conti di tutti gli enti di formazione professionale, invitandoli al
rispetto rigoroso delle normative. Vi preciso che il fondo interprofessionale, proprio perché per la sua natura giuridica proviene da una legge e non solo da un
contratto collettivo, subisce praticamente il controllo del Ministero del Lavoro
attraverso la nomina diretta del Presidente del collegio dei revisori.
Dunque il controllo non viene fatto dalle parti sociali, ma è un controllo che nelle
rendicontazione viene fatto da un inviato del Ministero del Lavoro. Noi lo renderemo ancora più rigido, perché veniva detto in questa circolare che, proprio per
il fatto che lo 0,30% viene versato attraverso i contributi previdenziali obbligatori, si tratta di fondi che sono da considerare di derivazione pubblica.
Questa circolare del Ministero mette in discussione una delibera del Consiglio di
Stato, che aveva detto trattarsi di fondi privati, mediante un ragionamento molto
articolato: sostiene che, nonostante il parere del Consiglio di Stato, il Governo
ritiene che si tratti di fondi pubblici per il solo fatto che passano attraverso i contributi previdenziali obbligatori. Ed aggiunge che, quando il Governo nel 2012 ne
ha avuto bisogno a copertura della cassa integrazione in deroga, l’Inps ha vampirizzato 246 milioni ai fondi interprofessionali, precisando che un’altra sentenza
del Consiglio di Stato aveva definito questi fondi di derivazione pubblica.
La circolare sostiene dunque che questa cosa è talmente vera, che il Governo
si è appropriato del denaro, di cui dicevo sopra, senza dover chiedere l’autorizzazione a chicchessia e senza alcuna conseguenza.
La nostra preoccupazione è legata al fatto che quest’anno non si capisce se
alla fine, mancando le risorse per la cassa integrazione in deroga, succederà la
stessa cosa, considerata anche la battaglia che abbiamo fatto con Confprofessioni, FISASCAT, FILCAMS e UILTUCS per sottolineare che gli studi avevano
bisogno della cassa integrazione in deroga, visto che ultimamente tutte le problematiche derivanti dalla crisi internazionale e nazionale avevano avuto gravi
riflessi sull’occupazione del settore. Quindi quest’anno siamo nuovamente a
rischio.
Il Jobs Act, di cui parlava ieri il professor Marco Lai, in una parte dice che sulla
formazione continua sarà costituita un’agenzia unica: siccome io vivo nel mondo della formazione continua, comincio a temere quel che potrà venire da questa affermazione; e poi è vero che per la cassa integrazione sicuramente non
basteranno i soldi e siccome nei fondi di formazione interprofessionale i soldi
ci sono, io temo che non vedano l’ora di metterci su le mani, in controtendenza
rispetto a quello che dovrebbe essere il piano del Governo, il quale dovrebbe
considerare che i soldi appartengono ai lavoratori ed alle imprese, per cui sarebbe necessario invece unirli a quelli messi a disposizione dallo Stato, per fare
un grande piano di ricollocazione dei lavoratori che hanno perso l’occupazione,
attraverso la formazione continua dei fondi interprofessionali, delle Regioni e
dell’Unione Europea.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
119
Siccome hanno cercato di individuare nuovi criteri per la cassa integrazione in
deroga, la CISL ha chiesto che, fin quando dura la crisi, non si cambino i requisiti della cassa integrazione in deroga, fermo restando che occorrerà trovare
nuove risorse, che attualmente non ci sono.
L’offerta formativa di Fondoprofessioni può essere “a bando”, “a sportello”, individuale a catalogo, o individuale personalizzata. Ma la nuova offerta formativa,
su cui Fondoprofessioni ha puntato in maniera determinata, perché riteniamo
che sia una soluzione molto vantaggiosa per gli studi, è quella dell’azione formativa aggregata (AFA).
Essa è basata sull’accantonamento cumulativo dei versamenti dello 0,30% per
finanziare la formazione dei dipendenti ed ha la disponibilità diretta dell’80%
dei propri versamenti su un conto dedicato, per realizzare un piano annuale di
attività formative.
La diffusione di questo strumento ci consentirà sicuramente di fare una formazione adeguata per i dipendenti degli studi. Tra l’altro Fondoprofessioni ha
firmato il 28 novembre 2013 un protocollo d’intesa per l’AFA, quindi mi auguro
che venga veramente diffusa questa modalità, che questo protocollo venga
applicato.
La struttura capogruppo, che rappresenta le strutture aggregate, gestisce il
rapporto con Fondoprofessioni. Tra l’altro ha aderito all’AFA per tutti i propri
dipendenti la FISASCAT; e non solo la Federazione nazionale, ma anche tutte
le strutture territoriali e regionali sono state invitate ad aderire all’AFA di Fondoprofessioni, perché a questo punto vogliamo fare una formazione aggregata.
Mi risulta che in questi giorni abbia aderito anche il Caf e credo che stia per
aderire anche lo IAL. Se così sarà, faremo una formazione aggregata tra FISASCAT, Caf e IAL e l’ente attuatore sarà proprio lo IAL della CISL.
Dicevamo che la struttura capogruppo, che rappresenta le strutture aggregate,
gestisce il rapporto con Fondoprofessioni, quindi ci può essere una struttura
capofila, che è il capogruppo AFA, intorno alla quale si dispongono tutte le altre
aziende. Questo può essere fatto per più studi, oppure per uno studio con tutte
le sue aziende aderenti.
Le risorse disponibili sono l’80% di quanto accantonato presso il fondo fino ad
un massimo di tre anni e c’è la risorsa della portabilità: se precedentemente si
era aderito ad un altro fondo, si può portare quanto già fatto in Fondoprofessioni e si può utilizzare un proprio conto individuale, oppure aggregarlo al conto
del gruppo, a cui si appartiene.
Abbiamo cercato di rendere tutto il sistema molto semplice: ci sarà un piano
formativo annuale ed il capogruppo, che attiverà il conto formativo AFA con
il supporto di eventuali enti formatori, presenterà al Fondo un piano di attività
formative, che può includere tutto quello che già il Fondo fa, ovvero corsi, seminari, attività individuali, ecc.
L’erogazione delle risorse avviene in più fasi: al proposito vi ricordo che le risorse non vengono date agli enti attuatori, ma al soggetto proponente, per evitare
che la formazione aggregata, che si fa con un capofila, si disperda in mille rivoli:
la responsabilità è del capofila.
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Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Per informazioni ulteriori potete visitare il sito www.fondoprofessioni.it o mandare una e-mail a [email protected]. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie a Rosetta Raso. Ora andiamo verso la parte conclusiva, recuperando il
senso di quello che abbiamo fatto in questo giorno e mezzo. Io colloco nel senso di questa nostra attività anche l’intervento molto efficace di Rosetta Raso,
nel senso che il primo giorno abbiamo affrontato il tema del sostegno al reddito
in generale rispetto al ruolo della bilateralità nel mercato del lavoro; nel pomeriggio del primo giorno con il professor Tiraboschi abbiamo cercato da un lato
di capire qual è la visione strategica dell’intervento delle parti sociali attraverso
la bilateralità nel sostegno al reddito e dall’altro lato, attraverso le esperienze
dei partecipanti, abbiamo fatto il tentativo di dare concretezza ai discorsi teorici,
al fine di mettere insieme una prospettiva strategica attraverso un riscontro di
esperienze pratiche.
Stamattina ci siamo incentrati principalmente sull’accordo specifico del settore
degli studi professionali sul sostegno al reddito e sulla riqualificazione dei lavoratori, attraverso il contributo di Roberto Sartore e di Silvia Spattini. Mi pare
ora che l’intervento di Rosetta Raso abbia ulteriormente precisato questa parte,
che anche dal punto di vista normativo riguarda la riqualificazione e la ricollocazione, ovvero quanto la formazione continua può fare, al fine di dare nuove
possibilità occupazionali alle persone.
La logica di avere uno stesso bastone, che governa gli ammortizzatori sociali e
il sistema della formazione professionale, è molto importante e nella scelta tra
modello obbligatorio e modello alternativo noi siamo per il modello alternativo,
perché valorizza il ruolo delle parti sociali in una logica privatistica, rispetto appunto a quanto può fare invece l’attore pubblico.
Non si tratta del rapporto tra chi decide ed il singolo lavoratore o la singola impresa, ma dell’intervento di soggetti intermedi, che sono quelli che conoscono il
territorio, che conoscono il mercato del lavoro. Quanto stiamo dicendo, risponde alla teoria di cui abbiamo cercato di parlare, confrontandoci, ieri.
Un tema che meriterebbe ulteriori approfondimenti è quello della riqualificazione
e della ricollocazione, che è l’anello mancante del nostro percorso legislativo.
Siccome questo ulteriore ciclo di seminari è stato reso possibile dalla partecipazione della FISASCAT nazionale e dell’ANCL nazionale, è importante avere
qui oggi Francesco Longobardi, che è il Presidente dell’ANCL e che ha voluto,
insieme a Pierangelo Raineri, Diana Onder e Rosetta Raso, la prosecuzione di
questa esperienza.
A fianco di Francesco Longobardi abbiamo Giuseppe Gallo, la cui presenza mi
fa molto piacere, che da qualche mese è il Direttore del Centro Studi di Firenze.
Sia la FISASCAT che l’ANCL hanno molto apprezzato il lavoro di costruzione
di un linguaggio comune qui al Centro Studi e fa piacere che Giuseppe Gallo
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
121
abbia plasticamente la visione concreta di che cosa significa fare formazione
congiunta, mettere insieme in una stessa aula persone che tutelano interessi
diversi, però si trovano a fare un percorso comune, in cui si costruiscono una
conoscenza ed una stima reciproca, che è la precondizione per fare le cose
bene e trovare delle soluzioni condivise.
Finora gliene avevo solamente parlato ed oggi egli può assistere al passaggio
dalla teoria alla prassi.
Diamo ora la parola proprio a Giuseppe Gallo, il quale parlerà della funzione del
Centro Studi nel contesto della CISL. A lui seguiranno gli interventi conclusivi di
Rosetta Raso, la quale comunicherà l’argomento del prossimo appuntamento,
che è già stato stabilito per il 3-4 giugno, e di Francesco Longobardi. Grazie.
38
122
Storie della FISASCAT
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Intervento di:
Giuseppe Gallo
(Direttore Centro Studi CISL Firenze)
124
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Mi fa particolarmente piacere che il Centro Studi ospiti quest’iniziativa di riflessione e di formazione congiunta, perché sono convinto - e siamo convinti in CISL
- che la bilateralità sia l’evento più significativo, più dirompente, di maggiore
novità nella storia delle relazioni sindacali, almeno nell’ultimo quarto di secolo.
Sono particolarmente felice che il Centro Studi possa ospitare FISASCAT e
ANCL in una sede come questa, nella quale la bilateralità viene concretamente
vissuta, definita, impostata, per una formazione destinata alla rappresentanza
di interessi diversi, ma con degli obiettivi comuni, che dovrebbero emergere
proprio in questa sede.
Anziché fare una riflessione astratta su questi principi, spero di essere più utile,
offrendo qualche riflessione sulla mia storia. Io ho fatto per tanti anni il Segretario Generale della FIBA, ovvero la Federazione dei Bancari e degli Assicuratori,
e vengo da una Federazione che sulla bilateralità ha lavorato moltissimo.
Nei momenti topici di evoluzione delle banche, parlo della seconda metà degli
anni 90, noi abbiamo in prima istanza trovato una sede bilaterale, nella quale
le parti hanno condiviso l’analisi dello scenario interno ed internazionale e delle
tendenze del settore.
Che ci sia una sede, un istituto bilaterale, nel quale le parti, prima del negoziato,
condividono analisi di scenario, analisi di settore e tendenze del settore stesso,
credo che sia fondamentale, perché allineiamo le rispettive chiavi di lettura e
dall’analisi del contesto poi deduciamo alcune conseguenze condivise.
Questo è decisivo, perché, prima del momento in cui noi fummo costretti a
provare a governare insieme il settore, fino all’inizio degli anni 90, le banche rimasero un settore oligopolistico, quindi non avevamo evidentemente problemi,
perché il prezzo era determinato dal venditore in un assetto molto controllato,
ma, nel momento in cui la normativa fu liberalizzata e noi entrammo in un mercato comunitario, le banche, che erano tutte pubbliche, vennero completamente privatizzate.
Si avviarono processi di concentrazione, innovazioni di prodotto e di processo con grandi impatti occupazionali, per cui il sistema bancario meridionale
implose e fu un disastro. In quel momento le parti furono costrette a dotarsi di
strumenti di condivisione e l’istituto bilaterale, che preventivamente alle stagioni
contrattuali condivideva l’analisi di scenario, fu decisivo.
Noi ci facemmo aiutare in quell’occasione, parlo del 1997, dal professor Mottura, che era Preside della Bocconi e che aiutò entrambi le parti, ovvero il Segretario Generale del Sindacato, la Presidenza dell’ABI e la sezione sindacale
dell’ABI, che gestiva le trattative. Noi ci facemmo aiutare da questo supervisore
terzo a condividere lo scenario e a definire gli obiettivi.
Questo, secondo me, è un elemento fondamentale. Se il Centro Studi può aiutarvi in questa prospettiva, ovvero avere una sede in cui si comincia a condividere, io ne sarei chiaramente felice.
Noi condividemmo allora un’analisi di scenario, da cui deducemmo delle conseguenze importanti: capimmo in quel momento che il settore cambiava radicalmente e che l’obiettivo era la tutela occupazionale ed evitare che i licenziamenti
collettivi della legge n. 223 entrassero nel settore.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
125
Questo fu l’obiettivo strategico, che derivò da quell’analisi settoriale condivisa,
e quindi ci dotammo dell’ammortizzatore: le banche non avevano ammortizzatore, così facemmo quel fondo di solidarietà al quale la legge Fornero si è
ispirata per i settori privi di cassa integrazione.
Noi fummo i primi nel 2000, con il decreto ministeriale n. 158 di quell’anno, ad
istituire il fondo di solidarietà, con il contributo esclusivo delle banche e dei lavoratori, che gestiva la riconversione e la riqualificazione professionale, la cassa
integrazione ed i prepensionamenti, tutto a carico nostro.
Tenete presente che soltanto prendendo in considerazione i prepensionamenti – la linea straordinaria di quel fondo, la più dirompente – dal 2000 ad oggi
noi abbiamo accompagnato al prepensionamento nel settore bancario su base
volontaria quasi 50.000 lavoratrici e lavoratori.
Ne abbiamo altri 15.000 in accompagnamento, abbiamo già fatto gli accordi,
abbiamo già le adesioni, quindi entro il 2017 noi avremo accompagnato dal
2000 circa 65.000 lavoratrici e lavoratori al prepensionamento, su base pressoché esclusivamente volontaria.
Vedete dunque che l’istituto bilaterale ha operato prima sull’ex ante, per cui ci
siamo detti: “Dobbiamo condividere l’analisi di scenario e capire dove va il settore e poi condividere anche un obiettivo strategico, grazie al quale tuteliamo
l’occupazione ed evitiamo che i licenziamenti collettivi entrino nel settore”.
Poi al rinnovo contrattuale abbiamo bisticciato e vi risparmio tutte le vicende
connesse a questa trattativa, ma l’analisi fu condivisa e l’obiettivo strategico
anche; ed allora su quell’analisi e su quell’obiettivo strategico noi impostammo
l’equilibrio contrattuale.
Non c’è dubbio che pagammo un prezzo salariale per costituire quel fondo,
che è in gran parte a carico delle banche, perché i prepensionamenti sono tutti
a carico delle banche, ma noi diamo un contributo per la cassa integrazione,
per la riconversione, per la riqualificazione, anche se i prepensionamenti sono
appunto a carico delle banche.
Il prepensionamento funziona così: al lavoratore o alla lavoratrice, ai quali mancano non più di 60 mesi per il raggiungimento del requisito pensionistico, la
banca paga il prepensionamento, ma si devono versare subito all’Inps tutti i
contributi dei 60 mesi, per dare la garanzia al lavoratore o alla lavoratrice, che
sarà accompagnato al pensionamento.
Quindi l’onere è significativo, non c’è dubbio, per cui allora noi facemmo una
politica di moderazione salariale: per un biennio non prendemmo gli aumenti
salariali derivanti dal tasso di inflazione. Però vedete a cosa portano l’analisi
condivisa, l’obiettivo strategico, l’equilibrio negoziale.
Noi rivedemmo tutto l’assetto inquadramentale: pensate che avevamo l’operaio, il commesso, l’impiegato, il quadro e il funzionario; noi avevamo ancora
i funzionari di banca ed i nostri funzionari avevano 13 gradi di maggiorazione,
quindi pensate cosa fosse una carriera di funzionario, già molto ben pagata,
con 13 gradi di maggiorazione. Ebbene, noi abolimmo la categoria dei funzionari ed il grado di maggiorazione minimo dei funzionari – di quei 13 gradi di
maggiorazione – è diventato il grado retributivo massimo del quadro direttivo.
126
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Come si vede era un’operazione di quelle dure, eppure bisognava farla, perché
diversamente non avremmo liberato risorse per fare quella tutela occupazionale, che nel settore ci ha consentito di non avere neanche un licenziamento; e
sono stati tutti prepensionamenti su base volontaria, perché il fondo prevede
anche la coattività, ma i nostri accordi hanno sempre impedito la coattività ed
hanno funzionato sempre su base volontaria.
C’è dunque un istituto ex ante di condivisione e poi c’è un istituto ex post di
gestione del contratto, perché il contratto stabilisce di fare il fondo di solidarietà
e lo affida all’ente bilaterale, che lo gestisce. Come vedete la bilateralità ha un
ruolo strategico dirompente sia sull’ex ante, sia sull’ex post nella gestione dei
risultati della contrattazione ed è questo gioco di rimando continuo tra centralità
negoziale e bilateralità, sull’ex ante e sull’ex post, che dà vigore, qualità, pregnanza e natura vincente alla nostra prospettiva contrattuale.
In questo senso io dico che la bilateralità ha una funzione strategica dirompente, poi potrei raccontarvene tante, ma tutta la nostra gestione fu impostata
così. Nel 2011, con un fondo di solidarietà che continuava a mandare via gente,
perché di fatto era così, dovemmo ritoccare l’assegno di accompagnamento,
che venne ridotto del 10%.
Le banche non reggevano, ma comunque abbiamo confermato tutto, riducendo
la quantità dell’assegno; in più abbiamo introdotto il fondo emergenziale, perché il settore aveva problemi inediti ed avevamo, soprattutto nel parabancario,
aziende che andavano in crisi.
Il prepensionamento non funzionava più, perché oramai c’erano molti giovani
e le aziende avevano un organico a composizione prevalentemente giovanile,
sicché non avevamo più persone prossime al prepensionamento. Allora si pose
il problema se licenziare o no, perché ci sono delle aziende che a questo proposito sono andate in crisi nel parabancario: finanziarie, leasing, sectoring.
Noi abbiamo perciò prodotto la Sezione Emergenziale, che per due anni paga
l’80% dell’ultimo stipendio, sempre a carico delle banche, e poi con l’altro ente
bilaterale, il Fondo Banche e Assicurazioni, l’equivalente del vostro For.Te, facciamo riconversione e riqualificazione professionale, dopodiché consegniamo
quei lavoratori ad una società di outplacement, che li ricolloca sul mercato.
Quindi è un’ulteriore articolazione della bilateralità, che legge una situazione in
evoluzione sempre più complessa e la gestisce così.
Altrettanto vale per la formazione: il Fondo Banche e Assicurazioni, di cui io
sono Vicepresidente, che si occupa appunto dell’offerta formativa ed è l’equivalente del vostro For.Te, è l’unico fondo che ha realizzato l’analisi delle qualifiche
sul modello dell’European Qualification Network.
Noi le abbiamo analizzate e certificate su base europea e adesso ci stiamo accreditando, per diventare ente certificatore; ma ciò che più interessa, ai fini del
rapporto con la negoziazione, è che noi abbiamo il repertorio delle qualifiche,
che è un libro di 200 pagine, con tutti i profili professionali bancari e assicurativi
analizzati, definiti e aggiornati anno su anno.
Questo repertorio viene fatto dal Fondo Banche e Assicurazioni e noi lo diamo
alle parti sociali, perché in vista delle revisioni inquadramentali, che facciamo,
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
127
delle banche e delle assicurazioni, in questo modo abbiamo l’analisi delle qualifiche professionali sempre aggiornata.
È competenza dell’autonomia delle parti sociali decidere se, ad esempio, un
profilo di specialista dei fidi o dei titoli va inquadrato nei quadri direttivi o negli
impiegati, nel primo o nel quarto livello, però la base conoscitiva, il fenomeno
profili delle qualifiche del settore bancario e assicurativo, in vista del contratto
noi la consegniamo alle parti sociali. Questo è un altro esempio, secondo me,
positivo, di integrazione tra bilateralità e negoziazione.
Poi abbiamo un ente che gestisce le nostre casse mutue ed abbiamo una tradizione fortissima di fondi di pensione integrativa nel settore bancario e assicurativo. Nell’ultima tornata contrattuale abbiamo fatto l’accordo di long time care,
per cui se un lavoratore o una lavoratrice viene colpito da disabilità permanente, durante l’attività lavorativa oppure durante la pensione, finché morte non
sopravvenga, l’ente bilaterale interviene, in questo caso con € 1400 mensili di
assistenza, proprio per soccorrere, per sovvenire un evento di questo tipo. Nel
contratto abbiamo fatto l’accordo e l’ente bilaterale lo gestisce.
Questo mi interessava offrire alla vostra valutazione, perché mi sembra la sede
opportuna, proprio considerando l’ispirazione che caratterizza i vostri lavori:
da un lato vi è la centralità negoziale, ma sia sull’ex ante che sull’ex post la
bilateralità è decisiva per dargli prospettiva, sguardo lungo, perché nelle fasi di
transizione bisogna avere uno sguardo di lunga gittata, e dall’altro lato vi è la
gestione di tutti gli accordi contrattuali, in un gioco costante di rinvii, che dà alla
contrattazione grande pregnanza, grande ricchezza e grande efficacia.
Per noi, per la tradizione della CISL, questo è decisivo, perché noi nasciamo
con questa impostazione. Quando la CISL nasce negli anni 50, ha due grossi
problemi: da un lato una concezione classista del sindacato, per cui il sindacato è collegato strettamente ai partiti comunista e socialista e non è nient’altro
che l’articolazione di massa, che deve favorire la conquista del potere da parte
della classe operaia e quindi creare le condizioni politiche per l’emancipazione
di questa classe.
Quindi un sindacato che non è autonomo, ma è legato a doppio filo al partito, che ne definisce la strategia, le modalità, i tempi e le articolazioni. Per cui
noi nasciamo come sindacato nuovo, come sindacato autonomo, che risponde
soltanto ai lavoratori, che autonomamente si iscrivono e autonomamente gli
danno il mandato di rappresentanza.
Questa è la prima grande discriminante, la seconda riguarda la presunta capacità auto regolativa del mercato, per cui il mercato si regola da solo e quindi
bisogna lasciargli libertà di comportamento, tesi peraltro della vulgata liberista,
che è ancora oggi molto dominante, per cui le attese razionali dell’homo economicus e la capacità auto regolativa del mercato sono sufficienti a garantire
l’equilibrio economico e sociale. Altra grande panzana, che sostanzialmente
viene ricucinata dalle teorie economiche del 1800, ma che è stata ribadita ancora recentemente nel corso dell’ultima crisi.
La CISL contesta anche questa seconda teoria, tanto è vero che Pastore e
Romani già all’inizio prefigurano quell’economia sociale di mercato, nel quale
128
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
il mercato, lungi dal sapersi autoregolare, ha bisogno di governo da parte della politica e da parte delle parti sociali. Quindi poche discriminanti sul fronte
dell’antagonismo classista da un lato e del liberismo dall’altro.
Noi nasciamo con questa impostazione e rideclinarla così oggi, con questa
centralità della negoziazione e con il ruolo estremamente positivo e politicamente fecondo della bilateralità, vuol dire essere molto coerenti con quell’ispirazione originaria.
Io penso che questo sia uno dei modi molto intelligenti e molto creativi di tenere ferma quell’ispirazione originaria, quindi i valori etici costitutivi ed anche la
visione politica di fondo, ma con la creatività che permette di saperla modulare
e adattare a momenti storici inevitabilmente diversi. Questa è la lezione di Pastore e Romani: bisogna stare creativamente entro la storia della CISL.
La conseguenza per il Centro Studi è evidente: noi abbiamo bisogno di quadri sindacali, che innestino sulle radici etico politiche della nostra militanza dei
profili alti di competenza, perché diversamente questo tipo di sindacato non si
può fare.
È molto facile fare il massimalismo, perché a fare la fuffa massimalista sono
capaci tutti: ci vuole molto poco, è facile dire che il mercato ha capacità autoregolativa e che quindi tutto si risolverà fatalmente in una prospettiva escatologica, mentre è molto più difficile saper leggere contesti complessi, le tendenze,
gli obiettivi, condividerli, definire gli equilibri contrattuali e definire poi gli enti
che li gestiscono e che permetteranno alla contrattazione di portare a casa dei
risultati concreti.
Questo è il riformismo con il quale nasce la CISL. Certo oggi siamo in presenza
di un’offerta politica dominata dal populismo, dominata da grandi venditori di
fuffa mediatica, i quali sono estremamente insofferenti della mediazione delle
parti sociali. Infatti non c’è dubbio che Renzi, Grillo, Berlusconi hanno questo
rapporto organico, immediato, in presa diretta sull’elettore, che conferisce loro
il mandato di rappresentanza e quindi vogliono essere in esclusiva i gestori di
quel dividendo politico: ogni interposizione di corpi intermedi, che condivida con
loro un progetto lungo, lo gestisca e quindi ripartisca anche i benefici politici,
per loro è intollerabile.
In realtà il populismo incorpora tendenze autoritarie implicite, perché in ultima
istanza il populismo è insofferente della divisione dei poteri, sui quali si regge
una democrazia ed oggi noi abbiamo un’offerta politica di questo tipo.
Nel momento in cui avremmo bisogno di un patto sociale di lunghissimo periodo, in grado di dare al Paese una prospettiva lunga di successo – e non si può
ottenerla che attraverso un patto sociale, sfidando le parti sociali a condividere
un governo, un progetto, come stiamo facendo fra di noi, condividere gli obiettivi di fondo, condividere le modalità, le forme, i modi attraverso i quali vogliamo
raggiungere questi obiettivi e poi anche bisticciando chiaramente sulla ripartizione dei risultati, sugli interessi, per arrivare infine ad una sintesi vincente – noi
abbiamo un atteggiamento che respinge il ruolo di mediazione delle parti sociali, respinge quella che Pastore chiamava la democrazia sostanziale.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
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La CISL nasce con questa visione straordinaria, secondo la quale la democrazia rappresentativa da sola è insufficiente: bisogna che ci innestiamo la grande
partecipazione dei corpi intermedi, che rappresentano il protagonismo della
società civile, e grazie a questo innesto, a questa dialettica feconda, la democrazia rappresentativa diventa democrazia sostanziale.
Peraltro l’atteggiamento del Presidente del Consiglio, il quale dice: “Che cosa
avete fatto voi, mentre i giovani si vedevano privati di futuro”, cancella tutto
quello che abbiamo fatto dagli anni 90 in poi.
Con gli accordi del 92-93, nel momento in cui implose la politica, noi abbiamo
dato un contributo fondamentale a salvare il Paese. Furono le parti sociali a
fare grande supplenza ed a salvare il Paese.
Nel settembre 92, quando noi usciamo dall’accordo di cambio europeo e svalutiamo la lira del 30%, evidentemente Renzi stava ancora giocando a calcetto
all’oratorio, ma il Paese era al limite del tracollo, i bot andavano al 21%, non
c’erano più i soldi per pagare gli stipendi pubblici. Allora noi demmo un contributo fondamentale per entrare nell’euro, che è il fattore che ci ha calmierato
per 10 anni, tenendo i tassi bassi, perché altrimenti il Paese sarebbe andato
alla rovina.
Anche nell’ultima crisi l’accordo separato del gennaio 2009 – separato perché
c’erano le firme che consentivano il rinnovo dei contratti e la cassa integrazione
in deroga, sino all’accordo sulla rappresentanza – evidentemente è ignoto ad
un imbonitore da fiera di Paese, che per rivendicare il suo ruolo deve cancellare
quello delle parti sociali e, così facendo, cancellare una verità storica.
Noi siamo dentro a questa concezione: sarà antica finché volete, ma è una concezione di grande autenticità, perché è fondata sulla scommessa che si possa
governare insieme, che si possa trovare la sintesi fra gli interessi; e questa
prospettiva è la vera uscita dal classismo del novecento, è la vera uscita dalla
maledizione classista.
Questo è ciò che noi offriamo e credo che su questo noi dobbiamo avere grande orgoglio di appartenenza e grande passione formativa, perché, senza un
profilo di competenza alto, senza una grande capacità di gestire questi processi, certamente anche noi rischieremmo di cadere in questa evanescenza della
proposta, che correttamente e giustamente critichiamo. Grazie.
ROSETTA RASO
(Segretario Organizzativo FISASCAT-CISL)
Ritengo che questo sia stato proprio un bel seminario e ringrazio tutti i relatori
e tutti i partecipanti della loro adesione.
Ricordo che il prossimo appuntamento è al 3-4 giugno e riguarderà il welfare
contrattuale e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Io mi auguro che gli scopi, le finalità e gli obiettivi di questi seminari vengano
centrati appieno, anche perché io spero che noi si diventi un po’ più amici e nel
gioco dei ruoli, per cui gli uni rappresentano gli interessi dei datori di lavoro,
130
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
mentre gli altri rappresentano gli interessi dei lavoratori, davvero ne possano
risultare benefici per entrambi. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Diamo ora la parola a Francesco Longobardi, Presidente Nazionale dell’ANCL,
per sentire come la sua associazione considera questo ulteriore ciclo di percorsi formativi, che abbiamo inaugurato al Centro Studi.
131
Intervento di:
Francesco Longobardi
(Presidente Nazionale ANCL_Su)
132
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
Porgo a tutti quanti voi il saluto del Consiglio Nazionale dell’ANCL, dell’Ufficio
di Presidenza ed il mio personale.
Un saluto ed un ringraziamento particolare al Segretario Generale della FISASCAT-CISL, Pierangelo Raineri, al Dott. Marco Lai, coordinatore di questi
incontri, al Segretario Organizzativo della FISASCAT-CISL, Rosetta Raso, al
Direttore del Centro Studi della CISL, Giuseppe Gallo.
Ringrazio per l’ospitalità in questa struttura, che sta crescendo giorno per giorno: dall’ultima volta che sono venuto ho visto cose nuove all’interno di questa
struttura, tanto importante per i seminari che stiamo facendo insieme, ma anche per i corsi che noi dell’ANCL facciamo per i nostri dirigenti, a cura del nostro
Centro Studi nazionale, che ringrazio per queste attività formative, per il lavoro
che ha svolto e che svolge, perché rappresenta un riferimento tecnico-giuridico
per gli aderenti all’ANCL.
Devo dare atto anche e soprattutto dell’alto livello raggiunto, grazie alla dedizione, alla competenza ed alla disponibilità del nostro Coordinatore del Centro
Studi, la Dottoressa Paola Diana Onder.
Prima di entrare nel merito, vorrei ringraziare Rosetta Raso per la pubblicità
che ha fatto al nostro Fondoprofessioni: in tutti i convegni ho sempre ricordato
ai nostri colleghi di iscriversi a Fondoprofessioni e a CADIPROF.
Ultimamente abbiamo fatto una convenzione con Fondoprofessioni per quanto
riguarda l’AFA, per la quale abbiamo già interessato tutti i presidenti regionali
e provinciali, perché sono deputati ad iniziare questa attività i consigli regionali
degli enti.
Abbiamo stipulato anche due convenzioni con due enti attuatori per il centronord e per il centro-sud, in ogni convegno parliamo anche dell’AFA e quindi ora
tocca ai dirigenti del territorio iniziare a lavorare su questo aspetto che è molto
importante per tutti quanti noi.
Con grande piacere, come sempre, ho accolto questo invito ed ho sentito che
devo tornare il 4 giugno, per affrontare un altro tema molto importante.
Questa giornata segna un momento importante di confronto nel quadro complessivo dello sviluppo della bilateralità, che è uno dei temi che principalmente
stanno a cuore al nostro sindacato e a tutti i consulenti del lavoro.
Io dico che lo strumento della bilateralità deve fare ancora molta strada. Poi
deve diventare uno strumento importante, per affrontare le sfide che il mercato ci lancia, e rappresentare una grande opportunità per tutti quanti noi, per i
lavoratori, per i datori di lavoro, per i consulenti del lavoro: dovrà diventare un
percorso comune condiviso per il conseguimento degli obiettivi e dei risultati di
reciproco interesse.
Il sistema della bilateralità costruito negli anni ha consentito alle relazioni sindacali di svilupparsi nel tempo, lungo un percorso sempre meno conflittuale,
portando le parti sociali alla convinzione che, attraverso collaborazione e regole
condivise, è stato possibile ottenere risultati molto utili e costruttivi, tanto per
le imprese quanto per i lavoratori. Lo strumento è risultato utile soprattutto in
questi anni di crisi, durante i quali il potere di acquisto è calato.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
133
I punti di forza dei patti bilaterali stanno soprattutto nella ramificazione capillare
sul territorio e altrettanto vale per la contrattazione aziendale, che dovrà sicuramente avere un ulteriore radicamento.
Abbiamo quindi il dovere e il compito di tracciare la strada futura a tutela degli
interessi dei diversi attori, che veda il consulente del lavoro non più come soggetto terzo passivo rispetto all’affermarsi della bilateralità e della contrattazione
aziendale, ma che lo faccia diventare un soggetto attivo, che svolge il proprio
ruolo di terzietà, ossia di soggetto terzo esperto in materia giuslavoristica, garante della fede pubblica, a fianco delle parti sociali.
L’accordo dell’ottobre 2013, che è stato sottoscritto con Confprofessioni, ovvero l’accordo per il sostegno al reddito nei nostri studi professionali, ha definito
un sistema di protezione del reddito per un settore come il nostro, che non ha
mai usufruito di ammortizzatori sociali a regime e che ha dovuto a propria volta
affrontare gli effetti della crisi economica.
Circa il 95% dei datori di lavoro, che fanno capo al contratto collettivo degli studi
professionali, occupa meno di 15 dipendenti e le recenti novità introdotte dalla
legge n. 92 del 2012 in tema di ammortizzatori non prevedevano per la nostra
platea l’obbligo di costituire forme di sostegno al reddito in caso di riduzione
o sospensione dell’attività lavorativa, invece l’intesa raggiunta copre questo
vuoto, lasciato dal legislatore in tema di estensione e di tendenziale universalizzazione degli ammortizzatori sociali, valorizzando il ruolo delle parti sociali e
rafforzando il welfare contrattuale.
Il fondo per il sostegno al reddito è di carattere nazionale, è costituito in seno
all’ente bilaterale degli studi professionali ed è alimentato dalla quota parte
dei contributi già previsti dal contratto collettivo di settore per il finanziamento
dell’attività della bilateralità.
Nell’imminente negoziato per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore si andrà a costituire un fondo di solidarietà cosiddetto “alternativo”, anche con particolare riferimento ai nostri studi che hanno più di 15 dipendenti. Allo stesso tempo si dovrà valutare la possibilità di introdurre modalità di
sostegno al reddito per le forme cosiddette atipiche: collaboratori, partite Iva in
regime di mono committenza, ecc.
Inoltre l’accordo si pone l’obiettivo di rafforzare ulteriormente il sistema complessivo della bilateralità, mettendo in raccordo il sostegno al reddito con la
formazione e la riqualificazione professionale delle lavoratrici e dei lavoratori e
con i servizi all’impiego.
In quell’accordo si è deciso anche di costituire un sistema sperimentale di prestazioni integrative al reddito, a favore dei dipendenti, alimentato dai contributi
all’ente bilaterale. Da un’analisi di Confprofessioni su dati Inps è emerso che
nei primi 10 mesi del 2013 sono stati circa 6.000 i dipendenti in cassa integrazione in deroga degli studi professionali, con l’aumento del 72% rispetto allo
stesso periodo dell’anno precedente.
Nell’ambito delle professioni tecniche sono complessivamente circa 1.400 gli
addetti che hanno usufruito degli ammortizzatori sociali, 257 negli studi di ingegneria, 395 negli studi di architettura, 733 nelle altre attività tecniche. Solo da
134
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
questi dati si evince in maniera chiara quanto il settore delle professioni abbia
accusato il colpo della crisi economica e quanto di conseguenza necessiti del
sostegno dell’ente bilaterale.
Ente bilaterale che però è ancora deficitario di concrete politiche di ricollocazione dei lavoratori, che vanno necessariamente ricercate e rese disponibili.
È necessario implementare in questi enti vere e proprie strutture operative di
collocamento private, che accompagnino il lavoratore licenziato attraverso un
sistema di rete per la sua ricollocazione, anche attraverso i nostri studi professionali, per ricercare le qualifiche che servono.
Sarà anche opportuno valutare la possibilità, già esplorata da altri, di incentivare le riassunzioni con interventi economici, erogando un premio agli studi professionali, che nel corso dell’anno assumono lavoratori licenziati per giustificato
motivo oggettivo da altri studi professionali.
Vi è l’obiettivo di rafforzare anche ulteriormente il sistema complessivo della
bilateralità, mettendo in raccordo il sostegno al reddito con la formazione e la
riqualificazione professionale dei lavoratori e delle lavoratrici e con le politiche
attive del lavoro.
Nella legge delega, approvata dal Governo in carica, si affronterà anche la
riforma dei servizi per l’impiego, che tra l’altro si incrocia con l’abolizione delle
province. È ovvio che in tal senso noi auspichiamo una modernizzazione del
sistema di collocamento, ma se ciò comporterà, purtroppo, le classiche indecisioni delle prime applicazioni, le classiche indecisioni della prima organizzazione, abbiamo noi l’obbligo morale di dotarci per tempo, tramite appunto gli enti
bilaterali, di un sistema di ricollocazione dei lavoratori, che possa essere non
solo supplente, ma primo riferimento delle politiche di collocamento.
Ciò potrà aprire, nell’ambito della riforma dei centri per l’impiego, ad un’ipotesi di partecipazione attiva al mercato del lavoro, attraverso l’integrazione del
sistema di collocamento bilaterale con quello pubblico, così adeguandoci ad
altri Stati europei nei servizi del lavoro, della formazione, della riqualificazione
professionale: gli altri Stati europei accompagnano infatti i lavoratori usciti dal
mercato del lavoro nella riqualificazione e nel compenso.
In Italia si vuole copiare ciò che si fa negli altri Stati europei, ma non si si è mai
riusciti a farlo, perciò spero che finalmente si ottenga questo risultato.
In queste ipotesi di riforma dei centri per l’impiego c’è anche quanto già sperimentato negli altri Paesi membri della comunità europea, che prevedono di
ricevere in affidamento il lavoratore da ricollocare e di percepire un premio
statale o regionale solo al momento della sua ricollocazione.
In questa ipotesi l’ente bilaterale attrezzato per la ricollocazione al lavoro potrebbe funzionare da vera agenzia di settore, cogliendo anche opportunità economiche di sicuro interesse.
In questa partita naturalmente l’ANCL vorrà essere anch’essa decisiva, protagonista, proprio perché è il sindacato dei consulenti del lavoro. Il nostro sindacato di categoria non è assolutamente contrario al sistema bilaterale, anzi il
nostro obiettivo è quello di diventare organi tecnici e consultivi dei singoli enti.
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
135
È infatti mia convinzione che le forze sindacali dei lavoratori delle imprese, dei
professionisti impegnati in ogni settore di attività possono e devono fare sistema e sinergia. La politica industriale, i diritti dei lavoratori, il progresso delle
imprese non si governano in maniera frammentaria e corporativa, ma oggi si
devono governare in maniera univoca ed unitaria, attraverso patti e strategie
comuni e condivise.
Crediamo fortemente che bisogna far crescere le strutture bilaterali che sosteniamo e delle quali siamo partecipi, per cogliere appieno quella definizione secondo cui la riforma Biagi voleva dare agli enti bilaterali la possibilità di essere
le sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro.
Credo che sia finita l’epoca in cui si doveva discutere se l’adesione al sistema bilaterale appartenesse alle clausole obbligatorie o normative del contratto
collettivo nazionale di lavoro. La legge ed il complesso delle disposizioni contrattuali parlano d’altro: c’è questo ente nella realtà del lavoro e dei rapporti di
lavoro: questa è una nuova entità, piaccia o non piaccia, costi o non costi.
In una serie di convegni promossi o partecipati da noi dell’ANCL questo è il
tema che si è sviluppato: stante l’effettività, la vigenza, la legalità, la legittimità
di tale sistema bilaterale, qual è oggi il ruolo che deve assumere il consulente
del lavoro? Stare fuori o forse essere sopraffatti è la soluzione? Oppure bisogna cercare di esserne parte attiva e coglierne le opportunità?
Il mio auspicio è che si faccia di questo importante strumento una vera occasione di crescita, un vero strumento di condivisione di interessi, un vero strumento
per il miglioramento dello stato sociale e del lavoro. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Ringraziamo Francesco Longobardi. Mi pare che abbiamo concluso nel modo
migliore questi due giorni molto importanti e molto significativi. Voglio aggiungere due ultime sottolineature, che mi vengono dall’intervento di Gallo e di Longobardi.
Emerge molto forte che la bilateralità è uno strumento di partecipazione. La
bilateralità è uno strumento per cui sia le parti sociali che i consulenti del lavoro
trovano una forma di partecipazione sociale, che è parte di una certa visione
delle relazioni industriali; e chiaramente ciò riguarda anche il rapporto che esiste tra bilateralità e contrattazione collettiva.
Dall’altro lato trovo molto interessante, in un momento in cui in diverse occasioni nel mese di maggio è stato lanciato un piano nazionale sulla garanzia giovani, il fatto che in prospettiva lo stesso intervento del fondo dovrebbe occuparsi
non soltanto dei dipendenti dei professionisti, ma anche di tutti i collaboratori.
Se io penso alle migliaia di giovani che con rapporti strani, come i tirocini o
altre forme di impiego, sono all’interno degli studi professionali, mi pare che
potrebbe essere un campo di intervento in cui il professionista, utilizzando gli
strumenti che la contrattazione mette a sua disposizione, si prende in carico
136
Le trasformazioni del diritto del lavoro e del diritto sindacale
un giovane, che vuole tirare su, ma, qualora avesse delle difficoltà, sa dove
ricollocarlo, attraverso un servizio a ciò deputato.
Mi pare che, al di là della capacità dei centri per l’impiego di spendere le ingenti
risorse che arriveranno, tocchi a ciascuno di noi farsi carico di questo problema,
che mi sta molto a cuore, che è scritto nel vostro contratto e che mi farebbe
molto piacere potesse essere portato avanti e sviluppato, proprio perché nel
vostro settore si concentrano, in un processo di terziarizzazione della nostra
economia, molti giovani, che ora sono alla mercé di chi li può sfruttare e molte
volte sono lasciati a se stessi.
Se in qualche modo si costruisce una forma di tutela rispetto a queste persone,
noi avremo fatto una cosa molto utile e importante.
Vi ringrazio ancora della vostra partecipazione.
137
138
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sessione mattutina
Intervento di:
Paola Diana Onder
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL_Su)
140
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Buon giorno a tutti. Oltre ai miei saluti personali vi porto quelli dell’Ufficio di
Presidenza dell’ANCL, dell’Associazione Nazionale Consulenti Del Lavoro, ed
i saluti di Rosetta Raso, che abbiamo sentito poco fa al telefono e che per altri
impegni non può essere presente questa mattina, ma ci raggiungerà in serata.
Siamo al secondo seminario del terzo ciclo di incontri sulle trasformazioni del
diritto del lavoro e del diritto sindacale. Il primo si era tenuto l’8-9 maggio su
un argomento che è sempre controverso, per lo meno all’interno della nostra
categoria professionale, ovvero quello della bilateralità.
Oggi trattiamo un altro argomento estremamente interessante e che comunque
si interseca, come sentiremo dagli interventi che seguiranno, con il mondo della
bilateralità e con il mondo delle pari opportunità.
È un tema che merita un adeguato approfondimento – e mi dispiace che siano
presenti pochi consulenti del lavoro – per tutto quello che può dare non solo ai
lavoratori ed alle imprese, ma anche, come nuovo orizzonte professionale, a
noi consulenti del lavoro.
Bisogna fare pazientemente molta formazione su questi argomenti, perciò io
persevererò in questo mio compito nell’ambito della dirigenza dell’ANCL: formazione e informazione sono assolutamente importanti.
Ringrazio a tale proposito il nostro bravissimo coordinatore scientifico, Marco
Lai, al quale ora passo la parola per iniziare fattivamente i lavori.
141
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
142
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Buongiorno a tutti. Ringrazio Diana Onder: è con molto piacere che assieme
diamo inizio a questo secondo seminario della terza edizione, il cui tema specifico è “Welfare contrattuale, tempi di vita e tempi di lavoro”.
Indubbiamente questo tema si ricollega a quello del primo seminario, concernente la bilateralità con particolare attenzione al tema del sostegno al reddito:
anche in questo secondo ambito gioca un ruolo molto importante la bilateralità.
Il 6-7 ottobre ci sarà il terzo seminario sui temi specifici della rappresentanza,
alla luce di quanto sta emergendo: è assai probabile che ci sia un’estensione
dell’accordo raggiunto con Confindustria anche ad altri settori, tra cui quelli di
vostro interesse; e poi l’1-2 dicembre si parlerà di riforma del mercato del lavoro
e su quanto, con le deleghe che sono state affidate al Governo in materia di
riforma del mercato del lavoro, verrà realizzato concretamente.
I risultati delle elezioni europee improntano un’auspicabile prospettiva di accelerazione in questo campo: è stato convertito in legge il decreto n. 34 il 16
maggio 2014, che è diventato la legge n. 78 del 2014, la quale riguarda in
particolare i contratti a termine ed i contratti di apprendistato e che era il primo
dei Jobs Act.
Il secondo dei Jobs Act è appunto rappresentato dalla legge delega, la cui
discussione abbiamo collocato agli inizi di dicembre, nella prospettiva che l’accelerazione imposta dal Governo possa comportare la possibilità di parlare
concretamente di questo argomento.
Lo scopo di questi seminari congiunti, messi in campo dalla FISASCAT nazionale e dall’ANCL nazionale, è da un lato offrire i punti di vista dei maggiori
esperti, che esistono in Italia a proposito delle singole tematiche; ed infatti oggi
avremo ospite Tiziano Treu, che credo non abbia bisogno di grandi presentazioni, mentre la volta scorsa abbiamo avuto Michele Tiraboschi e nei prossimi
seminari avremo studiosi altrettanto importanti.
Dall’altro lato lo scopo è quello di permettere uno scambio di esperienze che,
osservando le vostre provenienze geografiche, credo possa essere molto importante, sia dal punto di vista dei consulenti del lavoro che da quello degli
operatori sindacali.
Inizieremo dunque con una presentazione del tema, a cui seguirà un momento
di socializzazione, attraverso il quale ciascuno di voi si presenterà agli altri
partecipanti al seminario, dopodiché arriverà Tiziano Treu, al quale ho chiesto
di illustrare in via generale il tema del welfare contrattuale.
Quello del welfare contrattuale è un tema non molto ben definibile da un punto
di vista giuridico, perché si occupa di tanti aspetti, quindi non c’è una nozione
unitaria di welfare contrattuale: ci sono tante esperienze su vari campi, per cui
occorre capire se e come queste esperienze possano essere ricondotte ad una
logica unitaria e quanto anche l’intervento dello Stato, principalmente attraverso le politiche di incentivazione fiscale, può aiutare l’esperienzialità di situazioni
di contrattazione, sia territoriale che aziendale, sul tema del welfare.
La volta scorsa abbiamo affrontato in maniera specifica il sostegno al reddito,
oggi parliamo in maniera più generale di questo tema del welfare contrattuale,
che indubbiamente trova la sua dimensione più plastica nella contrattazione
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
143
decentrata, da intendere sia a livello aziendale, sia soprattutto, in una realtà
molto frantumata qual è quella del nostro Paese, a livello territoriale.
Quindi, quando parliamo di welfare contrattuale, facciamo riferimento non solo
ad una dimensione aziendale, ma anche ad una dimensione territoriale, soprattutto per le aziende molto piccole. Il problema è – al di là del fatto che non esiste una nozione unitaria di welfare contrattuale, ma tante esperienze su fronti
diversi – quanto lo Stato, principalmente attraverso la leva fiscale, è capace di
selezionare le poche risorse utilizzabili, per sostenere le esperienze di welfare
sia aziendale che territoriale.
C’è dunque un problema di criteri selettivi, di cui si deve dotare lo Stato, per
sostenere e incentivare, soprattutto attraverso gli incentivi fiscali, le esperienze
di welfare contrattuale.
Abbiamo scelto di affrontare questo tema del welfare contrattuale in una prospettiva di scenario, che ci sarà data da Tiziano Treu questa mattina, rispetto
ad un argomento specifico, che è quello della conciliazione tra i tempi di vita e
i tempi di lavoro. Quindi non parleremo a 360° del welfare contrattuale, che si
occupa di assistenza sanitaria, di previdenza complementare, di sostegno allo
studio, ecc., ma tenteremo di capire che cosa si nasconde dietro l’espressione
“welfare contrattuale”, dopodiché faremo un affondo specifico sul tema della
conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, uno dei terreni in cui si stanno
cimentando nuove professioni.
Infatti non c’è soltanto il problema di rispondere ad un bisogno, ma c’è anche
la possibilità di creare nuove professioni, per cui ora si parla del conciliatore o
del consulente per le aziende, figure in grado di suggerire le piste possibili per
legare i tempi di vita e i tempi di lavoro: è un mondo nuovo che sia i sindacati
che i consulenti del lavoro devono prendere a riferimento.
Questo tema della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro non riguarda
solo il lavoro subordinato, ma riguarda anche il lavoro autonomo, quello dei
professionisti. Le consulenti del lavoro, che tante volte devono tutelare sia le
imprese che i lavoratori, sotto certi profili lamentano esse stesse una mancanza
di tutele.
Questo è un aspetto importante, che merita attenzione, in una logica di tutele
della nostra gente, sia essa di parte sindacale, sia essa di parte consulenziale.
Quindi l’affondo di carattere specifico non solo metterà in evidenza esperienze di carattere contrattuale, ma cercherà anche di capire come questa azione
possa trovare concretezza rispetto a tutele, che non devono riguardare solo il
lavoro subordinato, ma anche quello autonomo.
Una delle cinque deleghe contenute nel Jobs Act, che sarà discusso in Parlamento e che forse vedrà la luce nei prossimi mesi, riguarda proprio la conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro, per cui si stabiliscono già dei criteri direttivi molto interessanti, volti ad una logica di estensione delle tutele ed anche ad
una logica di automaticità delle prestazioni, a prescindere dalla contribuzione.
Io ho contato sette principi o criteri direttivi, che dovranno poi essere applicati
nella delega attuativa, tra cui compaiono appunto il principio di automaticità delle prestazioni ed una tax credit, cioè una fiscalità di vantaggio per le esperienze
che vanno in questa direzione.
144
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Il tema si presta molto non solo alla prospettiva del welfare contrattuale, ma
anche alla prospettiva della pratica attuazione di norme socialmente molto importanti.
Questo tema sarà sviluppato principalmente dalla Dottoressa Antonella Marsala, Project Manager presso Italia Lavoro, ed attraverso i lavori di gruppo voi
stessi sarete tenuti a confrontarvi con uno scambio di esperienze su questo
terreno molto importante.
Ma interverranno anche Diana Onder e Rosetta Raso, le quali illustreranno
le esperienze che in questo senso hanno già sviluppato le organizzazioni alle
quali appartengono. Concluderemo, come al solito, con la riflessione di carattere politico.
Vi chiederei ora di presentarvi e soprattutto, se ne siete a conoscenza, di illustrare eventuali esperienze di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Grazie.
PAOLA MASCHIETTO
(Consulente del Lavoro Venezia)
Io ho cominciato ad avere delle esperienze di contrattazione a livello aziendale
un paio di anni fa. L’anno scorso ho affrontato l’argomento soprattutto adottando l’elasticità di orario, la banca delle ore.
Noi a Venezia abbiamo un’attività con cadenza stagionale e ci sono delle problematiche per quanto riguarda le famiglie, soprattutto se hanno dei figli, quindi
questo è uno strumento che quest’anno ho cercato di promuovere: ho fatto
degli accordi sempre giocando su questo strumento – che a questo punto è
stato utilizzato nella contrattazione proprio come un elemento di fidelizzazione
per quanto riguarda i lavoratori – con la contrattazione di prossimità con le parti
sociali.
Al momento non mi sono ancora fidata di farla direttamente in DTL con tutte le
parti sindacali, ma, a seconda delle aziende, con il sindacato che più si avvicinava a questa idea, cioè la FISASCAT, e vedremo a fine anno se la cosa ha
funzionato adeguatamente.
Faremo delle prime riunioni a giugno, per testare quanto fatto durante la prima
parte dell’anno, poi ne faremo altre a fine stagione, a settembre, ed infine tra
novembre e dicembre vedremo se rinnovare questi contratti per il prossimo
anno. Grazie.
MARIA TERESA BONANNI
(Consulente del Lavoro Cesena)
La cosa mi interessa sia a livello professionale che a livello personale. A livello
professionale qualche cosa ho visto, facendo parte sia della commissione regionale che di quella nazionale per le pari opportunità e mi sono resa conto che
effettivamente c’è necessità di fare qualche cosa. Grazie.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
145
MERI PIERI
(Consulente del Lavoro Firenze)
Io non ho esperienze lavorative di questo tipo, ma nell’ambito dello studio nel
quale opero, avendo delle collaboratrici donne con figli, in maniera artigianale
abbiamo dovuto introdurre delle procedure allo scopo.
Grazie.
MAURIZIO BUONOCORE
(Consulente del Lavoro Napoli)
Anche le mie esperienze sono del tipo fai-da-te: nell’ambito dello studio ho fatto
il corso al telelavoro ed ho sostanzialmente impattato con una normativa che
va chiarita, soprattutto perché, avendo la possibilità di collocare i lavoratori in
remoto, si attenua molto il potere direttivo di controllo e di conseguenza quello disciplinare. Questa pratica tuttavia può creare al lavoratore il problema di
sentirsi un po’ abbandonato dall’azienda ed anche questo è un aspetto che,
secondo me, va considerato.
Però questa pratica va comunque incentivata, perché le aziende sono pronte,
almeno per quanto riguarda la parte femminile, ad accettare una soluzione di
questo tipo, la quale vada incontro alle esigenze della donna, che è multi ruolo
e che sappiamo fa un grandissimo sforzo all’interno della famiglia.
Grazie.
CARMELA TARANTINI
(Segretario Generale FISASCAT-CISL Lecce)
A Lecce qualche anno fa il Comune ha attuato un progetto per quanto riguarda
la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro con delle grosse aziende. Il progetto fu finanziato non ricordo bene da chi, ad esso aderirono alcune
aziende, soprattutto della grande distribuzione, le quali, essendo aperte anche
la domenica, accettarono l’ingresso a part-time di donne che avessero qualche
problema, in modo da dare agli altri lavoratori la possibilità di usufruire della
domenica.
Questo per me, in qualità di dirigente sindacale, è un tema molto importante e
che sento al pari del libero professionista, perché è molto complicato conciliare
tempi di vita e tempi di lavoro. La cosa vale anche per i miei colleghi maschi,
con tutta la flessibilità che è richiesta dal mondo del lavoro, perché i lavoratori
della grande distribuzione, dei Servizi e del Turismo, lavorano dal lunedì alla
domenica, sicché noi, come operatori della FISASCAT, dobbiamo fornire servizi
anche di domenica.
Grazie.
146
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
LOREDANA NICOLI
(Consulente del Lavoro Bergamo)
Non ho esperienze da citare. Grazie.
LEONARDO PIACQUADDIO
(Segretario Generale FISASCAT-CISL Foggia Nord Barese)
Già da 2-3 anni mi sono impattato con un tentativo di welfare contrattuale per
52 dipendenti addette all’assistenza all’infanzia, che lavorano in appalto per il
Comune di Foggia. L’età media è 36-37 anni, la maggior parte di loro ha famiglia e siccome si tratta di lavoratrici che facevano e fanno assistenza all’infanzia, avevano grosse difficoltà per gestire i propri figli.
Con l’assessore all’istruzione del Comune di Foggia abbiamo tentato di creare
la possibilità per queste donne di continuare a fare le mamme, ma in tutta onestà sino ad oggi non siamo ancora riusciti nel nostro intento. Le sensibilità dei
politici infatti sono state fortemente urtate, perché pensavano che il sindacato
volesse entrare nel merito di scelte politiche che spettavano solamente a loro.
Siccome le recenti elezioni hanno comportato il rinnovo completo dell’amministrazione comunale di Foggia, io tornerò alla carica e spero di riuscire a breve
a portare a termine il mio progetto. Grazie.
ANNETTE LERNA
(Segretario FISASCAT-CISL Milano Metropoli)
Ovviamente il tema mi sta particolarmente a cuore, perché, come sapete, i
nostri settori hanno una presenza femminile rilevantissima. Mi preoccupa particolarmente un dato fornito dalla DTL di Milano in un recente convegno, che
abbiamo fatto in Lombardia su questo argomento, per cui a Milano ci sono
ancora donne costrette a dare le dimissioni nel primo anno di vita del bambino,
un fatto che ci preoccupa quotidianamente.
L’ultimo accordo, che mi è stato proposto su questo tema, è basato sull’utilizzo
ad ore dei congedi parentali. Grazie.
LEONARDO BERTOLDI
(Consulente del Lavoro Verona)
l’Italia è bella perché è varia ed è varia perché è composta da 10.000 repubbliche. Quello che vale in Emilia-Romagna non vale in Lombardia e così via:
abbiamo dei gruppi aziendali che sono dislocati in varie Regioni italiane e questo comporta delle grosse difficoltà, perché gli atteggiamenti nelle diverse zone
sono differenti.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
147
Questo deve preoccupare tanto i consulenti del lavoro, quanto i sindacalisti,
perché disturba il lavoro di entrambe le parti e ricade su noi consulenti che in
mezzo alle due parti ci troviamo ad operare. Grazie.
CRISTINA VIGNOLO
(Segretario FISASCAT-CISL Alessandria-Asti)
Noi abbiamo poche esperienze previste contrattualmente di banca ore e qualche piccola esperienza per quanto riguarda i grandi gruppi della distribuzione.
Sicuramente è un tema molto sentito in una realtà frammentata come la nostra,
che è prettamente femminile, quindi mi auguro di portare a casa qualche spunto
interessante a risposta delle richieste che arrivano dalla nostra gente. Grazie.
PAOLA REBECCA NUCCI
(Consulente del Lavoro Prato)
Sono relatrice di un corso per consulenti del lavoro. La partecipazione a questo corso è legata ad una crescita personale, perché, per quanto riguarda le
esperienze in studio, non posso valutare altro che quella mia personale e quella
delle mie collaboratrici donne con figli.
Andando con il mio collega di studio verso delle contrattazioni aziendali di secondo livello, in quanto abbiamo delle realtà di aziende piuttosto grandi, nelle
quali vi è una prevalenza di donne, che hanno in cantiere molti figli, noi dobbiamo cercare di conciliare la vita privata con l’attività lavorativa, considerata sia
dal punto di vista del personale dipendente, sia dal punto di vista della parte
datoriale.
Quindi anch’io spero di ricavare da questo seminario degli spunti utili, da travasare poi nella mia attività libero professionale. Grazie.
MIRTA ZAMPORLINI
(Segretario FISASCAT-CISL Padova-Rovigo)
Non ho esperienze da citare. Grazie.
LUIGINO PEZZUOLO
(Segretario Generale FISASCAT CISL Milano – Legnano – Magenta)
Noi sul piano contrattuale abbiamo una ricca esperienza per quanto riguarda la
contrattazione finalizzata alla conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro.
Gli accordi riguardano sia l’entrata sul posto di lavoro, sia la gestione degli orari
plurimi annuali, per aumentare il numero delle settimane di ferie, per gestire gli
148
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
inserimenti scolastici, ecc. I temi abbracciati sono tantissimi: oltre a quello degli
orari, ci sono quelli della sanità integrativa, quelli legati alle convenzioni per i
trasporti, ecc. Più avanti ci confronteremo sulla nostra contrattazione sperimentale territoriale. Grazie.
BASILE SABATINO
(Segretario FISASCAT-CISL Torino)
Il Piemonte vanta molti accordi di secondo livello, che riguardano anche i tempi
di vita e i tempi di lavoro: noi stiamo cercando di lavorare in maniera abbastanza attenta sulla qualità della vita dei lavoratori, piuttosto che sul recupero
economico, al momento assai problematico. Grazie.
ROSSELLATO KATIUSCIA
(Segretario FISASCAT-CISL Padova-Rovigo)
Non ho esperienze da citare. Grazie.
ANISSA LANGOSI
(Segretario FISASCAT-CISL Reggio Emilia)
Non ho esperienze da citare. Grazie.
MONICA SUCCI
(Segretario FISASCAT-CISL Forlì-Cesena)
Io lavoro prevalentemente su Cesenatico, quindi nell’ambito del settore turistico, nel quale è molto faticoso poter attuare il welfare contrattuale. Qualcosa
tuttavia si riesce ad ottenere in qualche piccola ditta commerciale. Grazie.
WALTER ANDREA
(Segretario FISASCAT-CISL Faenza-Ravenna)
Io ho diverse esperienze nell’ambito del welfare contrattuale, in modo particolare in due grandi settori. Il primo è la grande distribuzione, nello specifico Coop
Adriatica, dove c’è stata una contrattazione di carattere nazionale ed il welfare
contrattuale annovera una delle pochissime esperienze di sviluppo delle problematiche legate a tempi di vita e tempi di lavoro. Ora l’azienda sta facendo
le assemblee con il personale ed è un impianto molto interessante quello che
abbiamo realizzato per i lavoratori.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
149
L’altra esperienza è nella cooperazione sociale: abbiamo appena concluso un
integrativo provinciale a Ravenna, dove abbiamo la questione della mensualizzazione della banca ore, in cui abbiamo inserito degli argomenti molto interessanti, specialmente per il personale, che nella cooperazione sociale, come tutti
ben sanno, è costituito da donne, per le quali la conciliazione fra tempi di vita e
tempi di lavoro è molto importante.
Grazie.
IVANO BALDIN
(Segretario FISASCAT-CISL Padova-Rovigo)
Io sono operatore della FISASCAT da poco: vengo da una multinazionale del
Commercio, che non aveva molti problemi di questo tipo. Perciò vengo qui per
imparare da chi invece in merito ha qualche cosa da insegnarmi.
Grazie.
ANNALISA FALCICCHIO
(Segretario FISASCAT-CISL Firenze-Prato)
Come operatrice sindacale ho poche esperienze, ma come lavoratrice ho cercato di portare avanti nell’azienda in cui lavoravo la possibilità per le donne
di avere turni, che potessero conciliare la maternità e la gestione dei bambini
piccoli con il lavoro, che si svolgeva a turni 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno.
Grazie.
ORNELLA FORNAI
(Ufficio Vertenze FISASCAT-CISL Firenze-Prato)
Da noi la fase della contrattazione integrativa ovviamente è seguita dai dirigenti sindacali, quindi all’Ufficio Vertenze noi vediamo persone che hanno una
situazione compromessa, perché operano in aziende in cui si tende più che
altro a trovare per loro una soluzione per una buona uscita.
Sono donne che hanno bambini piccoli, le quali in qualche modo vengono
incentivate ad andarsene o ad accettare un part time, in modo che possano
uscire bene dall’azienda.
Altro problema è il chiedere permessi non retribuiti per coloro che hanno delle
persone malate da accudire: in questo senso il contratto collettivo nazionale
del Commercio ci è venuto incontro e quindi abbiamo uno strumento in più.
Poi abbiamo persone, le quali hanno familiari con handicap e vengono a chiederci informazioni, per sapere come accedere ai permessi retribuiti.
Grazie.
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
GIOVANNI BATTISTA CONIATI
(Segretario FISASCAT-CISL Vicenza)
La sanità integrativa è stato l’unico elemento qualificante dell’ultimo rinnovo
contrattuale; invece, per quello che riguarda la conciliazione di tempi di vita
e tempi di lavoro, penso che sia una delle sfide più interessanti per il mercato
del lavoro, visto che il lavoro diventa sempre più incompatibile con le esigenze
familiari. Grazie.
MAURIZIA RIZZO
(Segretario Regionale FISASCAT-CISL Veneto)
Il tema che trattiamo oggi ci appassiona dal 2009, anno in cui si è avuto l’accordo Interconfederale, che per la prima volta ne parlava, tanto è che nella
costruzione delle piattaforme rivendicative del secondo livello questo è il tema
principale, è il cuore della contrattazione, perché gli orari di lavoro e il bisogno
di benessere devono essere conciliati.
Ci sono già delle esperienze veramente buone: nell’ultimo accordo che abbiamo fatto con la Coop Adriatica, che citava il collega di Ravenna, abbiamo
cercato di costruire direttamente in diverse aree non solo il welfare legato alla
conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro, ma anche il welfare sociale.
Una costruzione che a cascata va a ricadere sulla famiglia, sull’istruzione, sulla
cultura, per tutta una serie di aspetti che ci hanno aiutato anche a sviluppare
settori a noi molto vicini come la cooperazione sociale.
Visto che siamo in Europa, non sarebbe male dedicarci a consolidare un sistema che ci porti all’altezza di altri Paesi dell’Unione, perché abbiamo tanti fronti
in cui siamo in difficoltà, come, ad esempio, il lavoro domenicale. Noi in Italia
abbiamo gruppi tedeschi, austriaci, francesi i quali pretendono le aperture domenicali nel nostro Paese, mentre a casa loro non si sognerebbero nemmeno
di chiedere una cosa del genere. Grazie.
PAOLA PRISCO
(Segretario FISASCAT-CISL Venezia)
Noi abbiamo qualche esperienza di conciliazione di singole lavoratrici nelle
aziende in cui operano, ma non abbiamo esempi di contrattazione di secondo
livello. Invece ho molta esperienza personale per quanto riguarda la mia precedente attività di RSU: io lavoravo in una grande azienda ed abbiamo fatto
molte cose per le famiglie, sia per il welfare, sia per la conciliazione tempi di
vita tempi di lavoro.
Sei-sette anni fa abbiamo realizzato quello che chiamavamo “Progetto Ponti”:
la mia azienda era prettamente stagionale, perciò occupava un grosso numero
di lavoratrici di questo tipo. Si trattava di 40 donne, che erano lontane dal mon-
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
151
do del lavoro da tanto tempo, perché avevano avuto dei figli, o perché avevano
a casa delle persone portatrici di handicap, e per quattro mesi noi abbiamo fatto
il job sharing.
Queste lavoratrici lavoravano sette giorni su sette per ventiquattr’ore al giorno
e si sono autogestite, nel senso che ciascuna di esse andava a lavorare quando aveva il tempo per farlo e in quattro mesi l’assenteismo è stato pari a zero.
Grazie.
LAURA RAVARA
(Segretario FISASCAT-CISL Venezia)
Non ho esperienze da citare. Grazie.
CARLO PEGORARO
(Segretario FISASCAT-CISL Vicenza)
Le mie esperienze derivano dalla precedente vita sindacale: nelle grandi aziende negli anni 90 si riusciva a discutere sugli orari di lavoro, sulla flessibilità di
entrate e uscite: ricordo aziende a manodopera femminile, in cui si cambiavano
completamente gli orari, per permettere alle lavoratrici di accompagnare i figli
a scuola, ovvero l’apertura dei primi asili interaziendali nelle aziende piccole,
oppure l’apertura degli asili aziendali nelle grandi.
Per quanto riguarda il futuro, credo che le materie legate, ad esempio, al welfare assistenziale, sentiti i lavoratori sul campo, saranno le cose che probabilmente essi apprezzeranno di più, piuttosto che non i € 10 in più in busta paga,
cosa che stiamo già vedendo nel settore delle ITC. Grazie.
ALESSANDRA NAVA
(Consulente del Lavoro Bergamo)
Per quello che riguarda le aziende in cui sono consulente del lavoro, io faccio
welfare contrattuale, nel senso che attuiamo la flessibilità dell’orario e la banca ore; ma non ho la controparte sindacale presente, perché sono quasi tutte
aziende metalmeccaniche e io non ho con chi confrontarmi tra i rappresentanti
dei lavoratori, per cui abbiamo concordato direttamente con il datore di lavoro
due strumenti: part time e tele lavoro.
Noi come professionisti però abbiamo delle norme di legge molto deboli, cioè
non riusciamo a strutturarci bene: so che l’Inail qualcosa è riuscita ad organizzare, per cui sono andata a chiedere a loro come si comportano.
Ho poi visto l’esperienza, a livello di grossi gruppi, del settore del credito: loro
dicono che applicano il welfare contrattuale, ma per mia esperienza ritengo che
sarà molto dura combattere su quel fronte. Grazie.
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
VITTORIO GALLO
(Segretario FISASCAT-CISL Vicenza)
Io ho provato a proporre in alcune circostanze alle aziende che seguo di affrontare questo tema, ma purtroppo le aziende che seguo capiscono a livello di
ragionamento, però poi fanno fatica a mettere in pratica i principi teorici. Dibattiti, ragionamenti, approfondimenti, ma dopo non si riesce a concludere niente
sul piano pratico. Sono quindi alla ricerca di suggerimenti validi da riportare nel
mio territorio. Grazie.
NICOLA PEGORARO
(Segretario FISASCAT-CISL Vicenza)
L’esperienza che io ho fatto è quella già citata di Coop Adriatica, ma ci tengo a sottolineare il discorso delle domeniche, perché tante persone ci hanno
accusato che noi non vogliamo far lavorare la gente alla domenica: il fatto è
che queste persone si sono trovate a lavorare la domenica contro la propria
volontà, mentre altri vanno a lavorare volontariamente nei giorni festivi. Perciò
dobbiamo trovare dei meccanismi che veramente ci mettano al passo con gli
altri Paesi europei.
Per quanto riguarda la sanità integrativa, in questo Paese ci sono dei pezzi
mancanti: io seguo 10 case di riposo nell’alto vicentino e ci troviamo a fare delle
assemblee, in cui le persone ci chiedono di dar loro una mano, per quanto riguarda non la conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro, ma per cose ancor
più importanti: ci sono persone che si sono distrutte i legamenti, perché sollevano gli anziani a forza di braccia, non avendo a disposizione dei sollevatori.
Nell’ambito della cooperazione il panorama è molto variegato, perché molti non
dispongono di strumenti per la conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro,
per cui sono interessato a capire se si può impostare un percorso valido con la
collaborazione del consulente del lavoro. Grazie.
GIOVANNI GALLO
(Segretario FISASCAT-CISL Padova-Rovigo)
A me viene in mente l’Opera Immacolata Concezione, dove ultimamente abbiamo realizzato un integrativo ed in cui cerchiamo di adottare alcune soluzioni, che
vadano a compensare le risorse che in questo momento non ci sono. Grazie.
CRISTINA CHERUBINI
(Consulente del Lavoro Firenze)
Questo è un argomento che da sei mesi sto cercando di sviluppare molto, perché ho fatto un corso a Milano con Italia Lavoro e sto riportando nelle aziende
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
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tutta una serie di dati e di input che ho ricavato da quel corso, tra cui un questionario, perché il welfare non si fa dando a tutti le stesse cose, ma va strutturato in una certa maniera, che è assai complessa. Sto cercando di farlo capire
anche ai colleghi, ma la cosa è abbastanza difficile. Grazie.
ROBERTO SARTORE
(Consulente del Lavoro Venezia)
Come tutti i colleghi, ho dovuto affrontare da tempo nel mio studio la problematica, ma l’ho risolta, essendo pochi i miei dipendenti, responsabilizzando le mie
collaboratrici, le quali si organizzano da sole e questo ha dato buoni frutti.
Per quanto riguarda la categoria, veniamo da un recente lavoro coordinato da
Diana Onder, in cui abbiamo trattato il problema per cui lascio a Diana Onder il
compito di parlarne. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Nel frattempo è arrivato il professor Tiziano Treu, che credo tutti conosciate,
una figura di riferimento costante nei corsi di formazione che facciamo al Centro Studi della CISL in generale e per questa materia specifica in particolare.
Ricordo i fatti al professor Treu: questa è una delle prime esperienze in Italia di
formazione congiunta tra i dirigenti sindacali ed i consulenti del lavoro più aperti
ad una visione della partecipazione della bilateralità e siamo molto determinati
a seguire questa strada della condivisione.
Il tema odierno è “Welfare contrattuale e conciliazione tempi di vita e tempi
di lavoro”: la tematica affidata al professor Treu è inerente al welfare contrattuale inteso come elementi definitori di carattere generale; l’affondo specifico
sul tema “Conciliazione tempi di vita e tempi di lavoro” sarà fatto a partire dal
pomeriggio attraverso una relazione di carattere specifico, a cui seguirà il confronto delle esperienze specifiche, sia dei consulenti del lavoro che dei dirigenti
sindacali.
Il tema che noi stiamo affrontando si lega molto anche al tema della sussidiarietà orizzontale: in un contesto di risorse scarse, in cui lo Stato interviene in
qualche modo con risorse limitate, le parti sociali possono mettere in campo
delle risorse proprie e si tratta di capire quanto lo Stato latamente inteso può
incentivare, principalmente attraverso la leva fiscale, queste esperienze, che
vanno ad integrare l’attività dello Stato stesso.
Nel tema del welfare contrattuale un secondo profilo riguarda la tematica aziendale, per cui si cerca di rispondere non soltanto ai bisogni diffusi nel territorio,
ma anche ai bisogni della collettività dei lavoratori interessati e non soltanto
come singoli, ma anche come insieme di persone, perché sempre meno le
richieste dei lavoratori consistono in rivendicazioni di carattere monetario, mentre i loro bisogni possono essere soddisfatti anche sotto altri versanti.
154
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Ci sono ricerche che attestano che l’incremento marginale della felicità delle persone non sempre è dato dall’incremento monetario: c’è tutto un aspetto
che riguarda il mondo delle relazioni e degli affetti, che valgono non soltanto
all’interno delle famiglie, ma anche all’interno dei luoghi di lavoro, in cui tutte le
tematiche del welfare aziendale puntano ad un’organizzazione del lavoro, che
risponda a questi aspetti non meramente di carattere economico.
C’è un poi un terzo aspetto della questione, che è quello meno restringibile dal
punto di vista definitorio, perché non è riconducibile ad una definizione unitaria
dal punto di vista giuridico, in quanto si occupa di diverse cose: assistenza
sanitaria integrativa, previdenza complementare, ecc.
Questo aspetto dei diversi fronti d’intervento della tematica che stiamo affrontando, indubbiamente ha una ricaduta anche sulle relazioni industriali, nel senso che apre uno spazio di intervento alla contrattazione collettiva, principalmente quella di carattere decentrato; ma apre anche uno spazio di intervento
importante in tema di bilateralità, che è il tema che abbiamo già affrontato la
volta precedente, con particolare attenzione al rinnovo del contratto collettivo
degli studi professionali, il quale ha sviluppato un’attenzione specifica per il
sostegno al reddito.
Bisogna tener conto del fatto che – e lo dico al professor Treu – abbiamo da un
lato dei dirigenti sindacali, che tutelano prevalentemente il lavoro subordinato,
e dall’altro abbiamo dei professionisti, che, oltre a svolgere il loro ruolo di terzietà o comunque di sostegno alla piccola impresa, tante volte come professionisti
non hanno tutele, soprattutto quelle relative alla conciliazione tempi di vita e
tempi di lavoro, che devono indicare in qualche modo come soluzione ad altri.
Quindi il welfare contrattuale deve essere declinato non solo in piccole e piccolissime realtà imprenditoriali, ma in una realtà in cui il mercato del lavoro non è
costituito soltanto da lavoratori dipendenti, bensì anche da lavoratori autonomi
e parasubordinati.
Perciò la domanda è: come può il welfare contrattuale impattare su questa nostra realtà tipicamente italiana? La risposta al professor Tiziano Treu. Prego.
155
Intervento di:
Tiziano Treu
(Ex Ministro del Lavoro)
156
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Mi fa piacere che ci sia questa riflessione congiunta, la quale, per alcune cose
di cui parliamo oggi, è veramente importante.
Innanzitutto questo secondo welfare, come si dice, inteso nel senso che viene
dopo il primo welfare, che è quello pubblico in senso stretto, non è necessariamente contrattuale, perché c’è una parte delle iniziative storiche che sono unilaterali e vengono dalle imprese: Olivetti, Marzotto; cosa che in qualche caso
succede ancora oggi.
Quindi storicamente la priorità è stata quella di consolidare il welfare pubblico,
perché, come è noto, le retribuzioni italiane sono molto basse e non permettono una copertura assicurativa individuale, il che è un altro motivo di riflessione
per il sindacato italiano, che è ritenuto fortissimo, ma non ha fatto granché o
comunque non ha fatto a sufficienza.
Ad un certo punto, quando si è presentato il problema del secondo welfare, si
è presentato per alcuni bisogni fondamentali tuttora importanti: la previdenza
complementare e la sanità-assistenza integrativa.
Anche in questo caso abbiamo avuto all’inizio delle iniziative unilaterali da parte
del settore bancario: ci sono ancora molti fondi di previdenza integrativa nel
settore bancario, che sono ormai quasi tutti omologati, perché nel 94-95 è intervenuta una normativa che ha indicato uno standard per i fondi pensione.
Questa seconda gamba del sistema pensionistico si è sviluppata molto faticosamente per vari motivi, ma ora se ne parla di più in conseguenza della riforma Fornero, la quale ha impostato una sistema previdenziale completamente
contributivo.
A questo proposito devo dire che non è giustificato l’allarme sociale che ne è
derivato, perché non è vero che tutti i giovani di oggi saranno pensionati poveri
domani: dipende molto dalla carriera che faranno, se inizieranno presto o tardi
a lavorare e se nel corso della loro carriera avranno periodi più o meno lunghi
di interruzione della contribuzione.
Il sistema contributivo, insomma, garantisce comunque uno zoccolo pensionistico decente, meno di quello che garantiva in precedenza il sistema retributivo,
ma comunque una cifra pari all’incirca al 55-60% dell’ultima retribuzione.
Ciononostante la seconda gamba è necessaria, perché noi, quando facemmo
la riforma con cui si passava al sistema contributivo, avevamo di fronte una
vecchia promessa dell’80% ormai insostenibile, ma occorreva arrivare ad un
sistema che si autosostenesse ed abbiamo stabilito che occorresse una seconda gamba che, unita al 55-60% dell’ultima retribuzione, potesse permettere al
lavoratore in quiescenza di arrivare a quell’80% che era garantito nel sistema
precedente.
Certo poi resta il problema del long term care, che è un problema recente,
quello dell’autosufficienza degli anziani, per il quale naturalmente saranno necessarie altre misure di sostegno sociale.
La previdenza integrativa si è sviluppata così così: siamo intorno ai 5 milioni di
adesioni ed ora le cose stanno andando decisamente male, perché la gente fa
fatica a pagare questa contribuzione, però è fondamentale che si continui.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
157
Non si è mai voluto fare un secondo pilastro obbligatorio, come qualche altro
Paese invece ha fatto, e siamo rimasti alla scelta volontaria.
Ci sono alcuni motivi per i quali questa previdenza complementare non si è
sviluppata: innanzitutto i salari sono bassi e poi c’è il TFR, che in altri Paesi
non esiste. Il TFR costituisce una specie di storica integrazione, ma non si può
avere la botte piena e la moglie ubriaca, soprattutto quando l’acqua è bassa,
come accade in questi tempi.
A suo tempo io avevo pensato, insieme ad altri, che il TFR si potesse cambiare,
però l’istituto è rimasto e adesso ne siamo tutti affezionati, ma, se non cambia
qualche cosa, il secondo pilastro, quello della pensione integrativa, farà fatica
a svilupparsi molto.
Questo tipo di welfare è soprattutto di livello nazionale, anche se c’è qualche
esempio a livello territoriale: io promossi quello del Trentino Alto Adige e quello
del Veneto, i quali tuttavia fanno anch’essi fatica a svilupparsi sempre per i soliti
motivi.
Qualcosa si può ancora fare, anche se non credo che l’attuale delega fiscale
verrà cambiata: d’altra parte per i dipendenti normali il plafond di defiscalizzazione è abbastanza consistente. Il problema è costituita dai lavoratori autonomi, perché, così come i giovani pensano di non invecchiare e quindi non aderiscono alla previdenza integrativa, i lavoratori autonomi pensano di potersela
cavare da soli. Quindi i tassi di adesione dei lavoratori autonomi di vario genere
sono bassissimi: se io devo indicare quale sarà il dramma futuro, lo individuo
in questo settore.
Ci sono poi l’assistenza integrativa e la sanità integrativa, che sono due cose
diverse: i bisogni di prevenzione e di tutela della salute devono essere sempre
più fronteggiati, non solo con la sanità e l’ospedalizzazione, ma anche con le
forme intelligenti di assistenza.
Tra l’altro questo costituisce un grande bacino di occupazione futura, perché
l’occupazione futura non verrà certo dall’acciaio o dall’industria manifatturiera,
ma verrà proprio dagli ambiti di cura.
Questa seconda gamba della sanità-assistenza si è sviluppata molto, anche
più del previsto: quando vedo i numeri, io mi sorprendo sempre, perché sono
molto più alti di quelli relativi alla pensione integrativa.
La ragione che si dà di questi comportamenti è che la sanità integrativa si vede
subito, mentre risulta più difficile investire sulla pensione, perché non si sa se
se ne potrà effettivamente godere in un futuro più o meno remoto.
In questo secondo ambito abbiamo talvolta delle adesioni pari al 95-100%, il
che significa che c’è un alto gradimento da parte dei lavoratori. Naturalmente
dipende da quanto costa, da quanto ci mette l’azienda, da quanto ci mette il
dipendente. Il cofinanziamento è sempre più diffuso ed io credo che sia utile,
perché quello che non si paga, non si apprezza.
Il problema è che questo ambito non ha regole pubbliche, mentre la pensione
complementare ed i fondi sono stati molto regolati dalla metà degli anni 90 in
poi e questo ha fatto sì che noi non abbiamo avuto i grandi fallimenti dei fondi
pensione di altri Paesi, perché noi abbiamo fatto degli investimenti molto prudenti, magari talvolta un po’ stupidi, ma comunque abbastanza sicuri.
158
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
La sanità integrativa invece si è sviluppata senza regole: ad esempio, regole su
come si stila il bilancio, su come si fanno le proiezioni a 20-30 anni. È questa la
cosa preoccupante, perché, anche se essa viene amministrata bene, è molto
difficile, se non ci sono degli standard e delle regole, sapere, per esempio, quali
sono le tendenze della morbilità nell’età avanzata.
Molti di questi fondi riguardano dipendenti, familiari e pensionati: del resto il
sindacato italiano accoglie tra le sue fila molti pensionati ed è giusto che di
essi si occupi. Perciò anche amministratori molto seri si chiedono come poter
calcolare le spese future, in mancanza di standard che insegnino a mantenere
in equilibrio una cassa, che comprende il 30-40% di pensionati.
Va comunque detto che le polizze sanitarie non sono il massimo della vita,
perché le assicurazioni storicamente sono sempre state e sono tuttora meno
efficienti del sistema bancario, quindi le polizze che normalmente si stipulano,
anche individualmente, sono care e rendono molto meno di quanto potrebbero.
Perciò io alle aziende suggerisco di gestirsi in proprio la sanità integrativa.
Anche questo è un sistema nazionale, ancorché con molte casse aziendali,
come quello precedente. Ma questo non è solo un sistema di trasferimenti, è
un sistema di servizi. Il welfare moderno è sempre di meno un sistema di trasferimento di soldi, ma sempre di più un sistema di servizi.
Questa è una bella cosa, perché crea occupazione, migliora la qualità della
vita: si sta bene non perché si ha una bella auto, ma perché ci viene garantita
una serie di servizi alla persona, per cui la vita servita bene si rivela una vita
migliore.
Io credo e mi auguro che questi due pilastri cresceranno: i lavoratori autonomi
dovranno fare una riflessione, ma dovrà intervenire anche il legislatore pubblico. Quest’ultimo, oltre a concedere una defiscalizzazione di questi versamenti,
dovrà tener conto dei problemi particolari dei lavoratori autonomi, che basano
le proprie entrate sull’opera individuale del singolo.
Infatti in questo settore c’è una tendenza all’autosfruttamento, per cui il legislatore dovrà invece promuovere l’autotutela ed in questo ambito naturalmente
rientra senz’altro il welfare in tutte le sue forme.
Per quanto riguarda invece i dipendenti, lo sviluppo del welfare in Italia è avvenuto con grande ritardo, tranne poche illuminate eccezioni, perché c’è stata
innanzitutto una certa diffidenza: in particolare la CGIL ha sempre dimostrato
diffidenza nei confronti di questi strumenti e tuttora emerge questa sfiducia,
perché essa sostiene che i soldi così accantonati sono sottratti al sistema di
welfare pubblico.
La seconda obiezione è che, anche se sono integrativi, come dovrebbero essere, in sostanza creano delle diseguaglianze: i ricchi se li possono permettere e
i poveri non se li possono permettere. Per cui io personalmente fino a qualche
anno fa, tutte le volte che qualche azienda pensava di realizzare qualche cosa
per la mensa, per il carrello della spesa, riflettevo che, se l’avesse proposto ad
un sindacato, questi avrebbe probabilmente rifiutato o comunque non si sarebbe dimostrato molto entusiasta.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
159
Invece i motivi per cui bisognerebbe sviluppare questo secondo welfare, quello
aziendale, quello più propriamente decentrato e finalizzato alla soddisfazione
dei bisogni delle persone, sono che questi tipi di iniziativa riguardano i bisogni
specifici delle persone, oltre a quelli più generali della pensione e della salute.
Innanzitutto non è che la sussidiarietà, che è la base ideologica di questo istituto, sia l’invenzione di qualcuno, ma è scritta nella Costituzione. C’è una sussidiarietà verticale – quello che non può fare il Comune lo deve fare la Provincia,
quello che non può fare la Provincia lo deve fare la Regione, quello che non
può fare la Regione lo deve fare lo Stato, quello che non può fare lo Stato lo
deve fare l’Europa – ma c’è anche una sussidiarietà orizzontale, per cui si deve
stabilire che cosa viene fatto meglio dal pubblico e che cosa viene fatto meglio
dal privato.
Ma ancor prima di essere scritto specificatamente nella Costituzione, questo
principio esiste nel sistema di welfare. Nell’articolo 38 della Costituzione1, che
è una norma scritta un po’ male, l’idea è che il welfare pubblico è fondamentale
e deve garantire le prestazioni di base, quelle cosiddette essenziali, ma se ulteriori bisogni delle persone richiedono altri interventi e se questo lo fanno i privati
collettivamente, questa non è un’iniziativa privata, che ha uno statuto politico e
giuridico generico, ma deve essere considerata una funzione pubblica.
Non è che pubblico può essere considerato solo ciò che fa lo Stato, il quale fa
certe cose: ci sono altre cose, che costituiscono obiettivi di interesse comune
generale, che possono essere svolte dai privati e ciò nonostante possono essere considerate di interesse generale e quindi non sono solo libere, ma meritano
di essere sostenute. Questo giustifica, ad esempio, le agevolazioni fiscali.
Secondo me questo concetto non è entrato nella testa di molti: né in quella
delle aziende, che la considerano una beneficenza, e neppure in quella di molti
sindacalisti, che la ritengono un furto ai danni del welfare pubblico. Talvolta
purtroppo è così: siccome la sanità italiana funziona non male, ma non dappertutto, il vero problema è la diseguaglianza tra territori.
L’idea dunque che sussistano tutte queste casse integrative è giusta ed è scritta anche nei relativi statuti, però molte volte, dove quella pubblica zoppica, di
fatto l’assistenza integrativa diventa sostitutiva.
Per esempio, tutta la long term care, la tutela di coloro che hanno malattie
croniche e vanno verso la non autosufficienza, evidentemente non è una questione attualmente alla portata del sistema pubblico, perché non si può ospedalizzare delle persone per vent’anni e tanto meno lo si potrà fare nei confronti
di milioni di persone, come accadrà di qui a pochi anni, le quali non saranno
completamente sufficienti.
1
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al
mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono
organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera.
160
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Le casse più ricche se ne stanno già occupando, per esempio i tedeschi hanno
messo a questo proposito una tassa di scopo e l’hanno inglobata nel sistema
pubblico, perché è diventata una questione di massa, che interessa milioni di
persone. Per cui l’idea fondamentale, che dovreste sostenere nell’argomento,
è che non si sta parlando di optional, di frivolezze, ma di cose che sono fondamentali.
Il secondo problema è dunque quali funzioni di welfare integrativo meritano di
essere incluse tra quelle essenziali. A questo proposito dovremmo chiarirci le
idee, perché sino ad ora l’assistenza integrativa è cresciuta senza regole. Uno
dei prototipi sono stati i CRAL, i quali facevano corsi di ballo, viaggi organizzati,
ecc., tutte cose che hanno a che fare con l’intrattenimento, però evidentemente
questa non è una priorità e potrebbe spiegare il declino che attualmente i CRAL
stanno vivendo.
In un libro che ho pubblicato sul welfare aziendale, in appendice ho elencato
tutta una serie di casi, che noi avevamo esaminato, i quali rappresentano un
ventaglio di possibilità molto ampio: la cura alla persona, ad esempio, vuol dire
cura ai bambini, cura agli anziani; l’educazione include libri, borse di studio,
soggiorni all’estero, corsi di lingue; e poi c’è l’area, che potremmo definire dello
stile di vita, il cosiddetto wellness, che raggruppa tutte quelle attività di cura a
persone che non sono malate, cose che hanno una funzione di prevenzione e
di miglioramento della qualità della vita.
Spesso io ricordo ai quarantenni che, se mangiano bene e curano il proprio
corpo, a sessant’anni staranno meglio e rappresenteranno costi inferiori sia
per il settore pubblico, che per quello privato: diete e moto costituiscono la vera
qualità della vita.
Poi c’è la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla quale la legge dice ben
poco, poi ci sono i trasporti collettivi, poi c’è la tutela del reddito ed il suo sostegno in generale, dal carrello della spesa all’aiuto per il pagamento dei mutui.
Si tratta dunque di sei-sette famiglie di attività, che nel tempo sono andate
crescendo: ma sono tutte meritevoli di sostegno? Quelle che ho elencato più o
meno sì, anche se con gli opportuni distinguo, perché molte di queste attività
devono essere opportunamente certificate, affinché siano sostenibili.
Sia dal punto di vista vostro, che operate a contatto con le aziende, sia dal
punto di vista del legislatore, una legislazione buona degli obiettivi meritevoli di
tutela è fondamentale.
Adesso si sta sviluppando la delega fiscale e si dovranno rivedere gli articoli
che riguardano il sostegno al reddito, ma questo è compito del legislatore, il
quale mi dicono che molto probabilmente non aumenterà i tetti preesistenti,
perché i soldi sono quelli che sono, ma dovrebbe chiarire sia quali sono gli
obiettivi meritevoli di tutela, sia i modi con cui raggiungere questi obiettivi.
Infatti sussistono ancora dei problemi con l’Agenzia delle Entrate, la quale talvolta trova da ridire su quanto erogato dalle aziende, che a suo parere non
si sono attenute alle regole prescritte, ed impone una tassazione normale su
interventi che invece avrebbero dovuto, nelle intenzioni dell’azienda, godere di
una defiscalizzazione.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
161
Per quanto riguarda invece la vostra pratica, io consiglierei, come qualcuno ha
già detto, di considerare innanzitutto che cosa c’è in casa: molte aziende e le
relative componenti sindacali non sanno che cosa effettivamente ci sia in casa,
per cui innanzitutto occorre fare degli inventari.
Tutto ciò per vedere quali tipi di correzioni devono essere apportate, per evitare
sovrapposizioni, per eliminare forme di assistenza ormai obsolete, per stabilire
preventivamente quanto ciascun intervento può costare. Noi abbiamo da poco
l’abitudine di fare qualche studio preliminare, perché, come è occorso del tempo affinché la contrattazione facesse dei calcoli su quanto incidevano i premi
concessi i lavoratori, anche in questo caso mancano dati certi sui diversi costi.
Ad esempio l’asilo aziendale è un’istituzione storica, ma oramai non ha più
senso: costa moltissimo rispetto a quello che rende, tanto è vero che oramai
si stanno tutti spostando su convenzioni con gli asili già esistenti, che costano
assai meno dell’asilo aziendale.
Bisogna stabilire che cosa, con il budget disponibile, è possibile fare: innanzitutto occorre privilegiare la sanità integrativa e la previdenza complementare e
poi bisogna stabilire quali sono gli ulteriori possibili provvedimenti.
Quali sono le priorità dei bisogni? Spesso le aziende decidono che per il bene
dei loro dipendenti è giusto fare un certo intervento, ma lo valutano sulla base
della loro percezione delle cose; se invece si vuole che il welfare secondo sia
condiviso, sia un elemento di partecipazione, bisogna vederlo sulla base delle
priorità, che vanno discusse con i dipendenti.
È famoso il caso di Luxottica non solo per come ha fatto le cose, ma anche
per come le ha preparate: decine e decine di assemblee, riunioni di gruppo,
per vedere che cosa serviva veramente e poi, una volta fatte le cose, per monitorarle.
L’Italia ha una scarsa tradizione di monitoraggio, per esempio, solo negli ultimi
anni si è cominciato a monitorare l’andamento delle leggi. A tale proposito consiglio un libro di Alberto Martini ed Ugo Trivellato intitolato Sono soldi ben spesi? un libro che analizza le esperienze migliori di monitoraggio di alcune leggi.
Di solito le priorità si rilevano con appositi questionari, oppure con dei focus
group. Nella mia esperienza è meglio prima fare riunioni di gruppi scelti accuratamente, perché non solo le donne sposate hanno esigenze diverse rispetto
a quelle delle donne nubili o degli uomini, ma, ad esempio, le donne quadro
hanno delle esigenze molto diverse rispetto alle donne dipendenti.
Se il sindacato vorrà essere convincente, sempre più dovrà pensare che non
si può più fare la contrattazione all’ingrosso, ma occorrerà sempre più fare una
contrattazione mirata. Va infatti tenuto conto del fatto che il welfare secondo
deve essere molto flessibile. Si parla in tal senso di flexible benefits in inglese:
una volta stabilito qual è il budget individuale lo si può destinare in maniera finalizzata, al giovane per l’acquisto della moto, alla mamma per l’asilo del figlio,
al lavoratore per la cura dell’anziano che ha in casa.
Anche perché tutti in qualche modo devono avere qualche cosa che interessa
loro: se si investe troppo nella cura dei bambini, che pure è una cosa fondamentale, metà della popolazione può obiettare che non ha figli.
162
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Quindi l’idea di fare delle analisi e conseguentemente dei pacchetti flessibili,
che tengano conto le varie esigenze, è fondamentale.
In questo ambito il sindacato può adoperare tutta la sua autorevolezza e poi è
un modo per conoscere i lavoratori, per convincerli che la cosa è utile.
Le aree variano a seconda dei periodi: per esempio, la storia del carrello della
spesa, che è stata lanciata da Luxottica alcuni anni fa, non solo all’inizio della
crisi si è dimostrata utile per soddisfare l’esigenza della cosiddetta quarta settimana del mese, ma si è rivelata una specie di acquisto collettivo utile alla socializzazione ed è risultata conveniente, perché la Luxottica ha 10.000 dipendenti
e quindi può fare degli acquisti con sconti significativi.
Il valore di un carrello medio è di € 258, ma in tal modo la merce effettivamente
acquistata risulta pari ad un valore di circa € 500. Oltre tutto va detto che, se
l’azienda assegnasse € 500 in contanti al lavoratore, metà se ne andrebbe in
fisco e para fisco, quindi l’utilità della moneta-welfare è un’utilità palpabile.
È importante poi la questione dei giovani: ultimamente alcune aziende non solo
assegnano delle borse di studio, ma hanno capito che le famiglie dei dipendenti
che hanno figli, vivono in prima persona la difficoltà della sistemazione di questi
giovani in assenza di lavoro. Per cui, ad esempio, fanno l’orientamento dei figli
dei dipendenti, poi fanno loro dei tirocini, dei quali si parla malissimo, mentre
l’Europa da 15-20 anni sostiene che debbano essere fatti per tutti, perché non
sono solo un rapporto di lavoro, con tutti i guai che ciò comporta, ma sono un
pezzo della scuola, basato non sullo studio teorico, ma sull’esperienza pratica.
È vero che può anche essere una forma di sfruttamento, ma un rapporto di
AlmaLaurea, che è un’associazione che raggruppa tutte le università italiane,
dimostra che le cose in ambito universitario stanno migliorando: ci si laurea in
tempi più brevi e c’è una percentuale di tirocini molto alta, sempre crescente.
Per esempio in certi settori, soprattutto quelli tecnico-scientifici, l’ultimo anno
implementa dei tirocini, che sono cresciuti di circa il 60-70% negli ultimi anni,
il che significa che stanno diventando un istituto fondamentale nel panorama
della nostra istruzione. Perciò, se un’azienda è ben impostata, si presta a fare
attività di questo genere.
Questo tipo di welfare si sta diffondendo molto, perché risponde ad un bisogno
crescente ed integra ciò che dovrebbero fare i servizi all’impiego e che in questo caso non fanno.
Mentre finora abbiamo parlato di cose concrete, la conciliazione dei tempi di
vita tempi di lavoro è qualcosa di più immateriale e mentre le cose concrete di
cui abbiamo parlato costano molto, la conciliazione può costare nulla o molto
poco, ma impone un cambiamento di organizzazione e di mentalità.
Quando qualcuno obietta che il welfare secondo è contrario al welfare state, io
cito l’esempio di Paesi come la Svezia, i quali hanno un welfare pubblico molto
forte ed hanno sviluppato molto il welfare secondo sui temi immateriali: gli stili
di vita e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche perché, essendo
quello un contesto più ricco del nostro, le persone sono disposte a soddisfare
bisogni ulteriori oltre a quelli elementari.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
163
Lì abbiamo un ventaglio molto ampio di possibilità, qualcuna in verità anche un
po’ frivola, e non interviene la defiscalizzazione, di cui non c’è bisogno, perché
in realtà si tratta di un modo diverso di organizzare la vita in azienda.
Però fa molto bene, è la flessibilità buona per definizione, perché la flessibilità
non consiste nello stabilire come si entra nel mercato del lavoro e come se ne
esce, ma la flessibilità più importante è quella che si vive all’interno della fase
lavorativa.
Bisogna però chiedersi se questa flessibilità serve a migliorare le condizioni del
lavoratore o a sbatterlo da una parte o dall’altra senza capo né coda: la flessibilità funzionale o interna è fondamentale e, se è un modo intelligente di fare
flessibilità, riguarda le mansioni, e poi gli orari.
Direi che la gestione degli orari è forse il numero uno di tutte queste cose. Un
mio collega, ormai famoso a livello europeo, ha formalizzato dei menu di orari,
cioè orari con variazioni molto ampie, di cui alcune necessariamente collettive,
perché certi turni devono essere stabiliti per tutti i lavoratori o per una certa
parte di essi, ma altre personali o per piccoli gruppi, perché oramai l’organizzazione funziona just in time.
In molte aziende della distribuzione – parliamo sempre a questo proposito di
aziende medio-grandi – è richiesto un lavoro a squadre, per cui si possono realizzare dei menu di orari molto personalizzati e ciò libera la vita dei dipendenti,
perché, se è fatto bene, non è un sistema costrittivo: il lavoratore sceglie certe
cose ed in cambio gli si dà libertà su altre.
Ai tempi in cui Marchionne faceva tanto cancan per il 18º turno, Luxottica ne ha
fatto tranquillamente 18 o 19 e per un certo periodo ha avuto addirittura bisogno
di turno notturno con molte donne e si è chiesta come fare: c’è stato un forte
lavoro di persuasione e di combinazione di orari, per cui alla fine il 20º turno è
stato implementato senza scioperi e senza reazioni negative da parte dei lavoratori, i quali avevano potuto fruire di soluzioni molto personalizzate.
E poi una soluzione di questo genere può essere molto variata: Luxottica ha
uno stabilimento vicino alle montagne e siccome i lavoratori maschi vanno a
sciare, desideravano avere un po’ di tempo libero per questa attività al venerdì
pomeriggio, cosa che non interessava alle lavoratrici, per cui è stato possibile
stabilire delle soluzioni flessibili, che hanno soddisfatto tutti quanti.
La cosa più complicata dunque è ripensare gli orari in modo molto personalizzato, ma è anche ciò che può garantire un grande welfare ai lavoratori. A questo
proposito non esistono molti ostacoli legislativi, semmai ci sono degli ostacoli
dai contratti collettivi nazionali di lavoro, che però possono essere cambiati o a
cui si può comunque derogare.
Le aziende che hanno cominciato quattro-cinque anni fa a fare queste cose,
hanno potuto verificare i risultati positivi nella disponibilità dei dipendenti al
cambiamento e nel benessere delle persone. Infatti non si è trattato solamente
della gestione degli orari di lavoro, ma sono entrati in ballo anche i congedi,
persino i congedi lunghi.
Ma che cosa è possibile fare per le piccole imprese e per i lavoratori autonomi?
Finché c’è la grande azienda che si mette a disposizione e fa con la collabora-
164
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
zione del sindacato, tutto va bene, ma nelle aziende piccole, negli studi e più
ancora nel caso dei lavoratori autonomi bisogna ancora inventare tutto.
Secondo me, nelle piccole aziende e negli studi bisogna che ci sia qualcuno
– ad esempio i consulenti o gli enti bilaterali – che prepari il compito. Infatti
esistono esempi di piccole aziende che hanno realizzato questo tipo di welfare,
però occorrono dei modelli, occorre che ci sia qualcuno che prepari una serie
di pacchetti di flexible benefits e li metta a disposizione.
Questo può essere fatto dai sindacati o dalle associazioni imprenditoriali o da
tutti e due insieme, ma sinora in questo senso si è visto poco. Eppure non è una
cosa così difficile: il menu c’è già, però le soluzioni che sono già state trovate,
devono essere adattate alle diverse situazioni locali.
Siccome in Italia la maggior parte dei lavoratori opera in aziende piccole o
piccolissime, secondo me, questo compito compete prevalentemente a voi, dirigenti sindacali e consulenti del lavoro, e poi compete agli enti bilaterali: è un
lavoro di promozione e di convinzione, direi quasi pedagogico.
Tra l’altro non si deve dimenticare che i benefici fiscali non riguardano solo le
grandi aziende, ma competono anche alle medie e piccole aziende: si tratta di
vedere quali sono concretamente le cose fattibili.
Il tema del rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro sta diventando sempre
più importante in tutto il mondo ed io credo che il part-time diventerà una delle
prospettive future fondamentali. L’Olanda ha già il 50% di part-time, si prospetta l’eventualità di avere un posto di lavoro per due persone e mezzo, ovvero per
una famiglia tipo attuale in quel Paese.
A me è capitato di parlare con un’italiana che è manager in un’azienda olandese, la quale mi chiedeva perché in Italia non si fanno queste cose, perché
in Italia non si fa il job sharing, ovvero la suddivisione del lavoro tra marito e
moglie, tra fratelli, tra amici.
Non è che domani mattina si possa andare in azienda e realizzare quanto già
si fa in Olanda, è una prospettiva futura: in Olanda è possibile realizzarlo già
ora, perché hanno un tipo di famiglia differente dalla nostra, ma comunque,
secondo me, il part-time è una modalità di lavoro fondamentale.
Lo slogan “Lavorare meno, lavorare tutti” poteva avere una sua ragion d’essere
in una concezione del lavoro fordista: oggi non ha più senso voler far lavorare
tutti quanti 35 ore, perché c’è anche chi vuole lavorarne 40 o forse più, chi vuole
lavorare una settimana 50 ore e magari la settimana successiva solamente 10.
In attesa di risolvere il problema della sufficienza del lavoro, dobbiamo considerare che nel corso della vita le esigenze cambiano: fino a 25-30 anni ora è
accettabile l’idea che si facciano strutturalmente formazione e informazione,
per cui, se si può, si va all’estero.
Perciò in molti Paesi europei il part-time è diffuso non solo per le donne, che è
l’idea vecchia di part-time, ma soprattutto per i giovani; mentre dopo i 55 anni,
siccome non si può più prepensionare come una volta, si cercano dei modi per
utilizzare efficacemente chi si trova in questa fascia d’età.
Io mi sono occupato molto di active aging, l’invecchiamento attivo, ed una cosa
che si tende ora a fare è un’uscita progressiva dal mercato del lavoro, per cui
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
165
negli ultimi tre-quattro anni il lavoratore opera part-time e magari al suo fianco si
mette, sempre a part-time, un giovane, per garantire la staffetta generazionale.
Per cui il part-time diventa un modo di vivere flessibilmente il lavoro e, secondo
me, è una modalità destinata ad aumentare e, se noi lo facciamo bene, è un
modo positivo di considerare l’attività lavorativa.
Naturalmente a questo proposito ci sono, come sempre, gli ottimisti e i pessimisti. Gli ottimisti sostengono che non è vero che le tecnologie hanno ridotto il lavoro, perché certamente ne hanno ridotto alcuni, ma ne hanno sviluppato altri.
Già ai tempi dell’invenzione della macchina a vapore ci furono i luddisti, che cercavano di distruggere le nuove macchine, sostenendo che avrebbero condannato il futuro dei lavoratori, mentre abbiamo visto che da allora si è fatta molta
strada e c’è stato anche un periodo in cui l’occupazione era molto buona, perché
non siamo stati sempre così inguaiati come negli ultimi tempi, considerato che
negli anni 60-70-80 in Europa abbiamo avuto un’occupazione quasi piena.
Gli ottimisti sostengono che adesso le tecnologie informatiche uccidono il lavoro – si parla di job killing technologies – ma permetteranno altre forme di
sviluppo, ci saranno più servizi, che a loro volta daranno posti di lavoro.
I pessimisti invece sostengono che le cose non potranno andare come in passato, perché i problemi diventano più seri ed il tipo di tecnologie che abbiamo
adesso è molto più complicato e gravoso di quelle di una volta, dato che non
solo uccidono i lavori manuali, il che sarebbe anche un bene, perché tutto il
lavoro pesante sarebbe lasciato alle macchine, non si limitano a fare i lavori
amministrativi che, ad esempio, nelle banche sono ormai quasi completamente
appannaggio delle macchine, ma cominciano a mettere in difficoltà anche i
lavori intellettuali.
E infatti gli studi un po’ più avanzati non hanno molte segretarie e gli stessi avvocati si devono arrangiare con il computer, altrimenti rischiano di non essere
competitivi. Qualcuno aggiunge che sono a rischio addirittura i lavori creativi,
perché oramai anche il design, l’architettura o altre attività creative vengono
realizzate al computer. E la robotica giapponese sta addirittura sostituendo le
colf e badanti.
I pessimisti sostengono dunque che oramai non è più possibile creare dei lavori
sostitutivi di quelli che sono andati perduti, perciò ci resterà molto tempo libero
e noi dovremo cercare di riempirlo, per non correre il rischio di rincretinire davanti ad un televisore. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie al professor Treu per questo panorama molto ampio. Ora diamo la parola ai presenti per le loro domande. Prima però vorrei sottolineare il fatto che,
come diceva il professor Treu, non sussistono impedimenti di tipo legislativo
alla realizzazione della conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro; occorre un’azione di invenzione contrattuale ed organizzativa per realizzare questa
166
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
conciliazione; queste esperienze sono state realizzate principalmente nel settore industriale con grandi numeri e la difficoltà è tradurle in un settore costituito
da piccole imprese.
D’altra parte noi facciamo questi incontri proprio per ipotizzare dei modelli,
come quelli che suggeriva il professor Treu. Cominciamo dunque con i vostri
interventi.
ANDREA BARTOLI
(Segretario FISASCAT-CISL Ravenna)
Il tema della previdenza complementare, non solo dal punto di vista sindacale,
ma anche da quello personale, mi interessa molto, perché, prima di fare questo
mestiere, 12 anni fa, proponevo fondi previdenziali.
Le riforme degli ultimi vent’anni praticamente ci hanno tolto circa il 30% di rendita previdenziale, quindi diciamo che siamo in una fase di rivendicazione, oltre
a tutti i problemi che già abbiamo, perché stiamo versando lo stesso salario
contributivo, ma, a differenza di chi è già pensionato, andremo in pensione con
il 55-60% dell’ultimo stipendio.
Io comunque condivido il sistema contributivo, perché è giusto che ciascuno si
crei il proprio fondo individuale: il problema è che dobbiamo trovare un modo
per recuperare, perché, per quanto riguarda l’aspetto previdenziale, non c’è
cura, c’è soltanto prevenzione.
Premesso che, a mio parere, la previdenza complementare deve essere obbligatoria, ritengo che si debba trovare un qualcosa che ci faccia recuperare ciò
che abbiamo perso, magari agendo sul tasso di riconversione dal salario alla
rendita che utilizzano le assicurazioni, magari attraverso gli enti bilaterali e poi
trovare un sistema elastico che possa intervenire sia per il lavoro subordinato
che per il lavoro para subordinato.
Per il lavoratore che passa dall’atipico, cioè dalla gestione para subordinata,
alla gestione ordinaria, bisognerà trovare un sistema che faccia scomparire le
barriere, altrimenti il lavoratore, che spesso è un lavoratore part-time, si troverà
di fronte grosse difficoltà. Grazie.
LUIGINO PEZZUOLO
(Segretario Generale FISASCAT CISL Milano - Legnano - Magenta)
Innanzitutto grazie per il quadro generale, il quale mi ha anche permesso di
capire che occorre proprio metodo nell’affrontare il tema e dentro il metodo
tentare di darsi delle parole chiave, per capire esattamente che cosa si vuole
fare, quando lo si vuole fare, per chi e soprattutto per quali temi, in base alla
loro maggiore o minore criticità.
È vero che in Italia, da quando è stata inserita la previdenza integrativa, è cambiato sostanzialmente il popolo del mondo del lavoro: abbiamo avuto grandi
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
167
ondate di immigrazione, che hanno dato ai lavoratori l’idea che rafforzare il
trattamento di fine rapporto fosse comunque un elemento imprescindibile del
salario.
Perciò scegliere se mettere dei soldi nei fondi o decidere di lasciarli lì, per
poi prenderli, quando termina la propria vita lavorativa, è diventata una scelta
ardua. Quando si cerca di capire che cosa è successo, ponendo a confronto
la previdenza integrativa e l’assistenza-sanità complementare, bisogna tener
conto che c’è una storia della previdenza integrativa che è molto diversa rispetto all’altra forma di welfare.
Il trattamento di fine rapporto non viene vissuto come un fondo integrativo e
d’altra parte, per quanto riguarda i fondi integrativi che già esistevano, quando
l’utente aveva bisogno di disponibilità economica, bisognava andare a trattare
con l’assicurazione, soggiacendo a forti penali, perciò si è sempre visto il mondo della previdenza integrativa come un mondo molto strano, nel quale non si
riusciva comunque a garantirsi l’utilizzo dei soldi che erano stati versati.
Discorso diverso vale per l’assistenza sanitaria: nel Commercio noi abbiamo 2
milioni di adesioni all’assistenza sanitaria e 200.000 alla previdenza integrativa,
perché tutti vedono i benefici immediati dell’assistenza sanitaria, mentre, come
si è detto, quelli della previdenza integrativa sono abbastanza sfuggenti.
A noi è capitato di fare molta contrattazione per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, non solo nelle cooperative, ma anche nell’ambito del settore privato ed
ogni tanto ci chiediamo come si possono mettere in relazione i diversi fondi.
Ad esempio, nel Commercio noi abbiamo un soggetto, che è un lavoratore
subordinato, magari un quadro, che ha QUAS da una parte, EST dall’altra e
magari anche un fondo aziendale nella realtà a cui appartiene e spesso noi non
riusciamo a fare sistema, in modo che il lavoratore, se ne ha necessità, prelevi
immediatamente dal fondo più agibile e magari da quello che gli concede un po’
di più o gli crea meno problemi dal punto di vista della burocrazia.
Io penso che, se si fa sinergia tra i vari fondi, probabilmente si possono aumentare i benefici, perché è chiaro che il fondo aziendale è limitato rispetto agli altri
due, che hanno un respiro più ampio.
Altro problema è la tutela al reddito: a parte gli enti bilaterali, non dimentichiamo
che nei nostri settori abbiamo una delle percentuali più alte di richiesta della
cessione del quinto dello stipendio, cosa che non riguarda la conciliazione di
tempi di vita e tempi di lavoro, ma di cui nella discussione relativa alla tutela
del reddito forse sarebbe opportuno occuparsi, perché, se non lo facciamo noi,
lo fa qualcun altro e non lo fa lo Stato, non lo fanno le banche, lo fa spesso la
microcriminalità, che si inserisce così nel tessuto produttivo del Paese.
Poi c’è il problema di sapere che cosa si fa a proposito della conciliazione di
tempi di vita tempi di lavoro: secondo me la flessibilità a costo zero è il nodo
centrale. Su questo noi ci siamo già messi alla prova: è vero che offrire un ventaglio di possibilità è la cosa più realistica e più sensata, però la conciliazione è
diventato un fatto molto importante, perché è cambiato il modello culturale.
Quanti impiegati nel settore del Commercio affrontano normalmente la loro
giornata lavorativa in termini di orario, come era 20-30 anni fa? Si timbrava il
168
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
cartellino alle 8 e alle 17:02 si usciva dall’ufficio. Adesso, passando per Assago
alle 10 di sera, si vedono ancora le luci accese e delle persone all’interno del
luogo di lavoro.
Questa disponibilità di tempo diventa lo scambio che il lavoratore fa con la
propria azienda. Ma il nostro problema è un altro: rispetto alla qualità della vita,
quali sono gli effetti che si creano? Rispetto alla qualità della famiglia, quali
sono gli effetti che si creano?
Per noi parlare di welfare e di conciliazione vuol dire tentare di alleviare questa
situazione. Grazie.
LOREDANA NICOLI
(Consulente del Lavoro Bergamo)
Cominciamo con la difficoltà, all’interno delle piccole aziende, ad applicare il
part-time che deriva dal contratto. Per esempio, il contratto del Commercio prevede che il part-time debba avere un minimo di ore e d’ufficio, onestamente, a
quello io ho derogato, perché diverse persone, in un tentativo di job sharing,
hanno detto che preferivano fare soltanto 10 ore.
Quanto all’affermazione che la conciliazione costi poco in termini di denaro, ciò
mi fa pensare ad un incontro che ho avuto, in cui gli esempi portati dai relatori
erano sempre di Paesi nordici, nei quali il cambiamento della mentalità delle
persone si riferisce a popolazioni in termini numerici molto inferiori alla nostra.
Io sono d’accordo sul fatto che si debba cambiare la mentalità delle persone,
ma un conto è farla cambiare a 6 milioni di persone e un conto è farla cambiare
a 60 milioni di persone, un conto è farla cambiare a chi già ha iniziato questo
processo 10 anni fa, un altro conto è farla cambiare a chi ancora non ha iniziato a porsi in questa ottica e si vede imporre questo cambiamento dall’alto.
Grazie.
MAURIZIA RIZZO
(Segretario Regionale FISASCAT-CISL Veneto)
Grazie al professor Treu, che ci ha sicuramente dato una panoramica delle
diverse tematiche, che spesso noi non riusciamo ad affrontare nella loro complessità, perché, quando ci confrontiamo con una massa ingente di lavoratori e
con i relativi bisogni, facciamo fatica a distinguere quali sono le priorità.
Noi normalmente trattiamo con grosse imprese, le quali arrivano alla trattativa
con studi già fatti, dei quali noi siamo costretti poi a verificare la genuinità e ciò
ci crea non poche difficoltà.
Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria complementare, che è compatibile
con quella pubblica e qualche volta anche sostitutiva di essa, soprattutto in
seguito alle diverse spending review, che hanno costretto le diverse Regioni
a tagliare risorse ai servizi essenziali, è evidente che essa è apprezzata: è un
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
169
apprezzamento alto, che è andato aumentando negli ultimi 10 anni, perché i
lavoratori hanno toccato con mano la situazione ed hanno voluto che questa
assistenza fosse estesa ai familiari a carico.
Il problema è che noi abbiamo molti fondi: solo la FISASCAT, la nostra Federazione, ha 33 contratti collettivi nazionali, su tutti questi contratti abbiamo circa 15
fondi, altri li abbiamo già contrattati ma non sono ancora decollati nell’ambito del
socio assistenziale, della cooperazione sociale, UNEBA ed ANASTE; abbiamo
11 contratti solo nel socio-assistenziale, perché il principale problema italiano in
questo ambito è che noi, invece di ridurre i contratti, li stiamo aumentando.
A fronte del fatto che la spending review ha ridotto la spesa pubblica ed aumentato la spesa privata, noi oggi ci troviamo davanti ad una situazione per
cui i fondi sono in difficoltà, perché non erano stati fatti gli studi, le analisi, le
proiezioni che determinassero la sostenibilità dei fondi stessi, proprio perché
non si era pensato agli effetti negativi che le spending review avrebbero potuto
esercitare nei confronti dei fondi.
È chiaro dunque che occorre andare verso un intervento legislativo, che indichi
dei parametri di sostenibilità dei fondi e che tenga conto della molteplicità degli
interventi che alla sanità-assistenza integrativa vengono oramai richiesti.
Non è poi è ammissibile scontrarsi ancora con dei pregiudizi di carattere ideologico, i quali impediscono la nascita di fondi obbligatori per motivi di carattere
politico, visto che non solo la CGIL, ma anche alcuni datori di lavoro, privilegiano alcune assicurazioni, come, per non fare nomi, Unipol.
La flessione della contribuzione ai fondi naturalmente è il contraccolpo della
crisi economica, la quale ha fatto sì che molti lavoratori in cassa integrazione
non abbiano rinnovato l’adesione per motivi contingenti, o addirittura abbiano
riscattato i fondi e, se hanno trovato un nuovo posto di lavoro, non hanno rinnovato l’adesione a causa delle paure, delle diffidenze, delle preoccupazioni
legate al momento storico.
Il Governo ha adottato strumenti nuovi, come il contratto a termine e l’apprendistato, per cui noi dobbiamo misurarci con una accresciuta quantità di lavoro atipico, di lavoro autonomo, quello che la Fornero non aveva sviluppato. Questa
situazione rende inevitabile l’obbligatorietà della previdenza integrativa, quindi
la legge dovrà fare la sua parte, per evitare che fra quarant’anni il Paese sia
costituito da pensionati poveri. Grazie.
TIZIANO TREU
(Ex Ministro del Lavoro)
Non c’è dubbio che con questa variazione dei tipi di lavoro bisogna risolvere
la questione delle ricongiunzioni, soprattutto per coloro che hanno lavorato in
ambito parasubordinato, dipendente, o autonomo in diversi momenti della loro
vita lavorativa.
Qualcosa si è fatto, ma non abbastanza, perché è una misura ovviamente costosa: dipende da come si ricongiunge e da chi deve pagare la ricongiunzione.
170
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Non penso che occorrerà una nuova legge sulle pensioni, però il tema delle
ricongiunzioni è senz’altro maturo per un intervento legislativo.
Il contributivo in realtà è un sistema più sostenibile che giusto. Noi lo abbiamo
adottato perché dovevamo evitare il fallimento, in considerazione del fatto che,
se continuavamo a promettere cose che non potevamo mantenere, imbrogliavamo i nostri successori, per cui era necessario andare sul contributivo.
Il modello contributivo è sinallagmatico, ovvero tanto dai e tanto prendi, non
contiene elementi di solidarietà, mentre noi avevamo sempre sostenuto che il
sistema di welfare dovesse avere un carattere universale e solidaristico.
La sanità pubblica invece funziona proprio su questi principi: il paziente riceve
quello che la collettività con le tasse ha messo a disposizione, per chi ne avesse necessità. Quindi la sanità è l’opposto dell’attuale sistema contributivo.
Però sempre più si vede che essere solo contributivi senza solidarietà crea
problemi per chi ha carriere interrotte o altri problemi consimili. Le soluzioni
possibili a questo punto sono due: innanzitutto si può ricorrere alla pensione
sociale, la quale individua un minimo vitale da corrispondere a chi non ha mezzi
per sostentarsi.
In questo ambito noi abbiamo ancora i residui del vecchio sistema, per cui
coesistono ancora molte pensioni ricche e molte pensioni povere. Tuttavia non
basta cambiare il tasso di conversione: attualmente le aspettative del contribuente si legano al prodotto interno lordo, ma noi abbiamo fatto dei calcoli basati su una crescita ipotizzata pari all’1,5% che negli anni 90, quando abbiamo
pensato questo sistema, era considerata una stima prudente, mentre l’attualità
dimostra che era una stima troppo ottimistica.
Siccome il sistema previdenziale è legato alla crescita del Paese, se il Paese
cresce poco, evidentemente la rendita sarà molto bassa e se si cambia il tasso
di conversione, poi bisogna chiedersi chi paga la differenza.
Uno dei motivi per cui qualcuno era contrario al contributivo era proprio perché
nei Paesi, in cui c’è poca fiducia nei confronti del sistema pubblico, sussiste
il timore che il Governo, cambiando in pejus i coefficienti di erogazione delle
pensioni, possa danneggiare il contribuente.
Quello che conta è la serietà delle promesse: c’è un patto storico e va mantenuto. Si può alzare la pensione di base, ma questa misura va finanziata con
le tasse, perché si introduce nel sistema pensionistico un pezzo del sistema
universalistico: la pensione pubblica viene costituita in parte da quanto il contribuente ha versato ed in parte da un contributo statale.
Ma la pensione sociale in Italia è per i poveri, per cui noi ci siamo chiesti se non
fosse possibile creare un sistema, come esiste in altri Paesi, che non distinguesse i poveri e i ricchi, ma integrasse il sistema contributivo e stabilisse che
a tutti spettasse uno zoccolo dato dal fisco, sopra il quale si collocasse la parte
contributiva, per cui la pensione fosse costituita da una fascia solidaristica e
universalistica di base, a cui si aggiungesse quanto maturato dal contribuente
nel corso della sua carriera lavorativa.
Così sarebbero stati aiutati non solo quelli che si trovano al margine, perché lo
zoccolo sarebbe stato uguale per tutti. Chi percepisce € 8.000 al mese di pen-
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
171
sione non soffre molto, se gli si sottraggono € 500, invece questi € 500, posti
come base di una pensione concepita secondo il sistema solidaristico, possono
rappresentare una differenza significativa.
E poi si era proposto di abbassare l’aliquota del 33%, che, per i dipendenti, è tra
le più alte d’Europa. Questa è un’operazione difficile, per la quale bisognerebbe
creare una fascia di contributivo uguale per tutti. Ma gli artigiani sono storicamente al 22%, i parasubordinati sono partiti dal 10% ed ora stanno arrivando al
27%, per cui armonizzare le diverse aliquote non è semplice.
Noi avevamo proposto il 27% per tutti, con la qual cosa si alleggeriva il costo del
lavoro dei dipendenti, ma si rendeva più gravoso quella delle altre categorie.
La nostra proposta era e resta molto impegnativa, funziona in altri Paesi, innanzitutto perché là tutti pagano le tasse, mentre da noi, dove c’è un’evasione
assurda, il sistema non è sostenibile e poi era un sistema che presupponeva
un’integrazione bilanciata nel tempo e soprattutto che il sistema rimanesse stabile per 10-15 anni, tempo necessario perché una riforma del genere potesse
andare a regime.
Un pezzetto invece si può realizzare, perché si può ricorrere all’abbattimento
del fisco, cosa che ha fatto il Governo Renzi con i famosi € 80 mensili. Invece
l’alternativa che, secondo me, sarebbe da riconsiderare è che, se si riducessero i contributi da 33% a 32% o a 31%, il sistema sarebbe più efficace e più
giusto, perché ciascuno avrebbe una sua riduzione e non sarebbe necessario
rivedere tutto il sistema, ma almeno si alleggerirebbe il peso del contributivo.
Naturalmente la riduzione di aliquota va in qualche modo compensata con un
contributo figurativo a carico dello Stato, che va finanziato con altre tasse.
Quindi la soluzione resta quella dell’integrazione tra elementi solidaristici ed
elementi contributivi.
Quanto al fatto che esistono troppi fondi, noi siamo un Paese di solisti, agire
come sistema non ci piace e così purtroppo il Paese funziona male e rende
meno. È chiaro che è più facile realizzare una unificazione dei fondi in Finlandia
che non in Italia, perché quelli sono popoli più omogenei, mentre noi, ogni volta
che tentiamo di realizzare qualche riforma, dobbiamo scontrarci con il fatto che
l’Italia viaggia sempre a due velocità molto diverse tra di loro.
Va detto tuttavia che anche i Paesi nordici hanno impiegato cinquant’anni per
realizzare il loro sistema, quindi noi possiamo almeno cominciare, con la consapevolezza che si tratta comunque di un problema grosso da risolvere. Qui
naturalmente sono le associazioni sindacali, che devono darsi da fare.
Ed altrettanto vale per la proliferazione dei contratti: sono 15 anni che diciamo
che ci sono troppi contratti collettivi, ma è un brutto segno, se noi restiamo
sempre sbrindellati e non siamo capaci di costruire un’azione di sistema che
risolva il problema.
E comunque il numero dei fondi va assolutamente ridotto, perché lo spreco costituito dalle spese generali, dall’incompetenza, dall’incapacità di fare i calcoli,
dalla necessità di tutelare le poltrone dei dirigenti rappresenta un danno troppo
oneroso per la loro gestione economica.
172
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Altrettanto vale per il settore dei professionisti: io conosco la cassa degli avvocati e posso dire che è uno dei sistemi peggiori che io abbia visto in vita mia:
ci sono casse di professionisti che hanno 2.000 iscritti e che non si avvicinano
neanche lontanamente alla massa critica necessaria per produrre degli effetti
positivi. Però, siccome neppure Renzi, che è un decisionista, può imporre una
cosa del genere, bisogna che ciò avvenga attraverso il senso di responsabilità
di chi vi si trova ad operare.
Quanto al fatto che molti lavoratori ricorrono alla cessione del quinto dello stipendio, è sicuramente un brutto segno, ma in queste situazioni oramai è quasi
una via obbligatoria ed anch’esso corrisponde ad un cambiamento culturale,
perché è basato sull’idea che ciascuno si coltiva il proprio orticello.
Piccolo è bello si diceva, ma, se è troppo piccolo e miserabile, si traduce in uno
spreco. Lo si vede bene nel numero dei Comuni italiani, che devono assolutamente essere ridotti, perché rappresentano uno spreco ormai insostenibile.
Mi fa piacere sentire che molti part-time oramai sono eletti a livello contrattuale:
si possono fare molte cose senza l’intervento del legislatore, ci sono già troppe
leggi e, quando il legislatore interviene, spesso interviene in modo complicato,
per cui è essenziale che si trovino delle soluzioni a livello contrattuale.
Negli ultimi tempi sento che c’è una sensibilità maggiore in questa direzione:
tutti si stanno accorgendo che l’eccessiva frammentazione, che la quantità eccessiva di norme, anche contrattuali, rappresenta un guaio per tutti, per cui mi
auguro che il mondo del lavoro sappia reagire in modo adeguato.
La flessibilità dell’orario è proprio un modo nuovo di considerare il mondo del
lavoro: noi per un secolo abbiamo avuto il fordismo, il quale predicava la necessità che ci fossero automobili di tutti i colori, purché fossero nere. I turni di
lavoro erano tutti uguali, i ritmi di vita erano tutti uguali, la famiglia era tutta incasellata in schemi predeterminati, invece ora trionfa, persino troppo, l’opposto:
individualismo, stili di vita, consumi, famiglie di tutti i tipi.
Però, di fronte a questa varietà, bisogna cambiare mentalità: bisogna chiedersi come far sì che questa varietà costituisca un arricchimento e non sia una
confusione inestricabile. Compito delle associazioni è quello di ridurre ad unità
sensata questa molteplicità, questa diversità.
I fondi di assistenza sanitaria, si diceva, hanno bisogno di regole, ma le regole
che può dare il legislatore pubblico devono essere innanzitutto di rigore amministrativo e di gestione. È quanto si è fatto nei confronti delle varie casse di
previdenza, alle quali è stato imposto di fare bilanci a cinquant’anni, perché ciò
garantisce il futuro.
Ad esempio, una volta ci si affidava quasi completamente all’investimento immobiliare, ma, se crolla il valore del mattone, poi ci si ritrova con un pugno di
mosche, per cui occorre fare invece delle proiezioni a cinquant’anni, che diano
maggiori garanzie.
La legge può imporre queste limitazioni, ma la gestione spetta poi alle associazioni, per cui bisogna ridurre il numero delle poltrone e usare più razionalità.
Quanto all’obbligatorietà della previdenza integrativa, io preferirei sempre l’adesione volontaria, ma se ciò non avviene, può darsi che qualche protagonista
politico prenda una decisione in questa direzione.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
173
BASILE SABATINO
(Segretario FISASCAT-CISL Torino)
Abbiamo vissuto la questione del trasporto a proposito delle 1200 aziende italiane del settore: più consigli di amministrazione, più posti di sottogoverno, più
contratti nella filiera, un settore privo di ammortizzatori sociali … e finalmente,
lo scorso 26 aprile, siamo riusciti a costituire un fondo previdenziale di sostegno
al reddito.
Il problema è che noi abbiamo scoperto, strada facendo, che bisogna dare più
importanza al metodo che al merito. Di meriti ne sono stati presentati a iosa,
tra cui appunto la volontà di operare delle trasformazioni, dando più spazio alla
periferia. Però, arrivando nelle periferie d’Italia, ci siamo accorti che quei fondi o
le aziende non li avevano proprio costituiti o avevano pensato bene di utilizzarli
in altro modo.
Quindi diventa un problema di metodo, non più di merito: abbiamo troppa carne
al fuoco, perché in questi anni siamo riusciti a fare qualche cosa, ma nelle periferie le cose vengono lasciate troppo a se stesse.
Si diceva prima che sono le parti sociali che devono intervenire in questo ambito, ma io credo che debba esistere una cabina di regia centrale, che determini
le regole, che in questo Paese oggi purtroppo mancano: chi non le applica, chi
sbaglia, deve pagare. A cascata viene poi il controllo sui posti di sottogoverno,
che noi sindacalisti non possiamo certo operare.
Io sono convinto che i lavoratori, che tutti i giorni noi incontriamo, più che aderire ai vari fondi, che proponiamo loro, hanno desiderio di investire il proprio
TFR nelle aziende in cui operano. Ma il denaro, che loro investono in queste
aziende, potrà essere poi consolidato, potrà essere recuperato, potrà essere
governato?
A me pare che manchino delle regole confacenti a questo scopo, quindi io
credo che insieme alle associazioni datoriali, insieme alle politiche regionali
dobbiamo iniziare a determinare dei metodi. Grazie.
ALESSANDRA NAVA
(Consulente del Lavoro Bergamo)
I lavoratori che avevano optato per la previdenza complementare, trovandosi
ad operare in aziende che sono andate in crisi, ovviamente hanno visto interrotta la loro contribuzione al fondo di previdenza complementare, perché le
aziende non hanno più fatto i versamenti. Per cui ora ci troviamo nella situazione in cui, chi ha fatto la scelta di lasciare in azienda il proprio TFR, si vede
garantito dall’Inps per il TFR e le ultime tre retribuzioni, ma che cosa accade
degli altri? Che cosa accadrà una volta che sarà fatta l’istanza di fallimento?
Grazie.
174
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
TIZIANO TREU
(Ex Ministro del Lavoro)
i TFR hanno avuto vicende diverse: ad esempio ci sono state aziende che,
avendo l’acqua alla gola, hanno utilizzato i fondi accantonati e questo deriva
da un problema grave diffuso delle piccole aziende italiane, che molto spesso
sono sottocapitalizzate e nei momenti di crisi toccano anche fondi, che non
sono a loro disposizione.
Lo Stato, come richiede l’Europa, dà una certa garanzia ai lavoratori, per quanto
concerne il TFR, ma non fa altrettanto per quanto riguarda i fondi di previdenza
complementare. Bisogna andare a vedere come sono gli statuti e i regolamenti
dei diversi fondi, ma in generale, se i dipendenti non contribuiscono per un
certo periodo, perché sono in cassa integrazione, però la loro azienda continua
regolarmente a fare i versamenti relativi, essi percepiranno di meno, ma non
perderanno la pensione integrativa. Nei momenti di crisi comunque anche le
garanzie pubbliche reggono sino ad un certo punto.
Quanto alle regole che venivano poc’anzi invocate, noi siamo un Paese che ha
molte regole, molte delle quali però non vengono rispettate. Io sono maggiormente favorevole all’autoregolazione, mentre ritengo che le regole pubbliche
debbano esercitare un controllo, una supervisione più adeguata alle necessità
del Paese.
Anche questo dipende da una mentalità, occorre tempo, come dimostra la legislazione per la sicurezza sul lavoro, che è una normativa di derivazione europea, quasi uguale dappertutto, però in certi Paesi funziona meglio, perché
da anni si è investito nella cultura della sicurezza a partire dalle scuole, c’è un
controllo sociale forte e c’è anche un controllo pubblico.
Questi sono investimenti di fondo nella cultura di un Paese e siccome sia le
associazioni dei consulenti che le associazioni dei lavoratori sono responsabili
per questa cosa, devono contribuire a realizzarla.
Ultimamente ci sono alcune iniziative interessanti: i soldi dei fondi, che costituiscono una somma molto cospicua, vengono investiti di solito in modo molto
prudenziale, ma attualmente si sta considerando se una parte di questi fondi
può essere utilizzata per sostenere l’economia reale, soprattutto per quanto
riguarda le piccole imprese.
Avrete probabilmente sentito parlare dei mini bond, uno strumento che si sta
cominciando ad attuare e che potrebbe rappresentare un impiego migliore, che
non l’investimento, come fanno alcuni fondi, in azioni o in obbligazioni della
Nuova Zelanda.
È chiaro che bisogna fare un bilanciamento tra il rendimento e l’utilità immediata, ma mi risulta che già il fondo pensione Solidarietà Veneto stia facendo delle
operazioni intelligenti, speriamo fatte con prudenza, per convogliare una parte
delle proprie risorse sull’economia reale.
Banca intesa ha fatto un’operazione di distribuzione di azioni ai dipendenti con
possibilità di investire nell’azienda, cosa che in altri Paesi si fa normalmente,
perché i fondi investono nelle azioni delle aziende che ad essi aderiscono.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
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Naturalmente non bisogna esagerare, perché se poi l’azienda va male, il fondo
subisce dei danni rilevanti. Nel caso di Banca intesa intanto l’investimento è
limitato nella quantità e poi il capitale è garantito.
Sono iniziative che si stanno sviluppando, ovviamente nella speranza che l’economia regga, perché queste cose funzionano, se c’è una sostanziale stabilità
del sistema.
L’esperimento che è stato avviato, ma si è concluso solo in parte, a Pordenone,
proponeva il welfare territoriale come sistema di compensazione e non solo per
i dipendenti di Electrolux, ma anche per quelli dell’indotto che, essendo tutta la
zona in crisi, non hanno più il premio, oppure hanno la retribuzione bloccata e
non possono più pagare la previdenza complementare.
Fare un sistema di welfare, che beneficia delle riduzioni fiscali, quindi rende di
più, e che magari è aiutato anche da una Regione che è abbastanza ricca, è un
elemento compensativo del territorio.
Questa è una cosa un po’ più difficile, ma che si può fare. Anche a questo proposito un sindacato come la CISL, che ha sempre avuto interesse a questo tipo
di iniziative, potrebbe realizzarlo. È un tipo di contrattazione territoriale, che non
suscita reazioni negative da parte dei datori di lavoro e che può risultare utile a
tutti, se fatta bene. Grazie.
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sessione pomeridiana
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Questa mattina ci siamo occupati della presentazione in generale di che cosa si intende per welfare contrattuale. Lo si è fatto principalmente con Tiziano Treu, che ha
illustrato i filoni tradizionali dell’intervento relativo al welfare contrattuale, la previdenza
complementare, l’assistenza sanitaria integrativa e poi le acquisizioni più recenti, ovvero
le politiche per favorire i trasporti, le spese mediche, i benefit per i propri dipendenti e
quant’altro.
Nell’ambito di questo contenitore ampio, che è il welfare contrattuale, un elemento importante di carattere specifico concerne in particolare la conciliazione tra tempi di vita e
tempi di lavoro. Questa ha più a che fare, come diceva questa mattina Tiziano Treu, con
i beni immateriali. Indubbiamente, quando si parla di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, si toccano tanti aspetti, che hanno a che fare con l’utilizzazione del lavoro,
quali, ad esempio, il tema delle mansioni, il tema degli orari, ecc. ed anche nelle vostre
presentazioni di questa mattina c’era qualcuno che richiamava il tema del telelavoro,
questo oggetto misterioso che agli inizi degli anni 2000 si era cercato di introdurre anche nelle pubbliche amministrazioni, ma mi sembra che grandi passi in avanti in questa
direzione non ne siano stati fatti.
La normativa di carattere generale risale un po’ addietro nel tempo: è il famoso articolo
9 della legge n. 53 del 2000, che doveva incentivare anche la contrattazione riguardante
la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. La norma peraltro è stata in qualche
modo interessata anche dall’intervento del Testo Unico per la tutela della maternità e paternità e mi pare che anche nel 2011 ci sia stata una sorta di accordo tra Governo e parti
sociali, in cui si diceva che la contrattazione di secondo livello, sia di carattere aziendale
che territoriale, era uno degli strumenti principali di incentivazione di possibili soluzioni in
materia di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Quindi c’è un riconoscimento
anche a livello governativo, insieme alle parti sociali, del fatto che la contrattazione di
secondo livello poteva essere uno strumento importante.
Abbiamo dunque delimitato il terreno per entrare nel tema Conciliazione tra tempi di
vita e tempi di lavoro, in merito al quale dobbiamo capire quale ruolo può giocare la
contrattazione e quanto anche lo Stato, attraverso politiche di incentivazione fiscale, può
essere importante rispetto a questo scopo.
Diamo il benvenuto alla Dottoressa Antonella Marsala, che è Dirigente di Italia Lavoro e
che peraltro conosce già il Centro Studi, in quanto è già stata coinvolta in altre iniziative
come docente per corsi destinati ai contrattualisti.
Italia Lavoro sta sviluppando tutta una serie di azioni, un progetto specifico, per incentivare le esperienze, sia aziendali che territoriali, su questo terreno, anche interagendo
con lo stesso mondo sindacale e con lo stesso mondo dei consulenti del lavoro.
All’intervento della Dottoressa Marsala seguiranno i lavori di gruppo, per cui abbiamo
già predisposto i gruppi, in modo che si attui quello scambio tra due mondi che non
sempre si parlano, quello dei dirigenti sindacali e quello dei consulenti del lavoro, che è
lo scopo di questi seminari congiunti.
Abbiamo costituito i gruppi sulla base della provenienza geografica, in modo tale che
questo scambio di opinioni presso il Centro Studi si traduca a livello territoriale in una
fattiva collaborazione, mirante alla soluzione dei problemi che riguardano i rapporti tra
le due associazioni.
I gruppi lavoreranno su casi concreti, che gentilmente la dottoressa ci ha predisposto,
per poter lavorare al meglio. Seguirà dunque una esposizione dei lavori di gruppo ed
una sistematizzazione da parte della Dottoressa Marsala di quanto concluso nei lavori
di gruppo. La parola dunque alla Dottoressa Marsala. Prego.
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Intervento di:
Antonella Marsala
(Project Manager presso Italia Lavoro)
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Io vengo sempre molto volentieri qui a Firenze non solo perché il posto è bello,
ma perché in genere facciamo delle cose molto interessanti e coinvolgenti, le
quali ci fanno capire che ciò che stiamo facendo va nella giusta direzione.
All’interno di Italia Lavoro io seguo le problematiche dell’occupazione femminile
e della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, che inevitabilmente ha
subito un’evoluzione, perché fino a qualche anno fa si parlava di conciliazione
tra famiglia e tempi di lavoro, mentre ora si parla di tempi di vita e tempi di
lavoro.
Ciò significa che si incomincia a dare più senso al ciclo di vita dei servizi – ricorderete il caso degli asili aziendali, che sono andati molto di moda per un
certo periodo, ma poi si è alzata l’età media delle dipendenti e gli asili aziendali
sono rimasti un costo quasi privo di senso – e che si è presa in considerazione
una dimensione che ha a che fare molto con la genitorialità, quindi non è solo
un problema di donne, ma è anche un problema di uomini e non è solo un
problema legato ai bambini, nel senso che spesso è un problema legato alla
concezione del tempo.
Noi stiamo facendo una sperimentazione in un call center con degli orari a
menù a Casarano, in Puglia, ed abbiamo scoperto che molto spesso ai lavoratori non viene chiesto qual è la loro disponibilità e quali tipi di orari prediligono
e che ci sono molti giovani, i quali non sono sposati, sono single, non hanno
bambini e preferiscono fare il turno di pomeriggio o di sera, perché poi di notte
vanno in discoteca e alla mattina dormono.
Quindi all’interno dei turni riescono tranquillamente a scambiarsi gli orari con
le mamme, le quali invece hanno problemi di orario la mattina per l’ingresso a
scuola dei figli e poi vogliono tornare a casa prima, perché evidentemente i figli
escono da scuola e bisogna preparar loro la cena.
La parola “vita” dunque si porta dietro una dimensione un po’ diversa del tema
della conciliazione.
Inoltre io mi interesso di occupazione femminile, di cui la conciliazione è una
dimensione, perché, per fare entrare le donne – in questo caso chi ha problemi
di cura o di conciliazione – appunto nel mercato del lavoro e soprattutto per
farle restare nel mercato del lavoro, c’è un sacco di problemi.
Il Fondo Sociale Europeo, nel nuovo regolamento, distingue, nella nuova programmazione 2014-2020, il tema dell’uguaglianza fra uomini e donne da quello
delle pari opportunità. In Italia questa distinzione non ha avuto l’effetto sperato,
ma io, che mi occupo di questa cosa da tanti anni, ogni volta che c’è un ciclo di
programmazione nuova, vivo il periodo dell’entusiasmo che poi lascia il passo
alla realtà.
E però, avendo vissuto il momento dell’entusiasmo, sono stata colpita dal fatto
che la Commissione Europea invitava i Paesi membri a fare un ragionamento
sull’uguaglianza tra uomini e donne ed all’interno del tema dell’uguaglianza
inseriva tutte le dimensioni che riguardano il lavoro: prima di tutto come si fa ad
entrare nel mercato del lavoro, quindi parliamo di titoli di studio, di abilitazioni e
di tutte le dinamiche particolari che riguardano l’ingresso.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
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Rispetto all’ingresso c’è poi anche il tema del costo: facciamo costare il lavoro
delle donne di meno? C’è il tema dell’incrocio tra domanda ed offerta di lavoro,
delle qualifiche, anche per sopperire ad una problematica molto seria, che è
quella della segregazione orizzontale, che conoscete tutti, per cui l’occupazione femminile in Italia nell’ultimo periodo, malgrado la crisi, non ha avuto un
crollo come quella maschile, semplicemente per il fatto che ad un certo punto,
essendo le donne segregate in 17 professioni, non si può fare a meno di un
certo numero di medici, infermiere, commesse, insegnanti, per cui c’è una sorta
di zoccolo duro tutto femminile che evidentemente è stato toccato meno dalla
crisi.
E poi, a differenza degli altri Paesi europei, l’Italia ha una cosa che gli altri non
hanno, ovvero un manifatturiero molto sviluppato, in cui c’è una consistente
presenza di donne. Quando si fanno i paragoni con i Paesi del Nord e si dice
che i nordici hanno un welfare migliore e si occupano di più delle donne, dobbiamo tenere in considerazione il fatto che in Danimarca, Norvegia, Svezia e
Finlandia la maggior parte delle donne è impiegata nel settore pubblico e quindi
è evidente che questo settore riesce ad offrire delle garanzie un po’ maggiori
rispetto a quelle previste dalla nostra legislazione, che tuttavia non è una brutta
legislazione in termini di tutele e soprattutto riesce ad offrire dei servizi maggiori
rispetto ad altre legislazioni.
L’uguaglianza fra uomini e donne è riconducibile al tema dell’occupazione ed
è riconducibile al tema dei salari e della retribuzione, perché abbiamo anche
un problema di segregazione verticale: in Italia, come in altri Paesi europei,
le donne, a parità di posizione nell’ambito dell’azienda, guadagnano di meno
rispetto agli uomini.
Il tema occupazionale inoltre ha molto a che fare con il tema dei servizi, in
quanto bisogna fare in modo che le donne che lavorano possano fare figli. Infatti un altro luogo comune è che, se la donna non lavora, fa più figli, il che è falso:
nei Paesi in cui i tassi di occupazione femminile sono più alti, i tassi di natalità
sono più alti, ciò significa che non è vero che le donne che stanno a casa fanno
più figli, ma fanno più figli le donne che lavorano e che hanno a disposizione
un circuito di servizi adeguato, per fare in modo che il lavoro si possa conciliare
con la crescita dei figli.
Le mamme italiane si dice che siano mammone e anche questo è falso: le
mamme tedesche sono più mammone di quelle italiane, tanto che la signora
Merkel ha offerto un asilo per ogni bambino tedesco, per sopperire ad un problema molto grave per la Germania. La Germania ha dei tassi di occupazione
part-time molto alti e la Merkel vorrebbe che le donne lavorassero di più, per
più ore, ma spesso le donne non lo fanno, perché amano tenersi i bambini a
casa fino all’età di due anni ed occuparsi molto di loro; inoltre fanno molti più
figli rispetto alle donne italiane.
La Merkel ha detto alle donne tedesche: “Io vi do più servizi, a patto che voi
mi diate più lavoro” perché in quel Paese hanno il problema di aumentare la
produttività rispetto alle ore lavorate dalla componente femminile.
182
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Occupazione femminile che poi si porta dietro anche tutto il problema dei diritti,
della partecipazione nei board: in Italia a tale proposito c’è stata una legge recente, che sta andando molto bene, perché le indagini americane ci dicono che
là dove ci sono le donne nei board, le aziende vanno meglio.
Quindi uguaglianza tra uomini e donne rispetto al tema del lavoro e poi c’è il
tema delle pari opportunità – dentro il quale la Commissione include le donne
discriminate, gli uomini che hanno problemi, i disabili, i gay, i rom, i detenuti,
insomma le categorie deboli – che riguarda la possibilità che tutti abbiano le
stesse opportunità di accesso, di carriera, di crescita, ecc.
Sottolineo questa cosa, perché, nel fare il nostro mestiere, noi consideriamo la
conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro una leva, un grimaldello, un’opportunità, un’occasione, una scusa, chiamatela come volete, per entrare nel
mondo delle imprese e dire che, là dove ci si pone il tema di come conciliare i
tempi di vita ed i tempi di lavoro, si comincia a parlare di innovazione organizzativa.
Io sono stata accusata di aver mandato all’aria vent’anni di lotte femministe sul
tema del linguaggio in questi quattro anni, perché ho detto che è quando ci si
innesta in questo sistema, che si tocca il cuore delle aziende, a cui premono
soprattutto gli orari di lavoro, l’organizzazione della produzione e come ci si
mette d’accordo, magari coinvolgendo i lavoratori, per trovare le soluzioni con
la contrattazione di secondo livello, perché la one best way in questo settore
non c’è, ma ci sono delle soluzioni, che possono essere trovate, se ci sono
alcune condizioni.
Secondo me infatti, non si fa bene alle donne, se si affronta il tema della conciliazione semplicemente rivendicando le tutele: non è solo un problema di tutela.
È anche un problema di tutela ma non solo quello: gli imprenditori, che dichiarano di non voler assumere delle donne – non i delinquenti che fanno firmare in
bianco le lettere di dimissione – perché sostengono di non poterselo permettere, non sono persone animate da odio nei confronti del genere femminile.
Si tratta di persone per bene, che hanno investito nelle aziende e che nei periodi di crisi hanno tirato fuori soldi di tasca propria per poter tirare avanti e per
non licenziare le persone e quando dicono di avere dei problemi nell’assumere
delle donne, lo dicono perché hanno dei problemi reali.
Se si verificano tre maternità in fila in un’azienda di 16 dipendenti e tutte e tre
queste donne operano nel commerciale, l’imprenditore ha dei problemi reali,
perché è difficile trovare dei modi anche solo di comunicazione rispetto alla
maternità sul tempo dell’uscita dal lavoro, sulla durata dell’assenza dal lavoro,
sull’eventuale sostituzione, sulla continuità di contatto con il posto di lavoro, sul
momento del rientro, con i relativi problemi di avviso per il congedo facoltativo.
Ci possono essere delle situazioni in cui non si può avvisare, però si possono
anche creare le condizioni organizzative, affinché la donna sia tutelata rispetto
alle proprie esigenze sacrosante, ma anche l’azienda non venga lasciata in
difficoltà.
Affrontare il problema solo in chiave di tutela spesso fa male alle donne, così
come rivendicare il part-time in funzione di un diritto individuale nei contratti
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
183
di lavoro, per favorire la conciliazione dei tempi di vita tempi e di lavoro e non
usare il part-time come chiave organizzativa, spesso e volentieri porta gli imprenditori, anche nei supermercati che hanno problemi di apertura il sabato e la
domenica, a concederlo alla prima lavoratrice, forse anche alla seconda, ma a
rifiutarlo alla terza, perché dal punto di vista organizzativo le cose non possono
più funzionare.
Se lo stesso part-time non viene incastrato in una dimensione organizzativa,
che sia legata alla produzione o al servizio, anche il part-time, invece di essere
una leva, diventa un ostacolo.
È evidente che la tutela della maternità ovviamente va salvaguardata, ma è
altrettanto evidente che il tema delle tutele non basta e quindi in qualche modo
bisogna, insieme alle tutele, trovare altre dimensioni di incontro con le imprese.
Noi abbiamo inquadrato il tema della conciliazione e dell’uguaglianza rispetto
allo sviluppo e alla crescita e ci siamo convinti che tutti i politici dovrebbero dotarsi di un fantastico consulente, che si chiama demografo, perché, a differenza
di quelli che fanno gli scenari macro economici e che spesso non ci azzeccano,
i demografi ci azzeccano, considerato che la demografia è una scienza che permette di tracciare due scenari, uno dei quali molto probabilmente sarà esatto.
I flussi migratori possono aumentare o diminuire, però fondamentalmente c’è
una base demografica, la quale ci dice che questo è un Paese che sta invecchiando, che è un Paese che ha dei tassi di natalità bassissimi (siamo all’1,2%),
che il Mezzogiorno, anche se può sembrare incredibile, non fa più figli.
Da qui la necessità di consultare un demografo, in quanto i politici tra non molto dovranno occuparsi solo di vecchi, dato che i giovani se ne vanno, per cui
presto avremo problemi di case abbandonate, ospedali pieni, badanti, sanità
integrativa; e questo problema di invecchiamento riguarda anche le aree meridionali.
Abbiamo problemi con il tasso di rimpiazzo, nel senso che tra qualche anno non
riusciremo a rimpiazzare la forza lavoro attuale e l’unico modo che avremo per
rimpiazzarla, sarà rappresentato o dalle donne o dagli immigrati, non ci sono
alternative.
La quarta sollecitazione che la Commissione ha dato proprio ieri all’Italia, riguarda dunque l’occupazione femminile e la Commissione non lo dice a caso.
Lo dice perché c’è un problema serissimo di tasso di sostituzione, per cui far
lavorare le donne sarà fondamentale, e lo dice perché, nel momento in cui le
donne entrano nel mercato del lavoro, il loro ingresso ha un impatto sul Pil
maggiore di quello di un uomo.
Infatti in genere le donne, che entrano nel mercato del lavoro, hanno bisogno di
servizi e quindi non solo lavorano loro – e quindi creano reddito per la famiglia,
per se stesse e per il mercato interno – ma contemporaneamente contribuiscono a creare una domanda di servizi nell’unico settore italiano che è cresciuto
quest’anno del 54%, che è quello dei white job, dei cosiddetti “mestieri bianchi”,
dentro i quali vengono ricompresi coloro che gestiscono le ludoteche, i medici,
gli infermieri, le badanti, tutta un’area che ha a che fare con la salute, la cura,
il tempo libero, ecc.
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Questo settore cresce e cresce soprattutto con una componente italiana e non
soltanto con una componente straniera, quindi è evidente che è un settore il
quale merita una certa attenzione.
Dedicarsi all’occupazione femminile, fare in modo che i servizi funzionino e che
le donne possano conciliare il loro tempo di vita e il loro tempo di lavoro – e non
solo le donne, ma anche i genitori in generale, perché noi portiamo avanti una
dimensione della genitorialità molto forte rispetto alla gestione della quotidianità
– è un fattore determinante per la crescita di questo Paese.
Quando ci occupiamo della conciliazione di questi tempi, ci occupiamo dunque
di crescita, non ci occupiamo di risolvere il problema della signora o il problema
della mamma che ha un bambino, ci occupiamo della crescita del Paese.
La questione dell’occupazione femminile coincide in gran parte con la Questione Meridionale: il tasso dell’occupazione femminile nelle Regioni del CentroNord e soprattutto in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli è nella media europea, quindi per la maggior parte le donne, che potrebbero entrare nel mercato
del lavoro, sono concentrate nelle Regioni del Mezzogiorno.
Una parte significativa di donne inattive fino a poco tempo fa non era rilevata
dalle statistiche ufficiali, perché la statistica dell’Istat rispetto ai tassi di disoccupazione non comprendeva la quota di donne che nelle tre settimane, durante le
quali veniva fatta la rilevazione, non avevano fatto una ricerca attiva del lavoro,
ma avevano adottato altri comportamenti, senza considerare che comunque
esse si sarebbero avvicinate al mondo del lavoro oltre quei limiti temporali e
solo casualmente non avevano cercato lavoro in quel preciso arco di tempo.
Prima dell’adozione da parte dell’Istat del concetto di “forze di lavoro potenziali”, che l’Istat ha adottato dopo l’Eurostat, venivano fuori delle Regioni che
sembravano il Marocco: la Campania era una Regione in cui le donne sembravano tutte inattive, mentre in realtà non è così: c’è una quota di donne che
vuole lavorare.
Così come c’è una quota di donne a cui non importa assolutamente il lavoro. Cogliere la dimensione della complessità e della varietà di questo mondo
dà anche il senso per fare battaglie adeguate, altrimenti prendono corpo delle
leggende urbane, come quella che pretende che siano 650.000 le donne che
vorrebbero lavorare, ma non possono per motivi familiari.
In realtà le donne che si dimettono alla nascita del primo figlio, ovvero quelle
che vanno all’ufficio a fare la dichiarazione di dimissioni dal lavoro, in Italia non
sono più di 20.000, poi naturalmente c’è una quota di lavoro nero, che fa salire
un po’ questo numero. Ma la cifra spropositata di 650.000, del tutto destituita
di fondamento, ha avuto un effetto politico, perché ha scoraggiato il legislatore
dall’occuparsene.
In realtà la domanda era: “Lei nel corso della sua vita ha dovuto per un periodo
abbandonare il posto di lavoro per motivi di cura?”; ma di fatto le donne che
hanno risposto affermativamente alla domanda, sarebbero state disposte a lavorare, se le cose fossero andate in modo differente, il che è un po’ diverso dal
sostenere che 650.000 donne hanno abbandonato il posto di lavoro per motivi
familiari.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
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Invece, visto che sono circa 20.000 quelle che hanno dei problemi alla nascita
del primo figlio, magari su queste 20.000 un ragionamento molto concreto si
potrebbe fare.
Ma perché queste 650.000 donne dicono che il conflitto tra lavoro, maternità e
famiglia, per l’inadeguatezza dei servizi, impedisce loro di entrare o rientrare
nel mercato del lavoro? I motivi sono molto pratici: esse si chiedono se è conveniente o meno andare a lavorare, perché il tema che entra in ballo nel momento
in cui una deve decidere se andare a lavorare oppure no, non è tanto il tema
se l’asilo c’è o se l’asilo non c’è: alcune volte l’asilo c’è, ma costa, la ludoteca
c’è, ma costa.
Quindi non abbiamo a che fare semplicemente con il problema se i servizi ci
sono o non ci sono; e poi sussistono altri problemi: ad esempio, alcuni di questi
asili chiudono alle due del pomeriggio, il che è del tutto incompatibile con i più
normali orari di lavoro.
Perciò non si tratta semplicemente di supportare le donne per i costi che devono sostenere, ma bisogna anche fare in modo che queste strutture abbiano
degli orari adatti a sostenere le esigenze delle donne che lavorano.
Altra cosa che l’Europa ci chiede, sulla quale l’Italia nicchia un po’, è quella di
provvedere ai bambini dai 4 ai 12 anni, per cui c’è da mettersi d’accordo su tutta
una serie di servizi destinati ad accoglierli quando le scuole finiscono.
Noi stiamo facendo nascere delle mini cooperative che fanno questo servizio,
cooperative che comprendono anche delle madri e dei padri, che si organizzano, perché c’è tutto il problema della mobilità, tutto il problema del doposcuola,
tutto il problema dell’estate, tutta una serie di questioni che devono essere
risolte.
E poi c’è il problema delle nonne “sandwich”, perché si è allungata l’età lavorativa, per cui le nonne che lavorano un tempo andavano in pensione prima
ed avevano più di tempo a disposizione, mentre ora non hanno più né il tempo
per occuparsi dei nipoti né il tempo per occuparsi delle mamme e si ritrovano
in difficoltà a dover sopperire contemporaneamente ai problemi dei nipoti ed ai
problemi delle figlie.
Poi c’è il problema degli anziani non autosufficienti ed anche quello degli anziani autosufficienti, ma che non si possono lasciare da soli, a cui bisogna dare un
minimo di accudimento, per evitare che combinano qualche cosa di dannoso
per sé o per gli altri.
Però in Italia le nonne resistono: noi siamo l’unico Paese in Europa in cui oltre
1 milione di nonne fa fronte alla mancanza, o all’eccessivo costo dei servizi, o
alla riluttanza ad affidare i bambini a terzi.
Questi sono i problemi principali, che affliggono le donne italiane che lavorano,
ma il nodo cruciale delle imprese italiane è che non hanno la consapevolezza
che certe misure di carattere innovativo – quindi la flessibilità funzionale, gli
schemi di orario a preferenza multiperiodali, l’uso innovativo del part-time, un
uso più intelligente della Banca delle ore, di cui ora usufruisce solo l’1,6% dei
lavoratori – possono contribuire ad aumentare la produttività.
186
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Ecco dov’è la leva della conciliazione, ma, per far passare questo concetto,
bisogna essere molto concreti, perché gli imprenditori sentono molto la dimensione di carattere economico, mentre il sindacalista sente di più la dimensione
della rappresentatività, nel senso che siamo pieni di contratti con commissioni
per le pari opportunità, le quali, vi assicuro, non servono a niente e rappresentano una logica che va superata.
Il cuore del problema invece è come si produce, la consapevolezza di come
è fatta l’azienda, di quali sono i problemi gestionali, i problemi organizzativi, i
problemi dei picchi, i problemi di spreco.
Oggi pomeriggio sono all’Essegrande in Puglia, perché l’imprenditore si è reso
conto che, se diminuisce gli sprechi derivanti dalla merce scaduta, forse riesce
a recuperare circa € 30.000-40.000, somma che egli intende ridistribuire in
welfare; ma, per fare questo, c’è bisogno che tutti abbiano una conoscenza approfondita di come funziona il supermercato, di come funziona la distribuzione,
una conoscenza approfondita proprio dal punto di vista dell’organizzazione del
lavoro.
Ai sindacalisti ed ai consulenti viene chiesto sempre più un know how di fino,
vero, la capacità di lavorare in team, perché non tutti possono sapere tutto.
C’è qualcuno poi che ha la capacità di rapportarsi con l’azienda e quindi fa la
cosa fondamentale, che è quella dell’analisi: si rende conto di qual è il problema, lo contestualizza e poi si chiede: “Ma io, per risolvere questo problema,
di che cosa ho bisogno? Ho bisogno di un fiscalista vero? Ho bisogno di un
esperto di produzione?”
Bisogna imparare sempre più rispetto alla complessità delle situazioni ed a
mettere insieme le competenze, perché non esiste una professione, che mette
in grado qualcuno di sapere tutto.
Bisogna entrare nel contesto, provare a vedere qual è il livello di mediazione
possibile, aiutare l’imprenditore a capire quali sono i vantaggi, che sono tantissimi: per esempio, quando gli orari sono fatti bene, diminuisce l’assenteismo. E
un imprenditore sa quanto vale in denaro un punto di assenteismo.
Per esempio, si fa meno ricorso allo straordinario, che è la droga delle aziende,
perché è la cosa più facile, che alla fine i lavoratori subiscono, di fronte al fatto
che così hanno di più in busta paga: tutti hanno bisogno di denaro e quindi
accettano, ma lo fanno controvoglia e costano.
Ora siamo nella fase due della globalizzazione, nel senso che siamo di fronte
ad una volatilità del mercato e quindi ad una serie di picchi, che non si portano
dietro soltanto la stagionalità dei mesi estivi o la stagionalità del Natale, ma
dipendono dal fatto che ormai il mercato è fatto così ed è difficilmente prevedibile, per cui non si riesce semplicemente con lo straordinario o con i lavoratori
interinali a sopperire alle esigenze di personale, perché queste non sono misure sufficienti.
E non solo, ma rispetto ai costi di turn over ci sono mansioni e professioni che
spesso nei centri commerciali sono poco valorizzate, dal mio punto di vista,
mentre si dovrebbe fare un grosso lavoro di valorizzazione del salumiere, del
macellaio, ecc., perché la polivalenza è un fatto importante.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
187
Il turn-over costa e questa è una cosa che le aziende capiscono: se si cambiano troppo spesso certe mansioni, i costi aumentano, mentre si è visto che,
quando viene scambiato con il lavoratore il fatto che lui può imparare qualche
cosa di nuovo, ciò viene vissuto positivamente dal lavoratore. Quindi, laddove
la polivalenza può essere inserita, essa si rivela un valore per entrambi, il datore di lavoro ed il lavoratore.
Perciò bisogna fare in modo che all’interno delle organizzazioni, per favorire la
conciliazione, si possa lavorare sulle cose “hard” – gli orari, la produzione, la
flessibilità, la polifunzionalità, il part-time ciclico, la banca delle ore fatta bene –
e scambiare quello che si ricava – ecco la visione che noi abbiamo del welfare
contrattuale aziendale – in welfare.
Se si fa così, si evita una cosa che in genere, quando si parla di welfare nelle
aziende, crea problemi, perché i nostri lavoratori preferiscono i soldi, quindi
spesso è un fatto complicato far capire loro che, se hanno dei servizi, che poi
sono defiscalizzati, ciò significa che gli arriva di più in tasca, anche se non in
denaro contante.
Durante la contrattazione bisogna fare in modo che si abbia una grande consapevolezza di qual è la base che si ha di fronte, in maniera tale che da un lato si
riescano a trovare delle soluzioni adeguate per i gruppi aziendali e dall’altro lato
si adotti una comunicazione efficace, che faccia capire che cosa si sta facendo
e quanto vale ciò che si sta facendo.
Alcuni servizi oggi sono contrattati ed altri non lo sono, per cui occorre fare in
modo che invece lo siano tutti e non siano frutto di liberalità da parte dell’imprenditore. Ciò è importante, perché il welfare in sé è democratico, mentre
l’imprenditore vorrebbe punire chi dice lui e premiare chi dice lui e questa all’interno delle aziende è una dimensione forte, specialmente nelle aziende medie
e piccole, ma è una cosa che non va bene.
Immaginate che cosa vorrebbe dire avere un welfare democratico, contrattato
in maniera tale che non si consenta all’imprenditore questa leva, la quale alla
fine è una leva sbagliata, se è fondata semplicemente sulla rivendicazione o
sulla fedeltà ed ha poco a che fare con la dimensione organizzativa.
Spesso e volentieri all’interno delle aziende noi assistiamo ad una flessibilità,
che io chiamo “povera”, perché è frutto della benevolenza dell’imprenditore.
Ma quando l’impresa incomincia a crescere un po’, se non si trovano soluzioni
un po’ più organizzate, diventa un problema, non si capisce più niente, per cui
bisogna convincere l’imprenditore a mettere ordine in questo ambito.
L’ordine non fa venir meno il fatto che ci sia un rapporto, ma crea meno problemi di gestione, meno appesantimento al personale, crea un sistema dignitoso
di collaborazione, anche perché quanto più i lavoratori collaborano, tanto più
offrono soluzioni e sono meno distratti.
Luxottica dal fatto che le persone sono motivate, ricava 2 milioni di euro all’anno: i sindacati con Luxottica concordano gli indicatori di qualità e tutto ciò che si
ricava viene distribuito in welfare.
Se andate all’indirizzo www.italialavoro.it/wps/portal/lafemme/Idee/, troverete una raccolta di misure e strumenti utili per gestire la conciliazione lavoro-
188
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
famiglia e facilitare la partecipazione al lavoro da parte delle donne. Si può
trarre spunto dalle diverse voci presentate e consultare le schede di approfondimento per individuare la soluzione più adatta alle proprie esigenze.
• Per la flessibilità oraria: Banca delle ore; Orario flessibile individuale; Turni
e orari modulari: gestione di turni di lavoro/orari a menu/orari modulari.
• Per la flessibilità organizzativa: Telelavoro; Job-sharing; Flexiplace; Part
Time (verticale, orizzontale, reversibile/temporaneo e misto); Orari e riunioni di lavoro.
• Per la gestione della maternità/paternità: Gestione e programmazione condivisa del rientro in azienda; Valorizzazione del congedo di maternità, paternità e parentale; Aggiornamento durante il periodo di congedo; Percorsi
formativi e di tutoring al rientro dalla maternità; Orari di lavoro flessibili nella gestione della maternità; Bonus/dono aziendale alla nascita dei figli dei
dipendenti; Benefit aziendali durante il congedo di maternità; Valutazione,
premi produttività e progressioni di carriera durante l’assenza per maternità;
Sportello maternità/paternità in azienda; Consulenza e supporto alla madre/
padre al rientro (sostegno psicologico e motivazionale).
• Per il welfare aziendale diretto: Asilo nido aziendale (0-3 anni); Servizi per
l’età prescolare (3-6 anni); Ludoteca, centri educativi, post-scuola (3-14
anni); Accoglienza dei bambini in azienda; Centri estivi aziendali; Servizio
di reclutamento e messa a disposizione di babysitter e colf e assistenza
domiciliare per anziani; Servizio di trasporto per i figli (navetta scuola, sport,
casa); Servizio di consulenza in materia di conciliazione per famiglie; Servizi di cura domestica e personale “time saving” (pratiche amministrative,
lavanderia, calzoleria, pasti take away, ecc.); Servizi per il benessere e la
salute (medicina preventiva, prestazioni mediche, palestra aziendale, ecc.);
Organizzazione di attività culturali, sportive e per il benessere familiare
(gite, cure termali, cinema, ecc.); Servizi di assistenza sociale, psicologica/
counselling anche sulla gestione familiare e la conciliazione; Sportello legale, fiscale, previdenziale, in materia socio sanitaria; Facilitazioni di trasporto
(navetta, parcheggio rosa, car sharing).
• Per il welfare aziendale indiretto: Convenzioni con asilo nido privato; Servizi
di cura, ricreativi e sportivi in età prescolare e scolare (3-14); prestazioni
mediche; assistenza ad anziani; Borse di studio per figli dei dipendenti; Contributo economico per attività ludico, ricreative, formative, sportive per i figli
dei dipendenti e le famiglie; Buoni pasto e Buoni spesa (sconti su spesa).
• Per le misure di accompagnamento: Sensibilizzazione sui temi della conciliazione; Sensibilizzazione dei dirigenti sulla gestione dei team di lavoro in
ottica di conciliazione; Organizzazione di momenti ricreativi aziendali che
coinvolgono la famiglia; Formazione rivolta alle donne per sviluppare competenze manageriali e aumentare la partecipazione al lavoro.
In “Guida alle norme” trovate anche tutta la normativa. All’interno di questa
sezione l’utente può trovare un archivio tematico della normativa nazionale e
comunitaria in tema di donne, lavoro e pari opportunità. Articolato in sezioni e
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
189
schede tematiche, l’archivio intende fornire un repertorio giuridico agile delle
disposizioni più rilevanti in materia di maternità e paternità, flessibilità, incentivi
all’occupazione femminile e pari opportunità.
All’interno di ogni sezione, le schede descrittive sintetizzano la normativa in
vigore e indirizzano alla consultazione dei singoli articoli attraverso il collegamento diretto alle pagine del sito www.Normattiva.it.
C’è poi una sezione intitolata “Contrattazione decentrata”, in cui si possono
trovare alcune soluzioni pratiche. La pratica della contrattazione tra sindacato
e organizzazioni datoriali avviene fondamentalmente a livello dei Contratti nazionali di lavoro e dei Contratti di “secondo livello” (prevalentemente aziendali,
ma anche territoriali).
I dati più recenti, rilevati dalle stesse parti sociali, ma con sempre maggiore
interesse seguiti dalle Agenzie pubbliche e dagli studiosi, illustrano una contrattazione decentrata che affronta e sperimenta anche tematiche riguardanti
la conciliazione vita-lavoro, la flessibilità organizzativa e degli orari, il welfare
aziendale, la formazione e la qualificazione del lavoro delle donne, la produttività anche in prospettiva di genere.
Inoltre, specie su questi temi, la pratica negoziale incontra e attraversa anche
terreni diversi da quelli della contrattazione di secondo livello in senso stretto;
ad esempio, implicando la promozione istituzionale di contrattazione e conciliazione, oppure intervenendo nella contrattazione sociale, che il sindacato svolge
con le amministrazioni locali.
Questi temi sono affrontati attraverso tre sottosezioni:
• Conciliazione, welfare e relazioni industriali: si tratta della parte introduttiva,
nella quale si danno cenni sulla contrattazione dedicata ai temi del welfare
nella vicenda delle relazioni industriali in Italia. Si forniscono inoltre dati sintetici sulla diffusione della contrattazione decentrata, in base a studi e monitoraggi realizzati da diversi Osservatori (organizzazioni sindacali, CNEL).
• Temi della contrattazione: il secondo punto di accesso, invece, si focalizza
sulle tematiche oggetto del progetto La.Fem.Me. – (Lavoro Femminile Mezzogiorno), il progetto di Italia Lavoro che sostiene lo sviluppo di interventi
promossi dalle amministrazioni regionali, che potenzino e diffondano servizi
integrativi e innovativi per la conciliazione del lavoro con la famiglia – presenti in accordi integrativi aziendali, territoriali, di contrattazione sociale,
commentando e offrendo alla lettura alcune decine di recenti accordi tra
sindacato, imprese e talvolta istituzioni, a livello aziendale e territoriale.
• Casi di percorsi negoziali: vengono illustrati da vicino alcuni percorsi negoziali, mettendo in luce il ruolo degli attori (sindacato e imprese) e quindi
il processo attraverso cui si raggiungono i risultati della contrattazione, poi
tradotti negli accordi. Qui si trova non solo il contratto di Luxottica, ma anche
tutta una serie di contratti che vi possono tornare utili.
E qui, nelle risposte alla FAQ, ci sono anche le differenze tra l’articolo 51 e l’articolo 100 del TUIR: tutti i beni e i servizi citati nell’articolo 51, comma 2 (eccetto
quelli di cui alla lettera f) sono completamente deducibili dall’azienda e possono
190
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
essere oggetto di un accordo aziendale. Diversamente, tutti i beni e i servizi
indicati nell’articolo 100 (e nel 51, comma 2, lett. f che a questo rinvia) devono
essere disposti attraverso un atto di liberalità dell’azienda.
Pertanto non possono essere inseriti all’interno di un accordo sindacale di primo o di secondo livello; o meglio, se vengono contrattualizzati, cade un presupposto a cui il legislatore lega la deducibilità e si perde il beneficio fiscale.
Mentre tutta la parte relativa ai fondi integrativi ed alla sanità complementare è
defiscalizzata solo se è contrattualizzata, qui accade l’esatto contrario. Grazie
dell’attenzione.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Ringraziamo la Dottoressa Marsala per la sua presentazione di carattere generale. Procediamo ora alla definizione dei gruppi ed all’assegnazione dei compiti
per il lavoro di gruppo, dopodiché daremo la parola alla Dottoressa Marsala, la
quale vi presenterà i quattro casi di studio, che sono stati assegnati ai diversi
gruppi.
ANTONELLA MARSALA
(Project Manager presso Italia Lavoro)
Vengono presentati quattro casi di aziende molto diverse: tutti hanno la caratteristica che hanno richiesto l’intervento della contrattazione per il welfare;
sono molto differenti tra di loro ed ogni caso viene presentato con una breve
descrizione dell’azienda, una descrizione un po’ più dettagliata del problema
da affrontare, che non necessariamente è un problema di conciliazione, ma in
genere è un problema legato allo sviluppo, all’organizzazione, al personale, e
poi viene descritta l’iniziativa che si intende prendere.
Ora voi non sapete se la trattativa è andata bene o è andata male: quello che
vi viene chiesto è di leggere il caso, studiarlo e prospettare uno o più possibili soluzioni, che potrebbero essere oggetto di una contrattazione di secondo
livello.
Ci accontentiamo di soluzioni anche abbozzate, perché non è che qui dobbiamo scrivere realmente il contratto: discutetene tra di voi. Se avete bisogno di
qualche informazione, per capire esattamente di che cosa si tratta, potete anche utilizzare il sito di cui sopra, perché molte informazioni su quello che viene
richiesto, sono presenti nel sito.
Quando tornerete qui in aula, vi verrà chiesto che tipo di discussione c’è stata
nel gruppo, se avete trovato una soluzione, di illustrarcela, o se il problema
rimane ancora aperto. Ovviamente è importante che vengano fuori delle soluzioni. Grazie.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
191
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Il relatore di ciascuno dei quattro gruppi è chiamato, prima di esporre la soluzione elaborata dal gruppo, a descrivere in maniera sintetica il contenuto del caso
che è stato esaminato. La parola dunque ai singoli relatori.
LUIGINO PEZZUOLO
(Segretario Generale FISASCAT CISL Milano – Legnano – Magenta)
Il primo caso parla di un’agenzia per il lavoro che ha sede in Brescia, la quale
fa servizi che agevolano e ottimizzano la gestione dell’outsourcing in azienda.
È articolata con diverse sedi sul territorio, ha circa 200 dipendenti, di cui 15
dirigenti, 50 consulenti e 135 addetti.
Ci viene segnalato, come punto problematico, il fatto che l’80% dei dipendenti è costituito da donne mediamente giovani, che nel corso degli ultimi tempi
hanno avuto figli, o prevedono una maternità a breve, per cui si prefigura già
un problema rispetto alle risorse umane. Si prospetta dunque la possibilità di
affiancare alla costituzione di un piano di welfare, anche un intervento parallelo
su queste figure.
Obiettivo è la trasformazione in positivo di una situazione problematica, l’aumento del senso di responsabilità e lo stimolo all’impegno ed alla produttività.
Come strumento viene indicata una generica iniziativa, che è stata già sperimentata, di messa a disposizione di benefit e servizi per i dipendenti della prima
linea, del tavolo direzionale e dei consulenti, ma non è stato sviluppato un piano
dettagliato, e parallelamente l’azienda prevede premi di produzione finalizzati
a livello trimestrale, con l’idea del titolare di utilizzare parte del premio di produzione futuro per i servizi di welfare, al fine di garantire un maggiore beneficio
economico ai dipendenti.
Noi abbiamo cominciato ad analizzare la situazione con tanti se e tanti ma,
perché la prima domanda che ci siamo posti riguarda l’identità degli attori: ci
piacerebbe molto capire nel dettaglio chi è quest’azienda, che cosa fa, che
cosa fanno le figure che la compongono, come sono articolate queste figure per
composizione quantitativa e qualitativa.
Se capiamo che cosa si fa, qual è il prodotto principale, capiamo l’articolazione
dell’azienda e se conosciamo i vincoli e le potenzialità delle risorse umane,
possiamo ovviamente fare anche delle proposte più concrete.
Abbiamo definito un obiettivo trasversale, che è stimolare l’autostima complessiva, nel tentativo di capire qual era il tipo di intervento che si poteva fare, per
aumentare l’elemento di produttività, come qui ci viene richiesto.
Si dice che c’è una situazione di crisi: vediamo in qualche modo di aumentare la
produttività, ma nello stesso tempo vediamo anche di inserire elementi di benefit, che possano permettere appunto di aumentare la produttività di una serie di
persone che “si scollega” attraverso la maternità dalla lavorazione diretta.
192
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Tanto è vero che c’è un passaggio dell’analisi, in cui si dice che bisogna tentare
di far rientrare le maternità obbligatorie quanto più presto possibile nel posto
di lavoro.
Premesso che ovviamente non abbiamo trovato il ruolo del sindacato, che non
esiste, neanche per quanto riguarda i consulenti del lavoro, premesso che stiamo parlando di problemi derivanti da diritti inalienabili – ed anche questo è un
elemento che deve far riflettere su quali siano le strade da intraprendere – noi
abbiamo tentato di trovare comunque una soluzione, perché, una volta che abbiamo capito per le informazioni date, che sono ben poche, che c’è una sede,
che ci sono diverse articolazioni, che si tratta di una società di lavoratori somministrati, ci siamo chiesti come fosse possibile, mediante dei benefit, dare delle
opportunità in più a queste lavoratrici in particolare, pur considerando l’universo
delle risorse umane dell’azienda, per aumentare la loro produttività.
Innanzitutto abbiamo considerato se fosse possibile fare una politica, che consentisse loro di avvicinarsi il più possibile al proprio domicilio, per coniugare
maggiormente le esigenze di lavoro con quelle familiari. Poi ci siamo chiesti
se fosse possibile utilizzare il telelavoro, che permetterebbe comunque di non
staccare la lavoratrice dal suo piano commerciale, ma nello stesso tempo le
permetterebbe di rimanere a casa.
Poi ci siamo chiesti se non fosse possibile dare loro un supporto formativo,
utilizzando i fondi per permettere alla lavoratrice di cambiare le proprie mansioni, in modo tale che possa essere maggiormente stimolata nell’ambito delle
politiche di reinserimento a livello aziendale.
Un’altra riflessione è stata fatta sul supporto conciliativo, perciò su tutti quegli
strumenti che in qualche modo possono coniugare tempi di vita e tempi di lavoro. Ci siamo messi a lavorare sugli orari ed abbiamo preferito operare in termini
di verticalizzazione degli orari, perché la cosa ci sembrava più funzionale.
Abbiamo tentato di capire come sarebbe possibile lavorare sulle turnazioni, ma
ci occorrerebbe sapere quanti e quali lavoratori hanno particolari esigenze, in
modo da sovrapporre le esigenze di chi vuole lavorare al mattino con quelle di
chi preferisce lavorare al pomeriggio, tentando di fare in questo modo un piano di
lavoro funzionale, con l’obiettivo ovviamente di aumentare la qualità della vita.
In fondo ci siamo accorti che forse, prima dell’analisi di impresa, avremmo dovuto fare un’analisi delle risorse umane in generale e delle attese che ci sono
oggi rispetto al lavoro da parte di queste risorse umane. Infatti esse potrebbero
pensare di non fermarsi in quel posto di lavoro, ma di cercare sul territorio altre possibilità di impiego: abbiamo parlato di ticket, di voucher, come richieste
indotte nei territori, perché nei territori dai quali noi proveniamo, queste sono
delle richieste attualmente presenti.
Infine ci siamo soffermati a parlare di accompagnamento nella fase della maternità, quindi nella fase di uscita e nella successiva fase di rientro, e gli strumenti
che abbiamo individuato, sono quelli che ho già citato in precedenza.
Quanto agli strumenti, ci siamo domandati, perché ne abbiamo oggettivamente
bisogno, di quali di essi possiamo prevedere gli effetti sul piano della fiscalità,
sul piano della previdenza, sul piano di Inps ed Inail, in modo tale da capire qual
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
193
è la strada che possiamo intraprendere nel realizzare i nostri strumenti e quali
benefici reali essi possono dare ai lavoratori.
Perché è inutile che ci nascondiamo che, se facciamo la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro e poi ci troviamo la gabella di maggio dal punto
di vista del pagamento dei contributi, questo ci provoca dei problemi. Ma non
abbiamo potuto risolvere il problema della fiscalità, perché non abbiamo avuto
modo di analizzare bene quanto si diceva in precedenza.
Questo per noi diventa importante, perché non basta avere le idee: bisogna
vedere, in base agli obiettivi che si pone la gente, in base alle idee che noi
abbiamo, quali sono i vincoli e le risorse che il contesto fiscale e previdenziale
ci pongono. Solo così si può fare una proposta concreta.
Come si è detto, quello che ci è stato presentato, è un progetto privo di relazioni
industriali e noi abbiamo dovuto ipotizzare anche un piano industriale ovviamente legato ad accordi individuali, poi da questo piano industriale abbiamo
recuperato tutto un sistema di welfare contrattuale, che riteniamo molto importante. Grazie.
MAURIZIO BUONOCORE
(Consulente del Lavoro Napoli)
Noi avevamo da esaminare lo stesso caso, per cui non mi dilungo ad esporre
quanto ha già detto Luigino Pezzuolo. Noi abbiamo intrapreso una metodica
basata sull’analisi del contesto del processo produttivo, che è multi territoriale,
e sull’analisi dell’organigramma aziendale, l’80% del quale è costituito da donne, tra cui c’è una tendenza all’aumento delle maternità.
Quindi l’azienda, unitamente alle organizzazioni sindacali – che diamo per
scontato esistano in azienda e, se non esistono, ovviamente va costituita rapidamente una RSA o una RSU – farà un’analisi di tutto ciò che offrono il sistema
pubblico ed il sistema privato, anche in termini di servizi bilaterali, sia durante il
periodo obbligatorio, sia per quanto riguarda il periodo post obbligatorio.
La struttura avrà la possibilità di facilitare le richieste di part-time, anche temporaneo, per le dipendenti, ovviamente su base volontaria. Attraverso le rappresentanze sindacali, che si adopereranno con l’azienda per un’indagine interna,
si analizzeranno le esigenze delle neomamme, per trarre notizie sui migliori
turni, che possano conciliare i loro tempi di vita e di lavoro.
Questo modello troverà accoglimento in un accordo sindacale, i cui punti salienti saranno turni unici al mattino o al pomeriggio, per ridurre al minimo i costi
di assistenza di famiglia, perché qualcuna potrebbe approfittare del turno pomeridiano, per sfruttare il rientro del coniuge ed a questo punto evitare l’utilizzo
di una baby-sitter e quindi ridurre i costi familiari.
Aumentare la percentuale di part-time rispetto a quello che è il tempo pieno,
ovviamente richiede una rimodulazione del piano orario aziendale.
C’è poi l’utilizzo del telelavoro, per quanto è possibile, con attrezzature a carico dell’azienda, prelevando parte dei fondi dal premio di produzione, così
194
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
come era stato prospettato nell’ipotesi, ed accollando ovviamente la differenza
all’azienda.
Si può quindi utilizzare anche la banca delle ore, come strumento prioritario per
venire incontro alle esigenze della conciliazione tempi di vita tempi di lavoro,
ricorrendo al fondo Forma Temp di Eurointerim.
Sono altresì possibili azioni mirate al reintegro in azienda delle unità, che temporaneamente sono ferme, considerando che nel frattempo lo scenario di riferimento potrebbe essere variato: se questa è un’azienda settorizzata in un
determinato comparto e quel comparto sostanzialmente non tira più, queste
unità devono essere subito formate e devono essere le prime ad avere questa
attività di formazione, altrimenti al loro reingresso in azienda si troveranno subito a disagio.
In più ci dovrebbe essere la partecipazione dell’azienda agli eventuali costi
dell’asilo più vicino all’abitazione della dipendente.
Per quanto riguarda le condizioni di praticabilità, il costo aziendale dell’iniziativa si limiterà al costo in parte dell’asilo ed al costo aggiuntivo del telelavoro,
che è una variabile dipendente dal numero delle richieste che perverranno, ma
questo potrà essere bilanciato dall’utilizzo di fondi regionali per la information
technology. Grazie.
PAOLA MASCHIETTO
(Consulente del Lavoro Venezia)
Noi abbiamo affrontato il caso B: si tratta della gestione di un’impresa nata nel
2002, quindi già con una attività consolidata nel territorio, che introduce un metodo pedagogico innovativo per tutelare l’infanzia; in pratica si tratta di asili nido
tradizionali, familiari e aziendali.
Ci sono oltre 50 strutture per la prima infanzia su tutto il territorio nazionale, il
99% del personale è femminile, il 20% ha tra i 18 e i 25 anni, il 70% tra i 25 e i
35 anni, il 10% è costituito da personale che ha figli grandi, le persone lavorano
presso nidi sparsi nel territorio a livello regionale.
Per prima cosa dunque si dovrebbe quantomeno somministrare un questionario per avere qualche informazione in più: quante persone sono occupate in
ciascuna struttura? Quali sono le tipologie di clienti che usufruiscono di questi
servizi? Quali sono le disponibilità economiche e i costi? Perché altrimenti non
si può predisporre un piano industriale e neppure accertare quali sono i margini
di contrattazione possibili.
Siamo passati poi a considerare quali sono le misure da adottare. La richiesta
dice che c’è una situazione problematica da risolvere: bisogna verificare se il
piano di welfare già introdotto sia stato pianificato correttamente e se si può
valorizzare anche introducendo nuovi benefit.
Secondo noi bisogna studiare un piano di comunicazione efficace, per trasmettere il reale valore dei benefit erogati ai dipendenti e di conseguenza ottenere
una maggiore consapevolezza ed un maggior apprezzamento da parte delle
dipendenti nella fruizione degli stessi.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
195
Promuovere quindi un’attività di diffusione anche presso le aziende clienti, che
stipulano convenzioni con la ditta per lo sviluppo del piano di welfare dei propri
dipendenti, che hanno figli in età prescolare.
Di base abbiamo dunque un progetto che è già stato adottato. Prima di tutto
loro stanno utilizzando l’abbonamento gratuito ai mezzi pubblici con un supplemento di € 50 per l’uso anche al di fuori del territorio, noi però avremmo
bocciato questa misura, perché bisogna stabilire quanto questo mezzo può
essere utilizzato.
C’è poi la possibilità dell’utilizzo del nido aziendale, per cui le dipendenti possono portare i loro piccoli in un nido del network diverso da quello in cui esse
stesse operano, però pagando il 50% della retta.
Seguono l’utilizzo dei centri estivi e utilizzo della baby-sitter, quando si hanno
i bambini malati. Questa è un’utilità che al momento l’azienda dichiara essere
poco utilizzata e che, secondo noi, non rappresenta una possibilità molto significativa.
C’è poi la previsione dell’inserimento di una psicologa aziendale, che supporti
le dipendenti, ma ciò richiede una migliore presentazione del servizio alle utenti, perché probabilmente si tratta di un servizio che è stato appena avviato.
Noi abbiamo valutato che, per quanto riguarda il discorso dei trasporti, si possono verificare due opzioni: o un trasporto con rimborso della tassazione, per
coloro che ne abbiano la convenienza, oppure l’abbonamento ai mezzi pubblici,
che non è soggetto a tassazione.
Questo servizio è rivolto a tutti e potrebbe essere ampliato con la raccolta dei
bambini o dei ragazzi da portare a scuola con un servizio di convenzione con i
comuni, con i trasporti locali finalizzati al servizio di scuolabus, ma ciò dipende
da dove ci si trova, perché logicamente le realtà locali sono molto diverse.
Se si può utilizzare lo stesso mezzo di raccolta dei genitori e dei figli, per portare
i primi al lavoro ed i secondi a scuola, ciò garantirebbe la puntualità dei genitori
sul luogo di lavoro, ma ovviamente richiederebbe la coincidenza degli orari.
È buona l’idea dei centri estivi, però secondo noi non è sufficiente, perché le vacanze non sono soltanto quelle estive, ma abbiamo dei lunghi periodi anche di
vacanze invernali. In questo momento poi si parla di settimana corta nelle scuole, per cui avremo l’esigenza di una copertura anche in orari diversi da quelli
offerti dagli asili tradizionali e quindi si pensava di ampliare questa disponibilità.
Bisogna poi considerare le esigenze delle dipendenti, che offrono la propria
disponibilità per le giornate festive, per i pomeriggi, perché, se questo servizio
deve essere rivolto anche al settore del Commercio, le difficoltà dei genitori
coincidono soprattutto con le giornate di chiusura dell’asilo.
Questi bambini devono essere accuditi dal secondo genitore o dai nonni, quindi
avere un posto sicuro, dove lasciare i bambini senza limiti di orario e con del
personale specializzato, sicuramente può essere un’ottima cosa.
Un servizio garantito magari dalla mattina alla sera, che permette di lasciare i
bambini secondo le proprie esigenze in un luogo protetto, dipende sempre e
comunque dal luogo e dal numero delle persone, perché si potrebbe verificare l’eventualità che i bambini siano troppo pochi per giustificare un servizio di
questo genere.
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
L’offerta di baby-sitter convenzionate a domicilio, per esigenze diverse, potrebbe essere un servizio eventualmente allargabile a terze persone.
Per le esigenze degli altri dipendenti, si pensava soprattutto all’ente bilaterale,
per usufruire dell’offerta formativa di tutti quegli enti che possono garantire prestazioni di questo genere.
Importante poi è il ruolo dato all’informazione affinché tutti i dipendenti siano
portati a conoscenza di questo insieme di misure: ciò può avvenire attraverso
le pagine Web, attraverso un’azione di volantinaggio, attraverso l’affissione di
manifesti presso i negozi o le scuole che vengono frequentati dalle mamme, di
cui ci stiamo occupando. Grazie.
LAURA RAVARA
(Segretario FISASCAT-CISL Venezia)
Il caso che è stato sottoposto alla nostra attenzione è quello di una farmacia in
cui ci sono 11 dipendenti tra i quali troviamo 8 donne. È una realtà lavorativa
che vede i lavoratori impegnati sette giorni su sette con un orario continuato dalle 8:30 alle 20:30 in condizioni normali, perché si tratta di una farmacia
collocata in una zona turistica, la quale nel periodo estivo dal 1 giugno al 30
settembre prevede un orario lavorativo su 24 ore giornaliere.
Quindi il problema principale, che si pone la titolare di questa farmacia, è quello di dover andare incontro a molte ore di straordinario e soprattutto conciliare
le esigenze della vita lavorativa con quelle della vita familiare delle proprie
dipendenti.
La soluzione ottimale deve permettere sia di riorganizzare il lavoro, rendendolo
migliore, sia di rendere più buono il clima relazionale tra i lavoratori stessi e la
proprietà.
Il consulente del lavoro ha proposto alla titolare della farmacia di ricorrere ad
una banca delle ore ed all’interno della farmacia è stato attivato un piano di
welfare aziendale, quindi la titolare è a conoscenza delle varie strade che si
potrebbero percorrere ed in via sperimentale sono già stati utilizzati dei benefit
e sono già stati predisposti dei servizi, che però nella nostra bozza di lavoro
non sono descritti.
Noi abbiamo cercato di leggere tra le righe quali sono i rapporti di lavoro in termini di orario e in termini di mansioni, partendo dal presupposto che all’interno
di una farmacia avremo bisogno sia di farmacisti sia di magazzinieri addetti alla
gestione del deposito della farmacia.
Per trovare delle soluzioni possibili, partendo appunto dal presupposto che comunque la volontà specifica della titolare è quella di andare incontro ai propri
dipendenti, quindi salvaguardarli, abbiamo stabilito che occorre fare una verifica delle esigenze effettive dei dipendenti e delle flessibilità che essi possono
mettere a disposizione della farmacia.
Noi abbiamo fatto l’ipotesi di trovarci di fronte a tutti rapporti di lavoro full time,
perché si è parlato di straordinario e non di lavoro supplementare. Abbiamo
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
197
anche ipotizzato che in condizioni normali l’orario di lavoro sia stato spalmato
su una settimana che preveda cinque giornate e mezzo di lavoro e due turni di
lavoro giornalieri, considerando che abbiamo un orario continuato, arrivando
poi, nella stagionalità, a sviluppare ulteriormente l’orario di lavoro su sette giornate e prevedendo l’introduzione di un terzo turno.
Abbiamo poi pensato di aver bisogno di un solo magazziniere, considerato che
la necessità di avere questa figura si pone soprattutto durante l’orario giornaliero e non nel notturno.
Abbiamo valutato la possibilità che, invece di ricorrere alla banca delle ore, potesse essere percorribile la strada di prevedere una deroga all’orario di lavoro,
quindi arrivare ad un monte ore di 48 ore, in modo tale da andare ad assorbire il
lavoro straordinario, per avere un risparmio per l’azienda, che potrebbe essere
ridistribuito sotto forma di premio per i lavoratori che sono coinvolti nella stagionalità e che aderiscono a questa riorganizzazione dell’orario.
Abbiamo previsto come benefit che la farmacia possa mettere a disposizione
non solo dei locali, nei quali eventualmente le madri lavoratrici, che aderiscono
a questa riorganizzazione, possono trovare un supporto per la gestione dei
propri figli, ma anche delle convenzioni con strutture che possono accogliere le
famiglie, in modo tale che ci sia, nel caso di lontananza territoriale, la possibilità
di un riavvicinamento alle famiglie, visto che si tratta della stagione estiva e
quindi di un periodo in cui normalmente ricadono le ferie.
Oltre quest’abbiamo previsto la disponibilità di un gruppo di baby-sitter, contattabili in caso di necessità e sarebbe inoltre auspicabile che da parte della
farmacia ci fosse un impegno ad una forte qualificazione dei propri dipendenti
attraverso la formazione, per accogliere la fascia straniera dei turisti, mediante
uno studio specifico delle lingue, che tenga conto delle esigenze proprie di
questa attività.
È stato per noi più facile affrontare questo argomento piuttosto che altri, dal momento che il consulente del lavoro del nostro gruppo ha un cliente molto simile
a quello ipotizzato nel caso di studio. Grazie.
PAOLA REBECCA NUCCI
(Consulente del Lavoro Prato)
Noi abbiamo collocato la nostra farmacia ipotetica nella zona a nord di Viareggio, che conosciamo abbastanza bene. Purtroppo nessuno di noi, né dalla
parte dei consulenti, né dalla parte della FISASCAT, ha mai avuto esperienze
nel settore, ma abbiamo cercato di ipotizzare le varie alternative, andando sul
concreto nell’immaginare un’eventuale ripartizione dell’orario di lavoro, senza
tralasciare il nostro obiettivo principale, che è quello del welfare, ma considerando anche quali potrebbero essere le problematiche di sostenibilità economica da parte della nostra farmacia.
11 dipendenti non sono pochi, ma nemmeno tanti, quindi nella logica di cui
abbiamo parlato questa mattina col professor Treu, entriamo in una realtà in cui
198
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
qualcosa può attivare personalmente la stessa farmacia, ma comunque non si
tratta di una struttura di dimensioni particolarmente grandi.
Abbiamo cercato di non stravolgere il numero dei dipendenti: siamo partiti da
dei conteggi matematici ed abbiamo considerato che questa è una farmacia
che nelle 36 settimane invernali resta aperta 12 ore al giorno contro le 24 delle
16 settimane estive. Abbiamo perciò ipotizzato delle situazioni per cui, nel periodo cosiddetto invernale, tutti i dipendenti avessero degli orari a part-time, a
partire dalle donne, per le quali abbiamo previsto un utilizzo pari a 20 ore settimanali, ed abbiamo immaginato per i tre soli uomini, anche loro a part-time, un
orario vicino al tempo pieno.
Arrivando ad una contrattazione aziendale, per cui si immaginava per le donne
la possibilità di adeguare questo part-time alle esigenze individuali, abbiamo
visto che con questi 11 dipendenti organizzati a part-time avremmo potuto coprire tranquillamente la nostra fascia oraria, senza dover ricorrere a nessun tipo
di lavoro supplementare o di straordinario, quindi senza dover fronteggiare un
costo eccessivo per l’azienda.
Questo ci portava ad utilizzare poi, nella seconda parte dell’anno, quella più
problematica, la banca delle ore, nel tentativo di arrivare alla copertura totale
dell’orario attraverso queste 11 figure di lavoratori. Abbiamo visto che è comunque inevitabile ricorrere allo straordinario, altrimenti sarebbe stato necessario
ricorrere ad altri lavoratori oltre gli 11 dati.
Secondo noi la soluzione ottimale potrebbe essere quella di riportare nel periodo estivo tutti a full time, cercando di risolvere le problematiche legate alle 8
donne, che non sono poche in una struttura di 11 dipendenti, in una situazione
in cui, il periodo estivo, le donne si trovano ad affrontare delle problematiche
legate alla gestione dei figli.
Il problema è che l’azienda, nel tentativo di contenere i costi, avrebbe comunque dovuto offrire una situazione peggiore rispetto a quella invernale, perché
avrebbe dovuto utilizzare i dipendenti su tre turni.
Si devono comunque verificare le esigenze di ogni singolo lavoratore, nella
speranza che i tre uomini siano effettivamente dei baldi giovani, che non devono affrontare particolari problematiche, per poter concentrare tutta l’attenzione
sulla soluzione dei problemi delle donne. Grazie.
LEONARDO PIACQUADDIO
(Segretario Generale FISASCAT-CISL Foggia Nord Barese)
A noi è toccato il caso di un’impresa che ha diversi luoghi di lavoro sparsi su
tutto territorio nazionale; le tre attività principali sono la ristrutturazione architettonica degli ambienti, la gestione degli ambienti per la pulizia e la sicurezza, lo
sviluppo commerciale e la pubblicità.
Ha 250 dipendenti, di cui 120 dirigenti e quadri, quindi ad alta professionalità,
mentre tutto il resto è rappresentato da impiegati. Hanno un contratto integrativo aziendale, con una vigenza contrattuale 2010-2012, ma il contratto inte-
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
199
grativo aziendale non ha avuto grande successo presso i dipendenti, dato che
si sono diffusi un malcontento ed una insoddisfazione generalizzata tra tutti i
dipendenti di questa società, che ha da gestire un elevato numero di contratti in
appalto, affidati a società terze.
Di qui nasce la necessità di rimotivare il personale e migliorare il clima aziendale
che si è deteriorato nel corso degli anni. È stato spiegato ai dipendenti quali fossero i benefici effettivi del contratto integrativo aziendale, che contemplava due
aspetti fondamentali: una serie di convenzioni con esercizi commerciali e € 100
di gratifica natalizia in ticket restaurant spendibili in esercizi convenzionati.
Questo non ha prodotto gli effetti desiderati e di qui è derivata la necessità di
chiedere ad ogni singolo dipendente che cosa realmente si aspettasse nella
rinegoziazione o nella rimodulazione del contratto integrativo aziendale.
Sono emersi sostanzialmente tre tipi di esigenze: esigenze gestionali di organizzazione del lavoro che non incidono sul contratto, esigenze di flessibilità
dell’orario, esigenze di welfare più in generale, dal buono pasto alle spese di
istruzione.
I lavoratori davano tutto per scontato nel contratto integrativo aziendale, quando le cose in effetti non stanno così, tanto che il consulente dell’ipotesi riformulata si è sforzato di spiegare ad ogni singolo dipendente qual è stato il reale
guadagno, ottenuto da quel contratto integrativo aziendale, rispetto al costo
delle stesse prestazioni acquistate di tasca propria.
L’insoddisfazione è comunque rimasta, per cui appare l’esigenza di incentivare le aspettative formulate dai lavoratori con una flessibilità oraria di lavoro,
istituendo una banca delle ore flessibile individuale e dei turni orari ciclici, per
ridurre l’assenteismo e guadagnare una maggiore efficienza organizzativa.
Abbiamo poi considerato l’organizzazione gestionale ed il welfare più in generale. La società si è prefissata di studiare degli interventi da effettuare sul
premio di risultato e trasformare una parte dello stesso in benefit, dato che per
alcune tipologie il benefit è possibile: ad esempio, spese di istruzione, asili,
cure termali, trasporto pubblico casa-lavoro, e lasciare l’altra parte tale e quale
rispetto a quanto già previsto nel C.I.A.
Allo scopo si è ipotizzato di offrire ai dipendenti una quota del premio di risultato
in denaro ed una in benefit. Abbiamo cercato perciò di costituire delle classi
omogenee di lavoratori, nel tentativo di applicare la nuova struttura del C.I.A.
alla generalità dei dipendenti a determinate condizioni di praticabilità e questi
due aspetti sembrerebbero facilmente raggiungibili.
Siamo stati colpiti dal fatto che nel caso di studio si dica che i sindacati, pur
non sussistendo ostacoli particolari, non avessero avanzato proposte di modifica al C.I.A.: noi abbiamo pensato che per le tipologie lavorative che vengono
espletate nell’azienda, perché si tratta fondamentalmente di coordinamento e
controllo di tutte le attività terziarizzate ed affidate in appalto a società esterne,
sostanzialmente la struttura del nuovo C.I.A. è condivisa dalle organizzazioni
sindacali.
Noi proponiamo però di diversificare l’applicazione della nuova struttura del C.I.A.
per due classi di lavoratori: innanzitutto per i dirigenti-quadri e poi per gli impiegati.
200
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Pensiamo che si debba cercare di riconoscere ai dirigenti ed ai quadri una più
spinta flessibilità individuale, mediante la possibilità anche del telelavoro.
Abbiamo immaginato che questi lavoratori, dopo aver fatto, ad esempio, dei
sopralluoghi presso le attività espletate dalle società terze, nel momento in cui
devono rendicontare alla società i risultati settimanali delle proprie ispezioni,
per conciliare i tempi di vita e di lavoro, potrebbero realizzare il telelavoro direttamente da casa propria.
Agli impiegati invece si è offerta l’applicazione della banca delle ore e di un
orario multiperiodale, immaginando un impiegato amministrativo, l’impiegato
che deve fare un minimo di contabilità in azienda, nel tentativo di conciliarne i
tempi di vita ed i tempi di lavoro.
E poi abbiamo pensato di offrire a tutti i dipendenti un paniere di benefit diversificati di pari valore, 50% in ticket restaurant e 50% in acquisto di servizi vari.
A proposito del fatto che i lavoratori non erano soddisfatti delle loro condizioni
lavorative, ci è venuto il sospetto che non si trattasse di una soluzione concertata, che non vi fosse rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda e che
quei lavoratori non fossero iscritti al sindacato.
In quel caso potrebbe essere che l’azienda abbia elargito i diversi benefit descritti di propria iniziativa e che abbia poi deciso di individuare una serie di
regole uguali per tutti, perché a lungo andare quegli interventi non avevano
funzionato e non avevano adeguatamente stimolato i dipendenti. Grazie.
PAOLA DIANA ONDER
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL)
Io sono molto soddisfatta: devo dire che questo, come mi diceva poco fa Marco
Lai, è stato il miglior lavoro di gruppo che abbiamo fatto in questi seminari. I
membri dei gruppi si sono calati nelle diverse realtà, che nella nostra attività sia
di consulenti sia di dirigenti sindacali dobbiamo affrontare ogni giorno.
L’applicazione della sperimentazione pratica è quanto i consulenti del lavoro
a me hanno sempre chiesto esplicitamente, quando abbiamo organizzato dei
seminari che affrontassero la questione della contrattazione di secondo livello e
immagino che altrettanto succederà in ottobre quando affronteremo i problemi
della rappresentanza sindacale.
In questo caso i consulenti del lavoro chiedono di predisporre proprio un contratto di secondo livello, perché lo ritengono un modo molto utile per arricchire
la propria esperienza e per rendere concreto quanto i diversi relatori esprimono
nei loro interventi nell’ambito dei vari seminari.
Secondo me, quello che è stato realizzato è molto positivo, molto partecipato
e credo che abbia dato soddisfazione ai membri dei singoli gruppi. Certamente
oggi la Dottoressa Marsala ha fornito tanti spunti nel suo intervento, tante opportunità che vanno studiate, applicate, analizzate; e soprattutto ci ha dato la
possibilità di utilizzare gli strumenti che Italia Lavoro mette a disposizione sul
proprio sito.
Alla dottoressa il compito di replicare ora agli interventi dei relatori dei diversi
gruppi. Prego.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
201
ANTONELLA MARSALA
(Project Manager presso Italia Lavoro)
Intanto vi voglio ringraziare, perché è la prima volta che noi utilizziamo queste
bozze, considerato che non abbiamo ancora fatto un lavoro vero di sistematizzazione dei diversi casi. Valeva la pena offrire alcuni spunti, per provare a
capire come questi casi poi possono essere utilizzati meglio da noi in chiave
formativa.
Tra i casi che vi abbiamo offerto, due per noi sono casi di insuccesso, nel senso
che le situazioni sono rimaste bloccate, e due sono casi di successo, cosa che
evidentemente voi non potevate sapere.
Il primo caso di insuccesso, per cui io ho penato, perché non credevo che non
si potesse ottenere un risultato positivo, è il caso A, il quale non ha funzionato
perché l’imprenditore, quando si è reso conto che il welfare è democratico, ha
preferito non andare avanti.
Se ci avete fatto caso, l’imprenditore aveva costruito un sistema di benefit soltanto per alcune categorie ed aveva escluso una parte dei propri dipendenti.
Lo aveva fatto perché, rispetto a certe categorie, lui era convinto che il welfare
dovesse andare a tutti, mentre rispetto ai 150 dipendenti, ai quali spettava il
compito di lavorare agli sportelli, in quanto si tratta di un’agenzia di somministrazione, aveva deciso di offrire benefit ad alcuni e non ad altri.
Questo non è consentito dal welfare contrattuale, che è democratico, per cui
lui avrebbe dovuto individuare delle categorie omogenee a cui concedere il
welfare.
Il problema vero, che resta in capo a questo signore e che non risolverà, continuando a dare i benefit a chi dice lui, escludendo gli altri, è comunque il problema della maternità. La maggior parte delle donne opera agli sportelli e la
maggior parte di queste donne o hanno figli o sono in età fertile ed hanno
intenzione di fare figli.
Credo perciò che comunque ci chiamerà, perché ora ne ha nove in maternità
contemporaneamente sull’area di Brescia e deve affrontare questo problema.
Come dicevano sia Lenin che Sciascia, i fatti hanno la testa dura e lui si trova
a dover gestire una quota elevata di maternità parallele ed a costi di rimpiazzo
e di turn-over molto elevati, perché la maggior parte di queste lavoratrici sono
brave.
In questo caso bisogna stare molto attenti a come è strutturato il servizio. Quando abbiamo realizzato il caso di studio, era un momento di calo, perché, come
sapete, nei periodi di crisi il lavoro in somministrazione cala e quando c’è un
minimo di ripresa, la somministrazione aumenta, per cui noi ora ci aspettiamo
un certo impatto dal decreto Poletti sul lavoro a tempo determinato ed anche se
sono state applicate le stesse regole allo staff leasing, evidentemente bisogna
capire se le imprese preferiranno la titolarità del rapporto di lavoro, utilizzando
il tempo determinato direttamente, o se continueranno a preferire il ricorso alla
somministrazione.
202
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Questa è una variabile che avrà sicuramente sulle agenzie di somministrazione
un impatto, che potremo verificare nei prossimi mesi, anche perché il decreto
prevede un monitoraggio forte, grazie alla banca dati sulle comunicazioni obbligatorie, quindi saremo nelle condizioni già dai prossimi mesi di sapere esattamente come funziona questa nuova normativa.
Tornando al caso A, avete fatto bene a rilevare tutte le criticità che c’erano: è
un’azienda non sindacalizzata, il titolare non ha alcuna intenzione di fare una
contrattazione di secondo livello, quindi è più un caso da consulente, che non
un caso da sindacalista, però, qualora si volesse affrontare un caso simile,
secondo me, bisognerebbe seguire un certo metodo.
Bisogna infatti adottare un processo, le soluzioni vengono dopo: nel caso della
farmacia o nel caso dell’azienda di servizi siete stati molto bravi a trovare le
soluzioni, ma io vi chiederei di fare soprattutto attenzione al processo.
A proposito sempre del caso A, va detto che l’imprenditore è molto attento alla
fase obbligatoria della maternità, infatti si preoccupa di mantenere i contatti con
le proprie dipendenti, ha incaricato due addette ad aggiornare le loro caselle
di posta elettronica, manda loro le slide, se si fa formazione in azienda, ma,
quanto alla parte facoltativa, ha difficoltà nella gestione delle assenze, quindi
vorrebbe che loro tornassero il prima possibile in azienda.
Ora si trova in difficoltà, perché evidentemente non ha fatto i conti con la realtà,
quindi, se vuole continuare a tenersi queste signore – cosa che lui dichiara
di voler fare – deve assumere un atteggiamento diverso e soprattutto deve
utilizzare il telelavoro ed il part-time, molto probabilmente un part-time ciclico,
con la possibilità di utilizzarlo in base ai picchi aziendali delle filiali, in modo da
sopperire all’assenza di alcune di queste donne per alcuni mesi, specialmente
in coincidenza con il periodo della chiusura delle scuole, oppure quando c’è il
periodo di inserimento dei bambini nell’asilo, per cui si era ipotizzata la possibilità di non far lavorare queste donne per 15 giorni consecutivi.
Anche per il caso B è importante il processo, perché è un’azienda che, occupandosi di asili, è molto sensibile alle assenze del personale. Però, pur essendo un’azienda che per ovvi motivi ha una grande sensibilità rispetto a questo
tema, è un’azienda che non riesce a capire esattamente come può funzionare
il welfare, per fidelizzare, in questo caso, i lavoratori all’azienda, e soprattutto è
probabile che nella corsa a voler dare tanto, abbia dato le cose sbagliate.
Anche in questo caso il processo è importante, perché spesso e volentieri il
welfare non è tutto buono, non è detto che si debba dare tutto a tutti, non è
detto che si debba dare tutto subito, quindi, rispetto alle risorse disponibili, alle
caratteristiche socio anagrafiche della forza lavoro ed alle esigenze particolari
dell’azienda, è probabile che si debba ricorrere ad un piano di welfare graduale
e di volta in volta inserire poche cose, farne capire esattamente il valore e poi
rimodulare e quindi tagliare, aggiungere, rivedere, modificare.
Anche nel secondo caso vi siete sbizzarriti ad individuare soluzioni, mentre in
realtà, rispetto al processo, qui siamo davanti ad una situazione assolutamente
positiva. Questo è un caso di successo, per cui noi abbiamo messo a loro disposizione addirittura una piattaforma informatica che si chiama Easy Welfare,
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
203
che ci ha dato il nostro consulente, il quale è proprietario di Muoversi, ed è la
piattaforma che lui utilizza per i propri clienti. Stiamo parlando di un’azienda che
ha come clienti Trenitalia, Unicredit, Tetrapak, insomma, grandi aziende.
Questa è una piattaforma che riesce a mettere insieme tutti i possibili benefit
e può essere utilizzata in una prima fase, dopo aver fatto le analisi socio anagrafiche dei bisogni dei lavoratori, per capire esattamente, rispetto ad un panel
definito, quali sono le richieste dei lavoratori rispetto ai servizi che possono
essere messi a loro disposizione.
L’uso di una piattaforma ha molto tranquillizzato il datore di lavoro rispetto alla
tracciabilità dei servizi, quindi al sistema delle convenzioni, lo ha rassicurato
rispetto al fisco e questo ha aiutato: ciò dimostra che anche in questo caso è
stato molto importante il processo.
Anche in caso di successo il welfare verrà graduato, perché non è buono sempre: poche cose per volta, giuste, che servono a tutti, in maniera tale che il
datore di lavoro abbia la consapevolezza che sta facendo la cosa giusta e
soprattutto i dipendenti apprezzino quello che viene dato loro, che è poi il problema dell’azienda, da cui aspettiamo che i sindacati dicano qual è la parte di
premio di risultato che devono convertire il welfare.
In questo caso il sindacato non ha fatto ancora una proposta perché si è dovuto superare un problema di carattere fiscale: noi abbiamo offerto loro una
soluzione, che metteva in sicurezza il datore di lavoro rispetto all’Agenzia delle
Entrate, indicando la modalità corretta.
Innanzitutto il sindacato ha dovuto far capire quali fossero i vantaggi della trasformazione di una parte del premio di risultato in servizi, piuttosto che in denaro contante, e poi ha dovuto fare tutta le analisi socio anagrafiche insieme
all’azienda, per individuare i gruppi omogenei e, per ogni gruppo omogeneo,
per individuare quali fossero i servizi più adeguati.
Molto spesso al sindacato viene richiesto di contribuire, chiarendo bene quali
possono essere i bisogni e le esigenze dei lavoratori, che devono ovviamente
essere compatibili con la quota di risorse a disposizione, perciò si tratta di una
mediazione non semplice.
Si mette nel contratto ciò che è contrattualizzabile, invece ciò che rappresenta
una liberalità passa comunque dalla contrattazione, nel senso che il sindacato
svolge comunque un ruolo; il fatto che ciò non sia previsto dal contratto di secondo livello, è piuttosto un fatto formale, dal nostro punto di vista sbagliato,
perché la legge dovrebbe prevedere che il welfare sia tutto contrattualizzato,
tuttavia fa parte comunque della mediazione e non può essere per il sindacato
un alibi il fatto che la legge dice, sbagliando, che per una parte il welfare è
lasciato alla liberalità dell’imprenditore, visto che il sindacato può avere tranquillamente un ruolo anche nell’individuazione di quelle forme di welfare che
non rientrano nel contratto, ma che comunque possono essere concordate in
maniera tale che siano efficaci.
Quanto al caso della farmacia, si tratta di un caso di grande successo. Si trattava
in partenza di nove farmacisti e di due magazzinieri, ma poi hanno assunto altri
due farmacisti, perché comunque neanche con la banca delle ore riuscivano
204
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
in estate a sopperire alle esigenze delle ventiquattr’ore al giorno. In questo
caso abbiamo creato lavoro, perché l’introduzione della banca delle ore ha fatto
sì che le donne, sapendo che potevano utilizzare il tempo in base alle proprie
esigenze, assumessero un atteggiamento positivo nei confronti del datore di
lavoro: i farmacisti hanno costituito un team, che si riunisce tutte le settimane
e stabilisce i turni in relazione alle esigenze di ciascuno, ma soprattutto, nel
momento in cui c’è qualche problema, essi riescono a compensarlo all’interno
del gruppo.
Rispetto al welfare voi vi siete sbizzarriti ed è stato interessantissimo sentire
tutte le cose che vi sono venute in mente: io prenderò in considerazione la
sollecitazione delle soluzioni alternative rispetto alla banca delle ore, perché
mi sembrano tutte soluzioni interessanti, sia quella dei turni, sia quella del parttime, quindi vi ringrazio ed invito tutti ad offrire anche queste soluzioni, se vi
capiterà di affrontare casi simili.
Questo caso dimostra che il welfare si può fare anche nelle piccole aziende: i
dipendenti si sono scelti i propri benefit ed hanno voluto più denaro per i ticket
restaurant, perché si trovano in una zona turistica, in cui il costo del pasto è
maggiore, inoltre hanno voluto il cinema e la palestra, mentre le donne hanno
voluto un piccolo contributo per la baby-sitter e soprattutto hanno voluto un
contributo per le spese mediche.
Ma la maggior parte delle risorse è stata utilizzato per un contributo destinato
all’acquisto di libri e per le spese mediche, infatti, quando si hanno dei bambini
piccoli, molto probabilmente l’integrativo sulla sanità aiuta, perché ci si ammala
più spesso, perché bisogna fare le vaccinazioni, perché occorrono gli apparecchi ortodontici, che costano molto, ecc.
Siamo ora in fase di revisione della contrattazione di secondo livello per la
farmacia, perché la titolare ad un certo momento si è preoccupata di non poter
offrire tutto ed allora noi le abbiamo offerto questa soluzione: “Decida quello
che vuol fare, dopodiché noi mettiamo nel contratto ciò che può essere contrattualizzato per legge, mentre definiamo il resto come liberalità, visto che il
sindacato sa che comunque ci si è messi d’accordo sia sulla banca delle ore,
che sulla contrattazione dei diversi benefit”.
Quando si concilia la flessibilità ed alla fine si arriva ad un piano di welfare,
fondamentalmente sono importanti alcuni passaggi. Passo uno è l’analisi, sia
dal lato dell’azienda che dal lato del lavoratore: non abbiate timore di perdere
tempo, per capire esattamente quali sono i problemi, la fretta è nemica delle
soluzioni migliori.
Occorre quindi prendere tempo rispetto a soluzioni, che possono essere sezionate ed analizzate a fondo, affinché il consulente ed il sindacato abbiano la
consapevolezza di qual è la strategia dell’azienda, dove si sta andando, sia nel
bene che nel male, sia rispetto all’affrontare problemi di crisi o di cambio di produzione, sia rispetto alla crescita, perché quanto più il sindacato e il consulente
sanno, tanto più si riesce a trasferire nel piano.
Si veda l’esempio di Luxottica, che fa formazione e informazione a tappeto,
perché anche l’ultimo dipendente deve sapere qual è la strategia aziendale,
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
205
deve sapere perché ci sono dei picchi di vendita in Cina, quali sono i problemi
di competitività, anche le questioni più strategiche.
Bisogna poi dedicare molto tempo anche alle caratteristiche socio anagrafiche
dei lavoratori, alle loro esigenze, che vanno chieste loro direttamente. Io mi
sono ritrovata in situazioni in cui, dopo aver chiesto ai lavoratori quali fossero
le loro esigenze, sono venute fuori delle soluzioni buone. In genere con i lavoratori si parla poco, anche perché molte volte nelle nostre aziende il capo del
personale è il proprietario, non il direttore del personale.
Il secondo passo è il confronto: dialogare non significa parlarsi o comunicare,
bisogna confrontarsi, per mettere insieme tutte le possibili alternative, e negoziare. Il sindacalista, quando arriva ad un tavolo, ha l’idea di che cosa vuole
ottenere, ma, se si prospettano poi delle soluzioni diverse, le coglie; quindi
confrontarsi significa, anche rispetto all’analisi, prendere in considerazione soluzioni che non avevamo considerato in partenza.
Il terzo passo è il tavolo negoziale, dove si fanno le analisi delle soluzioni alternative e lo scambio. Non è detto che il sindacato rispetto al tavolo negoziale ci
sia sempre: se si avvia un processo, può anche darsi che ci sia la dimensione
della contrattazione e la dimensione del tempo rispetto agli effetti che il processo ha.
Non è detto che il sindacato debba rompere tutto costantemente con l’informazione: se all’interno dell’azienda si avvia un processo, ma non si arriva ad
una soluzione, il sindacato si dia un poco di tempo, per capire che effetto ha
avuto quella cosa. Può anche darsi che rispetto al tavolo negoziale ci siano le
risultante di un processo, a cui il sindacato ha partecipato all’inizio, perché si è
deciso dove si voleva andare, e poi alla fine, perché, quando una cosa è conclusa, si è visto come ha funzionato e giustamente si vuole capire quali sono i
risultati.
Quando si introducono delle soluzioni, il sindacato dovrebbe avere la pazienza,
dopo essersi messi d’accordo su che cosa si fa, di aspettare, per vedere che
effetto ha, e poi tornare al tavolo negoziale: non è detto che ci si debba stare
in ogni momento, perché spesso e volentieri questo non fluidifica il processo,
ma crea dei problemi.
Il quarto passo è gestire l’applicazione con una somma positiva: noi ragioniamo
sempre nell’ottica del “Win-Win”, ovvero, dove si può, è meglio che vincano
tutti e due gli interlocutori. Io capisco perfettamente che in genere la proprietà
vince di più e il lavoratore vice di meno, ma non si può avere un caso in cui il
lavoratore perda completamente e l’imprenditore stravinca.
Ai miei amici, che mi dicono che il lavoro in Italia è precario, io dico sempre che
bisogna fare in modo che il lavoro sia pagato, perché un lavoro è meglio di un
non lavoro, per cui un brutto accordo è sempre meglio di niente.
Bisogna poi esercitare il diritto di informazione, per avere a disposizione più
informazioni possibili, anche le più disparate; spesso il sindacato ottiene meno
informazioni di quelle che vorrebbe, però, se si impara tutti a lavorare di più
sulle analisi, si impara anche a chiedere di più le informazioni giuste, che sono
poi le informazioni, le quali, in un circuito virtuoso, ci aiutano a decidere.
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Quanto meglio facciamo l’analisi, tanto più il resto segue a cascata. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie infinitamente alla Dottoressa Marsala, la quale non solo ci ha spiegato
con grande chiarezza le tematiche, che erano oggetto del nostro seminario, ma
ci ha dato anche riferimenti molto utili per attingere alle diverse sezioni del sito
di Italia Lavoro, che è l’Agenzia nazionale del Ministero del Lavoro, ovvero il
braccio operativo del Ministero stesso.
Italia Lavoro opera in house, quindi non partecipa ai bandi, ma in base ad una
legge nazionale opera trasversalmente con tutto il Governo sulle tematiche del
lavoro, in seguito a convenzioni stipulate con ciascun Ministero, che ne faccia
richiesta.
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sessione mattutina
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Ieri mattina, con l’ausilio del professor Tiziano Treu, ci siamo occupati della
presentazione in generale delle tematiche legate al welfare contrattuale, per
quanto concerne la conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro.
Nel pomeriggio abbiamo fatto un affondo di carattere specifico sul tema con l’intervento, a mio avviso molto efficace, della Professoressa Antonella Marsala,
la quale ci ha dato una disponibilità molto importante da parte di Italia Lavoro a
supportare l’azione che a livello territoriale sia il sindacato sia il consulente del
lavoro possono mettere in campo rispetto a questa problematica.
La mattinata di oggi si articola in due parti: una parte che terrà conto dell’esperienza dei consulenti del lavoro rispetto alla tematica che stiamo affrontando,
per cui avremo l’intervento di Diana Onder, a cui seguirà una parte, che terrà
conto dell’esperienza degli dirigenti sindacali, per la quale interverrà Rosetta
Raso.
Avremo poi una parte dedicata alle prestazioni sanitarie integrative di CADIPROF a sostegno del welfare contrattuale, ad opera di Germano Assumma ed
infine la parte di carattere politico sindacale, affidata a Giovanni Pirulli, Segretario Generale Aggiunto della FISASCAT-CISL.
Concluderà la mattinata il saluto del Direttore del Centro Studi, Giuseppe Gallo,
il quale sottolineerà il ruolo del Centro Studi CISL rispetto alla formazione della
confederazione.
Diamo dunque ora la parola a Diana Onder per il proprio intervento.
211
Intervento di:
Paola Diana Onder
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL_Su)
212
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Buon giorno a tutti. Il mio intervento si incentra principalmente su due punti fondamentali: nella prima parte tratterò la figura del professionista consulente del
lavoro e gli strumenti e le azioni che sono stati posti in essere dalla dirigenza
nazionale dell’ANCL, della quale faccio parte anch’io, e che sono stati attuati per
proporre il consulente del lavoro come figura professionale idonea a promuovere nelle imprese le azioni positive e le politiche attive ai vari livelli utili a superare
le differenze di genere e più nello specifico, per il tema che stiamo trattando in
questo seminario, per la conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro.
Nella seconda parte tratterò brevemente della tutela dei diritti del mondo professionale, del quale facciamo parte come lavoratori autonomi.
Per quanto riguarda la prima parte, nel periodo in cui sono stata Coordinatore
Nazionale della Commissione per le Pari Opportunità – e quindi orientativamente dal 2006 sino all’inizio del 2012 – la nostra categoria, Ordine e ANCL,
ha sottoscritto un protocollo di intesa sulle pari opportunità con il Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali. Ma un paio di mesi prima in questo caso la sola
ANCL ha sottoscritto la carta per le pari opportunità.
La carta per le pari opportunità è un impegno, un insieme di buone pratiche, 10
principi etici comportamentali e organizzativi, che hanno la finalità di valorizzare
le risorse umane con particolare riferimento ai talenti anche nelle loro diversità.
Non è un obbligo, non è una disposizione di legge, è un suggerimento, che viene dato alle imprese, di adozione di questi sistemi organizzativi, riconducibile
alla materia che riguarda la responsabilità sociale delle imprese.
È uno strumento che proviene dalla Comunità Europea e che ha avuto un successo sensibile in Germania e in Francia, prima però dall’avvento della crisi.
Questa infatti è una modalità da attuare nelle imprese che si trovano in una
condizione positiva, in una condizione di sanità dell’impresa, ma nelle realtà
aziendali, che noi liberi professionisti stiamo seguendo, ovvero soprattutto piccole e medie imprese, realtà che stanno lottando per la loro sopravvivenza, a
mio avviso, in questo momento non è uno strumento che possa essere suggerito: dobbiamo aspettare dei tempi economicamente migliori.
È pur vero che questo suggerimento, che viene dato alle imprese, non differenzia da un punto di vista numerico, perché sono valori che vengono suggeriti da
adottare nelle buone prassi, che possono intervenire da un punto di vista organizzativo nelle diverse aziende, ma è altrettanto vero che è difficile suggerirli ad
una piccola realtà imprenditoriale, come sono quelle del comparto di riferimento
di noi professionisti, aziende più o meno sui 50 dipendenti o micro aziende, che
arrivano sino a 10 collaboratori.
Il protocollo che abbiamo sottoscritto contiene tutto lo scibile ed attuabile in
tema di valorizzazione delle differenze. Mi piace sostituire la definizione di pari
opportunità con quella nuova di valorizzazione delle differenze. Questo perché
il contesto sociale in cui viviamo si evolve velocemente e di conseguenza cambiano le problematiche sociali, creando delle nuove categorie di destinatari di
discriminazioni. Lo abbiamo sentito dai relatori che sono intervenuti ieri: non
solo le donne sono discriminate, ma anche i disabili, gli extra comunitari, gli
anziani, i soggetti svantaggiati in genere.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
213
Pensiamo alla grave crisi mondiale, che ha colpito i mercati finanziari, che si
riverbera dal 2008 su tutte le grandi potenze economiche e quindi anche sul nostro Paese: negli ultimi anni è emersa una nuova categoria di soggetti svantaggiati, gli over 50, i quali, nel momento in cui sono espulsi dal mondo del lavoro,
hanno molta difficoltà a rientrarvi, anche se il legislatore ha previsto e rinnovato
negli ultimi anni tutta una serie di provvedimenti, che vanno nella direzione di
aiutare questi soggetti. Il contesto sociale, nel quale viviamo e lavoriamo, si
evolve, creando nuove situazioni di disagio.
Il protocollo parte innanzitutto con la diffusione della cultura delle pari opportunità attraverso seminari e convegni sul territorio, che sono finalizzati alla formazione ad ogni livello, non solo rivolti ai nostri colleghi, ma rivolti anche verso
i nostri clienti.
La mancanza di conoscenza di tutte queste disposizioni di legge, che danno
delle opportunità enormi alle imprese ed ai lavoratori, è infatti una mancanza
che va sicuramente colmata.
Il protocollo ha previsto poi l’inizio di un grande lavoro, alla luce della necessità,
ormai condivisa, di una compartecipazione con le parti sociali, per favorire una
contrattazione di secondo livello, che sostenga il lavoro etico e sicuro, una diminuzione del costo del lavoro, una necessità di generare più occupazione con
azioni mirate e localizzate, che abbiano come conseguenza la riduzione delle
politiche negative del lavoro, che costituiscono uno dei costi più sostanziosi per
il nostro Paese.
Il protocollo è un nostro canovaccio: lo abbiamo scritto noi, consulenti del lavoro, e lo abbiamo condiviso con il Ministero e con la Consigliera Nazionale di
Parità. Però qui manca un attore fondamentale, cioè le parti sociali, che con noi
collaborano alla stesura della progettazione di un contratto di secondo livello.
Noi dobbiamo arrivare a favorire gli stage, i tirocini formativi, il telelavoro, la
formazione a distanza e il job sharing, ma di tutto questo grande lavoro, che
abbiamo ipotizzato, l’unica cosa che abbiamo realizzato, è stata la diffusione
della cultura del mondo delle pari opportunità.
È stato un tentativo non ben riuscito, perché in realtà in tutti i seminari, che
abbiamo organizzato finché c’ero io sul territorio in partnership con il Ministero,
ai quali hanno partecipato le consigliere regionali e provinciali di parità, non abbiamo realizzato granché, dato che queste signore di sicura cultura, parliamo in
genere di insegnanti, a mio avviso hanno dimostrato di essere tuttora ancorate
a dei contesti sociali ormai superati.
Hanno parlato della propria esperienza di femminismo degli anni 60-70, mentre
io credo che il mondo delle pari opportunità non sia più una questione di donne,
ma sia invece una questione che riguarda il soggetto debole, quello meno fortunato, lo straniero, il disabile, i soggetti di cui si parlava poc’anzi, tutti coloro che
hanno bisogno di avere un aiuto normativo ed un aiuto dal mondo del mercato
del lavoro, per una difesa dei diritti, che vanno tutelati nell’ambito del nostro
contesto sociale.
Quindi io credo che la cultura della parità in realtà la stiamo costruendo qui,
oggi e che a questa cultura debba fare poi seguito l’applicazione pratica che
abbiamo visto ieri.
214
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Ieri abbiamo avuto la fortuna di avere un’eccellente esponente di Italia Lavoro,
la quale ci ha permesso di individuare degli strumenti concreti, per favorire l’applicazione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e quindi la flessibilità
aziendale con la distribuzione articolata degli orari di lavoro.
Ci vuole formazione, per arrivare poi ad attuare e realizzare in azienda questa
flessibilità al rientro dei congedi parentali, ci vuole una valorizzazione della maternità, che non venga vista come causa di discriminazione, anche mediante
una crescita condivisa di strutture pubbliche e private sul territorio.
Quello che ancora sono riuscita a vedere, sin tanto che sono stata Coordinatrice ed avevo una commissione di 13 colleghe, distribuite sul territorio, è stato
che, laddove le commissarie mi hanno dato ascolto, si sono calate sul territorio
ed hanno preso contatti con i rappresentanti della struttura pubblica, gli assessori al lavoro, e via dicendo, non hanno trovato le porte aperte, hanno trovato
i portoni spalancati.
Gli interlocutori non aspettavano altro che qualcuno, che è vicino alle aziende,
li affiancasse, per realizzare quella teoria di cui loro sono portatori, perché parliamo sempre di persone sicuramente di cultura, ma che si fermano molto alla
teoria ed hanno bisogno di specialisti, come la Dottoressa Marsala, come voi,
come noi, che viviamo quotidianamente i problemi dell’azienda e dei lavoratori.
Su questo profilo mi pare che ci sia molto da fare e che si possa fare molto
insieme.
Altra cosa, che è sempre attinente alla mancanza di conoscenza di questo
mondo, sono le grandi potenzialità offerte dalla Comunità Europea in termini di
risorse economiche. Vengono stanziate annualmente delle cifre molto importanti a livello di finanziamento delle politiche attive del lavoro, ma, se noi non le
conosciamo, fatalmente non ne approfittiamo.
Perciò è importante – mutuando quello che la Dottoressa Marsala ha avuto
l’opportunità di mostrarci ieri con le sperimentazioni pratiche che abbiamo fatto
– comprendere quali sono i canali di inoltro dei progetti che si vanno a predisporre ed aiutare l’azienda a realizzarli.
Quindi la figura del consulente del lavoro in tutto questo è centrale, perché è il
riferimento professionale delle aziende, per quanto riguarda la gestione delle
risorse umane, l’organizzazione del lavoro e questo con riferimento non solamente alle piccole e medie imprese di cui parlavo prima.
Infatti un consulente preparato si rivolge sicuramente alle piccole e medie imprese, comparto di riferimento della nostra categoria professionale, ma anche
alle grandi imprese; questo significa che vi è un orizzonte professionale ampio,
sul quale noi possiamo intervenire.
A tale proposito è importante la contrattazione di prossimità, che vede coinvolti i
nostri amici operatori sindacali per tutte quelle dinamiche progettuali di cui parlavamo prima: diversa modulazione dell’orario di lavoro, previsione di politiche
attive per il rientro dalla maternità, congedo parentale, telelavoro, part-time.
Tutto questo, lo ribadisco, non riguarda solo il mondo femminile, ma riguarda
anche tutti quanti noi.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
215
La conoscenza del territorio e delle situazioni aziendali sicuramente ci dà quegli elementi di analisi necessari per la programmazione e per arrivare ad una
soluzione condivisa delle problematiche. Quindi il campo di azione, come dicevo, è molto vasto e va sicuramente percorso dagli appartenenti alla nostra
categoria.
Secondo aspetto sul quale volevo soffermarmi è quello che riguarda la nostra
figura di lavoratori autonomi e la tutela dei diritti del lavoratore autonomo. A
tale proposito è emerso ieri dall’intervento del professor Treu ed anche da una
sollecitazione di una nostra cara collega, che noi forse siamo carenti, siamo
andati troppo avanti negli anni, prima di preoccuparci di questo problema, ma
non è mai troppo tardi.
In un recente ho studio, che noi come Centro Studi abbiamo presentato la scorsa settimana ad un’assemblea dei nostri quadri dirigenziali, ci siamo occupati
della figura del professionista intermediario telematico. Uno degli aspetti, sui
quali ci siamo soffermati nell’analizzare le problematiche che investono questa
figura, è proprio la totale carenza di riconoscimento dei diritti umani, sanciti
peraltro dalla Carta Costituzionale, dei quali il lavoratore autonomo, nello specifico il consulente del lavoro, a nostro avviso è privato.
Mi riferisco alla tutela della malattia, dei riposi, delle ferie, della maternità, per
arrivare alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. In quest’aula ci sono delle
colleghe: alcune sono madri, altre lo saranno, ebbene io credo che le mamme
possano ben testimoniare come abbiano vissuto la maternità in contemporanea all’esercizio della loro professione.
La professionista di fatto rimane presente al lavoro fino a poche ore prima del
parto e rientra in studio mediamente dopo due giorni. Ricordo che nel 2008 fui
invitata ad una tavola rotonda presso l’Università di Firenze: il tema era il ruolo
delle donne nei consessi in cui vi siano delle responsabilità gestionali. I relatori
erano ovviamente tutte donne, che rappresentavano uno spaccato differenziato dal mondo del lavoro e quindi erano anche di diversa estrazione culturale. Io
rappresentavo le lavoratrici autonome ed in quell’ambito riportai questo fatto.
Tra i relatori c’era una sociologa, una signora matura, che aveva scritto da poco
un libro proprio su questo argomento; quando riportai questo fatto, lei rimase
annichilita, sconcertata, si girò e si rivolse alla dirigente sindacale della CGIL,
che rappresentava tutto il mondo sindacale, e le disse: “Io non sapevo che loro
non avessero la maternità; ma è vero che non hanno la maternità?” Allora la
sindacalista si irrigidì, abbassò la testa e gravemente disse: “Sì, è vero. Loro
non ce l’hanno”.
E non parliamo poi della conciliazione dei tempi di vita tempi di lavoro. Anche
qui vi voglio portare una breve testimonianza: sempre nel periodo in cui io ero
Coordinatrice della commissione per le pari opportunità, si rivolse all’ANCL un
professionista maschio, il quale aveva la necessità di essere sostituito nella
titolarità dello studio per un periodo di sei mesi, perché si alternava in quel
ruolo con la moglie, che aveva bisogno di essere sostituita per questo periodo,
ovviamente per una maternità facoltativa.
216
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
In ciò mutuava una previsione dell’articolo 9 della legge n. 53 del 2000, che
contempla la sostituzione del titolare di impresa con un finanziamento da parte
del Ministero. Presentammo il progetto, che tuttavia non venne autorizzato ed il
motivo fu che, essendo il destinatario del progetto un professionista, era stato
messo in coda rispetto ai progetti presentati per lavoratori subordinati e per
imprenditori.
Voi capite che questa è una discriminazione non indifferente: in realtà noi professionisti siamo discriminati in maniera sostanziale da parte del nostro legislatore e lo dimostra il fatto che i nostri lavoratori dipendenti, nel caso in cui
vengano licenziati per riduzione di personale o ristrutturazione dello studio, diversamente dagli altri lavoratori subordinati, non portano con sé, pur essendo
iscritti nelle liste di mobilità senza godimento dell’indennità, il bagaglio dello
sgravio contributivo in caso di riassunzione, proprio perché provenienti da uno
studio professionale.
Dunque il legislatore italiano non ci riconosce come imprenditori, anche se l’Europa si è dimostrata di parere opposto con una sentenza del 16 ottobre 2003,
della Corte di Giustizia della Comunità Europea, che vi voglio citare, che ci fece
molto piacere all’epoca e che ci fece cantar vittoria.
La sentenza dice: “Rispetto alla nozione comunitaria di datore di lavoro, la giurisprudenza comunitaria afferma che occorre incentrarsi su una nozione intesa
in senso ampio di datore di lavoro, pertanto qualunque soggetto, che svolge
attività economica e che sia attivo su un determinato mercato, rientra in questa
definizione”.
Ebbene, il legislatore italiano ci considera tali, secondo questo concetto espresso dalla Corte di Giustizia, soltanto per il pagamento delle tasse: nel momento
in cui noi dobbiamo pagare l’Irap, che è l’imposta sulla produzione del reddito
imprenditoriale, noi diventiamo impresa, nel momento in cui pretendiamo dei
diritti e degli sgravi, non tanto per noi, quanto per i nostri lavoratori, noi non
siamo più impresa, ma siamo professionisti iscritti ad un albo professionale e
quindi esclusi da ogni beneficio.
Questa è una palese violazione della legge comunitaria sulle discriminazioni
e credo che a questo proposito il sindacato, che io rappresento, ma ancora di
più la confederazione sindacale Confprofessioni debbano sicuramente attivarsi, perché i diritti vengano rispettati per tutti i soggetti, anche se recentemente
Confprofessioni e ADEPP, l’Associazione degli Enti Previdenziali Privati, hanno
ottenuto il riconoscimento dei fondi comunitari per i professionisti.
Ma, tornando all’approfondimento scientifico che abbiamo concluso, dopo aver
analizzato tutte le problematiche per quanto riguarda la tutela dei diritti, abbiamo predisposto uno statuto dell’intermediario, che è una nostra proposta di
legge, la quale va a regolamentare la figura dell’intermediario, ma va a regolamentarne anche i diritti costituzionali in tema di maternità, malattia, riposo.
A questo proposito abbiamo previsto anche la possibilità di sciopero, perché
vogliamo recuperare il terreno perduto, rappresentato da tutti quei diritti che
spettano a noi, ma spettano anche ai nostri dipendenti, i quali sono condizionati
dal lavoro che noi facciamo.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
217
Il 19 maggio i nostri colleghi della Lombardia hanno celebrato il primo congresso regionale. Anche loro si sono cimentati su una parte di questi diritti: in questo
caso loro si sono occupati solamente della sospensione degli adempimenti nel
periodo feriale, però il lavoro che voi state vedendo, fa parte di un macro impegno sulla riforma del mercato del lavoro, un bellissimo lavoro fatto dai consulenti del lavoro, fatto dai tecnici giuslavoristi vicini alle imprese, che vuol essere
una riforma a 360°, perché ha analizzato il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo, in riferimento anche all’imprenditore piccolo, al micro imprenditore.
Questa è una cosa molto interessante, che, secondo me, potrebbe andare a
far parte di quello che sarà un nostro prossimo intervento nell’ultima sessione
di quest’anno.
In uno spicchio di questo studio, che loro hanno fatto sulla riforma del mercato
del lavoro, si sono occupati della sospensione degli adempimenti del periodo feriale, perché il mese di agosto c’è anche per i nostri dipendenti e non
solamente per le imprese, ma noi siamo gravati, costipati, se mi consentite il
termine, da scadenze, che non lasciano assolutamente tranquillità. Si riesce
comunque a gestire il periodo di ferie, però c’è sempre l’ansia da scadenze,
che comunque rimane e quindi la proposta è di differire al 15 settembre queste
scadenze.
Io poi mi sono permessa di includere qualcosa, che sto portando avanti inascoltata da anni, ovvero il differimento degli adempimenti di fine anno. Infatti non
ci sono solamente le ferie dei mesi estivi, ci sono anche le festività natalizie,
anche per noi, anche per i nostri dipendenti, ed in quel periodo è cogente il
conguaglio fiscale, che è sicuramente un importante impegno di cassa che
riguarda lo Stato, sul quale è difficile smuovere un pochino le date; però il conguaglio potrebbe essere differito almeno al 31 gennaio, lasciando un attimo di
respiro anche ai nostri lavoratori ed alle nostre attività di studio.
È chiaro che tutto questo è un progetto da perfezionare, da migliorare ed è un
progetto del quale il Centro Studi nazionale ha già ha pensato di appropriarsi,
nel senso che i colleghi mi hanno offerto di lavorare insieme ed io ho colto
subito l’opportunità: spero vivamente che si possano mettere insieme i due
studi, che sono stati fatti, quello della figura dell’intermediario e quello della
riforma del lavoro, perché comunque gli interessi sono comuni e le finalità sono
comuni.
E finalità comuni ci sono anche con la categoria, che il sindacato FISASCAT
il 20 maggio ha costituito unendosi alla FELSA, che è il sindacato dei lavoratori autonomi. Io credo che alcuni degli aspetti dei quali ho parlato, possono
essere comuni con questa categoria e penso che sicuramente Rosetta Raso
ne parlerà dopo.
Sostanzialmente per noi consulenti del lavoro ci sono due aspetti da considerare in modo particolare. Innanzitutto il ruolo esterno e quindi la figura dell’attività
professionale del consulente del lavoro, che ho illustrato nella prima parte e che
si allontana un po’ dallo storico cedolino paga, il quale doveva essere solamente
un aggancio, un appiglio, ma si avvicina molto di più ai bisogni dell’azienda, allargando gli orizzonti professionali e proiettandoci nel futuro di una professione,
218
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
che sempre di più affina il ruolo di terzietà, del quale in questi anni tanto al
nostro interno si è parlato.
Il consulente è il soggetto terzo rispetto alle parti sociali e al datore di lavoro,
che opera in materia tecnico giuslavoristica a fianco delle imprese e dei lavoratori, ma anche delle parti sociali, che sono qui presenti e rappresentate.
Al nostro interno invece miriamo al perseguimento della tutela dei diritti costituzionali, perché la Costituzione parla di tutela del lavoro nella sua accezione più
ampia, non discrimina il lavoro subordinato dal lavoro autonomo, quindi siamo
forse arrivati un pochino tardi, ma dovremo lavorare molto, dovremo lottare per
un riconoscimento che ci renda uguali agli altri soggetti, che appartengono al
mondo del lavoro. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie molto a Diana Onder per i contenuti ed anche per il modo in cui sono
stati presentati.
Prima di dare la parola a Rosetta Raso, che ringrazio della sua consueta simpatia, mi pareva utile sottolineare quantomeno due punti.
Il primo punto, che mi trova totalmente d’accordo, è mai parlare solo e soltanto
delle donne: questo è un errore che anche il sindacato ha commesso, invece
bisogna coinvolgere quante più persone possibili, di qualunque sesso esse siano, rispetto a questa tematica della parità.
Quindi mi piace molto questa distinzione, per cui si passa dalla parità alla valorizzazione delle differenze, fermo restando che poi c’è una specificità, che
riguarda il lavoro femminile, che deve essere considerata; ma su questo problema ci deve essere l’attenzione da parte di tutti, non soltanto da parte delle
donne.
Seconda considerazione è che lo stesso professor Treu aveva qualche anno fa
presentato una sorta di statuto del lavoro autonomo, che è stato ora per certi
versi ripreso nello statuto dell’intermediario, ma, tutto sommato, non è un’idea
particolarmente lontana dallo Statuto dei Lavori di Marco Biagi, in cui si parlava
appunto di un necessario passaggio di tutele, pur nelle differenze, dal lavoro
subordinato al lavoro parasubordinato e al lavoro autonomo.
C’è un filo di continuità: non è che si debbano estendere completamente tutte
le tutele, perché non sarebbe corretto, però occorre sviluppare un’azione, per
chiedere una tutela forte del lavoro subordinato, che si estende al lavoro parasubordinato.
Tutto ciò in parte si è realizzato con il lavoro a progetto, però una misura, che
vada a toccare anche il lavoro autonomo, mi pare abbastanza importante.
A Rosetta Raso ora il compito di illustrarci l’esperienza contrattuale del settore
specifico, rispetto a questo tema della conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di
lavoro: che cosa si è fatto e che cosa si intende ancora realizzare? Prego.
219
Intervento di:
Rosetta Raso
(Segretario Organizzativo FISASCAT_CISL)
220
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Buongiorno a tutti. Questo tema è molto sentito dalla mia Federazione, che è
costituita in gran parte da donne, all’incirca l’85%, e che annovera dei settori
costituiti completamente da manodopera femminile.
La nostra preoccupazione è quella di come incrementare l’occupazione femminile, perché ciò significa creare una rete di strutture pubbliche e private, che
possano dare sostegno alle donne ed alla famiglia.
Infatti io ritengo che non si debba parlare di sole politiche femminili, ma che
occorra parlare di politica della famiglia, perché il problema della conciliazione
tempi di vita e tempi di lavoro non è solo un problema della donna che lavora,
ma è un problema genitoriale, è un problema della famiglia nel suo complesso
e quindi della società più in generale.
Spesso la donna, dopo la nascita del primo figlio, decide di lasciare il lavoro,
non in forza di una scelta libera, ma perché la mancanza di strutture pubbliche
fa sì che il costo delle strutture private sia così elevato, che diventa insostenibile, per cui lavorare per una donna significa non un guadagno ma un costo. Io
purtroppo ho visto tante donne che hanno vissuto questa esperienza.
Se poi consideriamo i dati dell’occupazione, vediamo che il tasso di occupazione delle donne è al 46% - contro quello degli uomini, che è al 64% - ed è
in ulteriore diminuzione soprattutto nel Mezzogiorno, dove è al 31,6%, inoltre
nella fascia tra i 18 e i 29 anni al Sud è al 20,7%, contro il 45,7% del Nord.
Questi dati sono significativi del fatto che non è solo la crisi, che ha impattato
sull’occupazione femminile, ma che su di essa impatta il problema della cura e
dell’assistenza dei figli, della casa e delle persone anziane, che spesso sono
persone non autosufficienti.
La legge delega, che il Presidente del Consiglio porterà all’esame delle Camere, si ripropone di finanziare maggiormente, con un piano straordinario, gli
asili nido, oppure le cosiddette Sezioni Primavera, il nuovo servizio educativo
a carattere sperimentale per la primissima infanzia del MIUR. C’è poi tutto il
ragionamento sull’assistenza a lungo termine ed i bonus sostitutivi del congedo
parentale, previsti nella legge n. 92 del 2012.
Un fatto positivo, frutto dell’impegno soprattutto della CISL, è stato il rifinanziamento del fondo per la non autosufficienza: pare che per il 2014 sia previsto
uno stanziamento di 350 milioni di euro, che sono pochi per il problema della
non autosufficienza in Italia, ma che forse, uniti ai 330 milioni di euro previsti per
la ex convergenza delle cosiddette aree depresse, possono in qualche modo
risolvere il problema, a condizione che questi fondi statali vengano uniti alle
risorse regionali.
Di questa esigenza alcune Regioni hanno preso atto, anche su sollecitazione
della CISL ed in particolare dei Pensionati e della FISASCAT, perché in alcune
Regioni abbiamo partecipato ai tavoli per sostenere questa battaglia ed in effetti molte Regioni hanno previsto l’utilizzo di risorse proprie. Faccio l’esempio
della Puglia, che non ha messo molto, ma comunque ha aggiunto alle risorse
europee e nazionali quelle proprie.
È ovvio che il problema della non autosufficienza in Italia è grave, perché la cura
e l’assistenza di persone non autosufficienti, giovani o anziane che siano, ricade
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
221
sulla famiglia, sulla donna, ed è dunque essenzialmente un problema sociale.
Su questo ragionamento delle Regioni segnalo che in alcune Regioni, tipo la
Lombardia, le Marche, la Toscana e il Veneto, dove si sono fatti accordi importanti in tale senso, sono state avviate campagne di sostegno alla famiglia.
Invece la Regione Puglia ha dedicato a questo proprio una linea di intervento,
denominata Vedo Rosa: sono state impegnate sostanziali risorse per strutture
socio educative, asili nido, strutture per l’infanzia, luoghi di accoglienza. Oltretutto si fa una cosa molto interessante: si è realizzato un partenariato pubblicoprivato, basato su un tavolo regionale di politiche di conciliazione.
Io credo che la bravura delle nostre strutture territoriali dovrà essere quella
di sollecitare le Confederazioni, perché purtroppo a quei tavoli non sempre ci
sono, a far sì che vengano conclusi accordi sindacali. Non basta fare soltanto
il partenariato, ma, se vengono sostenute imprese che ragionano e che mirano
a realizzare asili nido o servizi e prestazioni per l’infanzia, occorre che vengano
fatti i relativi accordi sindacali, altrimenti è ovvio che la Regione mette in piedi
delle iniziative, magari anche in collaborazione con gli enti locali, ma ne restano
fuori le associazioni sindacali.
Noi dobbiamo comunque conoscere tutta questa partita, che è molto importante, perché è di sostegno alla nostra azione contrattuale e ci aiuta sicuramente a
realizzare delle politiche di conciliazione attraverso la contrattazione nazionale,
territoriale ed anche aziendale.
Alcune Regioni prevedono proprio la costituzione di asili nido, oppure, in collaborazione con gli enti locali, di fare convenzioni per utilizzare gli asili nido di
una struttura vicina ad una certa impresa, ad una certa azienda, ad esempio,
vicino ad un grande centro commerciale, dove in via prioritaria possono essere
mandati i figli delle dipendenti e dei dipendenti.
Come nel tempo la contrattazione nazionale ha costruito le politiche di conciliazione attraverso il welfare contrattuale? In primis attraverso la bilateralità e
la costruzione attraverso gli accordi di un welfare contrattuale, che pensi alla
famiglia e alle donne.
CADIPROF prevede una serie di prestazioni e di servizi destinati alle donne ed
ai figli degli iscritti, insomma in generale ai genitori. Fondo EST, che è il fondo
di riferimento del Terziario e del Turismo, eroga assistenza sanitaria integrativa
a quasi 1 milione e mezzo di lavoratori ed ha previsto un pacchetto maternità
che comprende il rimborso integrale delle visite di controllo ostetrico ginecologico, effettuato nel corso della gravidanza, ecografie, analisi cliniche, analisi
chimiche, indagini genetiche, indennità di parto e quant’altro. Questo pacchetto
maternità ammonta a circa € 1000.
Comunque la contrattazione a livello nazionale ha affrontato anche i temi della
flessibilità dell’orario di lavoro, che è legato strettamente alle politiche di conciliazione. Ricordiamo un esperimento, che fu fatto tanti anni fa, perché su questo tema la FISASCAT nazionale è sempre stata molto sensibile, al fine di una
riorganizzazione del lavoro che pensava a realizzare un’impresa conciliante,
ovvero una riorganizzazione che mirasse ad una armonizzazione dei tempi di
vita e dei tempi di lavoro.
222
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
La sperimentazione fu fatta con Coop Nord-Est, che è una cooperativa distributiva, e riguardava la gestione delle casse con le “Isole del tempo”. Ferme
restando le necessità di apertura del negozio, la sperimentazione praticamente
consisteva nell’autogestione delle casse, che veniva fatta in base alle esigenze
delle giovani o delle madri di famiglia.
Qualcuna, per esempio, alla sera andava a ballare in discoteca e alla mattina
non riusciva ad alzarsi presto, per cui le giovani preferivano fare il turno serale,
mentre le madri preferivano fare il turno del mattino, per poter essere a casa
con i figli al pomeriggio.
L’isola del tempo non era nient’altro che la gestione di un orario di lavoro molto
flessibile, che praticamente costituiva una banca delle ore.
La FISASCAT ha impostato poi la questione della flessibilità dell’orario per la
gestione a livello nazionale ed anche a livello territoriale della prestazione lavorativa delle domeniche. A tale proposito abbiamo fatto una battaglia, affinché
l’orario fosse basato sulla formazione, in modo da ottenere un equilibrio perfetto tra i carichi di lavoro.
Una sperimentazione proponeva permessi in alternativa al pagamento del
premio di risultato maturato, per cui il lavoratore o la lavoratrice, in base alle
proprie esigenze personali, poteva optare per la trasformazione del premio in
ore di permesso individuale. Convenzionalmente si è trasformato ogni punto di
efficienza in 12 ore di permesso individuale.
Oppure, ovviamente sempre previa autorizzazione della direzione e compatibilmente con le esigenze di servizio, il premio di risultato può essere computato
in ore di straordinario con i riposi compensativi, cose che i nostri contrattualisti
sul territorio fanno quotidianamente.
In altre aziende è stato sperimentato l’utilizzo di permessi, che trovano applicazione in funzione delle esigenze dell’azienda. In un caso particolare sono
stati sperimentati dei premessi della durata massima di due settimane, legati
alla fase di inserimento dei bambini a scuola nel primo anno delle scuole
elementari.
Poi ci sono i permessi per maternità, di cui si tiene conto fino al 3% della media annua in alcune aziende, con percentuali variabili in più o in meno in altre
aziende, nel valutare le richieste, da parte del personale a tempo indeterminato, di passare al tempo parziale.
I permessi con copertura retributiva per l’assistenza del figlio, in caso di malattia, sono praticamente già previsti dalla normativa, ma in alcuni casi vengono
aumentati anche di 10 giorni, oppure le aziende si assumono l’impegno di avviare la costituzione di un asilo nido aziendale, per il quale c’è la possibilità di
usare risorse pubbliche sia nazionali che provenienti dagli enti locali.
Un’azienda del Veneto si è resa disponibile a mettere a disposizione una somma di 12.500 euro per attività a sostegno della scolarità dei figli dei dipendenti,
in particolare con una borsa di studio, con l’acquisto di materiale didattico e
quant’altro.
Altre aziende concedono permessi per assistenza alle persone bisognose di
cura, oppure fanno ricorso al telelavoro. Oltretutto il telelavoro è normato in
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
223
quasi tutti i contratti nazionali, ma in alcuni contratti aziendali è stato adeguato
alle esigenze locali e può rappresentare un equilibrio perfetto, secondo noi,
delle esigenze tecnico organizzative di funzionalità dell’azienda.
Devo dire che noi abbiamo sperimentato il telelavoro per un certo periodo ed
ha funzionato bene. Abbiamo avuto la possibilità di utilizzare così una nostra dipendente, che ha grandi professionalità: lei voleva rientrare a lavorare e per un
certo periodo di tempo abbiamo realizzato la sperimentazione del telelavoro.
Essa rientrava in FISASCAT una volta alla settimana, secondo le esigenze del
bambino, ma tenendo conto anche delle esigenze della Federazione e devo
dire che la cosa ha funzionato molto bene, che è un ottimo viatico per dare la
possibilità alle famiglie e alle donne di gestire il proprio tempo dopo la nascita
di un bimbo.
Abbiamo poi ottimi esempi di contratti aziendali: il primo è quello di Continental
Italia, che praticamente è stato fatto dalla FISASCAT-CISL di Milano, con la
previsione di voucher spendibili in servizi socioassistenziali, per la formazione
alla genitorialità, il rientro dalla maternità, la gestione del tempo dei collaboratori, il medico in azienda per le pratiche mediche, la prescrizione di ricette e di
visite, il welfare in rete, l’intervento di sostegno al reddito per la quarta settimana, la cura dei figli, il diritto allo studio, il pagamento delle rette dell’asilo e della
scuola, della mensa, dei libri di testo.
Questa è un’ottima sperimentazione fatta al secondo livello, un accordo aziendale nel quale l’azienda ha veramente pensato ad un accordo utile, perché in
questo senso è socialmente responsabile e conciliante.
L’azienda ha posto al centro la famiglia ed il ruolo genitoriale con il reintegro
delle donne nel mercato del lavoro ed ha messo alla prova un’esperienza da vivere insieme. Questa, secondo me, è una delle sperimentazioni che andrebbe
ripetuta, promossa, diffusa, perché tiene conto dell’identificazione dei carichi di
cura e particolarmente di quelli legati alla non autosufficienza, che sono spesso
causa di difficoltà nella conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Altro esempio è il contratto con la Fiera di Milano, realizzato sempre dalla
FISASCAT-CISL di Milano, che comprende tutta una serie di servizi, per cui il
dipendente, attraverso un portale dedicato, ha una quota di benefit, che potrà
scegliere in base alle proprie esigenze familiari e personali con una gestione
automatica del portale stesso, fino ad esaurimento del proprio credito.
Egli ha un credito che può spendere in 12 task di intervento attraverso il portale, in maniera adeguata alle proprie esigenze personali, tenendo conto ovviamente di una organizzazione del lavoro che sia confacente alle esigenze
dell’azienda.
Tra le cose previste abbiamo: l’asilo nido con il rimborso di rette, colonie climatiche, testi scolastici, fringe benefit, prestiti e mutui, fondo pensione, educazione,
ricreazione e si è pensato anche alle esigenze culturali con gli abbonamenti a
teatro.
Un altro accordo fatto da poco ed abbastanza innovativo prevede la possibilità
di utilizzare il congedo parentale ad ore; come già sapete, lo prevede l’articolo
32 del decreto n. 151, poi modificato dalla legge n. 228 ed a seguito della circo-
224
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
lare n. 25 del Ministero del Lavoro. Da questi provvedimenti praticamente sono
stati previsti degli appositi criteri di calcolo sulla base oraria. E credo che questo
sia uno dei punti che rientrerà in quelli affrontati dalla legge delega, che dovrà
essere discussa dal Parlamento.
Sapete che il congedo parentale viene retribuito al 30% e quindi è stato rapportato alla quota oraria contrattuale: in questo caso la quota oraria contrattuale è
di 168 ore, ma in base al contratto può essere anche di 173 ore. Per ogni mese
al genitore saranno riconosciute dunque 168 ore di congedo.
Il periodo viene comunicato al datore di lavoro con apposita richiesta, ovviamente fatta almeno 10 giorni prima, perché questo procedimento necessita di
una riorganizzazione dell’orario di lavoro, che dia la possibilità sia all’azienda
che al lavoratore di utilizzare bene questo accordo.
Viene indicato nella richiesta anche il numero dei mesi da convertire, perché
dei 10 mesi spettanti, il genitore può decidere di riconvertirne solo due, oppure
solo tre, e nella richiesta si indica anche il nesso temporale entro il quale saranno fruite le ore di congedo.
La possibilità di convertire uno o più mesi è ammessa anche a più riprese,
tale soluzione rende più facile la gestione del tempo dopo la nascita dei figli,
ritenendo evidentemente l’azienda che la conciliazione tra lavoro e famiglia sia
un patrimonio comune.
Questi esempi di politiche di conciliazione e di welfare provengono dalla contrattazione aziendale, ma ci sono anche tanti accordi territoriali.
Presso la Coop Lombardia hanno istituito la Commissione Welfare: per la maternità viene previsto un supporto informatico, per facilitare il rientro dalla maternità; viene creato un rapporto molto importante con la lavoratrice, per cui
sono previsti dei supporti per la cura dei figli durante la chiusura delle scuole
per un periodo di quattro settimane. La cura dei figli durante il periodo di chiusura delle scuole è infatti un problema non solo delle donne, ma della famiglia
più in generale.
E poi sono previsti servizi di assistenza domiciliare per la non autosufficienza
parziale o totale dei familiari a carico attraverso un buono per l’utilizzo dell’assistenza a domicilio.
Un altro accordo territoriale è fatto dall’EBT di Milano e si chiama Iniziativa
Buono per Famiglia: è stato firmato un protocollo territoriale di settore con un
tema specifico, che interessa le famiglie, in cui almeno uno dei due genitori
sia dipendente di un’impresa turistica, ovviamente nel territorio di competenza.
Prevede l’erogazione di un buono di € 350 per l’acquisto di beni presso una
rete di negozi convenzionati, come contributo famiglia per le spese che essa
sostiene per l’iscrizione dei figli all’asilo nido o per la scuola. È un importante
esperimento di aiuto individuale attraverso uno strumento bilaterale.
Un altro accordo territoriale riguarda l’EBIcom della Provincia di Treviso: è
l’attuazione, attraverso accordi sindacali anche individuali, di una flessibilità di
orario e di una riorganizzazione del lavoro, al fine di consentire la conciliazione
del lavoro con gli impegni familiari, l’attivazione di un programma di formazione,
qualificazione e riqualificazione al rientro, la concessione di congedi di cura pa-
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
225
rentale e la possibilità, anche per i lavoratori autonomi, di accedere ad un fondo
apposito, per avere un sostituto in caso di assenza per cura parentale.
Si rileva che l’accordo coinvolge ovviamente le istituzioni: questi sono i casi
in cui i Comuni e le Regioni possono davvero esserci di supporto nella nostra
azione contrattuale, perché qui investe la Consigliera di Parità ed ovviamente
anche l’ente bilaterale, che fornisce un valido supporto tecnico, per chi vuole
fare progetti di conciliazione.
Spesso noi abbiamo tante idee, però altrettanto spesso non riusciamo a programmarle adeguatamente ed a realizzarle concretamente, quindi ci serve più
aiuto da questo punto di vista, per creare progetti di conciliazione.
A questo proposito sottolineo l’ottimo lavoro che sta facendo Italia Lavoro, la
quale può essere per noi un valido aiuto. Tenete poi conto del fatto che l’ente
bilaterale fornisce non solo il supporto tecnico, ma fa anche il monitoraggio
dell’iniziativa.
Questi sono alcuni esempi di che cosa si può fare attraverso la contrattazione
nazionale per il welfare contrattuale, mediante la bilateralità e poi attraverso la
contrattazione decentrata, sia con accordi aziendali che con accordi territoriali.
La FISASCAT ha raccolto tutto questo in una guida, una raccolta di norme,
che praticamente diventa uno strumento utile per tutti i contrattualisti, che vi
possono trovare i migliori accordi realizzati. Questa guida non è aggiornata con
gli accordi degli ultimi due anni, ma pensiamo di farne una ristampa, perché in
questi ultimi due anni sul welfare aziendale contrattuale, sia a livello nazionale
che, in particolare, a livello territoriale ed a livello aziendale, sono stati prodotti
degli ottimi accordi, che possono costituire un valido aiuto, per chi si trova ad
affrontare una contrattazione di questo genere.
Importante è che venga pensata un’organizzazione del lavoro che contempli la
flessibilità contrattata, che possa aiutare le donne e gli uomini a svolgere il loro
ruolo di genitori.
La FISASCAT inoltre ha pensato di realizzare una banca dati, in cui stiamo
raccogliendo tutti gli accordi, che sono stati fatti negli ultimi anni, in modo
tale che tutti possano accedere a tutti gli accordi, che abbiamo inserito nella
banca dati.
Se, ad esempio, si vuole realizzare un accordo sulla produttività, si può accedere a questo servizio del sito istituzionale della Federazione e si possono
replicare o modificare gli accordi che sono riportati nella banca dati.
A tale proposito coinvolgeremo anche i tutor regionali. Da qualche anno il Segretario Generale Pierangelo Raineri ha voluto portare sul territorio la figura
del tutor regionale, che abbiamo formato a più riprese, per trasferire a livello
territoriale le esperienze della contrattazione di secondo livello.
Questi esperti possono essere di supporto alle strutture regionali per fare contrattazione decentrata, perché la contrattazione di secondo livello spesso non
è omogenea: in Italia è diffusa a macchia di leopardo, invece bisogna far sì che
la contrattazione, anche a seguito della riforma degli assetti contrattuali, possa
sviluppare un’attività decentrata, che porti a migliorare le condizioni di vita dei
lavoratori nelle aziende e che porti anche reddito ulteriore.
226
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Noi perseguiamo perciò l’obiettivo di dare ai tutor la possibilità di raccogliere
sul territorio tutti gli accordi fatti nella propria Regione e di inserirli nella banca
dati della FISASCAT.
Parallelamente la Confederazione ha fatto un progetto, di cui noi siamo partecipi, anche economicamente, che è una piattaforma informatica: l’Osservatorio
Nazionale della Contrattazione di Secondo Livello, OCSEL, dove praticamente
vengono caricati tutti gli accordi delle Federazioni che fanno parte della CISL.
In particolare noi abbiamo voluto un percorso parallelo, in modo che, nel caricare i nostri dati, automaticamente aggiorniamo i dati del progetto OCSEL.
C’è poi lo strumento di Monitor Bilanci, perché, quando si parla di contrattazione decentrata, diventa importante conoscere il bilancio delle aziende con cui
si va a discutere.
Sia attraverso la banca dati FISASCAT, sia attraverso la guida cartacea vogliamo dare la possibilità di conoscere tutte le norme sul welfare contrattuale,
affinché i nostri contrattualisti possano fare sul territorio sempre più accordi,
che prevedano una riorganizzazione del lavoro basata sulla reciproca solidarietà e sulla sussidiarietà, in maniera che si possano mettere in campo servizi
e prestazioni socio-educative, assistenziali e sanitarie, che riducano i carichi di
cura in favore delle donne che scelgono di continuare a lavorare e quindi al fine
di creare nelle aziende la cultura dell’impresa conciliante.
Questo è il nostro obiettivo e su questo continueremo a lavorare tutti insieme.
Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Già negli interventi di Diana Onder e di Rosetta Raso si faceva riferimento alle
prestazioni di CADIPROF, per cui a questo punto sentiamo direttamente da
Germano Assumma, della Direzione Generale CADIPROF, che ringraziamo,
quali sono le prestazioni sanitarie integrative di CADIPROF a sostegno del welfare contrattuale e quali sono le possibilità concrete che questo organismo offre
rispetto al tema che stiamo trattando. Grazie infinite della sua presenza.
227
Intervento di:
GERMANO ASSUMMA
(Direzione Generale CADIPROF)
228
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Buongiorno a tutti. Nel campo del welfare credo che gli enti di assistenza sanitaria integrativa siano stati un po’ i pionieri e quelli che ora contribuiscono
più attivamente, soprattutto dal punto di vista, in questo caso, della salute del
dipendente.
CADIPROF, operativa dal 1° gennaio 2005, è la Cassa di Assistenza Sanitaria
Integrativa per i Lavoratori degli Studi Professionali, istituita allo scopo di gestire trattamenti di assistenza sanitaria a favore dei lavoratori che, in applicazione
del CCNL Studi Professionali, vengono iscritti alla Cassa.
Le sue attività si inquadrano nel più ampio sistema di welfare contrattuale finalizzato dalle Parti Sociali ad assicurare ai lavoratori degli studi professionali,
oltre che tutele in campo socio-sanitario (CADIPROF), anche la formazione
professionale continua (FONDOPROFESSIONI) e tutti gli interventi a sostegno
dell’attività professionale e del lavoro dipendente, coerenti con le moderne dinamiche del mercato del lavoro (E.BI.PRO.).
CADIPROF Nasce come Associazione nel 2003, costituita dalle Parti Sociali
(Soci Fondatori) in attuazione della normativa stabilita dal Verbale di Accordo
del 24 ottobre 2001, successivamente recepito all’articolo 19 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i Dipendenti degli Studi Professionali, stipulato
dalle parti datoriali – CONFPROFESSIONI, CONFEDERTECNICA e CIPA –
con le rappresentanze sindacali dei lavoratori – FILCAMS-CGIL, FISASCATCISL e UILTUCS-UIL.
Il target di riferimento di CADIPROF, a differenza degli enti che sono stati citati prima, tipo Fondo EST, riguarda l’area economico amministrativa di dottori
commercialisti, esperti contabili, consulenti del lavoro e revisori: ovviamente
stiamo parlando dei dipendenti di questi professionisti; l’area medico sanitaria,
come medici generici e specialisti, odontoiatri, veterinari, psicologi; l’area giuridica con notai ed avvocati; l’area tecnica con ingegneri, architetti, agronomi,
periti tecnici e geologi.
Poi ci sono altre attività professionali ed intellettuali, che inizialmente non erano
state comprese, basti dire che si sono iscritte negli ultimi anni delle palestre,
semplicemente perché al loro interno c’era un medico, che si dedicava alla
riabilitazione.
Veniamo agli studi professionali: per CADIPROF è stato duro penetrare in questo mondo, perché, a differenza del mondo aziendale vero e proprio, gli studi
professionali rappresentavano una nicchia un po’ feudale, se mi passate questo termine. L’ambiente lavorativo era spesso – ed è tutt’oggi – legato un po’
a vecchi schemi, nel senso che c’è un rapporto talmente diretto tra il datore di
lavoro e i dipendenti, da far sentire, più che in altri posti di lavoro, il concetto di
subordinazione rispetto al capo vero e proprio.
C’è una minore sensibilità ai diritti del lavoratore: spesso e volentieri i dipendenti ci raccontano che in alcuni studi ancora volano i portacenere, che i dipendenti
vengono appellati in maniera poco ortodossa e, quando si parla di sindacati, o
quando si parla di una forma di assistenza contrattata, è veramente come parlare dell’anticristo, tanto che si vedono delle reazioni talvolta un po’ violente.
Principalmente al Sud, come poi vedremo nelle statistiche, c’è una conduzione
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
229
familiare: molte volte questi studi sono occupati da figli, nipoti, personale strettamente imparentato con coloro che hanno in mano le redini degli studi stessi.
Un po’ come poteva essere nel resto d’Italia negli anni 50 la piccola impresa,
che poi si è evoluta.
La fonte istitutiva della CADIPROF, come si è detto, è l’articolo 19 del contratto
nazionale degli studi professionali, che prevede l’assistenza sanitaria supplementare per la prima volta dal 2011, allorché essa venne regolamentata, perché prima era sempre un po’ vaga come informazione.
La contribuzione ovviamente riguarda i lavoratori dipendenti assunti con qualsiasi tipologia di contratto, quindi per noi non fa alcuna differenza se sono a
tempo determinato, indeterminato, part-time, full time, ecc. e c’è un obbligo di
iscrizione e versamento a carico del datore di lavoro, con una quota di iscrizione una tantum di € 24 e € 15 al mese per 12 mensilità dal mese di iscrizione
sino al mese di cessazione del rapporto lavorativo.
Io ho raccolto, dai colleghi che si occupano del call center, qualche informazione, che può essere interessante, perché ci sono delle domande che ci vengono rivolte su questi aspetti, per cui ora vi do un quadro di come funziona
CADIPROF e poi vediamo nello specifico questo tipo di funzionamento a quali
problemi può dare origine.
Sempre per quanto riguarda la contribuzione, per i collaboratori e i praticanti,
figure tipiche degli studi professionali, è data la facoltà di iscrizione: non sussiste un obbligo, non essendoci un contratto tutelato, per cui il datore di lavoro è
libero di iscriverli o meno e devo dire che in molti casi c’è questo tipo di sensibilità. Si pagano sempre € 24 di iscrizione una tantum, ma in questo caso sono
€ 90 a semestre anticipati.
La modalità di denuncia e versamento, cosa che riguarda molte casse, è la Uniemens, con il modello F 24, voce Inps, causale ASSP, che è la causale comune
per quanto riguarda molte casse.
Un punto molto importante è l’alternativa all’adesione: se leggiamo quanto stabilito dal contratto nazionale all’articolo 19, vediamo che si parla di obbligatorietà dell’iscrizione alla cassa assistenza integrativa, tuttavia c’è una via di
fuga, che è assai poco conveniente per gli studi e tuttavia sussiste, perché il
legislatore ha dato la possibilità di evitare questo tipo di obbligo.
Con decorrenza ottobre 2011, ovvero con l’ultimo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, è previsto, in alternativa alla CADIPROF, un versamento
integrativo in busta paga di € 22 per 14 mensilità, valido sia per quanto riguarda il TFR, che per i contributi Inps. Con decorrenza settembre 2013, quando
c’è stato l’aumento dei costi delle casse, siamo saliti a € 23 per 14 mensilità,
sempre con le stesse caratteristiche fiscali di cui sopra.
Facendo due calcoli, è evidente che conviene ben poco agli studi professionali
evitare CADIPROF e non tanto per un mero calcolo economico, ma per quanto
risulta implicito sempre da regolamento: allo studio che rinuncia alla CADIPROF,
noi richiediamo una dichiarazione dei dipendenti che sottoscrivono questa rinuncia, perché, essendo un diritto del lavoratore, egli deve essere consapevole
che non viene più assistito da CADIPROF o dalla cassa di riferimento.
230
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Questa è una tutela anche nei confronti dello studio, se vogliamo, ma dall’altro
lato lo studio deve assumersi in solido la copertura assicurativa delle problematiche sanitarie dei dipendenti, senza potersi avvalere di terzi enti assicuratori, cioè non è che il datore di lavoro rinuncia a CADIPROF, sottoscrive con
Assitalia e fa un’assicurazione propria: questa possibilità non è data, ma deve
essere il datore di lavoro a pagare direttamente le spese eventuali e, come si
può ben immaginare, questa cosa terrorizza, soprattutto in un momento di crisi,
il datore di lavoro.
La decorrenza delle prestazioni, il cosiddetto periodo di carenza o stand-by, va
dal primo giorno del quarto mese successivo all’iscrizione; questa è una norma
a tutela degli enti assicuratori: per altre casse, come Fondo EST, sono sei mesi,
mentre nel caso nostro dopo il terzo mese inizia la copertura assicurativa.
Per quanto riguarda il piano sanitario, sorvolando la parte dei singoli rimborsi,
ci si può avvalere di strutture private e pubbliche convenzionate, che sono circa
2.500 in un elenco consultabile su www.cadiprof.it, ma l’aggiornamento più recente può essere trovato anche sul sito di UniSalute, l’assicurazione sanitaria
del Gruppo Unipol, che è il fornitore comune a molte casse, per quanto concerne le coperture assicurative.
Si può ricorrere anche a strutture private e pubbliche non convenzionate a libera scelta dell’iscritto. Questa seconda opzione ovviamente è ancor più sentita
nel caso di aree o zone dove non sono presenti delle strutture convenzionate.
Nelle strutture convenzionate si procede alla prenotazione obbligatoria tramite
la centrale operativa di UniSalute, che abbiamo detto essere l’ente erogante:
essa si trova a Bologna e si contatta tramite un numero verde, oppure tramite
il sito Internet.
Quando un dipendente si iscrive via Internet, ha due possibilità: può aprire un
account su CADIPROF, dove però può consultare soltanto la propria posizione
individuale lavorativa ed una scheda anagrafica; se invece vuole verificare lo
stato dei rimborsi, deve iscriversi su UniSalute. Nel momento stesso in cui il
modulo di UniSalute richiede il codice fiscale del dipendente, automaticamente
egli viene riconosciuto come assistito di CADIPROF e quindi vengono aperte
tutte le cartelle che lo riguardano.
Per le strutture non convenzionate esiste un apposito modulo scaricabile dal
sito, che dovrà essere spedito a seconda di dove si colloca il tipo di pratica.
Viene coperto circa l’85% delle prestazioni sanitarie, con particolare attenzione
a quelle che possono essere le patologie cardiovascolari ed oncologiche, riconosciute un po’ come malattie del secolo. Le analisi e le ricerche aumentano
progressivamente nel caso di questo tipo di patologie.
Da poco sono state introdotte anche le prestazioni odontoiatriche, ancora forse
con una quota contributo quasi irrilevante, considerato quanto costano oggi i
dentisti, però è meglio di niente, soprattutto se qualcuno deve fare degli interventi urgenti, quale potrebbe essere anche una semplice otturazione, che può
creare comunque problemi sensibili nel quotidiano. In questo caso vengono
riconosciuti € 120 all’anno.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
231
La parte che ci interessa di più è il cosiddetto Pacchetto Famiglia: CADIPROF è
stata tra le prime a differenziare il rimborso sanitario in senso generale dal rimborso assistenzialista per le mamme lavoratrici. Una parte di questo rimborso
viene in qualche modo assorbita dall’assistenza sanitaria nazionale, quella che
potremmo definire normale e che non è inerente al Pacchetto Famiglia.
Il Pacchetto prevede un contributo di € 1.000, che viene garantito alle mamme
in un primo periodo della gravidanza. Se consideriamo i costi di tutte le visite, che devono essere fatte nei nove mesi, essi sono forse superiori a questi
€ 1000, ma questo contributo può rappresentare comunque un aiuto, perché
accoglie in modo cumulativo tutta una serie di spese fino ad un totale appunto
di € 1.000.
Questi sono gli obiettivi del Pacchetto Famiglia, che sono attivi dal 2009: innanzitutto il supporto alla famiglia ed alla maternità per gli oltre 2.500 nuovi
nati all’anno, per circa 6.000 bambini potenziali fruitori di asili nido – per cui si
vede che non copriamo soltanto il discorso sanitario, ma cominciamo ad entrare anche nel discorso sociale – per famigliari non autosufficienti con necessità
di assistenza specifica e per i casi di gravi eventi sanitari. E poi c’è il supporto
all’attività lavorativa, per agevolare la conciliazione dei tempi di vita con i tempi
di lavoro e per indennizzare il datore di lavoro.
L’assistenza pediatrica: per ciascun figlio nel primo anno di età sono riconosciuti rimborsi per spese per visite mediche, analisi, prodotti farmaceutici e presidi
sanitari con un massimo erogabile fino a € 250. Anche qui, chi ha dei figli sa
benissimo che non si tratta di una cifra adeguata, sperando che, soprattutto per
quanto riguarda il latte in polvere, i nostri enti governativi decidano di unificare
i prezzi dei prodotti, che in Italia costano € 160 contro i € 16 che si pagano in
Germania.
Recentemente però è stato stabilito di dare una mano anche nel secondo periodo di età del bambino. Ciò è stato fatto con decorrenza 1 marzo 2011.
Inoltre, visto che è un fenomeno sentito e molto più frequente di quanto si possa immaginare, è stata introdotta l’assistenza alla procreazione medicalmente
assistita con rimborsi sino a € 3.600: € 1.200 per tre tentativi, per spese mediche e farmaci.
Le spese pediatriche, mentre prima erano limitate al primo anno di età, adesso
sono aperte anche al secondo e terzo anno di età. I rimborsi arrivano sempre
fino a € 250 nel biennio, ma riguardano le spese mediche, cioè nel secondo
e terzo anno vengono esclusi i pannolini, il cibo e quant’altro possa essere
dedicato alla crescita del bambino. Però, dal punto di vista medico pediatrico,
si è coperti.
Pur considerando che la maggior parte dei dipendenti degli studi professionali
appartiene al genere femminile, finalmente si riconosce il concetto di paternità.
Nel mio caso specifico, io sono un dipendente della CADIPROF e quando mia
moglie è rimasta incinta, è stato riconosciuto a me un contributo, perché la mia
coniuge era in stato interessante.
Alla fine ciò si risolve in un aiuto alla famiglia e fa capire che il progetto non è
indirizzato al singolo elemento della famiglia, ma si estende al bilancio familiare
232
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
complessivo, visto che, come abbiamo appreso in precedenza, c’è questa tendenza a creare famiglie che possono contare su doppie entrate, per cui, quando arriva un figlio e l’entrata rimane una sola, questi si possono rivelare dei
contributi abbastanza importanti.
Sono poi previsti interventi per i grandi eventi di figli sino al 12º anno di età.
Ci sono quindi gli interventi per l’asilo nido, per i quali ritorniamo nell’alveo del
sociale e non in quello del sanitario. Fino al quarto anno di età abbiamo un
rimborso del 20% delle rette pagate per la frequenza ad asili nido pubblici o privati per due annualità di frequenza. Massimale erogabile € 600 per annualità,
elevato a € 800 in caso di bambini portatori di handicap.
Questo è un tipo di contributo che varia secondo l’area territoriale e geografica:
pensate che nella stessa Roma noi abbiamo delle aree nettamente contrastanti, per esempio, ci sono zone in cui abbiamo un’altissima concentrazione
di nomadi, dove le graduatorie per gli asili nido sono completamente azzerate
dalla presenza di queste persone, che, invece di viaggiare, rimangono stanziali
nel territorio e quindi occupano tutti i primi posti di queste graduatorie, per cui
molto spesso delle famiglie, che raggiungono a malapena gli stipendi base,
sono costrette a rivolgersi a strutture private, in modo tale che lavorare diventa
uno svantaggio, se si fa la differenza tra quanto si guadagna nel posto di lavoro
e quanto si spende per mantenere i figli nelle strutture private.
Di contro esistono altri quartieri, come il quartiere dove ha sede la CADIPROF,
il quartiere Eur, che è un quartiere particolarmente dedicato agli uffici, al Terziario, ma in cui ci sono anche bellissime abitazioni, che hanno una situazione ben
diversa. Qui un asilo comunale parte da circa € 350 al mese, la cifra che in altre
zone di Roma si paga per un asilo privato, ed ovviamente l’asilo privato costa €
600 al mese, che in molti casi costituiscono quasi uno stipendio. Questo può in
parte spiegare il fenomeno dell’abbandono dei posti di lavoro in conseguenza
della nascita del primo figlio.
L’andamento delle prestazioni del Pacchetto Famiglia ha risentito molto dell’andamento della crisi: la crisi ha generato infatti il fenomeno per cui molta più
gente si sta interessando a queste forme contributive. Prima pochissima gente
andava a vedere su Internet che cosa era CADIPROF, ora invece non ci arrivano più le telefonate, le quali lamentano di non aver avuto la brochure della
cassa, perché la gente accede al sito di CADIPROF e si scarica tutti i materiali
ivi residenti, per cui spesso ci mettono in difficoltà, visto che i nostri utenti sono
più preparati di noi.
Come dicevamo prima, c’è una differenziazione per quanto riguarda tutte le
prestazioni di carattere sanitario, in cui sono comprese anche le prestazioni
inerenti i nove mesi di gravidanza, che sono fuori dal Pacchetto Famiglia e che
vanno richieste alla sede di UniSalute a Bologna, dove va inviato il modulo
relativo.
Per quanto riguarda il Pacchetto Famiglia, responsabile è la sede di Roma,
dove risiede anche il nostro servizio amministrativo, per cui il modulo va inviato
alla sede di Roma in viale Pasteur.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
233
Per i familiari non autosufficienti è prevista l’erogazione di un assegno di cura a
ristoro delle spese di assistenza specificatamente sostenute, con un massimale rimborsabile di € 1.200 per ciascun anno di copertura del dipendente.
Per quanto riguarda i grandi eventi invece rasentiamo quasi la prestazione fornita da una assicurazione vita.
Il sito Internet si trova all’indirizzo www.cadiprof.it e qui abbiamo cercato di mettere on-line quanti più elementi possibili, soprattutto documentazione, perché
ovviamente non mancano contestazioni, contraddittori, ecc.
Considerate che CADIPROF, da quando è nata, ha cambiato – in parte seguendo il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, in parte per adeguamenti interni – quattro volte il regolamento. Di queste quattro volte, ben tre volte
abbiamo mantenuto più o meno il valore della contribuzione e dell’una tantum,
ma è bastato nel luglio 2008 l’aver cambiato un po’ le carte in tavola, che subito
abbiamo ricevuto un mare di proteste.
AREA AMMINISTRATIVA
AREA PRESTAZIONI
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CONTATTI
DOCUMENTI E MODULISTICA
Cassa di Assistenza Sanitaria Integrativa per i Lavoratori degli Studi Professionali
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Nuovi importi F24!
La Cassa è istituita in applicazione del CCNL degli studi professionali e
gestisce le prestazioni sanitarie integrative a favore dei lavoratori iscritti
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IL
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FA
M
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O
CH
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Tumore al cervello, in arrivo
un vaccino contro il qlioma?
PA
C
Disfunzioni sessuali? il
problema si affronta in due:
arrivano i “pronto soccorso”
per la coppia
LIA
Notizie da Salute24
234
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Dal sito si possono ricavare tutti i documenti cartacei, compresa la guida, dove
si possono trovare tutte le parti sulle quali io ho sorvolato, perché si tratta di
numeri che riguardano nel dettaglio, prestazione per prestazione, i margini di
richiedibilità, i massimali e quanto si può chiedere, sia dal punto di vista della
struttura convenzionata sia dal punto di vista della struttura non convenzionata.
La struttura non convenzionata è leggermente differente, nel senso che corrisponde all’85% di quanto riguarda la struttura convenzionata, quindi spesso e
volentieri si viene incontro in ogni modo agli utenti, ad esempio, richiedendo la
fotocopia o il fax delle ricevute e non gli originali. Questo potrebbe anche favorire l’illegalità, cosa che attiene all’onestà dell’assistito e comunque nell’ultimo
anno noi siamo riusciti a scoprire le ricevute falsificate.
Per quanto riguarda tutti i documenti e la modulistica, si possono scaricare dalla barra in alto a destra, sopra delle improbabili labbra viola: qui si trovano anche i vecchi regolamenti, quelli in corso di validità e la modulistica, che è molto
utile ai consulenti, perché non è solo la modulistica di richiesta, ma è anche la
modulistica con cui i consulenti con gli studi possono iscrivere se stessi, il proprio studio ed i propri dipendenti. Insomma c’è tutta la modulistica che regola i
rapporti tra il datore di lavoro e CADIPROF.
Ci sono delle situazioni assolutamente importanti da rispettare e questo lo dico
ai consulenti: il dipendente va cassato entro 15 giorni dalla data di cessazione,
da questo punto di vista non è valida la comunicazione Uniemens: per la contribuzione va bene, per assunzioni e cessazioni invece no, perché Uniemens e
l’Inps in generale hanno dei tempi di comunicazione anche di tre mesi nei nostri
confronti e questo andrebbe assolutamente a scapito del dipendente.
Considerando poi il periodo, di cui dicevamo prima, cioè lo stand-by, il periodo
di carenza di tre mesi, prima che il dipendente vada sotto copertura, non sussiste alcun obbligo di iscrivere dipendenti a tempo determinato inferiori a tre
mesi, per esempio gli stagionali estivi.
Se voi li iscrivete, automaticamente il sistema assorbe quella posizione e vi
chiede il conto: per la cassa invece non esistono, a meno che lo studio non
intenda per propria volontà, come nel caso dei collaboratori e dei praticanti,
iscriverli. Tuttavia ciò risulterebbe inutile, perché andrebbero a copertura il giorno dopo essere stati licenziati, a meno che essi non fossero riassunti, per cui si
verrebbe a determinare una sorta di continuità del rapporto di lavoro.
Il discorso dei 15 giorni è fondamentale: molto spesso la cessazione dal lavoro
non è bonaria, dietro spesso ci sono delle situazioni particolari di contrasto con
il datore di lavoro, quindi, se il dipendente, che viene licenziato o si licenzia,
non viene comunicato in tempo a CADIPROF, mantiene il suo account, perché noi non possiamo sapere che è cessato, quindi non possiamo togliergli la
password.
In alcuni casi il dipendente, che si è reso conto di questa cosa, ha continuato a
chiedere rimborsi: da quel momento la responsabilità è dello studio, che paga
in solido, per cui si creano delle situazioni assolutamente imbarazzanti e spiacevoli, che è meglio evitare.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
235
I contratti nazionali di lavoro, sia quello vecchio che quello rinnovato, sono riscontrabili nel menù a sinistra della Home Page, dove si possono trovare anche
lo Statuto della CADIPROF, organigramma, link, contatti e quant’altro.
Per quanto riguarda invece l’iscrizione e la richiesta dei rimborsi, quindi mi rivolgo direttamente ai fruitori del servizio, abbiamo i moduli di iscrizione in quella
sorta di banner che si trova nella seconda metà inferiore del sito; qui c’è la varia
collezione dei moduli di rimborso: ce ne sono due principali, con tutta una serie
di sotto moduli.
Poi abbiamo l’area riservata per i lavoratori in cui essi vedono, come si è detto,
solo la loro anagrafica. È meglio che essi si iscrivano subito a UniSalute.
I consulenti e gli studi invece entrano dalla finestra “area riservata datori e
iscrizioni”. Inseriscono partita Iva o codice fiscale e vengono automaticamente riconosciuti come consulenti o studi. Lo studio ha ovviamente accesso alla
propria anagrafica e a quella dei propri dipendenti. Il consulente, che si iscrive
gratuitamente, ha esattamente le funzioni che abbiamo noi, operatori interni:
una volta che si attribuisce i vari studi assistiti, li vede tutti nell’insieme, con
eventuali segnalazioni di allarme per pagamenti ritardati o un rimborso che non
arriva; e soprattutto può gestire con un unico accesso fino a 50 studi, quindi ha
tutte le possibilità di seguire sia le assunzioni sia le cessazioni.
Noi abbiamo messo a disposizione dei consulenti questa formula gratuita, perché essi, per una cassa come la nostra, sono fondamentali.
Una volta, quando un dipendente si iscriveva, noi mandavamo il dépliant con
tutta la modulistica, sia per quanto riguardava il regolamento, sia per quanto
riguardava la richiesta di rimborsi a casa. Ma il dipendente nel frattempo poteva
aver cambiato residenza, o per altri motivi non ricevere la busta, quindi noi ora
mandiamo tutto quanto agli studi, i quali poi ridistribuiscono questa posta.
Qualche lavoratore ci scrive che il proprio datore di lavoro non è iscritto a CADIPROF e chiede se può farlo lui individualmente. A differenza di altre casse, questa opzione per noi non è possibile, perché nel caso di CADIPROF il contraente
è lo studio non il dipendente. Perciò non si possono verificare casi, per cui una
parte dei dipendenti di uno studio è iscritta, mentre un’altra parte non lo è.
Nel caso in cui un rimborso sia stato rifiutato, le cause possono essere molteplici: la mancata congruità di quanto è stato richiesto, oppure una situazione debitoria da parte dello studio. Questa è un’evenienza difficile da trattare,
perché, quando si entra in contatto con lo studio in questione, per lo più non
si parla direttamente con il proprietario dello studio medesimo, ma con un dipendente, al quale non si può dire che lo studio non ha pagato qualche quota
a CADIPROF.
Perciò in questo ambito noi abbiamo più dialogo con i consulenti del lavoro e
passiamo anche mezz’ora al telefono, riguardando pagamento per pagamento,
nel tentativo di capire dove si è verificato l’inghippo. Nel 70% dei casi la cosa
viene risolta a favore dello studio, perché la nostra priorità è che il dipendente
sia coperto, quindi, se lo studio in questo caso ha pagato, ma si è dimenticato di
cessare un dipendente entro i famosi 15 giorni ed ovviamente il dipendente non
ne ha approfittato per chiedere qualche rimborso, cerchiamo semplicemente
236
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
di retrodatare la comunicazione, riportando il saldo a zero. Infatti il sistema in
automatico, superati i € 400 di debito da parte dello studio, sospende i rimborsi
e li congela.
Il dipendente può consultare la propria posizione ed accorgersi di essere stato
iscritto, ma di non essere ancora coperto: in questo caso siamo semplicemente
nel periodo di stand-by, i tre mesi iniziali, che comunque vengono riguadagnarti
all’atto della cessazione del dipendente, il quale si trova tre mesi di copertura
oltre il momento in cui ha lasciato il posto di lavoro.
Lo studio si può iscrivere attraverso una modulistica scaricabile dal sito, ma
se uno studio telefona, io gli chiedo l’indirizzo e-mail e gli mando direttamente
il modulo, che è composto di due pagine, la prima riporta in alto l’indicazione
del datore di lavoro e nella parte inferiore quella del consulente di riferimento,
quello che figura negli F 24, mentre la pagina successiva è per i dipendenti.
Questo vuol dire che la cosa si può fare in due tempi: prima si iscrive lo studio
e poi magari, con decorrenza dal mese successivo, si iscrivono i dipendenti,
mandando soltanto la seconda pagina del modulo.
Devono essere segnalati tutti i dipendenti con l’eccezione di collaboratori e
praticanti, la cui iscrizione è a discrezione del datore di lavoro, mentre – come
ho già detto – suggerisco di non iscrivere i dipendenti a tempo determinato
inferiore a tre mesi.
Il contributo CADIPROF, come si è visto, è di € 15. Per una questione logistica
sul codice ASSP dell’F 24 transita un altro ente, che è l’ente bilaterale studi professionali, la cui quota è quattro euro, che vengono pagati sull’F 24 dal datore
di lavoro, ma poi il datore di lavoro ritira il 50%, cioè due euro, dalla busta paga
del dipendente.
Spesso e volentieri il consulente, soprattutto se eredita lo studio da un altro
consulente, dichiara di versare a CADIPROF € 19, i titolari pagano € 19 e
coprono entrambi gli enti, ma quando poi vanno a verificare la loro posizione,
ritengono di aver versato di più, per cui occorre spiegare loro che sussiste questa separazione tra i due enti e talvolta occorre tornare indietro di due o tre anni
con la separazione, per far capire loro come mai la contribuzione è divergente
rispetto alle aspettative.
L’una tantum di € 24 va versata al momento dell’iscrizione del dipendente; per
favorire i passaggi diretti o le trasformazioni degli studi, se il dipendente cessa
e viene riassunto entro 15 giorni, noi operatori possiamo eventualmente allargare sino a 30 giorni l’una tantum non dovuta, ma, superato questo periodo, è
richiesta una nuova iscrizione.
Ricordiamo che nella maggior parte dei casi il contraente con CADIPROF è
lo studio, non il dipendente, per cui se cambia il codice fiscale, o la partita
Iva, o la matricola Inps dello studio, per noi è una nuova iscrizione a tutti gli
effetti, dato che l’iscrizione è sempre a carico dello studio che iscrive il singolo
dipendente.
A maggio 2014 vantiamo l’adesione di 96.310 studi e 339.348 dipendenti: Fondo EST, che si rivolge ad un mondo aziendale commerciale, ne ha molti di
più, ma noi, che operiamo nel campo degli studi privati, che costituiscono una
nicchia, possiamo dire che si tratta di percentuali interessanti.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
237
Ce ne rendiamo conto perché, quando andiamo ad inserire il codice fiscale di
un dipendente, che viene assunto da uno studio, lo troviamo sempre più spesso nella banca dati, il che significa che questi dipendenti passano da uno studio
all’altro e sono già iscritti da tempo a CADIPROF.
L’esigenza della copertura sanitaria e dei diritti del lavoratore viene sentita più
nelle Regioni del Nord che in quelle del Sud. E non è soltanto un discorso
di mentalità, ma è un discorso di composizione degli studi, che in Meridione,
come detto, sono spesso e volentieri studi di famiglia.
Abbiamo l’89% di donne impiegate negli studi professionali nei ruoli di segretaria, assistente alla poltrona, e quant’altro: ma vi posso dire che ora stiamo
andando in controtendenza, perché si sta allargando la componente maschile,
vista la carenza di posti di lavoro, per cui oggi molti uomini decidono di fare il
segretario senza alcun problema. Oltre il 99% dei nostri iscritti si colloca nella
fascia di età che va dai 30 ai 39 anni.
Le prestazioni nell’ambito sanitario sono cresciute dall’inizio del 2010 in conseguenza della crisi, che è stata avvertita maggiormente nel Nord Italia e recentemente ha raggiunto Roma, che è la capitale del Terziario e quindi poteva
in qualche modo filtrare la crisi, la quale invece è arrivata anche qui, come
dimostra l’improvvisa ascesa del dato relativo.
Io ho concluso: vi ringrazio dell’attenzione, spero di avervi dato un’infarinatura
generale e, se ci sono delle domande, sono a vostra disposizione.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Ringraziamo Germano Assumma e diamo la parola ai partecipanti al seminario
per le richieste di chiarimento.
CARMELA TARANTINI
(Segretario Generale FISASCAT-CISL Lecce)
Lo studio può iscrivere a CADIPROF il suo dipendente, oppure corrispondergli
una certa somma in busta paga. Io ritengo che questa opzione sia anomala,
perché i vantaggi dell’iscrizione alla cassa sono ben maggiori della somma in
denaro che viene corrisposta in alternativa. Grazie.
MAURIZIA RIZZO
(Segretario Regionale FISASCAT-CISL Veneto)
Noi sappiamo che i consulenti del lavoro, i quali sono coloro che realizzano effettivamente le buste paga, sono presi di mira più di altri professionisti. Ma noi,
che viviamo il confronto anche con tutti gli altri professionisti, in particolare con
238
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
gli avvocati, con i notai, con gli architetti, con i dentisti possiamo dire che essi
non applicano integralmente i contratti e che la quota dovuta per l’assistenza
sanitaria integrativa non va a finire in busta paga.
Noi sappiamo che i consulenti del lavoro non possono imporre di fatto l’applicazione del contratto, perché questo obbligo nel nostro ordinamento non sussiste
e questo è il vero problema.
Ieri e oggi abbiamo fatto moltissime riflessioni su come si deve educare un
sistema, per realizzare nel concreto i valori che sinora sono stati solamente
messi sulla carta. Ma, per l’applicazione delle norme principali dei contratti di
primo livello, che ovviamente viene prima del secondo, noi dobbiamo educare
il sistema degli studi professionali ad applicare il contratto collettivo nazionale
di lavoro nella sua forma integrale.
In seguito alla crisi io ed i colleghi abbiamo sottoscritto tantissime casse integrazione in deroga a professionisti, perché quello è l’unico strumento a loro
disposizione, ed in quelle circostanze ci siamo accorti che purtroppo questo
mondo è pieno di furbacchioni.
Infatti in questo caso non siamo di fronte all’artigiano di 20-30 anni fa, il quale
non conosceva le leggi e si affidava all’associazione datoriale: siamo di fronte
ad una categoria che ha deciso volutamente di non applicare il contratto collettivo nazionale.
È altrettanto vero poi che nel 2014 ci sono ancora dei pregiudizi antisindacali,
pregiudizi ad applicare delle regole che dovrebbero essere indiscutibili: secondo il mio parere, in casa di questi professionisti i consulenti del lavoro dovrebbero ricordar loro quali sono queste regole.
Nel caso della cassa integrazione per grossi studi a me è capitato che sottobanco il titolare minacciasse alcune delle sue dipendenti, soprattutto quelle con
maggiore anzianità, quelle con figli a carico, quelle vedove e alla fine le mandasse a casa, perché avevano osato reclamare i propri diritti.
Evidentemente in alcuni studi professionali vige ancora la necessità di discutere certe partite a quattr’occhi, perché le imprese in questo caso di sicuro non
sono socialmente responsabili.
Ecco perché mi rivolgo a voi consulenti, che rappresentate il mondo delle imprese, affinché ci aiutiate a convincere gli studi, di cui realizzate le buste paga,
a seguire le regole del contratto, perché questo è un comparto che ha ancora
margini di crescita, ma, se non applica il contratto, si vengono a creare delle
situazioni antieconomiche, che non fanno crescere il Pil quanto in realtà esso
potrebbe. Grazie.
MAURIZIO BUONOCORE
(Consulente del Lavoro Napoli)
Sarebbe interessante sapere i dati statistici di composizione della platea. Sapete
bene che nel mondo della gestione delle risorse umane non operano solo i consulenti del lavoro, ma ci sono anche le altre categorie previste dalla legge n. 12.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
239
A noi interesserebbe sapere, proprio per dare una risposta concreta all’esigenza sollevata da Maurizia Rizzo, quanto di questo mondo è riferibile a noi e
quanto invece alle altre categorie.
Noi sicuramente abbiamo una sensibilità diversa: preciso, proprio per sgombrare il campo da possibili equivoci, che tutte le mie aziende sono iscritte a tutti i
sistemi bilaterali di qualsiasi ordine e grado essi siano; questa è una pregiudiziale che io pongo subito alla mia clientela e quindi costituisce un metodo per
il mio studio.
Naturalmente anche la mia dipendente ha potuto usufruire delle ottime prestazioni della CADIPROF, quando è stata in maternità, perciò, date le mie convinzioni, mi interesserebbe sapere il dato di cui sopra, per poter intervenire in
maniera più precisa e puntuale. Grazie.
ROBERTO SARTORE
(Consulente del Lavoro Venezia)
Come ho detto al Consiglio Nazionale, io ritengo che noi consulenti dobbiamo
guardare al nostro interno. Giustamente Maurizia Rizzo ci ricordava che ci sono
degli studi, i quali fanno concorrenza sleale proprio su queste cose. Ma quello
che mi ha fatto più male sono proprio gli interventi di una parte “illuminata” della
nostra categoria, la componente lombarda, quando è intervenuta l’ultima volta
nel nostro Consiglio Nazionale, perché ha dimostrato di non aver ancora colto
la vera essenza della bilateralità.
Purtroppo abbiamo ancora molta strada da fare, i numeri che abbiamo evidenziato la volta scorsa ce lo dimostrano ed io mi auguro che la parte davvero
illuminata della nostra categoria sia trascinante e permetta di colmare i vuoti
che ancora sussistono. Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Noi ieri nel dibattito acceso e sentito rispetto alla questione dei fondi che si
è sviluppato, abbiamo evidenziato la volontà di una platea di lavoratori, che
sempre più oggi si avvicinano ai fondi previdenziali e comunque alla bilateralità. Il problema è che purtroppo noi abbiamo tante regole, le quali tuttavia non
vengono rispettate e l’indisciplina è totale.
È vero che i fondi sono tanti, per cui noi abbiamo espresso il desiderio che si
realizzi un’economia di scala, capace di aggregare questi fondi, il che significherebbe applicare delle regole più generali.
Io sono sicuro che Maurizia Rizzo non voleva provocare, ma testimoniare delle
realtà, che purtroppo viviamo in tutti i territori, considerato che ci sono anche
dei lavoratori che versano ed alla fine una pirateria occulta dirige quei versamenti altrove. Ecco perché anche a me pare opportuno un monitoraggio molto
attento di queste vicende. Grazie.
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
GERMANO ASSUMMA
(Direzione Generale CADIPROF)
Io sono laureato in Giurisprudenza, ma non sono avvocato. Posso assicurare
che ci sono degli avvocati che non sanno che cosa è un abigeato, che è una
cosa che si insegna al primo anno di Giurisprudenza: è vero dunque che ci
sono dei casi, i quali poi si riallacciano a quanto è stato detto adesso, di persone che si qualificano come consulenti del lavoro, ma sono commercialisti
riciclati alla consulenza del lavoro.
Io sono stato diretto testimone di una conversazione, che non aveva capo né
coda proprio per mancanza di conoscenza. Noi come CADIPROF abbiamo
chiamato un consulente, che ci appariva molto qualificato, perché titolare di
uno studio molto grande: l’unico problema era che sino ad allora aveva assistito soltanto aziende e si trovava per la prima volta ad assistere degli studi
professionali.
Io posso assicurare che ci sono stati 20 minuti di conversazione assurda,
al termine dei quali ci siamo fermati, perché abbiamo capito che loro erano
convinti di parlare con la Cassa di Risparmio di Parma! Noi siamo rimasti
basiti di fronte a questa cosa, eppure loro non avevano mai sentito parlare di
CADIPROF.
Io credo che ciò accada in ogni categoria, soprattutto se inflazionata da figure
professionali che poco hanno a che fare con questa materia. Sono stati citati i
commercialisti, ma poi ci sono anche i ragionieri ed altre categorie consimili.
All’inizio ho ricordato che a CADIPROF si iscrivono delle palestre, registrate
come studi medici, e quindi è chiaro che un certo margine di ignoranza in
materia sussiste.
Ricordo che l’eventualità del versamento in busta paga su 14 mensilità è possibile soltanto a fronte del fatto che lo studio assolva a tutte le spese sanitarie
dei dipendenti.
Purtroppo alla prima proposta dell’ex ministro Sacconi è stato applicato il concetto del tutto italiano – e mi riallaccio al discorso dell’indisciplina, che naturalmente non riguarda solo questo settore – di “un colpo al cerchio e un colpo
alla botte”, per cercare di far digerire questa obbligatorietà, per cui il meccanismo è stato reso obbligatorio nella pratica mediante la non convenienza
dell’applicazione di una soluzione alternativa.
Mi sento di criticare forse quei dipendenti, per lo più molto giovani, che si fanno prendere dalla smania di avere qualche soldo in più in busta paga e che
rinunciano di propria mano, o inducono lo studio a rinunciare, all’assistenza
sanitaria integrativa, per avere due spiccioli e poi devono prendere atto del
fatto che lo studio non paga le loro spese sanitarie.
Io credo che sia molto importante puntare sull’informazione, per cui sia i
datori di lavoro che i lavoratori devono essere molto ben ragguagliati sia
sui loro doveri sia sui loro diritti, la cui osservanza alla fine va a favore di
entrambi.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
241
PAOLA DIANA ONDER
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL-Su)
Io qui come dirigente nazionale ovviamente rappresento tutta la categoria, rappresento i consulenti del lavoro che aderiscono al sistema della bilateralità di
Confprofessioni, i quali applicano il nostro contratto nazionale, ma rappresento
anche quei consulenti del lavoro, a cui viene l’orticaria quando sentono parlare di bilateralità. Cercherò di essere equilibrata in questo, anche se credo sia
abbastanza chiaro e comprensibile che l’orientamento mio personale è verso il
sistema della bilateralità, perché non si può assolutamente sottendere che è il
futuro del nostro sistema.
Sempre più il welfare statale dimostra la propria incapacità di intervenire per
tutta una serie di motivazioni storiche, che si sono evolute nel tempo e che
lo hanno impoverito, per cui sempre più ci sarà la sostituzione con il welfare
aziendale e chi si oppone a questa considerazione generale di principio, non
vuole prendere atto della realtà e soprattutto di quello che sarà il futuro del
mercato nel quale noi operiamo. In generale la bilateralità va colta, va vista e
possibilmente, come diciamo spesso noi al nostro interno, va cavalcata.
Va detto poi che comunque le categorie professionali, come ha sottolineato il
collega Buonocore, sono diversificate, quindi non vanno addebitate ai consulenti del lavoro tutte le responsabilità per le mancate adesioni, ma sicuramente
è il consulente del lavoro che, se provvede alla gestione delle buste paga di altri
studi professionali, può fare cultura, dato che ciascuno è orientato a portare il
proprio indirizzo ed il proprio orientamento in ciò che fa.
Noi siamo qui con questi seminari perché siamo partiti dalla bilateralità: nel
2010 abbiamo organizzato un convegno, Roberto Sartore ed io, a Mogliano
Veneto, in cui, stanchi di sentire questa contrapposizione interna di principi,
abbiamo voluto mettere i consulenti del lavoro dissenzienti a confronto con il
sistema della bilateralità.
Allora avevamo al Governo Sacconi e quindi il professor Tiraboschi, che è intervenuto sull’argomento presso consulenti del lavoro, parti sociali ed organismi
bilaterali. Perciò anche noi abbiamo voluto mettere a confronto con queste controparti proprio i consulenti del lavoro, che non volevano applicare la bilateralità, perché la vivevano come un’imposizione.
Essi dicevano e dicono: “Noi siamo soggetti liberi, quindi dobbiamo decidere
autonomamente, non deve essere un soggetto terzo, le parti sociali, che ci impone se aderire o meno a questa parte della contrattazione collettiva”.
A questo proposito però ci soccorre il professor Lai, nel momento in cui parla
di bilateralità, affronta in maniera approfondita il diritto del lavoro e ci dice che,
quando noi andiamo ad applicare un contratto, lo dobbiamo applicare, per un
principio consolidato del diritto del lavoro, in tutta la sua interezza, perché una
clausola è collegata all’altra.
All’interno della nostra categoria comunque permane una buona fetta di colleghi, responsabili di organismi scientifici, che non la pensa così ed è chiaro che
essi sono portatori di una mentalità diversa.
242
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Se noi ci dobbiamo confrontare con la Fondazione Studi e con i pareri emessi
dal Ministero del Lavoro, è chiaro dunque che questo principio consolidato del
diritto del lavoro risulta difficile da applicare, perché sembra che il sindacato
dei consulenti del lavoro, che tutela i diritti dei propri iscritti, sia invece quello
che non li sta tutelando.
Bisogna stabilire fino a che punto i consulenti del lavoro, o comunque i tecnici
giuslavoristi, soggetti terzi esperti in materia del lavoro, hanno ragione a dire
che il sistema della bilateralità rientra nella parte obbligatoria delle norme e
quindi vincola solamente le parti che hanno sottoscritto il contratto. Molti infatti non aderiscono ad ANCL e quindi non aderiscono a Confprofessioni, per
cui si ritengono liberi di non applicare il sistema della bilateralità e così poi si
esprimono con i loro clienti professionisti, titolari di studi professionali.
Al nostro interno noi ci stiamo confrontando su questo in maniera accesa
e questo è un dato di fatto. Però bisogna anche – e lo dico come principio
di deontologia professionale – che il consulente del lavoro sappia che, nel
momento in cui va a dare un orientamento, non c’è interpello che tenga, perché sappiamo quale valenza abbia davanti ad un giudice l’interpello; non c’è
orientamento della Fondazione Studi, piuttosto che quello del Centro Studi,
che tenga, perché comunque davanti ad un giudice valgono i principi del Diritto. Quindi il consulente si assumerà di fronte al cliente la responsabilità di
averlo orientato in un modo piuttosto che in un altro.
Perciò torniamo a quello – e qui do ragione a Maurizia Rizzo – che dicevamo
stamattina, ovvero che bisogna fare cultura, eliminando gli appigli personali,
i principi personali, il voler affermare assolutamente qualcosa a livello personale, andando a gestire delle posizioni che però non sono personali, ma
appartengono ad altri.
Vi ho rappresentato le ragioni di una parte e dell’altra, i motivi per cui alcuni
studi non aderiscono, al di là di quelle che possono essere poi le soluzioni
prospettate ad alcuni dipendenti o perché sono studi, come diceva il Dottor
Assumma, gestiti a livello familiare, che prendono strade diverse.
Noi dobbiamo riflettere, confrontarci, decidere al nostro interno come muoverci, perché il consulente del lavoro ha un ruolo duplice, ha anche quello di
professionista al servizio di terzi e si deve assumere deontologicamente la
responsabilità di quello che ha contribuito a far scegliere.
Se tuttavia lo studio viene gestito da altri professionisti, è chiaro che noi non
possiamo assolutamente entrare nel merito: in quel caso bisogna vedere effettivamente quanto gli altri attori conoscono la normativa.
Ma se stiamo ancora parlando con alcune categorie professionali, per quanto riguarda Fondoprofessioni, di costi, quando in realtà si tratta solo di uno
spostamento di risorse, è evidente che su certe tematiche, che riguardano la
bilateralità, bisogna fare ancora molta strada: raccogliamo tutte le criticità, ma
gestiamole ad ogni livello.
Grazie.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
243
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Fermo restando che questo tema della bilateralità è un tema trasversale, che
ha accompagnato già le edizioni precedenti di questi seminari congiunti FISASCAT-ANCL, vediamo se ci sono altri interventi relativi al tema specifico di oggi.
Prego.
LEONARDO BERTOLDI
(Consulente del Lavoro Verona)
A me è capitato che in uno studio professionale consistente con più di 10 dipendenti, tra cui ovviamente c’è sempre qualcuno che è più sindacalizzato degli
altri, quando è nata CADIPROF, le impiegate si siano attivate per aderirvi ed io
mi sono detto d’accordo ad attivare la cassa.
Preciso che né il datore di lavoro né le impiegate erano iscritti ad alcun sindacato di categoria: quando hanno sentito che c’era l’obbligo di iscrizione all’ente
bilaterale, che è il punto dolente, hanno rinunciato in blocco ad iscriversi ed io
ho dovuto prenderne atto, perché di più non potevo fare, in quanto non posso
obbligare il mio cliente ad iscriversi, tanto più in considerazione del fatto che
non è iscritto ad alcuna associazione di categoria. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Andiamo ora verso le conclusioni. Diamo la parola a Giuseppe Gallo, direttore
del Centro Studi CISL di Firenze. Al suo intervento seguiranno quelli di Diana
Onder, che porterà il saluto del presidente nazionale di ANCL, Francesco Longobardi, e quello di Rosetta Raso, la quale interverrà in sostituzione di Giovanni
Pirulli, Segretario Generale Aggiunto della FISASCAT-CISL, il quale non ha
potuto partecipare ai nostri lavori per sopraggiunti impegni di contrattazione.
Prego.
244
S E RV I Z I O F F E R T I
Assistenza in campo pensionistico Tutela in campo infortunistico
PRIVATO e PUBBLICO domande di: denuncia di:
• Pensione di Invalidità e di • Infortuni sul lavoro
Inabilità
• Malattie professionali
• Pensione di Vecchiaia ed
• Cause di servizio per pubblici
Anzianità
dipendenti
• Pensioni di reversibilità
• Consulenza Medico Legale
Verifica e rettifica delle posizioni contributive Prestazioni socio - assistenziali
Domande di:
Domande di:
• Sistemazione estratti contributivi INPS ed
INPDAP
• Accredito maternità e servizio militare
• Richiesta estratti certificativi INPS
• Ricongiunzioni e Riscatti contributivi
• Invalidità civile
• Indennità di accompagnamento
• Benefici L.104/92
Sempre al tuo servizio
………Gratuitamente
per conoscere gli indirizzi
e i numeri telefonici
delle nostre sedi
800 24 93 07
245
Intervento di:
Giuseppe Gallo
(Direttore Centro Studi CISL Firenze)
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Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Mi fa particolarmente piacere che continui il percorso FISASCAT-ANCL, per noi
un percorso di grande interesse, di grande qualità, perché appartiene all’ispirazione originaria della CISL. Noi infatti nasciamo con una fortissima ispirazione
partecipativa e la bilateralità appartiene proprio strutturalmente alla nostra ispirazione partecipativa.
Quando nel 1950 nasce la CISL, contestualmente nasce il Centro Studi, perché
noi dovevamo demarcare rigorosamente la nostra identità in divergenza dalla
tradizione di un sindacato che veniva dalla Terza Internazionale e che aveva
la funzione di massa del partito rivoluzionario, il quale aveva il primato nella
definizione degli obiettivi strategici.
Noi nasciamo proprio in contrasto con questa cultura e rivendichiamo l’autonomia di un sindacato, che prende il mandato dei singoli lavoratori e soltanto ad
essi risponde, per cui era necessaria un’istituzione di ricerca e di fondazione
rigorosa e determinata, perché dovevamo avere un gruppo dirigente capace di
reggere lo scontro con quella cultura allora egemone.
Quella della CISL è stata una scommessa in qualche modo titanica e temeraria:
per fortuna ha avuto poi successo, ma nel momento in cui la CISL nasceva noi
avevamo la necessità assoluta di dotarci di queste funzioni.
Pensate che agli inizi degli anni 50 la cultura della CISL scommise immediatamente su un’Italia manifatturiera, mentre l’Italia era ancora distrutta dal secondo conflitto mondiale ed era prevalentemente agricola.
Nel momento in cui fa questa scommessa, la CISL, in un famoso convegno a
Ladispoli del 1953, dichiara immediatamente che la scommessa sullo sviluppo
industriale deve incorporare la partecipazione, per cui propone i comitati misti
per la produttività, enti bilaterali che avrebbero dovuto negoziare l’organizzazione del lavoro, condividere le procedure e i modi per aumentare produttività e
competitività ed anche i criteri di equità, attraverso i quali distribuire i guadagni
della produttività. Quindi noi nasciamo con una proposta immediata di gestione
bilaterale della scommessa industriale.
All’inizio degli anni 50 depositiamo in Parlamento la prima proposta di legge
sull’azionariato diffuso, che avrebbe dovuto consentire, attraverso il possesso
azionario, ai rappresentanti dei lavoratori di sedere nei consigli di amministrazione e quindi partecipare alle scelte strategiche delle imprese.
Queste due grandi coordinate, da un lato la democrazia economica con la partecipazione alla proprietà e quindi alla gestione, dall’altro la democrazia industriale, ovvero la gestione bilaterale dei fatti fondamentali della produzione, per
la CISL rappresentano la via d’uscita dalla lotta di classe. Questa è l’alternativa
partecipativa alla lotta di classe e si pone alle radici della CISL, quindi a me fa
piacere che questa cultura, sia diventata dominante.
La CISL ha segnato la storia del nostro Paese al di là di chi si ostina costantemente a non riconoscerlo, ma questa visione esprime una concezione piena
della democrazia: Pastore era convinto che la democrazia rappresentativa fosse insufficiente, infatti parlava di democrazia sostanziale.
La democrazia rappresentativa diventa democrazia sostanziale, quando riceve il contributo delle grandi organizzazioni che rappresentano la società civile.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
247
Quando il Governo eletto coinvolge le grandi associazioni rappresentative ed
incorpora nella politica governativa anche il contributo della società civile attraverso quelle organizzazioni, la democrazia rappresentativa diventa democrazia
sostanziale. Questa è la più grande mediazione del pensiero politico occidentale tra la democrazia diretta e la democrazia rappresentativa.
La democrazia diretta si faceva nell’Atene di Pericle nel quinto secolo avanti
Cristo: ci si riuniva nell’agorà, c’erano solo gli ateniesi doc, erano esclusi sia
i barbari che le donne e c’era una sola mission, quella di partecipare alla vita
politica della polis. Per questo l’opera principale di Platone è la Repubblica.
Oppure si faceva democrazia diretta nella Ginevra di Jean Jacques Rousseau,
ma, al di là di queste dimensioni, la democrazia diretta non si può fare, si può
fare solo la democrazia rappresentativa: l’innesto dei grandi corpi intermedi sul
Governo rappresentativo è la più grande mediazione tra la democrazia diretta,
divenuta ormai impossibile da applicare, e la democrazia rappresentativa. Questo concetto appartiene soltanto alla CISL.
I tre populismi che attualmente occupano la scena politica italiana, quello di
Berlusconi, quello di Grillo e quello di Renzi, tutti e tre in modi diversi, dalle forme più radicali a quelle più blande, sono incompatibili con la nostra concezione
di democrazia partecipativa, la democrazia sostanziale di Pastore e Romani.
Io resto fedele alla nostra visione, la quale è immensamente più ampia, più
ricca, più piena, più vera di questo rapporto solitario del leader in presa diretta
e viscerale sul suo popolo, che non tollera l’interposizione di corpi intermedi.
Renzi pretende il dividendo della concessione degli € 80 ad una fascia dei
lavoratori italiani, senza considerare che non li prendono i pensionati, non li
prendono gli incapienti. Certo, se ci fosse stata una mediazione e se ci fosse
stato l’ascolto dei corpi intermedi, se ci fosse stata una sintesi, questo denaro
avrebbe prodotto degli effetti più positivi.
C’è poi una visione molto impoverita della democrazia italiana, che incorpora
enzimi tendenzialmente autoritari: Berlusconi arriva alle estremizzazioni, perché egli, essendo legittimato dal mandato popolare, addirittura si ritiene legibus
solutus: qualunque iniziativa della magistratura attenta all’investitura diretta del
popolo, che in qualche modo lo svincola addirittura dal rispetto della legge.
Grillo ha depositato il brand Cinque Stelle come marchio di fabbrica, per cui è
ovvio che si tratta di uno stalinista post moderno e chi non è d’accordo, avendo
lui depositato il marchio del partito, lo espelle dal medesimo: questo è il compendio della sua concezione della democrazia. E poi si fa guidare da Casalegno, il guru semi allucinatorio, che fa previsioni alla Nostradamus e che non
ha mai dato ad una società terza la gestione delle primarie sul Web. Bastano
questi elementi, per far capire chi è l’uomo.
Sono tre populismi che con varianti e gradienti diversi certamente con la democrazia hanno poco a che spartire e soprattutto con una democrazia partecipativa sostanziale come la nostra.
Il tempo è galantuomo e ci darà ragione: questa concezione va tenuta ferma
con grande rigore e va testimoniata. Abbiamo di fronte delle esperienze politiche con il fiato corto: quella di Berlusconi si è già conclusa, Renzi rappresenta
il contrappasso infernale di Berlusconi, di Grillo si è detto.
248
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Tutto questo per dirvi ancora una volta che la visione della bilateralità appartiene alla nostra concezione della democrazia ed è una visione bellissima.
Io ho fatto più di trent’anni di contrattazione e la bilateralità nella storia contrattuale delle banche e delle assicurazioni ha avuto un ruolo importantissimo. Noi
costruimmo un ente bilaterale che ci aiutava a leggere il contesto, quindi, prima
di ogni rinnovo contrattuale, l’ente bilaterale realizzava convergenze di analisi
e di priorità strategiche.
Faccio un esempio: nel 1999 noi ci rendemmo conto che la concentrazione
delle banche produceva un’eccedenza di personale, perché era in corso il più
grande processo di ristrutturazione del sistema dagli anni 30 in poi. Noi condividemmo l’idea di non fare alcun licenziamento nel settore, per cui costituimmo
l’ente bilaterale, il fondo di solidarietà, col contributo di aziende e lavoratori,
senza pesare sul bilancio pubblico, che ha prepensionato dal 2000 ad oggi
53.000 bancari e bancarie su base volontaria a carico nostro.
Poi nel 2010 abbiamo fatto un fondo che paga, oltre alla cassa integrazione e
la riconversione, anche la disoccupazione, perché abbiamo avuto fenomeni di
aziende bancarie e parabancarie giovani in crisi, per cui il fondo si è arricchito
della sezione emergenziale, che per due anni paga la disoccupazione all’80%
dell’ultimo stipendio.
I lavoratori vanno in carico ad un altro ente bilaterale, il Fondo Banche e Assicurazioni, che li riconverte, li riqualifica e poi li consegna ad una società di
outplacement che li ricolloca sul mercato del lavoro.
L’ultimo contratto che ho firmato io, il 19 gennaio 2012, comprende il fondo
per la creazione occupazionale: le parti hanno condiviso che il problema del
settore è l’occupazione giovanile ed abbiamo perciò costituito questo fondo,
che crea occupazione, con una giornata di solidarietà, che versano tutti i bancari, compreso il top management, il quale aggiunge anche il 4% della propria
retribuzione.
Così accantoniamo circa 25 milioni di euro all’anno e con questo fondo paghiamo per quattro anni tutti i contributi alle banche che assumono a tempo indeterminato o trasformano i tempi determinati in tempi indeterminati, che assumono
cassintegrati, disoccupati.
Se assumono al Sud, o assumono disabili, oltre ai quattro anni di contributi, ricevono il 20% di quanto dovuto ai lavoratori: questi sono i frutti della
bilateralità.
Questa dialettica estremamente feconda tra contrattazione e bilateralità per me
è decisiva: la mia storia contrattuale è tutta qui dentro ed è una storia contrattuale alla quale io sono estremamente affezionato, che credo possa aver avuto
un senso e che possa addirittura delineare un’opzione di futuro.
È un’esperienza di governo responsabile e solidale del settore: noi abbiamo
messo insieme i lavoratori che stanno già dentro al sistema, quelli che escono
e quelli che vogliono entrare con i rispettivi fondi dedicati allo scopo.
Questo è il compendio della confederalità: il lavoro in tutte le sue componenti e
l’unità solidale dei distinti; questa è la vera lezione della CISL e dentro questa
lezione è a tutti chiaro quanto è importante la bilateralità.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
249
Ecco perché questo vostro percorso è per noi altamente elettivo e siamo veramente felici di potervi ospitare, tanto che spero che il Centro Studi diventi il
vostro riferimento e la vostra casa permanente. Grazie.
ROSETTA RASO
(Segretario Organizzativo FISASCAT-CISL)
Gli studi professionali rappresentano il mondo delle professioni, ma anche il
mondo delle conoscenze e quindi anche quello delle competenze. Quando
Pierangelo Raineri firmò questo protocollo con l’Associazione Nazionale dei
Consulenti del Lavoro, lo scopo era proprio quello di condividere una formazione congiunta su temi comuni, in vista dell’attenuazione sul territorio della
conflittualità e della risoluzione dei problemi creati dalla conflittualità stessa.
L’esperienza ventennale nell’ufficio vertenze di una realtà meridionale mi ha
portato alla convinzione che la condivisione delle conoscenze conduce alla
soluzione delle problematiche. Proprio dalla mia esperienza nacquero i primi
contratti di solidarietà: quando un datore di lavoro, che aveva diversi punti vendita da Catanzaro a Cosenza, mi pose il problema dell’esubero di personale,
per cui aveva avviato le procedure di mobilità, io gli proposi di fare i contratti di
solidarietà.
Egli allora non sapeva nemmeno che cosa fossero e contattò il suo consulente
del lavoro, il quale a sua volta non sapeva che cosa fossero i contratti di solidarietà. Io, forte del fatto che avevo appena fatto la formazione al Centro Studi
della CISL, fui in grado di risolvere il problema, perciò in due aziende realizzammo il contratto di solidarietà ed ebbi dopo anni la soddisfazione che il datore di
lavoro, incontrandomi al mare, mi disse: “Rosetta, non finirò mai di ringraziarti,
per avermi fatto i contratti di solidarietà, che mi hanno consentito di salvare le
mie aziende, di superare il momento di crisi e di rimanere sul mercato”.
Dunque noi dobbiamo fare formazione, perché pensiamo e riteniamo che insieme possiamo davvero fare delle cose utili, migliorare le condizioni dei lavoratori, aiutare le aziende, dando delle risposte concrete ai lavoratori.
Non è importante chi sa, è importante che qualcuno sappia: per esempio, nella
riforma del terzo settore compare il tema del welfare contrattuale e delle politiche di conciliazione previsto dalla contrattazione collettiva ed uno dei punti fondamentali è che si prevede una disciplina sperimentale del voucher universale
per i servizi alle persone ed alla famiglia.
Nel DEF, cioè il documento di programmazione economica e finanziaria, c’è
tutta la parte che riguarda il tema di oggi, laddove si dice che viene riconfermata la necessità di incrementare la fruibilità dei servizi, favorendone l’offerta
mediante la promozione del sistema pubblico e privato; ed in particolare con
l’apporto delle imprese, che non solo possono rilevare il bisogno, ma possono
prevedere la definizione dell’offerta, disciplinando i servizi attraverso la contrattazione collettiva.
250
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
Quindi la conoscenza di tutta la normativa e la condivisione anche in questi
luoghi ed in questi seminari ci potranno consentire di migliorare la situazione
attuale.
Io supererei tutta la questione della bilateralità: l’assistenza sanitaria integrativa ha tutto questo successo, perché al sistema pubblico, che patisce una serie
di criticità e che non riesce più a garantire quello che dava prima per effetto
della diminuzione della spesa e dell’aumento dei ticket, subentra il welfare contrattuale, che riesce a dare servizi, che altrimenti il cittadino oggi non potrebbe
più avere.
Attraverso la contrattazione collettiva nazionale siamo riusciti a dare risposte
anche al contratto delle colf e badanti, perché oggi c’è il problema dell’aspettativa di vita che si allunga e della necessità, in mancanza di servizi pubblici
adeguati, di un’assistente familiare nella gestione della vita domestica.
Questo tema a sua volta è legato a quello della conciliazione: ecco perché i
servizi, i voucher, i bonus sostitutivi, che possono comunque dare davvero non
solo alla donna, ma alla famiglia un aiuto concreto. Ecco l’importanza della
conoscenza e della competenza.
Bisogna passare dalle politiche passive a quelle attive: oggi che abbiamo tanti
lavoratori in cassa integrazione straordinaria o in deroga, con contratti di solidarietà, il passaggio della formazione professionale continua può far sì che
quei lavoratori ritornino in azienda, grazie a quel concetto a noi tanto caro che
è l’occupabilità.
Questo tema si lega alla politica della conciliazione perché uno dei problemi reali, quando la donna ritorna in azienda, è proprio quello della formazione, visto
che la sua azienda ha continuato a lavorare, a svilupparsi, a trasformarsi.
Io l’ho visto in FISASCAT: colei che si è assentata per maternità, ha perso un
pezzo del nostro percorso, per cui è stato necessario trovare il modo per rimetterla alla pari.
Ecco perché questa mattina vi parlavo di quella piattaforma informatica, che ha
permesso di far seguire alla lavoratrice il nostro percorso e di favorirne il rientro.
Ecco perché i fondi interprofessionali per la formazione continua possono darci
una mano a riqualificare il personale, anche quello in congedo parentale, che
può essere formato, può seguire percorsi di qualificazione, di riqualificazione
e di aggiornamento, per rientrare nell’azienda e riprendere non da dove aveva
lasciato, ma da dove l’azienda nel frattempo è arrivata.
Noi insieme, pur se rappresentiamo due mondi diversi, dobbiamo essere protagonisti di questo cambiamento: è questa la sfida, siamo noi che dobbiamo
cambiare le cose; la natura dell’impresa socialmente responsabile oppure
dell’impresa conciliante si vede solo se essa sa cambiare.
In questa sfida io credo e noi in questi seminari continuiamo con la formazione,
perché gli artefici del cambiamento siamo noi.
Concludo con i saluti di Pierangelo Raineri e di tutta la Segreteria Nazionale
della FISASCAT CISL. Ringrazio il Centro Studi dell’ANCL e tutti i partecipanti.
Grazie.
Il welfare contrattuale tempi di vita e tempi di lavoro
251
PAOLA DIANA ONDER
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL-Su)
Vi porto i saluti di Francesco Longobardi, che non ha potuto essere presente
qui oggi.
Devo dire che questo seminario, il quale era partito tiepido, è stato uno di quelli
più dibattuti, più interessanti più appassionati. Io sono estremamente d’accordo con quanto detto da Rosetta Raso: dalla conoscenza e dall’osservazione
reciproca, siamo passati ad una collaborazione molto attiva, che non possiamo
assolutamente lasciar cadere, ma dobbiamo ulteriormente sviluppare.
Abbiamo già scritto su Italia Oggi, in occasione del primo seminario, che per noi
il Centro Studi della CISL è già la casa della nostra formazione. Prossimamente
usciremo con un altro articolo, sempre su Italia Oggi, in cui ribadiremo questo
concetto. Certo, incontriamo ancora qualche difficoltà, ma non ci fermiamo, non
ci arrendiamo.
A nome di ANCL ringrazio il Centro Studi della CISL e ringrazio tutti i presenti
della partecipazione. Grazie.
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TUTELA A 360°
PER GLI STUDI PROFESSIONALI
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255
sessione mattutina
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
256
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Buongiorno a tutti. Siamo giunti al terzo appuntamento di questi seminari di
approfondimento sui temi delle trasformazioni del diritto del lavoro. Abbiamo già
fatto due seminari, uno dei quali affrontava il tema in oggetto dal punto di vista
della bilateralità, mentre il seminario di maggio ha riguardato soprattutto i temi
del sostegno al reddito, stante il fatto che siamo ancora tormentati da una crisi,
che è iniziata nel 2007, perdura tuttora e non accenna a diminuire.
Il seminario che ci apprestiamo ad iniziare ora riguarda un tema molto delicato
e molto importante qual è il tema della rappresentanza e della rappresentatività. Il quarto seminario, che è già stato programmato per lunedì 1 dicembre
e martedì 2 dicembre, è invece dedicato alla riforma della riforma del mercato
del lavoro.
Queste sono settimane, giornate, forse ore molto importanti per il nostro Paese:
domani ci sarà per la prima volta dopo un po’ di tempo un incontro del Governo con le Parti Sociali, proprio per verificare l’impianto complessivo di questa
ulteriore riforma del mercato del lavoro, nell’ambito della quale c’è il dibattito
sull’articolo 18, oltre al quale però ci sono molti altri aspetti, che riguardano il
mercato del lavoro sotto il profilo degli ammortizzatori sociali, delle politiche
attive e anche dei temi della parità. Perciò i nostri seminari a mio avviso cadono
proprio nel momento opportuno.
Tra gli argomenti più importanti c’è appunto il tema che vogliamo affrontare oggi,
un tema che è tanto sindacale quanto datoriale, un tema che già era stato evocato nel Tweet del Primo Ministro il 9 gennaio 2014. Tuttavia poi questo tema non
è stato affrontato, perché le Parti Sociali con il testo unico sulla rappresentanza
del 10 gennaio 2014, stipulato al momento soltanto con Confindustria, hanno
dato un segnale di forte reazione alla possibilità di un intervento legislativo.
Ma, osservando l’agenda del Governo, si vede che questo tema non è del tutto
estraneo al tavolo dei prossimi giorni, occorre perciò capire come verrà trattato
questo tema, con quali strumenti.
Infatti la risposta costituita dall’accordo tra le Parti Sociali sulla rappresentanza
a tutt’oggi non scongiura il rischio di un intervento legislativo da parte del Governo ed il problema è che non soltanto il settore industriale, ma anche quello
del Commercio e del Terziario si devono attrezzare per stabilire le regole ordinate della rappresentanza e della rappresentatività; e siccome è in discussione
un protocollo su questo punto per i settori del Commercio e del Terziario, che
sono quelli che vi interessano maggiormente, il seminario si cala in un contesto
che è ora molto importante.
All’introduzione seguirà l’intervento di Diana Onder, per capire come il mondo
dei consulenti del lavoro si approccia a questo tema molto delicato e come i
consulenti del lavoro si pongono come terzo ulteriore elemento rispetto alle
organizzazioni sindacali e datoriali.
Al suo seguirà l’intervento di Rosetta Raso, la quale ha fatto un lavoro certosino, ripercorrendo l’itinerario che ha portato al testo unico sulla rappresentanza
ed elencando i principi che caratterizzano l’accordo dal punto di vista legislativo
e contrattuale. La ringrazio di questo suo lavoro, che ci sarà molto prezioso per
i lavori di gruppo.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
257
Dopo l’introduzione dell’argomento da parte dei consulenti del lavoro e della
FISASCAT, ci sarà l’intervento del professor Stefano Bellomo dell’Università
di Perugia, a cui abbiamo chiesto di illustrare gli elementi essenziali del testo
unico sulla rappresentanza del gennaio 2014.
Nel pomeriggio avremo poi modo di riprendere gli interventi della mattinata con
un lavoro di gruppo, che è molto importante e che voi avete più volte sollecitato come possibilità di scambio di diverse esperienze, in cui cercheremo di
metabolizzare quanto è stato detto nel corso della mattinata e di rielaborarlo
attraverso uno scambio di esperienze, in base a quanto fa ciascuna delle due
organizzazioni qui presenti. Seguirà un mio intervento di sistematizzazione,
che terrà conto anche dei lavori di gruppo.
Domani avremo una mattinata molto intensa, innanzitutto perché ci pareva opportuno far inserire questo tema specifico, che riguarda le questioni attinenti
alla rappresentanza con particolare riguardo al settore Terziario, Turismo e Servizi, entro una sorta di quadro del panorama economico.
Infatti noi siamo assolutamente convinti che si possono fare tutte le riforme del
lavoro che si vogliono, però, se sostanzialmente non riparte la crescita economica e non ripartono gli investimenti, si potrà operare soltanto parzialmente. È
chiaro che, cambiando la legge, non si creano posti di lavoro, per cui bisogna
capire qual è lo scenario economico, quali potrebbero essere le leve capaci di
sviluppare gli investimenti interni ed attrarre quelli stranieri.
Ciò ci sembrava importante anche all’interno di seminari che hanno un taglio di
carattere eminentemente giuridico, perché così avremo il contesto di scenario
economico entro il quale la normativa di carattere legislativo e contrattuale si
muove.
Mentre la discussione di oggi riguarderà argomenti che sono già in qualche
modo consolidati, quella di domani sarà più propositiva e più innovativa, perché
riguarda tutto il dibattito in corso e le questioni ancora aperte a proposito della
rappresentanza nell’ambito del settore Terziario, Turismo e Servizi, oltre alle
questioni aperte nell’ambito della rappresentanza professionale e nel settore
dei consulenti del lavoro.
Tutto ciò sarà fatto, come sempre avviene in questi seminari, con qualche
spunto di carattere tecnico e con gli interventi di carattere politico dei massimi
dirigenti sia di FISASCAT che di ANCL, Pierangelo Raineri e Francesco Longobardi, per capire, rispetto a questi due profili, come si intende evolvere, per
quello che riguarda il tema della rappresentanza e della rappresentatività. Vi
ringrazio tutti e passo la parola a Diana Onder per il suo intervento.
258
FONDO PARITETICO INTERPROFESSIONALE NAZIONALE
PER LA FORMAZIONE CONTINUA DEI DIPENDENTI
DEGLI STUDI PROFESSIONALI E DELLE AZIENDE COLLEGATE
259
Intervento di:
Paola Diana Onder
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL_Su)
260
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Buon giorno a tutti. Parecchi di voi hanno già partecipato ai nostri seminari e quindi conoscono la filosofia che li impronta, però fra di voi ci sono dei volti nuovi, sia
fra gli amici operatori sindacali, sia tra i colleghi consulenti del lavoro. Vorrei dunque far comprendere qual è la finalità del lavoro che oggi noi stiamo facendo e a
questo scopo non posso non salutare e ringraziare coloro che operano all’interno
di questa struttura e che sempre ci accolgono con grande cortesia, gentilezza e
disponibilità: il professor Marco Lai, che è il coordinatore scientifico del centro studi della CISL, e Rosetta Raso, che rappresenta la FISASCAT-CISL, essendone il
Segretario Organizzativo.
Insieme a loro due abbiamo ideato questo percorso formativo, che ha la peculiarità di mettere in aula un nucleo di professionisti, nello specifico consulenti del lavoro, quindi esperti in materia di lavoro e di diritto sindacale, e di operatori sindacali,
per l’appunto quelli della FISASCAT, per discutere delle evoluzioni del diritto del
lavoro e del diritto sindacale relativo al mercato del lavoro.
Un argomento che ha ovviamente un interesse specifico per ambo le parti, che
rappresentano due mondi, due realtà, che normalmente sono in conflitto. La
scommessa è stata quella di realizzare insieme – ed è questo il motivo per cui
alcuni di voi nei gruppi di lavoro sono stati messi insieme ai loro pseudo avversari
– attraverso uno scontro iniziale, un confronto che porti ad una convergenza risolutiva delle casistiche che riguardano l’impresa. Infatti siamo tutti quanti convinti
che mantenere l’impresa significhi mantenere il posto di lavoro, per cui l’interesse
è comune.
Siamo al terzo anno di questa sperimentazione, che deriva da un protocollo d’intesa che abbiamo sottoscritto proprio in quest’aula il 16 settembre 2010, e mi piace
oggi informarvi che l’idea di quel protocollo sta trovando accoglienza anche sul
territorio. Proprio il 18 settembre è stato siglato un accordo analogo in Umbria fra
il collega Presidente dell’unione provinciale di Perugia ed il rappresentante sindacale regionale della FISASCAT dell’Umbria.
Questo accordo prende a riferimento proprio il protocollo di intesa del settembre
2010, che ci ha portato a questa attività odierna. Inoltre va ricordato anche il protocollo sottoscritto il 12 dicembre 2011 dal nostro amico Pancrazio di Leo, il quale
ha partecipato a tutte le precedenti edizioni dei nostri seminari.
Come diceva il professor Marco Lai, questo è il terzo seminario dell’anno 2014,
dopodiché a dicembre chiuderemo con il quarto seminario sulla riforma della riforma del mercato del lavoro. Il primo che abbiamo realizzato, il 31 maggio e il 1
giugno 2011, è stato proprio sulla contrattazione in un momento storico particolare, perché riguardava tutte le casistiche scatenate dalla rivoluzione copernicana
portata avanti da Marchionne all’interno della FIAT, che negli anni successivi hanno portato a questo accordo, di cui discuteremo oggi e domani.
Il nostro Presidente, Francesco Longobardi, del quale vi porto i saluti, non potrà
essere presente domani, quindi entrerò io nel merito di quelle che sono le specificità delle questioni aperte, che per noi consulenti del lavoro sono molto cruciali
in questo momento, se parliamo di rappresentanza, di rappresentatività e di differenza di ruoli istituzionali: ovviamente tutto questo fa poi riferimento al nostro ruolo
professionale, che riguarda l’affiancamento alle imprese sul tema che andremo
ora a sviscerare.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
261
Vi porto i saluti di tutto il Direttivo Nazionale dell’ANCL e a tale proposito voglio citare le parole del nostro Presidente Nazionale, che ritiene questa una delle attività
di punta dell’ANCL, per cui noi intendiamo continuare questa scommessa, che
peraltro ha avuto delle ricadute molto interessanti e soddisfacenti sul territorio.
Vi auguro buon lavoro e passo la parola a Rosetta Raso per la sua disamina tecnica dell’argomento. Grazie.
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Intervento di:
Rosetta Raso
(Segretario Organizzativo FISASCAT_CISL)
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Buongiorno a tutti. Salutiamo intanto il professor Bellomo, che ci ha raggiunto
or ora e che ringraziamo di aver accolto il nostro invito.
Io vi propongo un lavoro, che ritengo poter essere utile, che è consistito nel
raccogliere tutta la normativa e le motivazioni per le quali poi si è arrivati al testo
unico sulla rappresentanza, che è stato già siglato con Confindustria, mentre
con Confcommercio si è attivato un confronto analogo, che purtroppo, per una
serie di motivi, non è ancora giunto alla sigla.
Il mutato contesto sociale ed in particolare la legittimazione dell’unità di azione
del sindacato hanno comportato la necessità di avere un nuovo modello di
relazioni sindacali.
Tutta la storia dei contratti separati, della fine dell’unità sindacale e la necessità
di avere un testo unico sulla rappresentanza e la rappresentatività nascono
dall’articolo 39 della Costituzione, che recita così:
• L’organizzazione sindacale è libera.
• Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
• È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un
ordinamento interno a base democratica.
• I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati
unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di
lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle
quali il contratto si riferisce.
C’è poi l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, che una sentenza della Corte
Costituzionale ha dichiarato illegittimo, il quale recita così:
• Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa
dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: […]; delle associazioni
sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento.
Abbiamo quindi il protocollo del luglio 1993, in cui si stabiliscono nuove regole
sugli assetti contrattuali e sulle rappresentanze sindacali. Va sottolineata a tale
proposito la questione del governo delle RSU, quando ancora c’era la forte convinzione dell’unità del sindacato, ed anche della garanzia della proporzionalità
rispetto ai voti di lista, il famoso problema del terzo riservato, che poi scompare,
come tutti sanno.
L’accordo Interconfederale tra Confcommercio, FILCAMS-CGIL, FISASCATCISL e UILTUCS-UIL del 27 luglio 1994 disciplina la costituzione delle RSU.
In seguito il d.p.r. del 5 aprile 1995 indice due referendum ed uno di questi
afferisce proprio all’abrogazione dell’articolo 19 primo comma dello Statuto dei
Lavoratori, oltre a chiedere l’abolizione dell’articolo 26, il quale tuttavia non è
attinente al tema che affrontiamo qui oggi.
Vi è conseguentemente una nuova formulazione dell’articolo 19 sulla rappresentanza sindacale aziendale, a cui seguirono sentenze dei tribunali e della
Corte Costituzionale, la quale intervenne con la sentenza n. 244 del 12 luglio
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
265
successivo, sino ad arrivare alla sentenza della Corte Costituzionale n. 231
del 2013, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19 primo comma
della legge numero 308, altrimenti nota come Statuto dei Lavoratori, nella parte
in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali, che, pur non essendo
firmatarie dei contratti collettivi dell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei
lavoratori dell’azienda.
Qui abbiamo tutta la questione legata alla vicenda FIAT-FIOM, di cui ho riepilogato cronologicamente tutte le tappe, dal rinnovo del contratto separato con
FIM e UILM, sino alla disdetta da parte di Federmeccanica del contratto dei
metalmeccanici, per arrivare poi al contratto di secondo livello firmato soltanto
da FIM e UILM.
Negli anni scorsi c’era già stato il tentativo di un protocollo per regolamentare
delle relazioni sindacali adeguate alle esigenze del momento, sia per gestire la
mancanza dell’unità sindacale, sia per attivare una rappresentanza ed una rappresentatività, che fossero davvero adeguate ai tempi ed alle mutate condizioni
economiche, per cui abbiamo l’accordo quadro dal 22 gennaio 2009, il quale
regolamenta la contrattazione collettiva nelle modalità che conoscete.
Si giunge successivamente all’accordo del 28 giugno 2011 e voi conoscete
la posizione della CISL, la quale ha sempre detto che in questa materia era
necessario un accordo fra le parti, piuttosto che una legislazione di sostegno,
leggera o meno che fosse.
Queste due giornate saranno dedicate ad approfondire questi temi e ad aprire
dei ragionamenti sulle questioni che rimangono aperte. Le condizioni del nostro Paese sono molto particolari e necessitano di relazioni sindacali capaci di
governare il momento storico ed i cambiamenti necessari: chi vive in azienda
conosce esattamente la necessità di flessibilità da una parte e la necessità di
far fronte a risorse economiche scarse dall’altra.
Le linee guida del 16 novembre 2012, che definiscono quale dovrebbe essere
l’impianto del provvedimento, tenendo conto dell’accordo del 28 giugno 2011 e
degli accordi interconfederali, portano al protocollo del 31 maggio 2013, in cui
vengono definite alcune questioni, mutuate in parte dal pubblico impiego, sulla
rappresentanza e sulla rappresentatività.
Si arriva infine al testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio scorso, giorno in cui è stata raggiunta l’intesa con Confindustria.
Per quanto riguarda la FISASCAT, questo accordo è applicato soltanto in alcuni
contratti: quello dei termali, che firmiamo con Federterme, quello del Turismo
con Confindustria, quello delle pulizie con Confindustria, quello della vigilanza
con Confindustria, quello degli agenti e rappresentanti con Confindustria.
Interessanti sono quattro-cinque punti sulla misura e sulla certificazione della
rappresentanza, sulla regolamentazione della rappresentanza in azienda, sulla
titolarità e l’efficacia della contrattazione collettiva di categoria sia nazionale
che aziendale – con tutte le percentuali per poter presentare le piattaforme e
partecipare alle trattative – sulle intese modificative, che comprendono l’ac-
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
cordo del 28 giugno, e sulle clausole e le procedure per il raffreddamento, che
impegnano le parti a continuare la trattativa, nel momento in cui è stata attivata
la via del confronto.
Arriviamo infine al testo unico sulla rappresentanza, che dovremo firmare con
Confcommercio: ci sono stati vari confronti con Confcommercio, c’è un testo su
cui abbiamo lavorato con le organizzazioni sindacali, ma non c’è ancora la sigla
e tuttavia ritengo che ci siano tre punti di questo abbozzo molto interessanti.
Il primo riguarda la misurazione della rappresentatività: noi pensiamo come
Federazione che bisogna comunque tener conto del numero delle deleghe,
del numero dei voti espressi per le RSU (proprio per la specificità della nostra
categoria, che tra l’altro è rappresentata per il 95% da aziende inferiori a 15
dipendenti, anzi, le nostre sono aziende che hanno perlopiù da uno a nove
dipendenti), del numero delle vertenze individuali e plurime che vengono fatte,
degli accordi di CIGS in deroga e di mobilità, delle transazioni e delle conciliazioni effettuate presso le DTL e delle conciliazioni presso gli enti bilaterali.
Come sapete, per noi le vertenze individuali e plurime sono un luogo di negoziazione e tra l’altro tutte le pratiche di disoccupazione elaborate dovrebbero
anche essere certificate, così come vuole il nuovo testo sulla rappresentanza.
Sulla questione delle RSU noi riteniamo che deve essere confermato il principio
stabilito nell’accordo del 27 luglio ‘94 per la costituzione delle RSU, l’accordo
Interconfederale firmato da FILCAMS, FISASCAT, UILTUCS e Confcommercio.
Per noi devono essere confermate le disposizioni presenti nei contratti collettivi
nazionali di lavoro rispetto ai numeri percentuali minimi di iscritti per le nomine e
le elezioni in epoca successiva alla prima elezione e quindi le regole per indire
le elezioni delle RSU nonché quelle per l’iniziativa per garantire le liste.
Sulla questione delle intese modificative noi pensiamo che, per quanto riguarda
i contratti di secondo livello, si possono definire delle intese modificative per
gestire le situazioni di crisi e qualora i contratti nazionali non abbiano ancora
definito la materia, suggeriamo che vengano fatti in funzione del rapporto di
lavoro, degli orari e dell’organizzazione. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Dall’excursus che ha fatto Rosetta Raso si evince che il testo unico del 2014
riprende accordi precedenti, come quello del 28 giugno 2011, con particolare
riferimento alla contrattazione aziendale, e quello del 31 maggio 2013, con particolare attenzione alla contrattazione nazionale.
Nel manuale pubblicato da Edizioni Lavoro, la casa editrice della CISL, e redatto da chi ha scritto materialmente il testo unico, nella parte seconda si trovano
raccolti tutti i principali accordi nonché i riferimenti normativi rispetto a questo
argomento.
La posizione della CISL prevede che prima si percorra tutto lo spazio che appartiene alle Parti Sociali, secondo la teoria a noi cara, che risale al giugno del
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
267
1960, dell’ordinamento sindacale o meglio dell’ordinamento intersindacale, nel
senso che tra il pubblico e privato c’è uno spazio proprio delle Parti Sociali, per il
quale non c’è bisogno di interventi legislativi, per cui, se si discute dei temi della
rappresentanza o della contrattazione, il giudice o il legislatore l’unica cosa che
possono fare è rinviare a quanto le Parti Sociali hanno già deliberato.
Questa posizione della CISL risale, non soltanto sotto il punto di vista politico,
ad un fondamento teorico che stabilisce l’autonomia del sociale rispetto alla
sfera dello Stato e questa concezione non è una concezione che nasce oggi,
ma nasce fino dal periodo originario della CISL ed ha trovato argomentazioni
tecniche ed elaborazioni teoriche in questo Centro Studi negli anni ‘50 e ‘60,
principalmente attraverso le figure del professor Gino Giugni e del professor
Mario Grandi.
Essi hanno sostenuto l’autonomia del sociale e quindi della rappresentanza e
della contrattazione collettiva rispetto all’intervento pubblico, proprio teorizzando il fatto che tra un diritto sindacale tutto spostato sul diritto privato o un diritto
sindacale tutto spostato sul diritto pubblico c’è un terzo campo, in cui il sindacato, in quanto espressione della società civile, e le Parti Sociali tutte, in quanto
espressione della società civile – quindi il sindacato dei lavoratori, ma anche le
associazioni datoriali – sono in grado di scrivere le regole di persona e non devono farsele imporre, né dallo Stato né da una logica totalmente privatistica.
Quindi, se tutto sommato le Parti Sociali sono capaci di essere propositive e
di scrivere le regole, quando si tratta di decidere dei temi della rappresentanza
e della contrattazione, il legislatore ed il giudice devono soltanto limitarsi ad
attingere a quello che è l’ordinamento intersindacale.
Questa concezione dà una spiegazione del modo in cui la CISL si pone rispetto
a questo dibattito. Poi dal punto di vista tecnico avremo modo di approfondire
la cosa, considerato che anche la sentenza della Corte Costituzionale citata
da Rosetta Raso fornisce degli spazi interpretativi in questo senso, ancorché
sembri che finora nessuno se ne sia accorto. Noi infatti abbiamo una cultura
giuridica che, almeno in parte, non è attenta a ricordarsi questi fondamenti.
Visto che abbiamo già parecchia carne al fuoco, tentiamo ora di svolgere un
lavoro formativo-didattico partendo dai tratti essenziali del testo unico sulla rappresentanza, secondo quanto definito dall’accordo del 10 gennaio 2014, innanzitutto considerando che questo testo si compone di quattro parti.
• Una prima parte, che riguarda la misurazione della certificazione della rappresentanza ai fini della contrattazione collettiva nazionale, quindi definisce
chi è legittimato a sedere al tavolo per fare contratti nazionali.
• Una seconda parte, che riguarda le forme di rappresentanza in azienda,
che non sono più due, ma devono essere o l’una o l’altra, RSU o RSA; e voi
sapete benissimo che nei vostri settori, a parte quelli citati da Rosetta Raso,
che sono importanti, ma non prioritari nell’ambito del Terziario, la scelta è
prettamente ancora per le RSA.
• Una terza parte, che riguarda proprio il tema della contrattazione: mentre
le prime due parti riguardano il tema della rappresentanza, la terza parte
considera l’efficacia della contrattazione, sia a livello nazionale sia a livello
268
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
aziendale; e qui si riprendono pari pari, parola più, parola meno, gli accordi
del 28 giugno 2011 rispetto alle regole della contrattazione aziendale ed il
protocollo del 31 maggio 2013 per quanto riguarda la contrattazione collettiva nazionale. Però ci si è dimenticati di un aspetto molto importante per i
vostri settori, che è la dimensione territoriale: nel testo unico sulla rappresentanza non si parla della contrattazione territoriale, che invece rappresenta un’opportunità importante.
• C’è poi una quarta ed ultima parte, che è forse quella più importante, o comunque quella che ha provocato più resistenze da parte della FIOM-CGIL
e dei COBAS: il fatto che per la prima volta non solo si stabiliscono delle
regole, ma si stabiliscono anche degli impegni e, se del caso, anche delle
sanzioni, qualora non si rispettino le regole.
Quindi l’elemento di novità di questo testo è che per la prima volta si mettono
insieme le regole della rappresentanza, della contrattazione e dei diritti, cosa
che, a mio parere, risponde agli interrogativi che la sentenza della Corte Costituzionale del 2013 sollevava rispetto all’articolo 19, ovvero chi ha diritto a
godere dei diritti sindacali.
Si intrecciano dunque questi tre temi: rappresentanza, contrattazione e diritti
sindacali e la novità è che si prevedono delle sanzioni, che vengono rimandate
alle categorie, non solo per le associazioni sindacali – ovvero categorie, o federazioni, o strutture territoriali – che non rispettino gli impegni, ma si stabiliscono
delle sanzioni anche per le imprese. Le sanzioni infatti non sono solo per le
organizzazioni sindacali dissenzienti, ma anche per le imprese, qualora non
rispettino i comportamenti prefigurati nell’accordo.
Se vogliamo fare di questo Paese un Paese attrattivo degli investimenti stranieri, bisogna che il sistema delle relazioni sindacali sia regolato, ordinato e che gli
impegni presi vengano rispettati.
Questo è il motivo per cui è bene conoscere innanzitutto qual è il contenuto nei
suoi aspetti essenziali del testo unico, cosa che possiamo realizzare con l’intervento di tutti noi e soprattutto con l’intervento di Stefano Bellomo, Docente Ordinario Diritto del Lavoro dell’Università di Perugia, esperto di questi temi, che
ci aiuterà ad entrare nel merito ed a cui cedo la parola per il suo intervento.
269
Intervento di:
Stefano Bellomo
(Professore Ordinario di Diritto del Lavoro
Universita' di Perugia)
270
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Ringrazio innanzitutto per l’invito rivoltomi dal Segretario Organizzativo della
FISASCAT, Rosetta Raso, e per l’introduzione del professor Marco Lai.
Io mi trovo in una situazione che per me presenta una serie di elementi di sintonia: in primo luogo perché naturalmente, in ragione delle mie attività, i contatti
tanto con le organizzazioni sindacali confederali quanto con i consulenti del
lavoro sono frequenti e normalmente di grande affinità.
In secondo luogo mi trovo e mi sento a mio agio in quanto è stata coinvolta tutta
una serie di rappresentanti, tanto sul fronte sindacale quanto sul fronte professionale, che mi sono vicini. Infatti è stata già ricordata l’attività dell’associazione provinciale dei consulenti del lavoro ANCL di Perugia e della Federazione
FISASCAT dell’Umbria.
In terzo luogo – e questa è probabilmente, ai fini di quello che devo dire, la cosa
più importante – avverto già in questa introduzione una serie di elementi di sintonia rispetto all’approccio che si può avere al testo unico ed alle questioni tanto
interpretative quanto di prospettiva che dal testo unico vengono alimentate.
Il tema della rappresentanza sindacale, dell’efficacia del contratto collettivo e
della rappresentanza dei lavoratori in azienda nel nostro ordinamento poteva
essere declinato secondo vari modelli, secondo varie direzioni: apparentemente si trattava di una tematica a senso unico, a partire dalla nascita del nostro
ordinamento repubblicano, ma così per varie ragioni non è accaduto.
Noi abbiamo una traccia, che dovrebbe essere una guida completa alla declinazione di tutte queste materie, all’interno della carta costituzionale, che è
l’articolo 39.
È un articolo complesso, che, se da un lato è un pilastro insostituibile, dall’altro
mantiene nelle espressioni enfatiche alcuni problemi di logica interna probabilmente irrisolvibili e questa è anche la ragione per la quale i soggetti delle
relazioni industriali hanno nel tempo deciso di intraprendere percorsi alternativi,
i quali, grazie a delle intuizioni felicissime, come quella dell’ordinamento intersindacale, che è stata richiamata, hanno permesso al sistema delle relazioni
industriali di imboccare delle strade di efficienza, che, pur con passaggi difficili,
snodi e punti critici, possono probabilmente affinarsi e migliorarsi ulteriormente
e questa è, secondo me, la grande scommessa, è la grande promessa che il
testo unico della rappresentanza ci consegna.
L’articolo 39 della carta costituzionale è un testo superlativo per quanto concerne innanzitutto il suo primo comma, che è un’apertura in termini di libertà sindacale formidabile per l’attività delle Parti Sociali in tutte le sue sfaccettature, tanto
in termini di libertà sindacale, positiva, quanto in termini altrettanto costruttivi di
libertà sindacale negativa.
Infatti esso consente la libertà di contrattare ed anche la libertà di condurre
il dialogo fino al punto in cui si conferma la volontà costruttiva delle parti. Ma
laddove questa volontà costruttiva si arresta, l’articolo 39 primo comma, nella
sua veste di principio di libertà sindacale, permette anche di selezionare gli
interlocutori sindacali tra quelli che sono disposti a costruire positivamente il
sistema.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
271
Ed è questo il principio del mutuo e reciproco riconoscimento, che ha sorretto
il funzionamento delle relazioni industriali, per lo meno fino ai grandi protocolli
degli anni ‘90 e fino al passaggio evolutivo che oggi ci troviamo ad affrontare, il quale appunto vuole aggiungere qualche tassello in più rispetto a questo
principio fondamentale della libertà sindacale e del reciproco riconoscimento,
cercando di codificare in termini un po’ più puntuali il reciproco riconoscimento,
sia nei suoi presupposti, sia nelle sue esplicitazioni, cioè quali sono le parti che
effettivamente debbano riconoscersi e quali sono i loro spazi operativi all’interno del sistema della contrattazione collettiva.
Questa è la pars construens fondamentale dell’articolo 39 e tuttavia – non ce
lo possiamo nascondere e del resto è cosa nota fin dai primi anni ‘60 – reca
in sé un possibile elemento di contraddizione logica, che ne ha continuato ad
ostacolare nel tempo ogni possibile prospettiva attuativa.
Perché un binario apparentemente così solido, come quello dell’articolo 39,
non è stato seguito? Perché non è stato seguito prima dal legislatore e poi non
è stato seguito dalle Parti Sociali?
Perché da un lato l’articolo 39 è una norma di grande libertà, ma dall’altro rischia in alcuni punti di muoversi in controtendenza rispetto a questa generale
direttrice di libertà e questo lo fa in particolare nel suo quarto comma, il comma
che dovrebbe essere in qualche modo l’additivo, l’elemento aggiuntivo che dovrebbe rafforzare la portata innovativa della norma ed invece finisce per essere
il suo punto di crisi.
Il quarto comma dice: “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti
collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. È qui che il cortocircuito si manifesta ed è
un cortocircuito non solo teorico – la dottrina se ne era accorta da tanto tempo
– ma fortemente pratico.
Se parliamo di una categoria per la quale il contratto è destinato a trovare applicazione, ciò vuol dire che esiste una suddivisione immanente oggettiva, per
cui si può individuare quali sono i settori nei quali un’attività sindacale si deve
ratificare per potersi esplicare in conformità all’articolo 39 della carta costituzionale? Si può dire che l’azione sindacale deve seguire necessariamente un
binario precostituito, che è quello della suddivisione categoriale?
Non si può dire: proprio perché il principio di libertà sindacale permette ad ogni
organizzazione di delineare da sé il proprio ambito di attività, l’idea che una categoria possa essere oggettivamente determinata è un’idea in contraddizione
con il principio di libertà sindacale e questo veniva già affermato nel 1963 in un
saggio memorabile di Giuseppe Federico Mancini, ma è soprattutto un tema
che entra nella carne viva dei problemi sindacali e qui si manifesta.
Se ci pensiamo, è questa contraddizione logica, ovvero l’impossibilità di individuare un concetto oggettivo di categoria compatibile con la libertà sindacale, la
spiegazione teorica della vicenda FIAT, perché la vicenda FIAT tra le sue propaggini, tra i suoi addentellati, tra le sue manifestazioni ha la situazione nella
quale un gruppo di imprese – lasciamo perdere che sia collegato o meno sotto
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
un unico assetto proprietario – fino ad allora pacificamente e volontariamente
affiliate ad un’entità categoriale, decide altrettanto volontariamente di non riconoscersi più all’interno di quella entità categoriale e di voler confluire/creare
un’entità categoriale nuova.
Federmeccanica per certe situazioni non è più un’entità che può operare efficientemente nella realtà delle relazioni industriali nel settore dell’industria
dell’auto e quindi è ipotizzabile – e viene praticata – una soluzione alternativa.
Naturalmente noi non diamo una valutazione di merito della vicenda, ma diciamo che dal punto di vista tecnico essa è certamente emblematica del punto
critico dell’articolo 39 e può servire anche a spiegare che cosa è successo
dopo e come questo punto critico è stato assimilato, metabolizzato dalle organizzazioni sindacali storicamente rappresentative nei passaggi che si sono
consumati tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90.
Quindi il consolidamento del sindacato confederale, l’avvio dell’unità di azione
dei primi anni ‘70, fino alla crisi degli accordi di San Valentino, la ritrovata unità
degli anni ‘90 ed i nuovi elementi di trasformazione, che hanno portato lungo la
sequenza degli accordi che si è sviluppata dal 2009 al 2013.
Prima l’accordo separato del 2009, poi l’accordo del 2011 e tutti quelli che hanno portato al testo unico, ci hanno condotto alla realtà con la quale oggi facciamo i conti e, come ha detto giustamente Marco Lai, si avventurano in quella
che può essere la terza strada, cioè quella dello sviluppo delle potenzialità
dell’ordinamento intersindacale.
Se non si attua l’articolo 39 infatti – come hanno dovuto fare e constatare i
maestri fondatori del diritto sindacale del dopoguerra – l’alternativa all’articolo
39 non può essere altro in linea di partenza che quella del diritto comune dei
contratti.
Noi chiamiamo i nostri contratti collettivi “Contratti collettivi di diritto comune”,
perché in linea di principio il contratto collettivo è un contratto collettivo retto
dalle norme sui contratti in generale e soprattutto è un contratto che si appoggia
sul pilastro fondamentale rappresentato dall’articolo 1372 del Codice Civile,
quell’articolo secondo il quale il contratto ha effetti tra le parti e non può avere
effetti per i terzi, se non nei casi previsti dalla legge.
Anche questa norma è naturalmente una garanzia di grande libertà, ma è una
norma che in qualche modo reca in sé degli elementi che possono disorganizzare le relazioni industriali, che possono essere altamente distruttivi delle
stesse.
E applicando nuovamente l’articolo 1372 del Codice Civile, noi dovremmo dire
appunto che il contratto vale per chi ci sta, vale per chi lo accetta: il contratto
vale per i soggetti che lo sottoscrivono, per i loro affiliati e non vale per i soggetti
che, non presentando queste condizioni, non ne condividono i contenuti.
Da un lato ciò può essere un elemento di grande dinamismo, ma, se non è
convogliato all’interno di un sistema, rischia di essere un elemento di grande
distruzione e disgregazione di qualunque aspirazione di sistema delle relazioni
industriali.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
273
E questa è una realtà che nei nostri confronti micro possiamo vedere ogni giorno: i contratti collettivi – ed in special modo i contratti collettivi aziendali – sono
sempre soggetti alla spada di Damocle del dissenso, che non è solamente un
dissenso politico, il quale naturalmente ha il suo peso, ma è un dissenso di
carattere giuridico, un dissenso che ha portato gruppi o formazioni antagoniste
alle volte a mettere in crisi assetti faticosamente raggiunti, soluzioni anche socialmente sofferte, ma attraverso le quali i protagonisti delle relazioni industriali
– organizzazioni sindacali e imprese – perseguono l’obiettivo, apparentemente
modesto ma fondamentale, di costituire il migliore dei mondi possibili.
A fronte di una certezza, ma d’altra parte anche di una certa qual inefficienza
e inadeguatezza delle regole del diritto civile, del diritto comune dei contratti
rispetto a questi profili, a questi possibili elementi di disunione e disgregazione,
le parti sindacali e le organizzazioni di categoria degli imprenditori hanno sempre continuato a perseguire disegni, attraverso i quali il modello delle relazioni
industriali potesse assumere un maggior grado di effettività, una maggiore stabilità e potesse essere possibile in qualche modo esorcizzare la preoccupazione e lo spettro del dissenso sindacale.
Una serie di ipotesi di soluzione era stata abbozzata e delineata nel protocollo
del 1993, che presentava alcuni punti di grande chiarezza e fermezza, i quali
però nel tempo si sono dimostrati proprio i suoi punti di anacronismo.
Prevalentemente io ne evidenzierei due, a partire dal modello della contrattazione articolata, cioè il collegamento ed il coordinamento tra il contratto di
primo e quello di secondo livello, un coordinamento sicuramente necessario dal
punto di vista delle relazioni industriali, un collegamento che richiede dei grandi
elementi di solidità, un collegamento – e questo è il punto debole del protocollo
del 1993 – che doveva prestarsi anche a degli elementi di adattabilità, cosa che
viceversa il protocollo del 1993 rifiutava a priori.
E qui entriamo nuovamente nella carne viva della contrattazione, cosa che
capita appunto a tutti voi di sperimentare: il protocollo del 1993 dettava delle
regole estremamente rigorose per guidare la contrattazione collettiva di secondo livello. Esso affermava che la contrattazione collettiva di secondo livello si
esercita solamente per le materie delegate ad essa dal contratto di primo livello
e deve rispettare il principio del ne bis in idem, non deve introdurre elementi
retributivi diversi dalla retribuzione di produttività e tutta una serie di prescrizioni
tanto altisonanti quanto disattese nella pratica e molto spesso disattese dagli
stessi protagonisti delle relazioni industriali.
A me è capitato di farlo su entrambi i versanti, di farlo magari più spesso sul
fronte datoriale, per cui uno si presenta al tavolo della trattativa con l’accordo
collettivo nazionale, con il protocollo in mano e l’organizzazione sindacale, che
ha determinate ulteriori diverse esigenze, sostiene di essere venuta per trattare
di un certo argomento, che si tratti magari di trattamento retributivo o che si tratti di istituti differenti, ai quali il contratto di primo livello non aveva pensato.
Ecco perché di fatto poi nella contrattazione di secondo livello queste regole
così cartesiane in molti casi avevano un grado di effettività piuttosto ridotto.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
L’altro punto critico del protocollo del 1993 poteva essere quello – e i fatti lo
hanno dimostrato – dell’assoluta centralità accordata al modello della rappresentanza sindacale unitaria, un modello del quale è stata smentita la possibile
valenza universale come modello efficiente di rappresentanza. Questo nella
prospettiva ed in una scommessa che proprio il principio di libertà sindacale
si è premurato di smentire, ovvero che appunto la RSU fosse un modello che
poteva funzionare per tutti.
Questo non è successo perché ci sono settori nei quali il sindacato di categoria,
l’associazionismo sindacale, è ancora una realtà forte, una realtà che non è
compatibile con la collegialità della rappresentanza sindacale unitaria; e questo
è successo anche perché le regole sul funzionamento della rappresentanza
sindacale unitaria presentavano a loro volta dei tratti di ambiguità, che non
apparivano facilmente risolvibili, che di fatto non sono stati risolti e che sono
tuttora controversi nella stessa giurisprudenza.
Il metodo decisionale, per esempio, della rappresentanza sindacale unitaria –
vincolatività o meno per i dissenzienti dalla decisione assunta a maggioranza
– oppure l’esercizio da parte dei componenti della rappresentanza sindacale
unitaria di alcuni diritti riconosciuti dallo Statuto dei Lavoratori, per cui oggi sulla
tematica dell’indizione dell’assemblea ci sono forti contrasti giurisprudenziali.
È proprio di questi giorni una sentenza della Corte di Cassazione che contraddice la sentenza Amoroso del 2006 sulla legittimazione del singolo componente
di RSU a indire le assemblee.
Quindi una serie di originarie ambiguità e di sopravvenuti anacronismi ha giustificato l’avvio di quella grande dinamica di trasformazione che le Parti Sociali
hanno condotto fino ad oggi.
E ne aggiungerei un’altra, che probabilmente è ancora più retrostante, ancora
più importante: io qui sono in una sede di affiliazione confederale, la quale
però è sicuramente aperta al dialogo democratico e quindi mi sento di poter
affermare che per molto tempo le organizzazioni confederali storiche hanno un
po’ sofferto gli effetti indesiderati di una certa autoreferenzialità e di un certo
solipsismo.
È un dato di fatto che dalla metà degli anni ‘80 c’è una fetta di sindacalismo,
grande o piccola che sia, non importa, per così dire antagonista, che in qualche
modo può essere vista come un corpo estraneo, oppure che può essere un
soggetto assimilabile in un sistema organico di relazioni industriali, il quale sia
in qualche modo certamente ispirato, guidato e progettato dalle organizzazioni
sindacali storiche, ma che sia aperto anche alla realtà dell’esistenza di determinati soggetti.
Questa è una realtà con la quale già da tantissimo tempo si è cominciato a fare
i conti, però con il problema di dover sempre registrare la presenza di questi
soggetti come un’anomalia, come un elemento di rottura del sistema.
Negli anni ‘90 mi capitava di fare le cause del settore metalmeccanico, per
esempio contro la FLMU, contro vari soggetti che costituiscono una vasta costellazione, di cui si fa fatica a comprendere la composizione, perché effettivamente è una costellazione abbastanza magmatica e complicata.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
275
Il fatto di aver ragionato però a prescindere dall’esistenza di questi soggetti, se
negli anni successivi al 1993 ha costituito forse un elemento di rafforzamento
del sindacato confederale, con l’incalzare di determinati momenti di crisi poi si è
rivelato un possibile elemento di indebolimento di questo disegno, perché, oltre
al fatto che comunque ci si muove in un’ottica di diritto comune, la rilevanza del
dissenso può portare a dei momenti di crisi delle relazioni industriali in azienda,
laddove questo dissenso – quand’anche appunto pulviscolare, frammentario,
di poca entità – sia tale da mettere in crisi il funzionamento dei meccanismi e
delle dinamiche che coinvolgono dei valori, che coinvolgono delle prospettive
occupazionali molto più ampie e molto più ricche.
Quale atteggiamento si doveva assumere? – ed è un dilemma che è stato affrontato lungamente proprio nella progettazione della trattativa che ha portato
al testo unico – Era meglio fare un sistema chiuso o fare un sistema aperto?
Nelle discussioni, che si sono svolte mentre il testo unico era in via di scrittura,
questo è stato un punto sul quale il confronto interno si è rivelato vivacissimo
e la soluzione che si è percorsa è, secondo me, una soluzione profondamente
corretta ed in prospettiva vincente: quella dell’inclusività, quella dell’accettazione, del coinvolgimento di tutti i soggetti che siano volenterosi di entrare in
questo nuovo sistema ordinato, all’interno del sistema costruito dal testo unico,
e che ne rispettino le regole.
Se si vuole, il campo di gioco è questo: chiunque accetti di sottostare a quelle
regole di fondo del gioco, può fare il proprio ingresso in campo e può appunto
dimostrare il proprio valore.
Questa non è, a dire il vero, una manifestazione di cedimento da parte degli
architetti del testo unico, ma al contrario è una grande assunzione di responsabilità, è una grande manifestazione di convinzione del buon funzionamento
di questo sistema, perché appunto si è manifestata la consapevolezza che i
soggetti più capaci e responsabili potranno essere in grado di costituire le punta
avanzate della gestione delle relazioni industriali per tutti i partecipi di questo
sistema.
Come si esplicano le soluzioni a queste problematiche e le prospettive che,
dopo la crisi del sistema delle relazioni industriali creato dal protocollo del 1993,
si erano manifestate e richiedevano normali interventi indifferibili? Appunto in
questo testo, che è un testo di circa 25 pagine, il quale, com’è stato detto, si
articola in quattro parti, più un gruppo di clausole transitorie e finali, nelle quali
le relazioni industriali trovano una loro nuova costituzione.
Questa è già una definizione suggestiva rispetto alla domanda finale della quale
ci dovremo poi occupare: una volta realizzato questo complesso di regole, che
appunto valgono alla costituzione delle relazioni industriali, c’è un riempimento
che il legislatore può operare per rendere questo assetto più solido.
Ci potremo riflettere un po’ su, dopo che questo disegno avrà cominciato a funzionare ed avrà avuto il suo rodaggio, perché probabilmente poi, non soltanto
per riflettere sull’impostazione culturale tradizionale della CISL, ma proprio alla
luce della lettura del testo, questo potrebbe essere un accordo il quale si presta
a camminare con le proprie gambe.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
La prima parte del testo unico è dedicata soprattutto a conciliare i profili dell’effettività della rappresentanza con l’inclusività della stessa. La legittimazione
negoziale del diritto sindacale, la legittimazione a partecipare alla trattativa, è
una legittimazione negoziale, che normalmente deriva dal solo reciproco riconoscimento, non vi è la necessità, l’obbligo di una parte di intavolare trattative
con un altro soggetto in relazione a fattori estrinseci, a delle qualità immanenti
che questo soggetto dovrebbe possedere.
Non per il numero degli iscritti, non per il fatto che questo è un soggetto che stipula contratti collettivi in altri settori o in altre aziende, ma solo perché si ritiene
che quello sia l’interlocutore più affidabile: è una decisione libera.
Questo viene ribadito, anche dopo l’entrata in vigore, l’acquisizione dell’efficacia, del testo unico da dei pronunciamenti recenti della giurisprudenza di
merito, perché su questo la sentenza della Corte Costituzionale del luglio 2013
aveva probabilmente in alcuni passaggi un po’ incauti, un po’ poco sorvegliati
della motivazione lasciato intendere che ci fosse una qualche rilevanza del fatto
che un sindacato fosse grandemente e significativamente rappresentativo.
C’è un passaggio che a proposito del sindacato utilizza quattro avverbi differenti: grandemente, significativamente, ecc., per cui non si capisce se rinvia ad un
parametro oggettivo, ad una certa qualità che un sindacato deve possedere ed
in base al cui possesso ha diritto di partecipare alle trattative.
E quello che effettivamente accade, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, è che qualche associazione sindacale, naturalmente non una di quelle appartenenti alle confederazioni storiche, vada dal giudice e gli dica di avere molti
iscritti e di aver fatto molti tentativi di conciliazione in DTL, il che dimostrerebbe
che quell’associazione ha le qualità che la Corte Costituzionale riconosce come
fondamentali, per cui rivendica il diritto di partecipare alle trattative e, a cascata,
come dice la sentenza della Corte Costituzionale, il diritto a costituire le rappresentanze sindacali aziendali.
Una giurisprudenza, che per il momento sembra una giurisprudenza di grande
sobrietà e di rigore, sta respingendo queste richieste, asserendo che la Corte
Costituzionale non ha individuato dei parametri oggettivi, quindi allo stato, se
il legislatore non interviene, non si può affermare che ci sia un diritto a trattare
sulla base di una rappresentatività evanescente, di una cosa che nella legge
non c’è.
Siccome nella legge questo non c’è, le Parti Sociali a loro volta, per porre dei
punti fermi rispetto a quelli che sono i componenti delle squadre, individuano
questi parametri di rappresentatività, li individuano per ora in prospettiva, affidandoli ad una regolamentazione di dettaglio, che è comunque in corso di
perfezionamento e sostiene che la rappresentatività adeguata e significativa,
che permette di partecipare alle trattative, deve essere indicata dai soggetti
stessi, i quali devono precisare anche qual è la rappresentatività che obbliga
le associazioni di categoria e i datori di lavoro ad intavolare le trattative con
determinati soggetti. Ed è appunto la rappresentatività media del 5%, misurata
secondo i meccanismi della prima parte del testo unico.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
277
Qui c’è un punto di collegamento, come si può vedere chiaramente nel testo
unico, tra la prima parte e la terza parte: la prima parte contiene tutta una serie
di elementi, che sono in predicato, in attesa di realizzazione, sulla misurazione
della rappresentatività; il numero degli iscritti, i risultati dei voti conseguiti alle
elezioni delle rappresentanze unitarie, l’operazione di raccolta e di calcolo di
questi dati, che il Cnel o il suo successore sarà chiamato a svolgere ai fini
dell’individuazione di quelle organizzazioni che sono rappresentative ai fini della partecipazione alla contrattazione collettiva nazionale.
Dal punto di visto del nudo ordinamento legale si può dire che rimane e continua
a valere il reciproco riconoscimento, ma questo per le regole dell’ordinamento
intersindacale è qualcosa che invece viene più circostanziato e viene specificato attraverso il riconoscimento della rappresentatività media: al possesso del
5% è legato il diritto di un’organizzazione sindacale a partecipare alle trattative
per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro.
Questo vale nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nel quale l’impresa decide di confluire e qui si supera quel problema di cui si diceva, ovvero
quello della categoria oggettiva: non c’è più la categoria oggettiva, perché in
questo caso si rileva la volontà dell’impresa di collocarsi nell’uno o nell’altro
settore, nell’area della contrattazione collettiva e delle relazioni industriali che
essa ritiene più confacente e rispetto alla quale presenta ovviamente i requisiti
di appartenenza, che portano l’associazione di categoria ad accettare la confluenza di un determinato soggetto nella categoria medesima.
Se si applica un determinato contratto collettivo, i datori di lavoro, che applicano
quel contratto collettivo di lavoro, concorrono alla conta delle deleghe sindacali
e attraverso la conta delle deleghe e la conta dei voti ricevuti si determina il riconoscimento della rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva e il diritto
di questi soggetti a partecipare alle trattative per la stipulazione del contratto
collettivo nazionale di lavoro.
C’è una saldatura molto forte tra la parte prima e la parte terza, questo mi permette di essere un po’ più veloce nel richiamare la parte seconda, che proprio
per ragioni di importanza domestica è la parte che può essere secondaria, perché è una parte che riscrive il regolamento per l’elezione delle rappresentanze
sindacali unitarie e quindi riscrive i processi elettorali, riscrive la legittimazione
a presentare le liste e soprattutto contiene quell’elemento di novità – ed è questa un’altra manifestazione di quell’apertura che conferisce al testo unico l’ambizione di porsi veramente come una costituzione di carattere generale delle
relazioni industriali – che è l’eliminazione del terzo riservato.
L’eliminazione del terzo riservato permette a tutti i competitors di ottenere un
riconoscimento esattamente proporzionale ai consensi ricevuti. A questo riconoscimento fanno tuttavia da contraltare poi alcune regole più chiare e nitide
in materia di processi decisionali della rappresentanza sindacale unitaria, nel
senso che da un lato appunto la distribuzione dei seggi è una distribuzione
strettamente proporzionale, dall’altro nel testo unico si ribadisce che le decisioni, anche ai fini della contrattazione collettiva e della rappresentanza sindacale
unitaria, vengono assunte a maggioranza dei componenti e quindi ciò che vale
per la maggioranza vale per la rappresentanza sindacale unitaria.
278
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
La rappresentatività del sindacato oggi è la chiave d’accesso, se viene applicata la parte terza, alla contrattazione collettiva. In verità il testo unico si sofferma
in particolare sulla contrattazione collettiva nazionale, lasciando le regole più
minute, riguardanti la contrattazione collettiva di secondo livello, ai contratti collettivi di categoria. Ma comunque ha anche delle ricadute molto importanti per
la contrattazione collettiva di secondo livello.
Il 5% dà titolo alla partecipazione alle trattative, che vedono quindi una platea
di partecipanti dotati del medesimo requisito di partenza e che sono chiamati
ad elaborare delle piattaforme rivendicative che siano possibilmente unitarie o
quanto meno maggioritarie. Quindi chi si siede al tavolo, sa di dover partecipare
ad una trattativa in cui comunque la discussione deve essere polarizzata sulla
piattaforma che riscuote un consenso maggioritario.
Poi vedremo come evolverà la realtà attuativa dell’accordo: l’idea che uno si
fa è che tutte le associazioni sopra il 5% abbiano il diritto di partecipare alle
trattativa: firmatarie o non firmatarie, autrici o non autrici, consenzienti o dissenzienti rispetto alla piattaforma che è oggetto di discussione, però sono tutte
legittimate e chiamate – a maggior ragione se hanno delle piattaforme diverse,
se hanno degli elementi di dissenso – a partecipare alla trattativa fino alla sua
conclusione ed a manifestare il proprio punto di vista, fino a quando non si
raggiunge – ed è ovviamente questo un auspicio, ma dovrebbe essere un elemento fisiologico di sistema – un accordo che sia condiviso dalle organizzazioni
sindacali, le quali, sommando i vari 5%, rappresentino almeno il 50% +1 della
rappresentanza.
L’obiettivo dell’applicazione delle parti ulteriori, quelle riguardanti l’esigibilità degli accordi, è quello di arrivare ad un accordo che sia socialmente difendibile,
perché è un accordo di maggioranza.
Anche questa è una regola dell’ordinamento intersindacale: un’associazione,
così come un qualunque soggetto privato, potrebbe teoricamente siglare accordi di minoranza, appunto accordi non condivisi dal 50% +1 dei rappresentanti,
perché il diritto privato non preclude la possibilità di stipulare un contratto, qualunque esso sia.
Ma si avrebbe una duplice conseguenza: la prima è che questi accordi sono al
di fuori di questo sistema e quindi a questi accordi non si applicano poi tutte le
altre norme che prevedono e sottintendono un contratto siglato secondo queste
regole; la seconda è che in questo modo chi accetta un risultato negoziale, che
non ha gli elementi e le caratteristiche che sono propri di questo accordo, finisce per porsi al di fuori di questo sistema di rappresentanza e quindi, per così
dire, esce dal campo di gioco.
Tutti gli elementi e tutte le regole che sono stati introdotti per assicurare la stabilità delle relazioni industriali non trovano più applicazione in questi soggetti,
quindi al momento io direi che l’effettività di questo modello è garantita dal fatto
che questo modello assicura alle imprese ed ai sindacati tutta una serie di
vantaggi, a fronte dei quali la soddisfazione momentanea di un accordo di minoranza è veramente ben poca cosa. L’interesse ad avvantaggiarsi di ciò che il
testo unico garantisce è molto maggiore rispetto a quello dei possibili vantaggi
contingenti derivanti dalla fuga da questi meccanismi.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
279
La sottoscrizione del contratto sulla base del consenso dei sindacati maggioritari è un evento al quale fanno seguito ed a cui si agganciano poi le forme di
esigibilità, che sono anche assistite da possibili meccanismi sanzionatori.
Un punto delicato, al quale il testo unico non si sottrae, è quello della contrattazione di secondo livello: a dire il vero è una contrattazione che viene messa a
fuoco esclusivamente sul fronte e nella terminologia della contrattazione aziendale, visto che la parte terza parla dei contratti collettivi aziendali.
Questo pone un tema di adattamento di questi meccanismi anche a situazioni e
settori nei quali la contrattazione collettiva non è solamente una contrattazione
collettiva aziendale, ma è anche, o è magari prevalentemente, una contrattazione collettiva territoriale.
Possiamo dire, leggendo le parole dell’accordo, che al momento la contrattazione territoriale, mentre è inclusa in determinate situazioni e in determinate
fattispecie – vi ho nominato l’articolo 8 – è esclusa dal testo unico sulla rappresentanza sindacale e quindi questo postula e richiede degli interventi.
Io non ritengo che sia impraticabile, inammissibile, impossibile, o che sia qualche cosa che le Parti Sociali non hanno voluto, nel momento in cui hanno sottoscritto questo accordo, semplicemente le Parti Sociali sono partite da una
realtà, che è appunto quella confindustriale, in cui avevano una certa sensibilità
verso la contrattazione aziendale e non verso quella territoriale.
Tuttavia questo non preclude che in altri contesti le parti firmatarie possano
esprimere una diversa sensibilità e adattare questi meccanismi anche alla contrattazione territoriale, nel cercare di esplicitare al massimo questa vis attrattiva
che il testo unico vorrebbe appunto esplicitare nei confronti di tutti i possibili
stakeholder, verso tutti coloro che hanno appunto interesse ad usufruire di questo strumento.
Su questo apro una parentesi, precisando chi sono i giocatori di questa partita,
quali sono le parti, chi sono coloro che possono confluire in questo sistema:
sono – e lo accennava prima molto di passaggio, ma molto acutamente Marco
Lai – quelli che aderiscono all’accordo.
Lo dico perché ci sono alcune organizzazioni sindacali, naturalmente estranee
al novero dei firmatari, che hanno contestato ed hanno addirittura intrapreso
delle azioni per una declaratoria di nullità di questo accordo, perché escluderebbe da una serie di prerogative – prima tra le quali appunto proprio quella
dell’accesso alla contrattazione collettiva nazionale sulla base del 5% – tutti coloro che non hanno originariamente contrattato l’accordo e quindi non possono
essere considerati firmatari dell’accordo stesso.
Questa è una prospettazione abbastanza irrealistica e che è stata smentita
dalla stessa condotta delle parti: la parte firmataria dell’accordo è la parte che
accetta di firmarlo e che viene ammessa alla sottoscrizione dell’accordo, questo sia nel momento originario, sia in un momento successivo alla redazione
del testo originario: chi accetta di apporre la propria firma su questo testo, diventa la parte firmataria e quindi non ci sono soggetti a priori esclusi, perché
c’è appunto una disponibilità di apertura a qualunque soggetto sindacale, che
accetti le regole di questo accordo.
280
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Ciò è successo per la confederazione COBAS, la quale aveva manifestato
un’accettazione dell’accordo, dicendo che avrebbe aderito, salvo che poi non
ci fosse qualche verifica della legittimità o illegittimità di alcune sue clausole,
perché essa avanzava delle riserve di merito, delle riserve tecnico-giuridiche.
Però ha aderito all’accordo ed il giudice del tribunale di Roma ha detto: “Per me
voi siete tra le parti firmatarie dell’accordo e chiunque è parte di un contratto,
può chiedere la verifica della legittimità delle clausole di questo contratto: se voi
dite di voler aderire all’accordo, siete parti firmatarie”.
Dunque tutti i soggetti, che accettano l’accordo e dichiarano di firmarlo come è
nella realtà dei fatti, diventano parti firmatarie, come lo sono diventate la UGL,
la CONFAIL e tutta una serie di associazioni, che non hanno partecipato alla redazione del testo unico, ma a posteriori hanno manifestato la volontà di entrare
in questo assetto regolativo.
La contrattazione di secondo livello è anch’essa una contrattazione che soggiace al principio maggioritario e che presenta un elemento rafforzativo, un
elemento di controllo, che è quello del referendum, il quale ha avuto una prima
verifica e prova nel caso Alitalia, del quale ha permesso di chiarire certi punti.
L’accordo aziendale è assoggettabile a referendum, ma si deve valutare che
tipo di efficacia ha il referendum a seconda del quorum di partecipazione e a
seconda del tipo di responso. Su questo punto c’è stato un primo dibattito, una
prima dialettica tra le organizzazioni sindacali, infatti il referendum non è confermativo, ma risolutivo, quindi un referendum che non condiziona la validità
dell’accordo, ma che può viceversa determinarne la risoluzione, a condizione
che si abbia una consultazione con il 50% +1 degli aventi diritto al voto e che
si abbia un’intesa respinta con la maggioranza semplice dei votanti. Insomma,
il referendum serve a permettere di manifestare delle forme di dissenso della
base con effetto risolutivo.
Serve dunque quando ci sono dei casi delicati: si veda l’esempio di Pomigliano, in cui ci poteva essere un forte dissenso di base, che però deve tradursi
a questo punto in una partecipazione attiva, che determina un respingimento
con il voto a maggioranza dei partecipanti, i quali a loro volta devono essere la
maggioranza degli aventi diritto, perché altrimenti si rischia in pratica di affidare
a delle minoranze un potere di veto sugli accordi.
La parte terza del testo unico riprende le previsioni dell’accordo del 2011 in merito ai possibili accordi modificativi, quindi questo è un tema che in una qualche
misura si intreccia con il tema dell’articolo 8. L’ipotesi degli accordi modificativi
non è una realtà ignorata né dal testo unico né ormai dalla maggior parte dei
contratti collettivi.
Io distinguerei l’ipotesi dell’accordo modificativo da quella dell’accordo in deroga, anche perché, secondo me, l’accordo in deroga è una situazione allo stato
un po’ incontrollabile al di fuori dell’ordinamento intersindacale. È molto più frequente e ipotizzabile che ci siano degli accordi che vadano a modificare istituti
del contratto collettivo nazionale per esigenze di adattamento o per esigenze
connesse alla particolare situazione dell’impresa, per speciali ragioni di tutela
dell’occupazione.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
281
Il testo unico recepisce quanto già previsto nel 2011 e fa un mezzo passo in
avanti, nel senso che contempla e conferma l’accettazione delle intese modificative, demandando alla contrattazione di categoria quali potranno essere le materie sulle quali le modifiche sono autorizzate dall’ordinamento intersindacale.
Non c’è dubbio che qui un’interferenza, una sovrapposizione tra legge e contrattazione collettiva c’è, perché oggi c’è una norma che effettivamente permette degli interventi più incisivi e più penetranti ed è una norma di applicazione
immediata, che non richiede specificazioni da parte della contrattazione collettiva, anche se poi delimitare l’ampiezza delle previsioni attuali in materia di
patti modificativi non è facile, perché le intese modificative, che al momento
sono possibili, sono quelle che disciplinano la prestazione lavorativa e gli orari,
ovvero una materia piuttosto definita.
Come si è detto a proposito dell’articolo 8, nella prestazione lavorativa e nell’organizzazione del lavoro c’è la pratica totalità dei contenuti del rapporto di lavoro, quindi dire che c’è una delimitazione molto stringente, molto rigorosa nel
testo unico è naturalmente questione di punti di vista, ma è sicuramente un
punto di vista non incontrovertibile e non univoco.
A proposito della esigibilità, che cos’è il valore aggiunto della esigibilità del contratto collettivo? Qual è la valenza della parte quarta del testo unico? È questo
un elemento di grande importanza per la stabilità del sistema e c’è da dire subito che a differenza delle posizioni di politica sindacale, che sono state espresse
da alcune fonti, il testo unico non è un testo che rifiuta o rigetta il conflitto.
Se mai è sicuramente un modello che ha l’ambizione – che non è per niente
strana, eretica, visto che in altri sistemi nazionali è ampiamente praticata – di
procedimentalizzare il conflitto stesso.
A dire il vero ci sono due situazioni diverse e due ipotesi, che si possono leggere nelle parti riguardanti le procedure di raffreddamento e le conseguenze
dell’inadempimento dell’accordo.
Ci possono essere delle situazioni nelle quali le parti per motivi contingenti, per
ragioni che si manifestano durante il corso della vigenza del contratto collettivo, devono affrontare una determinata problematica, una determinata tematica,
devono intervenire su determinati profili. E su questi si possono scatenare dei
conflitti, che sono i più vari nelle vicende delle relazioni industriali: pensiamo ad
un trasferimento d’azienda, che è la cosa più evidente, o pensiamo ad un’eccedenza di personale o ad altre situazioni contingenti, nelle quali si può verificare
un potenziale conflitto tra le parti. Oppure ci sono situazioni che coinvolgono i
contenuti degli accordi già firmati.
Sono situazioni diverse: da un lato c’è il conflitto slegato dal contratto collettivo,
dall’altro c’è il conflitto viceversa legato al rispetto del contratto collettivo e con
riferimento a queste due tematiche il testo unico demanda alla contrattazione
collettiva l’elaborazione di differenti situazioni.
Se si considera l’inizio della parte quarta, troviamo il richiamo a prevenire e
sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali nonché l’esigibilità e l’efficacia del contratti collettivi.
282
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Da un lato i processi negoziali si devono svolgere pienamente, dall’altro i contratti collettivi devono essere applicabili alla generalità degli interessati, così
come il testo unico vuole, e dovranno essere definite clausole o procedure
di raffreddamento, finalizzate a garantire da un lato l’esigibilità degli impegni
assunti con il contratto collettivo nazionale di lavoro e dall’altro a prevenire il
conflitto.
Naturalmente, se fossero due proposizioni riferite alla stessa situazione, sarebbe una duplicazione, invece da una parte ci sono le misure che sono finalizzate
a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con i contratti collettivi nazionali,
mentre dall’altra ci sono le regolamentazioni che sono destinate a prevenire il
conflitto.
Un elemento di chiusura di questo disegno è il fatto che, proprio perché le
parti si impegnano a condizionare la propria attività negoziale ad una serie di
adempimenti, di requisiti, di presupposti, il datore di lavoro non ha interesse
ad intavolare la trattativa anche con un soggetto che sa che magari darà un
apporto poco costruttivo al tavolo delle trattative: perché dovrebbe convocarlo
– anche se ha il 5% ¬– se sa che poi non stipulerà il contratto collettivo con
lui? Egli infatti sa che il contratto collettivo sarà efficace ed esigibile e se il tale
soggetto non rispetta questa regola, ci deve essere una previsione che detta le
conseguenze dell’inadempimento.
Quindi la chiusura è finalizzata, dal punto di vista dell’esigibilità degli accordi, a
garantire che, come giustamente veniva detto, tanto le imprese quanto le organizzazioni sindacali in termini di agibilità sindacale rispettino questi vincoli, cosa
che può portare perciò all’individuazione ed alla comminazione di sanzioni.
Peraltro bisogna dire che l’idea dei meccanismi sanzionatori non è nuova: era
già presente nel protocollo del 1993. Addirittura possiamo dire che si fa una
delimitazione oggettiva della sanzione, la quale, se si vuole, potrebbe essere
anche più rigorosa di quella del protocollo del 1993.
Nel protocollo del 1993 c’era una sanzione che poteva agire anche a livello
individuale, perché era una sanzione che operava con riferimento all’indennità
di vacanza contrattuale: quando per un certo periodo, in violazione dei periodi
di raffreddamento, si dichiarava lo sciopero, l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale poteva essere sospesa e differita.
Questo vuol dire che quindi ci poteva essere una clausola che, a fronte della
violazione di una procedura, di un periodo di raffreddamento, poteva riflettersi
e svolgere effetti anche nella sfera individuale, perché sospendere i termini
della vacanza contrattuale vuol dire non erogare una certa voce di trattamento
retributivo per i lavoratori.
Invece nel testo unico le conseguenze sanzionatorie sono delimitate ai diritti
sindacali, quindi sono delimitate alle situazioni soggettive dell’associazione in
generale, che intervengono a violare le regole del protocollo.
Per quanto riguarda le altre situazioni, cioè tutta la generale prevenzione del
conflitto, questo è un profilo che, tutto sommato, dimostra la vocazione dinamica del testo unico: recepisce il fatto che il contratto collettivo non è proprio
qualcosa di statico, al quale non si può aggiungere nessun pezzo, sul quale
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
283
non si può intervenire in corsa, perché ci sono certi assetti che possono richiedere degli interventi negoziali molto repentini a fronte del cambiamento delle
situazioni.
Che cosa succede nell’impresa con i cambiamenti, con la concorrenzialità, con
la variazione di mercato lo sappiamo tutti e sappiamo quindi che ci possono
essere delle esigenze di intervento, che in qualche modo si pongono su un
binario diverso: potremmo dire che sono estemporanee rispetto alla ciclicità
della contrattazione collettiva.
Che cosa facciamo rispetto a questi aspetti? Li lasciamo al laissez faire delle parti in conflitto, oppure individuiamo delle regole, che possono in qualche
modo aiutare a metabolizzare queste trasformazioni? L’idea che viene espressa nel testo unico è che si debba procedere nel secondo senso, cioè si devono
immaginare dei meccanismi che all’interno di un circuito relazionale includano
sia la parte conflittuale che la parte negoziale e favoriscano naturalmente la
confluenza della prima sulla seconda.
Questo vuol dire che le parti, prima di scatenare il conflitto, sono chiamate ad
incontrarsi, a sviscerare le ragioni di questo conflitto potenziale, per favorirne la
preventiva, laddove è possibile, composizione.
Potrebbe essere un tentativo di esportazione di un modello che era stato già
introdotto dal legislatore e che in alcuni campi ha funzionato: è la legge sullo
sciopero nei servizi pubblici essenziali, la quale ha introdotto quest’obbligo per
legge, determinando un momento in cui molto spesso il conflitto si va a decantare, prima di sfociare in iniziative che possono ledere gli interessi degli utenti.
Questo è il percorso che le parti hanno disegnato, questo è lo schema, sul quale, naturalmente con i completamenti che stiamo attendendo, si procederà.
La legge può fare di più o aggiungere degli elementi a questo disegno? Si sta
parlando in queste ore di una sorta di scambio, che la compagine governativa
sta immaginando di proporre alle Parti Sociali e che coinvolgerebbe in questa
dialettica anche una legge sulla rappresentanza, destinata ad offrire degli elementi di rafforzamento rispetto a quello che le parti hanno scritto.
Questa è una prospettiva che deve essere valutata con molta attenzione e
che reca in sé dei germi di effetti assai controproducenti rispetto ai vantaggi.
Uno schema legale di governo della rappresentanza ai fini della contrattazione
collettiva – perché lì c’era la riserva di legge – è stato sperimentato nel lavoro
pubblico e nel lavoro pubblico il contenzioso giudiziale sull’applicazione di queste norme è diventato altissimo.
Immaginiamoci la gestione di norme legali nell’elezione delle RSU affidata ai
giudici per l’applicazione, appunto, di disposizioni legali, che poi sono il presupposto del riconoscimento della legittimazione negoziale di certi soggetti a partecipare o meno alle trattative, magari assoggettata alle lungaggini ed ai capovolgimenti dei giudizi civili. Questa è solo una delle possibili controindicazioni, che
inducono ad essere un po’ scettici sulla reale sostanza di questo scambio.
L’artefice della teoria dell’ordinamento intersindacale, Gino Giugni, era solito
affermare che molto spesso la legislazione sul lavoro procede a spizzichi e che
molto spesso gli interventi più efficaci, quelli che favoriscono la definizione degli
284
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
aspetti più efficienti, non sono gli interventi di riscrittura palingenetica del sistema, ma quelli attraverso i quali si interviene in maniera molto mirata su alcuni
snodi problematici e si sblocca il circuito delle relazioni, le quali, come ci dice la
Costituzione, sono relazioni in primo luogo caratterizzate dall’esplicazione del
principio di libertà sindacale. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Un grazie sentito al professor Stefano Bellomo, perché mi pare appunto che
abbia utilmente collocato le quattro parti del testo unico in un contesto di attualità.
Io sarei molto curioso di capire in che cosa consiste lo scambio, perché le organizzazioni sindacali, quanto meno quelle confederali, si sono tutte espresse
per una contrarietà riguardo alla legge sulla rappresentanza, per cui il favore
varrebbe soltanto nei riguardi di una categoria di una confederazione.
Raccogliamo ora tre-quattro domande per volta per avviare il confronto con il
professor Bellomo.
GIUSEPPE BOCCUZZI
(Segretario Regionale Aggiunto FISASCAT CISL Puglia)
In premessa è stato sottolineato il fatto che noi della categoria del Commercio,
Turismo e Servizi non abbiamo ancora declinato il testo unico, tranne qualche
piccola eccezione, che è stata evidenziata da Rosetta Raso, a cui si è aggiunto
l’accordo con la Cooperazione nel mese di settembre.
Il fatto che non si sia resa applicativa la certificazione dei dati da parte del Cnel,
per cui non abbiamo una misurazione ufficiale soprattutto di chi vorrebbe dimostrare di avere quel famoso 5%, è un effettivo ostacolo alla rappresentanza di
chi vuole entrare in questo campo di gioco? Dobbiamo concederla sulla fiducia
adesso? Oppure dobbiamo aspettare, come al solito, le lungaggini burocratiche
che affliggono il nostro Paese?
Questo dimostra che l’unico pezzetto che abbiamo voluto inserire in questa
autonomia delle parti, vale a dire il rimando ad un organo costituzionale come
il Cnel, purtroppo fa rallentare la macchina, magari perché qualcuno voleva
superare l’esistenza del Cnel, addirittura abolendolo.
Per cui io vorrei sapere se questo può costituire un blocco, oppure se c’è un
modo per aggirare quest’ostacolo e per dare effettività non solo al testo unico
in generale, ovvero a tutt’oggi alla rappresentanza nel settore presidiato da
Confindustria, ma anche, a cascata, nei prossimi periodi, alla rappresentanza
che riguarda i nostri settori.
Grazie.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
285
LOREDANA NICOLI
(Consulente del Lavoro Bergamo)
Nel suo discorso, professore, lei ha parlato di esigibilità del contratto collettivo
nazionale. Potrebbe spiegare meglio, fornendo magari qualche esempio, queste esigibilità? Grazie.
ROBERTO DE LORENZIS
(Consulente del Lavoro Genova)
Secondo me l’articolo 39 riflette molto il regime precedente: da un lato c’è la
reazione all’affermazione dell’assoluta libertà sindacale, dall’altro però c’è un
riferimento alle categorie, che sembra proprio un retaggio dell’ordinamento corporativo. Rispetto alla libertà, che il professore ha citato, c’è una frase, che dice
più o meno così: “Le parti non sono vincolate sostanzialmente alla categoria,
ma solo libere di utilizzare il contratto collettivo che vogliono, ovviamente nei
limiti della ragionevolezza”.
Rispetto a questo, quando ci sono in una realtà aziendale multiforme, delle
richieste di applicazione di contratti specifici, che vanno al di là di quello della
maggioranza dei lavoratori dell’impresa o del gruppo, come reagiamo?
A Rosetta Raso vorrei chiedere se, rispetto alla bozza di testo unico del Commercio, la lacuna del testo confindustriale, che, parlando della contrattazione di
secondo livello, si limita a parlare di contrattazione aziendale, viene superata.
Si parla anche di contrattazione territoriale, che, considerato il numero medio
degli addetti della stragrande maggioranza delle imprese commerciali, mi sembra un modello più appropriato rispetto a quello della contrattazione aziendale?
Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Credo che possa essere preliminarmente utile distinguere tra esigibilità ed efficacia, cioè estensione dell’applicazione, perché una cosa è l’esigibilità, altra
cosa è a chi si applica.
Il fatto che il testo unico sulla rappresentanza non contempli la contrattazione
territoriale, non vuol dire che la escluda. Dal mio punto di vista, secondo una
spiegazione molto empirica, semplicemente non ci si è pensato, siccome si
trattava di fare un testo, che faceva particolare riferimento al settore industriale
e che, se guardate bene, riprende pari pari il testo del 28 giugno 2011, in cui
appunto non si fa alcun accenno alla contrattazione territoriale.
Io condivido totalmente l’impostazione secondo la quale non c’è stata volontà
di non tenerla in considerazione, ma c’è stata solo una non considerazione, la
quale non esclude la possibilità che invece il rinvio, che l’accordo fa alle categorie, possa utilmente contemplare anche la dimensione territoriale.
Ma ridiamo la parola al professor Bellomo.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
STEFANO BELLOMO
(Professore Ordinario di Diritto del Lavoro Università di Perugia)
Rispetto alla tempistica ed alle condizioni per l’avvio a regime di questo collegamento tra la parte prima e la parte terza del testo unico, indubbiamente il
tema intertemporale è un aspetto con il quale ci si deve confrontare in questi
momenti, in cui la misurazione della rappresentatività non si avvia.
Che vi fosse la necessità di un soggetto terzo e di un soggetto autorevole è un
tassello importantissimo del sistema, proprio perché altrimenti i soggetti, che
avessero nutrito delle tentazioni di fuga o di presa di distanza, non avrebbero
preso in considerazione l’idea di accettare questo sistema di misurazione, visto
che, naturalmente, soprattutto nel bene, è un grande antidoto contro l’autoreferenzialità.
Ci sono infatti ora delle rappresentanze sindacali, che si presentano in giudizio,
sostenendo di essere grandemente rappresentative, ma senza addurre degli
elementi concreti di valutazione.
Al momento è chiaro che questo tipo di misurazione oggettiva non ci può essere e quindi le modalità di svolgimento delle trattative seguono in parte, per
quanto riguarda la contrattazione nazionale, le linee di svolgimento seguite in
precedenza, vale a dire che sono i firmatari del contratto, i quali in primo luogo
decidono di avviare le trattative per il rinnovo dello stesso.
Quindi in termini di contrattazione collettiva nazionale è chiaro che la misurazione e l’efficienza del sistema si possono semplicemente valutare nel momento
in cui tutto il percorso attuativo è stato compiuto. In questo momento non possiamo arrivare ad altre indicazioni.
Delle linee un po’ più nitide, per quanto riguarda invece l’applicazione della
parte terza, si possono avere proprio in merito alla contrattazione collettiva di
secondo livello. Le regole sulla contrattazione collettiva di secondo livello, in
particolare per quanto riguarda le RSA, possono funzionare oggi anche in assenza dei meccanismi attuativi della parte prima.
Il 5% vale per la contrattazione collettiva nazionale, mentre le regole maggioritarie fissate per il funzionamento delle RSU e per la contrattazione collettiva di
secondo livello condotta dalle RSA sono regole che possono trovare già un’applicazione immediata nell’ambito dell’attività negoziale nazionale.
Poi si fanno questioni - e saranno questioni da analizzare caso per caso con riferimento all’atteggiamento delle varie organizzazioni categoriali - circa la necessità o meno di un effettivo recepimento di queste regole a livello di categoria.
Questo è un altro punto che si sta discutendo, perché, se noi dovessimo dare
una definizione, se dovessimo valutare qual è la fisionomia del testo unico,
dovremmo dire che è un accordo Interconfederale, quindi un accordo che vincola le confederazioni e come tale si può ritenere che richieda un passaggio di
recepimento esplicito o di consenso delle organizzazioni categoriali.
Cioè, se c’è un’organizzazione che è affiliata ad una confederazione, la quale
ha sottoscritto il testo unico, le regole del testo unico si applicano automaticamente, o si applicano con il recepimento, con il consenso da parte della
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
287
categoria stessa all’interno dei contratti collettivi? Probabilmente in questo caso
è la non contrarietà, l’accettazione di queste regole di fatto da parte della confederazione che già vale a considerarle come vincolanti, nei limiti in cui possono
essere vincolanti, nei confronti delle associazioni di categoria.
Adesso ci si pone il problema del Commercio, perché il Commercio comunque
deve partire dallo stesso recepimento del testo unico, quindi deve ancora iniziare il percorso della sottoscrizione dall’origine; ma le organizzazioni affiliate alle
confederazioni firmatarie che hanno un dirimpettaio affiliato a Confindustria, se
hanno accettato i risultati della negoziazione condotta dalla confederazione di
riferimento, dovranno cominciare a fare applicazione di queste regole.
Ovviamente, per ora, solo per quanto riguarda la contrattazione di secondo
livello, mentre, per quanto riguarda la contrattazione nazionale, c’è la necessità che questo percorso sia portato a compimento fino in fondo, a meno che
il Segretario Rosetta Raso non ci dica che ci possono essere degli strumenti differenti, però ribadisco che la misurazione richiede il perfezionamento del
meccanismo del testo unico.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Stefano Bellomo sostanzialmente ci ha detto che la parte terza, quella che ha
a che fare con la contrattazione aziendale, può essere già operativa. Io sono
totalmente d’accordo, perché questo era già previsto anche dall’accordo del 28
giugno 2011.
Io direi che non solo la parte terza, ma anche la parte seconda è espressamente già operativa, perché si dice chiaramente che, laddove si dia luogo a
nuove elezioni di RSU, si dovranno seguire le nuove regole. Quindi in questo
caso non c’è bisogno di aspettare nulla, è giusto invece che tutto ciò che ha a
che fare con la misurazione della rappresentatività a livello nazionale e con la
contrattazione nazionale venga rinviato alle categorie, così come la scelta tra
RSU e RSA è rinviata alle categorie.
Da un lato c’è il problema dei settori che non sono menzionati e c’è il problema
anche dell’efficacia dell’estensione dell’accordo, però, se si va a leggere a pagina 83 del testo unico che vi è stato fornito, per le categorie, che fanno parte
delle confederazioni che hanno stipulato il contratto, queste regole sono già
vincolanti.
Infatti a pagina 83 – è questo il punto del quale in particolare la FIOM ha fatto in
tutti i congressi della CGIL elemento di scontro – si dice: “In via transitoria, ed
in attesa che i rinnovi dei contratti nazionali definiscano la materia disciplinata
dalla parte quarta del presente accordo, le parti contraenti concordano che
eventuali comportamenti non conformi agli accordi siano oggetto di una procedura arbitrale da svolgersi a livello confederale”.
E poi si aggiunge: “A tal fine, le organizzazioni di categoria – leggi FIOM – appartenenti ad una delle Confederazioni firmatarie del presente accordo, ovvero
288
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
che comunque tale accordo abbiano formalmente accettato, sono obbligate a
richiedere alle rispettive Confederazioni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato …”. Quindi, fintanto che quelle categorie fanno parte di una
confederazione, se sono in contrasto con la confederazione stessa, devono
adire ad una conciliazione.
Non solo si può ritenere già applicabile immediatamente l’efficacia erga omnes
dei contratti aziendali, qualora applicati e sottoscritti dalla maggioranza di RSU
o di RSA su delega, secondo quanto detto, non solo sono immediatamente applicabili le regole sull’elezione della RSU della seconda parte, ma c’è anche un
obbligo per le categorie, fino a quando esse fanno parte di una confederazione,
di agire nel rispetto di quanto previsto dal testo unico.
STEFANO BELLOMO
(Professore Ordinario di Diritto del Lavoro Università di Perugia)
È singolare che questioni di questo tipo siano soprattutto agitate all’interno della CGIL. Infatti ci si dovrebbe cimentare nella lettura degli statuti, per capire il
grado di vincolatività di secondo grado di questi accordi. Nel caso della CGIL
questo sarebbe un profilo particolarmente forte, perché lo statuto della CGIL
prevede che gli iscritti alla CGIL siano simultaneamente iscritti alla confederazione ed alle associazioni di categoria.
Questo in qualche misura può essere ricavato anche da altre fonti, ma nello
statuto della CGIL appare con grande evidenza, quindi il fatto che l’organizzazione stia pervenendo ad un risultato negoziale, vuol dire che tale risultato
vincolerà l’associazione e quindi vincolerà i soci dell’associazione, che sono i
lavoratori delle categorie, i quali sono simultaneamente associati anche alla
CGIL e quindi alla confederazione. In questo caso mi pare che ci potrebbero
essere elementi ulteriori per sostenere una vincolatività diretta.
Quanto all’esigibilità, va detto che in realtà i temi affrontati ed ai quali il testo
unico si propone di dare una soluzione, sono due e non sono entrambi riconducibili a quello dell’esigibilità, infatti vi è anche il tema dell’efficacia, che forse
è preliminare e più importante di quello della esigibilità. Il tema dell’efficacia è
quello che va declinato in maniera fisiologica, mentre quello dell’esigibilità è il
tema che va riferito alle possibili fasi patologiche.
Il tormento del diritto sindacale degli anni 2000 è stato rappresentato dalla problematica del dissenso: i lavoratori che non accettano il contenuto del contratto
sono lavoratori a cui il contratto non si applica. Questo tema del dissenso si
è esplicato con particolare virulenza nei confronti non tanto dei lavoratori non
iscritti, perché nei confronti dei lavoratori non iscritti c’è tutta una serie di correttivi, i quali permettono di arrivare ad un risultato di vincolatività dell’accordo
successivo.
Vale il principio per cui, se io ho accettato il contenuto del contratto precedente,
allorché viene raggiunta una prima intesa ed io continuo ad accettare l’accordo,
nel caso in cui esso abbia un istituto che non mi va bene, non posso rifiutarlo.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
289
Non posso dire, ad esempio, che mi vanno bene gli aumenti contrattuali, però
non mi va bene l’aumento delle ore di straordinario.
Quindi rispetto ai non iscritti questi problemi possono trovare degli ambiti di
soluzione, mentre la vera irresolvibilità è quella rappresentata dall’iscritto al
sindacato dissenziente.
Il testo unico immagina una strada, che poi dovrà essere vagliata anche giudizialmente, che è quella di una soluzione fondata su una accettazione preventiva, a priori da parte di tutte le organizzazioni sindacali che accettano di entrare
nel circuito di relazioni industriali del testo unico.
Se io sono iscritto ad un sindacato che ha accettato di sottoscrivere il testo
unico, che ha accettato di partecipare alla trattativa e che per avventura sta
fuori dalla maggioranza che ha stipulato il contratto, ciononostante e tuttavia,
avendo appunto esso partecipato ed accettato le regole di formazione del contratto, io e gli altri iscritti a quel sindacato siamo vincolati agli effetti ed al rispetto
di quel contratto.
Questo almeno se, nella misura in cui e fino a quando io rimango parte del
sistema di relazioni industriali fondato sul testo unico. Ciò non vuol dire che
uno non si possa sottrarre agli effetti di questo principio e tornare al diritto comune, però, a questo punto, l’idea è quella di sottrarsi al dissenso occasionale,
cioè alla possibilità, come è successo nella contrattazione collettiva di diverse
categorie, che qualcuno dica: “Io in questa tornata non appongono la firma al
contratto, le sue previsioni non si applicano nei miei confronti ed al prossimo
rinnovo contrattuale deciderò che cosa fare”.
Non è più così, perché l’obiettivo è che accettare le regole sulla produzione
contrattuale, porti ad accettare i risultati che questa produzione comporta.
L’esigibilità invece è una situazione che appunto rinvia alle vicende patologiche, cioè alle vicende del mancato rispetto degli obblighi previsti dal contratto
o all’adozione di iniziative di contrasto rispetto a quanto il contratto ha stabilito.
La portata del principio ha il significato di un obbligo di pace relativo, che con il
testo unico si istituzionalizza.
Nelle tesi del diritto sindacale si era discusso se dalla stipulazione del contratto
collettivo provenisse la illegittimità di tutti gli scioperi proclamati contro il contratto. Questa tesi fu affermato una volta dalla Cassazione nel 1971 e poi mai
più riproposta: infatti non esiste in natura un obbligo di pace relativo, ma c’è un
diritto individuale a scioperare.
Come si può dunque in qualche modo irreggimentare questo diritto? Con le
clausole brevi, cioè con quelle clausole che individuano le materie sulle quali
le parti si vincolano a non assumere azioni conflittuali ed a rispettare questi
obblighi; ed è più o meno in questa seconda area, che si muove il testo unico, solamente dicendo che comunque questa tregua, è una tregua riferita al
funzionamento, al contenuto dei contratti e se questa tregua viene violata, le
conseguenze sono di duplice ordine: scattano le sanzioni, quando le abbiano
previste i contratti, oppure c’è il ricorso alla generale procedura arbitrale, che
l’ultima parte del testo prevede.
290
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Quindi l’esigibilità riguarda la violazione, mentre l’efficacia è ciò che sta prima
e a monte della esigibilità.
Quanto alla domanda di De Lorenzis, diciamo che in realtà la domanda si declina in termini diversi a seconda che l’imprenditore sia affiliato o non affiliato ad una associazione imprenditoriale. Le associazioni imprenditoriali sono
normalmente delle associazioni orizzontali, cioè organizzazioni che coprono le
categorie e che individuano i requisiti di appartenenza alla categoria.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, che risale al 1978, quando un datore di lavoro si affilia ad una associazione datoriale, si vincola ad applicare il
contratto collettivo individuato secondo le regole di appartenenza categoriale
definite dall’associazione a cui si è iscritto. Quindi sono i criteri interni all’associazione di appartenenza che individuano qual è il contratto collettivo che il
datore del lavoro è obbligato ad applicare.
Altra problematica e viceversa quella dei free riders, cioè quei datori di lavoro
– i quali poi sono la stragrande maggioranza, quando si parla di piccoli datori
di lavoro – che, non essendo affiliati all’associazione imprenditoriale, scelgono
liberamente il proprio contratto collettivo.
In linea di principio noi dovremmo dire che c’è una libertà di scelta del contratto
collettivo da parte del datore di lavoro, perché in questo caso non c’è a monte
un vincolo associativo che seleziona il contratto collettivo.
Io dico sempre ai miei studenti, per enfatizzare la problematica, che un imprenditore potrebbe avere un’industria siderurgica e sostenere di voler applicare il
contratto collettivo dei dipendenti degli studi professionali, dato che l’ordinamento non lo vieta, per cui egli teoricamente sarebbe libero di applicarlo.
Questo è vero, però la controindicazione rispetto a queste scelte, l’implicazione naturale rispetto a queste scelte è che, quand’anche uno addivenisse ad
una scelta di questo tipo, egli rimane soggetto ai vincoli di legge ed i vincoli
di legge includono – ed è questa appunto la ragione principale per la quale gli
imprenditori operano la scelta del contratto collettivo di riferimento – il rispetto
dei principi di legge inalienabili, dei diritti dei prestatori di lavoro, soprattutto il
diritto alla giusta retribuzione.
Per cui, quando affronta problematiche di questo tipo, la giurisprudenza ha stabilito che la leva principale, il canale d’ingresso della coerenza tra trattamento
del lavoratore e contratto collettivo, è data dalla natura dell’attività in relazione
al diritto alla giusta retribuzione.
Prima di allora si applicava l’articolo 2070, si diceva che nel Codice Civile c’è
una norma che impone appunto di applicare un contratto collettivo corrispondente all’attività esercitata, però quella norma si riteneva e si ritiene a tutt’oggi
come una disposizione figlia dell’ordinamento corporativo, non più applicabile
ai contratti collettivi di diritto comune.
Quindi non c’è un obbligo generale di applicare un determinato contratto collettivo piuttosto che un altro, però l’articolo 36 della Carta Costituzionale soprattutto impone il principio di proporzionalità, cioè ci dice che la retribuzione deve
essere proporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto. La retribuzione
proporzionale e sufficiente viene determinata dal giudice, per cui il giudice deve
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
291
procedere alla ricerca del parametro più appropriato per la quantificazione della
retribuzione proporzionale e sufficiente, indipendentemente dal contratto collettivo che viene nella specie applicato dal datore di lavoro.
Se il giudice verifica che un certo contratto collettivo è, per così dire, incongruo
rispetto all’attività svolta, può procedere alla ricerca di un parametro retributivo
più appropriato e quindi può individuare un trattamento retributivo che sia effettivamente conforme e coerente con la natura dell’attività svolta.
Questo il giudice è chiamato a fare su scala individuale, non c’è dubbio, ma
la domanda che è stata posta sottintende un ulteriore profilo e complicazione:
quando le attività del datore di lavoro sono delle attività, per così dire, fortemente diversificate, è prospettabile l’applicazione o il richiamo a diversi contratti
collettivi?
L’applicazione di un contratto collettivo diverso, dal punto di vista della obbligatorietà giuridica dell’applicazione del contratto collettivo, non ha fondamento,
perché il datore di lavoro può applicare il contratto collettivo che vuole: il giudice
potrà controllare se in relazione ad una differente attività esercitata il trattamento retributivo garantito al lavoratore sia un trattamento parametrabile.
Il punto a cui stare maggiormente attenti è il trattamento minimo previsto dal
contratto collettivo nazionale di lavoro del settore corrispondente all’attività effettivamente prestata. Quindi, se il lavoratore tra paga tabellare, maggiorazioni
contrattuali e super minimo percepisce un trattamento che è comunque pari o
superiore al minimo previsto dall’altro contratto collettivo, non può richiedere
un adeguamento.
Il cambiamento che può essere rivendicato in giudizio non è sicuramente il
mutamento del contratto collettivo: se un certo contratto collettivo ha un determinato numero di giorni di ferie, un certo numero di giorni di permesso, non
si può chiedere che il datore di lavoro applichi un diverso contratto collettivo,
perché questo è inammissibile, si può chiedere solo la verifica del trattamento
retributivo.
Però l’articolo 36 non impone un raffronto tra la retribuzione normale di un contratto e la retribuzione normale di un altro, bensì un raffronto tra la retribuzione
complessivamente percepita ed il minimo contrattuale del contratto collettivo
che si richiede in sostituzione.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Il tema che si sta ora trattando è quello dello “shopping contrattuale”, della possibilità o meno di un imprenditore di applicare a suo piacimento un determinato
contratto: quando si affronta questo tema nelle aule dei sindacalisti – ma credo
anche nelle aule degli studenti e nelle aule di chi ho davanti – io dico sempre
che è vero che c’è il richiamo all’articolo 37, ma che bisogna a mio avviso richiamare anche altri due aspetti.
292
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Il primo è che c’è un profilo di inscindibilità delle clausole contrattuali: se applichi
un contratto non puoi scegliere da fior fiore il singolo istituto, cioè non si può applicare l’orario del contratto del siderurgico e lo stipendio del contratto del Commercio, proprio perché vige il principio di inscindibilità delle regole contrattuali.
Il secondo è che, qualora l’impresa goda di benefici pubblici di carattere normativo o contributivo, leggi defiscalizzazione degli oneri sociali o agevolazioni,
per esempio, in tema di apprendistato, l’impresa è obbligata ad applicare, quale
condizione per poter godere di tale beneficio pubblico, il contratto collettivo del
settore merceologico di riferimento.
La libertà sindacale negativa, quella che consiste nel poter applicare il contratto
che si vuole, pone un problema di distinzione tra obbligo è onere: se si gode
di certi benefici, bisogna applicare un determinato contratto. Con questo non
si viola l’articolo 39 comma primo, perché l’imprenditore può sempre rifiutare
la possibilità di ottenere dei benefici ed applicare il contratto che vuole, però,
ripeto, se egli desidera ottenere determinati benefici di carattere contributivo e
normativo, non può sottrarsi all’obbligo di applicare quel determinato contratto
che di tali benefici dispone.
STEFANO BELLOMO
(Professore Ordinario di Diritto del Lavoro Università di Perugia)
Riguardo al principio dell’inscindibilità, in parte ne avevamo già accennato nella
risposta precedente: la scelta della disciplina contrattuale di riferimento implica
appunto che l’imprenditore si obblighi ad applicare gli istituti di quel determinato
contratto collettivo e non c’è un obbligo legale che lo porti a farlo né che conferisca al singolo lavoratore il diritto di rifiutare istituti di quel contratto collettivo,
oppure di pretendere istituti di un contratto collettivo differente.
Teniamo conto che poi queste richieste nella stragrande maggioranza dei casi
riguardano istituti di carattere economico, specifici trattamenti economici o istituti che hanno delle ricadute economiche. A dire il vero i giudici di merito alle
volte sono un po’ resistenti rispetto a questo discorso, perché purtroppo la cultura giuslavoristica ha, per paradosso, un grado di diffusione e di penetrazione
tra i giudici del lavoro non sempre apprezzabile.
Noi purtroppo non abbiamo una magistratura professionalizzata, perché non
esiste il concorso da giudice del lavoro, e molto spesso i giudici operano le proprie scelte professionali per ragioni diverse rispetto a quelle della competenza.
Quindi alle volte il giudice, per avvicinarsi ad una qualche sede, accetta il penale, accetta le esecuzioni e purtroppo a volte ci si incontra-scontra con alcuni
giudici che non hanno una sensibilità giuslavoristica molto spiccata.
In realtà i giudici, quando fanno il giudizio di applicazione dell’articolo 36, sono
chiamati a fare una parametrazione sul trattamento minimo. Gli altri istituti, gli
scatti di anzianità, le indennità, ecc., con l’articolo 36 non c’entrano affatto,
sono semplicemente frutto dell’incontro di volontà contrattuali e questa non è
un’idea del sottoscritto.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
293
Se noi prendiamo la giurisprudenza della Cassazione su questi punti, troveremo una miriade di riscontri. La Cassazione una sola volta lo ha fatto e con una
motivazione molto contorta ha parlato del possibile ingresso degli scatti di anzianità nella retribuzione minima costituzionale. Però ha detto sempre che tutte
le voci diverse dai minimi contrattuali non stanno sotto l’ombrello dell’articolo
36, si applicano solo se c’è il consenso delle parti. Quindi invocare l’applicazione di un altro istituto non ha un fondamento giuridico.
Quanto ai benefici pubblici ed all’applicazione del contratto collettivo, anche su
questo punto effettivamente c’è, al di là delle opinioni personali che si possono
avere, un riscontro in questo senso.
Perché non si applica l’articolo 2070 del Codice Civile? Perché non c’è un principio generale che impone al datore di lavoro l’applicazione del contratto corrispondente all’attività effettivamente esercitata? La giurisprudenza dice che
quella norma presupponeva un ordinamento pubblicistico dei rapporti di lavoro,
presupponeva un intervento di istituzioni pubbliche sui rapporti di lavoro, ma
questo ordinariamente oggi non accade, perché le relazioni sindacali, le relazioni di lavoro, sono relazioni che gravitano nell’area del diritto privato.
Dico “ordinariamente non accade”, così non è tuttavia per quanto riguarda quelle situazioni e quelle materie nelle quali entra in gioco un intervento pubblicistico, un intervento istituzionale. A che cosa è finalizzata la concessione di determinati benefici? È, per così dire, uno scambio tra l’erogazione di un determinato
beneficio e l’adozione da parte del datore di lavoro di decisioni che favoriscano
l’impiego di condizioni considerate come socialmente adeguate e accettabili.
Per questo la Corte di Cassazione dice che, quando si è in questa materia,
l’articolo 2070 continua a trovare applicazione. Il giudice, quando deve valutare
la congruità del trattamento ai fini del diritto a percepire gli sgravi contributivi,
fa la valutazione sulla base di una corrispondenza oggettiva tra il contenuto
dell’attività svolta ed il contratto collettivo applicabile.
Questo però, a differenza di quanto detto prima, coinvolge tutto il trattamento e
non solo i trattamenti minimi. La giurisprudenza dice che si può avere un’industria metalmeccanica ed applicare il contratto collettivo degli studi professionali,
con il solo obbligo di rispettare i minimi retributivi del contratto collettivo dei
metalmeccanici, però non si può invocare il diritto alla percezione degli sgravi
o dei benefici economici pubblici, perché, per poter invocare questo diritto, non
si devono solo rispettare i minimi contrattuali del contratto dei metalmeccanici,
ma, se si ha una industria metalmeccanica, si deve applicare il contratto dei
metalmeccanici nella sua interezza.
In questo caso c’è un onere, non un obbligo, di natura pubblicistica: questo lo
ha ribadito la Corte di Cassazione e lo ha detto anche la Corte Costituzionale in
una vecchia sentenza del 1984 sulla fiscalizzazione degli oneri sociali.
Poi a cascata c’è il problema della selezione di quale contratto collettivo prendere in considerazione e su questo c’è il collegamento con le norme sui minimali
di contribuzione che permettono di selezionare o impongono di selezionare il
contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più
rappresentative: ciò permette di risolvere un problema, che altrimenti teoricamente ci sarebbe per l’articolo 36.
294
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Pensiamo proprio al settore del Turismo e dei Servizi: quanti contratti collettivi
ci sono e siglati da quali organizzazioni? Questo fu un discorso avviato negli
anni passati col titolo di “contratti collettivi pirata”: quanti contratti ci sono stipulati da associazioni datoriali, della cui consistenza non si ha certezza e della
cui esistenza a volte non si ha contezza, contratti che vengono applicati con
l’etichetta di “contratto collettivo nazionale di lavoro”?
Su questo punto la giurisprudenza non si è mai espressa bene: quando il giudice fa la valutazione, dovrebbe anche prendere in considerazione, sia pure in
via presunta, il grado di rappresentatività dell’associazione sindacale stipulante
il contratto collettivo che si adotta come parametro. Questa non è una cosa
che poi i giudici non fanno: lo fanno senza dirlo, il che per il diritto non è cosa
positiva.
Per esempio, una cosa che si fa storicamente senza dirla è l’adozione del contratto collettivo a parametro di riferimento per gli insegnanti delle scuole private.
Il parametro latente degli insegnanti delle scuole private dovrebbe essere quello dei trattamenti retributivi previsti dai contratti collettivi per gli insegnanti della
scuola pubblica e quando i giudici fanno questa comparazione, adottano quel
parametro, perché poi ci sono tanti altri contratti stipulati da associazioni di
dubbia genuinità, rispetto alle quali l’unico elemento che porterebbe, secondo il
diritto comune, a disattendere quel parametro è proprio quello della valutazione
di rappresentatività del sindacato stipulante, in modo da poter dire che quella
è effettivamente la retribuzione socialmente percepita come proporzionata e
sufficiente in un determinato settore.
Per i benefici pubblici il problema non si pone, perché la legge dice che il contratto di riferimento è quello del sindacato comparativamente più rappresentativo. Se il sistema va a regime, l’impatto potenziale di questo problema si riduce
di molto, perché a questo punto le associazioni che entrano nel circuito hanno
tutte un pari grado in partenza di rappresentatività e l’applicabilità del contratto
collettivo non è data più dalla rappresentatività dei singoli stipulanti, ma dalla
rappresentatività cumulativa dei soggetti che siglano questo contratto.
A maggior ragione il 50% +1 dei soggetti sindacalizzati, in una costellazione
che magari si arricchisce di tanti protagonisti, definisce attendibilmente e per
davvero il trattamento retributivo corrispondente alla retribuzione proporzionale
sufficiente. E questo ci porta anche ad un tema del Jobs Act, sul quale giustamente le organizzazioni sindacali stanno manifestando una certa freddezza: la
fissazione legale dei minimi salariali.
Oggi una tale misura servirebbe, ma nella prospettiva di applicazione di questo
disegno, il medesimo viene indebolito o rafforzato dalla legislazione sui limiti
salariali? Questo è il problema.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Raccogliamo ora altre domande. Prego.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
295
ROBERTO SARTORE
(Presidente ANCL Venezia - Componente Cda E.BI.PRO)
Come ci rapportiamo, soprattutto nel nostro settore, con la rappresentatività,
considerato il fatto che nel nostro settore la presenza di tessere è abbastanza
bassa? Grazie.
ALESSANDRA NAVA
(Consulente del Lavoro Bergamo)
A me accade che diverse aziende, che operano nel settore dell’acconciatura ed
estetica, applichino il contratto del Commercio: ovviamente a livello retributivo
gli istituti contrattuali sono totalmente diversi.
Inoltre alcune aziende del Commercio si sono trasformate in aziende artigiane e mi chiedono la possibilità di dare applicazione, anziché al contratto del
Commercio, al contratto degli artigiani, che, a questo punto, sarebbe quello
del settore di appartenenza; però anche in questo caso le differenze retributive
sono notevoli.
Grazie.
MIRCO CEOTTO
(Segreteria Nazionale FISASCAT-CISL)
Naturalmente parlo di aziende non associate alle organizzazioni di rappresentanza, altrimenti il discorso che vado a fare non avrebbe senso: prima si parlava
di inscindibilità delle clausole contrattuali, si parlava di applicazione integrale
dei contratti e devo dire che per me queste parole hanno un significato molto
certo, ma pare che non sia così per tutti.
Che cosa vuol dire inscindibilità delle clausole contrattuali, che cosa vuol dire
applicazione integrale del contratto di riferimento, quando aziende con migliaia
di dipendenti ci scrivono che, non essendo associate ad alcuna organizzazione, non sono obbligate ad applicare la parte obbligatoria del contratto collettivo? C’è l’inscindibilità, oppure no?
Grazie.
CARLO PEGORARO
(Segretario FISASCAT-CISL Vicenza)
Io vorrei capire il rapporto che intercorre tra un accordo sindacale e gli eventuali
diritti soggettivi di un lavoratore.
Grazie.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
ANNETTE LERNA
(Segretario FISASCAT-CISL Milano Metropoli)
Da noi è venuta una lavoratrice che lamentava l’applicazione di un contratto del
Commercio autonomo, che aveva il super minimo per raggiungere il minimo
retributivo del contratto nostro, ma per il resto non aveva niente, per cui noi
stiamo facendo la causa, nella speranza che certe regole valgano ancora e
costituiscano una certezza.
Sempre a Milano ci è capitato il caso di alcune lavoratrici, delle insegnanti, mi
pare della scuola Cervantes, che, in assenza di contratto, avevano l’applicazione di un regolamento interno: noi siamo restati spiazzati e ci siamo chiesti
che cosa potevamo fare in assenza dell’applicazione di un contratto qualsiasi.
Grazie.
STEFANO BELLOMO
(Professore Ordinario di Diritto del Lavoro Università di Perugia)
Cominciamo dalla domanda sul contratto collettivo e i diritti individuali, la quale
aprirebbe un mondo di problematiche, ma naturalmente ci possiamo limitare ad
uno schema basilare, che è comunque importantissimo nella quotidianità.
L’accordo collettivo per la sua efficacia normativa attribuisce al singolo prestatore di lavoro una serie di diritti alle condizioni, con le modalità e con la commisurazione prevista da quel determinato contratto, cioè da quella determinata
fonte negoziale, se, nella misura in cui e per il tempo in cui questa fonte è
efficace.
Quindi, se le parti – ed in questo momento sto parlando di parti individuali, cosa
che ci servirà anche per le altre domande – hanno concordato l’applicazione
di un determinato contratto collettivo, fino a quando quel contratto collettivo
esiste, i diritti, che entrano nella sfera individuale del lavoratore, sono appunto
quelli che sono previsti e corrispondono al contenuto delle clausole di quel
contratto collettivo e maturano quando ci sono, dovrei dire, le condizioni di acquisizione previste da quel contratto collettivo. Naturalmente se, nella misura in
cui e per il tempo che quel contratto collettivo rimane efficace.
Se quel contratto collettivo viene meno per una serie di ragioni, tra cui ci può
essere quella della scadenza naturale, o del recesso, o, soprattutto, del suo rinnovo, che può anche comportare una quantificazione differente di questi diritti,
si applica la fonte tempo per tempo vigente.
È un tema antichissimo dei cosiddetti diritti acquisiti: se cambia un contratto
collettivo di riferimento, il lavoratore, che ha avuto l’applicazione di precedenti
condizioni contrattuali, può continuare ad invocare trattamenti regolamentati da
quella fonte negoziale che è venuta meno? No, perché quella fonte negoziale
non esiste più, quindi il contratto collettivo è la misura dei diritti individuali se e
fino a quando esiste.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
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Si parlava un tempo di possibile incorporazione del contratto collettivo nel contratto individuale, però è chiaro che un’idea del genere poi verrebbe a far cadere e travolgerebbe l’intero diritto sindacale, perché ciò significa che nessun
lavoratore potrebbe subire gli effetti di un contratto collettivo nuovo, a meno che
non lo accetti esplicitamente.
Questo in tempi di vacche grasse succede e va benissimo, ma in tempi in cui
viceversa le protezioni devono essere modulate, travolgerebbe l’intero diritto
sindacale, perché ci sarebbe sempre un lavoratore che direbbe di rifiutare un
nuovo contratto. Invece il contratto cessa di esistere per risoluzione o perché
sostituito dal contratto collettivo rinnovato e questo, sia in termini di contratto
collettivo nazionale, sia in termini di contratto collettivo aziendale, non dà più
diritti, se non per le situazioni cosiddette esaurite.
Se io ho maturato le ferie nel vigore di un determinato contratto collettivo, ho un
determinato ammontare di giorni di ferie previsto da quel contratto collettivo e lo
mantengo, perché, anche se non le ho ancora godute, tuttavia le ho maturate.
Viceversa, quando il contratto si rinnova, i diritti si quantificano sulla base del
nuovo contratto collettivo di riferimento.
Quanto all’inscindibilità del contratto e all’applicabilità dei contratti, nei confronti
dei datori di lavoro non sindacalizzati il contratto collettivo si applica se, nella
misura in cui e nelle parti in cui sia accettato dalle parti o richiamato nel contratto individuale. Cioè le parti, quando stipulano il contratto individuale, esprimono
un consenso, che può essere espresso o tacito.
Nella stragrande maggioranza dei casi, per lo meno quando il contratto è stato
stipulato con l’assistenza di un professionista, il contratto individuale di lavoro
contiene una clausola, la quale stabilisce che, per tutto quanto non previsto
dal contratto in questione, si applicano le disposizioni del CCNL tempo per
tempo vigente del relativo settore. Questa è la clausola di rinvio al contratto
collettivo.
Quindi non si tratta di inscindibilità o scindibilità, bisogna vedere su che cosa le
parti hanno espresso il loro consenso: teoricamente questa scindibilità sul piano
negoziale ci può anche essere, cioè le parti potrebbero manifestare o applicare
un consenso limitato; ci possono essere delle situazioni in cui ci sono datori di
lavoro che hanno consulenti particolarmente fantasiosi, o forse molto avveduti,
i quali vanno a scrivere i richiami puntuali alle parti del contratto collettivo.
A me, per esempio, è successo con dei contratti collettivi aziendali, quando
questi erano scaduti: ero consulente dell’azienda, non volevo continuare a pagare certe voci retributive, ma volevo conservare l’organizzazione del lavoro,
per cui ho detto: “Il contratto collettivo è scaduto e poiché a questo punto non
c’è ultrattività del contratto, io non continuo ad applicarlo, salvo per le clausole
X, Y e Z, che io continuerò ad applicare fino a quando il contratto non sarà
rinnovato”.
Quindi le parti che non sono iscritte al sindacato, a proposito del contratto collettivo possono manifestare anche un consenso parziale in via esplicita o in via
tacita.
298
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Sulla parte obbligatoria temo che ci possano essere degli argomenti di resistenza forti, perché in realtà obbligarsi nel contratto individuale vuol dire obbligarsi
nei confronti del lavoratore nei limiti della parte del contratto collettivo che dà
luogo a posizioni soggettive del lavoratore. Quindi un obbligo nei confronti di
soggetti terzi, quando il datore di lavoro non è affiliato e non ha assunto obblighi
con le associazioni di categoria, è una possibile via di uscita dagli obblighi del
contratto collettivo, che potrebbe essere agevole da percorrere da parte del
datore di lavoro.
Se il datore di lavoro non applica nessun contratto collettivo, si applica l’articolo
36 della Costituzione e quindi si applica il diritto alla retribuzione proporzionata
e sufficiente e si prende come parametro di riferimento il contratto collettivo. Ad
esempio, se il lavoratore svolge un’attività di insegnamento, potrà rivendicare
un diritto ad un certo trattamento economico, nella misura in cui naturalmente
abbia un orario di lavoro che lo porti a stare in aula le 18 ore previste per le
scuole pubbliche.
Ci sono degli studi legali che fanno solo contratti individuali e producono dei
contratti individuali complicatissimi in cui c’è scritto tutto, altrimenti si applicano
le norme di legge o gli istituti del contratto collettivo, che il datore di lavoro dimostra di avere tacitamente e costantemente applicato.
Quindi in realtà quello che potrebbe essere fatto con una certa utilità potrebbe
essere una ricognizione degli istituti che vengono applicati dal datore di lavoro:
come commisura l’orario? Come commisura le ferie? Come commisura il periodo di quantificazione delle assenze per malattia? E quindi dire che c’è quanto
meno il recepimento tacito di una serie di condizioni di trattamento in misura
pari a quelle del contratto collettivo, ma una vincolatività diretta del contratto
collettivo non è affermabile.
Quanto alla rappresentatività dei soggetti negoziali, a maggior ragione probabilmente l’adattamento del meccanismo della contrattazione nazionale alla
contrattazione territoriale sarebbe una cosa di grandissima utilità, perché, per
quanto riguarda la sede aziendale, per stabilire quali sono i soggetti sindacali
rappresentativi, considerate realtà che hanno meno di 15 dipendenti, la strada
ce la dà per il momento solo la Corte Costituzionale.
I firmatari del contratto collettivo sono coloro che partecipano alle trattative, ma
siccome poi è un problema essenzialmente di relazioni sindacali extra aziendali, di relazioni sindacali su base territoriale, penso che l’unica via d’uscita – che
non sia quella o del reciproco riconoscimento, o della strettissima delimitazione
ai firmatari del contratto collettivo nazionale – dovrebbe essere quella del recepimento.
Oggi come oggi, se io lo dovessi dire quali soggetti operanti in ambito territoriale sono rappresentativi, direi che sono esclusivamente i soggetti firmatari
del contratto collettivo nazionale. Da dove ci inventiamo infatti la dimensione
territoriale? Da dove sappiamo che esiste un accordo provinciale e che questo
accordo provinciale ha certi contenuti? Lo sappiamo perché l’accordo provinciale è previsto dal contratto collettivo nazionale firmato da certi soggetti.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
299
Oggi si può giocare solo sul piano del consenso: nel momento in cui questo
meccanismo dovesse essere adattato, allora le regole dovrebbero essere più
puntuali e più rigorose. Il problema è che oggi, in questa situazione ancora prematura, si sconta il rischio del dissenso: si possono prendere certe iniziative,
ma si fanno a proprio rischio e pericolo, perché, se si firmasse solamente con
un sindacato e se io fossi il rappresentante territoriale degli altri due sindacati,
andrei di corsa dai lavoratori a dir loro: “Guardate che potete dire subito che
a voi questo accordo non si applica, che voi volete l’applicazione del contratto
collettivo nazionale”.
Non c’è infatti un diritto del lavoratore a che siano intrattenuti rapporti con la sua
sigla di appartenenza, non è questo un diritto del lavoratore: è il sindacato che
può esercitare la propria libertà sindacale positiva ed io, Mario Rossi, iscritto
al sindacato Y, non posso andare dal giudice e dire quale sindacato il datore di
lavoro deve chiamare al tavolo della trattativa.
Non si può sottovalutare la ricaduta giuridico-formale importantissima del dissenso: io adotto la nuova organizzazione del lavoro, adotto i nuovi orari, adotto i
nuovi criteri per la richiesta dello straordinario? Ci può essere sempre qualcuno
che mi dice che non ci sta.
LUIGINO PEZZUOLO
(Segretario Generale FISASCAT CISL Milano – Legnano – Magenta)
Facendo una ricerca sul sito del Cnel, rilevo che non appare neanche uno dei
nostri contratti, mentre appaiono i contratti delle sigle autonome; da ciò deriva
un problema: come si misura la rappresentanza dal punto di vista datoriale?
È vero che è tutto regolamentato per quanto riguarda la rappresentanza del
sindacato, magari con lo spostamento tra RSU e RSA più vincolante adesso
rispetto al passato, però rimane il problema del periodo storico che viviamo.
Ci sono troppi contratti collettivi nazionali di lavoro in settori tra l’altro estremamente frammentati, in cui il numero di addetti per azienda è sicuramente
inferiore ai 15; il problema è: che cosa si può fare per far applicare un contratto
e qual è il contratto da applicare? Perché i criteri di cui discutiamo, riguardano
noi, ma come viene regolamentato tutto l’universo dei sindacati autonomi da
questo punto di vista? Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Purtroppo più imprese oggi nutrono la volontà di avviarsi alla cessione di ramo
d’impresa, ma siccome per l’ipotesi di trasferimento d’azienda che occupi più di
15 dipendenti è prevista dall’art 47 L. 428 del 1990 una procedura particolare di
consultazione sindacale, se questa procedura non viene concordata tra le parti, l’azienda può decidere anche di applicare dei contratti di riferimento diversi
rispetto a quello già in essere.
300
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
I lavoratori, che a quel punto sono quasi obbligati a sottoscrivere degli accordi
contenenti delle clausole sociali flessibili, potrebbero autonomamente impugnare quella decisione? Infatti noi come sindacato non possiamo farlo, se il lavoratore non interviene in prima persona, dopo aver firmato l’accordo. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Qualcuno incomincia a criticare la distinzione tra parte obbligatoria e parte normativa dei contratti, ma è molto difficile distinguere che cosa è normativa e che
cosa non lo è. L’esempio che calza benissimo è questo: se io non verso l’assistenza sanitaria al fondo, questo si ritorce poi in uno svantaggio per il singolo
lavoratore, quindi non è soltanto un obbligo che l’imprenditore ha nei confronti
del soggetto sindacale, nel senso che questo è uno svantaggio che si ripercuote sulla sfera del rapporto individuale di lavoro.
Una certa soluzione al tema è stata prevista dalla contrattazione collettiva, alla
luce anche di una circolare, che è la numero 43 del dicembre 2010, la quale
specifica proprio che il diritto del lavoratore fa parte di un diritto di natura contrattuale, quindi l’oggetto del trattamento deve essere dato a tutti. Se il contratto
collettivo prevede che un trattamento di assistenza sanitaria deve essere erogato a tutti i lavoratori, questo deve essere dato.
La scelta ci può essere a proposito della modalità: l’oggetto è lo stesso, il soggetto può essere differente. O interverrà l’ente bilaterale, che avrà un vantaggio
sul piano fiscale, o altrimenti, se manca l’intervento dell’ente bilaterale, rimarrà
l’impegno contrattuale del datore di lavoro, che dovrà assicurare appunto quel
trattamento al lavoratore.
Comunque è molto difficile distinguere, per quest’invenzione fatta dalla dottrina
degli anni ‘50, tra parte obbligatoria e parte normativa dei contratti.
STEFANO BELLOMO
(Professore Ordinario di Diritto del Lavoro Università di Perugia)
La possibilità conferita al datore di lavoro di fornire l’assistenza sanitaria ai suoi
dipendenti è stata interpretata quasi come una scelta antisindacale, come un
tentativo di aggirare gli enti bilaterali, però nella prospettiva dell’Artigianato –
per il quale innanzitutto è stata pensata – si trattava di risolvere il problema
dell’effettiva tutela del lavoratore, perché in quell’ambito è molto difficile individuare i datori di lavoro che non versano i contributi, per cui, se l’ente bilaterale
non riceve adeguata contribuzione, non può nemmeno erogare le prestazioni
che dovrebbe dare ai lavoratori.
Siccome è difficile che l’ente bilaterale possa andare dal panettiere con due
dipendenti a chiedergli di versare i contributi previsti, l’unico modo di assicurare
i diritti dei prestatori di lavoro era quello di individuare un diritto sicuramente
normativo, per poter chiedere l’erogazione di quelle prestazioni.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
301
Quanto alla rappresentatività delle associazioni imprenditoriali, effettivamente è
un aspetto di cui l’ordinamento non si interessa: è un tema sulla cui verificabilità
ci sono delle difficoltà evidenti. Questa è sicuramente una ricaduta dell’articolo
39. Una risposta non c’è a questo tipo di perplessità, la risposta può essere
data solo dall’effettività dell’applicazione di determinate fonti contrattuali.
È con l’approccio del testo unico che questo problema potrebbe essere più
vicino ad una serie di possibili correttivi.
Quanto all’articolo 47 L. 428 del 1990 ed al tema del cambiamento del contratto
collettivo di riferimento in seguito alla sostituzione del contratto collettivo applicato dal cedente con il contratto collettivo applicato dal cessionario contenente
delle condizioni meno favorevoli, attualmente, secondo l’interpretazione dominante, questa sostituzione è ammessa ed è una sostituzione che, a dire il vero,
potrebbe essere anche automatica e unilaterale.
Tutto gioca intorno all’interpretazione dell’articolo 2112 quarto comma, il quale
dice che i contratti collettivi applicati dal cedente continuano a svolgere effetti
fino al momento della loro estinzione, salvo che non siano sostituiti da contratti
collettivi applicabili dall’impresa del cessionario.
Questo “salvo che non siano sostituiti” significa addirittura, secondo alcuni, che
la sostituzione è automatica, per cui, se il cessionario applica un proprio contratto collettivo – e questo indipendentemente dall’entità o meno dei trattamenti
– esso si sostituisce automaticamente a quello preesistente.
Questa è l’interpretazione che la Cassazione ha portato avanti fino ad oggi e
quindi non è soltanto un tema di consenso individuale, ma un tema di potere
imprenditoriale.
Qui però c’è una risposta che può dare l’organizzazione sindacale in termini di
potenziale conflittualità: se non si fa l’accordo di armonizzazione, se non si fa
l’accordo sul mantenimento di determinati istituti, allora ci sono delle ricadute
conflittuali sul passaggio di azienda. Tuttavia non è ovviamente una risposta in
termini giuridico formali, perché la risposta giuridico formale è quella del passaggio automatico.
Quello su cui probabilmente gli uffici studi dei sindacati potrebbero ragionare
– e dovrebbe essere però un’iniziativa un po’ più pensata, prima che venga
mal gestita giudizialmente – è la richiesta a qualche giudice di una valutazione
pregiudiziale dell’effettiva rispondenza di questa interpretazione rispetto alla direttiva europea, perché in effetti la direttiva europea sul trasferimento d’impresa
o di parti dell’impresa prevede una maggiore articolazione di questo passaggio,
tanto è vero che essa dice che si applicano i contratti collettivi adottati dal cedente sino alla loro scadenza e comunque almeno per un anno successivo al
trasferimento dell’impresa o di parte dell’impresa.
Quindi un automatismo così asciutto, così senza rete, come quello che viceversa viene interpretativamente e pacificamente accettato ormai in Italia, è conforme alla direttiva europea o ci potrebbero essere dei margini di attrito?
Naturalmente questo non dà un’utilità immediata, non dice che il lavoratore ha
diritto alla conservazione del trattamento, però è un intervento che a monte
permetterebbe di riflettere su una serie di situazioni, per le quali è più difficile
302
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
arrivare all’accordo di armonizzazione, e quindi di verificare se ci possono essere delle forme di passaggio più cadenzato, più morbido, rispetto a quella
dell’immediata sostituzione.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Ringraziamo il Professore Bellomo del suo ricco contributo, il quale ci ha fornito
molti spunti di riflessione, che riprenderemo nel pomeriggio.
303
sessione pomeridiana
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
304
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Nel pomeriggio abbiamo l’occasione di realizzare un confronto tra di voi nei
gruppi di lavoro. Questa mattina il seminario ha riguardato più la contrattazione
che la rappresentanza, però i due temi sono indubbiamente legati in modo
molto stretto.
Ora procediamo alla consueta socializzazione, considerato che sono presenti
oggi persone nuove, dopodiché verranno illustrati i lavori di gruppo.
SEGUE LA PRESENTAZIONE DEI PARTECIPANTI AL SEMINARIO
Cinzia Pietrosanto procede ora alla distribuzione di una griglia per i lavori di
gruppo: poiché siete molti, sarete divisi in sei gruppi. Si tratta di lavorare per
circa un’ora e mezza su questa griglia.
Il tema della rappresentanza, che questa mattina abbiamo esaminato per vie
generali, viene sviluppato attraverso lo scambio di conoscenze nei lavori di
gruppo.
In questa prima giornata cercheremo appunto di studiare e conoscere ciò che
dice il testo unico sulla rappresentanza, mentre domani avanzeremo delle ipotesi e delle proposte rispetto a possibili soluzioni specifiche di intervento nel
vostro settore, Terziario, Commercio e Turismo – mi sto rivolgendo naturalmente agli amici sindacalisti, benché, ovviamente, anche i consulenti del lavoro
abbiano a che fare con questo specifico settore – il quale è un ambito ancora
non formalmente coperto.
Nel lavoro di gruppo bisogna lavorare da un lato sulle forme di rappresentanza dei lavoratori in azienda e vi si chiede, in base alle vostre esperienze
e conoscenze, la definizione e chi rappresentano tali figure. Si parla di RSA,
RSU, RLS ed altre figure: si tratta di capire a che cosa corrispondono queste
rappresentanze, chi rappresentano, quali sono le fonti regolative, ovvero quali
sono le norme che regolano queste forme di rappresentanza e quali sono i
poteri che esse hanno.
Dall’altro lato occorre fare altrettanto per quanto riguarda la contrattazione collettiva, il che significa identificare su quanti livelli è improntato il nostro sistema
contrattuale, quali sono le fonti regolative della contrattazione collettiva e quali
sono le materie dei diversi livelli di contrattazione collettiva.
Questo lavoro serve a sedimentare, ad approfondire l’argomento di cui stiamo
parlando, perciò vi si chiede di lavorare in gruppo per elaborare, all’interno di
ciascun gruppo, una traccia condivisa rispetto a queste parti; le diverse tracce
poi saranno riproposte qui in aula al confronto congiunto.
SEGUONO I LAVORI DI GRUPPO
Innanzitutto mi corre l’obbligo nonché il piacere di salutare Alberto Berrini, il
quale è professore esperto in materia economica, più precisamente di economia del lavoro, il quale sarà il relatore di domani mattina.
Domani è il 7 ottobre, giorno del tavolo verde di incontro tra Governo e Parti
Sociali ed è dunque importante capire qual è lo scenario economico entro il
quale si compone la possibile proposta del Governo in materia di lavoro.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
305
Nei lavori di gruppo è stato chiesto di affrontare il tema delle forme di rappresentanza dei lavoratori in azienda, cercando di cogliere definizioni, fonti, poteri
e ruolo della contrattazione collettiva.
Partiamo dalle vostre sintesi e poi, sulla base di queste sintesi, cercheremo di
procedere ad un momento di sistematizzazione. Vorrei fare questo non da solo,
ma fruendo dell’aiuto di Rosetta Raso da un lato e di Diana Onder dall’altro, con
le quali vedremo come far proseguire il dibattito.
Questa mattina abbiamo visto le novità previste dal testo unico ed ora facciamo
un passo indietro, esaminando le forme di rappresentanza previste dall’ordinamento precedente ed esaminando il ruolo che in questo ambito svolge la
contrattazione collettiva. Sentiamo dunque quanto è stato elaborato dai singoli
gruppi.
RELATORE GRUPPO A
Noi abbiamo analizzato la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, la RSA, la RSU e l’RLST. L’RLS, ovvero il rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza, rappresenta tutti i lavoratori e le fonti legislative che determinano questa figura sono l’articolo 9 della legge n. 370, l’articolo 2087 del Codice Civile e gli articoli 47 e 50 del decreto legislativo 81 del 2008.
Quanto ai poteri, egli collabora con il datore di lavoro, fa da tramite tra il datore
di lavoro e i lavoratori e rappresenta i lavoratori nella scelta dei dispositivi di
protezione individuale, inoltre collabora anche alla stesura del documento di
prevenzione dei rischi ed alla nomina del medico competente.
Per quello che riguarda il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale, se non viene nominato all’interno di un’azienda il rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza, in automatico viene nominato un rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza territoriale, ove sia presente l’organo paritetico
territoriale. Questi ha gli stessi poteri del rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza aziendale e le stesse competenze.
Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza non ha responsabilità in generale e riceve per legge una formazione specifica di 32 ore per quanto riguarda
la sicurezza sul lavoro, prevista dal decreto n. 81, ed ogni cinque anni un aggiornamento di 4 ore.
Per quanto riguarda il rappresentante sindacale aziendale, egli rappresenta
tutti i lavoratori, le fonti regolative sono l’articolo 39 della Costituzione, l’articolo
19 della legge n. 300 del 1970, il protocollo del 23 luglio 1993, i d.p.r. 312 e 313
del 1995, l’accordo Interconfederale del giugno 2011, il protocollo d’intesa del
31 maggio 2013, l’accordo Interconfederale del 1993 e l’articolo 42 del decreto
legislativo 165 del 2001.
Per quanto riguarda il rappresentante sindacale unitario, egli rappresenta tutti
i lavoratori, è regolamentato dalle stesse fonti normative che prevedono il rappresentante sindacale aziendale ed ha gli stessi poteri.
La contrattazione collettiva può essere nazionale, regionale, provinciale, territoriale e aziendale.
306
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
La contrattazione nazionale è regolata dagli accordi interconfederali del 22
gennaio 2009, del 28 giugno 2011 e del 23 luglio 1993, oltre all’articolo 36 della
Costituzione. Quanto alle materie, essa disciplina tutti i temi legati al rapporto
di lavoro.
La contrattazione regionale ha le sue fonti regolative nel contratto nazionale e
le materie di cui si occupa sono disciplinate dallo stesso contratto nazionale.
Altrettanto vale per i livelli provinciali e territoriali. Mentre per quanto riguarda
il gruppo azienda e i contratti di prossimità essi sono regolati dall’articolo 8 del
decreto legislativo n. 148 del 2011. Anch’essa riguarda tutte le materie concernenti i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Grazie.
RELATORE GRUPPO B
Anche noi abbiamo trattato gli stessi argomenti: rappresentanti in azienda sono
RSU ed RSA, abbiamo esaminato la figura del RLS, mentre non abbiamo affrontato la figura del RLST, perché di fatto non è propriamente una forma di
rappresentanza dei lavoratori in azienda, visto che resta comunque esterno
ad essa.
Le fonti normative sono quelle già elencate da chi mi ha preceduto; ad esse noi
aggiungeremmo il testo unico che abbiamo esaminato questa mattina, il quale
attua gli accordi del 2011 e del 2013.
Queste figure rappresentano tutti i lavoratori, perché di fatto vengono tutte elette dall’insieme dei lavoratori in azienda, i quali decidono a maggioranza. Non
siamo scesi eccessivamente nel dettaglio della normativa, che è facilmente
reperibile.
La differenza che intercorre tra RLS e RSU è che di fatto il secondo ha il potere
di gestire tutta la contrattazione e quindi anche di finalizzarla e firmarla.
Per quanto riguarda la RSA, la quale invece vive del solo articolo 19 dello
Statuto dei Lavoratori, anche se poi è disciplinata e richiamata nei vari accordi interconfederali ed anche in quello del 10 gennaio 2014, essa viene citata
sempre per negazione: quando non c’è la RSU, che è l’unica forma di rappresentanza che viene di fatto presa in esame e disciplinata nell’accordo, interviene la RSA, i cui accordi tuttavia devono essere sottoposti ad un referendum
approvativo dei lavoratori.
L’RSA di fatto rappresenta gli iscritti del sindacato ed è un’emanazione dell’organizzazione che ha iscritti all’interno dell’azienda, per cui non ha la potestà
di finalizzare gli accordi, ma deve essere sempre coadiuvata da un operatore
sindacale.
Per quanto riguarda l’RLS, le sue fonti normative sono principalmente il decreto
legislativo dell’81, a cui sono seguiti vari regolamenti emanati dallo SPISAL
(Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza in Ambienti di Lavoro). È una emanazione delle stesse rappresentanze sindacali, per cui spesso si trova nel doppio
ruolo di rappresentante sindacale, RSU o RSA, e di RLS, ma non ha veri e
propri poteri attuativi, nel senso che consiglia, visualizza il piano di sicurezza e
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
307
fa verbalizzare annualmente all’azienda le sue proposte, che poi l’azienda può
accogliere o meno. Per cui poi sono previsti eventualmente dei passi successivi, come le segnalazioni allo SPISAL.
Per quanto riguarda invece la contrattazione collettiva, noi l’abbiamo divisa
semplicemente in primo livello e secondo livello. Il primo livello è quello della
contrattazione collettiva nazionale, ovvero della contrattazione diretta in azienda, come dimostra l’esempio della FIAT, la quale di fatto ha un contratto suo,
mentre io a Padova ho il CNA che ha un contratto suo e non vive di un contratto
collettivo nazionale di lavoro.
Questo livello si basa sicuramente sulla Costituzione, sul Codice Civile e sui
vari accordi interconfederali che determinano la rappresentatività, ovvero la
possibilità o meno di trattare e di firmare i contratti, come dice appunto l’ultimo
accorto Interconfederale di gennaio con Confindustria.
È un livello che riguarda tutte le materie inerenti all’organizzazione del lavoro:
dai livelli retributivi agli inquadramenti, alla parte normativa, al recepimento dei
diritti sindacali. Di fatto anche le RSA e le RSU vengono sempre determinate
all’interno dei contratti collettivi nazionali, dove viene disciplinata l’attuazione
dei diritti sindacali.
Nella contrattazione di secondo livello, che può essere aziendale, di prossimità,
territoriale, provinciale e regionale, ci troviamo di fronte a contratti integrativi
che vivono di materie delegate dalla contrattazione di primo livello. Per formarsi
ed avere validità, prendono forza normativa anche dagli accordi interconfederali: l’ultimo di questi accordi parla infatti del 50% +1 e vengono ribadite le facoltà
operative di RSU e RSA quali erano in precedenza.
A questa contrattazione vengono delegate le materie di riferimento dalla contrattazione nazionale o eventualmente dalle leggi dello Stato, laddove esse facciano dei richiami alla contrattazione.
C’è da dire che l’ultimo accordo, quello che stiamo esaminando, fa proprio una
specifica in cui dice che là dove i contratti collettivi nazionali non prevedano un
rimando alla contrattazione di secondo livello, in determinati ambiti, che sono
esattamente la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro,
se i contratti collettivi nazionali sono vacanti, se sono in fase di riformulazione
e di approvazione, i contratti integrativi possono comunque determinare delle
norme per questo tipo di materia, ma solo in caso di crisi economica.
Rispetto a queste linee guida, per quanto riguarda gli statuti, per quanto riguarda i riferimenti del primo livello di contrattazione, per quanto riguarda la
parte legislativa, notiamo che sono delle linee guida sempre più importanti, che
servono per il negoziato di secondo livello e da cui addirittura si evince magari
anche una contrattazione interterritoriale piuttosto che interaziendale o a livello
di singola azienda in realtà medio piccole. Grazie.
RELATORE GRUPPO C
Per quanto riguarda le definizioni di chi rappresentano le varie figure, l’unica
cosa che mi sento di aggiungere a quanto già detto dai precedenti relatori riguarda la differenza tra RSU ed RSA.
308
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
È evidente che gli RSU si sentono più rappresentativi, perché legittimati dal
voto dei loro colleghi. Per la mia esperienza, dovendo designare una RSA nel
territorio di Ravenna, ho fatto prima un’assemblea con i lavoratori miei iscritti,
ho detto che avrei designato una certa lavoratrice ed è successo che alcuni
lavoratori iscritti non sono venuti in assemblea ed hanno delegittimato la mia
designazione.
Questa non è una bella esperienza, perché comunque avere dei lavoratori che
non riconoscono il lavoratore designato non permette una facile gestione della
funzione in questione. È chiaro che questo con l’RSU non dovrebbe succedere,
perché, quando il delegato raggiunge il 50% +1 dei voti espressi, è legittimato
a rappresentare tutti i lavoratori della sua azienda.
Per quanto riguarda i poteri, noi ne abbiamo elencato una serie: queste figure
possono indire le elezioni, curare la tutela contrattuale, hanno la rappresentanza, perché i delegati, sia RSU che RSA, hanno la titolarità per trattare, anche
se nella pratica molto spesso sono affiancati da un rappresentante sindacale
esterno all’azienda.
Per quanto riguarda l’RLS, egli ha l’onere di verificare la mappatura dei rischi
e di mantenere un confronto continuo con il medico competente e con l’RSPP
(responsabile del servizio di prevenzione e protezione).
I livelli di contrattazione sono ovviamente quelli già illustrati in precedenza: il
livello nazionale dà le indicazioni per andare poi a trattare nel secondo livello,
laddove c’è ancora la possibilità di farlo, perché, sempre per la mia esperienza
personale, ultimamente i contratti di secondo livello, dove abbiamo ancora la
fortuna di averli, sono soprattutto dei contratti difensivi.
Le norme che regolano la contrattazione sono la legislazione vigente, gli accordi interconfederali, soprattutto quello del 2009 firmato da CISL e UIL, l’accordo
del 2011 e quello del 2013. Grazie.
RELATORE GRUPPO D
quanto al primo punto, abbiamo le RSA, le RSU le RLS e, a livello territoriale,
le RLSP e le RLST.
Tutte tre le figure hanno funzioni di tutela dei lavoratori, in particolare la RSA e
la RSU hanno anche compiti di rappresentanza. Il tratto di distinzione tra RSA
e RSU riguarda fondamentalmente il sistema di elezione o di nomina: mentre
l’RSA è nominato dalle confederazioni, la RSU viene eletta direttamente dai
dipendenti di un’azienda ed in particolare anche i dipendenti non iscritti al sindacato possono partecipare all’elezione delle RSU.
Le RSU nascono dopo il protocollo del 1993, mentre prima non esistevano; esistevano storicamente altri tipi di rappresentanza, che si chiamavano “consigli di
fabbrica” piuttosto che “consigli d’azienda”.
Per quanto riguarda i compiti della RLS, essa si deve occupare di monitoraggio
e segnalazione, di tenere riunioni periodiche chiaramente riferite alla tutela e
salute dei lavoratori, collabora nella stesura del piano relativo ed è legittimata
dal punto di vista normativo dal decreto legislativo 2008, ex legge 626 del 1994,
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
309
dalle circolari Inail e del Ministero del Lavoro, dalla cosiddetta normativa circolatoria, dal CCNL e dai contratti collettivi territoriali.
Per quanto riguarda la carica, essa è conferita a titolo elettivo alla RLS, mentre
per la RLST si parla di nomina.
Esiste infine anche la SAS, che è una struttura di coordinamento di diversi livelli
di rappresentanza aziendale.
Anche noi abbiamo individuato la contrattazione di primo livello, ossia nazionale, e la contrattazione di secondo livello, territoriale piuttosto che aziendale.
Nella contrattazione nazionale noi abbiamo voluto annoverare anche gli accordi
di tipo interconfederale, anche se sono allo stesso tempo contratto e normativa
per gli ulteriori livelli di contrattazione.
Per quanto riguarda i poteri e le materie di competenza, la contrattazione nazionale stabilisce i minimi salariali, gli orari di lavoro, l’inquadramento posizionale,
quindi regola fondamentalmente la parte di tipo economico e di tipo normativo.
Le fonti di riferimento per il contratto di primo livello, così come per quello di
secondo livello sono le fonti del diritto come la Costituzione, il Codice Civile, le
leggi speciali e naturalmente, ad un livello ancora superiore, le direttive comunitarie. Altre fonti normative, come dicevo prima, sono gli accordi interconfederali
a partire in particolare da quello del 1993.
Per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, ci siamo soffermati,
come materie regolamentate, sui salari di produttività, su materie che hanno
particolare peculiarità territoriale e su materie che afferiscono a deroghe alle
norme di legge, vedi, ad esempio, le deroghe sull’orario di lavoro, deroghe
evidentemente consentite espressamente dalla legge. Grazie.
RELATORE GRUPPO E
Per quanto riguarda le forme di rappresentanza, abbiamo messo in evidenza la
rappresentanza sindacale aziendale, la quale sappiamo che, a differenza della
rappresentanza sindacale unitaria, è soltanto una, mentre le rappresentanze
sindacali aziendali possono essere più di una. Differenza fondamentale è che
la RSU è un soggetto contrattuale, mentre la RSA non ha un potere contrattuale, ma è titolare dei diritti sindacali previsti dallo Statuto dei Lavoratori, che
vanno dall’articolo 20 all’articolo 27, entro cui troviamo diritti di assemblea e
referendum, permessi retribuiti e non, diritto di affissione, diritto di accesso.
La RSA ha la sua fonte regolativa nell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori,
che recita così: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite
ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni
sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nella unità
produttiva”.
Ciò vale per le unità produttive che abbiano più di 15 dipendenti.
La RSU invece vede la sua nascita in una intesa quadro Interconfederale del 1
marzo 1991 e nell’accordo del 23 luglio 1993, poi ben disciplinato dall’accordo
del 20 dicembre 1993.
310
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
La RLS è disciplinata dal decreto legislativo n. 81 ed ha dei compiti tassativamente elencati nello stesso, compiti di consultazione, di intervento in coadiuvandum con la parte datoriale per le segnalazioni provenienti dai lavoratori, ecc.
Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza rappresenta tutti i lavoratori e
non ha una funzione sindacale, tranne che nelle aziende con più di 15 dipendenti, in cui può candidarsi come RLS la rappresentanza sindacale, laddove
già esista.
La RSU ovviamente rappresenta tutti i lavoratori, perché da tutti i lavoratori indistintamente viene votata, mentre la RSA viene nominata dai lavoratori aderenti
ad una sigla di riferimento.
Poi abbiamo il CAE, Comitato Aziendale Europeo, che è una forma di rappresentanza sovranazionale, la quale ha prevalentemente diritti di informativa e
consultazione.
Ci sono infine altre forma di rappresentanza paritetiche, che non abbiamo voluto elencare, perché volevamo soffermarci esclusivamente su quelle di rappresentanza dei lavoratori.
Per quello che riguarda la contrattazione collettiva, i livelli ovviamente sono
due: quello nazionale e poi tutto quello che comprende il cosiddetto livello decentrato con le sue sottocategorie.
La fonte regolativa più aggiornata del livello decentrato, oltre alla contrattazione
nazionale, è l’accordo del 28 giugno 2011, in cui vengono ben delineate le materie di intervento della contrattazione decentrata, le quali sono tutte le materie
ad essa delegate in tutto o in parte dalla contrattazione collettiva o dalla legge,
perché anche la legge a volte fa dei rimandi alla contrattazione decentrata.
Grazie.
RELATORE GRUPPO F
Ora è difficile dire qualcosa di nuovo rispetto agli interventi precedenti: io non
avevo mai partecipato a questi seminari e mi è piaciuto il fatto che in un’ora di
tempo abbiamo trascorso 55 minuti a scambiarci le reciproche esperienze e nei
5 rimanenti mi è stato affidato l’incarico di mettere insieme la relazione finale.
È stato tuttavia un aspetto positivo perché, al di là della regolamentazione, che
ora riepilogheremo per l’ennesima volta, abbiamo constatato come questi strumenti siano utili e come il livello territoriale di rappresentanza alla fine prevalga
quasi sulle RSA e sulle RSU, quantomeno nelle piccole realtà, in cui queste
rappresentanze aziendali sono anche piuttosto rare o addirittura non esistono.
Troviamo il riferimento normativo relativo alle RSU nell’articolo 39 della Costituzione e nell’articolo 19 della legge 300, oltre che in quell’accordo, che è
stata già citato, del 1 marzo 1991, recepito poi da un accordo tra Governo e
Parti Sociali e definito più compiutamente dall’accordo Interconfederale del 20
dicembre 1993.
Le fonti normative delle RSA si trovano nell’articolo 39 della Costituzione,
nell’articolo 19 della legge 300 e nell’accordo Interconfederale del 20 dicembre
1993, che ha aggiunto a tutti i compiti del RSA anche quello di stipulare la contrattazione aziendale.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
311
Le RSA hanno il diritto all’informazione, quindi sono destinatarie di tutta una
serie di comunicazioni che vengono fatte quando si attivano delle procedure,
dai licenziamenti collettivi agli ammortizzatori sociali, al lavoro notturno. Sono
poi interlocutori dell’azienda per l’esame congiunto, possono indire dei referendum, convocare assemblee e presentare istanze dei lavoratori.
I sindacalisti, che nel nostro gruppo erano la maggioranza, hanno ricordato
anche da noi le SAS, che per me avevano tutt’altro significato, mentre sono le
Sezioni Aziendali Sindacali, uno strumento di origine contrattuale, segnatamente del contratto collettivo del settore bancario, che svolgono attività sindacale
interna a strutture che spesso sono molto grandi.
La figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è normata oggi dal
decreto legislativo 81 del 2008, ma in precedenza anche dalla legge n. 626 ed
è ovviamente giusto e corretto anche il riferimento all’articolo 2087 del Codice
Civile che è, per così dire, la norma di chiusura che sovrintende a tutta la legislazione sulla sicurezza in materia di lavoro.
Tra i diritti del RLS vi sono intanto quello di avere informazioni sui rischi e la
possibilità di consultare copia del documento di valutazione dei rischi, egli ha
diritto alla formazione specifica nel ruolo, partecipa a diversi passaggi, tra cui
la nomina del medico competente, ed ovviamente segnala e controlla l’attuazione non solo delle normative, ma anche dei percorsi segnati nel documento
di valutazione dei rischi. Ovviamente per fare questo ha libero accesso a tutti
gli ambienti di lavoro.
Sulla contrattazione collettiva, sempre per rimanere all’attuale, abbiamo naturalmente due livelli: il livello nazionale, che trova la sua legittimazione nel
reciproco riconoscimento e negli accordi confederali, i quali sono talvolta fonte
e talvolta regolazione. Le materie sono tutte quelle che riguardano la gestione
del rapporto di lavoro. Il contratto nazionale rappresenta la fonte regolativa del
contratto di secondo livello assieme agli accordi interconfederali, in particolare
quello del 28 giugno 2011, ed alla legge.
Il secondo livello si declina in aziendale o territoriale su materie generalmente
delegate dalla contrattazione nazionale o dalla legge. Ne citiamo qualcuna:
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, flessibilità organizzativa, orario di
lavoro, welfare aziendale, formazione, accordi sulla produttività ed uno spunto
nuovo, di cui io non aveva ancora sentito parlare, ma che gli amici sindacalisti
mi hanno suggerito, perché per loro è già una realtà, ovvero la cosiddetta contrattazione sociale, cioè la possibilità di favorire i lavoratori attraverso accordi
con strutture pubbliche o private, realizzate anche grazie al contributo del datore di lavoro. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
L’esercizio che abbiamo svolto, ci permette di fare delle precisazioni rispetto ai
diversi argomenti che sono emersi, in un’ottica di conoscenza reciproca.
312
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Facciamo ora una sistematizzazione del tema in tre punti sintetici, dopodiché
procederemo ad un confronto con Rosetta Raso e Diana Onder.
Siccome sul tema della rappresentanza aleggia la possibilità di un intervento
governativo, noi vorremmo capire che cosa pensano il sindacato, le Parti Sociali, i consulenti del lavoro rispetto a questo punto. Per poter fare questo però
dobbiamo avere le idee chiare rispetto alle forme di rappresentanza, a chi fa
che cosa e a quali livelli.
Primo punto. Non solo gli amici consulenti e gli amici sindacalisti hanno appreso
qualcosa di nuovo, ma io stesso, a parte le sigle CAE e SAS, ho preso coscienza dell’esistenza di un diritto circolatorio, che molto influenza l’agire delle figure
di rappresentanza, anche se un giudice può disapplicare qualunque circolare.
Il problema è che esistono le circolari del Ministero del Lavoro, le circolari dell’Inps, le circolari dell’Inail, i numeri interni, che non sono definiti come circolari,
le risposte agli interpelli. Nel Jobs Act è previsto a tale proposito un sistema di
vigilanza integrata, per cui non si va venti volte nella stessa impresa, ma c’è un
raccordo tra tutte le diverse forme di attività ispettiva e questo potrebbe essere
uno strumento utile, per evitare il tema del diritto circolatorio.
Io capisco che gli operatori devono fare i conti tutti i giorni con queste cose, ma
occorre stare attenti a trasformare le circolari in fonti del diritto, perché si finisce
per attribuir loro un ruolo che non hanno, rispetto a chi invece svolge una funzione assolutamente diversa da quella legislativa.
Purtroppo il nostro diritto del lavoro è fin troppo: il 30 luglio 2014 è uscita una
circolare di almeno 20 pagine sulla legge 78, che contiene molte cose interessanti, però alcune affermazioni sono di dubbia qualità anche dal punto di vista
tecnico.
Secondo punto. Il trittico è rappresentanza-contrattazione-diritti: mi è piaciuto
molto il modo di interpretare il contratto collettivo, che è emerso da qualche
gruppo, non solo come fonte, ma anche come contenuto. E io aggiungerei un
altro profilo che ritengo molto importante: il contratto non solo è una fonte del
diritto, ma in una logica di partecipazione occorre vedere sempre più il contratto
come processo, nel senso che il contratto non è soltanto il documento in cui
si trova la regolamentazione, ma il contratto è anche l’attività contrattuale, il
processo contrattuale.
Questo è molto importante, soprattutto se si dovrà dare vita e valore a quelle
sedi partecipative che la contrattazione prevede. Va tenuto conto dunque che
il contratto deve essere interpretato come attività contrattuale, quindi come un
processo, per cui, siccome la contrattazione partecipativa prevede sedi non
solo esterne, gli enti bilaterali, ma anche interne all’azienda, che devono trovare linfa e vita, il contratto vale anche in questa direzione.
Terzo punto. Vi siete sbizzarriti tra RSA, RSU, RLS, RLST, CAE, SAS, ecc.,
ma nessuno ha ricordato che ci sono anche forme di rappresentanza esterne
all’azienda. Mi pare che nel contratto collettivo del Terziario ci sia anche una
forma di rappresentanza che si chiama RST, una forma di rappresentanza per
tutte quelle aziende che non hanno RSA e quindi che si muovono al di fuori
delle realtà produttive con meno di 15 dipendenti.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
313
Quando si parla della regolamentazione di RSU e RSA, non scordiamoci che
molti degli aspetti relativi si trovano anche nei contratti collettivi.
Innanzitutto ci sono le RSA, le RSU e gli RLS: queste sono le tre principali forme di rappresentanza, consideriamo come secondarie le altre. La RSA rappresenta soltanto i lavoratori iscritti al sindacato, non rappresenta tutti i lavoratori,
essa trova la sua fonte di legittimazione, che è diversa da quella della RSU,
solo nell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori ed in ciò che dicono i contratti
collettivi, i quali in qualche modo regolamentano questa figura.
Nel 1970 non esistevano le RSU, esistevano soltanto le RSA, le quali si diceva
che potevano essere istituite ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito delle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, oppure
nell’ambito delle associazioni firmatarie dei contratti collettivi, di carattere nazionale o provinciale, applicati nell’unità produttiva.
Il referendum del 1995 ha fatto scomparire la prima ipotesi, definita dalla lettera A, per cui oggi l’articolo 19 contempla solo le rappresentanze sindacali in
azienda, che possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità
produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva, eliminando la distinzione
tra i contratti di carattere nazionale e quelli di carattere provinciale.
Le RSU sono nate nel 1993, il 20 dicembre, mentre le RSA erano appunto
presenti già a partire dal 1970.
Le RSA sono le rappresentanze degli iscritti, ma sono elette o designate? Infatti
l’articolo 19 al proposito non dice nulla, per cui bisogna rifarsi agli organi statutari delle organizzazioni sindacali. Si trova l’indicazione necessaria nei contratti
in cui c’è scritto quello che voi avete detto, ovvero che l’RSA può essere eletto
tra i dipendenti o designato dal rappresentante sindacale.
Quindi la regolamentazione del fatto che siano eletti o nominati non si trova
in una norma di legge o in un accordo interconfederale, ma bisogna ricercarla
negli statuti interni delle varie organizzazioni, o quanto meno nella disciplina dei
contratti collettivi nazionali di lavoro.
È dunque giusta l’ipotesi che l’RSA sia stato in qualche modo individuato dal
dirigente territoriale, cosa del tutto legittima, ed è altrettanto legittimo che quella
individuazione sia stata in qualche modo preceduta da una sorta di elezione da
parte degli iscritti, se questo prevedono gli statuti. Ciò che emerge è che l’RSA
non ha necessariamente un carattere elettivo, perché in qualche modo è l’organizzazione che individua il soggetto in quanto esponente degli iscritti.
Questo spiega anche i poteri della RSA, che sono indubbiamente i poteri di carattere organizzativo dei diritti sindacali e quelli dell’articolo 19; ma la domanda
è se l’RSA ha un potere contrattuale. infatti il suo diritto di convocare un’assemblea o di godere di permessi non è messo in discussione, ma l’RSA ha un vero
potere contrattuale?
A mio avviso il potere di stipulare contratti l’RSA lo ha insieme alla segreteria territoriale del sindacato, perché l’agente contrattuale è il sindacato, non è
l’RSA di per sé.
314
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Le RSU non rappresentano solo gli iscritti al sindacato, ma rappresentano tutti
i lavoratori di un’azienda. È vero che all’elezione delle RSU partecipano tutti i
lavoratori di un’azienda e addirittura con il testo unico scompare anche la riserva del terzo designato, ma va detto che anche il ruolo dell’organizzazione deve
essere tenuto nella giusta considerazione.
Infatti il problema è: chi candida le RSU? I lavoratori non si candidano per
conto loro, come privati cittadini o lavoratori di una certa azienda, ma le RSU
sono candidate su liste sindacali stilate dalle organizzazioni, che hanno creato
e sottoscritto l’accordo del 20 dicembre 1993, o anche dalle organizzazioni
sindacali, che abbiano almeno il 5% dei lavoratori di quell’azienda e che però
si siano costituite come associazioni sindacali, con un proprio statuto, con un
adeguato riconoscimento.
Le RSU quindi sono individuate attraverso il metodo elettivo e ciò le distingue
dalle RSA, però bisogna tener conto del fatto che le candidature sono presentate dalle organizzazioni sindacali ed una novità importante del testo unico sulla
rappresentanza, che secondo me non deve essere tralasciata nella prospettiva
di costruire un accordo specifico anche negli altri settori, è che il dato del ruolo delle organizzazioni sindacali emerge nella previsione secondo la quale, in
caso di cambiamento di appartenenza sindacale, la RSU decade.
Il testo unico sulla rappresentanza mette inoltre in rilievo il ruolo dell’organizzazione nella previsione secondo cui non solo in caso di dimissioni della RSU c’è
la decadenza dal ruolo che il rappresentante ha ricoperto, ma, se la RSU non
si dimette e tuttavia cambia organizzazione sindacale, siccome il candidato è
stato presentato nelle liste di una specifica organizzazione sindacale, questo
cambiamento di appartenenza sindacale comporta la decadenza della RSU e
la sua sostituzione con il primo dei non eletti della lista originaria di appartenenza del sostituito.
Ciò significa che la RSU rappresenta effettivamente tutti i lavoratori, ma si deve
ricordare che è stato eletto nell’ambito di una lista sindacale. Questo implica
una necessaria responsabilità da un lato del lavoratore, che si presenta in una
lista, perché, se si presenta in quella lista, significa che ne condivide i valori di
fondo e di questo deve essere consapevole, dall’altro lato anche del sindacato
che lo candida, perché, tutto sommato, prima di candidare delle persone, bisogna accertarsi se condividono una comune impostazione valoriale.
Il dato associativo non è importante soltanto per l’RSA, ma il dato associativo,
in cui conta anche il ruolo dell’organizzazione sindacale, trova spunti importanti
anche nella RSU, suffragato com’è da questi elementi di novità.
Sotto il profilo delle fonti, la fonte di riferimento della RSU non è l’articolo 19
dello Statuto dei Lavoratori, è invece l’accordo del 20 dicembre 1993 ed è oggi
la parte seconda del testo unico sulla rappresentanza del 2014.
Il potere principale della RSU è il potere di contrattazione di secondo livello, ma
anche questo è un dibattito molto aperto: se l’RSU ha poteri contrattuali, li può
esercitare da solo o in collaborazione comunque con il sindacato provinciale?
Questa una grandissima questione aperta.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
315
Se mi permettete, io do delle argomentazioni a sostegno della seconda ipotesi, sono argomentazioni tecniche, ma possono avere anche un rilievo politico
importante. Da un lato l’accordo del 20 dicembre 1993 non è stato abrogato,
ma solo modificato: ciò emerge chiaramente dalla formulazione della premessa
della parte seconda, laddove si dice: “Le seguenti regole in materia di rappresentanza sindacale unitaria riprendono – non sostituiscono – la disciplina
contenuta nell’accordo del 20 dicembre 1993 con gli adeguamenti e le nuove
intese confederali”.
Da qui posso sostenere che, dal momento che nell’accordo del 1993 si diceva
a chiare lettere che la titolarità della contrattazione di secondo livello era affidata alle RSU in collaborazione con le rappresentanze sindacali territoriali, ergo
questo si può ritenere ancora valido.
Quando poi si parla di deroghe, di intese modificative, nelle righe finali della
parte terza si dice espressamente che le cosiddette intese modificative del contratto aziendale rispetto al contratto nazionale devono essere prese in collaborazione con il sindacato provinciale.
Questa cosa è scritta a chiare lettere: “Ove non previste ed in attesa che i
rinnovi definiscano la materia nel contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze
sindacali operanti in azienda d’intesa con le relative organizzazioni sindacali
territoriali di categoria espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del
presente accordo interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato...”
Quindi non c’è soltanto una definizione delle materie che il contratto nazionale o
la legge affidano alla contrattazione decentrata, ma ci sono anche le modalità e
nelle modalità si potrebbe prevedere più esplicitamente quali sono i soggetti.
È dunque vero che le RSU hanno un potere contrattuale, tuttavia per queste
argomentazioni si può sostenere che non è un potere esclusivo delle RSU, ma
che deve essere svolto in qualche modo in accordo con le strutture sindacali
territoriali.
Per quanto riguarda poi l’RLS, l’RLST e quant’altro, vorrei fare qualche piccola
precisazione: mi fa molto piacere che qualche gruppo abbia fatto una sorta di
ricognizione di tutte le fonti in tema di salute e sicurezza, però devo rilevare che
l’articolo n. 2087 del Codice Civile non c’entra assolutamente niente, perché esso
riguarda una dimensione totalmente individuale, non di interesse collettivo.
Questo articolo prevede l’obbligo di sicurezza a carico del datore di lavoro nei
confronti del singolo lavoratore, ma non è la fonte di regolamentazione o di
riferimento dell’interesse collettivo alla sicurezza, che si trova principalmente
negli articoli 47 e 50 del decreto n. 81.
L’articolo 9 dello Statuto dei Lavoratori è una sorta di reperto storico molto
importante, perché era la prima volta in cui si facesse riferimento all’interesse
collettivo alla sicurezza ed alle rappresentanze. Però poi si è posto il problema
se queste rappresentanze non fossero in qualche maniera assorbite dalle RLS:
nel 1970 non c’erano le RLS, c’erano soltanto le rappresentanze specifiche
per la sicurezza e si può forse ritenere che non sia necessario avere troppe
316
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
rappresentanze e che oggi possa essere sufficiente avere le rappresentanze di
cui agli articoli 47 e 50 del decreto n. 81.
Vediamo quale potere l’RLS ha e che ha dunque anche l’RLST o l’RLS di sito
produttivo, a cui fa riferimento l’articolo 49: se in un’attività lavorativa ci sono
più imprese che insistono nello stesso territorio, si può fare una sorta di coordinamento degli RLS e dar luogo ad una ulteriore figura, che è appunto quella
della RLS di sito produttivo.
Il potere che ha questa figura, come giustamente avete colto, è solo consultivo,
non di per sé di natura contrattuale. Se si va a sviscerare l’articolo 50, questo
fatto si dice chiaramente, ma è pur vero che, come avete già rilevato voi, l’RLS,
soprattutto nelle aziende con più di 15 lavoratori, deve essere designato dai
lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda e quindi c’è una
sorta di tendenziale sovrapposizione tra il ruolo del RLS e quello delle rappresentanze sindacali, anche se però il ruolo è assolutamente diverso, perché una
cosa è fare attività sindacale ed altra cosa è occuparsi in nome e per conto di
tutti i lavoratori della salute e sicurezza.
Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, vorrei fare una considerazione,
che ha un rilievo politico sindacale molto importante e che ci butta sull’attualità:
noi abbiamo un sistema contrattuale che è improntato, come tutti avete riconosciuto, su due livelli contrattuali, quello nazionale e quello decentrato.
Come sapete, tentativi di mettere in discussione il sistema contrattuale improntato su due livelli di contrattazione ce ne sono stati molti in questi anni. Un
tentativo un po’ più subdolo è forse in atto in questo momento, mediante la
proposta del salario minimo, perché indubbiamente, se si prevede in via generale, non per i settori che non hanno nulla, ma per quelli già coperti da un
contratto collettivo, un salario minimo per legge e se magari si dà carattere
strutturale agli € 80, indubbiamente si riduce l’impatto del livello nazionale,
spingendo tutto verso un sistema di relazioni sindacali improntato su un unico
livello contrattuale.
Pur essendo io un grande fautore della contrattazione aziendale e decentrata,
ritengo che questa sia una deriva molto pericolosa, perché, se è vero che noi
della CISL siamo i fautori della contrattazione decentrata, aziendale e forse anche di quella territoriale, dobbiamo domandarci, per non essere ipocriti, quante
aziende siano capaci di fare contrattazione a livello aziendale o territoriale. Il
livello di copertura della contrattazione aziendale del nostro Paese infatti è ancora molto basso.
Occorre dunque capire quanto il livello nazionale dovrebbe essere solo di carattere generale: a mio avviso dovrebbe dare solo le linee essenziali e poi rinviare tutto, senza porre ostacoli, alla contrattazione aziendale.
Avrei dei dubbi però a propendere, come alcuni fanno, non mi interessa che
siano di destra o di sinistra, per un intervento legislativo su materie che sono
prettamente di spettanza sindacale, in modo da scardinare l’attuale sistema di
relazioni industriali, che in qualche modo è ancora improntato sul doppio livello
di contrattazione.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
317
Il riferimento non è tanto all’articolo 36, il quale riguarda la retribuzione sufficiente,
in questo caso il riferimento è all’articolo 39, il quale copre un po’ tutti i livelli della
contrattazione. Il comma 4 di questo articolo recita così: “I sindacati registrati
hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria
per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Siamo nel 1948 e questo comma prevedeva che i sindacati registrati avessero
personalità giuridica e che questi sindacati registrati con personalità giuridica
potessero essere rappresentati unitariamente in proporzione al numero degli
iscritti e stipulare contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti alla categoria
di riferimento, quindi con efficacia erga omnes.
Il richiamo letterale alla categoria di riferimento fa dire che eventuali problemi di
legittimità costituzionale, qualora, ad esempio, fosse ripresa per legge l’intesa
del testo unico sulla rappresentanza, si porrebbero soltanto in riferimento al
contratto nazionale di categoria, ma non c’è nessun limite costituzionale, a mio
avviso, ai requisiti per conferire efficacia generale ai contratti aziendali.
In sostanza l’articolo 39 comma 4 pone un limite procedurale ai fini dell’efficacia
generale del contratto collettivo nazionale di categoria, ma non pone alcun limite all’efficacia generale del contratto collettivo aziendale, perché del contratto
collettivo aziendale non parla.
Quanto scritto nell’accordo del 28 giugno 2011 e forse anche nell’articolo 8
della legge 148 del 2011, tesa a dare efficacia generale al contratto aziendale,
non è incostituzionale, perché non trova il limite dell’articolo 39, il quale trova il
proprio limite soltanto rispetto all’efficacia generale con procedura diversa da
un eventuale contratto collettivo nazionale di categoria, ma non nel contratto
aziendale.
Quando si viene a parlare delle fonti della contrattazione collettiva, si cita l’articolo 39, ma già il testo unico sulla rappresentanza stabilisce delle regole chiare
per conferire validità erga omnes al contratto aziendale. Poi si può richiamare
il rinvio al contratto individuale o al contratto collettivo, ma, se ci sono le RSU,
si applica a tutti il contratto stipulato dalla maggioranza dei componenti delle
RSU, se ci sono le RSA, si applica a tutti il contratto aziendale, che è stato
stipulato dalla maggioranza delle deleghe delle RSA.
Il referendum non è obbligatorio ma è soltanto eventuale, c’è già la possibilità
di dare stabilità al contratti aziendali, senza aspettare chissà che: ciò è scritto
nel testo unico ed era già scritto nel testo del 2011, basta soltanto metterlo in
pratica.
Infatti il testo unico recita: “I contratti collettivi aziendali per le parti economiche
e normative sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolano
tutte le associazioni sindacali, espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, o che comunque tali accordi
abbiano formalmente accettato, operanti all’interno dell’azienda, se approvati
dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali convenute con il presente Accordo.
318
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
In caso di presenza delle rappresentanze sindacali aziendali costituite ex art.
19 della legge n. 300/70, i suddetti contratti collettivi aziendali esplicano pari efficacia se approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino
destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la
stipulazione, rilevati e comunicati ai sensi della presente intesa”.
In questo caso non è maggioranza dei componenti, ma maggioranza delle deleghe, e poi si aggiunge: “Inoltre, i contratti collettivi aziendali approvati dalle
rappresentanze sindacali aziendali con le modalità sopra indicate devono essere sottoposti al voto dei lavoratori promosso dalle rappresentanze sindacali
aziendali a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni dalla conclusione
del contratto, da almeno una organizzazione sindacale espressione di una delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo o almeno dal 30%
dei lavoratori dell’impresa”.
Ma se non c’è nessuna richiesta, il “devono” non sussiste, non c’è referendum,
perché, per esserci, occorre che vi sia una richiesta: il referendum non è una
procedura automatica, qualora ci sia un accordo stipulato dalle RSA.
Indubbiamente la base normativa della contrattazione collettiva si trova nell’articolo 39 ed in tutti i rimandi, che sono stati messi in evidenza, che la legge fa
alla contrattazione collettiva. Un’ulteriore norma di riferimento io la individuerei
anche nell’articolo 8 della legge 138 del 2011 e poi sempre più la contrattazione
aziendale – e direi anche quella territoriale – trova appunto spazio per le materie e secondo le modalità previste dal contratto collettivo nazionale.
L’articolo 8 della legge 138 può essere uno strumento di grande opportunità o
anche di grande perplessità: le modifiche del mercato del lavoro italiano, a detta dei politici, sono sempre qualcosa che ci chiede l’Europa, ma occorrerebbe
capire se è sempre così oppure no. Nel 2011 il Governo italiano ricevette la
famosa lettera dalla BCE e da allora ancora oggi ci vengono presentate delle
modifiche della legge che regola il mercato del lavoro come ulteriori necessità
a cui l’Europa ci chiede di assolvere.
Il tentativo dell’articolo 8 fu appunto quello di trovare una formula molto flessibile, che rinviasse alla contrattazione collettiva aziendale, per adeguarci alle
richieste dell’Europa. Questa scelta tuttavia conteneva anche un regalo, forse
non richiesto, ma di sicuro non particolarmente accettato, ovvero il comma 3.
Dal momento che la FIAT si apprestava sostanzialmente ad uscire da Confindustria, questo fu il tentativo estremo per cercare di fermarla, sostenendo che
le intese già elaborate, se fossero state approvate mediante referendum dalla
maggioranza dei lavoratori, potevano comunque essere ritenute valide.
Il comma 3, che recita: “Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali
vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le Parti Sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle
unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori”, risponde sostanzialmente
a questa esigenza.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
319
Va detto che la FIAT ha poi ha fatto la sua strada al di là di tutti gli omaggi che
il legislatore ha voluto rivolgerle.
A noi interessano maggiormente i commi 1 e 2 dell’articolo 8. Essi recitano
così: “1. I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale
da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono
realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità
dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di
competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli
investimenti e all’avvio di nuove attività. 2. Le specifiche intese di cui al comma
1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del
lavoro e della produzione incluse quelle relative: a) agli impianti audiovisivi e
alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti
a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e
ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di
lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla
trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio
e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio”.
Nel testo definitivo vi sono delle ulteriori precisazioni: nel comma 1 c’è un riferimento al fatto che la maggiore rappresentatività deve essere intesa secondo
gli accordi interconfederali vigenti, compreso quello del 28 giugno 2011, quindi
non chiunque, non qualsiasi soggetto sindacale può stipulare intese modificative, ma solo quei soggetti che abbiano un certo grado di rappresentatività,
secondo quanto già precisato dall’accordo del 28 giugno 2011.
Non dimentichiamoci che questo avviene a settembre 2011, per cui già c’era
l’accordo del 28 giugno: le linee generali di rappresentatività, che poi si ritrovano nel testo unico del 2014, erano già state scritte.
Ciò deve essere integrato con quanto emendato nel comma 3 bis, in cui si dice:
“Fermo restando il rispetto della Costituzione nonché i vincoli derivanti dalla
normativa comunitaria e internazionale”, che non c’era nella prima versione
del testo.
Tra l’emanazione del decreto-legge e poi la definizione della legge c’è stata
questa modifica, peraltro voluta dalla CISL, che ha inserito due paletti molto
importanti ai fini di dare concretezza al provvedimento: da un lato che la possibilità di stipulare contratti aziendali non è data a tutti, ma soltanto ai soggetti
rappresentativi, dall’altro che questa possibilità, affinché non sia totale, come
piacerebbe a qualcuno, comunque trovi dei limiti, derivanti dalle norme costituzionali e dalle norme dell’ordinamento internazionale e comunitario.
C’è un grande dibattito in corso su delle leggi fatte sotto un profilo tecnico forse
non totalmente felice: è inutile fare dei provvedimenti in cui c’è un lungo elenco
che comprende tutto e il contrario di tutto. Ad esempio, si discute moltissimo
sul contratto a termine, che è uno dei punti dell’articolo 8 e però, guarda caso,
320
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
abbiamo avuto la legge n. 78, che rinvia alla contrattazione collettiva rispetto
ai contratti a termine. Allora che cosa dobbiamo fare? Utilizziamo l’articolo 8 o
utilizziamo il rinvio alla contrattazione collettiva?
Quanto più il legislatore si ferma e rinvia a quello che è il campo di intervento
dell’ordinamento sindacale, tanto meglio è, perché, se il legislatore si improvvisa di intervenire su materie che sono proprie della contrattazione collettiva,
sono più i danni, per chi vuole la certezza del diritto, che le regole precise che
ne derivano.
Raccogliamo ora due o tre domande. Io posso rispondere per la parte tecnica, ma siccome ci sono questioni di carattere politico, che riguardano tanto gli
esponenti di parte sindacale quanto i consulenti del lavoro, chiederei a Rosetta
Raso e a Diana Onder di annotarsi le domande per eventuali loro interventi.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Io volevo una precisazione per quanto riguarda l’applicazione dell’articolo 2087
del Codice Civile. Noi abbiamo ritenuto di inserire questo articolo tra le fonti normative che regolano le peculiarità del RLS, perché in conseguenza dell’articolo
2087 l’imprenditore è tenuto ad adottare le misure idonee a garantire l’integrità
psico-fisica del lavoratore.
I lavoratori controllano che queste misure idonee vengano adottate tramite
l’RLS, che può agire in giudizio contro il datore di lavoro e da ciò deriva tutta
una serie di sentenze della Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, del 97
e seguenti. Grazie.
ROBERTO DE LORENZIS
(Consulente del Lavoro Genova)
Io mi sono stupito del gran polverone che si è fatto negli ultimi giorni sull’articolo
18 – premetto che io sono favorevole all’abolizione dell’articolo 18, ma, tutto
sommato, mi sembra una questione marginale – ed invece sia passata sotto
silenzio la proposta del salario minimo che, a mio avviso, esautora completamente il livello delle segreterie nazionali dei sindacati.
Questo è un passaggio importante e mi stupisce che non ci sia stato dibattito
su questo punto. Grazie.
LUIGINO PEZZUOLO
(Segretario Generale FISASCAT CISL Milano – Legnano – Magenta)
Noi riteniamo che l’articolo 18 sia un baluardo che garantisca la possibilità di
prendere la parola nelle rappresentanze sindacali del mondo del lavoro. Ciò
nonostante siamo sempre disponibili a discutere, ma, fino a quando non c’è
niente di nuovo, è inutile smettere la discussione sul vecchio.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
321
A noi piacerebbe moltissimo discutere sullo Statuto dei Lavori e sulle nuove
forme di rappresentanza, il problema è che, per discutere dobbiamo essere in
due almeno e da questo punto di vista siamo sempre dell’idea che preferiamo
mantenere quello che c’è, fino a quando insieme non abbiamo deciso di cambiare le regole.
A proposito della RSA, ho sottomano un caso di elezioni in cui la FIM ha ottenuto oltre 5100 voti rispetto ai 1300 della FIOM: in quell’azienda c’erano le RSU e
si è andati all’elezione delle RSA.
Si dibatte delle elezioni delle RSA e se debbano avere compiti uguali o disomogenei rispetto a quelli delle RSU, ma da parte della CISL c’è la volontà politica
di dire che sono esattamente le stesse cose dal punto di vista dell’iniziativa
politico-sindacale nei confronti delle aziende.
Io ho colto con interesse un passaggio finale dell’intervento di Marco Lai, in
cui egli sottolinea che non si deve andare al referendum a tutti i costi: se ce
l’RSA, una volta ottenuta la maggioranza, non sono necessarie ulteriori azioni.
Questo per dire che c’è anche da parte nostra la volontà di avere uno strumento
di rappresentanza che sia più rispondente alle esigenze del momento, le quali
devono mettere insieme un po’ di fattori: contratti collettivi nazionali di lavoro da
applicare – e vanno bene per le parti – non applicare lo shopping contrattuale –
ed anche questo va bene tra le parti – tentare di semplificare le procedure, ma,
se c’è shopping contrattuale, le procedure non si semplificano, ecc.
Ci sarebbero 100.000 argomenti per discutere la bontà del fatto di avere pochi
contratti possibilmente decentrati al livello più giusto, ma in realtà l’Italia fa esattamente le cose che abbiamo detto prima. Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Io proporrei un emendamento per applicare quanto detto della rappresentanza
aziendale delle RSU nel nostro Parlamento, ovvero: chi cambia schieramento
politico, decade, così almeno si eliminano molte delle rappresentanze inutili nel
nostro Parlamento.
A parte la battuta, vorrei fare una difesa del mio collega consulente del lavoro:
noi non consideriamo tra le fonti il diritto circolatorio, però purtroppo nell’operativo, in special modo con certi istituti, noi ci confrontiamo tutti i giorni con il diritto circolatorio e gli istituti, in special modo l’Inps, ultimamente si sostituiscono
quasi ogni giorno al legislatore.
Le cause costano, perché comportano perdite di tempo inutili, i famosi codici
di autorizzazione ci vengono tolti dall’oggi al domani e noi dobbiamo continuamente combattere con il diritto circolatorio.
Quanto alla posizione dei consulenti del lavoro rispetto alla contrattazione
aziendale, conosco tanti colleghi che vedrebbero di buon occhio la contrattazione aziendale molto semplicemente perché nell’attività quotidiana, data la
frammentazione dei lavori, la contrattazione nazionale non corrisponde mai alle
esigenze aziendali.
322
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Molti consulenti sarebbero favorevoli a mettersi in relazione con i sindacati: nel
gruppo a cui io ho partecipato, abbiamo ragionato molto sul fatto che è bello
avere come controparte il sindacato per noi consulenti del lavoro, perché ragioniamo entrambi nella stessa ottica.
Io reputo inutile il salario minimo: sarebbe meglio accorpare i contratti collettivi,
perché sia i sindacalisti che noi consulenti non sappiamo più quale applicare.
Dal mio punto di vista ne basterebbe una decina, 15 al massimo. Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Soprattutto la CISL ha fatto un lavoro certosino nel blindare le regole, che qualsiasi tipo di Governo negli ultimi anni ha cercato di mettere in discussione, per
mettere il sindacato nell’angolo.
Da questo nuovo accordo sulla rappresentanza si evince una cosa importante:
il modello organizzativo piramidale. A prescindere da RSA e RSU, l’organizzazione va sempre più verso il decentramento, quindi ora una struttura a livello
periferico può interagire con le aziende, può interagire con le istituzioni.
Poc’anzi qualcuno accennava ad un terzo istituto, la Sezione Aziendale Sindacale: anche quello è uno strumento importante, che sicuramente deriva dallo
spirito e dalla valenza della RSA, perché è la struttura periferica che si interfaccia, non dico al posto della segreteria, ma insieme alla segreteria, regionale,
provinciale o territoriale, con la controparte.
Io penso che rispetto a questa riorganizzazione della rappresentanza sia stato
fatto un buon lavoro di ristrutturazione su un impianto già esistente. Altrettanto vale anche per l’articolo 18, la cui ristrutturazione sicuramente si può fare,
come è già stato fatto qualche anno fa, tenendo conto del fatto che le organizzazioni sindacali, in questo caso la CISL, hanno visto lungo ed in qualche caso
si è già giunti al capolinea con un lavoro di squadra che è andato dal centro alla
periferia. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Abbiamo fatto un riferimento alla fonte di regolazione del tema della salute e
sicurezza. La domanda è: l’articolo 2087 del Codice Civile è la fonte di riferimento, di regolazione della RLS? In sostanza la RLS poteva esserci con il solo
articolo 2087? La risposta è no, perché la fonte di regolazione della RLS si
trova nell’articolo 19, oppure negli articoli 47 e 50.
In questo senso indubbiamente la RLS sviluppa tutti quei ruoli di controllo che
derivano anche dall’articolo 2087 del Codice Civile, ma la fonte di legittimazione della RLS non è sicuramente questo articolo, il quale risale al 1942 ed
afferma il diritto individuale, del singolo lavoratore, ma non è l’affermazione di
un interesse collettivo, che nasce soltanto nel 1970.
323
Intervento di:
Rosetta Raso
(Segretario Organizzativo FISASCAT_CISL)
324
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Ritengo che questa giornata sia stata soddisfacente, perché ha affrontato il
tema della rappresentanza e della rappresentatività così come avevamo immaginato, cercando di fare dialogare due parti che, pur avendo due ruoli diversi,
devono comunque darsi un obiettivo comune, affinché si abbia la soddisfazione
per noi del lavoratore, per voi dell’azienda.
La mia introduzione di questa mattina voleva essere solo un excursus sulle
motivazioni per le quali siamo arrivati a volere questo seminario sulla rappresentanza, anche perché, quando lo abbiamo pensato, sapevamo che era in
discussione il testo sulla rappresentanza poi siglato con Confindustria, ma che,
come sapete, non è ancora stato firmato con Confcommercio.
Quando abbiamo pensato questo seminario, la speranza era che potesse esserci un testo unico anche per il Commercio e per altri settori, cosa che poi,
per una serie di motivazioni, non è avvenuta. Spesso la colpa non è solo delle
organizzazioni sindacali, ma anche delle associazioni datoriali.
Sull’articolo 8 noi non facciamo un ragionamento di principio, come invece fa
la CGIL. Tenete presente che su questa questione mi pare di ricordare che il 6
settembre 2011 essi fecero uno sciopero generale, mentre il nostro è tutto un
ragionamento di merito, che in parte oggi, nella discussione che è avvenuta,
abbiamo esposto.
Bene ha fatto in una sua pubblicazione Uliano Stendardi, Coordinatore Politiche Contrattuali, Industria, Artigianato della CISL, che a pagina 19 ha precisato
proprio questo principio, dicendo che praticamente l’articolo 8 è un inedito intervento della legge sull’autonomia contrattuale e spiegandone anche i motivi.
Egli dice innanzitutto che il provvedimento di legge presenta due aspetti critici:
uno è quello di una invasione di campo, orientata a far prevalere il peso della
legge rispetto all’autonomia contrattuale delle parti nella regolazione dei rapporti di lavoro. E qui ci sta tutto il ragionamento che abbiamo fatto, sia questa
mattina che oggi pomeriggio.
Quando parliamo della libertà delle organizzazioni sindacali, non possiamo tralasciare il fatto che la CISL a tale proposito ha espresso sempre chiaramente la
propria posizione, che è quella di non volere su questa questione una legislazione di sostegno. Ecco perché essa ha spinto fortemente non solo per inserire
le modifiche e gli emendamenti all’articolo 8, ma soprattutto per non arrivare
affatto ad una legislazione di sostegno, come invece in alcuni momenti storici
chiedeva la CGIL, quando il Governo era amico.
Altro punto è il rischio di una disarticolazione della struttura contrattuale e del
sistema delle relazioni industriali, dato che si vuole togliere ai contratti nazionali
il ruolo insostituibile di regolazione a livello settoriale.
Il testo unico recita: “I contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti
di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali possono
pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese
modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali
di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi
nazionali di lavoro”. Perciò le materie demandate al secondo livello non sono,
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
325
secondo noi, quelle previste dall’articolo 8, ma sono quelle del contratto collettivo nazionale, che demanda non solo le materie ma anche le modalità.
Il testo unico quindi afferma: “Ove non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia nel contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda d’intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali di
categoria espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente
accordo interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente
accettato, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo
nazionale…” E dice pure quali sono questi istituti: sono quelli che disciplinano
la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro.
Per quanto ci riguarda, noi non ci siamo mai tirati indietro come Federazione e
come CISL in particolare rispetto a intese modificative del contratto collettivo,
nel caso che si tratti di aziende che hanno fatto investimenti, quindi in fase di
start up, oppure per la gestione delle eccedenze e delle problematicità che
hanno le aziende.
Possiamo infatti mettere in campo una serie di accordi aziendali per la gestione
delle eccedenze, della crisi, dei licenziamenti e quant’altro. A tale proposito abbiamo un’interessante banca dati in FISASCAT, a cui chiunque può accedere,
per verificare tutti gli accordi, che sono stati fatti per gestire le eccedenze.
Ma sono sempre accordi nell’ambito delle materie demandate dalla contrattazione nazionale, oppure fatti per lo sviluppo delle aziende o per la gestione di
piani di esubero, di ristrutturazione o di riorganizzazione aziendale.
Noi siamo il sindacato della responsabilità e del confronto e non dimentichiamo quanti accordi sono stati fatti proprio in tale senso; siamo quelli che hanno
fortemente voluto anche i contratti di solidarietà, perché riteniamo importante
che i lavoratori restino in azienda, siamo quelli che criticano il fatto che non ci
siano abbastanza risorse per continuare a garantire gli ammortizzatori sociali in
deroga nella formulazione originaria, non in quella del decreto di modifica, per
un motivo molto semplice: perché è un decreto che interviene in un periodo di
grande crisi del Paese, durante il quale le aziende licenziano oppure falliscono
in maniera esponenziale.
Io penso al fatto che il Ministero ha abolito anche la cassa integrazione per la
cessazione, che è quella che a noi ha consentito di raggiungere accordi assieme alle aziende, per poter anche mantenere l’azienda sul mercato, magari
facendo la cassa integrazione per la cessazione di un ramo d’azienda.
Come Federazione non siamo però disponibili ad essere il riferimento per fare
solo accordi a perdere per i lavoratori: noi siamo disponibili con le aziende e
con i consulenti a fare accordi, laddove ci sono le necessità determinate dalla
crisi economica e quant’altro; questo è un terreno sul quale noi siamo disponibili, ma non è per noi una questione di principio.
Spesso la CGIL dice che negli accordi non deve essere nominato l’articolo 8,
questo non è per noi un problema: noi non condividiamo nel merito il fatto di
326
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
seguire quella impostazione, perché poi di fatto quelle modalità pongono problemi di altra natura.
È stata fatta un’altra normativa sul tempo determinato, per cui si possono fare
le sospensioni, si possono fare più rinnovi, ma tutto va bene solo se lo definisce
la contrattazione nazionale.
A proposito dell’articolo 8, noi abbiamo una posizione ben precisa: la nostra disponibilità è massima per la tutela dei livelli occupazionali, abbiamo il massimo
rispetto per lo sviluppo dell’azienda in caso di nuova occupazione. Abbiamo
fatto tanti accordi di tutela per passaggi da rapporti a tempo indeterminato a
co.co.pro., ma tutto deve avvenire nel rispetto delle norme, che per noi sono
importantissime e costituiscono il faro della nostra azione quotidiana.
Le modifiche che sono state fatte alla legge vanno nella direzione di cui dicevo:
tutta la discussione fatta sull’articolo 8 e sugli emendamenti presentati dimostra
che tanti di quegli emendamenti provenivano dalla CISL e noi siamo comunque
in grado di stabilire dei paletti.
La nuova regolamentazione, che comparirà nel testo unico per la rappresentanza del Commercio, sta in questi termini, anche se nella maggior parte dei
nostri contratti esiste già una normativa, che va in questa direzione e stabilisce
quali sono le materie delegate al secondo livello.
Per il 95% i nostri iscritti sono dipendenti di aziende che hanno meno di 15
dipendenti, oppure addirittura lavorano in strutture che hanno da uno a nove dipendenti e nel confronto con la Confcommercio noi abbiamo posto il problema
della rappresentatività, perché non contano solo il numero delle deleghe o i voti
delle RSU e delle RSA, ma dovrebbero contare anche i numeri delle vertenze
individuali e plurime, la questione degli accordi in CIGS, le transazioni, le conciliazioni ed eventualmente anche le pratiche di disoccupazione.
Invece per quanto riguarda il salario minimo, noi non siamo d’accordo: noi
siamo quelli che sostengono che il salario è stabilito dal contratto collettivo
nazionale e, proprio perché pensiamo che ci sia il doppio livello, nazionale e
aziendale, riteniamo che nel secondo livello lo si possa modificare in meglio, ad
esempio, mediante un accordo sulla produttività defiscalizzata.
Quindi per noi il salario minimo è rappresentato dai minimi tabellari: probabilmente ciò non piace a questo Governo e forse è questo il motivo per cui le
comunicazioni che noi facciamo, non giungono a destinazione.
Ma non funziona neppure l’idea che questo Governo ha del confronto con le
organizzazioni sindacali, per cui esse vengono convocate alle otto del mattino
mediante SMS, mentre alle nove vengono convocate le associazioni datoriali,
il che significa che, se si prevede solamente un’ora di confronto con le confederazioni maggiormente rappresentative, non si è disponibili ad ascoltare, si è
solo disponibili ad informare.
È vero che è finita la concertazione e quindi il livello del confronto, ma quanto
meno un dialogo – oppure un ascolto della nostra posizione – sarebbe stato
utile ed opportuno.
Noi insisteremo nella nostra posizione ed aumenteremo eventualmente il conflitto, per dimostrare alle controparti quanto valiamo ai tavoli delle trattative; ed
altrettanto faremo con il Governo.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
327
Rispetto a questa posizione la verità è che poi bisogna, come organizzazioni
sindacali e soprattutto come federazioni, porre nel merito le questioni a tutti i
livelli e a tutti i tavoli contrattuali.
Piuttosto che fare discussioni di principio, per noi vale il merito e sulla base del
merito chiederemo l’impegno di tutti. Grazie.
PAOLA DIANA ONDER
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL-Su)
Io vorrei solo sottolineare che, per quanto riguarda la cassa integrazione per gli
studi professionali, a noi non viene più concessa, però siamo stati inseriti tout
court dall’Inps con il codice di autorizzazione tra le aziende che devono versare
obbligatoriamente il contributo.
Quindi noi versiamo il contributo, ma i nostri lavoratori non possono godere
della cassa integrazione in deroga e questo è un problema che la nostra confederazione, Confprofessioni, speriamo possa in qualche modo risolvere, perché
è veramente scandaloso.
A noi vengono imposti tributi e contributi, ma, nel momento in cui abbiamo bisogno di agevolazioni fiscali o sgravi, ci viene detto che non ne abbiamo diritto,
perché non siamo considerati dal legislatore italiano delle imprese, ma una
categoria a parte. Grazie.
328
COS’E’ L’ENTE BILATERALE DELL’INDUSTRIA TURISTICA
L’E.B.I.T., Ente Bilaterale dell’Industria Turistica, costituito il 7 giugno 2000 da Federturismo Confindustria, con l’adesione di
Confindustria AICA, e dalle Organizzazioni Sindacali dei lavoratori del settore FILCAMS-CGIL, FISASCAT-CISL e UILTuCSUIL, è lo strumento individuato dalle Parti stipulanti il CCNL Industria Turistica per la programmazione e l’organizzazione di
relazioni sul quadro economico e produttivo del settore, per il monitoraggio e la rilevazione permanente dei fabbisogni professionali e formativi del settore e per l’elaborazione di proposte in materia di formazione e qualificazione professionali.
In attuazione di quanto stabilito dalle Parti sociali nel Contratto, l’E.B.I.T. ha svolto studi e ricerche apprezzate non solo nel
settore, ma anche a livello accademico ed istituzionale. È il caso di “Turismo: Prospettive & Governance - Proposte per
uno sviluppo competitivo del Sistema Italia”, dalla cui analisi del settore è emerso un quadro ricco di criticità: la stagionalità della domanda, la frammentazione del tessuto produttivo, l’inadeguatezza dell’organizzazione formativa, l’insufficiente attenzione della politica. Elementi, questi, che permettono di comprendere i motivi di uno sviluppo del turismo inferiore
alle sue grandi potenzialità.
Dallo studio è emersa anche una forte rilevanza attribuita, dalle imprese intervistate, al lavoro competente, vettore di competitività delle imprese e di occupabilità dei lavoratori. Il tema è stato approfondito nella successiva indagine “Per un lavoro competente - La formazione professionale come leva di sviluppo del turismo”.
In questa analisi sono state rilevate le carenze di conoscenze e di profili professionali nel settore turistico, mentre un capitolo è stato dedicato all’uso che le aziende fanno dei fondi dedicati alla formazione, in particolare del Fondo interprofessionale Fondimpresa. Nonostante le aziende riconoscano una certa importanza alla formazione continua dei propri dipendenti, ancora oggi non utilizzano adeguatamente l’opportunità di questi finanziamenti.
L’E.B.I.T. ha, pertanto, avviato una serie di iniziative per incoraggiare le aziende della filiera turistica a sfruttare questa
opportunità, promuovendo costantemente Piani Formativi sugli Avvisi di Fondimpresa. L’E.B.I.T. ha inoltre predisposto un
servizio di assistenza, soprattutto per la fase iniziale di accesso ai finanziamenti per la formazione e l’aggiornamento professionale dei propri dipendenti, momento in cui gran parte delle aziende intervistate hanno manifestato maggiore difficoltà. Il tema della Formazione continua è molto sentito anche dai giovani lavoratori del comparto turistico-alberghiero, come
è stato rilevato dall’ultimo lavoro di E.B.I.T. “Il turismo italiano e le nuove generazioni, un’indagine sul comparto alberghiero”. Lo studio, condotto in collaborazione con E.B.I.T. Veneto e la società Risposte Turismo, ha voluto mettere in luce
valutazioni, problematiche e prospettive future di questo specifico segmento del mercato del lavoro, sia dal punto di vista
delle aziende che da quello dei giovani. L’indagine costituisce, quindi, un importante spunto dal quale partire per una migliore impostazione delle condizioni per fare “nuova” impresa.
Uno dei compiti che la contrattazione ha assegnato all’E.B.I.T. è quello di analizzare l’evoluzione qualitativa e quantitativa
dell’occupazione femminile; a tal fine è stata istituita in seno all’Ente la Commissione per le Pari Opportunità che, utilizzando fonti statistiche e di ricerca diretta, rende conto degli andamenti dell’occupazione maschile e femminile nel settore,
anche e soprattutto rispetto ai livelli di inquadramento professionale e alla tipologia di rapporti di lavoro utilizzati. L’impegno
della Commissione nello svolgimento dei propri compiti ha portato alla realizzazione dell’indagine su “Le Pari Opportunità
nel settore dell’industria turistica”, la cui Prefazione è stata scritta dalla Consigliera Nazionale di Parità, Alessandra
Servidori. In E.B.I.T. è stata inoltre istituita la Commissione Apprendistato, a cui le aziende possono rivolgersi per richiedere il parere di conformità per assumere apprendisti a seguito di un percorso formativo in cui il giovane, con la supervisione di un tutor aziendale qualificato, acquisisce competenze di base, trasversali e tecnico-professionali relative alla qualifica
scelta. Sull’argomento, l’E.B.I.T. ha realizzato il Cd-rom “Analisi dinamica e contesto normativo, contrattuale
(1997/2007) sul contratto di Apprendistato”.
L’E.B.I.T. vanta al proprio interno due importanti Osservatori:
Osservatorio sulla Legislazione turistica, primo Osservatorio sul tema istituito in Italia, per la consultazione di tutte le
leggi sulla legislazione turistica italiana e il confronto tra tutte le tipologie di leggi turistiche di ciascuna Regione;
Osservatorio sulla Contrattazione collettiva nazionale e di secondo livello, un importante archivio, in costante aggiornamento, contenente i contratti nazionali ed aziendali.
Inoltre, tutta la Normativa in materia di sicurezza del lavoro è stata raccolta dall’E.B.I.T. In un Cd-rom su “Salute e sicurezza – Vademecum per i lavoratori e le lavoratrici del settore Turismo”.
In questi anni l’E.B.I.T. ha potenziato la propria rete territoriale attraverso la costituzione di Enti Bilaterali Territoriali sia in
forma regionale che provinciale, il cui operato è riassunto nella pubblicazione “Le attività degli Enti Bilaterali”.
Con l’obiettivo di offrire supporto al reddito dei lavoratori dipendenti di imprese turistiche che, per crisi e/o ristrutturazione
e/o riorganizzazione aziendale, sono interessate da periodi di sospensione dell’attività, l’E.B.I.T. è l’Ente che può interviene attraverso l’utilizzo dei Fondi accantonati per il Sostegno al Reddito, Fondo costituito in data 1 aprile 2008.
329
PRESTAZIONI DI ALTA SPECIALIZZAZIONE
o da esso 330
accreditate
ALTA DIAGNOSTICA
RADIOLOGICA
“anche digitale”
•
•
•
•
•
•
• Clisma opaco
•
•
(PTC)
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
• Rx esofago con mezzo di
contrasto
• Rx stomaco e duodeno con
mezzo di contrasto
• Rx tenue e colon con mezzo
di contrasto
•
•
•
•
•
•
ACCERTAMENTI
• Amniocentesi
• Densitometria ossea
computerizzata (MOC)
•
• Elettroencefalogramma
•
•
• PET
• Prelievo dei villi coriali
• Risonanza Magnetica
Nucleare (RMN) (inclusa
angio RMN)
•
•
Computerizata (TAC) (anche
virtuale)
TERAPIE
• Chemioterapia
• Cobaltoterapia
• Dialisi
• Laserterapia a scopo
co
• Radioterapia
SI PREGA DI VERIFICARE SUL SITO INTERNET
GLI EVENTUALI AGGIORNAMENTI DELLA LISTA
[email protected]
www.cassacolf.it
Filcams CGIL, Fisascat CISL, Uiltucs
UIL e Federcolf a nome dei lavoratori e
lavoratrici;
Assindatcolf, ADLC, ADLD, Nuova
Collaborazione e Domina a nome dei datori di lavoro;
con la sottoscrizione del contratto nazionale, hanno inteso mettere a disposizione
del settore il proprio sforzo comune per
garantire e migliorare la professionalità
e il servizio di collaborazione domestica,
fornendo strumenti bilaterali in grado di
raggiungere tali scopi.
RISPAR MIAR E
È PR EV ENIR E
LA CAS.SA.COLF È UNO DI ESSI.
Gli scopi sono quelli di fornire prestazioni assistenziali ai lavoratori e ai loro
datori di lavoro per migliorare la tutela
socio sanitaria.
Con il presente depliant si intende fornire gli elementi sintetici sulle modalità di
iscrizione e sulle prestazioni della cassa.
Si invitano i lettori ad approfondire le
informazioni attraverso il sito internet
www.cassacolf.it e porre eventuali quesiti
attraverso l’indirizzo [email protected]
Ulteriori approfondimenti potranno essere forniti dalle parti sociali recandosi
presso le rispettive sedi che si potranno
trovare tramite i siti nazionali.
331
sessione mattutina
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
332
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Buongiorno a tutti. Tra i punti all’ordine del giorno dell’incontro odierno tra Governo e sindacati compare anche quello della rappresentanza, che si rivela dunque
essere uno dei punti nodali del diritto del lavoro. Ieri abbiamo cercato di esaminare i punti centrali del testo unico sulla rappresentanza, che ha la valenza giuridica
di un accordo, stipulato tra CGIL, CISL, UIL e Confindustria.
Lo abbiamo fatto sul versante di carattere generale alla mattina, grazie all’intervento
di Stefano Bellomo, Professore Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università di Perugia, mentre nel pomeriggio abbiamo approfondito l’argomento attraverso il confronto tra consulenti del lavoro e rappresentanti sindacali nei lavori di gruppo, specificando quali sono attualmente le diverse forme di rappresentanza, fermo restando
che nel settore del Terziario la figura comunque prevalente è quella dell’RSA.
Abbiamo chiarito poi che anche per la RSU, pur ricavando quest’ultima la propria
nomina da un’elezione di tutti i lavoratori, non viene meno il ruolo dell’organizzazione sindacale, che appronta le liste dei candidati a tale carica.
Abbiamo dunque sempre una collaborazione tra la volontà dei lavoratori e l’organizzazione sindacale: di fatto l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori si muove proprio
nella logica di questo raccordo, di questa doppia chiave di entrata delle rappresentanze: da un lato occorre l’input da parte dei lavoratori, dall’altro però la rappresentanza deve avere un riconoscimento da parte dell’organizzazione sindacale.
Questa mattina ci accingiamo a capire quali possono essere le specificità, le applicazioni di un eventuale accordo auspicabile del settore del Terziario, il quale
in qualche modo cerchi di parare o bloccare un possibile intervento legislativo in
questa materia. Prima di scendere nel merito specifico della prospettiva di intervento sul settore Terziario, ci sarà un’introduzione del professor Alberto Berrini,
che è un economista, oltre che un amico veramente caro, il quale ci aiuta molto
sul piano della formazione, al Centro Studi, in FISASCAT, ma anche per la CISL
in generale, sullo scenario di carattere economico.
Tutti noi siamo ben convinti che intervenire solo sull’aspetto legislativo e contrattuale probabilmente non è sufficiente a creare nuovo lavoro, perché, se questo
Paese non si riprende sotto il profilo dell’attrattività degli investimenti, è inutile
parlare di riforme della legge, la quale di per sé non crea alcun posto di lavoro,
come erroneamente credono quelli che sostengono che, abolendo l’articolo 18, si
possono creare nuovi posti di lavoro.
Invece la crescita economica può essere solo collegata alla produttività, alla redditività, alla contrattazione di prossimità, nella misura in cui le aziende possono operare sul mercato in maniera positiva. Altri Paesi si stanno organizzando, mentre noi
non ci stiamo organizzando al fine di aumentare la competitività delle imprese.
Siccome questo è un tema molto importante, abbiamo pensato che, oltre ad una
ricognizione, che abbiamo già fatto, dal punto di vista giuridico, fosse necessario
anche un input di carattere macro economico, finalizzato a capire quanto possa
realizzare il nostro Paese in un contesto globale rispetto al tema della produttività
e della redditività, che sono i cardini poi della contrattazione decentrata, aziendale
o territoriale.
In questo ambito si inserisce l’intervento di Alberto Berrini, a cui cedo la parola.
333
Intervento di:
Alberto Berrini
(Economista)
334
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Solitamente, quando si parla di macro economia, la gente ha la stessa sensazione che prova quando è seduta sulla sedia del dentista. Ma è all’interno
dello scenario macroeconomico che si tengono tutti i discorsi, quindi avere un
quadro generale della situazione internazionale ed uno particolare di quella
italiana è fondamentale, soprattutto perché veniamo da una crisi che ha fondamentalmente cambiato il mondo.
Nel 2007 si è creata questa frattura, dalla quale qualcuno sta uscendo bene,
qualcuno sta uscendo meno bene e qualcun altro, come noi, non sta uscendo
affatto. È tuttavia impossibile fare qualunque tipo di ragionamento, se non tenendo conto della situazione economica.
Se vogliamo dare un titolo alla mia relazione, potremmo definirla “Governare
la crisi”, nel senso che da un lato non siamo all’apice della crisi, che si è avuto
nel 2009 ed ha scatenato la grande recessione mondiale con il fallimento di
Lehman Brothers, ma dall’altro lato noi in particolare, ma in generale il mondo,
non ne siamo ancora completamente usciti.
Quindi si tratta di governarla e poi vedremo da alcuni dati che qualcuno l’ha
governata bene ed in qualche modo ne sta uscendo, vedi gli Stati Uniti, e c’è chi
al contrario, come l’Europa, annaspa ancora nella palude della recessione.
Un elemento con cui si sta scontrando anche il sindacato è che per la prima
volta nella storia dobbiamo affrontare una crisi veramente grave, di cui resteranno segni indelebili: siamo in mezzo a un deserto, stiamo andando verso la
terra promessa, la quale però non sarà certamente come quella che abbiamo
lasciato alle nostre spalle.
Non possiamo ritornare ai livelli del 2007, ma anche se fossimo in grado di
farlo, ci troveremmo comunque in un mondo radicalmente cambiato rispetto a
quella data.
Il punto fondamentale, che ci vede in difficoltà, è che, quando succedono cose
di questo genere, come la crisi del 29, l’economia cambia paradigma: ci si
rende conto degli errori e si affronta la realtà in un altro modo. Ma quello che
sta avvenendo ora è che il paradigma non è cambiato: soprattutto in Europa le
contraddizioni che c’erano, in qualche modo rimangono.
Ha spiegato molto bene questo concetto l’economista Phitoussi, richiamando
il fatto che, se la politica economica non focalizza il vero problema, non se
ne esce.
In sostanza è successo che un modello fondamentalmente astratto di mercati
perfetti che si autoregolano, quando ha visto che la cosa non funzionava, ha
pensato che era la realtà, la quale doveva in qualche modo adeguarsi al modello e non viceversa, col risultato che tutti possono vedere.
Da questa crisi si sta uscendo per due strade: nel confronto tra Europa e Stati
Uniti, lasciamo perdere i Paesi emergenti, per cui valgono altri parametri, vedremo che è stato fondamentale il cambio o meno del paradigma.
Questa crisi tecnicamente si chiama deflazione da debiti: ad un certo punto
scoppia una bolla e tutto cambia. Il capitalismo non parte dall’economia reale,
parte sempre dalla finanza, cioè dal debito. Un imprenditore, per fare un investimento, per mettere in piedi un’impresa, fa dei debiti: si fa prestare dei soldi,
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
335
erige un capannone, anticipa dei salari, prima di ottenere un reddito. Questo
debito iniziale non è negativo, perché, a fronte di questo debito, egli crea degli
asset, delle attività, che gli daranno un reddito e con questo reddito ripagherà i
debiti. Se tra debito e attività c’è un equilibrio, le cose vanno bene.
Deflazione da debiti vuol dire che a un certo punto scoppia una bolla, perché
gli asset, le attività, perdono di valore: ad esempio, crolla il valore delle case,
crolla il valore delle azioni, mentre dall’altra parte i debiti restano quelli di prima:
c’è uno squilibrio e si verifica il disastro.
La deflazione da debiti può essere determinata da diverse cause e può avere
diverse fisionomie: nel 2000 c’è stata la crisi della new economy, nel 2007 che
stata la crisi dei sub prime, legata al mercato immobiliare, ma fondamentalmente in tutti i casi le attività perdono di valore e l’equilibrio salta.
A questo punto si entra nella trappola del ristagno, perché occorre riequilibrare
le cose, ma, per riequilibrare le cose, occorre ridurre il debito: bisognerà consumare di meno, investire di meno, le banche adotteranno delle politiche di stretta
creditizia; in qualche modo così però cala la domanda e si entra nella trappola
del ristagno: si riduce il debito, ma si riducono anche le attività e si entra in un
circolo vizioso.
Di fronte a questo dilemma abbiamo avuto due atteggiamenti opposti: negli
Stati Uniti fondamentalmente prima Bush con degli interventi straordinari, ma
poi soprattutto Obama, verificato che c’era questo squilibrio, lo hanno riaggiustato dal lato della crescita.
Consideriamo il rapporto debito-Pil: è un rapporto, quindi ha un numeratore
e un denominatore, per riequilibrare questo rapporto posso partire da sopra,
il numeratore, o da sotto, il denominatore. L’America ha deciso di partire dal
denominatore: attraverso la crescita ha deciso di rimettere a posto la deflazione
da debiti.
Quindi prima c’è stato l’intervento a livello fiscale, gli 800 miliardi di dollari di
Bush, e poi tutta una serie di politiche espansive da parte del Governo Obama,
ma soprattutto c’è stata una politica monetaria molto espansiva della FED, cioè
della banca centrale statunitense.
Questo non significa che per Obama e soci il debito non sia un problema, però
Obama ha detto: “Nel 2009, nel massimo della crisi, il rapporto deficit-Pil stava
al 9%, oggi siamo intorno al 3-4%, ma l’idea è quella di arrivare all’1,5% nel
2023”. Il che vuol dire che il Governo americano da oggi si prende 10 anni per
risolvere la questione del debito. Il debito infatti non è sostenibile all’infinito e
non si può avere un grande debito, però un conto è stabilire che domani mattina
si rientra dal debito ed un altro conto è prendersi dei tempi adeguati.
E comunque fondamentalmente più che i tagli, anche se Obama li ha fatti, è
la crescita che risolve il problema del rapporto squilibrato. L’Europa invece ha
fatto la scelta dell’austerità espansiva: noi partiamo dal presupposto che i problemi siano i debiti, quindi lo squilibrio deve essere riaggiustato da questo lato
e l’equilibrio tra attività e debiti si ottiene abbassando i debiti.
Si chiama austerità espansiva – anche se il Financial Times l’ha definita austerità distruttiva – perché l’idea è che, siccome i mercati si sanno autoregolare,
336
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
nella misura in cui si riducono i debiti, si fanno due operazioni: da un lato si
pagano meno interessi passivi sui debiti, in particolare sui debiti pubblici, e
dall’altro lato si liberano risorse, perché ci si può permettere di pagare meno
tasse. Queste risorse in mano ai privati determineranno la crescita.
In questa crisi il debito era privato, ovvero era la finanza ad essere saltata: è
stato perciò necessario salvare le banche, perché altrimenti sarebbe saltato
tutto sistema; il problema è che le banche non sono state regolate, nel senso
che è stato permesso loro di continuare a fare quello che facevano prima.
Ma soprattutto, siccome le banche sono state salvate, il debito privato è diventato debito pubblico e l’austerità espansiva ha lavorato soprattutto sulla riduzione di questo debito, dovuto al salvataggio delle banche.
Prima della crisi del 2007 il rapporto debito-Pil a livello mondiale era intorno al
60%, oggi se parliamo dei Paesi sviluppati, siamo oltre il 100%. In questi giorni
c’è stato il rapporto di Ginevra, in cui si dice che il rapporto debito-Pil, se consideriamo anche Cina & Co., viaggia oltre il 200%. Noi, come Italia, siamo tra i
capiscuola, ma il rapporto debito-Pil è un problema di livello mondiale.
Visto che il debito a questo punto è soprattutto pubblico, abbiamo deciso di
ridurre il debito, perché, quando c’è fiducia, di sicuro un BTP costa di meno,
mentre quando il debito è fuori controllo un BTP costa molto, visto che, per
convincere qualcuno ad investire in titoli di Stato, bisogna offrire di più.
Il meccanismo tuttavia non ha funzionato perché, nella misura in cui io intervengo pesantemente sui debiti, ammazzo le aspettative dei consumatori, i quali
consumano di meno, e quelle degli imprenditori, che investono di meno. Per cui
abbiamo avuto il paradosso che, mentre scendeva il debito, scendeva anche il
Pil: mentre scendeva il numeratore, scendeva anche il denominatore, per cui il
rapporto restava identico.
Così paradossalmente dopo anni di austerità in Italia il rapporto debito-Pil
non è diminuito, ma è aumentato; e non è aumentato perché non abbiamo
tagliato, ma è aumentato perché è sceso il debito, ma la crescita è scesa
ancora di più.
Ad esempio, se si operano dei tagli sul welfare, il lavoratore paga di più i Servizi, per cui ha meno denaro da destinare agli altri beni, e gli investitori investono
di meno, per cui aumenta la prospettiva di restare disoccupati e quindi si risparmia per l’incertezza del futuro.
Gli € 80 concessi dal Governo sono andati in questa direzione: si è cercato di
rilanciare i consumi, mettendo un po’ più di soldi in tasca ai lavoratori. È troppo
presto, per capire se la misura ha funzionato o meno e comunque non abbiamo il beneficio della controprova, cioè non possiamo sapere che cosa sarebbe
accaduto se questo denaro non fosse stato concesso ai lavoratori.
Fondamentalmente l’intervento del Governo rischia di non funzionare, perché
gioca sulle aspettative; come diceva Keynes, il cavallo deve bere: se un lavoratore si trova in tasca € 80 in più, ma è sicuro che fra un mese sarà licenziato,
questi € 80 giustamente vanno a finire nel suo risparmio. Dal punto di vista
della razionalità privata questo comportamento è giusto, ma dal punto di vista
pubblico si tratta di un fatto negativo.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
337
Questa cosa vale allo stesso modo per il TFR, misura che io ritengo completamente sbagliata, perché gli ultimi dati ci dicono che è vero che i consumi vengono da fasi negative, però fondamentalmente i consumi, pur in ribasso, hanno
tenuto. Quello che sta provocando una crisi incredibile sono gli investimenti: se
non ripartono gli investimenti, non riparte il lavoro, non riparte l’occupazione,
non ripartono i consumi.
Quindi questi provvedimenti, come gli € 80 o il TFR, che guardano ai consumi,
non affrontano il tema vero dell’Italia, che è quello della crescita, a cui poi sono
legate la produttività e tutte le altre questioni connesse.
Noi a questo proposito abbiamo parlato di sostegno previdenziale, di come i
fondi pensione debbano in qualche modo sostenere la crescita, perché abbiamo miliardi e miliardi fermi, che potrebbero servire a sostenere la ripresa, per
fare investimenti e per indirizzare in un certo modo lo sviluppo. Invece mettere
il TFR in busta paga, sperando così di risolvere i problemi del Paese, secondo
me non è la misura più idonea.
Noi siamo nel sistema capitalistico, che non è un’affermazione morale, ma è
un’affermazione strutturale: nel sistema del capitale le crisi cominciano e finiscono in base agli investimenti. Tutto in economia è circolare: servono gli
investimenti come i consumi, i quali sono il pavimento del sistema, ma preliminarmente è ovvio che occorre investire.
Torniamo alle due strade con cui è stata affrontata la crisi: per dirla tutta, bisogna anche aggiungere che in questa circostanza le banche centrali hanno
giocato dei ruoli diversi. Nel confronto tra economia americana ed economia
europea ci sta il fatto che abbiamo due banche centrali differenti.
La Federal Reserve nel suo statuto ha come primo obiettivo l’occupazione,
quindi la crescita, poi si deve occupare dell’inflazione, compatibilmente con
l’obiettivo principale. Inoltre la Fed opera con il dollaro, che rimane comunque
la valuta di riserva internazionale, anche se l’Euro e la valuta cinese gli hanno
tolto un po’ di spazio; ed essendo il dollaro la valuta di riserva internazionale, si
possono stampare molti dollari senza avere dei boomerang di vario genere.
Perciò la Fed è intervenuta molto pesantemente: siccome le cosiddette politiche monetarie convenzionali, ovvero abbassare tantissimo i tassi per favorire
gli investimenti e far girare più moneta, non sono state sufficienti, perché i tassi
di interesse non possono andare al di sotto dello zero, la Fed è ricorsa a misure
non convenzionali, riversando nel mercato americano una quantità considerevolissima di capitali.
Dall’altra parte abbiamo la Banca Centrale Europea, la quale, dopo aver fatto
una serie di errori madornali, tipo nel 2007 alzare i tassi appena prima della
crisi, in mano a Draghi ha avuto un atteggiamento molto equilibrato. Draghi è
bravissimo, perché, nelle pieghe dello statuto della BCE, sta facendo una serie di cose, ma fondamentalmente rimane un problema di fondo: la BCE nello
statuto ha scritto che il suo primo ed unico obiettivo è la stabilità dei prezzi, in
modo che essi non crescano oltre il 2% annuo.
È chiaro che i due atteggiamenti delle banche centrali danno luogo a soluzioni molto diverse, inoltre l’Euro non è la moneta degli Stati Uniti d’Europa, nel
338
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
senso che alle sue spalle non ha un’entità politica salda e forte come quella
americana ed ha politiche fiscali molto differenziate tra i diversi Paesi.
Andiamo talmente male, che oggi non rischiamo di superare l’inflazione del
2%, ma siamo addirittura in deflazione e quindi Draghi dice che, siccome il suo
obiettivo è tenere l’inflazione intorno al 2%, con la scusa della stabilità dei prezzi al contrario, si può permettere di fare tutta una serie di interventi.
La deflazione, che è contrario dell’inflazione, vede i prezzi scendere, però deflazione vuol dire soprattutto recessione, cioè crisi economica a partire dall’abbassamento dei prezzi: le cose vanno talmente male, che i prezzi cominciano
a cedere.
C’è una deflazione positiva, quella, per esempio, che ha interessato i prodotti
elettronici, che hanno visto un calo dei prezzi grazie ai progressi della tecnologia. In realtà questa non è vera deflazione perché interessa solamente uno
o pochi prodotti, la deflazione vera e propria invece riguarda una diminuzione
generalizzata dei prezzi.
C’è una domanda talmente bassa che, pur di vendere, si abbassano i prezzi. Il
problema grosso però è che, se io penso che oggi un’auto costa poco perché
siamo in crisi e, pur di vendermela, il concessionario mi fa dei grossi sconti, ma
fra tre mesi sarà peggio, io aspetto di acquistare l’auto tra tre mesi. Tuttavia,
se tutti fanno come me, fra tre mesi siamo nella stessa situazione e si innesca
un meccanismo dal quale diventa molto difficile uscire. Ecco perché Draghi sta
lavorando all’interno delle pieghe dello statuto della BCE, per porre un freno a
questa situazione.
La deflazione fa molto male a noi in Italia non solo per il fatto che i margini scendono, per cui gli imprenditori non investono ed aumenta la disoccupazione, ma
fa molto male perché, quando c’è deflazione, il valore reale del debito aumenta
e noi siamo già molto indebitati.
Se io sono indebitato per € 100.000 ed ho un’inflazione del 20% vuol dire che
il prossimo anno il mio debito è diminuito del 20%, perché si tratta ancora di €
100.000, ma il loro potere di acquisto è fortemente diminuito, per cui il valore
reale del mio debito è sceso. La deflazione provoca un effetto esattamente contrario: noi oggi non solo abbiamo un grosso debito, ma, essendo in deflazione,
il valore reale del nostro debito tende a salire.
In deflazione il debitore è penalizzato ed il creditore è avvantaggiato, mentre il
contrario avviene in termini di inflazione. Tanto è vero che gli economisti dicono
che l’inflazione è un male, ma la deflazione è peggio. Un’inflazione al 2-3%,
la cosiddetta inflazione strisciante, ci vuole, perché è la cosa che permette di
stimolare gli investimenti e di far procedere un’economia.
Quando vi dicono che i BOT sono a tassi vicini allo zero, in realtà vi dicono una
mezza verità, perché, nel caso in cui si vada in deflazione, se un BTP a due
anni rende lo 0,7% e la deflazione è pari al 2%, il BTP in realtà rende il 2,7%,
per cui non è così vero che il debito oggi ci costa poco. In ogni caso dunque
bisogna uscire dalla deflazione.
Negli Stati Uniti invece sta avvenendo il processo opposto: man mano che si
esce dalla crisi, parallelamente viene ridotta l’immissione di liquidità nel merca-
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
339
to e viene stampato meno denaro: in termine tecnico si dice tapering, la parola
che in inglese si usa per indicare la candela che si spegne.
La nuova governatrice della Fed, Janet Yellen, ha affermato di voler ridurre
l’immissione di nuova moneta, ma che starà molto attenta, perché gli Stati Uniti
hanno avuto altre esperienze negative: per esempio, quella del ’37, anno in cui
sono rientrati troppo presto dalla politica espansiva e sono tornati in recessione.
In più hanno l’altro grosso problema che è vero che la disoccupazione si è abbassata, ma quella nuova è un’occupazione dal punto di vista qualitativo non
molto bella, per cui in realtà dietro a questo calo della disoccupazione c’è tutta
una serie di problematiche ancora da rivedere.
La crisi c’è stata e continua a esserci ma ha prodotto dei risultati molto diversi
a seconda delle politiche economiche che si sono attuate. Immaginate di bloccare il mondo al 2007, in modo che ogni Paese avesse un Pil pari a 100: con
le stime che abbiamo oggi, a fine 2014, gli Stati Uniti sono a 107,7, quindi sono
sette punti abbondanti di Pil sopra il livello del 2007. La Germania è a 106,2, la
media europea è 99,3, l’Italia è a 91,7: quasi nove punti di Pil in meno è peggio
della crisi del ‘29.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro è ovvio che c’è un problema di offerta,
di regole, di incrocio tra domanda e offerta di lavoro, ma è evidente che di fronte
a questi dati il problema non è di offerta ma è di domanda, perché, quando si
sono persi nove punti di Pil, si può avere la più bella legge del mondo sul mercato del lavoro, una legge che funziona in modo perfetto, ma è chiaro che si sta
comunque creando disoccupazione.
Noi abbiamo perso circa il 25% della produzione industriale e 8 punti nei consumi. In termini di consumi, fatto sempre 100 il livello del 2007, gli Stati Uniti
sono a 106,9, la Germania a 106,2, la media della zona Euro è 98,7, in Italia
siamo a 92,4.
In tutto il mondo il rapporto debito-Pil è aumentato, l’unica situazione particolare è rappresentata dalla Germania, in cui non è aumentato il debito, perché
è chiaro che, se c’è la crisi dell’Euro e tutti si rifugiano nei bund tedeschi, per i
quali sostanzialmente si pagano dei tassi negativi, in questi anni loro non hanno
pagato nulla sul debito e questo li ha molto favoriti. In generale tutti gli altri hanno perso ed anche la liberista Inghilterra ha avuto un incremento considerevole
del rapporto debito-Pil.
La Merkel dice che, nonostante gli europei, per tutto quel che si è detto, ce
l’abbiano con lei, bisogna ricordare che nel panorama mondiale l’Europa ha il
7% della popolazione, ha il 25% del Pil mondiale e spende il 50% delle spese
in welfare. Quindi, dal punto di vista dei ceti meno abbienti, stiamo sicuramente
nel continente in cui i lavoratori stanno meglio. Ma fino a quando riusciremo a
tenere in piedi questo sistema?
Le cose nel mondo vanno abbastanza bene, perché il resto del mondo è in
ripresa, ma questa ripresa sta rallentando. L’ultima stima afferma che l’incremento del Pil mondiale è passato da 3,7% al 3,4%: per il Fondo Monetario Internazionale, considerato l’incremento demografico, dal 3% in giù è recessione,
340
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
per cui il 3% rappresenta il limite sotto il quale non si deve assolutamente scendere. +3,4% vuol dire che non siamo in recessione, ma non stiamo nemmeno
facendo faville: certo non è il -2% del 2009, ma non è neanche un risultato
entusiasmante.
In questo momento, a parte casi eccezionali, come l’Italia, i rischi grossi, più
che economici, sono geopolitici: la questione ucraina, la Libia, quel che sta
accadendo in Siria, ecc., da qualunque parte del mondo si guardi qualche problema emerge, per cui, se già la ripresa non è così solida, è evidente che questi
elementi di instabilità possono creare dei problemi abbastanza gravi.
Il brutto dell’Italia è che all’inizio del 2014 si pensava che fossimo in una ripresa
pur debole, ma che fossimo in ripresa, ed invece non è così. Voi sapete che il
Pil è misurato trimestralmente: già da quest’estate il Pil per il secondo trimestre
consecutivo è stato negativo, per cui si dice che noi siamo in recessione tecnica. Comunque è confermato che quest’anno, se va bene, facciamo -0,3%.
Questo è un disastro, perché la base di partenza è il risultato dell’anno precedente, per cui il -2% dell’anno scorso è peggio del -5% del 2009; in quell’anno
il -5% era determinato dalla crisi del Commercio internazionale, infatti fece altrettanto anche la Germania, ma avevamo ancora un po’ di fieno in cascina: le
famiglie e il dato occupazionale avevano preso una bella botta, ma ciò avveniva
in conseguenza di una serie di anni di crescita.
Se per cinque anni di fila invece si continua a scendere, il -2% dell’anno scorso
è un disastro ed il -0,3% di quest’anno è peggio ancora, perché vuol dire che
non ne stiamo uscendo, ma scivoliamo sempre più indietro.
La gente sta peggio che nel 2009, perché sta esaurendo le riserve: ogni anno
che passa senza ripresa sia a livello di consumi, che a livello di reddito, che a
livello, soprattutto, di occupazione, le cose vanno sempre peggio.
Se, per gli amanti degli accordi di Maastricht, riusciamo a mantenere il deficit
sotto il 3% e le prospettive per il 2015, se tutto va bene, sono di un + 0,5%, ciò
vuol dire che smettiamo di cadere e ci rimettiamo in piedi, ma a livello occupazionale facciamo ben poco. Oggi siamo a tassi di disoccupazione vicini al 12%,
con tassi record per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, che è intorno
al 43-44%.
Dobbiamo dunque lavorare sulla variabile investimenti. Di fronte a questa situazione quelli che prima parlavano di austerità espansiva, hanno cambiato
obiettivo: hanno detto che si può accettare un po’ più di deficit, ma che questo
deficit va creato sostanzialmente riducendo un po’ le tasse.
Questo è un problema che riguarda essenzialmente l’Europa, perché ridurre le
tasse o fare certi tipi di interventi, vuol dire ricontrattare il famoso fiscal compact.
Ultimamente l’Europa ha deciso di occuparsi anche del mercato del lavoro, ma
è ancora una volta un’operazione di rimozione: c’è il problema della domanda
e si ragiona sull’offerta.
L’idea di fondo è che, se si regola il mercato del lavoro in maniera diversa,
in qualche modo si attirano più investimenti, perché si eliminano le incertezze
degli investimenti stessi. Questo è sicuramente vero, peccato che ci sono altre
3000 cause di incertezza: questa mattina ascoltavo un imprenditore del settore
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
341
farmaceutico il quale diceva che il suo problema non è tanto questo, quanto il
fatto che, siccome non produce carta, ma produce medicine, ha tutta una serie
di progetti di produzione di medicine che sono fermi, perché non c’è nessuno
che va a controllare se queste medicine sono valide dal punto di vista sanitario.
A questo punto l’ex rettore della Bocconi, Tabellini, ha proposto addirittura la
riduzione dei salari. Lasciamo per un attimo da parte il problema etico-sociale
ed ascoltiamo Tabellini, il quale dice che l’Italia va male perché era abituata,
quando le cose non andavano bene, a fare ricorso all’arma della svalutazione.
Quando c’era la lira, se il sistema non andava bene, era debole, la lira si svalutava ed i nostri prodotti erano più competitivi.
A partire dal 2001 abbiamo tutta una serie di vantaggi dall’avvento dell’Euro,
perché pagare un BTP il 12,5%, oppure il 3% fa una bella differenza; però ora
non si può più svalutare, per cui, per esempio, nei confronti con la Germania, la
variabile cambio non interviene a darci una mano.
Questa si chiama svalutazione esterna, ma ora, visto che non possiamo svalutare esternamente, svalutiamo internamente, cioè facciamo ricorso alla svalutazione fiscale, ovvero alla riduzione dei pagamenti di tutte le forme di contributi
legati al salario, ma in questo caso non sappiamo che fine potrebbe fare il welfare. Altrimenti possiamo ricorrere direttamente alla svalutazione salariale, che
sostanzialmente vuol dire che paghiamo di meno i lavoratori e così i prodotti
costano di meno. Se poi magari gli diamo gli € 80 e gli anticipiamo un po’ di
TFR, magari se ne accorgono di meno.
Il punto è che questo ragionamento ha un senso da un punto di vista micro, dal
punto di vista della singola azienda questa cosa può anche funzionare, ma questo ragionamento presuppone che non ci sia mai un problema di domanda: se si
abbassano i salari, siamo sicuri che qualcuno comprerà quello che produco?
Se l’economia funzionasse solo dal lato dell’offerta, questo ragionamento avrebbe un senso, ma in questo momento il problema è la domanda: per esempio, la
Bundesbank ha proposto di aumentare del 3% i salari minimi, perché incomincia ad intravedere un problema di deflazione. È chiaro che in questo momento,
se c’è un problema di domanda, la questione non si riduce ai salari.
Inoltre, se si abbassano i salari, si riducono i consumi dei beni di prima necessità e quindi possono aumentare i consumi solo di chi è avvantaggiato da questa
situazione, ovvero dai percettori di profitti di rendita. Perciò aumenteranno soprattutto i consumi dei beni di lusso, da parte di chi sta al vertice della distribuzione, che tuttavia rappresenta una piccola fascia della popolazione.
Sostenere la tesi, altrettanto falsa, che si deve aumentare l’esportazione, vuol
dire non considerare che la quota dell’esportazione, rispetto alla domanda interna, è molto bassa: rispetto al nostro Pil le esportazioni non vanno oltre il 10%.
La risposta è che non si tratta di svalutare, perché non possiamo immaginare
di avere i salari cinesi, ma occorre risolvere il vero problema dell’Italia, che
sono appunto gli investimenti. Dalla metà degli anni 90 l’Italia è ferma e non
investire vuol dire avere una produttività bassa, ma se la produttività è bassa,
si può dire che noi paradossalmente abbiamo bassi salari, ma un costo del
lavoro elevato.
342
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
La formula del costo del lavoro per unità prodotta è un rapporto. Quanto costa
un lavoratore tessile per ogni paio di scarpe che produce? Non è un valore
assoluto, perché si ottiene dividendo quanto il lavoratore costa all’ora per il
numero di scarpe che in quell’ora egli produce. In questo rapporto sopra c’è il
salario e sotto c’è la produttività: se io pago un lavoratore 100 e fa 50 paia di
scarpe nell’ora, il costo del lavoro è 2, se io pago il lavoratore 200 ed egli fa 100
paia di scarpe, la sua produttività resta esattamente la stessa.
Tanto è vero che, quando il problema era l’inflazione, una delle battaglie fatte
dalla CISL con Tarantelli era che, per tenere sotto controllo gli scatti dell’inflazione, bisognava soprattutto concedere aumenti salariali in linea con la produttività, perché, se si aumentavano i salari in linea con la produttività, il datore di
lavoro non era legittimato ad aumentare i prezzi.
La produttività non aumenta non perché mancano gli investimenti, ma perché
manca all’innovazione. A questo proposito c’è tutto un dibattito internazionale,
che ha aperto una signora, la quale si chiama Mariana Mazzucato, docente di
economia dell’innovazione dell’Università del Sussex, che ha scritto il miglior
libro di economia del 2012, intitolato Lo Stato Imprenditore, in cui essa sostiene
che i Paesi che sono cresciuti di più sono quelli che hanno innovato di più, ma
che è ora di smetterla con la favola dei Bill Gates e dei Steve Jobs, che fanno
tutto in garage. Questi signori rimangono dei geni, ma hanno surfato, hanno
cavalcato l’onda degli investimenti pubblici: senza la ricerca di base degli Stati
Uniti, senza i miliardi investiti dallo Stato, la Silicon Valley non esisterebbe.
A questo punto chi sa crescere, chi sa fare innovazione? Mariana Mazzucato,
che è consulente del Governo inglese, un Governo conservatore, lega appunto
la capacità di innovare e di crescere alla capacità di investire, quindi il problema
dell’Italia non è la spesa pubblica, che è in linea con quella dei livelli mondiali,
il problema è che fa una cattiva spesa pubblica: noi spendiamo male i soldi e
soprattutto non li spendiamo in innovazione e ricerca.
Abbiamo fatto 3000 spending review dagli anni 90 in poi, ma la verità è che
dagli anni 90 in poi quello che veramente abbiamo tagliato è stata la scuola.
Immaginare di stare in questo mondo globalizzato senza investire nella scuola,
nelle università e nella ricerca è pura pazzia.
Altra questione, più sul versante sindacale, è che, garantita tutta una serie di
parametri minimi, è chiaro che produttività vuol dire in qualche modo arrivare
a lavorare molto sul secondo livello, perché diventa difficile immaginare di aumentare la produttività, senza coinvolgere il mondo del lavoro.
Il paradosso di questi anni è che i lavoratori sono trattati come soci, nel senso
che si chiede loro di essere flessibili, di adeguarsi agli orari, ecc., ma non si può
essere soci, quando si lavora, ed essere un salariato, quando è il momento
della distribuzione dei profitti.
Quindi bisogna avere un pieno coinvolgimento da parte dei lavoratori, che sono
chiamati a metterci tutto ed a capire che il mondo è cambiato, ma dall’altra
parte è chiaro che ci deve essere una risposta su questi temi, anche perché il
problema grosso è che – anche se non è la cosa principale, perché rimangono
gli investimenti il problema più importante – se non redistribuisci, non crei le
condizioni di domanda per continuare a crescere.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
343
La redistribuzione dei profitti a livello mondiale è arrivata a livelli assolutamente inaccettabili, non solo moralmente ma anche economicamente. Partecipare
vuol dire coinvolgimento, ma vuol dire anche redistribuzione.
E non dimentichiamo che partecipare vuol dire creare meccanismi di coinvolgimento a livello organizzativo ed a livello territoriale. Pensiamo all’esempio di
Luxottica, che coinvolge i lavoratori e promuove il welfare aziendale, per cui la
partecipazione si traduce in un incremento di produttività: ai lavoratori si chiede
molto, ma si dà loro molto ed è questo l’unico meccanismo che può dare una
prospettiva di futuro al nostro Paese. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie ad Alberto Berrini, che ci ha dato molti spunti importanti. Io vorrei soltanto rimarcare l’elemento della partecipazione, che ormai da qualche anno è un
tratto distintivo della CISL: io credo che partecipazione significhi che ciascuno
deve fare la propria parte assumendosi le proprie responsabilità.
Dedichiamo ora una ventina di minuti alle domande dirette dei partecipanti al
seminario.
ANNETTE LERNA
(Segretario FISASCAT-CISL Milano Metropoli)
Ho sempre pensato che, quando si parla di investimenti, anche in un territorio
come il nostro, la Lombardia, non si possa non parlare di accesso al credito per
le imprese e di infrastrutture.
Ho in mente il caso preciso di un’azienda che da Milano si è spostata in Piemonte, non ha delocalizzato in altri Paesi del mondo, ma ha cambiato regione,
perché là hanno cablato in modo adeguato, hanno investito e l’azienda ha ritenuto che fosse più utile spostarsi, per continuare la propria attività. E poi c’è il
problema della criminalità.
Io vorrei un quadro un po’ preciso rispetto a quanto incidono la mancanza di
credito e di infrastrutture, oltre alla presenza della criminalità, sugli investimenti.
Grazie.
STEFANO GALLI
(Segretario FISASCAT-CISL Milano Metropoli)
Ieri, controllando la rassegna stampa, mi è caduto l’occhio su un dato: noi siamo in recessione, la deflazione quest’anno sarà -0,3%, mentre l’anno prossimo
forse avremmo uno sparuto segno positivo, invece la Grecia l’anno prossimo
farà +2,9%.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
La Grecia è stato un po’ il capro espiatorio della crisi europea ed ha coinvolto
nella propria vicenda anche gli altri Paesi cosiddetti PIGS, ma nel giro di due o
tre anni, se verrà confermato quel dato, si risolleverà e credo che abbia fatto un
buon lavoro, al netto di tutti i sacrifici che i greci hanno dovuto sostenere.
Dove loro hanno azzeccato le politiche economiche e dove noi stiamo ancora
tentennando? Grazie.
LOREDANA NICOLI
(Consulente del Lavoro Bergamo)
Parlando di banche, lei ha detto che è stato utile e necessario che prima di tutto
si salvassero le banche, per poter salvare tutto il sistema. Ora come ora c’è
una spiegazione economica teorica, per cui le banche ancora non finanziano o
fanno fatica a finanziare le imprese? Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Le cose che lei dice, tutte condivisibili, sono le cose che si ritrovano nel sentire
comune della gente. Pur non usando i termini da lei adoperati, la gente intuisce
che, per affrontare il problema, sarebbe necessario adottare queste politiche.
Perché dunque non si fanno e perché noi dentro il sindacato talvolta svicoliamo
e parliamo d’altro?
Nel mio piccolissimo mondo io ho fatto un po’ di mercato del lavoro in CISL e
scopro che persone molto più autorevoli di me mi dicono che una riforma del
lavoro non ha mai creato un solo posto di lavoro, eppure altri continuano a dirmi
che occorre fare la riforma del mercato del lavoro.
Gli economisti che lavorano oggi per il Governo Renzi, piuttosto di quelli che
hanno lavorato in questo ruolo prima di loro, non credo siano persone stupide,
eppure resta la domanda del perché queste politiche non si adottano. Grazie.
ROBERTO DE LORENZIS
(Consulente del Lavoro Genova)
Lei ha toccato il tema del grande patrimonio affidato ai fondi di previdenza complementare ed io aggiungo gli enti di previdenza dei professionisti, che fanno
la raccolta presso i lavoratori dipendenti e quelli autonomi, ma poi, quando
devono impiegare questi fondi, si comportano come un qualsiasi investitore,
quindi vanno alla ricerca del massimo profitto dal punto di vista finanziario e ciò
determina il fatto che questi capitali entrano nel mercato della pura finanza, la
quale, come sappiamo, privilegia la rendita a breve. Così alla fine si vanno a
danneggiare quegli stessi lavoratori che hanno portato ai fondi queste risorse.
Io ricordo l’intervento di Bonanni, nel quale egli diceva che i fondi di previdenza
complementare in Italia sono più di cinquecento e quindi credo che un bel taglio
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
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farebbe bene, per evitare di sprecare risorse, dato che penso che ne bastino
molti di meno.
A proposito dell’impiego delle risorse, io ho vissuto il problema come consigliere di amministrazione dell’ente di previdenza dei consulenti del lavoro, ma
io credo che un ente di previdenza, che gestisce un fondo complementare,
quando abbia la garanzia di salvare il capitale con un modesto incremento,
con una modesta rendita – e forse lo Stato potrebbe garantire questo risultato
– potrebbe utilmente impiegare quei soldi negli investimenti, che abbiamo visto
essere poi il vulnus principale che provoca la crisi. Vorrei che lei approfondisse
questo aspetto. Grazie.
GIUSEPPE BOCCUZZI
(Segretario Regionale Aggiunto FISASCAT CISL Puglia)
È chiaro che questo Paese ha un problema fondamentale, che si chiama produttività. Lei ha detto benissimo che dovremmo tutti concentrarci, per rendere
più competitive le merci del nostro Paese attraverso un abbassamento del costo unitario.
Io mi chiedo perché non dare maggior sostegno alla contrattazione decentrata,
che è lo strumento per arrivare ad avere maggiore produttività nei luoghi di
lavoro. Si potrebbe pensare – anziché destinare un micro sostegno finanziario,
fatto per incentivare la cosiddetta detassazione dei salari di produttività e la decontribuzione, anziché consumare inutilmente 10 miliardi di risorse pubbliche,
per sperare di favorire i consumi, concedendo quegli € 80 in busta paga – di
destinare il 5% di questa somma per determinare un clima favorevole alla contrattazione decentrata.
Non si potrebbe destinare questa cifra enorme alla contrattazione decentrata,
detassando e decontribuendo praticamente a zero gli incrementi derivanti dalla
contrattazione di secondo livello? Questo, a mio avviso, sarebbe un intervento
che potrebbe dare un forte sostegno allo sviluppo della produttività. Grazie.
ALBERTO BERRINI
(Economista)
È vero che la Grecia come altre situazioni, vedi la Spagna, in questo momento
dà dei segnali più positivi di quelli dell’Italia: da un certo punto di vista vuol dire
che alcune cose sono state fatte, ma dall’altro lato bisogna sempre tenere presente che stiamo parlando di una variazione percentuale, per cui bisogna tener
conto di quanto sia caduto in basso in precedenza ciascuno Stato.
Il +2,9% della Grecia non ha nulla a che vedere con il +2,9 che faranno quest’anno gli Stati Uniti, perché è chiaro che, se qualche Stato è crollato veramente
molto più dell’Italia, quando si è completamente a terra, basta alzarsi leggermente per dare l’impressione di aver fatto grandi progressi.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Se questi Paesi, come la Grecia, confermeranno i loro progressi, questi avranno un significato, altrimenti ad oggi possiamo parlare di un semplice rimbalzo.
Ad esempio, per sostenere alcune tesi, si parla spesso della Spagna, ma la
domanda è se è possibile fare della Spagna un esempio, se consideriamo che
essa ha un tasso di disoccupazione del 25%.
La Grecia aveva tali e tante disfunzioni che è evidente che qualche risultato
dovesse venire, una volta risolte le contraddizioni fiscali, quelle del pubblico
impiego, quelle dell’esercito, che erano tali per cui qualunque tipo di intervento
non poteva che essere positivo. Ma, viste le scelte che essi hanno fatto, sarà
sostenibile questa loro ripresa?
Se io faccio il confronto tra Italia e Germania dal 2007 ad oggi, vedo due sistemi molto diversi, perché nel 2009 la Germania perde il 5% come noi, dato
che è fermo il Commercio mondiale, ma essa ha un sistema forte, per cui poi
recupera ed oggi è a 107, mentre l’Italia è a 91. In questo caso posso fare un
confronto, mentre in questo momento il dato di Portogallo, Grecia e Spagna
non mi convince del tutto.
Un altro dato che spesso ci viene presentato è quello della Gran Bretagna:
ma oggi la produzione in Gran Bretagna non va granché bene, i consumi sono
trainati ancora una volta dal debito e gli inglesi hanno una bolla immobiliare
pazzesca, per cui a Londra, rispetto all’anno scorso, le case sono aumentate
del 20% e la domanda è destinata a crollare.
Non bisogna dimenticare infatti di considerare anche i prezzi sociali: 27 vescovi
anglicani hanno dichiarato che il livello di povertà nel loro Paese è incredibile.
Quelle che noi chiamiamo le mense della Caritas in Gran Bretagna sono esplose, in Spagna abbiamo avuto 5500 casi di ricoveri per denutrizione, per cui occorre andare a vedere, oltre i numeri, come esce dalla crisi il sistema Paese.
Ci sono 3000 problematiche per cui dagli anni 90 non attiriamo investimenti
dall’estero: tra essi emergono la mancanza di infrastrutture, la presenza della
malavita, l’inefficienza di scuola e università, la difficoltà di accesso al credito.
E il fatto è che la problematica è talmente grossa che si fa fatica a decidere da
quale parte incominciare. Altra grossa difficoltà è che non tutti i mali dell’Italia
derivano da noi: molti derivano dalla crisi e le due negatività si sommano, per
cui noi fondamentalmente restiamo fermi.
La moneta è l’olio del motore economico: se non c’è la moneta, il motore grippa, ecco perché dovevamo assolutamente salvare le banche. Noi abbiamo in
mente Roosevelt, il Presidente del New Deal, quello che fa le dighe, ecc., ma in
realtà Roosevelt, quattro mesi dopo il proprio insediamento, siccome i mercati
finanziari erano più in crisi che nel ‘29 – perché nel ‘31 era fallita una grande
banca austriaca, cosa che diede la spallata finale alla Repubblica di Weimar e
aprì le porte al nazismo – nel ‘33 l’opera una riforma dei mercati finanziari, per
cui si distingue tra banche di affari e banche commerciali.
Il problema è che oggi noi abbiamo i mercati finanziari deregolamentati come
nel 2007, oggi il sistema finanziario-bancario ombra vale di più che nel 2007,
oggi la carta moneta che gira nel mondo, senza considerare i flussi dei cambi,
cioè quelli che noi chiamiamo i derivati, vale 11 volte il Pil mondiale: il valore dei
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
347
beni e servizi, che ogni anno si producono sul pianeta terra, è 1/11 della carta
moneta che gira.
Quindi è stato giusto salvare le banche, ma bisognava regolarle. In generale c’è
il problema che, non avendole regolate, non abbiamo capito chi fa che cosa. La
banca d’affari è come la FIAT: la FIAT produce le automobili, la banca d’affari
compra e vende azioni, se fallisce è un problema suo; invece nella banca commerciale noi mettiamo i soldi e questi soldi vengono imprestati agli imprenditori,
per cui la banca commerciale deve avere tutta una serie di tutele.
Se noi abbiamo invece la cosiddetta banca universale, quando la BCE mette in
campo delle forme di finanziamento, che arrivano alla banca universale, è un
problema della banca decidere se comprare i BTP, per far quadrare il bilancio,
o imprestare i soldi agli imprenditori. La banca è un ente privato, quindi è libera
di decidere che cosa vuole fare del proprio denaro, non possiamo imporle la
destinazione di questi soldi.
Perciò bisogna innanzitutto regolare i mercati finanziari, precisando bene chi
fa che cosa, infatti Draghi, in vista di questa seconda tranche, ha detto alle
banche: “La prima volta è andata bene, perché avete comprato i BTP ed avete
salvato il debito pubblico ed i vostri bilanci, però adesso questi finanziamenti arriveranno a condizione che voi finanziate famiglie e imprese, ma non l’acquisto
delle case, per evitare bolle speculative sugli immobili”.
La banca ha un capitale o patrimonio, che tiene in pancia, ed un attivo o impiego, che è ciò che presta ed ovviamente ci deve essere un rapporto tra queste
due voci. Normalmente le banche, per ogni Euro che hanno in tasca, ne prestano sette o otto, perché l’idea è che non tutti insieme andiamo lo stesso giorno
a riprenderci i soldi che abbiamo depositato in banca.
Ma ci siamo trovati di fronte due grossi problemi: innanzitutto le banche erano
piene di titoli di Stato e non sto parlando delle banche che hanno fatto la crisi dei
sub prime, perché nel caso loro per ogni Euro in casa ne avevano fuori 40. Le
banche serie tengono le loro riserve in titoli di Stato, in BTP, ma nell’agosto del
2011, a causa della crisi del debito pubblico italiano, i BTP hanno perso il 15%,
di conseguenza le banche hanno pensato: “Se quello che ho in pancia vale di
meno, quello che ho fuori deve ridursi, perché il rapporto altrimenti salta”.
Quindi negli anni della crisi del debito il problema era che le banche avevano
in pancia troppi titoli di Stato e ciò è stato risolto con la prima operazione di finanziamento messa in campo da Draghi. Adesso però sta tornando indietro alle
banche la crisi che esse stesse hanno provocato, perché la crisi sta causando
una tale distruzione dell’economia reale, che le banche sono piene di sofferenze e fanno fatica a fare i bilanci.
Un grave errore che hanno fatto le banche – e questo è un altro esempio di
mancata partecipazione del lavoro – è che hanno pensato bene, per risparmiare, di creare – laddove prima c’erano il direttore di banca o il funzionario, che
conoscevano il territorio, conoscevano gli imprenditori, per cui andavano al di
là del bilancio, quando decidevano i finanziamenti – dei meccanismi informatici,
per cui, messi dentro alcuni dati, si ricava il rating dell’imprenditore e di conseguenza si decide se gli si possono concedere degli investimenti, oppure no.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Con la crisi questi dipendenti sono saltati, per cui la macchina dice di no ad un
imprenditore, a cui si potrebbero prestare i soldi, mentre magari dice di sì ad
uno che è poco affidabile. Le banche, oltre ad inseguire il rendimento a breve,
oltre a non essere state regolate, oltre a non capire bene che mestiere stanno
facendo attualmente, hanno perso oggi le capacità di fornire credito. Da un lato
sono portate a dare dei rendimenti a breve agli azionisti e quindi a rischiare
poco, dall’altro lato il perdurare della crisi impedisce loro di crescere.
Da quello che mi dicono tuttavia pare che oggi il problema sia più dal lato della
domanda che da quello dell’offerta: è l’imprenditore che ha talmente tanta paura, che oggi le sue richieste sono molto diminuite.
Secondo me, per ora, nella visione di Renzi la contrattazione proprio non c’è; il
messaggio che egli sta dando è: “Salario minimo, € 80 a chi ha basso reddito,
TFR in busta paga” e la conclusione inevitabile è che la contrattazione secondo
lui non serve. Faccio perciò fatica ad immaginare che in lui possa sussistere
l’idea di favorirla.
Noi veniamo da trent’anni di teoria economica, in cui fondamentalmente quel
che conta è l’offerta e se si parte dall’idea che conta l’offerta e non conta la domanda, si fa fatica a ragionare in maniera diversa. Questo non vuol dire che le
riforme non servono. Prima della riforma Treu del 97, nei cinque anni precedenti, il Pil era cresciuto mediamente dell’1% e l’occupazione non era cresciuta per
niente, per cui era evidente che c’era il problema di mettere insieme domanda
ed offerta di lavoro ed infatti non si può dire che quelle riforme non siano servite. Noi oggi siamo arrivati all’eccesso, cioè ci siamo dimenticati che quel che
conta è il margine che si ricava dalla domanda.
A proposito dei fondi di previdenza – premesso che bisogna avere un’idea di
democrazia economica come l’abbiamo noi, per cui si ritiene che i mercati finanziari sono brutti e cattivi, ma lavorano su una materia prima che si chiama
risparmio, che noi ad essi deleghiamo, per cui il problema è nostro – invece di
entrare in banca e chiedere quale interesse essa è disposta a darci, dovremmo
chiederle che cosa vuole fare dei nostri soldi.
La maggior parte dei soldi dei professionisti si trova nei fondi pensione, perché
dunque delegare il nostro risparmio ad altri? Cominciamo a ragionare in maniera diversa: il fondo pensioni giustamente deve garantire la rendita, ma, per
garantire la rendita, il suo investimento deve essere talmente diversificato, che
non è che, se si fa un investimento sbagliato, poi la pensione non arriva.
Nei nostri fondi negoziali, ad esempio, non c’erano le azioni della Parmalat,
ma, anche se ci fossero state, non avrebbero creato problemi, perché la percentuale di Parmalat sarebbe stata tale che il fondo avrebbe reso solo lo 0,01%
in meno.
Questa cosa, che è positiva, d’altro canto ci impedisce di avere delle masse critiche tali, per cui si può intervenire nel sistema economico, perciò dobbiamo avere un altro tipo di legislazione sui fondi pensione e soprattutto metterli insieme.
E, per esempio, non deve accadere che il Fondo Cometa, per dare la pensione,
faccia fallire, oppure intervenga speculativamente su un’azienda chimica, per
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
349
cui il risultato è che magari avremo qualche pensione in più, ma avremo anche
molti occupati in meno.
Se, per raggiungere questa dimensione critica, mettiamo insieme vari fondi negoziali e destiniamo una certa percentuale all’investimento diretto, possiamo
garantire la diversificazione, garantire la previdenza complementare e magari
avere un modello di sviluppo più consono ai nostri obiettivi.
È un dilemma che deriva ancora dal risparmio contrattuale di Carniti, il quale
negli anni 70 proponeva di accantonare – siccome il sindacato è un giocattolo
che balla sul ciclo economico – un certo risparmio contrattuale, da investire in
un secondo tempo per appiattire il ciclo economico.
L’obiezione grossa di allora fu: “Ma questo riguarda il sindacato?” Oggi la domanda è: “È in grado il sindacato di fare la gestione dei fondi pensione?” La
mia risposta è positiva, ma il problema è che dobbiamo diventare noi la testa
politica dei fondi pensione, invece di dire a Banca Intesa di gestire i nostri soldi;
bisogna avere dei manager che si pongono degli obiettivi diversi da quelli della
banca e ovviamente, per fare questo, ci vuole un altro sindacato, un sindacato
della partecipazione, un sindacato della competenza, che sia in grado di gestire
queste cose.
In una logica di capitalismo finanziario questa è l’unica vera strada per arrivare
alla redistribuzione, perché il capitalismo è cambiato e se i valori e gli obiettivi
sono quelli di 30-40 anni fa, ma la struttura è cambiata, anche gli strumenti
contrattuali devono essere diversi.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Grazie ancora molto ad Alberto Berrini: mi pare che l’iniziativa di introdurre nei
nostri seminari degli approfondimenti di tipo economico abbia suscitato molto
interesse, oltre che per la brillantezza dell’oratore, anche per l’importanza degli
argomenti trattati.
Potremmo pensare dunque anche per il futuro di dedicare nell’ambito dei seminari uno spazio maggiore agli argomenti di carattere economico, che verrebbero
così ad affiancarsi a quelli di carattere giuridico, che normalmente trattiamo.
Ci avviamo ora ad affrontare le questioni più di prospettiva: abbiamo parlato
di un testo unico sulla rappresentanza, stipulato principalmente per il settore
industriale, e dobbiamo capire ora quali siano da un lato le prospettive del Commercio e del Terziario e quali siano d’altro lato le questioni aperte sul tema della
rappresentanza che riguardano i consulenti del lavoro, in vista di uno sviluppo,
pur in presenza di un assetto contrattuale articolato su due livelli, della contrattazione aziendale-territoriale, improntata ad una logica della verifica della
produttività e della redditività principalmente a livello locale.
Per fare questo seguiranno ora due comunicazioni, la prima delle quali da parte
mia. Io innanzitutto puntualizzerò nuovamente quanto abbiamo detto ieri, dopodiché affronterò il tema specifico, ovvero le prospettive di un testo unico che
riguardi il mondo del Terziario.
350
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Dopo di me interverrà Paolo Ferretti, consulente del lavoro, che salutiamo, il
quale preciserà le questioni che riguardano i professionisti rispetto al tema della
rappresentanza.
Avremo infine la parte conclusiva, in cui le questioni da voi avanzate riceveranno risposta dalle persone che, secondo me, è corretto svolgano questa
funzione, da un lato Diana Onder, in sostituzione di Francesco Longobardi,
Presidente Nazionale dell’associazione ANCL-SU, e dall’altro Pierangelo Raineri, Segretario Generale della FISASCAT-CISL, proprio per le questioni che
attengono agli sviluppi dell’accordo del Terziario.
Si deve parlare di rappresentanza perché ci sono un contesto politico ed un
contesto di carattere giuridico entrambi nuovi. Per quanto riguarda il contesto
politico, quest’anno si parla di una legge sulla rappresentanza, della quale probabilmente si è discusso in sede governativa anche questa mattina, ed occorre
capire, se del caso, quale forma potrà prendere questo intervento di carattere
legislativo.
Sapete benissimo che la posizione del sindacato confederale, non soltanto la
CISL, ma anche CGIL e UIL, tranne la FIOM, non è favorevole ad un intervento legislativo. Si ritiene che l’aver scritto il 10 gennaio 2014 il testo unico
sulla rappresentanza sia stata una risposta adeguata ad un possibile intervento
legislativo. In ambito sindacale solo la FIOM punta ad una legge sulla rappresentanza.
Il problema di cui forse abbiamo parlato poco è che c’è, oltre ad un profilo di
carattere politico, un profilo connesso ad un interrogativo di carattere giuridico.
Infatti c’è stata una sentenza della Corte Costituzionale del luglio 2013 sull’articolo 19 – è tutta la vicenda FIOM che ieri Rosetta Raso in sede di apertura aveva ricordato – la quale sostanzialmente afferma che il diritto ad avere
rappresentanze sindacali in azienda, RSA, ai sensi dell’articolo 19, non spetta
solo, come sembrerebbe dal testo, ai soggetti firmatari dei contratti collettivi
applicati nell’unità produttiva.
Il nuovo testo dell’articolo 19, dopo la riforma del 95, è conseguente al referendum e recita che le rappresentanze sindacali aziendali possono essere
costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle
associazioni sindacali che siano firmatarie dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
Su questo punto si sono scatenati tutti i ricorsi della FIOM-CGIL, perché, non
avendo firmato gli accordi FIAT di Pomigliano, Grugliasco e quant’altro, essi
erano fuori dalla possibilità di costituire RSA, in quanto la formulazione letterale
dell’articolo 19 dopo il referendum consente di costituire RSA soltanto ai soggetti firmatari dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva.
Su questo si sono innescati i ricorsi davanti alla Corte Costituzionale del tribunale di Modena, Vercelli e Torino, i quali hanno ritenuto questa norma incostituzionale, perché contrastante con l’articolo 39 della Costituzione, ovvero il
principio di libertà sindacale.
Rispetto a questi ricorsi si è pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 231 del luglio 2013, che sostanzialmente ha interpretato in maniera nuova
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
351
l’articolo 19, salvandolo e dicendo che l’articolo 19 consente la costituzione di
rappresentanze sindacali in azienda non solo ai soggetti firmatari dei contratti
collettivi, ma anche ai soggetti che abbiano partecipato al negoziato.
La sfida che questa sentenza pone alle Parti Sociali è di precisare che cosa si
intende per partecipazione al negoziato. Se io mi invento un sindacato per nulla
rappresentativo, invio la mia piattaforma all’azienda e lei la accoglie, questo
significa aver partecipato al negoziato? Ed io in questo modo ho diritto ad avere
la mia rappresentanza sindacale aziendale?
Questo spiega il problema del contesto giuridico: il testo unico sulla rappresentanza non solo è la risposta ad un prospettato e non del tutto escluso intervento
legislativo, ma è anche una risposta ad una domanda di carattere giuridico, che
è stata innescata dalla sentenza della Corte Costituzionale, la quale, dicendo
che a godere del diritto ad avere RSA sono non soltanto i soggetti firmatari dei
contratti collettivi, ma anche quelli che hanno partecipato al negoziato, impone
ora di stabilire che cosa significa aver partecipato al negoziato.
Questa cosa sarà inventata da un giudice, sarà inventata dal legislatore o saranno le Parti Sociali a dover chiarire anche questo punto?
Nella parte terza del testo unico sulla rappresentanza c’è la risposta a questo
interrogativo, perché il testo unico non solo parla della certificazione e della
misurazione della rappresentatività ai fini del contratto collettivo nazionale, non
solo parla dell’efficacia dei contratti collettivi, ma risponde anche a questo interrogativo sollevato dalla Corte Costituzionale.
Nel testo unico per la rappresentanza c’è innanzitutto la riaffermazione
dell’autonomia delle Parti Sociali, per mantenere un sistema ordinato di relazioni sindacali.
Per quanto riguarda l’articolazione del testo unico, indubbiamente viene messo insieme il trittico rappresentanza, cioè misurazione della rappresentanza,
contrattazione, nel duplice livello, e diritti sindacali, per i quali si intende ciò
che ho detto ora, ovvero il diritto di avere assemblee, permessi e quant’altro, in
sostanza tutti i diritti riconosciuti alle RSA dall’articolo 19.
Secondo aspetto molto importante e per certi versi innovativo è la valorizzazione del principio di maggioranza e questo vale sia per il contratto nazionale, sia
per la contrattazione aziendale.
Terzo profilo, cui sono molto legato, sono le regole e gli impegni per le parti e
dunque anche le sanzioni.
Riepiloghiamo ora i punti principali rispetto alle quattro parti in cui si articola il
testo unico.
La prima parte, che abbiamo esaminato ieri mattina, riguarda la disciplina per
la misura e la certificazione della rappresentanza ai fini della contrattazione
collettiva nazionale. Si è molto evocato il pubblico impiego, per metterne in evidenza tutte le magagne, questa volta però il pubblico impiego diventa un punto
di riferimento, perché il modello del mix tra dato associativo e dato elettorale,
che è contenuto nel testo unico, è stato già scritto per legge a proposito del
pubblico impiego.
352
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Si riconosce la titolarità ai fini della contrattazione collettiva nazionale a quelle
organizzazioni sindacali che abbiano raggiunto il 5% come media tra il dato della certificazione degli iscritti e il dato dei voti ottenuti nelle elezioni delle RSU.
Il problema è come dare vita a questa parte, che ancora non è operativa. Non
vi è soltanto la questione del Cnel, ma vi è anche quella delle convenzioni
con l’Inps: bisogna infatti distinguere il dato sugli iscritti dal dato sui voti delle
RSU-RSA. I dati sugli iscritti dovrebbero risultare dalle dichiarazioni che ogni
imprenditore fa nel modello Uniemens all’Inps, in cui indica anche il sindacato
a cui il lavoratore appartiene. Per potere fare questo, occorre innanzitutto una
convenzione con l’Inps, che precisi le modalità del conteggio degli iscritti ovvero delle deleghe.
Dall’altro lato il dato delle elezioni delle RSU e, laddove non vi siano RSU, il
dato degli iscritti in presenza di RSA in aziende o unità produttive con più di 15
dipendenti devono trovare in qualche modo una valorizzazione nel cosiddetto
comitato provinciale dei garanti, nell’ambito del quale tutte le commissioni elettorali, che hanno i dati delle elezioni, devono mandare i dati. In questo comitato
dei garanti c’è anche il ruolo pubblico, rappresentato dal direttore della di DTL
o da un suo rappresentante.
La presenza del ruolo pubblico è importante in prospettiva per la certificazione del dato concernente gli iscritti anche per il settore Commercio, Turismo e
Terziario.
La seconda parte è quella che riguarda la disciplina regolativa delle rappresentanze in azienda. Io mi soffermerò principalmente sui punti riguardanti le RSA.
Da un lato, per quanto riguarda le RSU, si è molto parlato del superamento
della riserva del terzo, cioè tutte le RSU sono elette in via proporzionale dai lavoratori, ma c’è il problema di come garantire il pluralismo sindacale, che prima
era in qualche modo garantito dalla presenza del terzo riservato.
Se tutte le RSU sono elette dai lavoratori, c’è il problema che in determinati
contesti si può correre il rischio che alcune associazioni sindacali firmatarie di
contratti nazionali non siano poi rappresentate nell’ambito delle elezioni delle
RSU. Mi riferisco a certi contesti geografici del nostro Paese, per cui c’è il problema effettivo di garantire il pluralismo sindacale in azienda.
Dall’altro lato si è detto che anche rispetto alle RSU c’è un rafforzamento comunque del vincolo del mandato: la RSU non rappresenta soltanto i lavoratori,
la RSU è eletta dai lavoratori, però su presentazione di lista da parte del sindacato e questo si trova proprio nella previsione di decadenza dell’eletto non
solo in caso di dimissioni, ma anche in caso di cambiamento di appartenenza
sindacale.
Mi pare utile riprecisare anche ciò che dice il testo rispetto alle RSA, che sono
la forma di rappresentanza che voi avete scelto prevalentemente nei settori
che avete come riferimento. Siamo di fronte ad un’intesa interconfederale, ma
la maggior parte della disciplina di dettaglio è poi rinviata alle categorie di riferimento e qui c’è un’ampia possibilità di scelta data alle categorie se avere le
RSU o mantenere le RSA.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
353
Le RSA, contrariamente all’accordo del 1993, che era tutto improntato sulle
RSU in una logica di superamento delle RSA, se si legge bene nelle pieghe del
testo, vedono riconosciuto il proprio ruolo in un duplice passaggio. Innanzitutto
la cosa chiara è che il passaggio da RSA ad RSU è possibile solo se definito
unitariamente dalle categorie.
Il punto otto, intitolato Clausola di Salvaguardia, recita testualmente: “Il passaggio dalle r.s.a. alle r.s.u. potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle
organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del Protocollo
31 maggio 2013. Ciò significa che basta anche un organizzazione sindacale
che dissente questo passaggio non può essere fatto”.
È un’eccezione al criterio della maggioranza, che invece permea tutto il testo
unico: in questo caso occorre l’unanimità. Io leggo questo passaggio come
forma di valorizzazione del ruolo delle RSA.
L’altro spunto che si trova, in maniera un po’ più criptica, nel testo è che il
computo del dato associativo viene considerato due volte e quindi viene particolarmente rafforzato: ai fini della media tra dato associativo e dato elettorale
da un lato il dato degli iscritti è preso con la certificazione Uniemens, ma poi,
una volta che si dovrà calcolare il dato elettorale, per quelle aziende in cui non
ci sono RSU si deve computare il dato associativo.
Quindi il dato associativo viene valorizzato due volte, da un lato in via generale,
rispetto al modello Uniemens, dall’altro lato, per la parte che deve contemplare
il dato dell’elezione delle RSU, si dice che al dato della elezione delle RSU deve
essere sommato il numero degli iscritti nelle aziende in cui non ci sono RSU,
ma ci sono RSA.
Me lo ha spiegato Uliano Stendardi, il quale a nome della CISL ha scritto materialmente l’accordo. Nel testo infatti si legge: “I dati degli iscritti rilevati dall’Inps
in relazione alle unità produttive che superino i quindici dipendenti e in cui siano
presenti r.s.a. ovvero non sia presente alcuna forma di rappresentanza sindacale saranno trasmessi, entro il mese di febbraio dell’anno successivo a quello
di rilevazione, al CNEL”.
Dopo di che troviamo la proposizione: “Il CNEL provvederà a sommare ai voti
conseguiti da ciascuna organizzazione sindacale di categoria, il numero degli
iscritti risultanti nelle unità produttive con più di 15 dipendenti ove siano presenti
r.s.a., ovvero non sia presente alcuna forma di rappresentanza sindacale”.
Questo è il dato centrale: questa proposizione sta a significare che gli iscritti
non solo devono essere computati nel modello Uniemens, ma gli iscritti vanno
anche a completare il dato dell’elezione delle RSU, dando per scontato che,
laddove ci sono RSA, gli iscritti, qualora avessero votato, avrebbero votato per
le associazioni sindacali alle quali sono iscritti.
La terza parte riguarda la titolarità e l’efficacia della contrattazione collettiva
nazionale di categoria; a tale proposito si è molto discusso e mi pare che l’intervento del professor Bellomo abbia ben chiarito quali sono i termini della questione. Il testo recita così: “In assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale
favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente
un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50% +1”.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Sostanzialmente ciò significa che da una logica di mutuo riconoscimento, per
cui è la parte datoriale che si sceglie la parte sindacale con cui trattare, ora c’è
un impegno chiaro della parte datoriale a favorire l’apertura della trattativa con
quelle sigle sindacali che risultino complessivamente maggioritarie.
A mio avviso è una sorta di obbligo a trattare: il principio di maggioranza entra
a gamba tesa non soltanto rispetto al contratto aziendale, ma addirittura nella
fase della negoziazione del contratto collettivo nazionale. Questo è un aspetto
di grande novità soprattutto per la parte datoriale nel nostro ordinamento, da
parte della quale si ritiene che non vi sia un obbligo a trattare.
C’è poi tutto il tema della consultazione certificata, che è rimandato alle categorie, quindi c’è la parte sulla contrattazione aziendale, di cui abbiamo già
parlato ieri per le modalità delegate. La cosa che merita di essere affrontata è
che, come dicevo, a mio avviso il testo unico consente di dare una risposta un
po’ più precisa all’interrogativo della Corte Costituzionale su che cosa significhi
partecipare al negoziato.
Nella parte terza dell’accordo si dice espressamente: “Ai fini del riconoscimento
dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 19 e ss della legge 20
maggio 1970, n. 300, si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto
hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della
delegazione trattante l’ultimo rinnovo del c.c.n.l. definito secondo le regole del
presente accordo”.
Ecco perché io dico che il testo unico non solo risponde ad un profilo politico,
ma anche ad un profilo giuridico, il quale, a mio avviso, cerca di dare risposta
all’interrogativo che la Corte Costituzionale ha posto. Non dico che sia la migliore delle risposte possibili, ma è molto più preciso rispetto a quell’interrogativo.
Come ulteriori elementi, al fine di capire che cosa si intende per partecipazione
al negoziato, viene precisato che si intendono coloro che abbiano effettivamente contribuito alla definizione della piattaforma ed abbiano fatto parte della delegazione trattante, quindi le organizzazioni sindacali, che si inseriscono
all’ultimo momento e firmano per mera adesione, non dovrebbero, secondo
quanto previsto, godere poi del diritto ad avere delle RSA.
La quarta ed ultima parte riguarda le regole ed i comportamenti delle parti.
Ma quali possono essere gli ulteriori indicatori per la misurazione della rappresentatività? Abbiamo visto che il testo unico sulla rappresentanza al momento
individua come criteri il dato associativo e il dato elettorale. Chi ha più del 5%
come media tra dato associativo e dato elettorale, ha diritto a sedere al tavolo
del contratto collettivo nazionale.
Si possono tuttavia intravedere ulteriori criteri per un settore molto frantumato,
qual è quello del Terziario, Commercio e Turismo?
La legge costitutiva fa riferimento al Cnel, che, va sempre ricordato, è un organo costituzionale, mediante il quale abbiamo un riconoscimento delle Parti
Sociali, poiché il Cnel doveva servire, nel momento in cui si elaboravano delle
leggi riguardanti il diritto del lavoro, a fornire una sede stabile, costituzional-
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
355
mente prevista, in cui l’espressione del lavoro potesse contribuire ad esprimere
un parere autorevole.
È vero che rispetto a questo negli ultimi anni il Cnel ha fatto pochissimo, ma ora
a noi interessa stabilire quali sono i soggetti che per le parti datoriali e per le
parti sindacali vanno a comporre il Cnel. C’è una legge della metà degli anni 80
che a tale proposito definisce alcuni criteri ed uno dei criteri individuati riguarda
il numero di accordi collettivi conclusi, o di transazioni e conciliazioni individuali
realizzate nel triennio precedente dalla singola organizzazione.
Come ulteriore strumento di misurazione della rappresentatività, oltre al dato
è elettorale e al dato associativo, si potrebbe pensare dunque alla quantità di
accordi, non aperti – non si tratta della vertenza, che chiunque può aprire – ma
conclusi, che è un dato più significativo, per la misurazione della rappresentanza, che non l’apertura delle vertenze. La capacità delle associazioni datoriali e
sindacali sta anche nell’assunzione di responsabilità: si apre una vertenza, ma
poi si arriva ad una conclusione.
Quindi si potrebbe agire in base alla quantità di accordi conclusi, oppure – siccome i vostri settori sono ambiti in cui il contenzioso individuale è molto ampio
– in base al numero di transazioni e riconciliazioni sul piano individuale, le quali
però possano essere documentate, in quanto svolte nelle sedi opportune o
presso una DTL, per cui c’è una documentazione, tramite la quale si possono
quantizzare gli accordi e le vertenze individuali concluse.
Questo potrebbe essere un ulteriore strumento di misurazione della rappresentanza, che a mio avviso non vale soltanto sul versante sindacale, ma potrebbe
valere anche sul versante datoriale.
L’aspetto però che mi preme di più è la dimensione territoriale: come avete
visto, questa dimensione è poco considerata nel testo unico del gennaio 2014,
proprio perché quell’accordo è incentrato soprattutto sul settore industriale, in
cui questa dimensione non c’è. Invece nei vostri settori questa è una dimensione molto importante e molto delicata, perché connessa anche al superamento
del concetto di unità produttiva.
Oggi per unità produttiva che cosa si intende? Se ho un’azienda che ha filiali a
Milano, a Trento o a Padova, costituite da cinque-sei persone, non posso avere
l’RSA in ciascuna di esse, perché sono sotto i 15 dipendenti, ma a livello complessivo supero questo limite, per cui è importante definire che cosa intendiamo
per unità produttiva.
Se si deve mettere mano allo statuto dei diritti dei lavoratori, per il quale credo
che ora sia necessario un restyling, oltre che richiamare sempre l’articolo 18,
forse anche il concetto di unità produttiva potrebbe essere utilmente riformulato
alla luce delle trasformazioni che sono in atto nel nostro Paese.
Il tema della dimensione territoriale è molto importante anche sul versante della
certificazione della rappresentanza: se si è detto che ulteriore indicatore, oltre
al dato elettorale e al dato associativo, può essere quello relativo agli accordi
conclusi e alle conciliazioni realizzate, la dimensione territoriale può essere
utile per accertare quanti sul territorio di Genova, ad esempio, sono gli accordi
realizzati o le vertenze chiuse.
356
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
La dimensione territoriale potrebbe avere dunque un senso anche ai fini della
certificazione della rappresentanza, perciò è molto importante capire qual è
l’organismo che potrebbe essere utilizzato per la certificazione della rappresentanza nella sua dimensione territoriale. È un organismo ad hoc? È una commissione regionale o territoriale? In quest’organismo c’è la presenza del soggetto
pubblico, al pari di quanto previsto per il comitato provinciale dei garanti del
testo unico sulla rappresentanza? Può essere l’ente bilaterale la sede di certificazione della rappresentanza, sì o no?
Queste sono tutte domande che io credo abbiano un certo rilievo soprattutto nel
vostro settore: da chi può essere messo in piedi un organismo territoriale, che
diventa anche sede di accertamento della rappresentanza sia del sindacato
che delle associazioni datoriali di quel territorio? Lo fanno le Parti Sociali da
sole? Può essere l’ente bilaterale? Si costituisce un organismo ad hoc, magari
con la presenza del dirigente della DTL?
Quanto al raccordo tra RSA e RST, il rappresentante sindacale territoriale, figura prevista per le aziende non rientranti nel campo di applicazione dell’articolo
19, va detto che se ne parla nel contratto collettivo nazionale di lavoro. Io non
so quale sviluppo concreto abbia avuto questa norma, però mi pare una dimensione interessante in una logica di rappresentanza di tipo territoriale.
E poi questa dimensione territoriale è importante anche sul versante della contrattazione collettiva: c’è tutto il tema se la contrattazione territoriale debba essere integrativa o alternativa a quella aziendale, perché nel contratto si dice
“in via sussidiaria a quella aziendale”, ma sussidiario significa che, se manca
quella aziendale, dovrebbe scattare la contrattazione territoriale.
Qui però c’è il problema dell’esigibilità, cioè dell’efficacia della contrattazione
territoriale, tema non risolto dall’articolo 8. Mentre io posso dire che il contratto
aziendale, una volta che è stato stipulato dalla maggioranza dei componenti
delle RSU o delle RSA, vale per tutti, così non è scritto per il contratto territoriale e probabilmente bisogna inventare altri criteri, per conferire efficacia
generale al contratto territoriale; sempre stando attenti a non ledere l’articolo
39 comma 4, perché su questo punto la strada pensata dall’articolo 8 rischia di
essere incostituzionale.
Si provi a dire ad un datore di lavoro non firmatario, non associato, che comunque
deve applicare il contratto territoriale! Questo è un tema molto delicato che va affrontato, per cui bisogna probabilmente elaborare una progettualità di pensiero,
per affrontare il tema dell’efficacia generale della contrattazione territoriale.
Mi pare di poter dire che, per quanto riguarda l’efficacia generale del contratto
aziendale, ci sono tutte le premesse ed anche le norme di riferimento, Invece
molte meno ce ne sono per quello che riguarda l’efficacia generale del contratto
territoriale.
Quanto alla rappresentatività delle associazioni datoriali, da molti richiamata
ieri mattina, si è tentato un abbozzo di questo tipo, in modo da evitare uno
strabismo giuridico: si parla sempre della rappresentanza del movimento sindacale, ma, se ci si trovano di fronte cinque-sei organizzazioni datoriali, diventa
difficile stabilire con chi fare il contratto e quale efficacia esso abbia.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
357
Quali sono dunque gli strumenti per raggiungere questo scopo? Io avrei individuato un criterio basato sulla sottoscrizione dei contratti collettivi, oppure basato sul livello di rappresentanza istituzionale. Un’associazione datoriale, che si
possa veramente legittimare come rappresentativa, ha tutto l’interesse a farlo,
perché è lei che poi godrà di previsioni normative di vantaggio.
Il tema dell’ordine e della maggiore rappresentatività non interessa solamente
al sindacato dei lavoratori, ma interessa anche alle imprese ed alle associazioni
datoriali, perché tutta la fiscalità di vantaggio dovrebbe essere data proprio alle
associazioni datoriali maggiormente rappresentative, distinguendole da quelle
che rappresentative non sono.
Le condizioni per la tenuta dell’eventuale ed auspicata intesa nel settore del
Terziario si possono suddividere in un versante esterno ed in un versante interno. Indubbiamente il testo unico sulla rappresentanza, così come l’eventuale
intesa che si sta realizzando, sono sottoscritti dalle organizzazioni di categoria,
CGIL, CISL e UIL, e dalle associazioni datoriali.
Il problema è di mantenere questo testo aperto anche ad altre organizzazioni
sia sindacali che datoriali: io non ho nessuna preclusione nei confronti del sindacato autonomo o di altri soggetti, il problema è che deve essere chiaro che,
nel momento in cui anche altri soggetti aderiscono, devono aderire secondo tre
avverbi: formalmente, espressamente e integralmente.
Non si può aderire solo alle prime tre parti, mentre non si aderisce a quella che
riguarda le sanzioni, altrimenti dal punto di vista tecnico è come se si facesse
una controproposta, che non equivale a quanto già stabilito, perché aderire
soltanto a tre parti significa che si cambia il contenuto dell’accordo.
Quindi il problema della valutazione congiunta da parte dei firmatari – che significa associazioni datoriali e sindacali – dei nuovi ingressi, che abbiano questi tre
aspetti, mi pare molto importante.
Sul versante interno c’è poi la previsione di sanzioni economiche per le imprese: non c’è soltanto la temporanea sospensione per le organizzazioni sindacali,
che non rispettino l’accordo, ma si prevede che, se un’impresa aderisce all’associazione datoriale che ha sottoscritto l’intesa, poi non si può comportare in
maniera differente, per cui si prevedono delle sanzioni che possono servire a
rendere stabile l’intesa.
A questo punto diamo la parola a Paolo Ferretti, consulente del lavoro, il quale
si occuperà del tema che stiamo trattando in funzione degli studi professionali, dopodiché apriremo un dibattito per il confronto relativo a queste due
comunicazioni.
358
Non sentirti un pesce fuor d’acqua
VIENI ALL’INAS
Per saperne di più visita il sito internet www.inas.it
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Intervento di:
Paolo Ferretti
(Consulente del Lavoro Ancona)
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Vi ringrazio per questo graditissimo invito, soprattutto in una giornata come
quella odierna, in cui ancora una volta si riconferma la volontà di fare a meno
delle rappresentanze da parte della politica, la quale auspica un taglio netto con
gli organi di rappresentanza, tanto datoriali che dei lavoratori.
Il tema del mio intervento è quello della rappresentanza sindacale nell’ambito
professionale, ma vorrei fare su quanto abbiamo già ascoltato due o tre digressioni, che ritengo rilevanti dal punto di vista professionale.
Io ho trovato estremamente interessanti alcuni richiami all’unità produttiva, al
contratto territoriale, alla sua validità, all’efficacia per la sua stipula e quant’altro. Vorrei sottolineare perciò alcuni aspetti, i quali riguardano soprattutto noi
professionisti, che andiamo ad applicare quei contratti all’interno delle unità
produttive.
Noi risolveremo alcuni problemi col testo unico sulla rappresentanza in termini
di efficacia del contratto aziendale o di efficacia del contratto nazionale, ma
dobbiamo tener conto del fatto che abbiamo anche un rapporto previdenziale,
perché il rapporto contrattuale è un rapporto trilaterale ed io vorrei sottolineare
ancora una volta che nella giornata di ieri il Tar del Lazio si è espresso negativamente sulla rappresentatività di un contratto collettivo stipulato da CGIL,
CISL, UIL e Lega UNCI, Unione delle Cooperative Italiane, in termini di imponibilità contributiva.
Si possono fare più contratti collettivi appartenenti al medesimo settore, però
dalla parte contributiva noi siamo tenuti ad applicare il contratto leader, cioè
quello maggiormente rappresentativo, il che significa per noi consulenti del
lavoro una barriera invalicabile, anche di natura informatica, ad applicare quella che viene definita la teoria del doppio binario, per cui noi, aderendo ad un
certo contratto collettivo, dovremmo fare le buste paga tenendo conto di quel
contratto collettivo ed espletare l’aspetto contributivo tenendo conto del contratto leader.
Tenete presente che il Ministero del Lavoro aveva fatto una circolare nel 2012,
richiamando proprio l’esigenza dell’applicazione dei fini contributivi del contratto leader, e addirittura si spingeva a dire altrettanto per i fini retributivi. Naturalmente sul retributivo il Tar del Lazio non gli ha dato ragione, perché il retributivo,
nel momento in cui si applica un contratto collettivo sottoscritto dall’associazione alla quale si aderisce, è tutelato dall’articolo 36 della Costituzione, ma il Tar
del Lazio identifica ancora il contributivo come un problema.
Qui siamo in casa FISASCAT ed io mi trovo un po’ a casa mia, perché sono
il consulente FISASCAT delle Marche, infatti i consulenti del lavoro operano
anche per le organizzazioni sindacali. Recentemente con il mio aiuto abbiamo fatto l’accorpamento delle quattro province marchigiane, per cui FISASCAT
Marche non ha più le FISASCAT provinciali, ed ho un grosso rapporto con la
FISASCAT a livello nazionale, tanto che essa è un po’ la mia associazione di
riferimento.
Ciò soprattutto perché questa è un’associazione che costruisce: io detesto il
cavalcare la protesta, questo appartiene ad altre strutture sindacali, invece
FISASCAT ama percorrere la via della soluzione ragionevole e non abdica
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
361
normalmente al proprio ruolo di negoziazione, evitando per quanto possibile i
contenziosi giudiziari che tutti gli altri cavalcano.
Io stesso con la collaborazione di FISASCAT fui promotore di un contratto collettivo, quello dell’AGESPI, il contratto che riguarda il personale dipendente
delle realtà del settore assistenziale, il quale entra perfettamente in questo contesto. È un contratto che mi ha visto collaborare attivamente con personaggi
come Marianna Moser degli Anni Azzurri, come Calcinati di Segesta. Io ero
per il Gruppo Orpea ed al tempo lavorai molto con Irmo carretti della zona del
Piemonte su questi progetti.
Quando si stipula un contratto collettivo, noi sappiamo che non abbiamo risolto
il problema. Noi potremo fare i migliori contratti collettivi del mondo, ma il problema contributivo rimarrà; e rimarrà tale fino a quando non saremo intervenuti
legislativamente sull’articolo 1 della legge 389 del 1989, che è quella che identifica come imponibile contributivo quello del contratto leader.
Questo renderebbe giustizia a tutte le organizzazioni sindacali e a tutte quelle
datoriali che stipulano contratti validi, ai sensi anche, laddove fossero estesi a
tutti i settori, della rappresentanza, che toccava prima il professor Marco Lai.
Altra questione significativa è il concetto dell’unità produttiva. Noi in Italia siamo
abituati che il diritto è vago e mai più vago fu il concetto dell’unità produttiva.
L’unità produttiva non è un concetto legislativo, è un concetto giurisprudenziale.
Noi siamo abituati ad operare in questi termini perché fino a 2003, fino a quando non è entrato in vigore il decreto Biagi, una norma che regolasse tecnicamente il distacco, che si trova nell’articolo 29 del decreto Biagi, noi non l’avevamo, quindi operavamo i distacchi sulla base dei concetti giurisprudenziali,
i quali spesso poi ci vedevano nelle aule del tribunale con la contestazione
dell’appalto di manodopera, secondo la legge 1369 del 1960, successivamente
abrogata.
Quindi noi abbiamo la necessità di normare alcuni aspetti di dettaglio, perché,
al di là della polemica se l’articolo 18 rimarrà o non rimarrà, l’unità produttiva,
per come la dipingeva adesso il professor Lai, è una questione esiziale anche
ai fini dei regimi di tutela.
Se abbiamo 5 dipendenti a Bolzano, 5 dipendenti a Trento, 20 dipendenti in
Ancona, in linea astratta solo i dipendenti di Ancona avrebbero diritto oggi, rebus sic stantibus, ad una tutela reale, mentre gli altri il rappresentante di unità
produttiva non l’avrebbero. Ma se le diverse sedi non sono unità produttiva?
Se per definizione giuridica non lo fossero? Andrebbero accorpate in un’unica
realtà, che a quel punto annovererebbe in una tutela reale anch’essi. Quindi il
concetto dell’unità produttiva è essenziale ai fini della tutela.
Io invito tutti i colleghi, fino a quando esisterà il Cnel, a navigare nel suo sito:
perlomeno impareremo le best practices che sono presenti in Italia in termini
di contrattazione integrativa. Se vogliamo vedere come si opera da Bolzano a
Caltanissetta, o Mazara del Vallo in ambito di contrattazione integrativa, è proprio il sito del Cnel quello che ci mette a disposizione le contrattazioni stipulate
in Italia.
362
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Quindi possiamo vedere come è stato identificato il premio di produttività, ad
esempio, nella Ferrari: siccome si dice che la Ferrari sia il massimo per quanto
riguarda le relazioni sindacali, io sono andato a vedere quali formulazioni essi
hanno utilizzato, arricchendo così la mia cultura personale.
Quanto alla rappresentanza dei professionisti, probabilmente la mia presenza
qui si deve anche al fatto che ogni tanto nella mia vita tocco varie carriere,
perché ho una grande curiosità intellettuale; ma abbandono le poltrone con la
stessa velocità con cui le avvicino, perché le ritengo incompatibili con l’esercizio della professione che mi vede impegnato su più fronti.
Nella mia carriera sono stato consigliere provinciale dell’ANCL, successivamente sono stato Presidente dell’Ordine di Ancona e posso dire che la principale questione aperta è quella che io avevo già 10 anni fa, quando ricoprivo
queste due cariche, cariche per le quali non mi sono ricandidato, perché volevo
semplicemente sapere come funzionavano questi due mondi.
Il punto centrale che c’era allora e c’è tuttora, quando si considerano gli attori
principali delle cariche elettive che noi abbiamo, è una confusione di ruoli pazzesca. Quando ero consigliere dell’ANCL prendevo posizioni di tipo prettamente ordinamentistico, cioè demandate a funzioni ordinamentali; quando poi ero
Presidente dell’Ordine agivo da sindacalista e quindi portava avanti gli interessi
collettivi della categoria, confondendo evidentemente il ruolo istituzionale che
avevo in quel momento storico.
Io credo che la più grande questione ancora aperta oggi per i professionisti
sia la confusione di ruoli tra ordini ed associazioni. Hanno le stesse prerogative? Assolutamente no, ma quelli che più frequentemente commettono errori
su questo piano sono gli organi istituzionali del Governo, che magari in alcune
riunioni ufficiali convocano gli ordini e non convocano le associazioni, mentre
dovrebbe essere esattamente il contrario, ovvero dovrebbero essere convocate le associazioni e non gli ordini.
La differenza è evidente: l’istituzione ordine è un ente pubblico autonomo, che
si autofinanzia, che si autogoverna, per il quale c’è un obbligo di iscrizione da
parte l’esercente l’attività professionale e solo il fatto che è previsto l’obbligo di
adesione ad esso, già cozza con l’articolo 39 della Costituzione, il quale recita
che non può svolgere un’attività sindacale un soggetto istituzionale, che ha un
obbligo di iscrizione.
La funzione di un ordine è immensa, ma non va confusa con quella dell’associazione: tutela la fede pubblica, tutela l’iscritto sotto il profilo dell’appartenenza
alla professione, si cura del suo aggiornamento continuo, perché c’è un interesse della collettività che quel professionista sappia svolgere un ruolo di livello ed
efficace. L’ordine non può fare la rappresentanza di interessi collettivi, questa è
una prerogativa assoluta ed inderogabile dell’associazione sindacale.
Naturalmente si può obiettare che l’associazione sindacale del mondo professionistico è frammentaria, non è corposa come quella dei lavoratori dipendenti:
io sono d’accordo, non a caso quando ero un piccolo consigliere dell’ANCL, per
farmi un minimo di cultura, mi ero letto un libro bellissimo del 2000, che era intitolato Professioni: terza parte sociale, del professor Gian Paolo Prandstraller.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
363
Egli preconizzava la necessità ineluttabile, affinché i professionisti avessero
un ruolo sociale, di fare una coalizzazione a fronte della polverizzazione che è
tipica delle professioni.
Cosa può aver a che vedere un medico con un consulente del lavoro, o un
avvocato con un ingegnere, un architetto con un veterinario? Non li lega certo
la disciplina professionale. Li lega però un sentire comune: il vivere la propria conoscenza, la propria voglia di avere un’utilità nei confronti della società,
l’avere l’esigenza di essere costantemente aggiornati, perché la società evolve,
evolvono i metodi scientifici ed evolve quindi la necessità del professionista.
Quindi non hanno punti professionali in comune, ma se noi pensassimo che le
nostre associazioni sindacali di categoria potessero adempiere completamente
un obbligo di rappresentanza, restando separate, noi avremmo commesso il
più grosso errore di frammentazione che potrebbe essere praticato a livello
complessivo dalle professioni.
Ecco perché noi, secondo me, bene abbiamo fatto nel corso degli anni a confluire verso associazioni di secondo livello, come per noi può essere Confprofessioni, come per le professioni non regolamentate può essere la COLAP, il coordinamento delle libere associazioni, perché diversamente la frammentazione di
ruolo non consentirebbe un’adeguata rappresentanza.
Gian Paolo Prandstraller richiamava il fatto che in Italia il metodo di rappresentanza, che era stato scelto, era di secondo tipo, come lo definisce lui, e cioè
che gli ordini nascevano da un’emanazione legislativa. Egli invece immaginava
un terzo modello, non esistente nel 2000 in Italia, caratterizzato da una pacifica
convivenza tra ordini e associazioni, evidentemente riferito alle professioni non
regolamentate.
Io direi che, se oggi il professor Gian Paolo Prandstraller riprendesse questo
testo, sicuramente lo aggiornerebbe, dicendo che oggi in Italia abbiamo un
metodo di terzo livello.
Il primo è quello anglosassone, che viene riconosciuto dal mercato, il secondo
è quello ordinistico, ovvero quello che abbiamo avuto fino ad ora, il terzo, di
cui noi dobbiamo prendere coscienza, è quello dell’ingresso nel mercato delle
professioni non regolamentate, che è intervenuto con la legge n. 4 del 2013.
Inutile infatti è ignorare che in Italia c’è oltre 1 milione e mezzo di professionisti, che appartengono a professioni non regolamentate. Si può pensare che
io sia l’eretico dell’ordine, perché un ordinista, un professionista iscritto ad un
ordine, che non difenda a spada tratta l’ordine, è l’eretico e va scomunicato.
Invece io sono una persona concreta, uno che vive la realtà, sono uno che nel
1984 ha visto costituire in Ancona in piazza Cavour presso lo studio del Notaio
Scoccianti la LAPET, l’associazione periti esperti tributari, che oggi si chiama
ANCOT, associazione nazionale consulenti tributari, ed è probabilmente per i
periti tributari l’ordine più numeroso.
Oggi pensare di potere essere rappresentati ed essere rappresentativi, se si
va separati, è un’ipotesi irrealizzabile. Io sostengo invece quella che ci vuole
vedere uniti, seppure con il rispetto dei ruoli e nel rispetto delle funzioni delle
professioni, che devono rimanere nel loro ambito ben distinte.
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Io non sto assolutamente dicendo che va abolito l’ordine: ci siamo guadagnati l’iscrizione con l’abilitazione, abbiamo sostenuto degli esami, molti, come il
sottoscritto, facendo grossi sacrifici all’università, per cui lo difendiamo attentamente; ma nel momento in cui si deve rappresentare l’interesse del mondo professionale, inteso come soggetti autonomi che partecipano al progresso sociale, io comincio a vedere molto meno questa distinzione ed auspico fortemente
che, laddove si voglia assumere quella posizione di terza parte sociale, come la
chiama il professor Prandstraller, si faccia riferimento a tutto il mondo professionale, che conta più di 3 milioni e mezzo di individui che operano in Italia.
Con grande soddisfazione leggevo ieri su Il sole 24 ore il titolo Prove di un nuovo dialogo tra ordini e associazioni, a proposito di un convegno della COLAP a
Roma, dove appunto è stata presa posizione anche da parte delle associazioni
ordininistiche, perché, se vogliamo in qualche modo pesare nella dialettica con
le istituzioni, che già ho detto in premessa convocano gli ordini, quando dovrebbero convocare le associazioni, bisogna fare massa critica.
Bisogna che le casse professionali abbiano evidentemente un ruolo: in tutto
questo meccanismo le casse professionali devono esercitare un ruolo, ma questo ruolo, per smuovere una massa critica, non può essere portato avanti dalle
singole casse professionali; bisogna ragionare come fa l’ADEPP, l’Associazione degli Enti Previdenziali Privati, che ne raccoglie diverse. Allora sì che si fa
massa critica in termini di disponibilità finanziaria.
Io ho trovato estremamente interessanti alcuni passaggi fondamentali toccati
dal professor Berrini: uno di ordine giuridico ed un altro di ordine economico.
Sembra che gli economisti non facciano diritto, ma quando fanno certe affermazioni, fanno soprattutto diritto.
Partiamo dal passaggio economico, perché c’è stata una domanda interessantissima di una collega sul mondo delle banche e mai risposta fu più azzeccata
di quella data dal professor Berrini. Nella mia carriera professionale mi sono
occupato anche di fare consulenza del lavoro per una banca e dal fare consulenza del lavoro a finire nel consiglio di amministrazione è stato un attimo: visto
che ormai ero lì, mi hanno cooptato.
Non c’è dubbio e lo posso testimoniare con certezza, perché sono stato consigliere della Banca di Ancona per sei anni, che noi abbiamo sicuramente vissuto
nelle Marche più che in altre regioni il credit crunch, lo abbiamo vissuto in maniera forte e se guardate le stime di Banca d’Italia, che io ero costretto a guardare come consigliere, vedrete che le Marche stavano peggio di altre regioni:
praticamente eravamo in fondo alla graduatoria in termini di insolvenza. La più
grossa banca che abbiamo, Banca Marche, come sapete, è commissariata,
dopo enormi investimenti di natura immobiliare.
Il problema è che le banche hanno delle oggettive difficoltà, che dipendono dal
fatto di dover applicare l’accordo di Basilea e dal fatto che la Banca d’Italia svaluta in maniera decisa tutte le operazioni di finanziamento immobiliare, quindi
la possibilità di recuperare le insolvenze si spande su 10 anni ed in ogni bilancio bisogna portare delle sofferenze virtuali, anche dove quelle nella sostanza
pratica non esistono.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
365
Nella prima tranche di finanziamenti di due anni fa, che la BCE ha concesso
a tutte le banche, compresa la Banca di Ancona, è successo che noi abbiamo
dovuto comprare i titoli di Stato. Lo imponevano due esigenze: sostenere le
esigenze della finanza pubblica, per cui quei soldi erano già destinati, e risistemare i bilanci delle banche. Si potrebbe dire: due piccioni con una fava.
Oggi i soldi arrivano con il vincolo di destinazione, ma io temo, perché lo vedo
dall’esterno, dopo aver navigato per sei anni nel consiglio di amministrazione di
una banca, che si comincino ad interessare ai fini dell’impiego di questo denaro
coloro che non ne hanno bisogno. Nel momento in cui i soldi arrivano, si devono destinare, perché altrimenti vanno restituiti. Ma a chi li destiniamo? A chi sia
in grado poi di restituirli, il che significa che di fatto possiamo affermare che una
spinta alle banche d’affari qui in Italia non si trova.
O si è in grado di garantire molto per il poco, o il finanziamento della banca non
si vede, per cui oggi si assiste alla banca che va alla ricerca di un imprenditore
a cui dice: “Hai un fido per 1 milione di Euro ed io domani mattina te lo allargo
a 2 milioni di Euro gratuitamente”, ma l’imprenditore risponde che non ne ha
bisogno, perché non sa come investirlo.
La banca offre questo denaro spontaneamente, perché per la banca è un utilizzo di risorse a rischio zero ed ha la disponibilità poi di farlo circolare nella
finanza complessiva: resta il problema di trovare a chi darlo.
Invece l’affermazione di stampo giuridico, che veniva da un’affermazione di tipo
economico del professor Berrini, è che si è preteso che la realtà si adeguasse
al modello. È un’assurdità perché naturalmente è il modello che si deve adattare alla realtà, ma noi all’interno della nostra professione viviamo la stessa cosa
laddove si pretende che la realtà si adegui alla legislazione vigente.
Noi non abbiamo una reattività legislativa che sia pari al mutamento dei fenomeni sociali, perché abbiamo bisogno di una forza propulsiva dal basso.
Noi consulenti del lavoro saremmo quelli che dovrebbero segnalare le storture
del sistema, in modo tale che il sistema reagisca in maniera repentina, cioè si
adegui alla realtà.
Facevo prima l’esempio – e non è certo il più eclatante – del doppio binario dei
contratti per quanto riguarda gli aspetti retributivi e contributivi da parte di un
Ministero del Lavoro, che addirittura minaccia diffide accertative, se il contratto
collettivo applicato non è quello leader, ecc. Noi dal basso dovremmo proporre
la modifica dell’articolo 1 della legge 389 e quindi riportare tutto ad un unico
contratto, o alla pluralità dei contratti, ma tutti con uguale dignità contributiva e
retributiva.
Quanto al testo unico sulla rappresentanza, uno spunto critico potrebbe emergere dai due fattori che incidono nella determinazione della rappresentanza:
50% iscritti, 50% votanti RSU. Io sono certo che bisognava darsi una regola
e quindi si è scelta la regola più ragionevole. Qualche dubbio sul profilo della
rappresentatività tuttavia ce l’ho, nel momento in cui ci si esprime in termini
percentuali e non in termini di numeri assoluti, cioè ho la sensazione che si
potrebbe raggiungere facilmente la rappresentatività con numeri piccoli, considerato che si valuta la percentuale degli iscritti sui votanti e non ci si confronta
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
con numeri assoluti. Potremmo andare a votare in tre, di cui due iscritti, e quindi
acquisire un peso di rappresentatività non indifferente.
Questa non è una critica ad un eventuale metodo antidemocratico di rappresentanza, perché la democrazia c’è quando delle persone si raggruppano e decidono un metodo di lavoro: quindi chi sta fuori, non può sostenere la mancanza di una democrazia in un metodo che le parti autonomamente si sono date.
Però oggettivamente una riflessione critica sul fatto che la rappresentanza di
molti potrebbe essere demandata al consenso di tutti, secondo me, potrebbe
essere utile.
Questo spazio di riflessione sul testo unico ha già avuto applicazioni pratiche
nel mio territorio: pochi giorni fa si è conclusa una trattativa complessa, che è
stata riportata dai giornali e che ha rischiato di saltare proprio per il testo unico,
nonostante la presenza della CISL, che è un’organizzazione la quale cerca il
consenso e costruisce i percorsi.
Mi dispiace di non avere qui presenti i colleghi di controparte delle Marche, che
con me hanno fatto sempre lavori complessi, i quali hanno portato anche allo
sbarco di realtà internazionali nelle Marche, sempre cercando il consenso. Ma
nelle Marche abbiamo anche, come nel resto d’Italia, organizzazioni sindacali
che cavalcano la protesta.
Tuttavia così si rischia l’impasse, perché, nel momento in cui le RSU fanno
maggioranza di componenza, l’ipotesi dei due su tre, come è accaduto a noi,
rispetto ad organizzazioni che costruiscono il consenso, si rischia di andare in
default, cioè di non portare a termine operazioni complesse e articolate, come
erano in questo caso: un contratto di solidarietà in uno stabilimento di duecento
persone, con un’azienda che aveva aperto una procedura di mobilità.
L’oltranzismo della protesta di alcune organizzazioni sindacali portava dritti verso la procedura di mobilità, perché si rifiutava qualsiasi mediazione alternativa.
Per la seconda volta nella nostra storia, perché abbiamo un precedente, devo
dire che è stato necessario che le RSU fossero stimolate da un vostro ex importante Segretario delle Marche, oggi assessore regionale al lavoro, il Dottor Marco Luchetti, che saluto perché lavoro con lui a stretto contatto quasi quotidiano,
il quale ha fatto sì che le RSU scavalcarselo le organizzazioni sindacali di rappresentanza e quindi dessero loro la disponibilità, superando le organizzazioni
sindacali provinciali che cavalcavano la protesta, alla firma di quell’accordo.
Noi troveremo sempre qualcuno che cavalca la protesta – e normalmente vi
assicuro non è la CISL – e dovremo fare i conti con queste organizzazioni
sindacali, che, proprio cavalcando la protesta, spesso diventano maggioranza. Due organizzazioni su tre, oppure un’unica organizzazione, come era in
questo caso, per lo stabilimento di Ascoli, dove alligna una componente, che
voi qui avete poco, ma che invece nelle Marche impera nella metalmeccanica,
che è la UGL.
Due membri su tre della RSU sono della UGL e l’organizzazione sindacale che
li domina, per cavalcare la protesta, impediva la sottoscrizione di un accordo
importantissimo, che invece è stato sottoscritto grazie al fatto che la RSU ha
scavalcato l’organizzazione di appartenenza.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
367
Ma quante volte troveremo lavoratori responsabili, che si alzano e dicono ad
un sindacato che cavalca la protesta: “I posti di lavoro sono nostri e li tuteliamo
come meglio riteniamo?” Non credo che saranno tanti.
Quindi credo che questo accordo determinerà qualche problema di questo tipo.
Perciò io ero orientato, prima che nascesse questo schema sulla rappresentanza, alla contrattazione di gestione, ovvero ad un orientamento per cui, quando
i contratti, come gli accordi di mobilità e i contratti di solidarietà, sono contratti
gestionali, potessero essere sottoscritti da qualsiasi rappresentanza sindacale
e fossero rappresentativi per tutti i lavoratori.
Si rischia di superare con questo schema il metodo del contratto di gestione per
ricondurre tutto ad un contratto di rappresentanza, il che potrebbe – lo vedremo
tra qualche anno – aprire delle problematiche, che io purtroppo ho toccato già
con mano non più tardi di due settimane fa. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Interessante anche quest’ultima riflessione di carattere giuridico ad opera di
Paolo Ferretti. Ma procediamo ora alle domande dei partecipanti.
LUIGINO PEZZUOLO
(Segretario Generale FISASCAT CISL Milano – Legnano – Magenta)
Su questa partita della rappresentanza sindacale unitaria vorrei avere il parere di
Marco Lai rispetto alla fase di transizione. Oggi noi abbiamo contratti collettivi nazionali di lavoro che prescrivono tutto e il contrario di tutto. Prima il relatore citava
AGESPI, per esempio, in cui la rappresentanza sindacale unitaria è una rappresentanza sindacale formata dalla RSU più le organizzazioni sindacali, ma ci sono
contratti in cui la RSU è semplicemente il frutto di un’elezione dal punto di vista
normativo, mentre altri hanno bellamente lasciato aperta la porta delle RSA.
Noi abbiamo il problema di chi è il soggetto che fa scattare l’iniziativa della costituzione della rappresentanza sindacale unitaria. A questo proposito i contratti
dicono tutto e il contrario di tutto: ne abbiamo alcuni che permettono ad una
singola associazione sindacale firmataria dei contratti di aprire il percorso ed
altri che invece parlano espressamente in termini unitari.
In più abbiamo il problema del 5%, altro problema annoso, perché, se da una
parte si dice in alcuni contratti che sono i tre soggetti CGIL, CISL e UIL che
possono alienare i propri diritti nelle RSA oppure nelle RSU, dall’altra parte si
dice che un unico soggetto con il 5% potrebbe fare lo stesso.
Questa cosa in alcuni contratti è detta in modo molto ambiguo, per cui c’è
stata l’opposizione delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto, però
varrebbe la pena che su tutto questo capitolo ci fosse anche una riflessione su
come si trasportano questi contratti dentro il testo unico. Altrimenti c’è il rischio
che rimangano aperte comunque delle partite normative.
368
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Il secondo intervento, che mi è piaciuto perché ci fa conoscere una realtà diversa dalla nostra, ha suscitato in me una reazione: non può esistere un modello
di relazioni sindacali che sia omogeneo per tutto il territorio e per tutti i settori, essendo noi nella situazione in cui cambia per classe numerica il rapporto
di lavoro. Una grossa fabbrica ha certi numeri, che gli studi professionali, ad
esempio, non possono certo avere e ben altra sarà la rappresentanza.
Al proposito varrebbe la pena che entro la discussione generale si potesse destinare un momento di riflessione ai tipi ed ai modelli di relazioni sindacali che
si possono introdurre nel Paese.
Occorre molta fantasia, però, visto che siamo il sindacato che ama di più non
cavalcare la protesta ed a cui piace molto il merito, anche se siamo in un tempo
in cui cavalcare la protesta forse è più remunerativo, è giusto aprire una riflessione a due mandate, in cui insieme ai datori di lavoro si decida quali sono gli
effetti possibili del modello che si vuole applicare ed insieme si gestiscano tali
effetti. Grazie.
NICOLA PECORARO
(Segretario FISASCAT-CISL Vicenza)
Resto ancora sulla rappresentanza, ma devo dire che ho apprezzato molto
l’ultimo intervento, anche perché mi permetto di dire che si vede la saggezza
della persona, oltre che la conoscenza.
Io avrei bisogno di lanciare preventivamente un allarme sulla rappresentanza: nella nostra categoria, noi rappresentiamo entità molto piccole, per cui mi
preoccupa la doppia chiave della rappresentanza. Da una parte si parla degli
iscritti, la cui certificazione sarà difficoltosa, ma poi si parla anche di accordi e
pratiche non ben identificate. Non vorrei che portare in conteggio delle attività,
che noi facciamo normalmente, poi ci porti al paradosso di volerne fare molte di
più, per avere più rappresentanza.
Nel momento in cui passiamo, come ci hanno insegnato grandi sindacalisti del
passato, la palla all’avvocato, vuol dire che noi in qualche maniera abbiamo
fallito, per cui io non darei molto spazio a questo tipo di misurazioni. Grazie.
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Le RSU nelle ingessature di alcune trattative hanno scavalcato le linee guida
politiche delle proprie segreterie, delle proprie strutture territoriali, piuttosto che
regionali, piuttosto che nazionali.
Questo, a mio avviso, non è un bene, perché è chiaro che ciò ha tolto il gesso
a quel momento di impasse, ma dall’altra parte ciò è in contraddizione con l’ordine della rappresentanza, che in questi giorni abbiamo discusso.
Forse rispetto ad alcuni momenti di impasse bisognerebbe cercare di alzare
il livello, in modo da non far riflettere soltanto le RSU di quell’azienda, di quel
territorio, ma da coinvolgere anche l’apice più alto, quello politico. Grazie.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
369
DOMANDE DAI PARTECIPANTI
Nell’intervento di Marco Lai bisogna sottolineare una questione per me fondamentale: quello della certificazione delle iscrizioni. È vero che andrà fatta la
convenzione con l’Inps, ma noi conosciamo benissimo la realtà del Terziario,
del Commercio e del Turismo e sappiamo che buona parte delle nostre iscrizioni sono brevi manu. Perciò bisogna capire come e dove certificare questo
fatto.
Io stesso non avevo colto, in una brevissima analisi che avevo dovuto fare per
un direttivo unitario, la questione che oltre ai voti delle RSU si contano gli iscritti. Però resta sempre il problema originario: come contiamo quest’iscrizione?
Su questo particolare dobbiamo aprire un confronto: già nei nostri settori siamo bassamente sindacalizzati, se in più ci togliamo le iscrizioni brevi manu,
praticamente rischiamo davvero che, a parte i numeri assoluti, non arriviamo
nemmeno al 5%.
Quindi bisogna capire come e dove certificare queste iscrizioni, perché anche ricorrere agli enti bilaterali o alle commissioni di garanzia potrebbe non
bastare.
L’ente bilaterale ci riporta sempre ad un problema originario che riguarda le
aziende che non sono iscritte: l’azienda che non è iscritta ad un’associazione
datoriale, può non riconoscere l’ente bilaterale, non sentirsi in dovere di dare
all’ente bilaterale delle notizie o dei dati.
Per quanto riguarda invece l’intervento del Dottor Ferretti, mi ha fatto particolarmente riflettere il caso di specie affrontato, perché alla fine lo hanno risolto,
se ho capito bene, con il voto in assemblea dei lavoratori. Questo è un crinale
molto sottile: anche lo stesso accordo sulla rappresentanza dice che, se ci
sono le RSU, si decide a maggioranza, ed a meno che le stesse RSU non
decidano di andare in assemblea e votare, la questione è conclusa lì.
Ecco perché io sostengo che le RSU hanno il potere di condizionare l’azione
dei sindacati, visto che si dice esplicitamente che la loro decisione è vincolante
per tutte le parti firmatarie. Quindi in realtà sono più le RSU che condizionano
il sindacato che non viceversa, anche se è vero che devono essere messe in
lista per le elezioni dalle organizzazioni sindacali.
Se invece ci sono solo le RSA, anche una sola parte sindacale – e sto pensando a quella che è particolarmente conflittuale – può sempre cavalcare l’onda
del referendum e del voto in assemblea. Questa,, secondo me è una questione che resta aperta nel testo della rappresentanza. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Non è che il testo unico si deve adeguare ai contratti collettivi, ma sono i contratti collettivi che si dovranno adeguare al testo unico. I rinnovi contrattuali
che si andranno a fare dovranno tener conto dell’accordo.
370
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Per quello che riguarda chi ha diritto a chiedere le elezioni delle RSU, è tutto
scritto nella parte seconda del testo unico, in cui vengono individuate in maniera molto precisa le modalità per le elezioni. Questa parte è immediatamente operativa, a prescindere da ulteriori accorgimenti da parte delle categorie,
quanto meno per quanto riguarda l’elezione delle RSU.
Quanto al dato delle vertenze individuali, mi pare che voi siate i maggiori testimoni del fatto che la conciliazione avviene attraverso forme di conciliazione
sindacale presso le DTL, quindi non si tratta di rafforzare il ruolo degli avvocati,
ma di valorizzare quanto più possibile il ruolo delle Parti Sociali nella funzione
conciliativa, soprattutto quella fatta presso le DTL.
Al di là del profilo dei contratti collettivi conclusi, può darsi che un settore così
frantumato, in cui le vertenze individuali sono importanti, quanto meno quelle
che sono state risolte in sede sindacale possono rappresentare un dato utile
e importante.
A mio avviso la bilateralità può svolgere un ruolo rispetto al problema del censimento degli iscritti, perché, se si tratta di accertare se il lavoratore è iscritto
oppure no, non c’è necessità che l’azienda sia associata, ma è il lavoratore
che può tranquillamente andare all’ente bilaterale e dimostrare che paga una
tessera, per cui la bilateralità diventa sostanzialmente uno strumento per documentare l’iscrizione.
Questa cosa potrebbe diventare una soluzione anche per le iscrizioni brevi
manu: siccome uno dei punti importanti è il fatto che molte iscrizioni sono date
brevi manu, per evitare discriminazioni o ritorsioni, avere un soggetto fuori
dell’azienda, come la bilateralità, un soggetto neutro, in cui il lavoratore si può
esporre per il dato relativo alla propria iscrizione al sindacato, può essere un
fatto molto positivo. In edilizia succede già così.
L’aggancio tecnico, anche se forse non voluto, nel testo unico si trova là dove
compare una frasetta, che potrebbe aprire ad un riconoscimento del ruolo della bilateralità, la quale potrebbe assolvere anche alla funzione di accertamento
del brevi manu. Il testo recita così: “Ulteriori dati potranno essere rilevati secondo le modalità definite nella convenzione con l’INPS”.
La strada prioritaria è quella del modello Uniemens, però ulteriori dati possono
essere verificati attraverso la convenzione con l’Inps, per cui il vero problema
è come si scrive questa convenzione. Si potrebbe dire nella convenzione che
devono essere conteggiate anche le iscrizioni brevi manu e prevedere la bilateralità come sede in cui dare riscontro rispetto a questo fatto.
Pensate a tutti i lavoratori in somministrazione: dove si coglie il dato dell’iscrizione di questi lavoratori? Mi pare che il contratto dei lavoratori somministrati
sia stato il primo che ha previsto una rappresentanza a livello territoriale, per
cui questa dimensione dell’accertamento delle iscrizioni a livello di territorio
potrebbe essere uno strumento importante.
Il contratto di solidarietà è la prima norma, siamo nel 1984, in cui si consente
praticamente un’espressione erga omnes del contratto aziendale. Si è argomentato che dal momento che il contratto di solidarietà è previsto dalla legge,
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
371
quel contratto stipulato ai fini di tutelare i posti di lavoro con una riduzione di
orario poteva valere anche nei confronti dei dissenzienti, proprio perché questo era consentito dall’articolo 1 della legge stessa.
Mi pare che il tema molto delicato del rapporto tra RSU, RSA e dissenzienti sia
stato molto sviscerato ieri pomeriggio e si è detto che sostanzialmente le RSU,
pure nel testo unico, non sono i titolari esclusivi del potere contrattuale, perché
ci sono alcuni argomenti a limitare tale potere, come il fatto che la contrattazione nazionale deve definire non soltanto le materie, ma anche le modalità, che
le intese modificative devono essere fatte comunque in collaborazione con il
sindacato territoriale, ecc.
Non si può ritenere abrogato l’accordo del 1993, perché si dice che è stato
integrato ma non modificato e siccome il protocollo del 93 dice a chiare lettere
che l’accordo di secondo livello è in capo alla RSU in collaborazione con il sindacato provinciale, secondo questi tre argomenti, avrei qualche dubbio a dire
che gli unici soggetti titolari della contrattazione aziendale, pur scomparendo
la riserva del terzo, possano essere le RSU.
Questo pone il problema del rispetto di quanto qui scritto da parte dei sindacati aderenti non firmatari o dalle strutture territoriali delle confederazioni che
hanno sottoscritto il contratto. Al proposito c’è l’impegno delle sanzioni rispetto
alle organizzazioni non adempienti.
Questo accordo vincola non solo tutte le categorie, ma anche tutte le strutture
territoriali, che in qualche modo aderiscono alle confederazioni.
Da un lato non è esclusivo il potere contrattuale delle RSU, che devono confrontarsi con il sindacato territoriale, dall’altro lato, se quel sindacato territoriale è affiliato alle organizzazioni firmatarie, è tenuto a rispettare i contenuti
dell’accordo. Anche il tema della percentuale può essere letto in due modi, ma
rappresenta comunque un aspetto a mio avviso molto importante.
PAOLO FERRETTI
(Consulente del Lavoro Ancona)
Intanto ringrazio per l’approvazione della sala rispetto a quanto è stato detto.
Per quello che riguarda la questione delle RSU, non sfugge il fatto che le organizzazioni territoriali condividono con le RSU un potere, tant’è che in questo
caso le RSU provinciali si sono staccate dalle RSU elette e noi abbiamo stipulato un contratto ugualmente valido ai sensi di legge.
Della bontà della sottoscrizione delle minoranze sulla teoria dell’accordo gestionale, che richiama l’articolo 1 della legge 863, dobbiamo vedere come si
orienterà il tribunale di Ascoli, al quale alcuni sindacati si sono rivolti per altre
vicende, che hanno riguardato delle aziende che sono scappate all’estero,
ostacolate appunto da alcune organizzazioni che cavalcano la protesta a livello locale.
372
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Mi riferisco alla fuga della Roland, o alla fuga della Barilla dalla zona dell’ascolano. Dobbiamo vedere, perché quelle intese erano state firmate solo da una
parte delle RSU e la parte minoritaria, che cavalcava la protesta, è ricorsa
all’autorità giudiziaria per impugnare la validità del contratto stipulato.
Ecco perché noi abbiamo battuto fortemente sulla necessità di una firma congiunta, per legare tutti ad un unico destino. Tant’è che come condizione iniziale
della trattativa noi avevamo posto l’unanimità per il ritiro della procedura di
mobilità, perché eravamo memori del fatto che le maggioranze delle RSU non
avevano rappresentato una garanzia su analoghe vicende di altre aziende
limitrofe.
Mi fa piacere che sia stato detto che la vicenda deve essere ritenuta di natura
patologica: non è normale che le relazioni sindacali siano spaccate tra RSU e
sigla provinciale, non dovrebbe mai accadere, dovrebbe esserci sempre unità
di intenti e coesione sotto questo profilo e tra l’altro lo dico in un contesto, ad
una organizzazione che fa della negoziazione l’attività principale.
Prima il collega della CISL diceva che qualche volta potrebbe pagare cavalcare la protesta. In termini di tessere probabilmente si, in termini di utilità sociale assicuro di no: non c’è niente di peggio, fermi rimanendo i ruoli, perché
i contratti di lavoro sono a prestazioni corrispettive, voi tutelate una parte, noi
ne tuteliamo un’altra, ma c’è sempre la ricerca del consenso, la ricerca della
soluzione.
Noi consulenti del lavoro ed alcune organizzazioni sindacali abbiamo delle teste volte al problem solving, noi vogliamo risolvere i problemi. Altri non vogliono risolvere i problemi, li determinano, li provocano e li cavalcano e su questo
noi non potremo mai seguirli.
Noi abbiamo questo tipo di pensiero, tant’è – e qui richiamo ancora una
volta il ruolo delle associazioni sindacali – che per i consulenti del lavoro si
apre un panorama di professioni che vanno ben oltre quello del quale noi ci
occupiamo.
Io rifuggo da ogni carica, perché tra le mie funzioni c’è anche quella di essere
arbitro e mediatore camerale, quindi io dedico molti giorni della settimana a
dirimere le controversie in materia di telecomunicazioni, settore che prevede
la controversia obbligatoria. Voi avete la Adiconsum, che gravita all’interno
dell’associazione, la quale ben conosce le problematiche attinenti alle conciliazioni in materia di telecomunicazioni.
E poi abbiamo tutte le condizioni di procedibilità delle cause civili: eredità, affitti
d’azienda, i quali vanno prima in mediazione; invece per le banche la conciliazione è facoltativa, ma ci vanno spesso, per discutere su questioni come, per
esempio, quella dei titoli argentini, per le quali io ho avuto molte mediazioni,
così come sui titoli Cirio o sui titoli Parmalat.
Io credo che i consulenti del lavoro e i loro movimenti sindacali dovrebbero
spingere affinché i consulenti del lavoro si occupino di queste cose, perché noi
abbiamo l’animus conciliandi che altre professioni non hanno. A noi viene meglio e lo dico perché ho una pletora di avvocati che quando si tratta di mediare
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
373
chiamano me. Loro stessi, che hanno la tutela obbligatoria delle parti, non
chiamano un avvocato a presiedere la commissione, preferiscono un consulente del lavoro, perché quest’ultimo ha la testa volta non alla lite giudiziaria,
ma alla soluzione del problema.
È questa la testa che deve avere un sindacato moderato nella tutela degli
interessi della propria parte: io non sto mischiando i ruoli, io sto seduto da una
parte e farò chiaramente gli interessi di quella parte, ma in un’ottica di problem
solving. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Mi pare che sia stata molto interessante tutta la mattinata e ringraziamo ancora Paolo Ferretti per il suo contributo. Passiamo ora alla parte politica e diamo
la parola a Diana Onder.
374
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Intervento di:
Paola Diana Onder
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL_Su)
376
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Faccio un brevissimo intervento per riportarvi i saluti del nostro Presidente,
Francesco Longobardi, il quale non può essere presente per motivi di salute.
Quando il professor Marco Lai ha proposto questo tema ed ha inserito, per
quanto riguarda la nostra categoria professionale, l’aspetto inerente alle questioni aperte della rappresentanza sindacale nel settore del Terziario, Turismo
e Servizi, ma più particolarmente le prospettive della rappresentanza professionale nel settore della consulenza del lavoro, la questione che mi sono posta è stata: come affrontare questo tema dal punto di vista dei consulenti del
lavoro?
L’intervento del collega Paolo Ferretti credo che abbia risposto in maniera
esaustiva, per quanto riguarda il testo unico sull’accordo della rappresentanza,
per cui ritengo di non avere nulla da aggiungere.
Vorrei solamente fare un inciso tornando a quello che è stato l’excursus fatto
ieri dal Segretario Nazionale della FISASCAT, Rosetta Raso, su tutti i protocolli
che si sono succeduti sull’argomento dal 1991, il primo che ha parlato della
regolamentazione delle rappresentanze sindacali unitarie, ripreso poi dal protocollo del 1993, fino ad arrivare al testo unico odierno.
Sono stata sollecitata soprattutto dall’intervento del collega di Trento, Lucchini,
sul diritto circolatorio, che per noi consulenti del lavoro rappresenta un problema non indifferente nello svolgimento della nostra quotidiana attività.
Io ricordo che gli accordi in cui è intervenuto il Governo nel 2008 e che hanno
previsto la detassazione del premio di produttività per noi hanno rappresentato
delle difficoltà circolatorie non indifferenti. Ho in mente la risoluzione dell’agenzia delle entrate che ha rimesso in pista la tassazione sugli straordinari, andando a recuperare i valori che erano stati erogati ai lavoratori dipendenti nell’anno
precedente.
Soprattutto nei primi anni, 2008-2009-2010, ogni anno cambiavano le disposizioni di legge e conseguentemente le prassi applicative. Per noi in effetti il
diritto circolatorio a volte prevarica il diritto nella sua accezione più ampia.
Venendo alle questioni della rappresentanza professionale, l’imbarazzo era
quello di parlare della nostra situazione attuale, perché noi non possiamo parlare di prospettive di rappresentanza professionale e quindi qualcosa che volge
al futuro, se non prendiamo atto della problematica attuale, che noi stiamo vivendo al nostro interno, sul principio che distingue i due ruoli istituzionali degli
organismi che maggiormente ci rappresentano – l’ordine e l’ANCL – come molto bene è stato riepilogato dal nostro collega Ferretti.
Purtroppo per noi professionisti è difficile distinguere il profilo sindacale da
quello ordinistico e fatalmente, quando assumiamo dei ruoli di rappresentanza
nell’ordine piuttosto che nell’associazione sindacale, facciamo un po’ di confusione. E la confusione l’abbiamo vista bene in questo periodo, che io reputo
abbastanza delicato per la nostra associazione.
La nostra associazione nel luglio scorso ha compiuto 61 anni, perché ci siamo
costituiti nel luglio del 1953, e siamo arrivati solo dopo 26 anni, nel 1979, ad un
riconoscimento ordinistico, quindi va dato atto ai nostri padri fondatori di avere
fatto per la nostra categoria dei consulenti del lavoro un lavoro importante a
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
377
livello di persuasione politica, durato a lungo, che non va assolutamente disperso per le vicende che ci stanno riguardando in questi ultimi mesi.
Il problema nostro è il codice di autoregolamentazione del diritto di sciopero per
i consulenti del lavoro, che è stato scritto e presentato dall’ordine e non dall’associazione sindacale. Noi abbiamo lottato, perché io mi sento parte attiva nella
tutela del nostro ordine professionale e mi dispiace quindi che si confondano i
ruoli all’interno dell’ordine.
La prospettiva futura nostra quindi è rivolta a capire al nostro interno chi siamo
e cosa vogliamo e qual è il ruolo che noi rivestiamo, nel momento in cui assumiamo un incarico in un organismo piuttosto che nell’altro.
È un aspetto assai delicato, sul quale noi consulenti del lavoro, soprattutto a
livello dirigenziale, dovremo impegnarci notevolmente per trovare adeguata soluzione. E per trovare la necessaria condivisione, perché vogliamo mantenere
l’associazione sindacale, che è sicuramente quella maggiormente rappresentativa, dal momento che abbiamo 7500 iscritti, circa il 30% di coloro che sono
obbligatoriamente iscritti all’ordine, e fra i sindacati delle categorie professionali
siamo certi di essere quelli comparativamente più rappresentativi.
Quindi abbiamo una forza non indifferente, abbiamo una storia non indifferente,
che vogliamo difendere, ma al contempo vogliamo mantenere anche il nostro
ordine, per il quale abbiamo tanto lottato.
Dal punto di vista organizzativo, per quanto riguarda le due giornate, io sono
molto soddisfatta: ci sono stati degli interventi molto interessanti, in primis da
parte del nostro coordinatore scientifico, Marco Lai, che non si occupa solo della CISL ma anche dalla ANCL. Ogni seminario è sempre molto ben organizzato
anche per le scelte dei docenti, che insieme a Rosetta Raso lui fa.
Interessantissimo è stato conoscere il professor Stefano Bellomo, con il quale
ci rivedremo il 17 ottobre ad Assisi, laddove parleremo di quanto vi ho appena
descritto in un convegno molto più orientato allo statuto dell’intermediario.
Noi come Centro Studi ci siamo occupati di un approfondimento della figura e
del ruolo dell’intermediario telematico: i professionisti in questione sono dei telelavoristi, che rispondono maggiormente alle caratteristiche normative dettate
dalla direttiva della Comunità Europea e non ne sono consapevoli.
Non è vero quindi che la figura dell’intermediario telematico è inventata, è una
figura che il professionista ha assunto da 15 anni senza esserne consapevole.
Noi abbiamo fatto uno studio approfondito su tutte le criticità, le problematiche
e le difficoltà che incontriamo, per il flusso di dati che ci viene richiesto, nei
rapporti con la pubblica amministrazione e con le strutture private, come gli enti
bilaterali, con i fondi di previdenza complementare, con i fondi di assistenza sanitaria, con tutte quelle strutture che ci chiedono un determinato tipo di servizio,
che non è poi adeguatamente compensato.
Ma non è tanto l’aspetto economico che a noi interessa, quanto l’essere presenti al tavolo di predisposizione delle norme, dal momento che le norme hanno una ricaduta diretta e finale su di noi.
Abbiamo perciò predisposto uno statuto dell’intermediario, con cui andiamo a
regolamentare i diritti costituzionali del lavoratore nella sua accezione più am-
378
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
pia, perché non siamo solamente attenti ai diritti dei lavoratori subordinati, qui
siamo tutti lavoratori autonomi ed anche i lavoratori autonomi hanno una loro
dignità riconosciuta dalla Costituzione.
Per la prima volta parliamo di diritto alla maternità, voi sapete che i professionisti e le professioniste non hanno la maternità obbligatoria; parliamo di diritto
alla malattia, voi sapete che noi non ci possiamo ammalare; parliamo di diritto
alle ferie, diritto al riposo, diritto allo sciopero. Quindi è una regolamentazione
articolata, che per la prima volta viene fatta nel mondo delle professioni, e la
facciamo noi come ANCL con l’ausilio del professor Bellomo.
A proposito del professor Ferretti devo dire che ha riassunto molto bene quello
che avrei voluto dire io, perciò lo ringrazio. E ringrazio anche il provocatore Roberto Sartore, ma voglio dire che in questi momenti delicati occorre anche prudenza
nelle argomentazioni che vengono esposte, perché io voglio continuare questi
corsi e voglio andare avanti con la formazione interna dei consulenti del lavoro.
Quindi, per cortesia, aiutatemi in questo. Ringrazio e saluto tutti quanti i presenti.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Siccome Rosetta Raso, Diana Onder ed io ci siamo organizzati per realizzare
un ciclo di seminari nel 2015, mi farebbe molto piacere che, pur avendo noi
qualche idea rispetto agli argomenti che potrebbero essere oggetto dei prossimi seminari, si potessero avere dei suggerimenti da parte vostra in questo
senso.
Noi abbiamo già calendarizzato quattro seminari e vorremmo sapere se i vostri
suggerimenti possono coincidere con gli argomenti che noi abbiamo ipotizzato.
Ma diamo ora la parola a Pierangelo Raineri, che saluto e ringrazio per la sua
presenza. Abbiamo esaminato ieri i contenuti del testo unico sulla rappresentanza anche attraverso uno scambio nei lavori di gruppo; questa mattina abbiamo avuto un’incursione nello scenario economico, che a grande richiesta, quasi
sicuramente, verrà sviluppato poi nel corso del 2015 con argomenti monotematici, e ci siamo poi orientati su quelle che sono le prospettive di estensione
delle regole del testo unico ad un settore ancora non coperto, qual è quello del
Commercio, Turismo e Terziario.
Su questo abbiamo sviluppato un minimo di riflessione, della quale Pierangelo
Raineri è stato già informato, quindi diamo a lui la parola affinché ci dica a che
punto è questa auspicabile intesa, per estendere le regole che le Parti Sociali
sono state capaci di darsi senza bisogno di un intervento legislativo.
Tanto è più veloce e capace il ruolo delle Parti Sociali, inversamente proporzionale è la necessità di un intervento legislativo, fatto soprattutto in una materia
che dal nostro punto di vista deve essere assoluta prerogativa delle Parti Sociali, perché questo è lo spirito che permea il modo con cui noi abbiamo inteso
il diritto del lavoro e il diritto sindacale nel nostro Paese nel corso degli anni.
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Intervento di:
Pierangelo Raineri
(Segretario Generale FISASCAT_CISL)
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La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Grazie a tutti voi. Vedo che la famiglia è cresciuta: lo stavo dicendo a Diana
Onder, con la quale in maniera pionieristica abbiamo iniziato questa esperienza formativa, nata dalla necessità di far dialogare due mondi simili per
alcuni aspetti, ma molto diversi per le esperienze e per i campi d’azione in
cui operano.
All’inizio sembrava una cosa impossibile, perché siamo partiti da una situazione nella quale, mentre oggi siete mescolati gli uni agli altri, consulenti e
sindacalisti, i consulenti stavano da una parte e i sindacalisti dall’altra, poiché c’era una sorta di diffidenza ad affrontare in comune certi temi.
Invece io personalmente ho molto creduto sempre nelle mie esperienze sindacali nei vari territori ad un dialogo tra il mondo del consulenti del lavoro e
quello del sindacato, perché da questo dialogo possono nascere varie soluzioni ai problemi.
Noi vediamo i consulenti del lavoro come soggetti che in questa complessa
società si occupano di un tema che noi, come sindacato, non riteniamo residuale, tanto è vero che questa mattina persino il premier Renzi ha dovuto
affrontare il tema del lavoro con le organizzazioni sindacali e con le rappresentanze delle imprese.
Questa mattina mi sono tenuto in costante contatto con Annamaria Furlan,
che ha partecipato all’incontro con il Premier Renzi sulla materia del lavoro,
ed uno dei temi che caratterizzerà questo incontro, per diversi motivi, è proprio quello che avete affrontato anche voi.
In questi giorni abbiamo avuto delle prese di posizione da parte dei consulenti del lavoro, della ANCL in particolare, su alcuni temi, come quello dell’articolo 18, riguardo al quale l’ANCL ha una posizione abbastanza simile a
quella che ha la CISL: un tema per il quale non occorre un approccio di tipo
ideologico, tramite il quale non si risolverà mai questa questione.
Nel nostro settore, che è prevalente nel mondo del lavoro, noi possiamo
rimarcare che, quando si parla dell’articolo 18, alla fine di tutti i ragionamenti
che si fanno, fatto 100 il mondo del lavoro dei Servizi, che occupa circa 6
milioni di persone impiegate a vario titolo in questa complicata realtà, solamente il 6-7% dei lavoratori è interessato a questa norma.
Di questo 6-7%, secondo noi, quelli che devono continuare ad essere interessati da questo articolo, sono quelli sottoposti a discriminazione, cosa della
quale piano piano anche il Governo si sta convincendo e siamo convinti che
di questo bisogna parlare. Fatti salvi alcuni casi gravi, che sono nell’immaginario collettivo di tutti noi, che ci occupiamo di questi temi, noi crediamo che
questo argomento debba essere liberato dall’ideologia e per fare questo ci
sarà una serie di incontri con il Governo nei prossimi tempi.
Annamaria Furlan mi diceva che il prossimo incontro con il Ministro Poletti
si svolgerà su questi aspetti, che potremmo definire tecnici, anche se tecnici
non sono, perché fanno parte di un nuovo modo di impostare il nostro Paese
per il futuro, in modo da far vedere all’esterno un’Italia che non può essere
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
381
un Paese in cui non è possibile investire, ma una realtà che ottempera alle
condizioni necessarie allo sviluppo.
Tutti parlano di sviluppo, ma se non si realizzano alcune condizioni, che sono
indispensabili, nel nostro Paese, lo sviluppo, per essere ottimisti, tarderà ad
arrivare. Se tarderà ad arrivare lo sviluppo, tarderanno anche a risolversi
alcuni problemi: primo di questi il problema dell’occupazione.
Il rischio che noi corriamo è che si cerchi di prendere alcune scorciatoie, che
si cerchi di dipingere alcune situazioni come importantissime, anche se poi
importantissime non sono, mentre il problema vero è quello di un’Italia che
deve cominciare a competere in un benchmark globale.
Si tratta di un raffronto quotidiano tra ciò che fanno gli altri e ciò che fa l’Italia in termini di competitività, ad esempio, delle pubbliche amministrazioni:
quanto tempo ci vuole per ottenere l’autorizzazione ad aprire un negozio in
Italia e quanto all’estero, quanto costa aprire un negozio in Italia e quanto
all’estero. Questa sorta di raffronto tra il nostro Paese e gli altri è oramai costante e riguarda anche l’argomento principe di cui ci occupiamo noi, ovvero
il costo del lavoro.
Questa mattina un amico mi chiedeva: “Come mai la catena Sheraton ha
abbandonato alcune strutture in Italia?” Sheraton ha acquistato gli alberghi
della Ciga hotel qualche anno fa ed ha ora abbandonato alcune posizioni,
ad esempio quelle degli aeroporti, primo fra tutti quello di Genova, perché Sheraton, come tutte le aziende internazionali, quando arriva in Italia
svolge questo lavoro di benchmark, al quale noi non siamo abituati a far
riferimento, perché abbiamo l’illusione di vivere in una specie di bolla di
sapone, per cui tutto si esaurisce dalla mattina alla sera in ciò che facciamo
noi. Ed invece c’è un mondo esterno in cui alcune catene alberghiere, ad
esempio, o alcune catene commerciali si spostano nel mondo a seconda
delle convenienze.
Innanzitutto esse guardano agli incassi e, a parità di incassi, guardano quanto costa produrre quell’incasso: è un tema che chi è nel nostro consiglio
nazionale della FISASCAT conosce bene, perché noi da un po’ di tempo
stiamo cercando di confrontare i dati, di documentarci, dato che altrimenti
non si comprende come mai il nostro Paese cammina più lento di altri, anche
in un settore importante come quello dei Servizi, che rappresenta il futuro
della nostra area.
È chiaro che il vecchio continente probabilmente avrà sempre meno una
storia di tipo manifatturiero ed avrà sempre più una storia, se sarà in grado di competere, nel settore dei Servizi, del Terziario genericamente inteso.
È verosimile che la produzione manifatturiera si sposti in Paesi nei quali il
raffronto dei costi dà determinati esiti e probabilmente si sposterà anche da
quelli che attualmente sono i grandi colossi dell’economia mondiale, i quali
già cercano delle strade alternative.
382
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Ormai tutti sanno che il più grosso negozio al mondo è Alibaba, un sito che
vende on-line dallo spillo alle case: noi stiamo assistendo a grandi cambiamenti ed il nostro Paese rischia di rimanere fuori da questi processi. Per cui o
ridiamo competitività al nostro Paese, o altrimenti resteremo fuori dal gioco.
Sarà l’articolo 18 a risolvere i nostri problemi? Forse non sarà solo l’articolo
18, ma sarà una serie di altre questioni da affrontare. Il confronto, che si è
aperto questa mattina alle otto, di buon’ora, con il Governo ci auguriamo che
porti qualche risultato, perché finora questo confronto non c’è neanche stato
e già il fatto che si apre un confronto è una cosa positiva.
Però certo anche il sindacato deve cercare di affrontare in un modo un po’
diverso dal passato alcune questioni.
Del confronto col Governo farà parte anche il tema della rappresentanza
ed io credo che bisogna cercare di aprire questo confronto in un modo un
po’ meno scontato che in passato. Non è una nuova regolamentazione, un
nuovo statuto dei lavoratori o dei lavori che dir si voglia, che può bastare al
nostro Paese, in cui c’è bisogno di affrontare in termini complessivi il meccanismo della rappresentanza. Per farlo ci sono due strade: o si sceglie di
eliminare tutti i corpi intermedi, come all’inizio il Governo sembrava voler
fare, oppure si cerca di regolamentarli in qualche modo.
Noi della CISL siamo poco inclini a regolamentazioni per legge della rappresentanza sindacale, sin da quando siamo nati, alla fine degli anni ‘40:
noi siamo per un libero sindacato, che si dà delle regole autonomamente ed
autoregolamenta la propria rappresentanza.
Però di questi tempi è necessario affrontare il tema della rappresentanza:
nel settore industriale e più facile affrontarlo ed è stato realizzato con buona
soddisfazione delle parti un testo unico.
Nei Servizi ciò è più complicato soprattutto per il fatto dimensionale: noi non
abbiamo grandi concentrazioni di lavoratori, come esistono nell’industria, per
cui bisogna cercare di tirar fuori degli indicatori di rappresentanza, che non
sono quelli scontati, come il numero degli iscritti alla CISL, alla CGIL o alla
UIL nella FIAT di Mirafiori.
Noi abbiamo cercato di sviluppare questo discorso con la Confcommercio, che è una controparte poco incline alle grandi innovazioni, visto che
nel momento in cui si è cercato di portare avanti questo confronto, ha fatto
immediatamente retromarcia, allorché a livello confederale abbiamo esposto la necessità di inserire tra i misuratori alcuni dati, che non si limitano a
considerare quanti iscritti ciascuna organizzazione ha, ma che considerano
anche la capacità del sindacato di rappresentare nel territorio le persone. Di
considerare quindi quanti accordi territoriali vengono fatti, quante pratiche di
assistenza sanitaria vengono aperte, ecc., insomma tutta una serie di indicatori misurabili, che vadano oltre il mero dato associativo.
Noi crediamo infatti che debbano essere inseriti in settori particolari come il
nostro degli indicatori, che sono tipici di una rappresentanza più diffusa.
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
383
Tuttavia il vero problema secondo noi in Italia non è quello della rappresentanza dei lavoratori, che pure ci rendiamo conto che deve essere risolto, ma,
dando per scontato che venga affrontato e in qualche modo venga risolto
con degli indicatori obiettivi, in Italia in questo momento – e voi lo sapete
meglio di noi – esiste un grande problema di rappresentanza delle parti
datoriali.
Siamo di fronte ad una situazione balcanizzata: da una serie di associazioni
uniche, siamo passati a 100 associazioni, di cui talvolta non si conoscono
neppure i nomi, tanto l’associazionismo delle aziende è diventato ingovernabile. Noi dobbiamo ogni giorno confrontarci con quante nuove parti sono nate
nel settore del Turismo, con quante ne sono nate nel settore del Commercio,
ecc., tanto è vero che noi abbiamo rinnovato solo per una parte il contratto
del Turismo, mentre per l’altra parte il settore non è assolutamente governato
e neppure governabile per questa divisione tra le varie parti.
Altrettanto vale per il Commercio, dove un tempo esisteva una sola organizzazione, mentre ora la grande distribuzione organizzata agisce per conto
proprio.
Di questi giorni è la notizia che nel settore dei multiservizi si è presentata
una nuova associazione che è CONFIMI, Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana e dell’Impresa Privata, la quale è una divisione di CONFAPI: ogni giorno nasce una nuova associazione, che in questa situazione
non regolamentata pretende un suo ente bilaterale, una propria previdenza
complementare, una propria sanità integrativa, cosa che evidentemente non
può essere.
Bisogna cercare di governare questa situazione, perché altrimenti andiamo
dietro ad un modello che rischia di sgretolarsi sotto i nostri occhi. Noi possiamo avere un grande ruolo, ma anche la vostra associazione può averne uno
altrettanto grande, per impedire che il sistema delle regole vada completamente a gambe all’aria e per evitare di fare il gioco di coloro che punterebbero ad una regolamentazione per legge della contrattazione.
Altro argomento da affrontare infatti sarebbe quello dei salari minimi, esperienza che abbiamo già fatto nel 1962, quando alcuni contratti collettivi nazionali di lavoro sono stati trasformati erga omnes, procedendo però in senso
inverso rispetto a quanto si vuole fare oggi. In quel caso infatti la legislazione
recepì contratti già stipulati, non tentò di imporre dei salari minimi voluti dal
Governo in carica.
Per quanto riguarda la rappresentanza, io credo che dovremo uscire dal
confronto con un meccanismo attraverso il quale si vada a misurare una
rappresentanza reale, che vada oltre la finzione scenica, che adottano alcuni
sindacati autonomi o alcune associazioni datoriali, ma che determini il valore
reale delle associazioni.
Se un’associazione esiste davvero, avrà già creato degli accordi, avrà già
intrapreso delle misure di sostegno al reddito.
384
La rappresentanza tra legge, contrattazione e giurisprudenza
Quest’ultimo è un altro dei temi che abbiamo di fronte: alla scadenza della
cassa integrazione in deroga rischiamo che veramente non ci sia più niente,
se non la ventilata possibilità di uno strumento universale di sostegno al reddito, di cui però al momento nessuno ha ancora parlato nel dettaglio.
Vi ringrazio dell’attenzione.
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sessione mattutina
Intervento di:
Marco Lai
(Responsabile Area Giuslavoristica
Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
388
La riforma della riforma del lavoro
Buongiorno a tutti. Con una certa preveggenza, siccome sappiamo come sta
andando il mercato del lavoro, abbiamo previsto questo quarto momento di
approfondimento sul tema della riforma del mercato del lavoro e lo abbiamo
titolato “La riforma della riforma del mercato del lavoro”.
Era soltanto il luglio 2012, allorquando abbiamo assistito ad una ulteriore importante riforma del mercato del lavoro nei suoi diversi aspetti, ivi compresa
anche la materia dei licenziamenti, ovvero la riforma Fornero.
Proprio in questi giorni, anzi proprio in queste ore, stiamo affrontando le novità
apportate dal cosiddetto Jobs Act. Come voi sapete, il provvedimento è già
stato approvato al Senato, l’8 ottobre, poi è stato approvato alla Camera dei
Deputati alla fine di novembre ed è assai probabile che verrà approvato in via
definitiva o domani, 2 dicembre, o, al massimo, dopodomani, 3 dicembre.
Quindi siamo stati abbastanza tempestivi relativamente all’organizzazione di
un seminario di carattere specifico, proprio deputato alla trattazione dei temi
della riforma del lavoro. Peraltro mi pare di poter dire che ci abbiamo tenuto
tutti a mantenere questo importante appuntamento, nonostante tutto ciò che
sta succedendo.
Sapete infatti delle diverse posizioni del movimento sindacale rispetto non solo
al Jobs Act, ma anche rispetto alla legge di stabilità ed anche rispetto a tutto il
tema dello sciopero: oggi c’è uno sciopero solo CISL per quanto riguarda i lavoratori del pubblico impiego, uno sciopero mirato ad ottenere sostanzialmente
di riaprire una contrattazione, che ormai è ferma da sei-sette anni.
Però la CISL ha deciso di non aderire allo sciopero di CGIL e UIL del 12 dicembre e preferisce dar luogo invece a tre grandi manifestazioni, una domani a
Firenze, un’altra a Napoli e la terza a Milano, nelle quali si cercherà in qualche
modo di entrare nel merito dei problemi, senza configurare scontri di carattere
ideologico, ma cercando di distinguere ciò che è bene da ciò che è male nelle
misure adottate dal Governo, il che corrisponde al patrimonio genetico che da
sempre contraddistingue l’azione della CISL.
Noi abbiamo comunque voluto mantenere questo appuntamento, che ci pareva
importante, pur con le doverose modifiche di programma, perché il seminario
era improntato su due giorni, ma, per i sopravvenuti impegni della componente
sindacale, tutto il dibattito si dovrà concentrare nella giornata di oggi, stante
appunto l’iniziativa che la Confederazione avrà domani a Firenze, di cui parlavo
poc’anzi.
Infatti noi domani aderiremo alla manifestazione, che si terrà alla Leopolda, per
testimoniare il nostro impegno rispetto a questa importante scelta, che la CISL
ha fatto, di intervenire nel merito dei problemi.
Il programma odierno prevede una presentazione, presumo abbastanza rapida, sia da parte di Diana Onder, che da parte di Rosetta Raso, a proposito degli
obiettivi di questi seminari, che sono stati programmati già anche per il 2015,
perché si vuole dare una linea di continuità a questo intervento formativo, che ci
pare molto importante e che sicuramente per il Centro Studi CISL rappresenta
un’esperienza molto importante, stante la sua unicità.
La riforma della riforma del lavoro
389
Dopo la presentazione partiremo dall’intervento del professor Alberto Berrini
intitolato “Dalla contrazione alla stagnazione: le criticità del capitalismo”. Noi
abbiamo chiesto al professor Berrini di tracciarci il quadro macro economico attuale, all’interno del quale collocare poi i provvedimenti di carattere normativo.
Ricordo che non c’è soltanto il Jobs Act in approvazione, ma c’è anche la legge
di stabilità, che è strettamente collegata al Jobs Act, nel senso che alcune misure di sgravi contributivi per le assunzioni con contratto di lavoro subordinato
a tempo indeterminato, magari anche a tutele crescenti, sono strettamente previste nella legge di stabilità.
Questi interventi, dal punto di vista normativo, saranno risolutivi rispetto allo
scenario di carattere macroeconomico entro il quale noi ci collochiamo? Come
si inserisce questo intervento sul piano interno rispetto ad una strategia economica sul piano internazionale ed europeo? Rispondere a queste domande è
l’obiettivo che sostanzialmente noi indichiamo al professor Berrini.
Contrariamente a quanto abbiamo fatto nel seminario precedente, nel corso
del quale l’intervento del professor Berrini si collocava all’interno del percorso
seminariale, questa volta sarà lui a fornirci un affresco dal punto di vista economico e macro economico, rispetto al quale noi poi valuteremo gli interventi
di carattere normativo.
Al suo intervento infatti seguirà una prima relazione di carattere tecnico-normativo da parte del professor Giuliano Cazzola, membro del comitato scientifico di
ADAPT, in cui si presenteranno in maniera molto puntuale gli elementi essenziali della delega sul Jobs Act.
Bisogna infatti stabilire se la delega sarà generica oppure no, alla luce anche
delle modifiche che sono state apportate in sede di emendamento alla Camera
dei Deputati e che non dovrebbero essere rimesse in discussione al Senato.
Nei giorni scorsi gli emendamenti proposti al Senato sono stati tutti bocciati,
perché altrimenti non si arriverebbe mai, in questo andirivieni tra Camera e
Senato, all’approvazione della legge delega, mentre è auspicabile che entro
domani si chiuda tutto, in modo che poi si possa partire con i decreti attuativi.
La velocità dell’operazione dipende dal fatto che questo provvedimento deve
essere strettamente legato alla legge di stabilità. Il Governo nella delega ha
anche previsto che il termine di 15 giorni di vacatio legis in questo caso non vi
sia: sarà una legge che entrerà in vigore il giorno dopo la sua pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale. Ciò sta a giustificare la necessaria velocizzazione dei tempi
di approvazione.
Dopo l’intervento del professor Cazzola, ci sarà una prima fase di dibattito.
Nel pomeriggio avremo l’intervento del professor Emmanuele Massagli, che
è Presidente di ADAPT, un giovane molto brillante e molto capace, il quale ci
aiuterà ad entrare ancor più nel merito, ad esempio approfondendo gli aspetti
che hanno a che fare con il lavoro giovanile presenti nel Jobs Act.
Rispetto a queste linee essenziali della riforma dirò poi qualche cosa anch’io,
perché tutti noi siamo impegnati in una lettura attenta della riforma e lo siamo
stati anche nei due mesi precedenti, perché è molto probabile che i decreti attuativi siano scritti prima dell’approvazione della legge di riforma.
390
La riforma della riforma del lavoro
Se si doveva intervenire dunque, bisognava farlo un mese-due mesi fa ed è
quanto noi abbiamo cercato di fare, per cui ora si tratta di stabilire quali sono
stati gli esiti di questa manovra più o meno formale di correzione delle linee
guida.
Il problema è che la legge delega uscirà presto e dopo pochi giorni uscirà il
primo decreto attuativo, per cui non ci sarà poi un grande spazio di manovra:
quello che si doveva fare, deve essere già stato fatto.
Seguirà un’ulteriore sessione di confronto, dopodiché avremo gli interventi politici da parte della Presidenza nazionale di ANCL e del Segretario Generale
della FISASCAT, Pierangelo Raineri.
Dopo cena è previsto un approfondimento: siccome le tematiche da affrontare
sono molte e siccome mi pare che vi sia la disponibilità di tutti a parlarne in
uno scambio, in cui ciascuno esprime il proprio punto di vista nell’ambito di una
stima reciproca, abbiamo previsto dopo cena questo momento di confronto, al
quale io personalmente ho dato la mia totale disponibilità, perché è abbastanza
assurdo pensare di risolvere tutti i problemi di approfondimento di questa tematica nell’arco della giornata.
A mio parere questo è il secondo Jobs Act, perché un primo Jobs Act è costituito dalla legge n. 78 del 2014, che riguarda i contratti a tempo determinato
e l’apprendistato. Siccome è assai improbabile che oggi pomeriggio si possa
discutere della legge n. 78, allora forse, rinviando la discussione alla sessione
serale, potremo parlare anche della legge n. 78.
Detto questo, lascio la parola a Diana Onder per la sua introduzione, ringraziandola per tutto l’impegno che profonde per la sua associazione e per mantenere alto il profilo di approfondimento sul piano formativo di questi seminari,
tanto importanti per il Centro Studi della CISL. Grazie.
391
Intervento di:
Paola Diana Onder
(Coordinatrice Centro Studi Nazionale ANCL_Su)
392
La riforma della riforma del lavoro
Buon giorno a tutti. Anche per noi della ANCL questa è un’esperienza molto
importante, anche se non è molto partecipata dai nostri colleghi consulenti del
lavoro, il cui numero vorremmo che fosse un po’ più consistente. Tuttavia devo
dire che coloro che hanno partecipato, hanno compreso l’importanza formativa
che questi seminari rappresentano per la nostra categoria.
Ringrazio tutti i presenti, i quali per la maggior parte sono appunto le persone
che abbiamo imparato a conoscere in questi tre anni di seminari congiunti,
incontri che oramai non rappresentano neppure più una sperimentazione, ma
sono diventati una certezza, la quale, a mio avviso, deve avere continuità, almeno per quanto riguarda il Centro Studi nazionale della nostra associazione
sindacale.
Mi fa piacere che ciò venga riconosciuto sempre e comunque anche negli interventi che vengono fatti dal Coordinatore Scientifico, professor Marco Lai, e
dalla rappresentante della FISASCAT, con la quale al momento stiamo collaborando, Rosetta Raso, perché sicuramente questa sperimentazione che, come
dicevo, è oramai diventata una certezza, è unica a livello nazionale.
Terminiamo oggi, con questo ultimo incontro, la serie dei seminari del 2014,
affrontando la riforma della riforma del mercato del lavoro e trovandoci molto
ben centrati nei tempi, pur senza aver previsto, quando abbiamo ipotizzato
questo incontro e le date in cui svolgerlo, che vi sarebbe stata questa singolare
coincidenza con i tempi di approvazione di questo secondo intervento di riforma
del mercato del lavoro.
In effetti sempre più, per risolvere le problematiche che la crisi ha comportato a
livello di disoccupazione, come poi sentiremo nell’intervento del Dottor Berrini,
è stato necessario un intervento politico continuo e costante, quasi annuale,
sulle tematiche del mercato del lavoro.
Abbiamo già approntato il calendario dei seminari per l’anno 2015, ma non abbiamo ancora individuato gli argomenti, perché essi saranno strettamente legati
all’attualità: noi cercheremo di cogliere le situazioni più importanti da disquisire
nell’ambito di questa attività congiunta fra le due associazioni sindacali.
L’edizione odierna è diversa rispetto alle nostre abitudini, perché concentriamo
in una sola giornata ciò che avrebbe dovuto essere sviluppato nell’arco di due
giornate ed evidenzieremo l’idea, il modo di sentire la riforma del mercato del
lavoro dalla parte dei professionisti nell’intervento del nostro Presidente nazionale, che chiuderà i lavori oggi pomeriggio.
Ci sarebbe piaciuto partecipare insieme agli amici sindacalisti alla manifestazione che ci sarà domani alla Leopolda: chi di noi potrà farlo, interverrà a titolo
personale, perché non abbiamo avuto il tempo di organizzarci come associazione.
Io auspico comunque che questi seminari possano continuare a lungo nel tempo, magari aprendoli anche alla partecipazione di altre categorie sindacali, facenti parte della CISL, come avevamo inizialmente prospettato. È un discorso
che deve mantenersi in crescita, per dare sempre più qualcosa di tangibile, di
importante, di interessante, di costruttivo al nostro lavoro e per soddisfare le
finalità di questi corsi.
La riforma della riforma del lavoro
393
Noi dobbiamo raggiungere l’obiettivo del mantenimento dell’impresa e del posto di lavoro, ciascuno rappresentando le due parti che le nostre associazioni
tutelano.
Noi facciamo tanti auguri alla CISL e alla FISASCAT per tutto quello che in
questo momento le riguarda e si prospetta. Noi siamo sicuramente vicini a questo sindacato riformista ed io personalmente condivido anche gli interventi del
vostro Segretario Generale, Annamaria Furlan, rispetto alla situazione politica
che stiamo vivendo. Grazie.
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Intervento di:
Rosetta Raso
(Segretario Organizzativo FISASCAT_CISL)
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La riforma della riforma del lavoro
Buongiorno a tutti. Grazie Diana, accolgo volentieri questo incitamento rispetto
a tutta la situazione che come CISL stiamo vivendo. Devo dire che è una bella
sfida quella a cui accennava l’amica Diana, allorché ha affermato che l’ANCL
avrebbe potuto partecipare alla nostra manifestazione di domani.
Ci accomuna dunque non solo la volontà di ragionare sulla formazione, per tentare di trovare maggiori sinergie e occasioni di collaborazione, visto che come
operatori sindacali e come consulenti del lavoro entrambi tuteliamo il lavoro.
Questo è il nostro compito nei luoghi di lavoro, questo è lo spirito di conciliazione e di confronto che si attua nei territori.
Bisognerebbe poi approfondire questo percorso rispetto al fatto di conoscersi
meglio sul territorio, in funzione degli obiettivi che ci siamo prefissati, ma la
provocazione che ci veniva da Diana è veramente sentita rispetto ad una condizione: la CISL in questo momento vuole proteggere il lavoro autonomo in tutte
le sue forme.
In questo Diana Onder ha ragione: noi diciamo che siamo contro il falso lavoro
autonomo delle partite Iva non genuine e dell’associazione in compartecipazione, ma, nel tutelare il lavoro dipendente, questa nostra posizione è finalizzata
alla difesa del vero lavoro autonomo.
A noi interessa la tutela del lavoro dei professionisti in tutte le sue forme: non
solo il rapporto di collaborazione dei Co.Co.Co o dei Co.Co.Pro, ma anche il
lavoro autonomo vero e proprio. Questa è una sfida che noi come sindacato
abbiamo raccolto.
Non a caso in uno dei seminari precedenti il professor Marco Lai ci ha spiegato
quali sono le diverse tipologie di contratto e che cosa intende fare la CISL per
ciascuno di essi.
Mi dispiace aver dovuto contrarre quest’ultimo seminario del 2014 in un’unica giornata, perché so che gli amici consulenti del lavoro hanno dovuto organizzarsi per programmare la partecipazione a questo incontro. E tuttavia con
Marco Lai e Pierangelo Raineri, d’accordo con Diana Onder, abbiamo preferito
concentrare la trattazione dell’argomento in una sola giornata, piuttosto che
spostare il seminario, proprio per rispettare gli impegni di ciascuno di voi.
Come sapete, noi non aderiamo allo sciopero generale del 12 dicembre, ma
non per una presa di posizione rispetto al fatto che la CGIL aveva previsto uno
sciopero ponte e poi si è accodata alla decisione della UIL di spostarlo al 12
dicembre, per cui le due organizzazioni si sono salvate a vicenda rispetto alla
possibilità di avere una minore visibilità, se avessero organizzato due distinte
manifestazioni.
La nostra non è una posizione di principio, non è una posizione determinata da
motivi diversi da quelli che abbiamo già dichiarato. Ci dispiace non poter agire
unitariamente, ma noi non crediamo ad uno sciopero fatto giusto per farlo, senza avere dei veri obiettivi.
Ciò che si deve definire nel processo di cambiamento avviato da Renzi, lo si
deve stabilire attraverso il confronto, portando a casa pezzi di trattativa attraverso il dialogo, la chiarezza, la trasparenza.
La riforma della riforma del lavoro
397
Ecco perché la CISL ha deciso di realizzare queste tre grandi manifestazioni,
che domani riguarderanno le Regioni dell’Italia centrale, dopodomani quelle del
Sud, che si ritroveranno a Napoli, mentre la manifestazione di Milano raccoglierà i delegati delle Regioni del Nord.
Noi della CISL non siamo il sindacato che vuole fare la protesta a tutti i costi, magari per sostenere una fazione piuttosto che l’altra tra quelle che sono
in lotta all’interno del Partito Democratico. Noi vogliamo fare manifestazioni e
protestare, ma nel contempo avanzando delle proposte concrete: noi siamo il
sindacato della protesta nella proposta.
I delegati sindacali sicuramente avranno letto le proposte che noi abbiamo
avanzato sia nei confronti della legge di stabilità che nei confronti del Jobs Act:
tante modifiche, che sono già state apportate ai due provvedimenti, sono frutto
proprio del confronto fatto.
Ad esempio, a proposito del salario minimo, noi abbiamo detto apertamente
che questa misura va contro i contratti collettivi di lavoro, per cui accetteremmo
che vi fosse solo per chi non ha una contrattazione collettiva. Bisogna chiarire
che quando un’azienda esce da un’associazione datoriale, così come è capitato, deve comunque continuare ad applicare i salari minimi previsti dai contratti
collettivi nazionali di lavoro. Su questo punto la nostra posizione è stata oltremodo chiara ed è una posizione finalizzata ad impedire la più totale anarchia in
questo delicato ambito.
Gli effetti di questa crisi, che non è simile a quelle che l’hanno preceduta, richiedono investimenti da parte dell’Europa, modifiche al patto di stabilità: non si può
affrontare la crisi con le vecchie logiche, occorrono investimenti concreti.
Sicuramente i colleghi hanno ben compreso qual è la nostra posizione, una
posizione comprensibile e condivisibile a tutti i livelli dell’organizzazione: è importante dunque che si partecipi a partire da domani a queste manifestazioni.
Bisogna comprendere la posizione della CISL in questo momento: non ha una
posizione ideologica, ma è determinata a protestare e nel contempo ad avanzare delle proposte concrete, che devono nascere dal confronto.
Diamo merito al professor Lai per il lavoro che ha svolto sul Jobs Act, lavoro che
ha prodotto diversi articoli, i quali sono stati pubblicati e messi in rete dalla CISL
attraverso le proprie circolari: la maggior parte di ciò che la CISL ha elaborato
su questo particolare argomento, è frutto del suo lavoro.
Quando ho letto il suo lavoro per la prima volta, ho subito potuto notare la sua
acutezza e la sua chiarezza espositiva, che bene si confà alla chiarezza della
nostra posizione su questi argomenti.
Vi auguro buon lavoro e vi ringrazio della vostra partecipazione a questi seminari. Auspico che possiate partecipare anche a quelli che abbiamo già calendarizzato per il 2015, perché questa esperienza dimostra concretamente
che non sempre i protocolli che vengono sottoscritti dalle associazioni sindacali
rimangono inerti nei cassetti.
Questa volta è stato un protocollo applicato e reso operativo e credo che per
tutti noi abbia costituito una bella esperienza, anche in considerazione del fatto
che quest’esperienza rimane unica in tutto il territorio nazionale.
398
La riforma della riforma del lavoro
La formula della formazione continua, che si fa a livello europeo, corrisponde
a questo modello e nei bandi di partecipazione si chiede sempre che questa
formazione sia fatta in concomitanza da parte delle associazioni sindacali e di
quelle datoriali o di quelle che rappresentano le imprese.
Tutto ciò corrisponde pienamente alla nostra concezione del dialogo, perché
noi riteniamo che è attraverso il dialogo che si può tutelare il lavoro e si possono
difendere i lavoratori. Grazie.
MARCO LAI
(Responsabile Area Giuslavoristica Centro Studi Nazionale CISL Firenze)
Entriamo ora nel merito. L’affresco di carattere economico, che ci serve per
capire poi le finalità degli interventi normativi, è affidato al professor Berrini.
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Intervento di:
Alberto Berrini
(Economista)
400
La riforma della riforma del lavoro
Rispetto alla situazione economica attuale innanzitutto va sottolineato il fatto
che il mondo è veramente cambiato, per cui, se non ci si rende conto che nel
2007 si è verificata una cicatrice permanente tale che, anche se la crisi finisse
domani mattina, il mondo non sarà mai più quello che era prima, non si può
capire il contesto e non si può fare una valutazione corretta di quello che sta
accadendo.
Faccio un esempio concreto: nelle ultime elezioni americane di mid-term molte
sono le cause per cui il Presidente Obama ha registrato un così grave insuccesso, ma una delle interpretazioni che sono state date è che gli americani
non hanno valutato l’operato della politica economica di Obama sulla base di
come ha risposto alla crisi, per esempio, facendo un confronto con ciò che sta
accadendo in Europa, che sarebbe assolutamente a vantaggio degli Stati Uniti,
ma molto probabilmente gli americani hanno giudicato l’operato di Obama chiedendosi se si era tornati ai livelli del 2007, oppure no.
È chiaro che, se si ragiona così, il giudizio non può che essere negativo. Se
noi valutiamo ogni azione del Governo, o di una organizzazione sindacale o di
una qualsiasi associazione, sulla base di questo principio, come se il mondo
non fosse cambiato, è evidente che il giudizio non potrà che essere fortemente
negativo.
Se non si capisce dunque in che fase siamo, non saremo neppure in grado di
dare un giudizio realistico. Questo non vuol dire che per questo motivo deve
andare bene tutto, anzi è esattamente il contrario: siccome il mondo è cambiato, se le nostre azioni non cambiano paradigma, non cambiano radicalmente
il modo di vedere e di operare, se facciamo delle politiche economiche che
sono inerziali rispetto all’andamento dell’economia, è chiaro che le cose non
possono migliorare.
Uno degli articoli che abbiamo scritto su richiesta di Annamaria Furlan era intitolato proprio “Cambiare verso, come dice il Governo, o cambiare paradigma?”
Nelle nostre note alla legge di stabilità noi diciamo che, se non si cambia il paradigma, non si andrà molto lontano, perché questa è una crisi strutturale.
Ciò vuol dire che riguarda il lungo termine e che cambiano i parametri fondamentali dell’economia e della società, perciò noi dobbiamo avere entrambi
questi atteggiamenti: un atteggiamento che capisce che il mondo è cambiato,
che le cose sono molto complesse, molto problematiche, per cui dobbiamo
cambiare gli occhiali con cui osserviamo e valutiamo le situazioni, ma dall’altro
lato, proprio perché il mondo è cambiato, ci occorre anche un atteggiamento
capace di comprendere che, se non si cambiano radicalmente il modo di agire
e le proposte, non si andrà da nessuna parte.
A proposito della CISL è stato giustamente usato il termine “sindacato riformista”: come diceva Federico Caffè, il riformista non è un moderato, è più rivoluzionario dei rivoluzionari, perché ha un’idea radicalmente diversa da quella
della società in cui vive, ma, invece di rimandare ad un paradiso in terra più o
meno realistico, più o meno lontano nel tempo, che però non ci sarà mai, gradualmente affronta i temi e avanza delle proposte alternative.
La riforma della riforma del lavoro
401
Io ovviamente non entro nelle problematiche del mercato del lavoro, che non è
il mio campo, ma, quando diremo qualche cosa sulla legge di stabilità, vedremo
che il nodo fondamentale, per cui si cambia verso, ma non si cambia paradigma, è che la questione crescita ed in particolare la questione investimenti non
sono affrontate adeguatamente.
L’elemento fondamentale è che la variabile investimenti è la variabile cruciale,
quella che oggi sta andando molto male, non solo in Italia, ma in tutta Europa
e che non è affrontata, secondo noi, adeguatamente. Se questa variabile non
cambia verso, tuttavia non potremo uscire da questa situazione.
Si può ricostruire la storia economica degli ultimi 100 anni sulla base dei paradigmi economici che l’hanno interpretata e delle politiche economiche che
hanno seguito questi paradigmi.
Se torniamo a fine ottocento, inizi del novecento, abbiamo un’epoca assai simile a quella nostra anteriore al 2007: un’epoca di globalizzazione e di libero
mercato. Il mondo dei primi del novecento relativamente al Pil, la ricchezza di
allora, anche in considerazione che la Cina e l’Africa erano in situazioni completamente differenti da quelle odierne, non era meno globalizzato di oggi, tanto è vero che, se riguardate i filmati relativi alla crisi del 29, vedrete come la
crisi, che partì da Wall Street, poi colpì a livello mondiale.
La vera differenza tra la globalizzazione attuale e quella di allora è che la nostra
è una globalizzazione anche finanziaria, in cui i mercati finanziari hanno un
grosso ruolo e ciò produce degli effetti molto particolari e pesanti.
Se diciamo che la globalizzazione attuale ha delle caratteristiche molto particolari, io sono assolutamente d’accordo, ma non è un fatto in sé originale nella
storia dell’economia.
Questa epoca di globalizzazione e di libero mercato finisce appunto con la crisi
del 29. Tralasciamo le cause della crisi di allora, ma anche in quel caso ci fu
una situazione analoga a quella provocata dal fallimento della banca Lehman
Brothers, che si trasformò in una crisi globale.
A differenza di quel che abbiamo fatto nel 2007-2008 con l’intervento delle
banche centrali e dei Governi, in quel caso non si fece nulla e la crisi diventò
planetaria e spaventosa, tanto da divenire la vera causa della seconda guerra
mondiale, perché non ci sarebbe stato il nazismo senza la crisi del 29.
Passarono molti anni, ma la vera risposta alla crisi, almeno a livello di sistema
democratico, si ebbe solo nel 33 con l’elezione di Roosevelt, un Presidente democratico, che in quel caso appunto non cambiò verso, ma cambiò paradigma
all’economia.
Quando le crisi sono particolarmente gravi, o si dà una risposta democratica, oppure si ha una risposta autoritaria o populista: non può non esserci una
risposta, perché, quando ci sono milioni di disoccupati, una risposta diventa
indispensabile.
Storicamente abbiamo avuto due grandi risposte alla crisi del 29: il nazismo,
ovvero una risposta autoritaria, e il new deal, il nuovo patto di Roosevelt. È importante l’esperienza del new deal, perché pone i pilastri fondamentali di quello
che sarà il trentennio successivo, ovvero i pilastri di un capitalismo keynesiano,
un capitalismo di libero mercato, ma regolato.
402
La riforma della riforma del lavoro
Quali sono i pilastri di questa regolazione? Roosevelt non comincia a fare le
dighe con l’intervento dello Stato, ma dopo quattro mesi dal suo insediamento
emana una legge che regola i mercati finanziari, che distingue tra banche d’affari e banche commerciali. Che cosa ci ha insegnato il new deal, che noi non
abbiamo capito? Roosevelt ha detto: “Se voglio fare una politica economica,
una politica fiscale di sostegno all’economia, non posso farla sino a che ho
sopra la testa la spada di Damocle dei mercati finanziari”.
Pensate all’Europa: poiché noi, come abbiamo fatto, non abbiamo regolato i
mercati finanziari, poiché, magari per salvare alcune situazioni economiche,
abbiamo allargato il bilancio statale, gli Stati hanno poi subito gli attacchi speculativi sui titoli di Stato. Si veda, ad esempio, il discorso relativo allo spread nel
periodo 2011-2012 in Europa. Quindi è chiaro che occorre innanzitutto regolare
i mercati finanziari.
Secondo pilastro del capitalismo regolato è appunto l’intervento dello Stato,
comunque sempre in una logica liberale, per cui l’intervento statale non sostituisce quello privato, ma interviene quando il privato non è in grado per vari motivi
di intervenire. In ogni caso si tratta di un intervento a sostegno dell’economia.
Terzo pilastro, che non compare nella politica di Roosevelt, ma sarà introdotto
successivamente, sono gli accordi sui cambi, che verranno fatti a Bretton Woods nel 1944, cioè alla fine della seconda guerra mondiale. In quella cittadina
ai confini tra gli Stati Uniti e il Canada si incontrarono tutti gli esperti finanziari a
livello mondiale – all’inizio anche i russi, che poi si ritireranno in conseguenza
degli accordi di Jalta – i quali stabilirono le nuove regole dei movimenti dei capitali internazionali e dei movimenti dei cambi.
Se si regolano i mercati finanziari, si regolano i cambi, si regola l’economia,
avremo pur sempre un capitalismo, ma molto regolato ed infatti questi pilastri
hanno retto dal 1945 fino a metà degli anni 70.
Notate lo schema che si è venuto così a determinare: globalizzazione – libero
mercato – crisi – cambio di paradigma.
A metà degli anni 70 questo modello va in crisi, alcuni dicono per motivi
esclusivamente economici, perché nel 1974 il prezzo del petrolio quadruplicò
in 15 giorni, quindi abbiamo avuto una recessione abbinata all’inflazione, una
cosa che in sé non avevamo previsto, una crisi quindi fondamentalmente
energetica.
Altri dicono che la causa è da attribuire ad un’eccessiva presenza dello Stato,
altri ad un’azione troppo incisiva del sindacato, altri perché era calata la produttività, altri perché erano calati gli investimenti, … insomma ci possono essere
3.000 motivi, ma rimane il fatto che questo modello va in crisi ed abbiamo dal
79 in avanti il ritorno al libero mercato, a cui seguono i trent’anni del cosiddetto
neo liberismo.
La data storica in questo caso è l’ottobre 1979, perché Paul Volcker, che allora
era il governatore della Banca Centrale americana, per reagire alla crisi, pose
in atto una grande operazione. Il problema allora era l’inflazione, per cui egli,
per combattere questo fenomeno, alzò in maniera pesante i tassi di interesse.
La riforma della riforma del lavoro
403
Questo cambiamento di paradigma è importante perché nei trent’anni precedenti lo slogan era stato no more unemployment (non più disoccupazione),
dato che nella memoria storica era ancora vivo lo schema crisi – disoccupazione – nazismo.
Lord William Beveridge allora diceva a proposito del welfare state: “Noi non difendiamo i poveri solamente perché è moralmente giusto, ma perché la povertà
è l’humus del nazismo”. Quindi in quei trent’anni la memoria della seconda
guerra mondiale fece sì che si pensasse che il problema peggiore fosse costituito dalla disoccupazione.
Dal 79 invece nella logica neo liberista prima di tutto si afferma il principio no
more inflation (non più inflazione): sono le banche centrali che condizioneranno
l’economia, alzando i tassi di interesse, per combattere l’inflazione.
Chi crea crescita e occupazione allora? Saranno le privatizzazioni e le liberalizzazioni della signora Thatcher e del Presidente Reagan, ovvero la scommessa
che sarà il mercato a farsi carico di questa nuova situazione. Questo trentennio
neoliberista fondamentalmente finirà nel 2007 con la crisi sub prime.
Se è vero che c’è un cambio di paradigma, se è vero che il neo liberismo è un
tentativo di rispondere ad un modello socialdemocratico, che a metà degli anni
70 era fondamentalmente e sicuramente in crisi, il punto è però che fin da subito è evidente che questo modello non dà i risultati che si prevedevano.
Ad esempio, questo modello prevedeva alti tassi di interesse, quindi una politica monetaria restrittiva, mentre al mercato sarebbe spettato di risolvere gli
altri problemi. Ma in realtà questa cosa non funziona, perché fin da subito, in
particolare di fronte alla crisi finanziaria del 1987 – ricorderete che ci fu un crollo
a Wall Street – la politica monetaria diverrà una politica espansiva, quindi l’idea
che il mercato potesse risolvere tutti i problemi, già dai primi anni 80 comincia
a non funzionare.
Secondo alcune interpretazioni la crisi finanziaria dei sub prime deriva proprio
da questo fatto: siccome l’economia non ripartiva adeguatamente, per farla ripartire abbiamo dovuto fare delle politiche monetarie continuamente espansive, il che ha permesso di creare delle bolle, che alla fine sono scoppiate.
E così Alan Greenspan, Presidente della Federal Reserve, la Banca Centrale
degli Stati Uniti d’America, dal 1987 al 2006, che fino a pochi anni fa era visto
come il profeta del neoliberismo, di un’economia, in particolare quella americana, sempre in crescita, oggi è accusato di aver fatto una politica monetaria
troppo espansiva.
In particolare questa politica può essere anche giustificata dal famoso attacco
alle torri gemelle: potrebbe essere servita per evitare la pesante recessione,
che sarebbe derivata da quell’attacco terroristico, che cambiò le aspettative
degli operatori internazionali, ma sta di fatto che Greenspan è accusato oggi di
aver creato in realtà le basi per la bolla del 2007.
Il problema è che già dai primi anni 90 abbiamo un periodo di aspettative deboli:
non importano le motivazioni, se a prevalere è la logica keynesiana oppure
quella liberista, rimane il fatto che i tassi di crescita del trentennio 45-75 non
siamo stati più in grado di riprodurli e che questa cosa è andata avanti fino al
punto in cui è scoppiata la crisi sub prime nel 2007.
404
La riforma della riforma del lavoro
Oggi sostanzialmente sentiamo parlare innanzitutto di grande contrazione. Ci
sono due economisti americani, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, i quali
hanno detto che questa non è in effetti una grande recessione, ma è soprattutto
la grande crisi finanziaria che ha provocato la grande crisi economica.
Grande contrazione significa che tutto si contrae, cioè che tutto ciò che abbiamo a disposizione in qualche modo si rimpicciolisce. Un po’ perché ci sono altri
attori nel mercato, che prima non c’erano, un po’ perché l’economia non cresce
più come cresceva prima.
Bill Gross, che ora ha cambiato società, ma che allora era il gestore di Pimco,
il più grande fondo obbligazionario mondiale, il quale gestiva miliardi e miliardi di dollari, ha coniato il termine di new normal, cioè di nuova normalità: noi
dobbiamo renderci conto che il mondo è cambiato, che la frattura del 2007 è
insanabile.
Ciò non vuol dire che non c’è una risposta e che non se ne esce, ma comunque
si è prodotta una lacerazione, per la quale le prospettive sono cambiate e noi
dobbiamo adeguarci alla nuova normalità.
Anche perché, se lo vediamo dal lato del mondo occidentale, dal 2000 in avanti
le cose per noi sono completamente cambiate. Pensate dal 2000 ad oggi quanto l’economia mondiale si è spostata da ovest verso est: nel 1904 la più grande
impresa automobilistica a livello mondiale è la Ford, la quale, per realizzare il
modello T, inventa la catena di montaggio, ma 100 anni dopo, nel 2004, il primo
produttore industriale è la Toyota, che è un’azienda giapponese. Il mondo 100
anni dopo è completamente diverso.
Pensiamo poi ai cambiamenti demografici, pensiamo ai cambiamenti climatici,
che stiamo sperimentando sulla nostra pelle: è un mondo completamente diverso, che ha problematiche completamente differenti.
L’elemento fondamentale è che noi possiamo prendere atto di questa situazione e cambiare paradigma, cambiare modo di vedere e affrontare le cose,
oppure fare finta che non sia successo nulla.
La nostra critica deriva dal fatto che, mentre di fronte alle grandi crisi precedenti
il paradigma è veramente cambiato, ora non sta accadendo la stessa cosa.
Il new deal di Roosevelt è stato una rottura anche ideale di come concepire
l’economia, di come guardare al mercato e altrettanto è successo a fine anni
70, perché di fronte a certe manchevolezze di quel modello c’è stata la risposta
neoliberista.
Ma quando nel 2007 oggettivamente il neoliberismo ha dichiarato fallimento,
perché, come scriveva allora Il Sole 24 Ore, il massimo del liberismo aveva
provocato il massimo della statalizzazione, il sistema finanziario inglese fondamentalmente è stato nazionalizzato, mentre in America non hanno fatto così: lo
Stato, per salvare le banche, ha semplicemente comprato le loro azioni, anche
se si è badato a che rimanessero sempre degli enti privati, ed oggettivamente
oggi gli americani non sarebbero in questa situazione positiva, se non ci fosse
stato un importante intervento statale.
Il paradigma comunque non è effettivamente cambiato e questa mancanza di
cambio di paradigma fa sì che oggi noi , in particolare in Europa, abbiamo tutta
una serie di problemi che non riusciamo ad affrontare.
La riforma della riforma del lavoro
405
Alcuni parlano di una stagnazione secolare, ipotizzando che da questo momento in poi parta un modello di crescita economica a livelli molto bassi, che creerà
tutta una serie di problematiche, mentre la sfida che noi abbiamo di fronte è
proprio quella di uscire da questi schemi per darci delle alternative valide.
Purtroppo quello che vediamo oggi in Europa è che economisti non estremisti,
che si collocano ampiamente nel mainstream economico, dicano chiaramente
che dopo alcuni anni di questa crisi abbiamo avuto uno scollamento.
La crisi nasce dai mercati finanziari, fino al 2009 è una crisi mondiale ed in particolare Stati Uniti e Europa vanno bene o male nella stessa direzione, mentre
dal 2010 in poi abbiamo seguito due strade diverse: gli Stati Uniti con tutte le
loro contraddizioni sono comunque riusciti ad uscire dalla crisi, perché hanno
fatto politiche monetarie e fiscali espansive, al di là delle grandi libertà di movimento che loro possono avere e noi non abbiamo, mentre l’Europa ha scelto la
strada dell’austerità, definendola “austerità espansiva”, la quale di fatto però si
è dimostrata un fallimento.
Oggi non solo siamo di fronte ad una doppia recessione, ma rischiamo la deflazione: Draghi sta facendo il possibile, ma probabilmente non è sufficiente. Inoltre abbiamo sostanzialmente una disoccupazione da record, si veda ad esempio l’Italia, per cui tutto il continente di fatto in questo momento rappresenta un
freno alla crescita mondiale.
La lezione non è stata imparata e ora si spera che, visti i dati economici che
cominciano ad essere negativi anche per la Germania, ci sia un ripensamento
su questo tipo di problematiche.
Da un lato se qualcuno pensa di giudicare le politiche economiche, di giudicare
le nuove leggi, di giudicare il mercato del lavoro con la testa di 20-30 anni fa,
senza capire che il mondo è cambiato, è evidente che non può capire il contesto; dall’altro lato, se non si capisce che, se non si cambia il paradigma, le
cose non potranno cambiare veramente, noi rischiamo veramente di aggravare
i nostri problemi.
Lo scenario macroeconomico è condizionato dal fatto che quest’anno si sono
leggermente ridotte le aspettative di crescita, per cui il mondo nell’anno in corso
dovrebbe crescere globalmente del 3-4%.
Visti i tassi di crescita nostrani, questa cifra può sembrare notevole, ma in realtà
il Fondo Monetario Internazionale dice che, siccome nel mondo, grazie a Dio,
si fanno ancora dei figli, per cui c’è un certo incremento demografico, dal 3% in
giù siamo di fronte ad una recessione, per cui un 3-4% di incremento significa
che il mondo sta crescendo molto poco.
Gli ultimi verbali della FED, che sono stati resi pubblici, dicono chiaramente
che, mentre l’economia americana sembra fare da locomotiva, tutto il resto
del mondo è impantanato. Il Giappone è l’esempio che dimostra che la politica
monetaria espansiva da sola non basta: se non si fanno riforme, se non si fanno politiche fiscali espansive, non si va da nessuna parte, per cui il Giappone
rimane sostanzialmente impantanato.
Anche la Cina sta rallentando: la settimana scorsa abbiamo visto che la Banca
Centrale cinese, per evitare guai riguardo alle bolle immobiliari, ha abbassato i
tassi. Per non parlare dell’Europa, che è sull’orlo della deflazione.
406
La riforma della riforma del lavoro
Quindi è un mondo sicuramente in crescita, ma è una crescita sicuramente
molto rallentata e comunque rimane il fatto che l’area geografica mondiale che
sta peggio dal punto di vista economico sicuramente è l’Europa.
Questi risultati sono oggettivamente frutto di politiche economiche sbagliate:
dal 2010, invece di fare come diceva Padoa-Schioppa, per cui qualcuno in
Europa doveva tagliare, perché aveva problemi di debito, mentre qualcuno doveva fare crescita, tutti hanno fatto la stessa cosa. Abbiamo fatto tutti quanti
una politica recessiva, abbiamo abbandonato a se stessa la Grecia, oppure le
abbiamo imposto tutta una serie di impedimenti, con il risultato che abbiamo
subito una seconda recessione.
L’errore grave è stato credere che, siccome l’economia americana stava ripartendo, noi avremmo sistemato un po’ di conti, perché effettivamente in alcuni
Paesi c’era una serie di contraddizioni, ma tanto, attaccandoci al carro della
ripresa americana, saremmo usciti tranquillamente dalla crisi. La ripresa americana però è ritardata ed oggi noi conosciamo bene la situazione europea.
Il punto fondamentale è quello degli investimenti: il caso emblematico è il famoso Piano Junker, che viene sbandierato come un grande piano, ma è un
intervento di circa 21 miliardi, il quale dovrebbe in qualche modo stimolare gli
investimenti privati, per cui si parla di una forchetta di crescita di investimenti
che va da circa 315 miliardi a 410 miliardi.
Ultimamente da diverse parti molti sostengono che sono cifre assolutamente
non realizzabili, ma anche immaginando di poter arrivare a 400 miliardi, noi in
Europa dal 2007 ad oggi abbiamo perso 800 miliardi e considerando gli ammortamenti e la crescita, per ritornare ai livelli del 2007, immaginando che questa
crisi sia in qualche modo sotto controllo, dovremmo pensare oggi a 1000 miliardi di investimenti.
Ancora una volta l’Europa dimostra di non aver capito la gravità della crisi.
Si può, per esempio, chiedere rigore fiscale all’Italia, visto il nostro grado di
indebitamento, ma non si può chiedere ai Paesi di fare rigore fiscale, se poi
non li si aiuta sul versante della crescita, altrimenti i risultati sono quelli che tutti
abbiamo di fronte.
Io sono veramente preoccupato, perché le ultime elezioni europee hanno visto
la crescita di movimenti non particolarmente democratici: noi possiamo dire
che l’euro è un processo irreversibile, ma è altrettanto evidente che l’euro può
e deve dare certi risultati. Io sono un europeista convinto ma non è certo questa
l’Europa che volevamo: se l’euro vuol dire che la disoccupazione italiana ha
raggiunto il record del 13,2% e non siamo in grado di fare politiche economiche
anticicliche rispetto a questo tema, ovviamente le cose non vanno bene.
Nell’ambito dei limiti di questa crescita europea il problema è che noi avevamo
già dei problemi nostri, visto che l’Italia è ferma dalla metà degli anni 90; e se la
produttività non cresce in Italia, non è certo colpa dell’euro: in questa situazione
negativa dell’Europa noi ci distinguiamo.
Se consideriamo la crescita del Pil degli ultimi sette anni e facciamo pari a 100
il Pil del 2007, oggi, basandoci su stime di fine 2014, vediamo che gli Stati Uniti
sono a 107, la Germania è a 106, la media euro è a 98 e noi siamo a 92.
La riforma della riforma del lavoro
407
Questa dunque non è una recessione, ma è una crisi strutturale: potremo parlare quasi di “depressione italiana”, perché otto punti di Pil sono un disastro.
Gli ultimi dati del Centro Studi Confindustria ci danno qualche speranza, perché affermano che sembra che il peggio sia alle spalle e che nel 2015 si possa
assistere a qualche novità, ma tutto ciò vuol dire semplicemente che stiamo
smettendo di cadere e se nel 2015 faremo un +0,5%, ammesso che lo si faccia,
non sarà +0,5% rispetto a 100, ma rispetto a 92 e ciò vuol dire che in termini
occupazionali, se va tutto bene, per avere dei cambiamenti significativamente
positivi, dovremo attendere fino al 2017.
In questi anni il rapporto debito-Pil è cresciuto per tutti: negli Stati Uniti è cresciuto di 40 punti, ma anche nel modello iperliberista della Gran Bretagna il
rapporto debito-Pil è cresciuto di 40 punti. Chi ha incrementato di meno questo
rapporto è stata la Germania, che lo ha visto crescere di circa 10 punti, ma non
dimentichiamo che la Germania ha avuto il grosso vantaggio che con la crisi
dell’euro e dei debiti pubblici, secondo la famosa logica degli spread, sostanzialmente si è finanziata con tassi vicini allo zero, per cui è chiaro che ha avuto
un grosso vantaggio dalle disgrazie altrui.
Altrettanto vale per i consumi e se poi parliamo di disoccupazione, vediamo
che gli Stati Uniti sono passati da quasi il 10% al 6% attuale, mentre noi siamo
passati da un 6% di disoccupazione nel 2007 al 13% del 2014.
Noi siamo contenti che questo Governo si occupi di consumi ed abbia in qualche modo reso strutturale l’intervento sugli € 80, il quale non è vero che non è
servito a nulla, però il punto fondamentale è che i consumi, checché se ne dica,
hanno tenuto. È vero che ci sono ampie fasce di povertà, ma ci sono anche
grandi contraddizioni e gli ultimi dati di macro economia ci dicono che negli
ultimi due anni i consumi hanno tenuto.
Il vero disastro è rappresentato dagli investimenti, che nel 2007 costituivano
il 21% del Pil, mentre oggi si aggirano intorno al 15%. Ma se non si fanno
investimenti, non cresce la produttività, non cresce il Pil e quindi non si crea
occupazione.
È dunque fondamentale il sostegno ai consumi: da questo punto di vista la
CISL fa bene ad insistere sul rinnovo dei contratti, perché non ha senso che
alcune categorie da sei-sette anni ne siano senza. Ovviamente poi si tratta di
discutere la compatibilità tra i livelli salariali e i livelli di produttività, ma oggettivamente i salari in Italia sono sostanzialmente bassi.
Questo è un argomento fondamentale per sostenere i consumi: io non so come
si chiuderà la legge di stabilità, ma non si devono assolutamente togliere finanziamenti alla contrattazione di secondo livello.
E comunque il nodo fondamentale non è rappresentato dai consumi, ma dagli
investimenti, che sono sostanzialmente al palo, sia a livello italiano che a livello
europeo.
Per quanto riguarda la legge di stabilità, ci sono luci ed ombre. L’elemento
fondamentale è che il Governo da aprile ha capito che la situazione si stava
aggravando: nel DEF di aprile i membri del Governo erano pessimisti, ma fino a
un certo punto, invece con le note di aggiornamento di settembre hanno preso
atto che la situazione era molto grave.
408
La riforma della riforma del lavoro
Da questa presa d’atto ha avuto inizio un cambiamento fondamentale: hanno
sostanzialmente abbandonato – e secondo me a ragione – il fiscal compact,
per cui hanno detto che l’obiettivo di pareggio di bilancio era spostato dal 2015
al 2017, anche perché negli statuti europei si prevede che si possono fare, anche per quanto riguarda il deficit, dei cambiamenti, quando ci sono delle gravi
motivazioni e siccome noi siamo continuamente in recessione, tanto che stiamo arrivando alla terza recessione consecutiva, è evidente che abbiamo tutte
le motivazioni necessarie per un’operazione di questo genere.
In particolare queste motivazioni servono per permetterci di dire all’Europa che
noi pensavamo di portarci al 2,2% sul deficit, ma probabilmente arriveremo al
massimo al 3% o al 2,9%. Questo ha liberato tutta una serie di risorse, che non
solo hanno permesso di rendere strutturale l’intervento sugli € 80, ma hanno
anche permesso il taglio dell’Irap a favore delle imprese.
Da questo punto di vista diciamo che si sono fatti dei passi in avanti. Quello
che, almeno dal mio punto di vista, ovvero quello di un keynesiano, il Governo
fondamentalmente sta dicendo è che, grazie a queste scelte, si cerca di sostenere il lavoro e l’impresa.
Tuttavia il Governo, quando parla di lavoro, intende consumi e quando parla di
imprese, intende investimenti, cioè creare le precondizioni per cui un’impresa
possa investire. Ma Keynes diceva che non si può chiedere ad un’impresa di
investire, quando in realtà sta licenziando: se il Governo non si fa carico in maniera intelligente di una quota di investimenti, come sta per esempio facendo
Obama e come stanno facendo molti altri Paesi, da questa crisi non si potrà
uscire.
Ovviamente occorre una riforma della pubblica amministrazione e si tratta di
capire che tipo di investimenti fare, ma rimane il fatto che, se il Governo italiano, magari delegando la cosa a livello europeo, perché va benissimo che il
Governo italiano si occupi di alcune cose e l’Europa ne faccia altre, non mette
mano direttamente all’intervento in economia, difficilmente riusciremo ad uscire
da questa impasse in cui ci siamo ritrovati.
Gli economisti liberisti, quelli che pensano che il mercato abbia in sé le forze
per uscire dalla crisi, ritengono che lo Stato debba solamente creare un quadro positivo e che poi si libereranno le risorse per la ripresa. Ma noi abbiamo
dei grossi dubbi, perché le aspettative sono talmente negative che si fa fatica
ad immaginare che il mercato da solo riesca in questo momento ad uscire da
questa situazione.
In situazioni di recessione meno pesanti abbiamo avuto delle esperienze in cui
il mercato è riuscito a cavarsela in maniera autonoma, magari rifacendosi alla
possibilità di svalutare la moneta, ma nella storia recente non ci sono stati casi
di recessione così pesanti come quella attuale.
Altra cosa da evitare è che, siccome non abbiamo la possibilità di svalutare verso altri Paesi, si ricorra alla svalutazione interna: qualcuno ritiene che, siccome
dobbiamo essere competitivi, dobbiamo esportare, dobbiamo produrre e non si
può svalutare la moneta, si possano svalutare i salari.
La riforma della riforma del lavoro
409
In questo momento questa è un’idiozia, perché noi stiamo rischiando la deflazione e la stessa Deutsche Bank afferma che i salari in Germania in qualche
modo devono aumentare. Perciò in questo momento non ci serve una politica
del genere.
Nel dibattito a livello internazionale ha fatto scalpore l’intervento di Mariana
Mazzucato, che ha pubblicato il volume “Lo Stato imprenditore”. Questa signora molto simpatica, che è di origine italiana, ma abita all’estero da quando
aveva quattro anni ed ora lavora in Inghilterra, sostiene nel proprio libro che,
se si considera l’economia attuale, in realtà dove c’è più crescita, ciò accade
perché c’è più innovazione.
Ma l’innovazione non è derivata semplicemente dagli investimenti privati, bensì
deriva dal fatto che lo Stato garantisce tutta una ricerca di base, che altrimenti
un privato non avrebbe portato avanti. Il caso classico è quello della Silicon
Valley: nessuno vuol dire che la figura di Steve Jobs sarebbe stata meno importante, ma di sicuro non ci sarebbe stata la Apple, con tutte le sue innovazioni,
se negli Stati Uniti lo Stato non avesse fatto la grande ricerca di base, che è
stata realizzata nel corso degli anni.
Lei afferma che questi grandi imprenditori hanno cavalcato l’onda della ricerca
di base statale e la cosa grave è che ci si aspettava che dai grandi profitti realizzati da queste aziende in termini fiscali tornasse indietro qualche cosa, sia
per difendere meglio il welfare, sia per cominciare a fare altri tipi di ricerche, ma
ciò non è avvenuto.
Secondo lei un sistema di pesante finanziarizzazione impedisce l’accumulazione e quindi impedisce la crescita: ci sono dati che dimostrano che sussiste un
nesso preciso tra il grado di finanziarizzazione di una società e la sua capacità
di investimento. Senza investimento non c’è crescita, senza crescita non c’è
occupazione e senza occupazione non c’è welfare, il che non ci fa particolarmente piacere.
Non si può dire che questo Governo non abbia preso atto della gravità della
situazione, non si può dire che non abbia fatto nulla: in alcuni campi è intervenuto positivamente, in altri ha preso delle cantonate, perché, ad esempio, non
si possono considerare i fondi pensione delle rendite finanziarie, però quello
che manca ancora è veramente il cambio di paradigma.
L’idea è che non possiamo andare avanti immaginando che le cose si risolvono
da sole: dobbiamo fare tesoro di questa crisi per cambiare tutta una serie di
cose che non vanno bene.
I dati sono allarmanti, innanzitutto in termini distributivi, perché mai come in
questi ultimi anni la differenza tra ricchi e poveri e stata così rilevante: è aumentata in maniera devastante, al punto che intere popolazioni non hanno più
lo stimolo a partecipare al mercato. Le disuguaglianze fino ad un certo livello
sono importanti, perché la bellezza del mercato consiste nel fatto che invita tutti
a correre e quindi invita tutti a migliorarsi, il che crea una crescita collettiva; ma
se non si ha la possibilità di partecipare al mercato, è evidente che non sussiste
la possibilità né di arricchire se stessi né di arricchire gli altri.
410
La riforma della riforma del lavoro
L’estrema disuguaglianza, al di là degli aspetti morali e sociali, è un grave danno economico, perciò noi dobbiamo ripartire, ma dobbiamo farlo in modo tale
che tutti siano coinvolti in questo processo. Quindi dobbiamo fare delle richieste
di cambiamento, dobbiamo essere riformisti.
In un mio intervento a Pordenone ho concluso dicendo che dobbiamo imparare
ad usare tre nuovi linguaggi. Innanzitutto il linguaggio della verità, cioè dobbiamo dire chiaramente le cose come stanno. Piacerebbe anche a me essere
negli anni 70, quando facevo lo studente, ma se oggi nei confronti della mia
famiglia mi comportassi come un diciottenne, provocherei dei grossi danni, perciò bisogna dire sempre le cose come stanno, guardare in faccia la condizione
dell’Italia, la quale dalla metà degli anni 90 ha una produttività statica, che non
cresce.
Poi il linguaggio della competenza: non andiamo da nessuna parte, se non
investiamo nella ricerca, nelle scuole, nell’innovazione. Quando si ricorda la
famosa frase di Steve Jobs “Stay Hungry, Stay Foolish” – sii affamato, sii pazzo
– bisogna ricordare che il termine inglese non vuol dire “matto”, ma vuol dire
non conservativo, non conformista. Bisogna essere talmente bravi da trovare
delle soluzioni nuove e noi di nani e ballerine ne abbiamo già avuti abbastanza:
in questi anni abbiamo parlato di tutto tranne che di innovazione, di ricerca, di
università, di scuola, di politica industriale.
E invece ci serve competenza: per stare in questo mondo, se vogliamo starci,
dobbiamo essere competenti. La cosa più stupida sarebbe pensare che abbiamo un certo grado di benessere e questo ci è dato una volta per tutte, mentre il
benessere si conquista giorno per giorno.
Con tutte le nostre contraddizioni bisogna ricordare che noi abitiamo nella parte
del mondo in cui i lavoratori stanno meglio, nonostante tutto quello che abbiamo perso in questi anni: non c’è un lavoratore o un ceto medio basso che può
dire: “Vado in un’altra nazione, compresi gli Stati Uniti, e sto meglio”. Il punto
però è: fino a quando?
Ed infine bisogna usare il linguaggio della speranza: come dice Papa Francesco, il mondo non è finito, abbiamo delle opportunità incredibili, che non avevamo quarant’anni fa, e non dobbiamo parlare ai giovani solamente di cose
negative, dobbiamo dar loro anche tutta una serie di speranze, proprio perché
hanno delle opportunità, che fino a pochi anni fa non ci sognavamo neppure.
Il problema è che essi devono essere ben indirizzati e questo spetta a noi, per
cui auguro a tutti quanti buon lavoro. Grazie.
ROSETTA RASO
(Segretario Organizzativo FISASCAT-CISL)
Grazie al professor Berrini anche per questa sua esortazione finale. Adesso
diamo la parola a Giuliano Cazzola del dipartimento scientifico di ADAPT, docente di Diritto della Previdenza Sociale presso l’Università di Bologna, il quale
ci parlerà delle novità del diritto del lavoro, ovvero del Jobs Act. Grazie.
411
Intervento di:
Giuliano Cazzola
(Professore di Diritto della Previdenza Sociale
Facolta' di Giurisprudenza Universita' di Bologna)
412
La riforma della riforma del lavoro
Ringrazio dell’invito, che mi ha dato l’opportunità di visitare questa scuola, dalla
quale sono passati tutti i dirigenti della CISL ed in particolare anche i grandi
dirigenti Cislini, che nella mia vita ho avuto modo di conoscere, soprattutto
quella generazione che nell’immediato dopoguerra e negli anni successivi fu
protagonista della grandezza dell’organizzazione sindacale.
Il fatto che un sindacalista della CISL, per poter fare il proprio mestiere, dovesse seguire un lungo corso di formazione – come è accaduto a Carniti, Marini e
ad altri personaggi della loro generazione, i cui nomi magari ora non si ricordano più – della durata di nove mesi presso questa istituzione, faceva sì che essi
ne venissero fuori con una capacità tecnica che allora io, che ero sindacalista
della CGIL, invidiavo, perché sinceramente sul versante tecnico loro ci davano
dei punti.
Fatta questa premessa, nella mia relazione traccerò una storia, se così la possiamo definire, che passerà in rassegna i testi che hanno accompagnato le
politiche del Governo Renzi, in particolar modo quello che io chiamo il Jobs Act
Poletti 2.0, ovvero la legge delega, che è all’esame del Senato per la votazione
conclusiva, dopo i cambiamenti che sono stati apportati alla Camera e che credo domani o dopodomani dovrebbe diventare legge dello Stato.
Dopo il decreto Poletti, che ha apportato delle modifiche significative sul versante dei contratti a termine e del contratto di apprendistato, in particolar modo
liberalizzando il contratto a termine per tutti i 36 mesi della sua durata, con la
possibilità di ricorrere a cinque proroghe – ed abbiamo visto poi come in fondo
questa misura sia servita anche a determinare in qualche modo la ripresa di occupazione che si è riscontrata negli ultimi mesi – è venuta all’esame dei parlamentari la delega, che aveva al proprio interno alcuni grandi filoni di intervento,
idonei a modificare profondamente tutto il diritto del lavoro.
Questa non è sempre una cosa positiva, se pensiamo che un’opera
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