SENTIRE A SCOLTARE
online music magazine
GIUGNO / LUGLIO / AGOSTO N. 20
Lisa Germano
Grandaddy
Matthew Herbert
Tv On The Radio
Triosk
Futureheads Scritti Politti Primavera
s e n t i r e Sound
a s c o l t a r2006
e Pierre Schaeffer This Heat
Sebadoh
Devo Arthur Russell
in copertina
Lisa Germano
SentireAscoltare online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590
del 28/10/05
Editore Edoardo Bridda
Direttore responsabile Ivano
Rebustini
Provider NGI S.p.A.
Copyright © 2006 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.
La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare
sommario
4 News
1 0 Speciali
21
St u a r t A . S t a p l e s , Tr i o s k , T h e F u t ure h e a d s , M a t t h e w H e r b e r t , G r a n d a d dy, L i s a G e r m a n o . . .
4 5 Recensioni
Cur r e n t 9 3 , H o t C h i p , T h e L a t e C o r d ,
Son i c Yo u t h , T h o m Yo r k e , T v O n T h e
Rad i o , J o h n n y C a s h . . .
100
9 6 Dal vivo
Pr i m a v e r a S o u n d , A n g e l i c a , K r o n o s
Qu a r t e t , O r b , B a u s t e l l e . . .
1 0 9 Rubriche
We A r e D e m o : S i s t e r D e w, P i n k i e &
S.A . D . E . , C r a b w a y, P a l c o n u d o . . .
Clas s i c : D e v o , S c r i t t i P o l i t t i , T h i s
Hea t , S e b a d o h , A r t h u r R u s s e l l . . .
I co s i d d e t t i c o n t e m p o r a n e i : P i e r r e
Sch a e ff e r
Cine m a : Radio America, R o m a n c e &
Ciga r e t t e s , i 4 0 0 C o l p i
Can z o n e f r a n c e s e : J o s e p h D ’ A n ve r s
Direttore
Edoardo Bridda
Direttore responsabile
Ivano Rebustini
Coordinamento
Antonio Puglia
Consulenti alla redazione
Daniele Follero
Stefano Solventi
Staff
Valentina Cassano
Antonello Comunale
Teresa Greco
Hanno collaborato
Gianni Avella, Filippo Bordignon, Marco
Braggion, Gaspare Caliri, Andrea Erra, Andreas Flevin, Paolo Grava, Manfredi Lamartina, Andrea Monaco, Giulio Pasquali, Marina
Pierri, Stefano Pifferi, Stefano Renzi, Italo
Rizzo, Michele Saran, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi
111
46
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
Grafica
Paola Squizzato, Squp, Edoardo Bridda
sentireascoltare news
a c u r a d i Te r e s a G r e c o
Syd Barrett si è spento nella sua casa di Cambridge all’età di
60 anni. La notizia è stata resa nota dal management dei Pink
F l o y d l ’ 11 l u g l i o , m e n t r e i l d e c e s s o d o v r e b b e e s s e r e a v v e n u t o
due giorni prima, a causa di complicanze derivate dal diabete...
In una recente intervista al Guardian, Brian Eno conferma la
reunion dei Roxy Music: non prenderà parte ai concerti, ma
scriverà due nuovi pezzi per il disco previsto per il prossimo
autunno, partecipando anche in altri brani con parti di pianoSyd Barrett
forte…
In uscita il 6 giugno per la Family Vineyard un triplo box set di
Loren Mazzacane Connors, Night Through: Singles & Collected
Works, 1976-2004 contenente singoli e materiale inedito…
Il prossimo mese vedrà la luce il primo singolo degli Who dopo
23 anni; potrebbe essere Wire & Glass, versione condensata
( d i b e n 11 m i n u t i ! M a p o t r e b b e s u b i r e a c c o r c i a m e n t i ) d i u n a
rock opera dal titolo omonimo. In uscita ad ottobre il nuovo
album di studio (o così pare)…
J o s e p h i n e F o s t e r e n t r a a f a r p a r t e d e l r o s t e r d e l l a Yo u n g G o d
e annuncia l’inizio della registrazione del nuovo disco, dopo il
recente A Wolf In Sheep’s Clothing…
I Decemberists sono al lavoro al prossimo disco, The Crane
Wife. Meloy e soci ne hanno annunciato l’uscita su Capitol per
il 3 ottobre in un messaggio alla loro fan mailing list…
Il nuovo disco di Bonnie ‘Prince’ Billy, Then The Letting Go,
registrato in Islanda lo scorso inverno con il produttore di
B j o r k , Va l g e i r S i g u r d s s o n , u s c i r à i l 1 8 o t t o b r e p e r l a D o m i n o i n
Inghilterra e per la Drag City in America, preceduto dal singolo
Cursed Sleep previsto il 24 luglio…
P r i m o d i s c o s o l i s t a p e r B r e t t A n d e r s o n . L’ a l b u m v e d r à l a l u c e
non prima del gennaio 2007. Una buona parte è già stata regis t r a t a i n s i e m e a B e r n a r d B u t l e r d u r a n t e i l p r o g e t t o T h e Te a r s …
Progetti in vista per Xiu Xiu: esce a settembre su 5RC il nuovo disco, The Air Force, prodotto da Greg Saunier già con i
Deerhoof; nello stesso mese sarà pubblicato un EP di ambient
music realizzato in collaborazione con Grouper…
sentireascoltare
David Bowie ospite a sorpresa di David Gilmour: è successo
alla Royal Albert Hall il 29 maggio, quando alla fine del concerto ha cantato Arnold Layne e Confortably Numb. Durante lo
s h o w, c h e h a v i s t o i l c h i t a r r i s t a i n t e r p r e t a r e a l c u n i c l a s s i c i d e i
PF e il suo recente disco solista On A Island, altri ospiti illus t r i : G r a h a m N a s h e D a v i d C r o s b y, c h e h a n n o c a n t a t o c o n l u i
S h i n e O n Yo u C r a z y D i a m o n d e F i n d T h e C o a s t O f F r e e e d o m …
E ’ r i p a r t i t o l ’ 11 l u g l i o d a M i l a n o i l t o u r m o n d i a l e d e i R o l l i n g
Stones, interrotto a causa di un incidente capitato a Keith Richards. In seguito alla caduta da una palma, il chitarrista ha
dovuto subire un’operazione al cervello, conclusasi con succ e s s o . I l B i g g e r B a n g To u r p r o s e g u i r à i n a l t r e 2 0 c i t t à , p e r
Xiu Xiu
concludersi il 3 settembre in Danimarca…
Escono l’8 agosto per la Rhino altre ristampe per i Cure, rimas t e r i z z a t e e i n d o p p i o c d c o n b o n u s : T h e To p ( 1 9 8 4 ) , T h e H e a d
On The Door (1985), Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987) e The
Blue Sunshine (1983) dei Glove, il side-project di Robert Smith
e del bassista Steve Severin…
I n u s c i t a a s e t t e m b r e s u Yo u n g G o d u n n u o v o a l b u m p e r A k r o n /
F a m i l y , d a l t i t o l o M e e k Wa r r i o r, p r o d o t t o d a l l a b a n d e d a M i chael Gira, che vede tra gli altri la collaborazione con il percussionista free jazz Hamid Drake…
A distanza di 25 anni tornano i Radio Birdman, leggendaria
band punk-rock australiana. Zeno Beach, il nuovo disco, regis t r a t o i n d i c e m b r e , è i n u s c i t a i l 2 2 a g o s t o s u Ye p R o c R e c o r d s .
La band si era sciolta nel 1978 prima dell’uscita del secondo
disco, per poi riunirsi in alcune occasioni speciali negli anni
90. La Sub Pop aveva pubblicato nel 2001 un best, The Essential Radio Birdman:1974-1978. Quest’estate parte il loro primo
tour in America, a settembre toccheranno anche l’Italia (il 29 a
Milano, al Rainbow e il 30 a Cesena, al Vidia Club)…
Gia annunciata in febbraio, la reunion delle Slits, gruppo punk
femminile formatosi nel 1977, si concretizzerà con l’uscita, di
un EP in autunno, The Revenge Of The Killer Slits, a cui parteciperà Paul Cook, batterista dei Sex Pistols…
A n t o l o g i a p e r g l i S t e r e o l a b s u R h i n o : S e r e n e Ve l o c i t y s a r à
pubblicata il 22 agosto, conterrà 16 brani (remixati da Tim
sentireascoltare Gane agli studi di Abbey Road), due dei quali provengono da
s i n g o l i , J e n n y O n d i o l i n e e Wo w A n d F l u t t e r, i l r e s t o d a g l i a l b u m
tra il 1993 e il 2004…
Il nuovo disco di Bob Dylan, Modern Times, sarà disponibile
dal 29 agosto; registrato tra febbraio e marzo di quest’anno,
segue a distanza di 5 anni l’uscita dell’ultimo suo disco, Love
& Theft…
Stereolab
B a r d o H o t e l S o u n d t r a c k è i l t i t o l o d e l n u o v o d i s c o d e i Tu x e d o m o o n ,
uscito il 13 giugno su Crammed Discs, colonna sonora di un
film che la band sta realizzando con l’artista greco George
Kakanakis…
Come Home, il nuovo album dei Franklin Delano, uscirà in Italia a ottobre su Ghost Records. È stato prodotto a Chicago da
Brian Deck (al mixer per Modest Mouse, Iron&Wine, Califone…)
e vede la partecipazione, tra gli altri, di Jim Becker dei Califone al banjo e Fred Lomberg-Holm dei Flying Luttembachers
al violoncello…
In uscita il 26 settembre su Sub Pop il nuovo disco di Wolf
Eyes, Human Animal, anticipato da un singolo, The Driller il
25 luglio. È questo il primo album con il nuovo membro Mike
C o n n e l l y ( d e g l i H a i r P o l i c e ) , e s e n z a A a r o n D i l l o w a y, c h e h a
missato il disco…
Secondo disco per Dani Siciliano: Slapper uscirà il 19 settembre su !K7, sarà un album di songwriting, che vedrà il prevedibile contributo di Matthew Herbert, tra gli altri…
Da un’intervista a Billboard, si apprende che sta per essere
completato il nuovo disco degli Air, che uscirà all’inizio del
2007 su Astralwerks; intanto Dunckel ha un’uscita solista, sempre per la stessa etichetta, prevista per il 19 settembre, sotto
il moniker Dankel. Il duo ha scritto la musica per il disco della
cantante-attrice Charlotte Gainsbourg, 5:55 in uscita il 28 agosto e ha composto la colonna sonora dell’ultimo film di Sofia
Coppola, Maria Antonietta..
Collaborazione per Devendra Banhart nel disco della cantante brasiliana Cibelle, The Shine of Dried Electric Leaves (su
Crammed), che vede anche la partecipazione di Seu Jorge…
Il bassista degli Arctic Monkeys, Andy Nicholson, ha lasciato
la band, ma non è stato ancora rimpiazzato definitivamente;
durante gli ultimi concerti il suo posto è stato preso da Nick
O ’ M a l l e y, g i à c o n g l i A r c t i c d u r a n t e i l r e c e n t e t o u r i n N o r d
America…
Necrologi: è morto a 55 anni il 2 giugno scorso in un ospedale
californiano Vince Welnick, tastierista dei Grateful Dead dal
sentireascoltare
1990; non si conoscono le cause del decesso. Addio anche a
Billy Preston, che Si è spento in un ospedale dell’Arizona il 6
giugno scorso, a 59 anni. Il tastierista, malato da tempo, era
famoso per aver collaborato con i Beatles, ma aveva lavorato
anche con i Rolling Stones per Sticky Fingers ed Exile On Main
Street; di recente aveva partecipato a Stadium Arcadium dei
Red Hot Chili Peppers.
A distanza di tre anni dall’ultimo Echoes, esce il 4 settembre
Rapture
s u Ve r t i g o i n E u r o p a e M o t o w n / U n i v e r s a l i n A m e r i c a , i l n u o v o
disco dei Rapture, Pieces of the People We Love, preceduto
dal singolo Get Myself Into It il 21 agosto…
News dai festival: reso noto il programma di Strade Blu06,
ricco festival che si svolge tra luglio, agosto e settembre a
Faenza. Tra i nomi in programma: Green On Red (14 luglio),
Howe Gelb, Isobel Campbell, Robin Hitchcock (4 agosto), Giant
Sand (5 agosto), Matmos (8 settembre). Il calendario completo
su http://stradeblu.org.
To r n a F r e q u e n z e D i s t u r b a t e a l l a F o r t e z z a A l b o r n o z d i U r b i n o :
con Afterhours e Calla (4 agosto), The Whitest Boy Alive e The
Ve i l s ( 5 a g o s t o ) e We A r e S c i e n t i s t s e Tu n n g ( 6 a g o s t o ) ; i l p r o gramma è in via di definizione…
Scompare un pezzo di storia musicale inglese: dal 30 luglio
la BBC ha deciso di sospendere dopo 42 anni la trasmissione
To p O f T h e P o p s , a c a u s a d e l l a c o n c o r r e n z a d e l l e t e l e v i s i o n i
musicali; la prima puntata era andata in onda nel 1964, i primi
o s p i t i f u r o n o i R o l l i n g S t o n e s c o n I W a n n a B e Yo u r M a n …
La RCA/Legacy fa sapere che il 25 agosto uscirà un’edizione
d e l u x e d i C o n e y I s l a n d B a b y, i n o c c a s i o n e d e l t r e n t e s i m o a n n i versario del disco di Lou Reed. In doppio CD, conterrà alcune
rarità, tra cui le B-side Nowhere at All, Downtown Dirt e Leave
Me Alone, le ultime due già pubblicate nel 1992 nel cofanetto
Between Thought and Expression. Inoltre ci saranno le versioni
d i C o n e y I s l a n d B a b y, S h e ’ s M y B e s t F r i e n d e C r a z y F e e l i n g
r e g i s t r a t e c o n l ’ e x - v e l v e t D o u g Yu l e d u r a n t e l e p r o v e d e l t o u r
nel gennaio 1975, mai pubblicate…
La Thrill Jockey farà uscire il 22 agosto un triplo cd compreso
d i D V D d e i T o r t o i s e , A L a z a r u s Ta x o n , c h e c o m p r e n d e s i n g o l i ,
B-sides e rarità…
I M a r s Vo l t a h a n n o f i n i t o d i r e g i s t r a r e i l n u o v o d i s c o A m p u t e chture, che uscirà il 15 agosto per la Universal; tra gli ospiti il
chitarrista John Frusciante…
L a f e s t a p e r i l v e n t i c i n q u e n n a l e d e l l a To u c h a n d G o ! c h e s i
terrà a Chicago dall’8 al 10 settembre vedrà molte bands esibirsi, tra cui The Black Heart Procession, Calexico, Big Black
sentireascoltare (Steve Albini parteciperà anche con gli Shellac), CocoRosie…
Pulp: il 21 agosto usciranno le ristampe di tre dischi, His ‘n’
Hers (1994), Different Class (1995) e This Is Hardcore (1998),
comprese di B-sides, rarità, demo; intanto Jarvis Cocker dovrebbe essere al lavoro su un disco solista, in compagnia di
R i c h a r d H a w l e y, c h e a c c o m p a g n a v a i P u l p i n t o u r …
Dopo undici anni si sciolgono le Sleater-Kinney: ne dà notiSleater-Kinney
zia la Sub Pop in un comunicato presente anche nel loro sito
ufficiale, in cui non si spiegano la ragione dello split. Le tre
musiciste faranno un ultimo tour in America tra la fine di luglio
e gli inizi di agosto prima di separarsi…
Resi noti altri particolari sulla colonna sonora di Control, film
sulla vita di Ian Curtis che Anton Corbijn sta per cominciare a
girare; saranno presenti nuovi brani scritti per l’occasione dai
New Order oltre a pezzi dei Joy Division e dei Warsaw (primo
nome della band) e di altri musicisti, quali Iggy Pop, David
Bowie, Lou Reed, Sex Pistols, Buzzcocks, Roxy Music. Per il
r u o l o d e l p r o t a g o n i s t a è s t a t o s c e l t o S a m R i l e y, f r o n t m a n d e i
10,000 Things…
E’ in preparazione un film sulla vita di Jeff Buckley, nato dall’accordo tra il regista e sceneggiatore Brian Jun e la madre
dell’artista Mary Guibert, il cui benestare al film è venuto prevedibilmente senza problemi…
Unica data italiana per i Red Hot Chili Peppers, che si esibiranno il 29 novembre al Datchforum di Assago…
Annunciato un unico concerto italiano dei Pere Ubu, l’8 ottobre
a S.Vito di Leguzzano (VI), in occasione del tour europeo per
la presentazione di un nuovo disco, Why I Ate Women, in uscita
a settembre…
In uscita il primo DVD per il defilato Jandek, Glasgow Sunday
(stesso titolo del live pubblicato qualche mese dopo il concerto), relativo alla performance all’Instal festival di Glasgow del
2 0 0 5 , a c c o m p a g n a t o d a R i c h a r d Yo u n g s e A l e x N e i l s o n ; J a n d e k
si esibirà a Chicago all’ Adventures in Modern Music Festival
(dal 20 al 24 settembre) il 20 settembre…
E’ stato pubblicato il 5 giugno Revep, un EP a nome di Alva
Noto e Riuichi Sakamoto, che contiene materiale relativo alle
precedenti collaborazioni tra i due musicisti, Vrion e Insen, e
u n a r i e l a b o r a z i o n e d e l t e m a d i M e r r y C h r i s t m a s M r. L a w r e n c e
(Furyo), dal film dell’83 di Nagisa Oshima…
Ancora ristampe: sono usciti il 10 luglio su Island / Universal i
primi tre dischi degli Ultravox! con bonus tracks (Ultravox !, Ha!
Ha! Ha!, Systems Of Romance); John Foxx intanto ha appena pubb l i c a t o u n n u o v o a l b u m s u M e t a M a t i c / A r t f u l R e c o r d s , Ti n y C o l o u r
sentireascoltare
Movies, 15 tracce strumentali, e ha iniziato un tour europeo…
Beck ha terminato di incidere il nuovo disco, di cui non è
ancora noto il titolo e che uscirà in autunno, in compagnia
di Nigel Godrich, già produttore del fortunato Sea Change; in
un’intervista a Mtv durante il Bonnaroo Festival, il musicista
ha reso noto che sarà un disco in cui l’hip hop avrà il suo peso
Intanto è stata pubblicata solo su iTunes una videoraccolta con
19 pezzi e due bonus, Guess I’m Doing Fine e The Golden Age
eseguite dal vivo…,
N e w s d a l l a P a w Tr a c k s : è p r e v i s t a p e r i l 3 1 o t t o b r e u n a r i s t a m pa dell’introvabile live degli Animal Collective, Hollindagain
Beck
(in origine uscito per la St. Ives Records in 300 copie); intant o P a n d a B e a r p r o s e g u e l e r e g i s t r a z i o n i d e l s e g u i t o d i Yo u n g
P r a y e r, p r e v i s t o p e r l ’ i n i z i o d e l 2 0 0 7 …
Nina Nastasia ha firmato per la Fat Cat e sta preparando un
nuovo disco, On Leaving, in uscita a settembre…
To r n a l ’ o t t a v a e d i z i o n e d e l N o s i l e n z I n d i e r o c k F e s t i v a l d i
0rzinuovi (BS) dal 20 al 23 luglio, con Piano Magic, Les Fauv e s , G o m o , R o s o l i n a M a r, D e n t e e T h r e e S e c o n d K i s s …
Ancora necrologi: è morto a Vienna a 83 anni il compositore
G y o r g i L i g e t i . L’ a u t o r e e r a n o t o a n c h e p e r l e m u s i c h e u s a t e
nei film di Stanley Kubrick, 2001 Odissea nello spazio, Shining
e E y e s W i d e S h u t … E ’ s c o m p a r s o a N e w Yo r k a 7 4 a n n i A r i f
Mardin, produttore e arrangiatore per la Atlantic Records, che
lavorò per Aretha Franklin, Barbra Streisand, Chaka Khan.
sentireascoltare speciale
Stuart A. Staples
L’ u l t i m o d i s c o L e a v i n g S o n g s , i l f u t u r o d e i T i n d e r s t i c k s , i p r o g e t t i
in corso, la malinconia e lo spleen di un artista riservato: Stuart
Staples si racconta in un’intervista.
That Leaving Feeling
d i Te r e s a G r e c o
Con i Tindersticks in attesa
chissà per quanto altro ancora,
Stuart Staples fa uscire a metà
del 2006 un secondo disco solista, Leaving Songs, dopo la
prova
dell’anno
precedente,
quel Lucky Recordings 03-04,
minimale ed eterogenea raccolta di canzoni soffuse. Artista malinconico e riservato,
Staples si conferma cantore del
disagio esistenziale, perfettamente a suo agio in atmosfere decadenti e fumose da club,
la voce da crooner suadente in
bilico tra nostalgia e rimpianto,
tormenti interiori e umori introspettivi, un beautiful loser alla
C o h e n . L’ u l t i m o d i s c o t o c c a i
temi della perdita e del rimpianto, del lasciarsi dietro situazioni e persone e del senso
di disagio e sofferenza che ne
consegue. Ne abbiamo parlato
con lui via mail dopo l’uscita
dell’album: questo il resoconto
dell’incontro.
10 sentireascoltare
Il disco uscito l’anno scorso, Lucky Dog Recordings,
comprendeva una serie di
canzoni registrate nel corso
degli ultimi tre anni. Consideri Leaving Songs come il
primo disco vero e proprio,
cioè un progetto più focalizzato?
Con Lucky Dog ho cercato di
mettere ordine in uno stato di
cose che sentivo confusionario. E’ nato infatti in posti differenti e con diversi obiettivi;
l’ultimo è stato realizzato in
un arco di tempo minore ed è
più focalizzato e conciso.
Le canzoni in Lucky Dog
erano più spoglie rispetto a
quest’ultime, che mostrano
arrangiamenti più complessi: è una scelta voluta? Ci
sono similarità tra le canzoni dei due dischi?
All’inizio
le
canzoni
erano
state concepite molto semplicemente, poi nel corso della
loro realizzazione, mi sono
reso conto che musicalmente
necessitavano di molto più lavoro. Suppongo che sia dovuto andare in posti in cui non
volevo, per trovarne gli arrangiamenti.
Come è nata la decisione di
lavorare a Nashville nello
studio di Mark Nevers (dei
Lambchop) per questo disco?
Conosco Mark da molto tempo (dal 2000, quando abbiamo lavorato con la band per
il singolo What Is A Man?) e
siamo rimasti sempre in contatto. Mi ha offerto un modo
in cui potessi realizzare i miei
sogni mentre stavo lavorando
alle canzoni.
Il tema del disco sembra essere quello della perdita,
anche amorosa: andarsene,
lasciare qualcuno di importante e poi guardarsi indietro, con rimpianto, preparar-
si al commiato… Ci puoi dire
qualcosa sul mood che lega
le canzoni?
Le canzoni sono state scritte dal punto di vista di chi è
sulla soglia di un cambiamento, con tutti i tormenti che ne
conseguono.
Credi ci sia un legame tra
questo disco e Curtains?
Penso che c’è un legame con
tutto il mio lavoro, sebbene
non credo di aver mai scritto
canzoni così facilmente dai
tempi del secondo album dei
Tindersticks.
In Leaving Songs ci sono
un paio di duetti, con Maria
Mckee (This Road Is Long)
e con Lhasa De Sela (That
Leaving Feeling). Come sono
nate queste collaborazioni?
Quando
scrivo
un
duetto,
aspetto che la canzone mi faccia venire in mente, in modo
naturale, la persona con cui
cantarla; con Lhasa questo è
avvenuto subito, con Maria invece ho dovuto aspettare parecchio tempo.
Puoi dirci qualcosa sulla
tua collaborazione, passa-
ta e presente con la regista
francese Claire Denis (per le
colonne sonore dei film Nénette et Boni, 1996 e Trouble
Every Day, 2001, con i Tindersticks, e per l’ultimo film
L’ i n t r u s , 2 0 0 5 ,
n d r. ) ?
Cosa
pensi dei suoi film, c’è qualche similarità con la tua musica?
Non ho mai cercato razionalmente di capire se esista in
effetti un legame di qualche
tipo tra noi due, quando lavoriamo insieme so che qualcosa accade. Alla fine mi sento sempre esausto, ma sono
consapevole che è tempo ben
speso.
A proposito del tuo legame
con la Francia, se dovessi
scegliere tra Gainsbourg e
Brel?
Credo che invece sceglierei
Leo Ferrè…
Leonard Cohen sembra essere una delle maggiori influenze nella tua musica,
quanto ti ha influenzato?
Ci sono altri artisti a cui ti
senti debitore?
Sono pochissimi gli artisti a
cui mi sento legato profondamente, che fanno ormai parte
di me per la vita, Cohen è uno
di questi: anche se lo ascolto raramente, so qual è il suo
posto.
David Boulter e Neil Frazer
hanno collaborato con te
nel disco; c’è un futuro per
i Tindersticks, qualche progetto a venire?
Al momento sono totalmente
aperto nei riguardi del futuro,
infatti non lascio chiusa nessuna porta.
Con Boulter e Frazer stai lavorando anche a un altro progetto, Songs For The Young
At Heart . Di che si tratta?
Il disco è stata un’idea di Dav i d B o u l t e r. S i t r a t t a d i u n i n sieme di canzoni e di ricordi della nostra infanzia, con
ospiti scelti per ogni canzone.
E’ David (quasi) al suo meglio!
Ci sono altri progetti a cui
stai lavorando al momento?
In questo periodo mi sto divertendo a stare lontano dallo
studio, fare concerti e percorrere nuove strade.
s e n t i r e a s c o l t a r e 11
Lucky Dog Recordings 03-04 (Beggars Banquet / Self, 2005)
Primo disco da solista di Stuart Staples, composto da pezzi
registrati nel suo studio nel corso dei due anni a cui il titolo fa
riferimento, Lucky Dog Recordings 03-04 segna un cambiamento nelle atmosfere del pop dal mood dark, marchio di fabbrica
del gruppo madre, i Tindersticks.
Qui infatti Staples riduce la musica all’osso, abbandonando i
sontuosi arrangiamenti orchestrali: il disco ruota essenzialmente attorno a piano, organo, e chitarre; lo accompagnano,
t r a g l i a l t r i , Ya n n Ti e r s e n ( p i a n o ) , i s o d a l i N e i l F r a s e r ( c h i t a r re) e David Boulter (tastiere), e due membri dei Tiger Lillies, il
batterista Adrian Huge e il bassista Adrian Stout.
L’ i n c i p i t m i n i m a l e d e l b r a n o d ’ e s o r d i o , p e r s o l o p i a n o ( S o m e r set House), puntellato da una tromba nel finale e dalla voce di
G i n a F o s t e r, c i i n t r o d u c e n e l m o o d m e l a n c o n i c o d e l d i s c o , c o n
Staples a proseguire la sua lush life decadente, la voce da lang u i d o c r o o n e r, t r a o r g a n o e g l o c k e n s p i e l ( M a r s e i l l e S u n s h i n e ) .
Tra un Cohen minimale e un Cave appena oscuro (Shame On
Yo u , P e o p l e F a l l D o w n , ) , a p p u n t o . A l t r o v e s o n o a s c i u t t e b a l l a te (Dark Days, per sola chitarra), pezzi dal sapore Tindersticks
(Say Something Now con un bel giro di basso) per un album
certamente eterogeneo, che va a segnare l’inizio di un nuovo
corso per Staples, al di là del cammino intrapreso con la sua
band. (6.8/10)
Leaving Songs (Beggar’s Banquet/ Self, 29 maggio 2006)
Canzoni sulla perdita, sul rimpianto per aver lasciato qualcuno/
qualcosa dietro di sé, non più recuperabile: dieci romantiche,
accorate composizioni alla maniera del Cohen più dolente, con
il dolore nell’anima e la consapevolezza di dover comunque
andare avanti. Questo è Leaving Songs, seconda prova solista
- con i Tindersticks in stand-by – di Stuart Staples, disco che
v e d e l a c o l l a b o r a z i o n e d e i c o m p a g n i N e i l F r a z e r, D a v i d B o u l t e r
e Te r r y E d w a r d s e d i d u e g u e s t s i n g e r , l a c a n t a n t e c o u n t r y M a ria McKee, già nei Lone Justice (in The Road Is Long) e Lhasa
de Sela in That Leavin Feeling (struggente ballad call & response, che ricorda il Cohen più orchestrale, nel disco evocato
anche dalla presenza dei cori femminili in background, come
in The Path).
Il lavoro si muove su terreni più convenzionali del precedente
Lucky Dog Recordings ’03-’04 (Beggars Banquet / Self, 2005),
è più suonato e arrangiato; si snoda tra sussurri acustici (Dance With An Old Man) ed elettrici (Already Gone con un arpeggio di chitarra a far da contrappunto, archi e un organo che
cresce lentamente in accompagnamento fino al sax finale, uno
d e i p e z z i m i g l i o r i d e l d i s c o ) , u m o r i c o u n t r y i n T h i s O l d To w n ,
e b a l l a d c r e p u s c o l a r i , c o m e l ’ i n i z i a l e G o o d b y e To O l d F r i e n d s
(che procede in crescendo con un malinconico inserto d’organo
e fiati in contrappunto).
Si ha l’impressione che Staples sia arrivato a un punto della
carriera in cui fosse giusto prendere musicalmente una strada
parallela: meno crooner maledetto alla Cave e più malinconico
chansonnier tra Gainsbourg e un Bryan Ferry poco lezioso, con
la voce a rimanere punto di contatto tra i due percorsi, suadentemente melanconica, perfettamente a suo agio nei temi della
nostalgia e del rimpianto. Bentornato. (6.9/10)
12 sentireascoltare
speciale
Triosk
Un combo australiano in equilibrio tra jazz e electro, sempre
pronto a infilare stendardi canterburiani, minimalismo, ambient e
drone music. In tre album una sfida latente: rifondare il sound dei
To r t o i s e
Jazz rock per il nuovo millennio
di Edoardo Bridda
Un
combo
australiano
che
suona Gil Evans e dissotterra gli stendardi canterburiani
infarcendoli di kraut e immergendoli negli errori digitali;
un gruppo aperto a istanze
exotiche, che usa contrabbasso pensando al dub, senza dimenticare la ricerca timbrica,
l’ambient e la drone music.
Pensi ai Triosk e non puoi che
p e n s a r e a i To r t o i s e , a c o m e
la lezione del gruppo di Doug
McCombs abbia ancora un’importanza capitale nella ricerca musicale in questi ambiti.
I Triosk sembrano tre late night jazzers innamorati di alcune intuizioni di Mosquito,
G a m e r a e To r t o i s e : s t e s s a
propensione alla liquidità e
medesimo distacco, utilizzo di
loop calati in qualche smoke
singal parente dei Matching
Mole, oppure sfondo a percussioni free, o ancora background per minimalismi tra
Reich e Glass. Dall’esordio 1
+ 3 + 1 al recente The Headlight Serenades, il percorso del
trio si sintetizza in un lento
praticantato volto a rifondare un’esperienza incredibile,
partendo più propriamente dal
jazz e dal laptop. Un percorso lento e compatto che inizialmente punta tutte le fiches
sul bilanciamento jazz-tronico
e sulla scientifica vivisezione del sound, ma che troverà
la propria via sottendendo il
secondo elemento e liberando
altri stilemi quali l’ambient e
la lezione minimalista.
La storia dei Triosk è targata
ventunesimo secolo: nel 2002
una fitta corrispondenza internet tra il trio e il musicista
elettronico Jan Jelinek porta
starter di un’esperienza tutta
contemporanea.
Durante
u n a g i g a S y d n e y, d o v e p r e senta Loop Finding Jazz Records, un lavoro giocato su
campionamenti di dischi jazz
d’antan in lunghi loop spaziali (un po’ come stava facendo Atom Heart con la musica
latina esattamente nello stesso periodo), riceve un demotape contenente una manciata
di composizioni tra improvvisazione, basi concrete e glitch. Ne rimane entusiasta,
una volta tornato in Germania
propone al trio di comporre le
trame elettroniche sulle quali
il combo dovrà improvvisare.
Il modus è istantaneo: alcuni
file contenenti sample glitch
e gelaterie di soffusa ambient
alla realizzazione di un long
playing epistolare via ftp. Jelinek, fresco di contratto con
la Scape Records, è l’uomo
chiave in questa storia, lo
viaggiano per la rete e, in Australia, sopra quelle tracce i
Triosk improvvisano, accompagnano, suonano jazz classico e free, metafisico e dada.
s e n t i r e a s c o l t a r e 13
Infine, il tutto viene rispedito
al mittente per l’assemblaggio
finale, che avviene, ancora
una volta, grazie a un sampler
e un Mac.
1 + 3 + 1 è ambient jazz, bop
music futurista, un prodotto
forse più vicino ai cutting di
Jelinek
che
all’improvvisazione digitalizzata immaginata dei Triosk (Vibes/Pulse).
Ma del resto, per un combo smanioso d’apprendere e
espandere i propri confini, è
un compromesso più che soddisfacente e d’altro canto,
quando la partnership ingrana
le proprie marce come accade in Mis-Leader e Munmorah
(batteria free, contrabbasso
angolare, fuligini di xilofoni e
piatti, piano-synth liquorosi),
il tentativo di rivedere la lez i o n e d e i To r t o i s e a t t r a v e r s o
uno sguardo organico-meccanico-digitale, sempre asettico
ma ancor più astratto (espanso a partire dal suo lato più
liquid jazz e depurato quasi
del tutto del rock e dall’industrial), è senz’altro degno di
nota.
Theme From Trioskinek,(falso)
manifesto dell’album, mescola fraseggi circolari/minimalisti di basso e pianoforte in
una marmellata di pulviscoli
synth e sibili, per poi calarsi in smalti di jazz canterburiano (il synth Matching Mole,
la batteria à la Dan Bitney
d e i To r t o i s e ) c o m e n o i r m u s i c
per silver screen; Neckless si
ferma prima approfondendo i
loop dinoccolati e il crescen-
14 sentireascoltare
do su strutture semirigide e
semielettroniche.
Ma i fulcri dell’album sono
Mis-Leader (i Soft Machine
sparati nella stratosfera) e On
The Lake: uno scarto stilistico
nei confronti delle tartarughe
e al contempo un tentativo di
superamento, servendosi della lezione digitale del nuovo
millennio. Qui il percorso dei
Triosk risulta chiaro: non è una
strada maestra, né una ricerca
della grande firma, né il frutto
di menti anche molto distanti
per gusti e ispirazione; piuttosto un gioco d’angoli, il rigore,
la sperimentazione minuziosa
negli accostamenti, l’osservazione delle escrescenze sonore. Se l’operazione difetta è
proprio nell’utilizzo eccessivo
dei software digitali, e conseguentemente di stilemi in rapida senescenza (certi espedienti glitch su tutti), quel
cader nella tazza dell’affogato
al caffè digitale (track2), eppure, più che free climbing di
note, questi brani sono anche
test d’ingegneria. (7.0/10)
Quello dei Triosk è anche un
jazz da scienziati: a poco più
di un anno dall’esordio, quell’approccio trova un seguito in
Moment Returns (Leaf, 2004),
un album in proprio, anche se
con contributi sporadici di Jelinek. La produzione in loco
non ne cambia il format, l’“uno
più tre più uno” rimane il canovaccio prediletto, ovvero quasi tutti i brani vedono guizzi di
campioni in loop stagliarsi in
sezioni suonate (come fosse-
ro improvvisate, anche se non
lo sono) che a loro volta sono
abilmente caricate d’effetti ad
hoc (echi ed equalizzazioni,
ma senza esagerare). S’accentuano le dilatazioni della
cultura jazz (quasi lasciata a
un’improvvisazione
devoluta
in Chronosynclastic Infundibula), l’ambient vischiosa (i
sample bucolici e le tastiere
d o c i l i d i To m o r r o w To d a y ( P a r t
1) e Goodnight) quando non
cupa (The Streets Are Empty), e certa malinconia postr o c k ( Tw o ; Tw e l v e ) , s a l v o u n a
maggior presenza della componente minimalista, grande
protagonista in un gioco di
specchi dai mille punti di fuga
(il groove lattiginoso su battiti technoidi di Love Chariot
e soprattutto i nove minuti di
I Am A Beautiful And Unique
Snowflake con lo zampino di
Jelinek).
La sezione più classicament e j a z z d e l p l a t t e r, s e p p u r
guarnita di minuzie elettro,
n o n s c o m p a r e ( To m o r r o w To day (Part 2) e Re-Ignite),ma
rappresenta anche la parte
meno interessante (come del
resto gli esperimenti umbratili
di Awake In The Deep) di un
lavoro comunque fortemente
spinto sulla ricerca elettroacustica. Moment Returns è
un album riuscito, studiato nei
minimi dettagli, dove a mancare è forse la mano lunga di
Jelinek a tutto campo, ma è
probabilmente quest’assenza
a rendere possibile lo studio
di soluzioni acustiche differenziate, la spazializzazione
dell’ambient e l’uso estensivo
dei synth. (6.9/10)
Forse i Triosk di Moment Returns sono ancora troppo rigidi, forse troppo bravi, ma
due anni più tardi con The
Headlight
Serenades
(Leaf,
2006) il trio di Sydney ritorna
sulle scene, con una grande
scommessa: il confronto con
i To r t o i s e . M a i c o m e i n q u e sto lavoro le istanze del minimalismo, come quelle di certo
pianismo à la Satie (o a tratti Debussy), dell’elettronica
psichedelica e di un drumming
più deciso (e persino rock),
si fondono a mood jazzy non
più dominanti, non più contrappesi del gingillo elettronico. Dalla sofisticata provetta
in laboratorio dell’esordio si
passa all’impressione di sensazioni, al disegno di ambienti liberi dal vincolo del drone
a tutti i costi.
In The Headlight Serenades,
mentre rimangono alcuni sporadici profumi post-rock (Not
To H u r t Y o u p a r e u n a c o ver degli Ui), s’accentuano i
pianismi (Intensives Leben),
mentre il frastaglio ritmico
sostituisce quasi del tutto il
facile frullato elettrodigitale.
Maggior spazio è dunque ricoperto dai synth e dai quei suoni all’imbrunire firmati Boards
Of Canada, qui ancor più evidenti che nella prova preced e n t e ( l ’ a t t a c c o d i V i s i o n s I v,
F e a r S u r v i v o r, M o m e n t R e t u r ns). Eppure, come si diceva, il
leit motiv porta dalle parti della band di McCombs, come accade fin dall’apertura Visions
I v, u n a t r a c c i a d o v e g r a p p o l i d i
note al piano si stagliano su
percussioni sempre più energ i c h e d a l l e p a r t i d i T N T, o p p u r e , a n c o r d i p i ù , i n Vo s t o k ,
doveil gioco scoperto tra chitarra elettrica e un giro pseudo dub al contrabbasso portano diritti all’ultimo lavoro
della band chicagoana, It’s All
A r o u n d Yo u . C i t a z i o n i c a l i b r a te che trovano un gusto inter-
pretativo mai troppo ostentato
o suddito, condite abilmente
con altri momenti più intensi
e duraturi come i deici minuti
a m b i e n t - S a t i e d i O n e , Tw e n t y
F o u r, c h e d e n o t a n o l a m a g gior conquistadi quest’album:
una freeness ritmica libera
dai giochi della mano, perché
espansa dai trucchi taglia-ecuci di potenti software.
I Triosk vincono la prova del
tre. Mai come in quest’album
il loro sound risulta potente e
pieno, accessibile. Un lavoro
maturato, a distanza di due
album, che pur mantenendo
quel distacco da scienziati,
appassiona per l’intelligenza
delle soluzioni e per la varietà
delle suggestioni. Per il colpo
di genio forse ci vorrà ancora
del tempo, ma i Triosk, si sa,
prendono le cose con calma.
(7.0/10)
sentireascoltare 15
speciale
Tunng
L’ e n t u s i a s m o i n i z i a l e p e r u n s u o n o t a n t o u m a n o e n a t u r a l e q u a n t o
figlio del presente. La difficoltà di superarne i limiti: tecnologia o
r i t o r n o a l l ’ e s s e n z i a l i t à ? S t r a d e g i à p e r c o r s e , m a i Tu n n g s e m b r a n o
possedere la chiave di volta. In realtà è la storia della folktronica
che si ripete.
Rinascimento folktronico
d i Va l e n t i n a C a s s a n o
In principio, la classicità del
suono acustico si mescola a
minute cianfrusaglie elettroniche. C’è chi lavora solo di lapt o p - F o u r Te t - e c h i , i n v e c e ,
si diverte a pizzicare le corde
di una chitarra su un sostrato di vorticose ritmiche sintetiche - The Books. Quale che
sia il modus operandi, l’intento è creare un suono che sia
tanto umano e naturale, fatto
di abitudini e calore domestici, quanto figlio del presente,
con i suoi mille specchi a rifrangere una realtà composita e in fieri. Così pulsazioni
sintetiche, rumori di fondo
rubati di soppiatto e creativi
strappi poi ricuciti riscoprono
il folk, traghettandolo nel ventunesimo secolo. E se i primi
episodi, di quella che verrà
presto definita folktronica, lasciano piacevolmente spiazzati per l’intuizione e la resa,
al tempo stesso ne mostrano
i limiti, prospettando una tendenza che dopo poco emerge-
16 sentireascoltare
rà: quella, cioè, di superare
l’empasse creativo giocando
di esperienza e tecnologia (il
caso Rounds del 2003), oppure rispolverando canoni e
stilemi già adoperati e subito consunti (Lost And Safe del
2005, giusto per rimanere in
dalla Static Caravan. Un debutto da cui vengono fuori dei
Simon & Garfunkel fulminati
dalla psichedelia cinematica
dei Boards Of Canada, la Beta
Band persa nei fremiti percussivi africani, la laconicità rifuggita da un Keiran Hebden .
tema con i riferimenti).
In un simile scenario, nel 2005
sbucano gli inglesi Tunng. E
arrivano già in ritardo. Insieme da un paio d’anni, Mike
Lindsay (produzione e chitarra) e Sam Genders (voce e
chitarra), dopo aver sfornato
diversi singoli e aver partecipato alla soundtrack del dvd
Donnie Darko: The Director ’s
Cut,
riescono
a
registrare
Mother ’s Daughter And Other
Songs, pur trovandosi in condizioni di fortuna (stando a
quanto raccontano, la sala
d’incisione si trovava sotto un
negozio di lingerie femminile,
la cui entrata, l’unica, era posta proprio all’interno di uno
dei camerini), poi licenziato
Ancora una volta, ad essere
celebrato è il matrimonio tra
folk ed elettronica, unione
particolarmente diffusa in terra d’Albione, che pesca nebbiose inquietudini dal fingerpicking drakeiano sporcandole
di chincaglierie sintetiche (la
melodiosa Song Of The Sea,
che sa già di classico), aprendo squarci visionari sulle highlands scozzesi (le ritmiche
jungle di Out The Window With
T h e W i n d o w, i n c u i s i d i l u i scono frame di voci registrate, e i giochi d’acqua in 4/4 di
Code Breaker), senza negarsi
u n l o f t n e l c u o r e d i N e w Yo r k
dove poter sezionare suoni e
ricomporli
seguendo
l’estro
del momento (in Beautiful And
Light come dei Books a cui
manchi l’umano nonsense).
Certo, nel duemilacinque rimetter fuori dall’armadio la
dimessa folktronica non è proprio un geniale colpo di testa
( l o s t e s s o F o u r Te t p a r e e s s e r si stufato), il duo inglese però
mantiene un equilibrio sobrio
e attuale, e questo Mother ’s
Daughter And Other Songs
non gli farà vincere la targa di
nuovi campioni del genere, ma
almeno potrà essere considerato un buon debutto. E chissà che i suoi spunti interessanti non aprano altre porte…
(6.4/10)
Intanto questo primo lavoro
ha fatto sì che i riflettori di
critica e pubblico puntassero,
con estrema attenzione, i due
britannici, dando loro l’opportunità di condividere il palco
con personalità più o meno
affini, come King Creosote e
Josè Gonzales, piuttosto che
Va s h t i B u n y a n .
E dopo la buona partecipazione al tributo ai Buckley per
l a F u l l Ti m e H o b b y, e c c o c h e
la stessa etichetta pubblica il
secondo Comments Of The Inner Chorus (Full Time Hobby /
Audioglobe, 22 maggio 2006).
Insomma, pare che i Tunng
abbiano seguito il motto “battere il ferro finché è caldo” in
questi sedici mesi, il che non
equivale ad una nota di merito. Se, in realtà, lo scorso
anno li avevamo congedati
con un “promettenti, vedremo
in futuro”, di quel futuro che
si è fatto presente dobbiamo
ora ricrederci.
Tra i solchi di Comments…
spira infatti un’aria ferma,
stagnante, chiusa tra gli skyscrapers
dei
Books
(quell’estrapolare frasi, discorsi,
come in The Wind Up Bird),
la melodiosità agreste dei padrini folk Paul & Art in chiave
aggiornata Adem (l’intreccio
delle voci, in particolare in
Red And Green e nella ballata zuccherosa Jenny Again)
sotto la lente d’ingrandimento Klint (Man In The Box) e
la dimensione casalinga di
Pause dell’anglo-iraniano (il
vortice
chitarra/percussioni
di Stories). Messa da parte
la visionarietà cinematica dei
Boards Of Canada e relegata
l’elettronica al ruolo di mera
cornice, Lindsay e Genders
si dedicano alla costruzione
di evergreen dall’improbabile
avvenire, tornando quindi agli
elementi basici del folk, ad un
taglio standard che ne sbiadisce la forza propositiva, nonostante una visione d’insieme
più ampia (che ha richiesto la
presenza di una vera e propria
band alle spalle) e un paio di
tracce degne di attenzione: il
fraseggio gentile e il ritornello
corale di Woodcat e la sinistra
confessione violoncello/banjo
di Sweet William.
Allarmarsi per così poco sarebbe, però, davvero esagerato. (6.0/10)
s e n t i r e a s c o l t a r e 17
speciale
The Futureheads
Dai Gang Of Four venati di pop dell’esordio all’urgenza melodica
targata Police del second coming, i Futureheads sono tra i più
promettenti allievi della scena emul-rock...
I Don’t Mind
di Edoardo Bridda
All’ombra del successo planetario dei Franz Ferdinand,
ce li stavamo perdendo. I
Futureheads,
cometa
emulrock delle ultime generazioni,
quartetto white funk angolare
di Sunderland alle prese con
la riscoperta dell’amfetamina
che fu amore del primissimo
Weller e dei sempiterni XTC
di White Music. Insomma, uno
degli act “non nuovi” del panorama attuale, magari quel
tipico fenomeno di cui si sente dire che, se non fosse stato
per i cugini più fortunati (e ci
mettiamo pure i Bloc Party),
avrebbe goduto di blasoni più
alti.
Retorica a parte, quel modo
tutto duemila di fare ‘77 è anche il pane dei Futureheads,
una formazione che, forte di
un’attitudine tutta brit per la
melodia che non si vergogna
di misurarsi con richiami Sixties, e una fascinazione tanto per il funk-punk dei Gang
Of Four (Andy Gill in persona produce l’esordio) quanto
per il più stiloso gusto della
seconda generazione mod nel-
18 s e n t i r e a s c o l t a r e
l’era dei Pistols, sforna per la
679 Records (marzo, 2004) il
classico Self Titled, un debutto di tutto rispetto che corona
una gavetta iniziata nel 2002
corredata da tre rapidi singoli.
I ragazzi hanno da poco raggiunto i vent’anni ma le capacità interpretative, quando
non si esauriscono nel più
automatico dei ritmi da ballo
rock, sono già accattivanti e
appiccicose come si deve. Fin
dall’opener il tiro garagista si
poggia un medio profilo, quel
che ci vuole per un sound più
vicino ai quartieri e ai sobborghi, lontano cioè dalle stilosità franzferdinandiane: Le
Garage è una profusione di
coretti mielosi, ma ingegnosamente metronomici, sui quali si staglia l’energia vocale
di Barry Hyde, wave quanto
basta per veicolare glamour
cheap e immediatezza, canto
enfatico e stacchi punk.
Il motore ritmico è chiaramente di scuola Alex Kapranos e
così l’impronta del disco, ma
lo scarto si gioca sull’attitudi-
n e : c o n R o b o t e A To B q u e l l a
vena garagista, tra strada e
voglia di riscatto, trova un genuino momento ricreativo per
la working class britannica di
welleriana memoria. The Futureheads è infatti il figlio di
quattro ragazzi strappati alla
s t r a d a g r a z i e a u n o d e i Yo u t h
Project attivati dallo loro città
natale, un progetto nato per
riscattare alcuni squattrinati
teppistelli dalla cultura della
strada e dell’ultrà calcistico.
Quella rabbia si sente sotto
sotto, ma è la ricerca per il
pop la maggior conquista del
combo: i giochi di voci doo
wop in stereofonia di Danger
Of The Water potranno anche
far sorridere, ma le capacità,
seppur acerbe, sono tutte lì,
dietro il tono stralunato del
leader e dei fraseggi circolari
dei compagni. Ancora una volta sono gli intrecci melodici a
catalizzare l’attenzione: canto, controcanto, chiacchiericcio, urletti in call and response, bridge confidenziali dove
i giovani che parlano giovani,
senza fronzoli e senza ideolo-
gia, cercano un posto là fuori
dove poter bucare le nuvole,
scansare la pioggia del controllo totale della british dem o c r a c y, c o m e a l l ’ a l b a d e l l ’ e r a T h a t c h e r.
C’è da dire che l’album cede
un po’ verso la fine: in Carnival Kids il gioco di voci in
salsa punk-rock è ordinaria
amministrazione, il reggae affilato di The City Is Here For
Yo u i n s i s t e t r o p p o n e i c o r i ,
il glam psicotico di First Day
(terzo singolo della band risalente all’anno precedente)
pare già roba del passato della band.
Insomma difetti che da un’opera prima - sospesa tra il 2002
e il 2004 - ci si può attendere,
d’altro canto i chewingum da
masticare sono la freschezza
melodica e il gusto punk-pop,
le mascelle si rinforzeranno.
E l’arrangiamento di Hounds
Of Love - cover di Kate Bush
(!) -, chicca quasi in chiusura e asso nascosto dei Futureheads, è l’evidenza della loro maggiore conquista:
l’aver creato un suono che è
l’esatta trasposizione pop dei
p r i m i G a n g O f F o u r. ( 7 . 0 / 1 0 )
Una volta esordito da entrambe le parti dell’Atlantico,
i Futureheads hanno l’onore di fare da spalla ai Franz
Ferdinand nella tournée nord
americana. Seguono nel duemilacinque una serie di fitti
appuntamenti in spalla a Foo
Fighters, Oasis, e Pixies, tutti pesci grossi di un mercato
che il gruppo inizia a mordere.
In questo stesso periodo esce
infatti un singolo per il mercato inglese (che nella versione
statunitense presenta un paio
di aggiunte). Si tratta di Area
EP (679, 28 novembre 2005),
tre brani nuovi e un remix, tra
cui spicca la traccia omonima,
episodio
decisamente
wave
dominato da un drumming più
calibrato
e
dal
sofisticato
gioco tra cori e interplay tra
canto e contro canto a cui fa
pendant un rifforama sintetico
ma funambolico. Help Us Out
è più nella direzione di Robot, chitarre che si comportano come synth e impeto power
punk. In chiusura il teen pop
per arrabbiati di We Cannot
Lose, giochino frivolo con un
testo Ramones, ma perfettamente funzionale all’economia
dell’inedito da eppì.
Il second comin’ News & Tributes (679, 29 maggio 2006)
esce trainato dall’epica solenne e marziale dell’iniziale
Ye s , N o , t r a e m o t i v i t à N e w O r der e barricate ‘77. Che l’album sia ben diverso dall’esordio, è comunque evidente già
dal titolo del brano omonimo,
sentireascoltare 19
che parla dell’incidente aereo
che, nel 1958, uccise l’intero
team del Manchester United
F o o t b a l l Te a m . C o m e d i r e : l a
fine dell’età dell’innocenza, la
presa di coscienza, per un lavoro più prodotto, meno Gang
Of Four (eccetto per Cope e
R e t u r n O f T h e B e s e r k e r, p a r a dossalmente più ringhiose che
mai), e una tracklist, concentrata sulle liriche, che avrà
anche il coraggio di abbandonare l’impeto anfetaminico e
dance del recente passato.
20 sentireascoltare
Da una parte compaiono una
manciata di mid-tempo dal retrogusto dolceamaro (Burnt,
N e w s A n d T r i b u t e s , B a c k To
The Sea - la più Jam del lott o - , Wo r r y A b o u t I t L a t e r,
Thursday),
dall’altro
arrangiamenti più meditati e rallentati nell’impeto funk punk con
maggior uso dell’incedere ska
punk (la buona Face, l’omaggio - anche nel titolo - ai Police di Fallout, Favours For
Flavours). La traccia migliore
è i l s i n g o l o , S k i p To T h e E n d :
riffaccio garage rock, asso piglia tutto per ottimismo melodico e graffi pop alla sei corde, in una tracklist che lascia
tutto sommato l’amaro in bocca. Certo, i Futureheads sono
maturati, ma a discapito della
naturalezza dell’esordio e di
una chiara via da intraprendere. D’ obbligo allora aspettare
il fatidico terzo disco, per vedere se i lembi del foglio sono
stati uniti a dovere. (6.6/10)
monografia
Matthew Herbert
Eclettico eppure esigente, multiforme nelle sue attività di produttore, dj e musicista, è riuscito negli anni a mantenere salda la sua
integrità, artistica e personale, costruendo un discorso politico a
colpi di sampler e field recording. Dagli esordi rumoristi alla forma
canzone, la musica elettronica secondo Matthew Herbert.
Il medium è il messaggio
d i Va l e n t i n a C a s s a n o
La lattina di una bibita, la
c o n f e z i o n e d i u n h a m b u r g e r,
i cornflakes della prima colazione, il sangue che scorre
nelle vene. Tutto è suono, nella testa di Matthew Herbert. E
tutto è memoria, insieme storica e personale. E l’elemento
elettronico è il quid che rende
possibile una reale e istantanea partecipazione, messaggio stesso, ancor prima che
medium, che ha intensificato
la consapevolezza della responsabilità umana con la sua
forza centripeta, eliminando
e così via). È questo il materiale su cui nasce, tra il 1992
e il 1996, il primo progetto,
nonché prima identità, Wishmountain, capace di tenere
in piedi un intero live set con
un solo pacchetto di patatine,
omaggiando John Cage, che
si presentò da Mike Bongiorno con dei frullatori. Mettere
in diretto contatto il processo
compositivo e il pubblico, instaurare una connessione che
inneschi una reazione e sui
cui contemporaneamente riflettere: il giovane inglese non
temporanea gli amici Matmos,
provenienti anche loro dai territori dell’house-techno-trance, ma su cui Herbert arriva
con leggero anticipo, tanto da
assumere il ruolo di padrino
artistico del duo.
Se Wishmountain verrà presto ucciso dalle stesse mani
del suo creatore, a partire dal
1995 saranno Doctor Rockit,
Herbert e Radioboy a rimpiazzarlo.
Con il primo la concretezza
elettronica si addolcisce di
elementi marcatamente musi-
le barriere spazio-temporali e
innescando quel meccanismo
di azione-reazione in cui tutti
sono implicati.
Herbert ne intuisce le capacità esplicative fin dai tempi
del college: studente di teat r o a l l a E x e t e r U n i v e r s i t y, v i e ne subito attratto dall’idea di
una stretta relazione tra interpretazione e musica, tanto
da iniziare a raccogliere un
nutrito numero di suoni provenienti dalle fonti più disparate (tazzine, cucchiai, teiere
si trincera dietro le macchine,
come gli architetti Autechre
nel loro autismo acquatico di
cervellotici incastri e scissioni, ma ne svela i meccanismi
di casualità e quotidianità,
proseguendo e declinando in
una impressionante varietà di
lavori quella commistione tra
musica e oggetti preconizzata
da John Cage sin dagli anni
Trenta e teorizzata da Pierre
Schaeffer dieci anni più tardi.
Una modalità sulla quale stavano lavorando quasi in con-
cali: in The Music Of Sound
(Clear / Wide, 1996) il lato
downbeat si invischia ai languori del jazz (gli studi classici di pianoforte e violino del
Nostro riaffiorano nelle due
Song Without Words, punteggiata da un soffio abbozzato
di sax, e Song Without Italian
Words, registrata quasi di soppiatto alla chiusura di un ristorante, tra il tintinnare delle
posate e le campane a segnare l’ora), o si inerpica sulle
tensioni house, ora in corsia
sentireascoltare 21
di sorpasso (Hong Kong) ora
in più quieto andamento da
crociera (A Quiet Week In The
House). Luoghi particolari, legati all’infanzia oppure protagonisti di un viaggio, sanciscono così la loro esistenza
nella misura in cui il caso li
rivela all’orecchio, andando a
comporre una soundtrack che
rimane ancora nei recinti del
proprio vissuto, ma che inizia
già ad affacciarsi sull’umanità. (6.5/10)
Personalità dai contorni ancora sfumati, quella del dot-
Soundlike / Audioglobe, 2001)
i microfoni ultra sensibili già
usati dai Matmos entrano nelle fitte e intricate reti della
corporeità per indagarne il
funzionamento, per svelarne
la mistica realtà ed estrapolare la connessione tra fisico
e viscerale, infrangendo quel
limite che ha sempre tenuto a
distanza il rumore dal suono.
Cosa fa di un feto la controp a r t e f o n d a m e n t a l e d i Yo u ’ r e
U n k n o w n To M e , d e l f l u i r e d e l
sangue la base ritmica per
Foreign Bodies, dei laser che
prensioni, di visioni distorte
e di rammarico, ma anche di
mistero, quello proprio e sacro dell’uomo, raccontate da
Herbert attraverso beat serrati ed intriganti, irradiati sugli asteroidi jazzy di It’ Only
e S u d d e n l y, c o n l a v o c e d e l la Siciliano a scivolare nelle
pieghe,
nelle
imperfezioni,
colmandole con la sua grazia
interpretativa, come una moderna Ella Fitzgerald, mentre
in Leave Me Now pulsa house con la passione che solo
un cuore possiede, pronta ad
tore, che verrà assimilata e
sviluppata nei lavori a nome
Herbert, in cui è il 4/4 a fare
gli onori di casa, ma solo con
l’entrata in scena di Dani Siciliano in Around The House
(Phonography 1998, ristampa
!K7 - Soundlike / Audioglobe,
2002) la direzione si sposterà
dal racconto/ricordo in prima
persona alle dinamiche relazionali tout court, di cui il
corpo umano ne è la più perfetta sintesi.
Con Bodily Functions (!K7 -
operano sulla vista le interf e r e n z e i n Yo u S a w I t A l l ? I l
loro essere sostanza vitale,
che è rumore prima di tutto.
È quindi la tecnica del campionamento che ridona libertà
alla musica, che le permette
di riappropriarsi della sua natura istintiva, rappresentando
quella umanità dissoltasi pian
piano nella voragine edonistica e che poco dopo verrà brutalmente cancellata dal crollo
d e l l e T w i n To w e r s .
Storie di mancanze e di incom-
infondere un calore melanconico in Last Beat, ballata per
pianoforte,
contrabbasso
e
spazzole del prossimo futuro,
per poi abbandonarsi all’ineluttabile desiderio di intimità
di On Reflection, minimale nei
sui screzi sonici.
Insieme agli oggetti del corpo, è quindi l’house l’altro
elemento unificante. Mentre
però nei lavori contemporanei
del duo di San Francisco California Rhinoplasty Ep (in cui il
Nostro compare nelle vesti di
22 sentireascoltare
sentireascoltare 23
Doctor Rockit dj) e A Chance
To C u t I s A C h a n c e To C u r e s i
avvertono chiaramente e volutamente le tensioni, i tagli,
i campionamenti, gli oggetti
che
materialmente
vengono
suonati, in Herbert nulla del
mondo concreto utilizzato è
comprensibile: tutto è nascosto, filtrato dalle macchine,
fagocitato e poi ricostruito in
un puzzle dalle dimensioni microscopiche, così da risultare
non più fredda rimescolanza
di pezzi, ma calda estensione
del centro nervoso umano.
Il tocco lieve e l’appeal fisico
che il disco comunica in tutti
i quattordici episodi quasi non
lasciano percepire l’elaborata
scrittura delle canzoni, l’accuratezza negli arrangiamenti, la manipolazione calibrata
e consapevole delle fonti sonore, trasfigurate fino all’irriconoscibilità. Solo quando si
arriva all’ultimo brano, The
Audience, si viene svegliati
da uno schiaffo poderoso di
ritmiche funk frantumate, con
la voce femminile sdoppiata,
triplicata e in rincorsa, alter
ego di se stessa, riflessa sulle
superfici della battuta in quattro, con le tastiere tra il piano
bar e il Blue Note a chiudere il
climax house. Qualcosa, nella coscienza, ora si è mosso.
Il paradosso della tecnologia
del ventunesimo secolo quale
unico espediente, “strumento” in grado di ridare al suono
una costruttiva originalità, assume i connotati di una ferocia denuncia: il corpo umano
come corpo sociale, indagato
nei suoi fragili rapporti tra organi, tessuti e altri corpi, diversi ma uguali, tenuti assieme da una serie di circostanze
fortuite e coincidenze, che è
pura magia. Da preservare.
(8.0/10)
Ad allargare i confini e spostare la visuale del metodo
compositivo è, nello stesso
periodo, anche Radioboy: trovandosi stretto tra le mura degli 8 suoni in cui la sua prima
personalità si era barricata,
24 sentireascoltare
viola apertamente le regole
avvalendosi di un insieme eterogeneo di sorgenti, campionate, registrate e processate
innumerevoli volte, torturate
fino a stabilire quel limite capace di mantenere l’integrità
della fonte.
Una ricerca estrema, che assume sempre più un carattere politico, fino ad esplodere
in maniera compiuta in The
Mechanics Of Destruction (Accidental / Wide, 2001), un titolo emblematico, che rivela
subito il carattere demistificatorio dell’operazione. Sotto i
colpi di ritmiche assordanti, di
sussulti e strappi sonori industrial si assiste all’annientamento della società consumistica attraverso i suoi stessi
simboli: i metalli funambolici
di Gap, l’ossessività percussiva di McDonald’s, l’ambient
acquatico di Nike, la techno
s e n z a r e s p i r o d i To t a l O i l . E c c o
quindi che il medium diventa il
messaggio: servirsi del rumore di una lattina di Coca Cola
schiacciata o di una tazza di
Starbucks frantumata, equivale a schierarsi apertamente
contro un certo tipo di mercato, di industria, di politica,
quella capitalistica (il tutto
supportato da una autonoma
gestione della distribuzione
del disco: durante i live, attraverso il download dall’omonimo sito assieme alla nascita di una etichetta personale,
la Accidental), una scelta che
non può non generare ripercussioni su chi ascolta e vede
- famose rimangono le performance del periodo, durante
le quali è il pubblico stesso a
donare propri cd, libri, oggetti
da distruggere, un esempio di
partecipazione completa.
Nonostante la forma richiami
in certi momenti i profumi di
casa Warp e metta in campo
l ’ A p h e x Tw i n p i ù r u m o r i s t a , è
la sua genesi e organizzazione ad avere una portata innovativa: scegliere di “suonare”
determinati oggetti piuttosto
che altri, distruggerli e ri-
comporli secondo una logica
che rispetti principi comuni,
nell’ottica di un ordine sociale equo e solidale. A dispetto
della dilagante omogeneità, la
musica elettronica è ancora
capace di offrire un’alternativa. (7.0/10)
Proprio la rigorosità di queste
prove e il continuo lavoro sul
suono spingono il Nostro a stilare il “Personal Contract For
The Composition Of Music”,
un documento sulla falsa riga
d e l D o g m a 9 5 d i Vo n Tr i e r, a g giornato personalmente di volta in volta, che lo costringe ad
una serie di vincoli (come ad
esempio il divieto assoluto di
pattern di batteria elettronica,
dell’utilizzo di campionamenti altrui) per salvaguardare
l’unicità della musica, evitando sentieri già noti, familiari.
Chiamato nel 2001 dalla coreografa Blanca Li a scrivere
tre brani per una big band da
inserire nel musical francese
La Defi, e incoraggiato poi da
Gilles Peterson a metterne in
piedi una propria per esibirsi al Montreux Jazz Festival
d e l 2 0 0 2 , M r. H e r b e r t a c c e t ta la sfida e l’anno successivo sforna Goodbye Swingtime
(Accidental / Wide, 2003).
Un nuovo shock emotivo, un
cambiamento radicale: il disco si pone tra i solchi degli
standard jazz degli anni 3040, quando le grandi orchestre di Glenn Miller e George
Gershwin e le sfarzose composizioni di Henry Mancini
riuscivano a coniugare la forma popolare del jazz alla colta tradizione europea. Difficile immaginare come l’effluvio
di magnificenza che sgorga
da un organico di quasi venti
p e r s o n e ( t r a c u i A r t o L i n d s a y,
l’insostituibile compagna Dani
Sicliano, Jamie Lidell, Mara
Carlyle,
Shingai
Shoniwa,
Plaid e Mouse On Mars) si
possa amalgamare all’asciutta arte digitale, da sempre sinonimo di isolamento e individualismo. Come Carl Craig con
il suo Detroit Experiment e la
London Sinfonietta con il roster della Warp, Herbert dimostra che la simbiosi è possibile
e con fare da gran cerimoniere
realizza dieci tracce dal sapore lontano, ma incredibilmente attuali: in primo piano è la
melodia, morbida nell’iniziale
Turning Pages, sincopata e
convulsa in Fiction, in contrasto cromatico con gli stridori tecnologici sparsi in tutto
il lavoro, dai sobbalzi ritmici
di Misprints, all’ambient cinem a t i c a d i S t a t i o n a r y, a i g i o c h i
stranianti nelle swingante The
Battle. Armonia e dissonanza, tradizione e innovazione,
autorità dominante e libertà
di pensiero e azione, il cuore
del lavoro è ancora una volta
un “affare pubblico”, non solo
nella scelta di campo, ma anche nell’uso dei suoni organici, prodotti per la maggior
parte dalla letteratura politica
( N o a m C h o m s k y, M i c h a e l M o o re, John Pilger) e assolutamente impercettibili (ritagli di
giornali riguardanti l’invasione dell’Iraq provenienti da tutto il mondo, la stampa di pag i n e t r a t t e d a l s i t o w w w. s o a w.
org, ed altri curiosi aneddoti).
Non è dunque una reverenza
al mondo del jazz, come si
potrebbe pensare, ma un appropriarsi dello stile e della
libertà propria del genere per
esprimere il proprio punto di
vista, sempre critico e sempre
altro. (7.0/10)
Traslare un simile lavoro nella
versione live non è cosa facile, ma i risultati sono più che
entusiasmanti, come dimostra
il plauso unanime ricevuto al
Sonar di Barcellona e al Roskilde Festival in Danimarca:
Herbert sul palco si scopre
un’abile direttore d’orchestra,
nonché divertente ed estroso
intrattenitore, instaurando uno
scambio dialettico tra macchine, orchestra e pubblico.
Il continuo girovagare e la
svolta orchestrale non gli impediscono comunque di proseguire la sua ricerca sul suono
e con Plat Du Jour (Acciden-
tal / Wide, luglio 2005) ritorna alla musica per oggetti e
ai concetti delle bodily functions. Dopo due anni di field
recording al fianco di esperti
e autorità e dopo sei mesi di
lavoro in studio, il wiz kid del
campionamento svela i segreti del cibo, o meglio, i segreti
delle grandi corporation dell’industria alimentare. Ancora
una volta si tratta di un’operazione musicale indirettamente
politica, proprio come quella
d e i M a t m o s d i C i v i l Wa r, m a
a differenza del duo, che preferisce contaminare il proprio
sound con l’acustico, sulla
scia di The West, Herbert rimane ferramente attaccato al
campionamento.
E quindi ecco che il verso di
polli, galline e pulcini di allevamento dà vita a The Truncated Life Of A Modern Industrialized Chicken, al ritmo
scandito
quasi
orientaleggiante di una dozzina di uova
biologiche rotte in una ciotola
di pirex, mentre una miscela
di ben nove differenti marche
di acqua minerale fa scivolare
in un’atmosfera jazzy These
Branded Waters, accompagnata dalle percussioni del fondo
di una bottiglia San Pellegrin o . To c c a p o i a l c a f f è r e n d e r si protagonista di An Empire
Of Coffee, 60 semi di robusta
stillati in un contenitore di
roundup, pesticida usato dalla Monsanto (nome noto nel
mondo delle biotecnologie e
del transgenico), su un frenetico sampler di tazze, lattine e
confezioni di caffé, come se ci
si trovasse all’interno di una
delle grandi fabbriche produttrici. Altro colpo messo a segno è la frizzante Celebrity - a
metà tra house e hip hop a suon
di Pepsi -, unico brano cantato in cui la cristallina voce di
Dani Siciliano si fa gioco delle star (viene citata una certa
Beyonce…), gli sponsor più richiesti quando si tratta di alimenti per bambini dal dubbio
valore nutritivo. Sono questi
gli episodi migliori - insieme
alla cartoonesca leggerezza
ritmica di The Final Meal Of
Stacey Lawton - di un piccolo vademecum sul linguaggio
internazionale del cibo, anch’esso sempre più globalizzato. Idealmente divisibile in
due, la seconda parte del lavoro perde colpi, mostrando il
fianco: pur non risparmiando
da critiche lo zucchero (Hidden Sugars ), le barrette diet e t i c h e ( F a t t e r, S l i m m e r, F a s t e r, S l o w e r ) o i l p r a n z o d e l
presidente
americano
Bush
con il primo ministro britannico Blair (la cacofonia assord a n t e d i N i g e l l a , G e o r g e , To n y
And Me), Herbert, forse anteponendo (o legando) troppo
l’idea all’esecuzione, finisce
per peccare di manierismo.
Il risultato: autoreferenziale,
quando non proprio autocelebrativo. (6.7/10)
sentireascoltare 25
monografia
Grandaddy
Jason Lytle filava veloce sul suo skateboard. Ma avvenne un incidente e - come la famosa tartaruga - rallentò. Fu allora che riuscì a
vedere cose che correndo troppo non aveva mai notato. Ad esempio,
quella periferia irrimediabile a sole due ore di volo da Los Angeles.
Un luogo reale, oppure no. Il palcoscenico della post-modernità.
L’apocalisse giocattolo del nonno
di Stefano Solventi e Antonio Puglia
Fatevi un giro a Modesto, California, duecentomila anime a
r i d o s s o d e l l a C e n t r a l Va l l e y.
La città di George Lucas e dei
suoi Graffiti Americani, giovinezza eternamente rimpianta,
innocenza mai provata davvero, esausta prima che corrotta. A vederla da qui, dallo
scorcio surreale di Internet,
Modesto sembra una città garbata. Una messa in scena refrattaria ai clamori del Sogno
Immanente d’America. Sogno
in continua autocelebrazione,
appeso ai raggi d’un sole che
tramonta solo per promettere
l’eterno ritorno. E una sera
che può mangiarsi la notte.
Strade e giardini ed auto ad
alta
definizione
cromatica.
I candidi marmi dei palazzi
istituzionali intruppati a ventaglio nelle piazze principali.
Bandiere, bandiere, bandiere.
Stelle e strisce per tenere assieme l’appartenenza frastagliata di un popolo che non
esiste, se non in quel sogno
26 sentireascoltare
che dicevamo. E quello sì, che
è un mistero. Il sogno di una
città-popolo-Paese-mondo. Un
mondo, quel mondo, che si
muove all’unisono, stiepidito
da un’eccitazione senza tregua, dalla fragrante evidenza
di un meccanismo inarresta-
quando la modernità smette
di essere vita. E lascia alle
spalle situazioni in disarmo,
farragini fatiscenti di vita. Il
collasso della modernità è la
modernità.
O r a p e n s a t e a N e i l Yo u n g .
Allo smarrimento furioso, ai
bile. Col conforto incessante
del più spettacolare apparato
di sogni a smaltare il cielo,
l’orizzonte di ogni pensiero.
Un orizzonte, però, non privo
di pieghe. Se ti avvicini, le periferie possono essere brulle,
disperse. Il senso di abbandono è uno schianto sul petto.
Un attimo di lucidità e ti accorgi che dietro la scenografia c’è il mondo vero, l’unico
che realmente esiste malgrado abbia perso la forza di esistere. Perché non lo pensiamo
più. Non ne siamo capaci, non
ne abbiamo il tempo, i mezzi. Il collasso della modernità
non avverrà nella modernità,
ma accanto ad essa. Assieme
ad essa. Avviene di continuo,
tremori sognanti, al malinconico allarme che informava la
sua “visione” del progresso a
cavallo tra sessanta e settanta. Il seme d’argento sparato
verso il cielo della nuova corsa all’oro faceva germogliare
incubi dolciastri, una narcosi
emotiva
come
stratagemma
di difesa contro l’atroce presentimento della disfatta. La
dissipazione del fattore umano come tributo inevitabile
all’inevitabile
vittoria
sulla
Natura. Un quarto di secolo dopo, i Grandaddy di Jason Lytle mettono in musica il
danno compiuto.
Modesto, primi anni novanta. Jason, classe ‘69, ha serie chances d’intraprendere
la carriera di skateboarder
professionista,
prospettiva
presto stroncata da un brutto
infortunio al ginocchio. Piace
credere che questo stop obbligatorio, questa visione d’un
tratto raggelata delle cose, gli
abbia regalato quell’attimo di
lucidità di cui sopra. Una lucidità inedita. Come vedere con
sguardo nuovo, vergine, un
mondo mai visto prima da quel
punto d’osservazione statico.
Cantante e polistrumentista,
decide di mettere assieme un
trio col bassista Kevin Garcia
e col batterista Aaron Burtch.
A loro si aggiungono presto la
chitarra di Jim Fairchild e le
tastiere di Tim Dryden. E’ il
1 9 9 2 . N a s c o n o i G r a n d a d d y.
Fin dai primi passi (due album
autoprodotti, una manciata di
ep, vedi appendice) si delinea
il solco nel quale scorrerà la
musica della band, un gioco
di visioni scostanti ed eteree
cui presupposto irrinunciabile
è una sorta di astrazione dei
musicisti stessi, graficamente occultati nei collage degli
artwork, relegati al rango di
recettori periferici, di microsensibilità disperse affidate
ad un autentico patchwork di
linguaggi. Dream pop, post
punk, electro wave, protoprog, psych folk. Di ognuno
viene colto il lato amarognolo,
la tenera scontrosità dell’outsider che ha imparato a convivere con la sconfitta delle
(proprie) utopie. Nevrosi minime come lo specchio opaco
della catastrofe sociale. Liquide malinconie spiegazzate con voce d’androide spossato.
Turbinante
iconologia
mainstream
e
“alternativa”,
N e i l Yo u n g v i a F l a m i n g L i p s ,
un Lennon sognato dai Pavement, Ray Davies digitalizzato
Notwist. Sogni dalla veemenza
sfasata, implosi nel cofanetto
d’argento delle cose preziose.
Tra gli elementi di maggiore riconoscibilità, il canto di Lytle,
serico e fumigante, angelico
e psicotico, visionario e soft
come un Alan Parson disilluso, senza più alcuna strategia
da contemplare. Una voce tra
intimità e delirio, attraversata dall’inquietudine familiare
e vulnerabile che trovi quale
ultima compagna, alla fine di
ogni giornata.
Nella filigrana isterica e palpitante di testi e musica puoi
scorgere l’America di De Lillo,
soggiogata dal proprio mito
pervadente e implacabile, dall’iperreale miraggio quotidiano, in bilico tra struggimento
esistenziale e crash emotivo.
Sul punto di far saltare le cervella alla Storia. Di sparirci
dentro. Per ritrovarsi ai margini di ogni gioco. Come non
essere più. Un attimo di lucidità, e sei il burattino con
le cuffie, l’uomo-manichino in
un brullo landscape di tastiere smesse e paperi-decoupage a certificare l’assurdità del
luogo/situazione. Sentirsi vivi
e insensati, privati di senso
e valore dall’enormità della
Struttura, dalla sua immanente
fatiscenza. Qualcosa è sfuggito al controllo. Oltre ogni previsione. I margini di manovra
si sono ristretti, basta volerlo
vedere. Il libero arbitrio è un
aspetto trascurabile della vic e n d a . L a l i b e r t à , p u r e . L’ e r a
post-umana germina per frattali di piacere e dolore, senza
saperli più indagare.
Under The Western Freeway
(Big Cat / Will, 3 novembre
1997)
I Grandaddy ci provano comunque. Il debutto ufficiale
Under The Western Freeway
organizza tutte queste premesse in un impalpabile concept. Chiamandosi fuori dal
consueto clamore della contemporaneità,
nell’oasi
di
niente periferico circondato
dal deserto ipertecnologico,
accendono il loro falò sen-
sentireascoltare 27
z a i l l u d e r s i c h e p a s s i u n To m
Joad a spandere propositi di
rivalsa, l’orgoglio del mondo
antico, la furia degli sconfitti.
Domina piuttosto una voglia di
affabulazione amara, un disincanto indolenzito capace però
di scavarsi nel cuore nicchie
di meraviglia.
Come se la sensibilità non
fosse stata annichilita ma posta fuori corso, svalutata al
rango di modernariato, riciclabile come paccottiglia nostalgica. Ecco, il problema.
Ed ecco come lo affrontano
Lytle e compagni, con la loro
pensosa naiveté, col fiabesco
solipsismo capace di folgoranti epifanie pop. Fin dall’iniziale Nonphenomenal Lineage si entra a far parte di
un mondo tremolante, fatto di
tastierina fuori corso, arpeggi
allibiti, malinconie fantasma
c o m e u n N e i l Yo u n g s o g n a t o
dai Notwist. La compresenza,
quasi un conflitto giocoso, tra
28 sentireascoltare
passato e presente, tra nostalgia e post-modernità, sarà
il loro tormentone principe. E
la schizofrenia geografico stilistica, che fa incocciare Pavement e Abba (il delirio onirico e incendiario di Summer
Here Kids), dEUS e Pet Shop
Boys (lo pseudo soul teso tra
elettroniche croccanti di Everything Beautiful is Faraway),
Lennon e Floyd (nell’indolent e f a n t a s m a g o r i a d i W h y To o k
your Advice).
Se il principale scopo del disco sembra definire un raggio
d’azione specifico, un’enclave
poetica prima che formale, e
su ciò edificre la cifra espressiva della band, a sbalordire è
pure la qualità della scrittura,
capace di sfornare gioielli pop
a pronta presa come A.M.180,
con quell’irresistibile riffettino di tastiera (di cui in futuro
si confermeranno specialisti),
con quell’aria tra il dimesso e
il sublime, con le distorsioni
del lo-fi recuperate ad un’inn o c e n z a s f a v i l l a n t e . Ta s t i e re cremose, fruscii sintetici,
senso di perdita, delirio d’esistenza al capolinea, polaroid
sovraesposte e consumate dal
tempo
immobile,
angolosità
sciroppate e implosioni prospettiche, vene psych scavate
nel cuore stesso del miraggio,
dove i sessanta si consumano
in un loop splendido ma senza
scampo (Lawn And So On, Go
Progress Chrome). (7.6/10)
The Sophtware Slump (V2, 8
maggio 2000)
Sbalordito, il pubblico “indie”
apprezza e spende gli elogi
del caso. Tra i più convinti c’è
Howe Gelb, che a quanto pare
già conosce il lavoro di Lytle
e compagni per una cassetta
finitagli chissà come per le
mani. E’ anche grazie alla sua
intercessione che la ben più
importante V2 si muove per
scritturare la band di Mode-
sto. Il primo frutto della nuova
contrattualizzazione arriva in
coincidenza del cambio di millennio, con quello che può ben
dirsi il disco giusto al momento
giusto: The Sophtware Slump
vede tutte le istanze abbozzate dai Grandaddy portate a
definitiva maturazione. I nove
minuti dell’iniziale He’s Simple, He’s Dumb, He’s The Pilot
cuociono una suite eterea ed
androide, diafana e allarmante. Il falsetto sbeccheggiato
in un’eco friabile, quel soffice
incubo di tastiere cristalline,
un valzer di solenne mestizia
e
scollamento
esistenziale,
folate di videogames agonizzanti e marchingegni analogici, brume angosciose Crimson
e la psichedelia proto-prog
dei Floyd.
Allarme e arrendevolezza, un
languore esistenziale estremamente consapevole, perciò
capace di giocarsi la carta
d’un fatalismo plastico, irreversibile. Che è la più drastica sentenza ipotizzabile circa
l ’ a n d a z z o d e l l e c o s e . L’ i m m a gine delle tastiere sepolte nella polvere, icone di rivoluzione
tecnologica appena ieri e oggi
già rifiuto difficile da smaltire, sono il punto di combustione stesso della poetica-Grandaddy: non a caso vengono
scelte le keys – interfaccia in
via d’obsolescenza tra l’uomo
e la macchina – quale simbolo
della deperibilità repentina,
dell’impersistenza perniciosa.
La programmazione, il mito
del controllo totale, divengono espressione del loro stesso
rovescio: Broken Household
Appliance National Forest alterna la folktronica sognante delle strofe ad un chorus
post-glam devoluto (nel senso
di Devo + T Rex), adombrando
nella dissociazione stilistica
la compenetrazione/dualismo
tra natura e tecnologia, un po’
come in Miner At The Dial-AView fa il frigido break a base
di voce registrata tra le volute
di wave vaporosa. Come dire,
non esiste più una via este-
tica coerente. Non esiste più
un vivere armonico. Siamo al
capolinea asettico e confortevole del mondo.
L’ a b i l i t à d i Ly t l e e c o m p a g n i
è riuscire a metter in scena
tutto questo carico d’angoscia
senza rinunciare alla leggerezza, senza che questa leggerezza sia priva a sua volta di senso, perché sintomo
di un’apocalisse già avvenuta, per quanto somigliasse al
gioco più divertente d’ogni
tempo. Ecco quindi Hewlett’s
Daughter e The Crystal Lake,
scintillanti
congerie
powerpop, elettricità impellente ed
elettronica vivida, il riffettino
adesivo come marchio di fabbrica, melodie che sembrano
colte dal generoso catalogo Abba, quel senso di alta
definizione formale opposta
allo stato d’animo oppiaceo.
Non che evitino d’affrontarla
di petto, la malinconia, però
sempre attraverso una lente
che ti sbalza dal reale, precipitando in un collasso fumettistico-cinematografico-televisivo, giù dove hanno saputo
infiltrarsi i germi del pop: la
vicenda di Jed The Humanoid
sta tra le inquietudini bidimensionali dei Marvel Comics,
le premonizioni Asimov-Philip
K. Dick e l’humour grottesco
di John Landis, intanto che
va delineandosi un specie di
valzer Kurt Weill riprocessato
Brian Eno, pianoforte e sclerosi digitali, organetti e synth
radioattivi.
Si è già scritto molto, ma occorre dilungarsi ancora un
attimo, quanto occorre per
rendere merito ai due vertici del programma: la conclus i v a S o Y o u ’ l l A i m To w a r d s
T h e S k y, f o u n d v o i c e s e a r c h i
(finti?), elettronica suadente ma ostile, è psych cosmica
come degli Air alle prese con
una sconfinata mestizia Neil
Yo u n g , q u e l l a s t e s s a c h e i n
Under The Weeping Willow si
fa diafana e spietata, il friabile primo piano del canto nel
tremolio vetroso dei synth, il
pianoforte preda di un abbandono che ricorda il solipsismo
struggente dei migliori Eels.
Se questi sono gli (opinabili) pezzi migliori, è comunque
vero che ogni canzone coglie
nel segno, imbastendo assieme a quell’angoscia che dicevamo il suo antidoto sognante.
In virtù di uno sguardo microscopico e periferico, condizioni necessarie all’ultima
lucidità possibile. Che scorge
la nudità del re. Ed altro non
può. (7.9/10)
Sumday (V2 / Edel, 9 giugno
2003)
Occorrono oltre due anni per
dare un seguito a Sopthware
Slump. Se era difficile ipotizzare un lavoro all’altezza del
predecessore, Lytle e compagni danno l’impressione di non
essersi neppure posti il problema. O meglio, scelgono di
aggirarlo a bella posta. Sono
infatti quasi del tutto svaniti,
o comunque parecchio diluiti, i landscapes di madreperla decadente, le obsolescenze
polverose. E quei decolli orizzontali col groppo alla gola.
E le visioni in apnea come
Pink Floyd apatici. E il cigolio scomposto, e la destrutturazione palpitante delle forme
in obbedienza ad improbabili,
emblematiche storie di robotiche allucinazioni. E lo sguardo allibito rivolto al tempo che
sempre più implacabile e rapido macina l’attualità – scenari, abiti, pensieri, automobili,
way of life, passioni, hardware
& software – rendendola paccottiglia da modernariato.
Tutto perlopiù evaporato alla
luce nitida e intrigante di questi dodici pezzi pop, pasturati
da un’ironia malinconica che
se da un lato rimanda ai sogni
opalescenti di Brian Wilson,
dall’altra prefigura un senso
di minaccia fragile ascrivibile
tanto ai Flaming Lips quanto
ai Pavement e – of course – al
padre di tutti i disadatt(at)i
N e i l Yo u n g . U n a d i s c e n d e n za mai tanto chiara, scienti-
sentireascoltare 29
ficamente perseguita, che si
arricchisce di particolari col
succedersi degli ascolti, rivelando legami e spolverando le
zone d’ombra, sottolineando
intuizioni melodiche e soluzioni orchestrali. Come lo stupendo ondeggiare pianistico di
S a d d e s t Va c a n t L o t I n A l l T h e
World, valzer di mestizie masticate sul tramonto di tutte le
prospettive, o la gragnola di
watt in slow motion che puntella il lisergico abbandono di
Ye a h I s W h a t W e H a d , o p p u r e
le perturbazioni cosmiche su
cui levita l’amarezza in disarm o d i O . K . W i t h M y D e c a y.
Maggiormente prevedibili, pur
se bagnati da una grazia malsana, gli episodi più “mossi”
(alla Crystal Lake per intenderci), in cui assieme alla
distorsione frizzantella compaiono le immancabili tastierine giocattolo e/o gli arzigogoli da videogame (Stray Dog
And The Chocolate Snake, El
Caminos In The West) quando
non inserti di archi cibernetici
30 sentireascoltare
(nella propulsione dell’iniziale Now It’s On). Prevedibilità
che raggiunge l’apoteosi nel
retrogusto amarognolo di The
Group Who Couldn’t Say e nella quadratura folk rock di I’m
O n S t a n d b y, c o m u n q u e r i c o n ducibili come tutto il programma ad un ben meditato progetto stilistico-concettuale che
avvicina Jason Lytle e compagni al lavoro di Radar Bros e
Sparklehorse, anch’essi impegnati nel recupero e aggiornamento di certa tradizione
folk psych. A conferma di ciò
le due tracce finali – il valzer
i n a p n e a d i T h e F i n a l P u s h To
The Sum e soprattutto il trepidante crescendo del ballatone
seventies The Warming Sun
- aderiscono in pieno ai dettami di psichedelia estatica e
angoscia da declino che sottendono i quasi coevi And The
Surrounding Mountain e It’s A
Wonderful Life.
Superato quindi lo spaesamento iniziale, questa sorta
di
normalizzazione
stilisti-
ca sembra un necessario aggiustamento prospettico, uno
stare tra le cose del presente
con maggiore immediatezza
e intimità, quasi a sussurrare un messaggio impronunciabile – il crollo di un sogno,
l’autofagia di un incanto - col
tono più amoroso, confidenziale, rassicurante possibile.
E’ forse un album fin troppo
“normalizzato”, con l’intenzione d’esserlo. In quest’ottica
tuttavia, piaccia o meno, è il
lavoro più compiuto dei Grand a d d y. ( 6 . 8 / 1 0 )
Just Like The Fambly Cat (V2
/ Edel, 9 maggio 2006)
Nell’autunno
2005,
l’EP
Excerpts From The Diary Of
To d d Z i l l a f a u n m e z z o p a s so indietro, rispolverando il
caleidoscopio dei primi tempi
(vedi appendice). Poi, repentinamente ma nel modo migliore,
chiude la premiata ditta Grand a d d y. E ’ u n l a c o n i c o J a s o n
Lytle ad annunciarlo, contestualmente alla presentazione
di Just Like The Fambly Cat.
Un gioco di micro tragedie la morte del gatto di Jason,
la morte della band - che si
specchiano confondendosi, alludendo qualcosa di profondo/
sfuggente, una perdita in corso senza proclami, mimetizzata nel continuum emotivo del
quotidiano. Cosa è successo
alla band? Cosa è successo al
gatto? Esistono solo risposte
ovvie, ma ognuna sarebbe un
piccolo inganno. Per questo la
vocina fanciulla di What Happened non riceve risposta, o
meglio si stempera in una
spensieratezza
farraginosa.
Angoscia e distacco, abbandono e furori, trovate soniche
e sbilanciamenti strutturali: il
vocabolario Grandaddy converge tutto intero a plasmare
una scaletta che oscilla tra
distrazione e dolore, tra angoscia e incanto. Un’antologia
programmatica che rende quest’album accessorio rispetto
al mosaico estetico della band
di Modesto, tuttavia opera per
nulla trascurabile anzi più che
dignitosa, anche rispetto a
cotanta parabola artistica che
a dire il vero ha scricchiolato
non poco sotto l’urto del nuovo millennio.
Sbriciolati gli antichi timori
sotto il peso di un’evidenza
terrificante (chi si preoccupa
del futuro in un presente tanto
feroce?), il margine di manovra
“poetico” si è ristretto, l’incubo post-moderno è imploso in
una dimensione sempre più intima, tra levità interlocutoria
(l’up-tempo di Skateboarding
S a v e s M e Tw i c e s u l v e l l u t o d i
tastierina pseudo-Abba) e ballad dolceagra (i Beach Boys
sull’orlo del collasso glam di
S u m m e r. . . I t ’s G o n e ) , d o v e
ogni scatto rabbioso sembra
fatto di latta e lucine colorate (il power caliginoso di Jeez
Louise, il post-punk sbrigativo di 50%) e dove l’electro
va a sciacquare i panni nelle scenografie acriliche di un
Giorgio Moroder (la fiabesca
Campershell Dreams, la pantomima indolenzita di Where
I’m Anymore, la solennità allibita di The Animal World).
C’è insomma un senso di gioco giocato alla meno nella residua voglia di paradigma formale annidato nei vari punti di
tensione, sia quelli che s’innescano nel cuore dei pezzi (si veda la folle indolenza
N e i l Yo u n g e l ’ a r g u t o m o d e r nariato Air nel crogiolo caramelloso di Rear View Mirror)
sia quelli alimentati dai contrasti emotivi del programma
(da una parte l’accomodante
disimpegno robowave - tra Alberto Camerini e Buggles - di
Elevate Myself, dall’altra il
languido abbandono Flaming
Lips di This Is How It Always
Starts). Proprio nello iato tra
riffettini adesivi e spaesamento onirico, tra giocattolo e trepidazione, potremmo edificare
il monumento in memoria dei
G r a n d a d d y, d i c u i c e r t o Ly t l e
è stato il principale artefice. A
meno che per il resto dei giorni
il buon Jason non voglia darsi in esclusiva allo skateboard
– suo principale interesse, al
momento - abbiamo ragione
di credere (di sperare) che il
nonno tornerà a cullarci. Prima o poi. (6.9/10)
Wretched Songs – Piccola guida ai Grandaddy sotterranei
Come ogni indie band che si
rispetti, Jason Lytle e soci
hanno sempre intrattenuto un
rapporto proficuo con quel
territorio per soli fans costituito dalle uscite cosiddette
“minori”: la loro discografia
completa è costellata, oltre
che dai canonici singoli ed EP
di contorno, da una nutrita serie di autoproduzioni, split e
apparizioni su compilation.
Già nel 1992, a gruppo appena costituito, tra gli amici e
addetti ai lavori comincia a
circolare una cassetta autoprodotta di sei brani, Prepare
To B a w l , o g g i d i d i f f i c i l e - s e
non impossibile - reperibilità
anche per il più accanito maniaco del p2p. Sarebbe interessante sentire i Grandaddy in nuce, lo stesso anno
in cui imperversava Slanted
& Enchanted dei Pavement e
l’estetica lo-fi viveva la sua
stagione più florida; tuttavia,
un’idea piuttosto esaustiva di
come la band suonava nella
fase anteriore al debutto ufficiale la rende The Complex
Party Come Along Theories
(1994), album autoprodotto e
distribuito in sole 200 copie in
cassetta, ma attualmente rintracciabile in rete con discreta
facilità (basta una connessione internet, un programma di
file sharing e un po’ di pazien-
s e n t i r e a s c o l t a r e 31
recensioni
za). Come prevedibile, allora
Lytle e compagni inzuppavano
letteralmente il pane nell’opera dei numi tutelari in bassa
fedeltà di allora (Pavement in
Could This Be Love, Sebadoh
i n Ta s t e r e W o r s h i p P ) , c o n u n
sound ancora incentrato prevalentemente
sulle
chitarre
(gli inconfondibili echi Dinosaur Jr in Nebraska e Black
Bats), mostrando anche una
spiccata e interessante attit u d i n e p s y c h ( M i c h a e l B a r r y,
un Untitled per soli piano e
theremin), senza tralasciare
significative aperture folk tra
N e i l Yo u n g ( F l a i r l e s s ) e D a n i e l J o h n s t o n ( Yo u D r o v e Yo u r
Car Into A Moving Train).
Quattro di queste tracce troveranno posto un paio d’anni
dopo nella prima uscita ufficiale per un’etichetta, l’EP A
Pretty Mess By This One Band
(Will Records, 23 aprile 1996);
titolo di per sé esplicativo,
anche se va detto che il mess
dei Grandaddy presenta una
band dal potenziale espressivo notevole, che all’hard wave
d i K i m Y o u B o r e M e To D e a t h
e le distorsioni di Pre-Merced
alterna la vena psichedelica di Away Birdies w/ Special
Sounds (un semi-strumentale folk-prog) e del quasi free
form Flaming Lips Egg Hit and
J a c k To o , p e r p o i s n o c c i o l a r e
un quadretto acustico, malinconico e sgangherato come
Gentle Spike Resort.
Un antipasto niente male in
vista del full-lenght Under The
W e s t e r n F r e e w a y, a c u i s e g u i rà di poco Machines Are Not
32 sentireascoltare
She (Big Cat, marzo 1998), altro EP contenente sei episodi
tenuti fuori dalla tracklist probabilmente per non intaccarne
l’omogeneità; infatti anche qui
la varietà è di casa, tra stranezze assortite (il cazzeggio
Fall Sikh in a Baja VW Bug),
morbide ballate (la younghiana Lava Kiss, la sognante For
the Dishwasher) e miraggi di
un futuro da lì a venire (Levitz, già in odore di Sopthware
Slump). Punta di diamante la
schizofrenica Wretched Songs, sintesi delle due anime in
bilico di Lytle, tra l’urgenza
della prima fase del gruppo e
la psichedelia sintetica della
seconda, con passaggi e alternanze - dal punk-noise in
s t i l e S o n i c Yo u t h a s p a z i a l i t à
Pink Floyd - davvero mirabili.
Negli anni successivi, A Pretty
Mess… e Machines… verranno
pubblicati in due compilation
quasi gemelle, The Broken
Down
Comforter
Collection
(Big Cat, 28 giugno 1999) e
Concrete Dunes (Lakeshore,
21 ottobre 2002), entrambe
ampiamente disponibili; occhio alla differenza: la seconda edizione contiene in più tre
b sides tratte da singoli del
primo album (una menzione
particolare per 12-Pak-599,
sorta di The Band-meets-Neil
Yo u n g ) .
A cavallo del secondo disco
vengono dati alle stampe altri
d u e E P : S i g n a l To S n o w R a tio (V2, 28 settembre 1999) e
Through A Frosty Plate Glass
(V2, aprile 2001), sorta di
prologo e postilla all’opera
principale. Il primo - che verrà anche incluso come bonus
cd in un’edizione speciale di
Sopthware Slump – anticipa
efficacemente la nuova dimensione sonora della band
sia nella forma (Hand Crank
Transmitter) sia nei contenuti
(Jeddy 3’s Poem, prima parte della saga di Jed the Humanoid), col solo diversivo
di MGM Grand (in odore delle
s c o r r i b a n d e D i n o s a u r J r. d e gli esordi); il secondo si limita a racchiudere alcune b sides dell’epoca (dalla classica
ballad Grandaddy Our Dying
Brains alla punky Street Bunny), tra cui spicca l’electro
country “harvestiano” Wives
Of Farmers.
Il mini album Excerpts From
T h e D i a r y O f To d d Z i l l a ( V 2 /
Edel, 27 settembre 2005) è infine storia recente: un divertissement registrato durante
le session di Just Like The
Fambly Cat, che si rivela una
sorta di bignami in cui confluisce un po’ tutto il repertor i o d e i G r a n d a d d y, f a c e n d o s i
altresì notare per un leggero
allontanamento dal pop fort e m e n t e m e l o d i c o d i S u m d a y.
Un’opera di transizione, che
comunque evidenzia ancora
una volta le doti compositive
di livello superiore della band,
seppur tra alti e bassi - dal
pop-rock easy (e per la verità un poco deludente) di Pull
The Curtains, alle classiche
ballate folk più (At My Post)
o meno (la conclusiva Goodbye) intrise della distintiva
elettronica cartoonesca. Em-
blematica in tal senso la tripletta mozzafiato capeggiata
dallo space-pop di Cinderland
- una ballata in cui la voce di
Lytle fluttua, carica di pathos,
nell’aria densa di un’instabile
elettricità, venendone avvolta e anestetizzata – cui fa da
contraltare il timido piano dell ’ i n t i m a F u c k T h e Va l l e y F u d ge, prima di liberare il campo
per il brano migliore del lotto, Florida (candida pop-song,
che collassa sotto cascate di
chitarre distorte accompagnate da spaventose urla belluine).
Chi non si accontenta dei canali della discografia ufficiale,
troverà ancora più interessanti alcune operazioni “collaterali”, svolte all’insegna di
un’autogestione
fieramente
indipendente e, come nel caso
d i T h e W i n d f a l l Va r i e t a l , t a l volta osteggiate dalle stesse
case discografiche. Si tratta
di una compilation di rarità ed
inediti, stampata e venduta direttamente dalla band durante il tour del 2000 con Elliott
Smith; dopo le proteste - e minacce di denuncia - della label
per questioni di autorizzazioni
e di diritti, Lytle e soci hanno
dovuto interromperne bruscamente la diffusione. Sebbene
il dischetto sia rintracciabile
in rete, un’edizione ufficiale è altamente auspicabile:
anche solo come raccolta di
stranezze assortite, si rivela
un ascolto divertente e interessante. Tra le chicche: una
alt. version “robotica” della
sezione centrale di He’s Simple, He’s Dumb, He’s The Pilot; incarnazioni primigenie di
Fare Thee Not Well Mutineer
(poi rara b side di Sumday) e
Sarah 5646766 (reintitolata in
seguito First Movement / Message Fade); una versione più
soft di Levitz e una più hard di
Lawn And So On; le sgangheratissime cover di I’m Not In
Love (10 cc) e Fun, Fun, Fun
(Beach Boys).
Dello stesso tenore segnaliamo le rarissime cassette Re-
corded Live Amongst Friends
And Fidget (1994) e Live At
The Art Factory (1997), nonché – dulcis in fundo - la oddity di tutte le oddities, ovvero
il mitologico disco di Arm Of
R o g e r, T h e H a m A n d I t ’s L i l y
(1999, pubblicato da Sweat of
the Alps nel 2002); in pratica,
i Grandaddy sotto falso nome
che giocano un tiro mancino
alla casa discografica, spacciando brani con titoli come
The Pussy Song per demo di
Sopthware Slump…
I completisti e cacciatori di
rarità possono infine mettersi alla ricerca di tutte le altre
piccole
gemme
disseminate
tra compilation, split e b-sides; ci limitiamo a segnalare
una Revolution dei Beatles
sghemba
e
quasi
irriconos c i b i l e ( d a I A m S a m O . S . T. ,
2001), l’irresistibile semi-parodia della classica strenna
natalizia Winter Wonderland
(che
diventa Alan
Parsons
In A Winter Wonderland per
la raccolta It’s A Cool, Cool
Christmas, Jeepster 2000) o
la devota - e distorta - cover
di Here dei Pavement, catturata dal vivo come b side di
A.M. 180 (1998). Buona caccia. (per approfondire nel dettaglio:
http://grandaddylandscape.com/discography/)
Antonio Puglia (contributi di
G i a n l u c a Ta l i a p e r “ E x c e r p t s F r o m T h e D i a r y O f To d d
Zilla”)
s e n t i r e a s c o l t a r e 33
monografia
Lisa Germano
Da John Mellencamp a Michael Gira il passo non è breve. E’ un
percorso tortuoso che Lisa Germano si è trovata ad affrontare portando con sé canzoni, sogni, paure e visioni. Sempre sul punto di
scomparire per sempre, sbarcando il lunario in un bookstore e collaborando con il musicista di turno. Un po’ Emily Dickinson, un po’
G i o v a n n a d ’ A r c o , u n p o ’ d a r k l a d y n o i r, u n p o ’ b a m b i n a f u o r i t e m p o
massimo, quello che c’è da sapere su uno dei grandi talenti nascosti dell’America contemporanea.
Una regina senza regno
di Antonello Comunale
“Una regina senza regno” fu la
definizione che Robert Mapplethorpe diede, una volta,
di Laura Nyro. Al di là delle
differenze anagrafiche, di metodo, di stile, di qualunque
cosa, sembra la definizione
più pertinente per definire anche Lisa Germano, che forse
non a caso si è trovata a coverizzare proprio un brano della
Nyro (Eli’s Comin, nell’antologia tributo Time And Love: The
Music of Laura Nyro).
Originaria di Mishawaka, nell’Indiana, terza di sei figli e
dalle radici italiane (siciliane)
per parte di padre, Lisa Germano è un piccolo fenomeno
musicale degli anni ‘90. Sfortune produttive, ma soprattutto distributive, ne hanno
costantemente minato la carriera. C’è sempre il vessillo
di dover raddrizzare un torto storico, quando si parla di
un artista sfortunato, ma nel
caso della Germano la cosa si
enfatizza ulteriormente.
34 sentireascoltare
La fortuna critica della song w r i t e r, n e l c o r s o d e g l i a n n i ,
è stata un percorso a corrente alternata. E’ stata definita
“ex multistrumentista di Mellencamp” nonostante i due abbiamo smesso da molto tempo
di lavorare insieme, oppure
sospendere per un po’ il giudizio, abbandonarsi alle melodie così ricercate e oblique,
agli
arrangiamenti
sempre
particolari e all’ironia amara
e sarcastica dei testi.
Quello di Lisa Germano è un
mondo a sé stante, esattamen-
si è sempre sottolineato, in
maniera più o meno evidente, la sfortuna discografica e
di come fosse sottovalutata
da pubblico e critica. Quando, dopo un silenzio di cinque
anni, Lullaby For Liquid Pig
ha portato di nuovo il nome di
Lisa Germano sugli scaffali di
dischi, l’80% delle recensioni presentava un cappelletto
standard, che recitava più o
meno così: “Dopo una carriera
di tutto rispetto, e nonostante
cinque ottimi dischi, Lisa Germano non è riuscita a ottenere
tutto il successo che meritava”. Chissà perché. In verità,
Lisa Germano andrebbe per
lo più ascoltata, nelle parole
e nella musica. Bisognerebbe
te come quello di tutti i grandi
cantautori. Un qualcosa verso cui muovere e perdersi. Il
modo stesso in cui ha cominciato la carriera di musicista è
un’anomalia, e quando l’anomalia da contingente diventa strutturale reca disturbo,
non la si riesce ad inquadrare e ad inscatolare in formati
standard. Non è cosa che capiti a tutti, quella di esordire
all’età di 33 anni, di muovere i primi passi come session
woman, multistrumentista e in
particolare violinista per John
Cougar Mellencamp e solo
successivamente
cominciare
a fare dischi solisti (che, per
inciso, c’entrano poco o nulla
con lo stile del grande autore
sentireascoltare 35
dell’Indiana). Sono Big Daddy e Lonesome Jubilee i suoi
dischi impreziositi dal violino
della Germano, con uno stile
che si mostra subito versatile, arioso e ricco di spunti
melodici. Quello che doveva
essere il battesimo di fuoco
si rivela, con il senno di poi,
solo il primo di un lunghissimo percorso di collaborazioni
che ha dell’incredibile. Subito
dopo Mellencamp, Lisa Germano darà una mano ai Simple
Minds, e ancora si registrano
collaborazioni con U2, Johnny
M a r r, N e i l F i n n , E e l s , M i c h a e l
Brook, Pat Green, Latin Playboys, David Bowie, Iggy Pop,
E d H a r c o u r t , Ya n n Ti e r s e n ,
Giant Sand, Indigo Girls, Wend y & L i s a , S h e r y l C r o w, Tr a c y
Bonham,
Craig
Ross,
Billy
Joel, Bellamy Brothers, Har o l d B u d d , P e t e r M a f f a y, B o b
S e e g e r, N a n c y W i l s o n . . . a r t i s t i
che non potrebbero essere più
diversi l’uno dall’altro. Anche
a fronte delle collaborazioni avute nel corso del tempo,
appare decisamente riduttivo
limitare Lisa Germano al rango di semplice “ex violinista
per Mellencamp”, ma più delle
collaborazioni lo testimonia il
suo curriculum solista.
Il primo disco On The Way
Down From The Moon Palace (Major Bill - Koch, 1991),
sgombra subito il campo da
dubbi di sorta, da timori revenziali, timidezze da debuttanti. Nonostante sia un album ancora acerbo e grezzo,
con
l’elemento
country-folk
e quello classico ancora separati e poco amalgamati, lo
stile della Germano mostra
subito fattezze gentili, ricercate, inedite. Metà del disco
è composto da strumentali
agrodolci. Un repertorio da
romanza tradizionale, grandi
praterie e sogni americani da
coltivare. Ouverture è l’unico
termine adatto ad etichettare i brani strumentali come la
title track che apre il disco,
Calling..., Screaming Angels
36 sentireascoltare
D a n c i n g I n Yo u r G a r d e n , S i m p l y To n y e D a r k I r i e . V e r i e
propri salti nel buio del suono. Frammenti di concerti per
violino che aprono l’orizzonte di piccoli drammi domestici. I brani cantati sono country blues ironici e sarcastici,
cantati a mezza voce e suonati quasi tutti in solitario.
Blue Monday e Hangin’ With
A Dead Man narrano storie di
relazioni difficili e controverse, il ruolo della donna nelle
piccole comunità di provincia, fino all’incubo noir di Riding My Bike ( He followed me
home/ He knows where I live/
He knows my name/ He followed me home/ He knows my
name) e alla controversa resa
con se stessi di Dig My Own
Grave. The Other One - tappeto d’organo, ricami di violino e canto lunare - è il brano
più originale del disco, quello
dove la Germano si allontana
definitivamente dal modello di
Mellencamp, sebbene quello
di Moon Palace sia un country declinato in un modo così
femminile ed ironico da mantenere con il modello originario lo stesso rapporto di somiglianza che c’è tra Marylin
e le serigrafie di Warhol. C’è
sicuramente ancora molto su
cui lavorare. Lo stile è ancora
in fieri alla ricerca di una veste completamente personale.
Eppure è già a fuoco l’idea di
una musica aliena, chiusa nelle proprie paure e riflessioni,
con una voce che più che cantare è per lo più un sussurro
a labbra strette, con il bisogno di esternare qualcosa che
si è covato a lungo dentro.
(7.2/10)
Sogni e lettere
d’amore di una geek
girl
La sorpresa diventa certezza con Happiness (Capitol,
1993), un disco dove la mutazione si è ormai compiuta
definitivamente e il ritratto
dell’artista da giovane si completa con una cornice defini-
ta unicamente da sé stessa.
Questa volta, tra l’altro, la
produzione più ricca veste a
gran festa i brani e le melodie hanno tutto lo spazio per
conquistarsi la ribalta insieme agli arrangiamenti. Un disco che, abbandonati i residui
di country-folk dell’esordio,
si permette sterzate più rock,
c o m e i n Yo u M a k e M e W a n t
to Wear Dresses, Happiness,
S y c o p h a n t , E n e r g y, P u p p e t ,
These Boots Were Made For
Walking, Everyone’s Victim.
Happiness rimarrà l’album più
energico della discografia e
segnerà anche l’inizio di un
avvicinamento verso lidi sonori
p i ù d r e a m y, c h e s e m b r a n o d i scendere direttamente da The
Other One e gli altri minuetti
preziosi di Moon Palace. Nel
lento incidere di Bad Attitude
c’è tutta la musica della Germano: chitarre effettate, violino che ricama arie di corredo, drumming cadenzato, voce
sussurata che nella strofa si
scioglie in un unico sospiro,
t e s t i s a r c a s t i c i ( Yo u w i s h
i t w a s s u n n y, b u t i t ’ s n o t . . .
hahaha/ The sun will come out
t h e d a y a f t e r t o m o r r o w. . h a h a
[ . . . ] Yo u w i s h y o u w e r e p r e t t y,
but you’re not...hahaha/ But
your baby loves you, he tells
you so all the time). Un capolavoro. Si sprecano i cambi di
ritmo e ambientazione. Ogni
canzone è un discorso a parte. Sycophant è un’altra efficace scenografia psicologica,
con la voce che si sdoppia e
si triplica nel finale e gli ostinati di piano a marcare la melodia eterea. Un po’ la prima
parte di Everyone’s Victim,
una confessione di sarcastico vittimismo che si appoggia
ad un drumming freddo e marz i a l e . S u Yo u M a k e M e W a n t
to Wear Dresses e Breathe
A c r o s s Te x a s l a p a r t e d e l l e o ne la fa il violino, corteggiando arie celtiche nella prima e
echi di romanticismo classico
nella seconda, in pratica uno
strumentale orfano di un posto
su Moon Palace. Once Around
The Wworld è un girotondo
pensieroso che anticipa le atmosfere più childish di Love
Circus e la title-track, con
quella sua intro e il lavorio di
chitarra quasi shoegazey sarà
un ideale lasciapassare per
un approdo a 4AD.
Proprio il deus ex machina
della
4AD,
Ivo
Watts-Russell, si trova ad assistere ad
un concerto di Lisa Germano
al Trobadour di Los Angeles,
nel tour di supporto ad Happiness, e rimane molto colpito dalla performance di Lisa,
al punto di acquistare i diritti
del disco dalla Capitol e scritturarla per la propria etichetta. Un’occasione irripetibile:
da un lato la label all’epoca
si trova a navigare in cattive
acque, dall’altro lo status di
culto della 4AD era qualcosa
di già abbondantemente acquisito nella storia del rock.
Fu così che si decise di rimaneggiare Happiness (4AD,
1993) e riconvertirlo all’estetica
dell’etichetta
inglese.
Non solo un nuovo artwork, ma
anche un cambiamento nella
tracklist e nel missaggio degli
arrangiamenti di alcuni brani,
ad opera di John Fryer e Ivo
Russell stesso. Il disco questa volta si apre con Bad Attitude, che ha una lunga intro di
chitarra effettata. Subiscono
a l c u n i c a m b i a m e n t i a n c h e Yo u
Make Me Want to Wear Dresses, che diventa The Dresses
Song su un tappeto elettronico che segue meglio il fraseggio del violino; Puppet viene
rinvigorita
ulteriormente
da
distorsioni, con un missaggio
che rende più corposo il basso e mette la voce in riga con
gli altri strumenti. Una cosa
ancora più evidente in Happiness e nei brani più dark come
Sycophant e Everyone’s victim
che acquistando in corposità
sembrano
diventare
ancora
p i ù s c u r i . Ve n g o n o d e p e n n a t e
dalla tracklist These Boots Are
Made For Walking e Breathe
A c r o s s Te x a s e a g g i u n t e d u e
canzoni nuove: The Earth e
D e s t r o y T h e F l o w e r. L a p r i m a
è un’elegia acustica in punta di dita, mentre la seconda
è una canzone che lambisce
certe cose di Lou Reed, condita dal sapiente uso del piano e con ritmica in crescendo
verso il ritornello. (7.5/10)
“Hi, this is the story of geek
the girl, a girl who is confused about stuff like how to be
cool and sexual in the world
but finds out she isn’t cool
and gets taken advantage of
sexuality a lot, gets kind of
sick and enjoys giving up, but
in the end still tries to believe
in dreams and beauty and still
hopes of loving a man that he
might save her from her shit
life... ha ha what a geek! ”
Nel primo vero disco di Lisa
per 4AD, la Everyone’s Victim
di Happiness diventa qualcosa di più definito. Geek The
Girl (1994, 4AD) rimane ancora oggi una testimonianza
straordinariamente
sincera,
cruda e intensa. La sensibilità
di una donna che stringe i pugni contro le proprie paure e
strofina le nocche fino a farsi
sanguinare. Non è un caso che
sia proprio questo il suo disco
più conosciuto e amato. Geek
The Girl ha la stessa intimità e confidenza di certe ballate di John Lennon, quando
con pochi accordi sembra raccontarti una vicenda personale. Tutti possono riconoscersi
nelle parole, nelle impressioni
e nelle paure di questa geek,
che altri non è se non un’ironica incarnazione dell’artista.
Le note di copertina lo dicono chiaramente: questa è
la storia di una ragazza che
non riesce a rapportarsi con
il mondo esterno, vittima delle proprie paure e insicurezze, ma che forse crede ancora
nella possibilità che un principe azzurro arrivi a salvarla.
Il tema centrale dell’insicurezza, della donna come vittima di un sistema intrecciato
di veti, incomprensioni, manie
e persecuzioni e la ricerca
determinata di una verità più
vera a cui aggrapparsi.
Il frammento di tarantella che
apre il disco e torna per altre due volte, al di là dei connotati autobiografici, messo
così... tra melodie tanto tristi
e dimesse, aumenta il senso di
disagio. Una stravaganza dai
sinistri contorni morbosi. Così
come è morboso lo sprofondare a testa bassa nel proprio
disagio. Non è malinconia, ma
un passo più giù verso la tristezza. La sua verità segreta
(My Secret Reason) è l’accettazione del male (In my secret
reason, my secret reasons/ If
no one’s right and no one’s
s e n t i r e a s c o l t a r e 37
wrong/ In between this we are
learning much about evil, it’s
just evil) e la necessità di superare le proprie paure a qualunque costo (Trouble).
Il momento più nero del disco
è la terrificante ...A Psychopath. Ritmica esangue, un fraseggio greve di violino, poche
parole cantate in ipnosi alternate alla registrazione di una
t e l e f o n a t a a l 9 11 a m e r i c a n o ,
dove una donna urla la testimonianza del proprio stupro.
Tutto il disco sopravvive quasi senza fiato a questo e altri
maniacali pugni nello stomaco.
Altrove non è la paura, ma la
tristezza purissima di una Cry
Wolf.: un movimento circolare,
un carillon acustico, mantrico
e ipnotico. O anche la stessa
Geek The Girl: un girotondo di
l a c r i m e , b a s s i e d e l a y. I l m o o d
è così sfacciatamente triste
e oppresso che la Nostra ha
però l’ironia di condire il tutto con il goticismo sfacciato
d e g l i a r r a n g i a m e n t i . L’ o r g a n o
transilvano di Phantom Love,
il look vampire-chic dei violini di Just Geek e Sexy Little
Girl Princess, con quest’ultima che parte da un’intro vagamente à la Cure e poi evapora
letteralmente nell’etere, e la
voce che diventa un incrocio
tra un fantasma e Bette Davis
cantando sinistramente: “Run
along, little girl unto mommy/
Sexy little girl princess/ Say
you loved it”.
E ancora la mortifera autoironia di Cancer Of Everything
(This is a happy song/ ‘Cause
I want cancer of everything,
38 s e n t i r e a s c o l t a r e
yeah right / And if I fall down
in a face of scars, I get attention) e la caustica acidità
di ...Of Love And Colors (People, all our fucked-up smiles
/ We quit dreaming long ago
and our / Distrust and our add i c t i o n s a n d o u r d e s i r e / To
kill each other makes all the
sense in the world ). Si chiude a metà tra la speranza e il
p r e s a g i o c o n A G u y L i k e Yo u e
Stars. (8.0/10)
Geek The Girl è un sudario di
musiche tristi e confessioni
intimiste che, complice anche
la griffe 4AD, riesce a conquistarsi una certa attenzione da
parte della stampa specializzata. Rolling Stone chiude la
sua recensione con un “unforgettable” e Spin con un profetico “some may find it depressing. But that’s because
it’s pushing their buttons- and
revealing things they don’t
want to see”. A dispetto del
plebiscito critico, ritardi nella
distribuzione
compromettono
l’effetto commerciale e il disco non vende molto. Il dado
è però tratto. Ormai Lisa Germano è stata connotata come
u n a s o f t d a r k l a d y, c a p a c e d i
dischi musicalmente sofisticati e dagli umori minacciosi se
non proprio “devastanti”. E’
su un simile background che
il quarto disco si trova ad agire.
Excerpts From A Love Circus
sfere infantili e fiabesche, che
fa decisamente rima con certe
cose di This Mortal Coil e Durutti Column. Dopo un lavoro
nerissimo come Geek The Girl
Lisa attenua la componente
più spigolosa, si ritrae come
una bambina nei propri sogni
e nelle proprie visioni e tira
fuori dal cilindro una serie di
pop songs dal fascino arcaico,
mesto e onirico. Un lavoro dal
grande impatto sonoro, complice anche il sapiente lavoro
di Paul Mahern che sottolinea
magnificamente il sottotesto
musicale. Baby On The Plane
apre subito alla sua maniera:
un valzer clownesco e brumoso, che si arricchisce piano
piano di dettagli ed effetti e
su cui le parole volteggiano
come in stato di trance. Sulla stessa linea la successiva a Beautiful Schizophrenic,
una tristissima giostra onirica, che trasuda le solite confessioni autobiografiche e la
bellissima Bruises, che muove
da un irresistibile refrain del
violino.
Questi estratti dal circo dell’amore sono i pensieri di storie ed affetti che si rincorrono,
si intrecciano e si tradiscono
l’un l’altro. Anche il fraseggio
testuale si addolcisce. Non ci
si martirizza più e si esplorano
le mille risorse delle relazioni
umane, come l’ironica I love
A Snot (Shaky shaky thoughts/
(1996, 4AD) è generalmente
considerato il disco dal taglio
più consono alla 4AD. Trattasi infatti di un vero e proprio
dreamscape ricolmo di atmo-
Each and every one/ When I
a m w i t h y o u / R u n t u b b y, r u n
to) o Small Heads (The world
revolves around you/ But it revolves around me too/ So how
could we see the same one).
Certo Lisa Germano non potrà
mai essere una indie girl tutta rosa e cuoricini. I fantasmi
interiori e l’acredine verso il
mondo circostante tornano anche qui. We Suck è l’eloquente titolo di una confessione
di sfiducia verso gli uomini e
l’incomunicabilità tra i sessi;
il segreto di Victoria, ovvero
Victoria’s Secret, è il catalogo
di costumi da bagno, ricolmo
di bellissime donne in bikini,
che dalle fotografie stampate salutano Lisa e quante non
riescono ad essere così perfette, in un sarcastico e ipotetico dialogo (She says you are
u g l y I a m p r e t t y / Yo u r m a n
wishes you looked like me).
Se su Geek.. il brano chiave
era ...A Psychopath, qui tutto sembra girare intorno a
Lovesick, un vero e proprio
blues su drum machine, che
parte con la memorabile strof a ( Yo u ’ r e n o t m y y o k o o n o /
Yo u s a i d t h o s e w o r d s t o m e /
Yo u s a y s o m e h u r t f u l t h i n g s
now / None cut so deeply) e
nel secondo ritornello vede
una Germano - in maniera al
quanto inedita per lei - urlare ripetutamente “Lovesick”
come ad esorcizzare un incubo. Il trittico finale (Singing
to the Birds, Messages from
Sophia, Big, Big World) chiude con distacco, su partiture
ironicamente altezzose, sopra
le righe, come l’apoteosi di
archi e cori che sta alla fine
della seconda strofa di Messages from Sophia o l’accenno di Jingle Bells... un attimo
prima di chiudere.
Il vero tema di Geek… era la
paura. La paura di non farcela,
la paura di provarci. Love Circus invece è un lavoro incentrato sulla ricerca di un contatto, sul tentativo di uscire
dalla solitudine autoinflitta e
r a p p o r t a r s i a l l ’ e s t e r n o . L’ a l t r o
grande protagonista del disco
è Miamo-tutti, l’amato gatto di
Lisa, che torna a più riprese,
con dei brevi intermezzi tra un
brano e l’altro, miagolando e
facendo le fusa, e restituendo
un’immagine ancora più solitaria della protagonista. Ma
allora Lisa Germano è solo
una gattofila che sta chiusa in
casa? (8.0/10)
La mossa successiva sembra
rispondere a questa domanda
con un fermo diniego. Love
Circus vende poco (tra le 10
e le 20000 copie) e forse è
anche per questo che un nuovo progetto a cui la Nostra si
dedica nel 1997 sembra naufragare. Gli OP8 (sigla che
sta per Opiate) nascono infatti come una estensione solista. Lisa chiama Howe Gelb,
John Convertino e Joey Burns
(in pratica Giant Sand e Calexico) per registrare qualcosa insieme. Il feeling è così
forte che il quartetto si trova
a registrare tre canzoni in un
giorno e mezzo. La 4AD scarica definitivamente il progetto
e rilascia i diritti, permettendo ai quattro di trasferirsi a
Tucson. I soldi non sono molti
così decidono di contenere i
costi registrando tutto in sei
giorni. E’ questa la gestazione
di Slush (1997, Thirsty Ear),
un matrimonio tra terra e cielo che cita Lee Hazlewood e
Nancy Sinatra (Sand), Neil
Yo u n g ( R o u n d a n d R o u n d ) e
nel mezzo affina doti e caratteristiche di singoli e coppie.
If I Think Of Love è la morbida ballad intimista a cui la
Nostra ci ha abituati, che si
sposa a meraviglia con le ruvidezze desertiche dei Giant
Sand, su passo marziale e chitarre acustiche. Ancora, It’s A
Rainbow classicamente person a l e e To m , D i c k & H a r r y . d r o gata ballata acidula. Questi i
pezzi scritti integralmente da
Lisa Germano. Ma il repertorio degli OP8 trae il proprio
fascino dall’unione degli opposti, dal mood jazz noir per
un saloon perso nel deserto,
che muove sabbia e polveri in
Leather o nella magnifica sinfonia mariachi di Cracklin’wat e r. U n i c o d i s c o d e l p r o g e t t o
dato alle stampe fino ad oggi,
Slush mostra una Lisa Germano sicura di sé nei panni della
chanteuse d’antan che sposa
l’attualità indie. (7.8/10)
Il mancato patrocinio della
4AD per Slush testimonia l’incrinatura di un rapporto che,
seppure costante sul piano artistico, vacilla su quello economico. I dischi della Germano vendono troppo poco. Slide
(1998, 4AD) allora è l’ultimo
disco per l’etichetta che viste le ridicole vendite (6000
copie) scarica l’artista. Un
peccato doppio, anche perché
Slide è un altro viaggio erudito e pregevole nel mondo fatat o d e l l a s o n g w r i t e r. I m p r e z i o s i t e d a l l a p r o d u z i o n e d i Tc h a d
Blake, le canzoni vivono contemporaneamente in un corpo
opaco e cristallino, che risalta le melodie. I tipici arrangiamenti eccentrici diventano
un tutt’uno con gli effetti da
studio. Un esempio perfetto è
la ballata acustica No Color
Here, che parte con il ventre
vuoto e si riempie cammin facendo di effetti e suoni. Una
sorta di digitalizzazione della
psichedelia dei ‘60, che trova
i suoi apici in oniriche ballate d’avanguardia. Un esempio
magnifico è Electrified che
dopo una sinfonia di liriche
partiture di violino e stellari
suoni in reverse sfuma in un
tristissimo valzer ovattato o
anche l’iniziale Way Below The
Radio che saltella su ritmiche
elaborate al pro tool e le più
m o v i m e n t a t e To m o r r o w i n g e
Tu r n i n g I n t o T h e B e t t y, o b l i q u i
capolavori melodici.
La Germano triste e contrita,
che si lecca le ferite e inveisce a mezza voce torna con
le ballad per piano più classiche del suo repertorio: Slide, Wood Floors e soprattutto
Guillotine. Slide, ancora oggi,
rimane uno dei dischi con il
suono migliore e la produzione più intelligentemente amica degli arrangiamenti. Il duo
Germano/Blake non tornerà ed
è un peccato, perché entrambi
nei rispettivi successivi pro-
sentireascoltare 39
getti tenteranno di riprodurre
la particolare alchimia di questo disco. Blake, soprattutto,
si troverà a ripeterne alcune
soluzioni nella produzione di
Tr u s t d e i L o w, e s p r e s s a m e n t e
voluto da Alan Sparhawk proprio dopo aver sentito Slide,
ma non riuscirà ad ottenerne la stessa chimica sonora.
(8.0/10)
Dopo essere stata scaricata
dalla 4AD Lisa Germano mediterà a lungo il ritiro, alternandosi tra il lavoro in libreria e
le collaborazioni che continua
a fare un po’ per bisogno artistico, un po’ per necessità ali-
40 sentireascoltare
mentari. Tra queste si segnalano, in particolare, due brani
c a n t a t i s u L’ A b s e n t e d i Ya n n
Tiersen, un tour con gli Eels
(e più di una mano su Shootenanny!) e ancora un tour
con Latin Playboys e uno con
Neil Finn. Insomma, non rimane certo con le mani in mano,
ma il periodo non è comunque
dei migliori e la Nostra cade
in una profonda depressione, a cui sembra dare il colpo
di grazia la morte dell’amato
Miamo-tutti. E’ in questo contesto, con l’unico sollievo della bottiglia, a cui si aggrappa
sempre di più, che si svilup-
pano le canzoni di Lullaby For
Liquid Pig (2003, Ineffable/I
Music).
Ninne-nanne per cuo r i
solitari
Lisa concepisce tutte le canzoni in solitaria a casa, e una
volta completate la registrazioni, spedisce i provini a cinque / sei persone di fiducia,
alla ricerca di un modo per
distribuire l’album (solo molto dopo si scoprirà che tra
questi cinque / sei c’è anche
Michael Gira). Il primo a ris p o n d e r e a l l ’ a p p e l l o è To n y
Berg, un amico conosciuto nel
bookstore dove lei lavora, che
sta cercando un disco per far
partire una nuova label, chiamata Ineffable. I suoi mezzi
sono però ancora abbastanza
limitati, così è la stessa Lisa
a consigliare Berg di mettersi in contatto con Marc Geiger
dell’ARTISTdirect e fare una
quello di tornare con i piedi
per terra ed evitare l’oblio facile e la regressione nella solitudine. Un invito a sé stessa
come quando in Lullaby For
Liquid Pig sentenzia inequivocabile: “I need a fix / A little
one / And then it’s over [...] I
probably won’t (stop)/ Without
sorta di joint venture distributiva. E’ così che va alla fine.
Dopo cinque anni di silenzio,
Lisa Germano torna finalmente a far parlare di sé con un
disco abbastanza diverso da
quello a cui ci aveva abituati (mancano cmq anno ed etic h e t t a d e l d i s c o ) . L’ a p p r o c c i o
è sempre quello di un personale colloquio fra sé e la Luna
fatto di sussurri e malinconie,
ma questa volta si torna nel
mood più nero di Geek The
Girl. Dal punto di vista sonoro, invece, si prosegue lungo
le coordinate tracciate da Slide e il sound si riallaccia soprattutto alle piano ballads di
quel disco, sempre disturbate
ai margini da rumori, effetti e
suoni. Sono austere elegie di
solitudine e malinconia come
l’iniziale Nobody’s Playing e
Pearls a tracciare i contorni
di un diario personale intimo
e contrito.
L’ a m a r a a u t o i r o n i a c h e l a c o n traddistingue emerge evidente
in Liquid Pig, un nomignolo che
era solita affibbiarsi quando
esagerava con l’alcool o nel
country giocattolo che sentenzia ironico It’s Party Time,
con tanto di chitarrina slide,
decisamente sopra le righe.
L’ i n v i t o c e n t r a l e d e l d i s c o è
you here/ Without your love” o
come quando in Dream Glasses
off ci si appoggia a qualunque
cosa, anche a persone e cose
sbagliate, pur di colmare un
vuoto implacabile (Hey again
/ I thought that you were my
f r i e n d / Ta k e t h e d r e a m g l a s ses off / And see again) o il
bisogno fisico e psichico di
un amore a cui affidarsi per
trovare un equilibrio interiore
( T h e r e i s l o v e / To b e f o u n d /
With the gods all gone and the
souls making sound).
Lullaby For Liquid Pig è un
emozionante
matrimonio
di
suoni e parole. Un ritorno in
grande stile alla densità di
Geek e Love Circus. Quello
che si perde sul piano melodico lo si acquista in scenografia e passionalità. Il disco
è certamente “intenso e monocromo” come ebbe a definirlo Beppe Colli, senza quei
salti di registro tra un brano
e l’altro, caratteristica dei dischi precedenti, ma il gusto
per l’arrangiamento fantasioso è evidente anche in un lavoro così omogeneo. Saltano
fuori arpeggi acustici a rianimare l’esangue Paper Doll;
la fauna onirica da cui prende
l’abbrivio Liquid Pig, con voce
distorta e basso cavernoso o
ancora i mandolini della title
track, l’ovattato e opaco pro
tool sound su cui volteggia All
The Pretty Lies e il refrain da
belle epoque che anima Into
The Night. (7.8/10)
Dopo questo disco la Ineffable fallisce inesorabilmente.
Va d a s é c h e i c o m m e n t i s u l
disco, sono mediamente ottimi con punte entusiaste (Pitchfork), ma ancora una volta le vendite sono quello che
sono. Lisa Germano si ritrova di nuovo senza etichetta
e sembra sparire ancora una
volta per sempre, fino a quando non si viene a conoscenza che c’è un nuovo disco e
che per di più vede la luce
s u Yo u n g G o d R e c o r d s , l ’ e t i chetta dell’ex Swans Michael
Gira, uno che come minimo ha
un ottimo gusto musicale (Devendra Banhart, Akron Famil y, C a l l a , U l a n B a t o r, W i n d s o r
f o r t h e D e r b y, A n g e l s o f L i g h t ,
M i & L’ A u ) e c o m e m a s s i m o
ha qualcosa di geniale (Filth,
Cop, Children of God, i cosidetti “Bunny Records” degli
Swans e ancora le cose con
Angels of Light).
Rarità, stranezze e
brutte canzoni
Lisa Germano è un’artista che
si è sempre concentrata sul
formato dell’album standard,
ma
nell’epoca
dell’iperproduttività e del presenzialismo
nei mercati, nemmeno una old
style come lei è riuscita ad
evitare il formato Ep. La Nostra fa le conoscenze di questo formato contestualmente
sentireascoltare 41
all’ingresso in 4AD. E’ infatti
con un mini intolato Inconsiderate Bitch che la Nostra si
fa conoscere sull’etichetta; è
in pratica la prova generale
del remissaggio di Happiness,
contenente cinque brani tratti dalla versione Capitol del
disco. Qualcosa comincia già
a cambiare, come testimonia
il vuoto etereo in cui viene
lanciata Sycophant e la prima versione rinnovata di The
Dresses Song, che qui è (late
night)
Dresses.
La
grafica
del disco è affidata al grande
Va u g h e n O l i v i e r, c h e s i o c c u perà anche del nuovo artwork
di Happiness.
Un altro Ep targato 4AD è un
estensione del singolo di Cry
Wolf. Quattro i brani, tra cui
un’inedita The Mirror is Gone
che dal pigno country deve
essere avanzata dall’epoca di
Moon Palace. Si segnalano poi
due remix abbastanza inutili,
uno di Cancer of Everything
e uno di Sexy Little Girl Princess. Segue Small Heads, che
viaggia insieme a Excerpts
from a Love Circus. Un pezzo
inedito, Fun, Fun for Everyone
e u n a p r i m a v e r s i o n e d i To m ,
D i c k a n d H a r r y. N e l s u c c e s s i vo singolo di I Love A Snot c’è
una prima collaborazione con
Tc h a d B l a k e c h e r e m i x a p r o prio questa canzone, mentre
l’arte del remix, molto in voga
all’epoca, produce un singolo
totalmente elettronico di Lovesick, con la song di Love
Circus remixata da Underdog.
Infine c’è da segnalare che
anche Lisa Germano ha i suoi
best of e raccolte di outtakes.
Nel buco nero temporale che
va da Slide a Lullaby for Liquid Pig, la Nostra apre finalmente il proprio sito e decide di usarlo per vendere due
dischi autocompilati, uno con
il meglio dei suoi dischi e un
altro che raccoglie versioni
inedite, outtakes e b sides. I
due dischi in questione sono
Concentrated e Rare, Unusual
or Just Bad Songs. Il primo è
appunto una sorta di “Grea-
42 sentireascoltare
test Hits”, ma più che questo,
visto che di grandi hits non è
propriamente corretto parlare,
Concentrated è proprio quello
che dice la parola: un bignami
della carriera, tutto concentrato in un disco. Una selezione avvincente, ma tra i due il
disco più interessante è per
forza di cose Rare, Unusual
or Just Bad Songs. Oh...Just
A Melody che apre il disco, è
probabilmente un abbozzo di
valzer che sta tra gli avanzi
di Love Circus e Slide, mentre Starfish e una ballata dell’epoca di Happiness. Seguono
stranezze come una versione
strumentale di I Love A Snot,
un frammento di ...Breathe
A c r o s s Te x a s e u n a v e r s i o n e
grunge di Fun Fun For Everyone!. Ma sono gli inediti il vero
fascino di questo disco, come
le misteriose Cat Mask And
Cowboy Hat, Dreamland, Ice
Cream Truck, Offering, Guardian At The Exit Gate. Tutte
rimaste poco più che provini,
chiuse per sempre nel limbo
dei lati B.
F i n d o v e si spingono
i n o s t r i forse - Due
c h i a c c h iere con Lisa
Beh, prima di tutto, mi piacerebbe sapere qualcosa sul tuo
incontro con Michael Gira e su
come quest’ultimo sia riuscito
a convincerti ad incidere per
l a s u a Yo u n g G o d . C o n o s c e v i
già gli Swans?
Ho sentito parlare per la prima volta degli Swans dal mio
b a t t e r i s t a T h o r, n e l t o u r d i
“Happiness”. Non foss’altro
che per il fatto che ascoltava
gli Swans per TUTTO il tempo: era in qualche modo ossessionato, così qualche anno
più tardi mi chiamò tutto eccitato, perché aveva finalmente
incontrato Michael Gira. Stava formando una nuova band
chiamata Angels of Light, e
chiese a lui di suonare sul disco. Non so se allora Thor introdusse Michael alla mia musica…ma credo di si. Dopo di
che abbiamo cominciato a comunicare quando stavo lavorando a Lullaby For Liquid Pig,
e nonostante mi sentissi a mio
agio con lui e con lo scambio
che stavamo avendo, decisi di
fare uscire il disco per una label di qui in L. A [la Inneffable]. Ad ogni modo decidemmo
di rimanere in contatto. Ho poi
avuto molti problemi con la distribuzione… l’etichetta chiuse non molto dopo aver fatto
uscire il mio disco etc… ma ho
sempre apprezzato il tempo e
la dedizione che hanno messo a disposizione per me, così
c o m e f a c c i o o r a c o n Yo u n g
God. Quando stavo cercando
di capire se lavorare o meno
su
queste
nuove
canzoni,
la prima persona a cui le ho
mandate è stata Michael ed è
stato lui a convincermi a finirle… sono veramente contenta
di averlo fatto con il suo aiuto
e mi sento onorata di essere
s u l l a s u a e t i c h e t t a . Credo nella sua estetica, con tutti i dischi
che ha fatto uscire… ognuno con
una sua unica personalità e caratteristica e questo lo si vede
anche dagli artwork.
A proposito di artwork, dopo
la cover di Lullaby For Liquid
Pig, il dipinto di Francesca
Sundsten si mantiene sugli
stessi toni allegri… hai scelto
tu le immagini?
Michael mi ha mandato i dipinti di Francesca Sundsten e li
ho subito adorati, e tra di essi
a b b i a m o p o i s c e l t o l a c o v e r.
E’ un’immagine triste, ma ha
un qualcosa di bello dentro e
credo che centri perfettamente il tema di questo disco…
che
è
l’accettazione
della
morte… guardare ad essa con
tristezza ma anche con la bellezza che può avere una porta aperta attraverso cui poter
guardare diversamente… ad
esempio non c’è sangue che
fuoriesce dalla testa del coniglio, è lui che sta abbandonando se stesso o i piccioni a
beccarlo per svegliarlo. Tutte
le canzoni del disco hanno in
qualche modo a che fare con
questo sentimento del “risveglio”.
Quello che dici mi fa venire in
mente Miamo-tutti, il tuo gatto
diventato una superstar (tra i
fan) dopo le performance canore su “Excerpts from the
Love Circus”. Quando morì, ti
ritirasti in te stessa e mettesti
anche un messaggio sul sito.
Questo episodio è in qualche
modo connesso al nuovo album?
Quando Miamo-tutti morì, fu
un colpo al cuore per me, ma
anche un momento davvero
magico in cui mi sentivo vitale e pienamente cosciente
del mio bisogno di apprezzare qualunque cosa fosse viva.
Come la canzone “Golden Cities”. Miamo-tutti, deve averla scritta lui perché ho cominciato a cantargliela, mentre lo
abbracciavo prima di morire
[NdR. Nei credits del disco si
legge infatti: “actually written by miamo-tutti”] Lui ancora viene a visitarmi in spirito
così…. perché la morte deve
essere così orribile, quando
lui è ancora qui a volte?
Di cosa parla la canzone che
dà il titolo al disco? Cos’è
questo Mondo del Forse?
Ho scritto la canzone In The
Maybe World quando i gatti
cominciavano a portarmi uccelli dal tetto per poi ucciderli… era una cosa che mi rendeva così triste, ma dovevo
guardarla in un modo del tutto
differente, perché loro sono
solo gatti e stavano veramente portando a ME questi uccelli…una specie di dono. Adesso ho due gatti, Lou e Vian,
ma non li lascio andare più sul
tetto. Ad ogni modo, la maggior parte delle canzoni hanno
questo argomento, la morte e
la sua accettazione e di come
noi non possiamo conoscere
quello che accade… nel mondo del forse.
Non ci sono solo gatti e uccelli
in questo disco, anche persone, nella fattispecie appaiono
tra le pieghe dei testi, tuo pad r e e a n c h e J e f f B u c k l e y. . .
S ì . To o M u c h S p a c e è u n a
canzone che scrissi immaginando come mi sarei sentita
se mio padre fosse morto. Doveva avere un’operazione chirurgica ed ero terrorizzata….
Ma tutto andò come si deve e
lui adesso sta bene. Except
For The Ghosts è una canzone
che scrissi molti anni fa quando Jeff Buckley annegò. Stavo
immaginando come ci si deve
sentirsi mentre si annega…
accettare le onde e ad un certo punto arrendersi alla morte… forse bisognerebbe ricordare le cose belle invece che
la paura…. solo una speranza
che lui abbia sentito questo.
Per venire all’aspetto produttivo del disco, sembra che
anche questa volta, come per
Lullaby for Liquid Pig, sia stata una tua avventura solitaria.
In quell’occasione i contributi
di Johnny Marr e Neil Finn furono registrati a parte e sovraincisi in un secondo momento dopo che questi ultimi
te li avevano spediti. Come hai
sentireascoltare 43
lavorato questa volta e quanto
è stato importante il contributo di Jamie Candiloro?
Questo disco e Lullaby sono
stati registrati originariamente da me, qui a casa, e così…
con la mia esperienza e strumentazione limitate, hanno un
suono molto simile. Ho il bisogno di registrare le canzoni qui, prima per me, e vedere se mi convincono, quando
finalmente ci riescono posso
portarle da un’altra parte per
finirle. Jamie Candiloro è stato veramente importante nell’aiutarmi a finire l’album e
nel cercare di far suonare le
canzoni meglio delle versioni demo. Lui ha trasferito le
tracce sul suo protools e allora abbiamo aggiunto alcuni dei miei amici, Sebastian
Steinberg, Johnny Marr e Joey
Wa r o n k e r, c h e h a n n o m e s s o
un po’ di profondità. Mi piace quello che hanno fatto e
in generale amo lavorare con
altri artisti… ci sono programmi in vista, ma recentemente
ho scritto una canzone con
Michael Brook che è sul suo
nuovo disco, chiamato Rock
Paper Scissors e che esce il
18 luglio.
Sembri essere la musicista
preferita dagli altri musicisti…Neil Finn, Eels, Calexic o , Ya n n T i e r s e n , e c c … A l a n
Sparhawk dei Low disse che
Slide era uno dei suoi dischi
preferiti… come ti spieghi che
presso gli addetti ai lavori
hai un credito considerevole,
mentre il pubblico fa sistematicamente fatica a creditarti
l o s t e s s o t r i b u t o d i u n a To r i
Amos, tanto per fare un esempio?
Non so perché la mia musica non vende più di quanto
f a o p e r c h é To r i A m o s s i e i o
no, ma è solo la mia sfida a
crescere sempre e a superare tutto. Le lettere che ricevo
dalla gente mi aiutano molto a
capire che la mia musica riesce a raggiungere qualcuno…
ringrazio queste persone per
44 sentireascoltare
avermi fatto capire.
Questo mi fa in qualche modo
intendere che non ritieni il
mood melanconico delle tue
canzoni un motivo di allontanamento dal grande pubblico,
come qualcuno afferma.
Non penso che la mia musica
sia così dark e depressa come
certe persone dicono. Metto
un po’ di humour nelle canzoni così come nell’opera…
quando c’è tanta tragedia,
c’è anche tanto divertimento… questo mi aiuta a mantenermi distante dai drammi e a
guardare alle cose con occhi
differenti. Devi avere senso
dello humour in questo business, così non prendi le cose
duramente quando non vanno
bene… come lavorare con degli stronzi o non vendere dischi, che sono due cose che
musica. C’è un posto per tutte loro, da qualche parte nei
tuoi stati d’animo. Ho tentato
di poter realizzare un altro disco degli OP8, ma è difficile
perché Joey è veramente impegnato con i Calexico e lui
e Howe non parlano da molto
tempo… forse… un domani…
lo spero.
possono accadere di sicuro.
e ci vedremo allora.
Come senti di essere cambiata dai tempi di Mellencamp e
qual è la collaborazione artistica che ricordi con più piacere? In particolare, il mondo
sta aspettando un secondo disco degli OP8. Che preghiera
dobbiamo pregare per vederlo
realizzato?
Sono stata veramente fortunata a poter lavorare con artisti
cosi diversi, da Mellencamp
ai Giant Sand, da Bowie ai
Latin Playboys, forse perché
mi piacciono tutte le forme di
Voglio chiudere nella maniera
più banale possibile, e farti
la classica domanda sull’Italia, non foss’altro che c’è un
agguerrito, seppure piccolo,
gruppo di tuoi fan che vorrebbero vederti dal vivo. Quindi,
quando pensi che ci verrai a
trovare?
E’ ormai tempo di venire in
Italia per suonare e per trovare marito… ha ha ha probabilmente no… ma forse… grazie
recensioni
Lisa Germano - In The Maybe World (Young God Records /
Goodfellas, 18 luglio 2006)
Che Michael Gira avesse un fiuto infallibile e una predilezione
per certe sonorità rétro e arcaiche era cosa già ampiamente
d i m o s t r a t a d a l l ’ e x p l o i t d i M r. D e v e n d r a B a n h a r t , m a c h e a d d i rittura la sua maniacale dedizione per la musica lo spingesse
a salvare dall’oblio una Lisa Germano certo non di primo pelo
e per di più fuori dal trend contemporaneo delle riscoperte
(che allo stato attuale sembrano ancora non interessare i ‘90),
assomiglia proprio ad una delle storie melanconiche su cui la
cantautrice ha costruito la sua poetica.
Il feeling tra i due era iniziato con Lullaby For Liquid Pig, con
un Gira che aveva tentato fino all’ultimo di poter pubblicare il
d i s c o s u Yo u n g G o d . R i e s c e q u i n d i a d a v e r l a v i n t a c o n q u e s t o
In The Maybe World e a scritturare finalmente Lisa Germano
sulla propria etichetta. Ma come si spiegano un simile attaccamento e un entusiasmo decisamente sopra le righe? Ce lo dice lui stesso: “Sono stato un fan della musica di Lisa per anni. Le
sue canzoni sono incredibilmente vive e spesso straziantemente belle. E’ una grande autrice di
testi e cantante ma anche una multi strumentista estremamente talentuosa”.
Ok. Sta sostanzialmente cercando di vendere un suo prodotto, ma certi toni entusiastici si
commentano semplicemente per quello che sono: sincere attestazioni di stima. E allora il nuovo disco ripaga con la merce di cui sono fatti i sogni... della Germano, qualcosa che è sempre
pronto a mutarsi in tragedia o viceversa a scherzare ironicamente sui lati bui della vita. Che
il disco in questione abbia come tema dominante “la morte e la sua accettazione” si ricollega
direttamente a vicende personali. In The Maybe World è il disco del “risveglio” dopo l’abisso
depressivo in cui la Nostra era sprofondata con Liquid Pig. Il disco è stato prodotto nuovamente
in solitaria, tra le mura della propria casa e solo successivamente rinvigorito con gli effetti arc h i t e t t a t i i n s i e m e a J a m i e C a n d i l o r o e a i c o n t r i b u i t i d i J o h n n y M a r r, S e b a s t i a n S t e i n b e r g e J o e y
Wa r o n k e r. L a t o n a l i t à è l a s t e s s a d e l d i s c o p r e c e d e n t e , m a l e m e l o d i e s o n o p i ù p r o n u n c i a t e e
m e n o a b b a n d o n a t e n e l l ’ e t e r e . L o d i c e s u b i t o l a c l a s s i c i s s i m a To o M u c h S p a c e , c h e m u o v e l e n t a
e avvolgente fino alla chiusura finale con voce espansa. Tutta la prima parte del disco ha il cuore rivolto al passato ed è sostanzialmente omogenea. La sinistra ballata In The Land of Fairies
spezza l’idillio e comincia ad agitare le acque. Il dispiego dell’armonia è di rara eleganza, fino
al riverbero della seconda strofa che altera il suono.
Questo disco e Lullaby For Liquid Pig sono lavori in qualche modo gemelli, sebbene dagli umori
opposti, e condividono un approccio alla produzione forzatamente solitario, quasi lo fi. Questa
volta, la pesantezza minimale degli arrangiamenti toglie parecchi punti alle melodie. Un maggior dispiego di mezzi in sede produttiva avrebbe senz’altro giovato a brani come Moon In Hell e
Into The Oblivion. Per il resto, certe cose sono così personali e autografe, che sarebbe impossibile immaginarle da parte di chiunque altro: il carnevale onirico della title-track che chiude sui
toni gotico burtoniani di un Danny Elfman; la coda folk di Into Oblivion, quella lunare in punta
di carillion di Moon In Hell o il cinguettio che accompagna Golden Cities (“una canzone scritta
da Miamo-tutti”, il gatto che cantava su Excerpts From A Love Circus); il valzer che trafigge al
cuore di Red Thread (una love song delle sue: “ Go to hell, fuck you, I love you”) e l’austera e
struggente ode a Jeff Buckley di Except For The Ghosts.
Fa una certa tenerezza notare come ormai giunta al settimo disco ufficiale, e dopo averne
passate di tutti i colori con la distribuzione e il mondo del music business, Lisa Germano non
abbia ancora capito come fare a confezionare un disco - anche solo vagamente - ruffiano. In
The Maybe World è un altro lavoro che si concede lentamente, lontano dalla fretta attuale e che
sedimenterà negli anni, come tutta l’opera dell’artista. (7.5/10)
Antonello Comunale
sentireascoltare 45
recensioni
Tv On The Radio - Return To Cookie Mountain (Interscope 4AD /Self, 30 giugno 2006)
Il secondo disco dei Tv On The Radio ha riprodotto, negli anfetaminici anni 2000, quella ossequiosa e trepidante attesa che
ha sempre accompagnato le grandi stelle del rock. Un guazzabuglio di voci di corridoio, indiscrezioni, versioni advance
mandate in rete prive di masterizzazione, senza un titolo definitivo, con l’incognita della data di uscita e la tracklist da
rivedere.
A riprova che l’attesa fosse quella delle grandi occasioni e il
senso di déja vu evidente, anche il cambio di etichetta. Nient e p i ù To u c h & G o . P e r i l d i s c o d e l l a m a t u r i t à è p a r s a s u b i t o
evidente a tutti la necessità di distribuzioni più professionali
e performanti, e quindi ecco i newyorkesi targati major Interscope (sussidiaria Universal) per la distribuzione statunitense,
noncuranti delle richieste provenienti dalla base, e pronti a mostrare cinica professionalità e
scaltro calcolo programmatico.
E s i a m o d u n q u e a R e t u r n To C o o k i e M o u n t a i n . I l f a t i d i c o s e c o n d o d i s c o . “ Q u e l l o d e l l a m a t u r i t à ” . Va s u b i t o s e g n a t a t r a i p r e g i l ’ a v v e n u t a p r e s a d i d i m e s t i c h e z z a c o n i p r o p r i m e z z i , c o n i l
p r o p r i o s t i l e , c h e s u D e s p e r a t e Yo u t h . . . e r a a n c o r a i n f i e r i . Q u e l m o s t r o d i F r a n k e n s t e i n c h e
è il suono dei Tv On The Radio, a dispetto delle sue caratteristiche meticcie è, invero, ormai
riconoscibilissimo al primo secondo di ascolto. Gioca a tutto vantaggio il coacervo canoro che
anima tutti i pezzi.
Kip Malone e Tunde Adebimpe nei brani più alla Bowie cantano ancora più alla Bowie; nei brani
più alla Gabriel, ancora più alla Gabriel; negli scarti più gospel-soul ancora più gospel-soul.
Se è vero che la regola non scritta di tutti i sequel hollywoodiani di successo è quella di aumentare esponenzialmente gli effetti, le esplosioni, le sparatorie, buon viso a cattivo gioco ed
ecco Bowie, quello vero, unirsi alla banda nella calda ballata sgraziata di Province. Ma la lunga
ombra del duca bianco si allunga su tutto il disco. Wolf Like Me - che si fregia, tra l’altro, del
contributo di Katrina Ford dei compagni d’arme Celebration- è una specie di Suffragette City
più acida per uno Ziggy Stardust negro da romanza pulp e l’iniziale I Was A Lover è l’uomo che
cadde sulla terra, sprofondando in pieno ghetto hip hop.
Ma i Tv On The Radio non sono sic et simpliciter degli emulatori. Il loro approccio è quello dei
ragazzini anni ‘80 che giocavano agli incastri con il cubo di Rubik. La sequenza blu è quella
delle plumbee pagine new wave. Hours, complice anche Kazu dei Blonde Redhead, si muove sul
passo cadenzato degli Psychedelic Furs e il coro da ululato alla luna, nella migliore tradizione
britannica. E ancora la vigoria tutta punk rock di Playhouses, che pare uscita dritta dritta da un
D r a g n e t o u n H e x E n d u c t i o n H o u r, s e o v v i a m e n t e a c a p e g g i a r e i F a l l c i f o s s e s t a t o u n d e a d l o c ker nero e non Mark “denti marci” Smith.
Gli arrangiamenti sono tutti estremamente elaborati. Il battito di mani che tiene il tempo in Let
The Devil In, lo scampanellio che apre le danze di A Method e l’organetto di Dirty Whirl, cose
che stanno a metà tra un brano r’n’b e un outtake di Peter Gabriel. Sotto il segno di quest’ultimo si chiude tra l’altro il disco. Wash The Day Away: densa e magnetica, come le costruzioni
tecno-melodiche di Us o Up.
Il disco pur nella sua ricercata varietà vive benissimo come un tutt’uno e in fase di scrittura
mostra i segni del lavoro di mani ormai sapienti, seppure il déja vu, di fronte a certe armonie,
emerga comunque. Ma è un peccato veniale di questi tempi. Che il post modernismo, inteso
come assimilazione, rielaborazione e riproduzione di elementi, stili e idee del passato, in nuove forme, sia la prerogativa dominante dell’attuale popular music, fuor di dubbio. I Tv On The
Radio ne sono l’epitome. Estremamente divertente, tra l’altro. (7.5/10)
Antonello Comunale
46 sentireascoltare
AA.VV. – An Anthology Of
Noise & Electronic Music /
Fourth A-Chronology (Sub
Rosa, 2006)
Gran bella idea quella della Sub Rosa: mettere insieme, attraverso quattro diverse (a)cronologie, la storia del
noise e della musica elettronica. Una storia della musica
“parallela”, trasversale in cui
trovano posto Gyorgy Ligeti e
i S o n i c Yo u t h , R o b e r t W y a t t e
Olivier Messiaen; che associa
artisti in apparenza così lontani come Luigi Russolo (esponente del futurismo e inventore del celebre “intonarumori”)
e gli Einstürzende Neubauten,
cercando sentieri alternativi
per raccontare il corso della
musica del Novecento, sotto
l’”ombrello”
confortevole
di
categorie assieme generiche
e pertinenti come, per l’appunto, quelle di “noise” e “musica elettronica”, che spesso
e volentieri hanno incrociato
le loro rispettive filosofie.
Un’idea pretenziosa, forse un
po’azzardata e facile bersaglio degli anti-relativisti, ma
senz’altro un gran bel lavoro,
che avrà il merito di far conoscere alcuni tra i più acuti e arditi musicisti del secolo appena trascorso, a chi si
interessa prevalentemente di
rock e popular music. Un buon
ripasso, invece, per chi normalmente “bazzica” gli ambienti delle avanguardie, vista
la presenza di belle composizioni, spesso inedite e di un
booklet di tutto rispetto. Come
dire: una cosa seria.
Di particolare rilievo, alcuni
esempi di questo quarto capitolo, di questa quarta cronologia, che va dal 1937 al 2005,
vanno nella direzione della
sperimentazione totale e del
minimalismo: il punk-noiserock estremo di Les Rallizes
Denudes, la celeberrima Pendulum Music di Steve Reich,
ma anche il semisconosciuto
compositore
Halim-El-Dabh,
precursole
delle
teorie
di
Pierre Schaeffer sulla musi-
que concrète.
Trovano posto anche gli esperimenti con le onde martenot
di Olivier Messiaen, un po’
l’outsider
della
situazione,
ruolo che gli si addice anche
in contesti più generali, un
musicista un po’ “a parte”. Outsider lo è sempre stato anche
William Borroughs, presente
qui con i suoi Present Time
Exercises, esperimenti fatti
con audiocassette, una sorta di cut-up artigianale “senza forbici” simile al processo
compositivo della radio music
di Cage.
Un’iniziativa che nel bene e
nel male potrebbe far parlare
di sé, basata su un’idea che
più che preoccuparsi, come
di solito succede, delle “invasioni di campo” (“è più rock o
più avanguardia?” e cose del
genere) prova ad unire concettualmente
musiche
che,
solo perché nate in differenti contesti, sono considerate
lontane, impossibili da comparare. E allora ben venga se
Kevin Ayers, Steve Reich e
Ligeti stanno così vicini, tanto da toccarsi, purché questo
accostamento sia pertinente.
In questo caso mi pare che lo
sia. (7.5/10)
Daniele Follero
AA.VV. - To: Elliott From:
Portland (Santeria / Audioglobe, giugno 2006)
La particolarità di questo tributo al compianto Elliott Smith
è che gli artisti coinvolti sono
rigorosamente
di
Portland.
L’ i n t e n t o è c o m p r e n s i b i l e e
anche condivisibile: oltre che
un affettuoso ringraziamento
da parte dei suoi concittadini, vuole essere il segno di
qualcosa che è stato seminato, che germoglia sull’assenza, sul vuoto fisico e sentimentale lasciato dall’artista e
dall’uomo. Alla resa dei conti
però diventa una limitazione.
Pezzi come Between The Bars
o Ballad Of Big Nothing avrebbero meritato di meglio che
non il querulo country-pop de-
gli Amelia o il lo-fi stemperato
c o l l e g e - r o c k d e i T h e Te r m a l s .
D’altro canto, in tal modo viene messo in rilievo un aspetto
normalmente
trascurato,
quanto cioè Smith fosse un
grande interprete oltre che un
compositore coi fiocchi. Era
tutt’altro che ordinario infatti
quella strano gioco di palpiti
psych sospesi tra i richiami di
un folk antico e deragliamenti sensoriali dalla disparata
origine. Ci vanno abbastanza
vicini gli Helio Sequence con
una trepida Satellite, provano ad aggirare l’ostacolo i
Knock-Knock con una Speed
Trials immersa in brodaglia
radioattiva Air e trovate fiabesche (un banjo esotico, un
suggello di flauto), giocano la
carta dei minimi termini i Sexton Blake con una Rose Parade tutta riverberi, vibrafonino
e mestizia in eccesso.
Bene, ma non benissimo. Sempre meglio comunque del consueto chitarra-e-falò allestito
dai The Decemberists (una lagnosa Clementine) o del folkrock morbidello targato Dolorean (una potabilissima The
Biggest Lie). No, Elliott non
merita tanta banalità. Occorre
buttarglisi addosso senza ritegno, impadronirsi del mood
con energia e coraggio, tuffarsi di testa nel cuore della
cosa. Come faceva lui. Come
fanno una Happiness virata
electro e hip-hop dai Lifesaves, una laneganiana Needle
In The Hay a cura del trombettista e cantante Eric Matthews, e soprattutto l’inedita
High Times messa in piedi da
un nickcaveano Sean Croghan,
amico di Smith fin da ragazzo.
Il 10% del ricavato va a Free
Arts For Abused Children: ad
Elliott farà piacere. (6.3/10)
Stefano Solventi
Aberfeldy – Do Whatever
Turns You On (Rough Trade,
luglio 2006)
Una volta bissato l’ascolto
d e l l ’ e s o r d i o Yo u n g F o r e v e r
(2004) con questo nuovo Do
W h a t e v e r T u r n s Yo u O n , è f a -
sentireascoltare 47
cile concludere che gli scozzesi Aberfeldy sanno come si
scrive una canzone pop. Non
brani memorabili, niente capace di scavalcare i rigidi steccati di un ascolto stagionale
oppure di resistere all’urto
prepotente di qualcosa di più
intellettualmente
stimolante,
ma pezzi leggeri e sinceri,
adatti per essere ascoltati durante una scampagnata domenicale, magari viaggiando su
una decappottabile con il tettuccio abbassato. Canzoni che
sanno illudere e farsi amare
all’istante, salvo poi malinconicamente abbandonarti poco
dopo, magari evocando le meraviglie soul dei Prefab Sprout
e virandole country come dei
novelli Travis (Never Give Up)
oppure recitando a memoria
il copione di tante formazion i S a r a h ( T h e r e Yo u G o , P o e try). Tristezze che gli Aberfeldy sanno però spazzare via
con dei brani talmente solari
e scanzonati che sembrano il
prodotto di un incontro tra i B52’s ed una qualche formazione college rock americana dim e n t i c a t a n e l t e m p o ( N e e d To
K n o w, 1 9 7 0 ’s , l a t i t l e t r a c k )
senza contare una Up Tight
che potrebbe rappresentare la
b-side perfetta per un singolo dei Phoenix, tutta giocata
su quei sapori primi Novanta
che hanno fatto la fortuna del
gruppo francese.
D o W h a t e v e r T u r n s Yo u O n p o trebbe essere uno dei vostri
migliori compagni di questa
estate ma non chiedetegli di
accompagnarvi oltre, potreste
rimanere delusi. (6.2/10)
Stefano Renzi
Acid Mothers Temple & The
Melting Paraiso U.F.O. – Have
You Seen The Other Side Of
The Sky (Ace Fu / Goodfellas,
maggio 2006)
Tra le peculiarità di quel mondo a sé che è il Giappone,
quella che più impressiona chi
traffica con la musica è la capacità di assorbire – fagocitare addirittura – elementi delle
48 sentireascoltare
(sotto)culture occidentali per
estremizzarli, ottenendo in tal
modo risultati unici. Ne deriva, ad esempio, che i gruppi
pop scintillano di cosmesi, il
noise sia tra i più incompromissori e la psichedelia oltrepassi ogni porta del cosmo.
Altrettanto naturale, allora,
che da un tal Paese dei Balocchi si ricevano in dono opere
di genio alternate a sconcezze e orrori.
I n q u e s t o p a n o r a m a , i l Te m p i o
Delle Madri Acide Eccetera
è consolidata istituzione underground, capace di metter
d’accordo attempati passatisti
ed esteti della ricerca, cultori
del sommerso e specialisti del
bizzarro, e negli anni ha visto
crescersi attorno una solida
cerchia di adepti pronti a seguire ogni mossa. Questo nuovo disco va ad aggiungersi a
una nutrita serie e, se già avete buttato l’occhio sui titoli e
adocchiato la copertina “deadiana”, avrete inteso dove si
va a parare: acid-rock trasbordante nel prog, visionario ma
più spesso prolisso, col resto
mancia di variazioni cosmiche
e hard (gli Hawkwind evocat i i n I W a n n a B e Yo u r B y c i c l e
Saddle elargiscono nondimeno
l’episodio migliore), bucoliche
oasi etno folk, orgasmi vocali
alla Gong e bric-à-brac rètro
di prammatica.
L’ a t t i t u d i n e , d i v e r s a m e n t e d a i
compatrioti Ghost, è più enciclopedica e imitativa, così che
nonostante lo sforzo apprezzabile di fondere i rimandi storici, le pur discrete intuizioni
finiscono per disperdersi in
confuse e nostalgiche cartoline. Alla fine, sempre più perplessi sulle fondamenta del
culto, si fa strada la convinzione che Kawabata e nutrita
compagnia siano una folkloristica curiosità ben lontana dal
lasciare il segno. E se fosse
tutta una burla ? (6.0/10)
Giancarlo Turra
Adem – Love And Other Planets (Domino / Self, maggio
2006)
Due anni fa, al momento della pubblicazione del suo primo album solista Homesongs,
Adem Ihlan fu circondato da un
coro unanime di consensi provenienti da critica e pubblico,
pronti ad individuare in lui la
prossima stella del firmamento nu folk. In realtà, quell’album pagava un prezzo troppo
alto in termini di influenze
verso certi cantautori americani dell’ultima generazione
(Bill Callahan in primis) e, pur
dimostrando di possedere un
discreto slancio compositivo,
allora sfociato nella creazione di alcuni piccoli gioielli
a c u s t i c i q u a l i T h e s e A r e Yo u r
F r i e n d s e d E v e r y t h i n g Yo u
Need, non riusciva a convincere pienamente, stretto com’era nella morsa di referenti
temporalmente troppo vicini
per non risultare quantomeno
ingombranti.
Il talento era però evidente e
la scrittura, lineare, concreta, spesso di facile fruizione,
faceva ben sperare per le future vicende discografiche del
cantautore.
Aspettative che in larga parte vengono confermate dalla
bontà di Love And Other Planets, album che segna un notevole passo avanti rispetto
alle compassate atmosfere di
Homesongs, consegnandoci un
musicista finalmente capace
di intraprendere e sviluppare
un personale percorso stilistico. Un’evoluzione che non
taglia completamente i ponti
con il recente passato (di cui
rimangono ampie tracce in X
For Kisses, Sea Of Tranquill i t y, Wa r n i n g C a l l , o l t r e c h e
nella bellissima title track),
ma che cerca invece di integrare le nostalgie di ieri con
quello che è l’attuale sentire
del musicista britannico, contraddistinto da inattesi slanci
s o l a r i ( S o m e n t h i n g ’ s G o i n g To
Come), reminescenze del miglior Badly Drawn Boy (These
recensioni
Thom Yorke – The Eraser (XL / Self, 9 luglio 2006)
C’è chi ha preso la notizia come un fulmine a ciel sereno, chi
invece non aspettava altro. C’è chi, forse, resterà un po’ deluso e chi, in fondo, non ne sentiva il bisogno. Comunque sia,
l’uscita di The Eraser potrebbe avere un peso rilevante nell’annata musicale in corso, non tanto per ciò che significa in
sé - il debutto solista (per quanto lui abbia deprecato l’uso di
q u e s t a p a r o l a , p r e s e n t a n d o i l d i s c o ) d i T h o m Yo r k e , c o n t u t t o
il rumore che ne consegue - , né per il ruolo che si trova ad
assumere in questo momento della storia dei Radiohead – una
s o r t a d i d i v e r s i v o i n a t t e s a d e l s u c c e s s o r e d i H a i l To T h e T h i e f ,
con il gruppo attualmente senza contratto discografico né una
deadline per la pubblicazione dei nuovi brani che, per inciso,
in questi mesi vengono rodati sul palco.
C’era bisogno quest’album perché, finalmente, le aspettative
gigantesche che sorgono costantemente intorno alla band di Oxford sono portate su un piano più
sopportabile e, in definitiva, umano. Presentato in veste fieramente indipendente, The Eraser è
soltanto il lavoro elettronico di un cantautore, ovvero un disco di canzoni al laptop nello stile
Radiohead post-Ok Computer: Melodie tormentate, atmosfere spesso claustrofobiche, qualche
mirabile apertura pop; tutto incentrato su sample, beat e blip di scuola Warp - nati da giochi di
cut & paste del producer Nigel Godrich su alcune bozze che il cantante aveva in archivio, come
rivelato in un’intervista a “The Globe and Mail” -, più qualche loop di chitarra e un po’ di basso,
batteria e piano all’occorrenza. Ciliegina sulla torta, una ritrovata voce – reale fulcro di queste
c a n z o n i - e l i r i c h e m a g g i o r m e n t e a c c e s s i b i l i , n e l l e q u a l i Yo r k e r i p r e s e n t a l a s u a c o n s u e t a v i s i o n e c u p a d e l p r e s e n t e , i n u n m i x t r a p u b b l i c o ( H a r r o w d o w n h i l l , i s p i r a t a d a l s u i c i d i o d i D . K e l l y,
i s p e t t o r e b r i t a n n i c o i n I r a q ) e p r i v a t o ( T h e E r a s e r, r i t r a t t o d e l l a n u o v a v i t a f a m i l i a r e i n s i e m e a i
due figli).
Una sostanziale conferma della tesi secondo cui la svolta elettronica di Kid A sarebbe stata
principalmente farina del suo sacco, suffragata dal possibile mancato coinvolgimento di Godrich nel prossimo album dei cinque (al desk di produzione si è seduto per alcune sessioni Mark
“Spike” Stent); se due indizi fanno una prova, The Eraser sancirebbe una sorta di divorzio in
casa e, implicitamente, farebbe presagire un ruolo marginale dell’elettronica nel futuro suono
dei Radiohead (come dimostrerebbero le registrazioni pirata degli ultimi concerti).
Messe da parte le supposizioni del caso, restano le nove canzoni dell’album: alcune molto belle
(quella gemma che è la title track, il groove di Black Swan, la kraftwerkiana Atoms For Peace),
altre meno (Skip Divided e The Clock, le più deboli del lotto), altre ancora a ripercorrere sentieri recentemente battuti (Harrowdownhill e And It Rained All Night riportano a The Gloaming,
Cymbal Rush riprende There There), senza che comunque vengano mai meno la complessità e la
profondità a cui siamo abituati. In ogni caso, niente di veramente nuovo; solo il naturale conforto, con annesse conferme e smentite, che la dimensione solista può dare. A conti fatti, c’è
solo da sentirsi sollevati…(7.2/10)
Antonio Puglia
sentireascoltare 49
recensioni
The Robot Ate Me - Good World (5RC / Goodfellas, 6 giugno
2006)
The Hunter #1 ce lo ricorda scafato cantautore da cameretta: falsetto inconfondibile ormai marchio di fabbrica e chitarra
acustica carezzata controvoglia. Un saggio di classe in quarantaquattro secondi di musica. The Hunter #2 lo conferma fine
sperimentatore e filologo fedele: folk stravagante degno del
m i g l i o r To m W a i t s , p e r m e t à k l e z m e r e p e r m e t à m a r c e t t a d a
banda di paese.
Indeciso su quale indossare delle due maschere che hanno forgiato il personaggio o, più probabilmente, instancabile ricercatore, Rylan Buchard vaga tra le più disparate ed eterogenee
soluzioni sonore, indifferente a qualsiasi stabile ancoraggio gli
si prospetti.
Guizzi di geniale cantautorato visionario (Stone Giants e Sin
Like Holy Men) si alternano a schegge impazzite di jazz eterodosso e paranoico: qualcosa che
si avvicina vistosamente (Djien, Bloody Knife #2) agli El Guapo, invaghiti delle teorie braxtoniane, di Super/System.
Altrove è un indiepop allucinato e poverista – piano e drum machine formano lo scheletro scarno
su cui si posano le immancabili involuzioni canore di Buchard – a sfidare l’ispirata vena cantautoriale: Bloody Knife #3 e Celebration Time diventano dei piccoli classici in questo senso.
Le stranezze e l’umorismo nero continuano a piacergli da matti - She Owl #2 è un valzer patafisico leggero e gaudente – ma quando c’è da fare sul serio non ci si tira indietro: Good World #2
e le conclusive Warrior #1 e #2 ce lo riconsegnano, con il loro incedere mesto e commovente,
all’altezza di un Mark Everett in scala minore, e un cerchio si chiude.
Semplici elucubrazioni di un cantastorie abortito o ventuno minuti di genialità liofilizzata? Noi
scommettiamo per la seconda delle alternative, guadagnandone di ritorno un gran bel sentire.
(7.0/10)
Vincenzo Santarcangelo
50 sentireascoltare
Lights Are Meaningful) e dilatazioni proto ambientali capaci di riportare alla mente certe
pagine del Mark Hollis solista
(Last Transmissions From The
Lost Missions). Anche l’elettronica, usata in Homesongs
come
elemento
“invisibile”,
acquista in Love And Other
Planets un ruolo decisivo, diventando il perno attorno al
quale ruotano alcuni dei momenti più affascinanti dell’alb u m ( L a u n c h Yo u s e l f e Yo u
And Moon).
Alla luce di tutto questo, piace
pensare ad Adem Ihlan come
ad un onesto e sincero artigiano della canzone che, se
saprà mantenere così elevati
i propri standard anche in futuro, potrebbe aspirare ad un
posto di primo piano tra le fila
dei migliori songwriter di culto. (7.2/10)
Stefano Renzi
Alias & Tarsier – Brookland
/ Oaklyn (Anticon / Southern
Records, 2006)
Ritorna Alias, grande creatore
di suoni di casa Anticon e rit o r n a Ta r s i e r , v o c e f e m m i n i l e
di gran classe. Ritornano insieme, dolcemente. Le atmosfere rilassate, al limite della
stucchevolezza, caratterizzano tutto il lavoro: un dream
pop raffinato, rifinito, al confine con l’ambient, in cui i
giochi ritmici dei beat e i loop
di Alias fanno da sfondo alla
delicatezza della voce femminile. Una voce, quella della
Ta r s i e r , c h e s e m b r a r i e v o c a r e
grandi esempi di un passato
più o meno prossimo, da Bjork
a Beth Gibbons, fino ad arrivare alla sognante pacatezza
d i E l i z a b e t h F r a z i e r.
Come in tutte le produzioni di
casa Anticon, anche in questo
caso siamo in presenza di un
lavoro “di gruppo” ricco di collaborazioni: oltre all’onnipresente Dose One (che presta il
suo inconfondibile rapping in
Luck and Fear duettando contemporaneamente con i beats e con la voce femminile),
a supporto del duo arrivano
anche Kirsten McCord (direttamente dalla Estatic Peace!,
la label di Thurston Moore) e
Te l e p h o n e J i m J e s u s , c o m p a gno di scuderia di Alias.
Brookland/Oaklyn già dal titolo mette a confronto due
realtà
musicali
americane:
l’incommensurabile
scena
newyorchese e lo sperimentalismo di Oakland (una sorta di
Bristol del 2000, se mi è perm e s s o i l p a r a l l e l o ) . L’ i n c o n t r o
non è ricco di sorprese, risolto in sé stesso, piacevolmente
pop senza osare, risultando di
gran lunga più importante la
compiutezza della forma che
l’esperimento.
Cub,
Rising
Sun, Anon sono brani di una
perfezione straordinaria, che
funzionano su più livelli, ma
che non stupiscono nel loro
m i x d i C o c t e a u Tw i n s s t y l e ,
drum’n’bass e hip hop sperimentale preso a piccole dosi.
Difficile resistere, però alla
cullante Last Nail, spaccata
nel mezzo da interventi a perdifiato di Alias, o ai bellissimi campionamenti di strumenti
acustici, che siano la chitarra
( D r . C ) e i l v i o l o n c e l l o ( 5 Ye a r
Eve). (7.0/10)
Daniele Follero
Angelica Sauprel Scutti - Pomeriggi Similabissali (Point Of
View Records, maggio 2006)
Un esordio covato a lungo per
Angelica Sauprel Scutti. In
questo disco non c’è posto infatti per l’ingenuità: ogni suono sembra funzionale all’atmosfera d’insieme, se qualcosa
si muove è per irradiare fremiti e molto di quel che si muove è manovrato dalla stessa
cantautrice romana, impegnata alle chitarre, tastiere ed
elettroniche oltre che a cantare lo scostante languore dei
testi. Un canto passionale ma
schivo, uno struggimento algido, una disperata leggerezza
che fa pensare ad una Ginevra Di Marco meno aperta, la
vena soul immersa in un brodo acidulo, l’estro screziato
di alienazioni cyber e vapori
wave. Ad aiutarla c’è soprattutto Alessandro Canini a basso e batteria, il cui tocco risulta decisivo quando si tratta
di imbastire il tipico battito
legnoso/digitale del trip-hop.
Non possiamo omettere infatti di pensare ai Massive Attack in occasione della torva
ed eterea Allumettes e delle
circospette movenze di Init,
con le emulsioni sintetiche insidiose, la spersa radiazione
delle chitarre, il basso spalmato come una memoria blues
andata a male.
Il disco oscilla tra potabilità
e azzardo, col pregio di mescolarli spesso e volentieri
ma col difetto di evidenziare
in tal modo una certa artificios i t à . P r e n d e t e A l i e n Ta x i , f u n k
claudicante con giri di basso
frantumati, strali di corde, sibili digitali e scaglie di pentatoniche à la Andy Summers:
possiede un bel tiro, però non
sa raggiungere la temperatura
di fusione, sembra più il tentativo di ricostruire una certa atmosfera febbrile senza
possedere la giusta scintilla.
Preoccupata di non apparire banale, Angelica rischia di
suonare finta. E, peggio, presuntuosa. Ne avrebbe anche
ragione, sentendo cosa sa imbastire in A.M. (riff di piano
e found voices, la paradisiaca minaccia del mellotron), in
Poco importante (soul/blues
che schiude vene seventies
fino al sentore prog del finale)
e soprattutto in quella Guarda; impara, ricorda che sgasa
irrequietezza e duttile malinconia per un solenne languore vagamente Battiato. Anche
in queste però sembra troppo
presa a recitare la parte di alchimista dark tra alambicchi
electro/psych,
quasi
tenesse più a porre distanze che a
prendere realmente possesso
di ciò che interpreta. Resta un
lavoro interessante, però peccato. (6.0/10)
Stefano Solventi
sentireascoltare 51
Badawi – Safe (Asphodel /
Wide, 7 aprile 2006)
Con Safe, Badawi - recentemente accreditato come percussionista nell’album Father
Divine di Mike Ladd, ma anche
attivo nella scena sperimentale che fa capo a John Zorn
- prosegue il suo percorso di
ricerca di un territorio comune
tra linguaggi musicali diversi.
Il basso elettrico di Shahzad
Ismaily crea percorsi dub sopra ipnotici tappeti percussivi
di tablas, mentre archi e pianoforte si ritagliano spazi improvvisati (o dal sapore jazz);
non mancano poi alcune tipiche melodie mediorientali (affidate al flauto o ancora agli
archi).
Molti brani sono veri e propri
soundscape figli di un approccio cinematico (il musicista
è infatti impiegato nel campo
delle arti visive e nella composizione di musiche per film)
e dell’intenso lavoro di editing
e processing, che grazie all’equilibrio tra i diversi generi
musicali, le indubbie qualità
dei singoli e il loro ottimo interplay acquistano profondità
e appeal.
Un lavoro valido sia per chi è
interessato alle commistioni
tra generi musicali, ma anche
per gli appassionati di dub
music etnica fuori dagli schemi. (7.0/10)
Andrea Erra
Bardo Pond - Ticket Crystals
(ATP / Goodfellas, 12 giugno
2006)
Ticket Crystals è il sesto disco ufficiale dei Bardo Pond
ed è anche quello che chiude
una sorta di trilogia della vecchiaia, iniziata confusamente
con Dilate e proseguita con
l’involuto e irrisolto On the
E l l i p s e . Ve c c h i a i a i n t e s a c o m e
ripiegamento su un manierismo lisergico e su un’avanzata
morbidezza folkish che davvero rende poco onore al gruppo
che ha massaggiato le nostre
orecchie per tutti gli anni ’90,
52 sentireascoltare
con dischi sciolti nell’acido di
un suono che corrodeva tutto.
Su Ticket Crystals, l’astrattezza delle loro pagine migliori trova la sola cassa di
risonanza di Fc II e Montana
Sacra II. La prima è il tipico
dirge al peyote e molto oltre,
che sprofonda il mondo e le
sue sembianze in 18 minuti di
visioni e chitarre effettate che
si inseguono l’un l’altra su una
ritmica vagamente dub. Montana Sacra II chiude il disco
prendendo da Jodorowsky e
sperimentando compiutamente
con tape loops e scarti sonori
in uno strumentale scomposto
che si attorciglia su se stesso
e si mangia la coda.
Il resto del programma, evolve
e migliora il trend degli ultimi dischi. Destroying Angel,
Moonshine e soprattutto Isle,
sono le creature di un gruppo che ha osservato la scena
free folk, con la consapevolezza di averci messo qualcosa di proprio. Un assortimento
di crepitii acustici per flauto
traverso che qua e la si rivingoriscono con la tipica distorsione dei fratelli Gibbons, nei
passaggi in minore che odorano di Black Sabbath lontano
un miglio. Lost World ha una
felice intro, da folklore nipponico e si tramuta rapidamente
in una ballata bucolica e alterata.
C ’ è a n c h e u n a c o v e r. N e l l a
f a t t i s p e c i e C r y B a b y C r y, c l a s sico preso dal White Album
dei Beatles e originariamente
registrata per la BBC in occasione delle commemorazioni
per il 25° anniversario della
morte di John Lennon. Ma non
si capisce l’utilità di averla
inserita, visto che spezza nettamente i ritmi e l’atmosfera
del disco.
I Bardos riconquistano qualche punto di merito, dopo il
disastroso On the Ellipse, ma
sono ancora lontani dalla forma fisica migliore. (6.5/10)
Antonello Comunale
Barry Adamson – Stranger
On The Sofa (Central Control
International/Wide, giugno
2006)
Te r m i n a t o d o p o o l t r e q u i n d i c i
anni il sodalizio con la Mute
Records, Barry Adamson, già
membro di Magazine, Visage e
dei Bad Seeds di Nick Cave,
ricomincia da capo la sua avventura nell’industria discografica fondando una nuova
etichetta, la Central Control
International, il cui primo parto è rappresentato proprio dal
nuovo lavoro, Stranger On The
Sofa, album che interrompe
un silenzio lungo oltre quattro
anni.
Una carriera, quella solista di
Adamson, durate la quale il
bassista inglese ha più volte
esternato la sua profonda passione per la musica di derivazione “cinematografica” realizzando colonne sonore per
film veri e propri ed assemblando album che, in realtà,
altro non sono che ipotetiche
colonne sonore per pellicole
immaginarie. Per entrare pienamente nel mood dei lavori
del musicista inglese è quindi
opportuno armarsi di fantasia
ed immaginazione, cercando
di elaborare mentalmente visioni che possano essere coerentemente associate ai suoi
brani.
Un esercizio che in alcuni momenti di Stranger On The Sofa
risulta abbastanza naturale,
soprattutto quando ci s’imbatte in pezzi di stampo post dance (Free Love) oppure in più
canoniche composizioni spy
jazz (Who Killed Big Bird?),
che rimandano immediatamente il pensiero ai migliori noir
d’annata e che in tutti questi
anni hanno costituito le fondamenta dell’Adamson pensiero.
Ben più difficile è decifrare
le molte, classiche ballate di
stampo pop rock che affollano
l’album, una tipologia di brano
solitamente estranea ai lavori
di Adamson, che stavolta costituisce invece una parte cospicua e basilare dell’album.
recensioni
Riccardo Sinigallia - Incontri a metà strada (Sony BMG, 23
giugno 2006)
Suona facile Incontri a metà strada, talmente facile che ti sembra di averlo compreso dal primo ascolto. Pianoforte, chitarre (elettriche e acustiche), basso, batteria e poco altro sono
i rami rigogliosi su cui la melodia fa mostra di sé, nella sua
naturalezza, senza costrizioni o sovrastrutture. La forma compiutamente cantautorale italiana diventa estensione del corpo
nella modernità, come nell’immagine riflessa allo specchio di
Finora, striata dai colori elettronici dei campionatori e cadenzata dalla malinconia dei tasti bianconeri, la stessa che innervava nel 2001 Il sig. Domani di Roberto Angelini.
Eppure qualcosa sfugge. Ed è qui che l’ostinazione e l’ascolto
p a g a n o . L’ e s s e n z a d e l d i s c o , b e n l o n t a n a d a l l ’ e s s e r e s t a t a c a t turata, è tutta nei testi, ma non è la complessità della scrittura
a rendere sfocati i contorni, bensì l’immediatezza delle parole. Quando non si è più abituati a
vedere e sentire la realtà per quello che è, i racconti della quotidianità fanno fatica ad entrare
sotto pelle, hanno bisogno di essere masticati e metabolizzati fino a quando qualcosa, d’irrazionale, d’istintivo, non scuote i sensi. Allora, e solo allora, si possono seguire i tracciati di
un vissuto personale, quello di Riccardo, che diventa comune. Così Laura non è solo un brano
dedicato alla sua compagna Laura Arzilli (bassista e produttrice dell’album insieme al fratello
Daniele Sinigallia), ma uno stralcio di vita rielaborato dagli occhi di chi l’ama, come un De Gregori perso negli echi pinkfloydiani; Amici nel tempo si aggroviglia sulle dinamiche relazionali,
tra strappi e ricostruzioni, improvvisi e delicati ritrovamenti che sanno di “gioia a portata di
mano”; mentre Il nostro fragile equilibrio è la riflessione a cuore e mente aperti nell’età della
maturazione, con i fiati e i cori della Arzilli a soffiare lievi sui pensieri.
Si snoda così un percorso artistico e umano che proietta la canzone pop d’autore nel futuro,
confinando in un angolo, neanche troppo lontano, l’elettronica, trepidazione fascinatoria dell’esordio (ancora presente nel battito etereo di Se potessi incontrarti ancora e nel congedo
strumentale Ciao) che rischiava di lasciarlo dietro le quinte. Lo sviluppo del racconto in prima
persona, invece, riesce a dischiudere la voce, vera protagonista e incarnazione delle parole (la
dedica solo chitarra di Una canzone per Fede), che in Impressioni da un’ecografia diventa confessione immaginifica e genitrice di speranza: “Dai miei pensieri nell’acqua / Una spina dorsale
/ A t t r a v e r s a i l d i g i t a l e / I l l u m i n a l a s t a n z a e m i l a s c i a / L’ i m p r e s s i o n e d i e s s e r t i p a d r e ” .
Una prova toccante e difficile da fare propria, se non si lascia spazio all’empatia. La vita, nel
bene e nel male. (7.7/10)
Va l e n t i n a C a s s a n o
sentireascoltare 53
recensioni
Johnny Cash – American V: A Hundred Highways (Lost Highway,
4 luglio 2006)
Non è un azzardo affermare che, negli ultimi tempi, non c’è
stato un artista tanto amato, riconosciuto e omaggiato come
Johnny Cash. A tre anni dalla scomparsa, l’ombra lunga del
man in black continua a stendersi sui nostri giorni: dopo il
grande successo del biopic Walk The Line e l’uscita del cofanetto Unearthed, è infine arrivato il momento di pubblicare
le ultime canzoni registrate dal Nostro per il quinto volume
delle American Recordings, curate da Rick Rubin a partire dal
1994.
Nella sostanza, A Hundred Highways non fa che confermare quanto già era emerso dai precedenti quattro episodi: le
straordinarie doti interpretative di Cash restano intatte, così
come la caratura degli arrangiamenti – messi a punto in fase
p o s t u m a d a i f i d a t i M i k e C a m p b e l l , B e n m o n t Te n c h e S m o k e y H o r m e l , p i ù M a t t S w e e n e y e J o h n ny Polansky-, stavolta ancora più minimali del solito, tanto che il set di brani appare come il
più omogeneo della serie (unica eccezione in una maggioranza di ballate, il blues à la Waits di
G o d ’ s G o n n a C u t Yo u D o w n ) ; q u e l l o c h e c a m b i a è c o m e l ’ a r t i s t a n e v i e n e f u o r i , c o l t o n e i s u o i
ultimi giorni, quando la fine era vicina.
Accantonato l’epos, c’è soltanto spazio per la preghiera e la fede (l’iniziale Help Me, l’autografa
I C a m e To B e l i e v e ) , p e r l ’ a c c e t t a z i o n e d e l p r o p r i o d e s t i n o ( l ’ i n e d i t a L i k e T h e 3 0 9 , l ’ u l t i m a c a n zone scritta e composta da Johnny), per piangere chi non c’è più (On The Evening Train di Hank
W i l l i a m s s u o n a c o m e u n e s t r e m o s a l u t o a J u n e C a r t e r, s c o m p a r s a q u a l c h e m e s e p r i m a d e l m a r i to), nell’incantesimo di una voce che è insieme fierezza e rimpianto, sconfitta e resistenza.
E così accade che la magia si ripeta ancora una volta, che Further On Up The Road del tardo
S p r i n g s t e e n s e m b r i s c r i t t a a p p o s t a p e r l u i , c o s ì c o m e I f Yo u C o u l d R e a d M y M i n d o I ’ d B e A
Legend In My Time (le originali rispettivamente del canadese Gordon Lightfoot e di Ronnie Milsap), mentre il finale di Rose Of My Heart, Four Strong Winds (in passato interpretata, tra gli
a l t r i , d a N e i l Yo u n g ) e I ’ m F r e e F r o m T h e C h a i n G a n g N o w c i r e s t i t u i s c e i l C a s h p i ù c l a s s i c o ,
quello delle country ballad romantiche, dei traditional e dei canti dei detenuti. Un disco sincero
e sentito dunque, lontano da ogni retorica e logica celebrativa, che suona come un ideale addio.
Tutt’altro che scontato. (7.7/10)
Antonio Puglia
54 sentireascoltare
Canzoni che possono far venire in mente gli U2 ( Officer
Bentley’s Fairly Serious Dilemma) così come lo Shane
MacGowan solista (The Long
W a y B a c k A g a i n ) , i P u l p ( Yo u
S o l d Yo u r D r e a m s ) a n z i c h é D i vine Comedy (Theresa Green).
Brani di buon livello ma senza
dubbio spiazzanti per chi si è
imbattuto in Adamson durante
la prima fase della sua carriera oppure ne ha approcciato lo
stile tramite ben più elaborati, complessi e umorali lavori
quali Moss Side Story e King
Of Nothing Hill.
Il risultato complessivo è in
ogni modo discreto, anche se
la scelta operata da Adamson lascia la porta aperta ad
una duplice interpretazione:
Stranger On The Sofa potrebbe
le capacità: se è vero, questi
sedici brani svolgono il loro
ruolo più che degnamente, accentuando la componente più
rovinosa e malata (da giovani
Cramps) che innerva scempi
c o m e M y s t e r y S h o p p e r, T h e
Mummy o la surfistica Office
Desperate, capaci di trascinare la carcassa delle dodici
battute dalla cantina alla discarica (e ritorno) con sintesi
e freschezza invidiabili.
Si può certamente sollevare
u n a s e r i e d i o b i e z i o n i a l Te m po Nero: che di dischi simili
ne abbiamo ascoltati a bizzeffe, che non potranno mai esercitare lo stesso impatto sulla
Storia che ebbe l’accolita di
Jon Spencer (bella forza: una
porta la si sfonda una volta
sola) e via sciorinando.
dphase, i Boards Of Canada
rispondono tornando sui loro
passi con un eppì meno ottimista e solare.
Trans Canada Highway presenta il fortunato brano Dayvan
Cowboy in due versioni assieme a una quaterna di brani a
tastar le tempie degli umori
ambiental-psicologici del memorabile short-cut A Beautiful
P l a c e I n T h e C o u n t r y.
E se per qualcuno è già miracolo (e se anche così non
fosse), il melting pot è sicuramente ad alti livelli: il singolo
Dayvan Cowboy (già nell’album) è un’esplosione di feedback sciolti nella ionosfera
che si traforma in una lenta
panoramica sull’Arizona con
echi di twang e smalti cinemascope in concitato avvita-
rappresentare, infatti, il primo passo di svolta verso lidi
e soluzioni più “accessibili” e
commerciali ipotesi che però
si scontra con la determinata
scelta di tornare ad essere un
musicista “indipendente”, oppure un album strettamente finalizzato alla promozione della sua nuova label, ma anche
in questo caso non si capirebbe la scelta di rimanere in silenzio per ben quattro anni.
Rimaniamo con un grosso punto interrogativo tra le mani, a
cui soltanto il buon Barry potrà
rispondere in futuro. (6.5/10)
In verità, assodate le manifeste origini - in elenco anche gli
Electric Eels meno dissennati
e i Pagans - che sono ormai
eredità inesorabile per chiunque dopo cinque decadi di
rock, la compagine mostra peculiare gusto pop nel frastuon o d e l l e “ p s i c o c a r a m e l l e ” Yo u
Are Stealing My Time e New
Fiction, ribadito in chiusura
da Classical Mess ed Escape
Ve l o c i t y. U n r e t a g g i o b r i t a n n i co (visibile pure nella scorza
Fall di Psychic Tracks) che filtra tra le atmosfere cupe, valore aggiunto privo di retorica
che eleva i Black Time sopra
la media di un genere spesso
refrattario, oltremodo ligio a
precetti e dogmi. Perspicace
la In The Red ad inseguire i
tre e metterli sotto la sua ala
protettrice, nella certezza che
L e m m y C a u t i o n , J a n i e To o B a d
e M r. S t i x p o s s a n o f a r e a n c o r
di meglio. Che lo tengano in
serbo per il notoriamente “difficile” terzo album? (7.6/10)
mento psych; mentre Left Side
Drive (in levigata pelle elettronica) è già in odor di class i c o . H e a r e d F r o m T h e Te l e graph Lines e Under The Coke
Sign sono due inframezzi “là
fuori in campagna”, e infine
Skyliner ritorna alle vischiose sonorità di Sixtyniner con
battiti del cuore warp-style e
legnose percussioni.
Una versione ambient di oltre
nove minuti per mano di Odd
Nosdam di Dayvan Cowboy
(una sorta di mantra con una
parte centrale a base di ritmiche hip-hop – prese pari pari
d a K i d F o r To d a y - e u n a f a tamorgana d’archi in rilascio)
chiude in bellezza un grande
ritorno dei Boards Of Canada “glacial side”. Un must (e
bello pure il videoclip in “caduta libera” di Melissa Olson
nel dvd allegato all’album).
(7.0/10)
Stefano Renzi
Black Time – Midnight World
(In The Red / Goodfellas,
giugno 2006)
Le aspettative possono divenire un fardello sgradito e
ingombrante, desideri scompigliati che lasciano insoddisfatte e frustrate entrambe
le parti. Nulla di ciò grava
su Midnight World, ricomparsa del trio d’oltremanica dopo
l’esordio del 2004 Blackout,
convincente ipotesi di Pussy
Galore legati alla prima Catena di Gesù e Maria. Si suole
affermare che il secondo album illumini sulla consistenza di una band e ne chiarisca
Giancarlo Turra
Boards Of Canada - Trans
Canada Highway (Warp / Self,
6 giugno 2006)
Per chi è rimasto deluso dagli
esperimenti chitarristici del
recente The Campfire Hea-
Edoardo Bridda
Camera Obscura – Let’s Get
Out Of This Country (Elefant
/ Goodfellas, giugno 2006)
Il pop, quello vero, è spesso
spensieratezza, che non vuol
dire però superficialità. Anzi,
tutt’altro. E proprio il pop ritrova la sua voce in una band
scozzese dal nome quantome-
sentireascoltare 55
no insolito: Camera Obscura.
E diciamolo subito. Belle And
Sebastian sono qualcosa di
più di una semplice e nebbiosa
evocazione. Sembra quasi che
accompagnino spiritualmente
la band di Tracyanne Campbell – una voce che fa innamorare – anche in questo nuovo “obscuro” lavoro, dal titolo
L e t ’ s G e t O u t O f T h i s C o u n t r y.
Ma le rotelle girano comunque
fluide e il meccanismo è davvero ben congegnato. Perché
è un concentrato di potenziali
hit che sarebbero perfetti per
bonificare le scalette delle radio nazionali.
I l s i n g o l o L l o y d , I ’ m R e a d y To
Be Heartbroken – che non a
caso apre il disco – è semplicemente irresistibile, tra i
Commotions di Lloyd Cole (chi
n o n s i r i c o r d a A r e Yo u R e a d y
To B e H e a r t b r o k e n ? ) e i B r o ken Social Scene (per certi
azzeccati fraseggi di strument i a f i a t o ) . Te a r s F o r A f f a i r s
rallenta il ritmo, ed è calore
e passione che ricorda un po’
i Cardigans e ci fa innamorare e struggere di malinconia
allo stesso tempo. Perché in
fondo i Camera Obscura sono
così. Un velo di tristezza che
si nasconde tra sguardi aperti
e bocche sorridenti. (7.0/10)
Manfredi Lamartina
Carnifull Trio – Modamare
(Riotmaker / Wide, 24 aprile
2006)
Less is more: per l’etichetta
più massimalista del panorama
italico sembra quasi un controsenso. Nella nuova produzione Riotmaker usando solo
una chitarra, delle percussioni, l’immancabile elettronica
e una voce, si distilla l’anima
della scuderia friulana: il puro
e sacro ritmo del funk.
Già nel progetto dance Fare
$oldi, Luka Carnifull ci aveva allietato con ritmi e insert
di elettronicherie anni 70/80.
Qui riaggiusta il tiro con suoni di chitarra noisy che vanno
ad amalgamarsi in modo perfetto alla sua ben nota vena
56 sentireascoltare
ritmica.
Il sound chitarristico dell’accattivante incipit (Perché le
ragazze dicono no) ci ricorda gli stop dei Don Caballero, mescolati a progressioni
in stile anni ‘60. Le canzoni
strumentali si basano sempre
su questo schema: ripetizioni
e stop tanto cari alla scena
post-rock, seppur mescolate
con percussioni che le rendono più calde e con distorsioni
e feedback che sporcano ulteriormente il risultato.
La vera sorpresa si ha negli
episodi cantati (43140, Cold
P i z z a , L’ a m o r e p r i m a d i i n ternet): un miscuglio che attinge dalla melodia dei vicini
Amari, senza ingredienti hiphop e con una maggiore vena
‘black’, allietata da coretti e
da vari ‘parappappappà’ che
ricordano le sgommate delle
sigle dei CHiPs o i riff supersoul di Curtis Mayfield.
Un
altro
ingrediente
che
spezza la monotonia e rende
l’ascolto più pacioccoso e nerdy è l’inserimento di samples
dal sapore di sale: un ricordo di sala giochi in Subliminal
Heavy Metal , un estratto di
Big Jim (sic!) in Song For Guido, e una vocetta innocente di
bambino che vi lascio scoprire.
Un album che apre un sentiero
alla meglio gioventù del rock
nostrano, sempre più alla ricerca di nuovi input, innestando la wave con diavolerie
ritmico-elettroniche e un gusto rétro mai nostalgico e invece pieno di spunti creativi.
(7.1/10)
Marco Braggion
Charalambides – A Vintage
Burden (Kranky / Wide, 22
maggio 2006)
Incastonato tra i due splendidi Ep Live/Dead – Dead/Live,
omaggi ai Grateful Dead e al
contempo intense polaroid dal
vivo, il nuovo lavoro effettivo dei Charalambides viene
licenziato da Kranky e segna
il distacco dal gruppo di Hea-
t h e r L e i g h M u r r a y. R i t o r n a t i
un duo, il suono dei Carter si
fa di nuovo carne dopo le vertigini opache e impenetrabili
del densissimo Joy Shapes.
Si ritorna un po’ alle origini,
ad un suono folk allucinato e
arso sull’asfalto delle strade intorno Houston, con quel
minimo di weirdness che non
sembra mancare mai ai suoni
rock prodotti nello stato più
reazionario degli States (Butthole Surfers, Jandek, Red
C r a y o l a , P a i n Te e n s , W i n d s o r f o r t h e D e r b y, B e d h e a d ,
ecc…).
Il passo languido e ascetico di
There Is No End infatti si sintonizza immediatamente lungo
le coordinate narcotiche dei
vari Houston, Union, Market
Square. Arpeggi al rallenty e
doppia voce di Christina in
stato di ipnosi permanente.
L’ i n t r o f a i l s u o e ff e t t o , m a i l
resto del lavoro si ammorbidisce sempre più sulle melodie
eteree e pronunciate di Spring
e Dormant Love. I suoni acustici, puliti e nettissimi, nel
missaggio finale si animano in
sordina dietro la traccia vocale, sceneggiando ritornelli
epici. I Charalambides tendono sensibilmente verso una
forma più pop. Si sciolgono
le polveri che incrostavano il
folk brumoso di Market Square
all’apertura aerea di Dormant
L o v e e d e l l a s p l e n d i d a Tw o
Birds, che forse complice anche l’assonanza vocale, semb r a r i c o r d a r e l a Tw o S t e p s d e i
Low di Secret Name.
Il sentimento avvertito e intimo della melodia e il passo
lento delle cadenze ha più di
qualche punto di contatto con
il cosiddetto slow core. Nel
momento in cui i texani rinunciano alla carica avanguardista delle loro pagine migliori,
si accasano presso una tradizione già ampiamente esplorata e che loro stessi avevano in
qualche modo, per vie traverse, contribuito ad alimentare.
Che il passaggio sia indeciso
e i tentativi tutt’altro che cer-
recensioni
Juana Molina - Son (Domino/Self, maggio 2006)
Son è il quarto album per Juana Molina, argentina di Buenos
Aires, che praticamente da sola prepara un’ipnotica pietanza
a base di chitarra acustica (l’arpeggio delicato ma intenso) e
voce (quell’etereo languore, quei vocalizzi carnosi), guarnendola di synth speziati e percussioni palpitanti. Il tutto stemperato in un brodo di field recordings, cinguettii, friniti, vociare
di bimbi e scoppiettii di falò. Segnali di vita che germoglia
e accade nel grembo stesso della Natura, lo schermo ideale
su cui proiettare queste meditazioni fantasma, questi esotismi dissimulati. Il tropico come un tatuaggio invisibile, una
geometria esistenziale dagli impalpabili riflessi formali. Folk
psichedelico che sembra esalare da uno di quei giardini pieni
d’incanto e minaccia di Rousseau il Doganiere, o almeno è simile il senso di mistero e particelle
elementari, di antico annidato nel presente, di mimesi magica del tempo in attesa.
Malgrado una certa ripetitività strutturale, l’effetto è avvincente: i folk si alternano tesi ed estatici, sfarfallanti e ombrosi, dai melismi rochi dell’iniziale Rio Seco (straniante come un Cobain
unplugged in visibilio mistico) al languore enigmatico e suadente di Elena, passando per l’incedere torvo di Las Culpas (quasi una PJ Harvey ancestrale) ed il medioevo angelicato di Micael.
Anche quando l’approccio “avant” prevale, non va perduta quella leggerezza sostanziale, quella
g e n u i n i t à c h e t i d i s a r m a e a t t a n a g l i a s e n z a s o v r a c c a r i c h i n é a m p o l l o s i t à . P e r d i r e , Yo N o è u n
bozzetto funk screziato di ansiti, reverse birichini e cori futuristici come piacerebbe (ri)sentirne
dalla diva Bjork, idem dicasi dell’electrosalsa volatile e guizzante di Malherido. O, ancora, vedi
come l’acidità trasognata di Un Beso Llega o la lunare inquietudine della title track sappiano
emanare dolcezza attraverso gli stranianti sviluppi degli organi e delle elettroniche. Un gioco
c h e v a a c o n c l u d e r s i n e l l ’ a r p e g g i o s t r e t t o d i H a y Q u e Ve r S i Vo y, q u e l l a f l e m m a t i c a t e n s i o n e
come certo Drake, il canto pastoso che si spalma diafano, destrutturazioni folk à la Califone,
quindi un lungo baluginante finale per cori e voci sperse come ectoplasma spiritual. Di lei s’è
innamorato David Byrne. Non si fatica a capire il perché. (7.1/10)
Stefano Solventi
sentireascoltare 57
recensioni
Hot Chip – The Warning (Emi, maggio 2006)
Dopo una prova d’esordio poco meno che meravigliosa (Coming
On Strong, pubblicato nel 2004 dalla Moshi Moshi Records),
erano in molti ad attendere gli Hot Chip al varco del secondo
album, ansiosi di capire se quel disco fosse stato veramente
l’inizio di un’avventura sopra le righe oppure un fortunato incidente di quelli che sempre più spesso accadono a coloro che
si cimentano con laptop, console giocattolo e macchinari vari.
Una curiosità divenuta addirittura morbosa da quando è cominciata a circolare la voce che la band inglese aveva stretto un
p a t t o d ’ a c c i a i o c o n i t i p i d e l l a D FA e n t r a n d o q u i n d i i n c o m b u t t a
con quello che è il team di produttori più agguerrito, chiacchierato e corteggiato del momento.
L’ i d e a c o m u n e e r a c h e q u e s t o s o d a l i z i o p o t e s s e g e n e r a r e d e l l e v e r e e p r o p r i e a l t e r a z i o n i s t i listiche in casa Hot Chip magari rendendo più heavy e pulsante il groove della band. Niente di
tutto questo è invece successo, il dna della band inglese è rimasto pressoché inalterato, sempre fedelmente ancorato a quel techno/soul/pop di matrice eightes che anche in questo secondo
episodio costituisce la piattaforma ideale dalla quale si diramano le evoluzioni sonore di Joe
Goddard e soci. Apparentemente più “solare” e scanzonato di Coming On Strong, The Warning
viene letteralmente spedito in orbita dai primi due singoli estratti dall’album And I Was A Boy
From School e Over And Over (per chi avesse voglia, tempo e desiderio, in circolazione esistono molte versioni di questi due brani licenziati in formato sette e dodici pollici con ottimi remix
firmati, tra gli altri, da Erol Alkan e Solid Groove), rispettivamente una limpida cavalcata pop
house come gli X Press 2 impegnati a produrre il nuovo singolo degli Orange Juice ed un improbabile numero spastic dance rock contornato di chitarre elettriche, videogame e fraseggi di
organo, il cui video, in fottuto nerd style, è già diventato un must sulle televisioni specializzate.
Il resto dell’album si attesta, ovviamente, un gradino al di sotto dei due brani precedentemente citati, ma è comunque materiale di grandissimo spessore: la title track si allunga come un
vellutato carillion breakbeat dal ritornello assassino, Look After Me il brano da ascoltare nel
p o s t p a r t y a c c o c c o l a t i c o n l a r a g a z z a d e l c u o r e , A r r e s t Y o u r s e l f l a t r a c c i a e l e c t r o c h e i Ta l k i n g
H e a d s s c r i v e r e b b e r o o g g i , S o G l a d To S e e Y o u u n a r o b o b a l l a t a p e r i n g r a n a g g i u m a n i , N o F i t
State semplicemente quello che manca nell’ultimo album dei Royksopp ovverosia la Beta Band
alle prese con la contemporaneità euro-pop. Impossibile chiedere di più, difficile immaginare
qualcosa di meglio in ambito (techno) pop. The Warning è un album da possedere a tutti i costi.
(8.0/10)
Stefano Renzi
58 sentireascoltare
ti, lo testimonia l’imponente
Black Bed Blues, un tappeto
acustico di diciassette minuti
c h e p e r m e t t e a To m C a r t e r d i
esprimersi in alcune delle sue
migliori soluzioni chitarristiche, in una sorta di Dark Star
per gli anni 2000.
A Vintage Burden scaccerà via
qualche fanatico e accoglierà
nel suo caldo grembo nuovi
adepti, in una rivoluzione pienamente riuscita a metà. Pur
non conquistandosi un posto
tra i migliori lavori della coppia, riesce comunque a conf e r m a r e C h r i s t i n a e To m C a r ter tra gli apici dell’attualità
folk americana. (6.5/10)
Antonello Comunale
Comets On Fire – Avatar (Sub
Pop / Audioglobe, 8 agosto
2006)
E’ curioso constatare come i
Comets On Fire abbiano deciso di abbassare i volumi del
loro muro di suono chitarristico per lasciar riaffiorare sulla superficie dinamiche
quasi frippiane (diciamo King
Crimson era In The Wake Of
Poseidon), eppure è quanto
accade nell’iniziale Dogwood
Rust. Sia detto, lo sfondo resta sempre quel magma sonoro alla Hawkind, la cui trama
viene ispessita ulteriormente
dall’immancabile echoplex di
Noel Harmonson, ma come biglietto da visita il brano lascia
presagire novità.
Novità gradite, che non si fatica a scorgere nei toni quasi
soft (meglio: meno forsennati
del solito) di Jaybird – mai il
fraseggio delle chitarre è stato voce solista come in questo
caso – e nel blues acido e cant a b i l e d i L u c i f e r ’ s M e m o r y.
The Swallow Eyes e sopratt u t t o H o l y Te e t h s i f a n n o d e positarie dell’annoso dilemma
sulla posizione dei Comets On
Fire, mai troppo chiari in proposito, nei confronti dello ston e r. D i s c u s s i o n e s t e r i l e e f i n e
a sé stessa, se non fosse che
rinfocola il dubbio su quanto, e se, Ethan Miller e com-
pagni siano succubi di quella
che Bloom chiamava angoscia
dell’influenza, la causa prima,
a ben vedere, della fine poco
edificante a cui è giunto lo
s t o n e r. S e è a l t a m e n t e p r o b a bile che la musica dei cinque
sia solo maschera di revivalismo cieco e a volte persino
becero, dietro la quale invero
si nascondono ben altri tesori da scovare nelle maglie nascoste del loro suono, come
dobbiamo allora comportarci
di fronte al rifferama seventies compiaciutamente ignor a n t e d i H o l y Te e t h ?
Per fortuna intervengono Sour
Smoke, strumentale tutta org a n o e I r o n B u t t e r f l y, f l o w e r
power mediato dalle intuizioni
f o l k d i B e n C h a s n y, e i l p o p
psichedelico – presumibilmente farà la gioia dei nostrani
Jennifer Gentle - di Hatched
Upon The Age a confermare Avatar il parto più maturo
e accessibile di una band il
cui vivido sguardo sul futuro
sembra non risentire di nessuna angoscia retrospettiva.
(7.2/10)
tra le trame semplici ed efficaci della chitarra (l’iniziale Gegen Alles Bereit, col suo incedere epico e malinconico che
non ammette repliche di sorta)
e ritmi di stampo decisamente
più vicini ai canoni Morr (Zwei
Streifen In Blau, dalle melodie più primaverili rispetto a
quelle del pezzo di apertura).
In pratica, la versione rallentata dell’arrembante post rock
futuristico dei 65daysofstatic,
con richiami allo stile morbido
e d e v o c a t i v o d i F o u r Te t .
Anche se a volte il meccanismo
s’inceppa in qualche banalità di troppo – come nel caso
di Position: Wieder Eins, che
quasi subito palesa il proprio
aspetto di indigesto polpettone mogwaiano – comunque il
risultato è godibile come un
sorso di birra gelida mentre
tutto il resto è arido e dannatamente caldo. (6.5/10)
Vincenzo Santarcangelo
To r n a n o i C o u n t r y Te a s e r s ,
complesso scozzese promotore di un lo-fi a forte misantropia. Il disco deve il titolo
ad una raccolta di studi sul
razzismo dei primi anni 80; lo
recensiremo seguendo l’impianto argomentativo anglosassone.
Thesis. Fa notizia la prima
traccia, una simil-cover di In
The Flesh dei Pink Floyd (qui
Spiderman In The Flesh): rifare qualcosa di The Wall dev’essere qualcosa tipo per un
gruppo indie italiano suonare
Uomini soli dei Pooh, con tutto il – poco - rispetto; ma il
brano, trasformato in un resoconto lamentoso, solo alla
fine
(“How
many
queers!”)
svela la sua paternità diretta,
rinnovando – in mazurca – il
fortissimo coupe de théâtre
dell’originale. Subito dopo il
cowpunk scoppiato di Point s O f Vi e w, b a s s o g u a s c o n e e
batteria che quasi imbrocca il
Couch – Figur 5 (Morr Music
/ Wide, giugno 2006)
Stavolta sì. Ci siamo. Forse
– sicuramente – non si tratta
di un capolavoro, ma Figur 5
dei tedeschi Couch non suona
come gli ultimi dischi targati
Morr Music. Ovvero dei riempitivi senza infamia e senza
lode che hanno livellato verso
il basso – appiattimento, routine, noia – quella che invece
era nata come una saga elettronica eccitante, moderna,
innovativa.
E ci voleva un gruppo come
questo per ridare fiato ad
una formula che, in mancanza
– temporanea, si spera – dei
depositari del brevetto, stenta
ad emozionare. I Couch, d’altronde, sanno essere diversi
dai loro compagni di scuderia, perché nascono post rock
e crescono indietronici. Brani
strumentali che si divincolano
Manfredi Lamartina
Country Teasers – The Empire
Strikes Back. Race And Racism In 70s Britain (In The Red
/ Goodfellas, maggio 2006)
sentireascoltare 59
tempo di She’s Lost Control
dei Joy Division, ci riporta ai
fasti di Satan Is Real Again,
il fulgido primo long-playing,
probabilmente rimasto insuperato.
Counter thesis. Non si raggiungono, infatti, le intuizioni
pestifere di quell’esordio, ormai di dieci anni fa ma ancora
freschissimo, nella sua sporcizia scazzata. I CT di Empire
Strikes Back non fanno che infilare (come un ubriacone che
fa la collanina di margherite)
una serie di passi da manuale a bassa fedeltà, riuscendo
a mettere a punto la maniera
del lo-fi, come giocassero con
un equalizzatore a sottrazione. Esemplare la batteria, che
pare di sentire in concerto,
senza filtri né scusanti, secc a c o m e Te r e n c e H i l l . C i s o n o
comunque un paio di novità:
la minimale e disfattista Mos
E 1 7 l e y, e W h i t e P a t c h e s , d o v e
il ramo dei CT si avvicina a
quello dei giovani Casio-fili
Experimental Dental School.
C o u n t r y Te a s e r s . M a n o n p o s siamo fare battute del tipo:
“ i C o u n t r y Te a s e r s c o l p i s c o no ancora”; non per lo scarso
valore della freddura, ma per
l’afa che lascia il complesso
di queste tracce, un po’ troppo strette nel loro genere, comunque spassose, non dico
evitabili, ma neanche troppo
inevitabili. Senza esser razzisti: è la razza che si autorappresenta. (6.1/10)
Gaspare Caliri
Crifiu – Tra terra e mare
(Dilinò-Etnoworld / Venus,
maggio 2006)
Crifiu è un sestetto del Salento dalle scarse similitudini coi
più noti conterranei Sud Sound
System, collocabile piuttosto
nel solco di quelle formazioni italiane che, indagando le
sfaccettate
radici
popolari,
hanno maturato un equilibrio
tra multiculturalità, militanza
e confronto con la modernità. Una tradizione rivisitata e
ibridata che ha offerto negli
60 sentireascoltare
anni dischi di valore, sospesi
tra antico e moderno, ricerca
e passione, impeto e riflessività.
Tutte
caratteristiche
che, insieme al concept su
cui è basato,vivificano anche
questo Tra terra e mare, terzo
disco al cui centro è un Mediterraneo inteso come luogo
di meticciato, attraversato da
capo a capo raccogliendo impressioni poi tra loro intrecciate, meglio se travalicando
le coordinate, come negli echi
celtici della title track.
Nel programma, a parte la presenza dei fratelli Severini nell’adeguatamente cupa Onda
D’Ombra, spiccano il dub speziato di Maghreb Trans-World Express, l’innodia di Rock
In Sud, che fa vela tra Fossati, Gang e Irlanda e la felice unione tra cajun, combat
rock e schegge drum ‘n’ bass
in Sutta 7 cieli. Nella seconda
metà dell’opera affiora qualche flessione, di natura peraltro mai grave e altresì prevedibile in un minutaggio che
lambisce l’ora, all’interno del
quale però il folk-rock mutant e d i C o m e s a r à ? e Ta m m u r i a ta d’Espérance o la memoria
plausibilmente
attualizzata
di Nu’ mm’ha dire brillano di
convincente luce propria.
Una vasta gamma di influenze, e l’abilità del gruppo nel
gestirle e padroneggiarle, inducono a sostenere che l’ambizioso obiettivo è stato per
lo più centrato, e confermano
che la penisola costituisce da
sempre –oggi più che mai- un
teatro di floridi incroci di culture, come del resto profetizzava già il Pasolini “campionato” lungo il cd. Un fatto
inconfutabile e attualissimo,
questo, piaccia o meno a certi tristi figuri che popolano
il mondo politico nazionale.
(7.0/10)
Giancarlo Turra
Cult Of Luna - Somewhere
Along The Highway (Earache /
Self, 27 giugno 2006)
I Cult Of Luna (voce, due chi-
tarre, sezione ritmica, tastiere
e campionatore) vengono dallo
stesso circolo svedese che ha
partorito gente del calibro di
Meshuggah e Refused. Il loro
nuovo album aggiunge poco
niente, tanto alla loro carriera
quanto (e soprattutto) al genere, quel drone metal in una
fase di sviluppo ancora delicata ma già fortificato dagli Isis
post-rock-metaldi Panopticon
(Ipecac, 2004), come pure dai
Mastodon e dagli esperimenti
sul grind degli Orthrelm.
Anzitutto, questo Somewhere
rispolvera un tema mitico quello dell’highway - che forse, per la prima volta, c’entra
quanto i cavoli a merenda. O
forse andrebbe sfruttato diversamente,
perché
qui
di
veloce, di realmente progressivo, di riflessivo, di poetico
in senso trasversale, c’è ben
poco. Ma le cose non cambiano nemmeno a leggere l’album
senza
ambizioni
tematiche.
Emergono appena i fuzz neriss i m i d e l l ’ i n t r o d i M a r c h i n g To
The Heartbeats, il battito insistito dell’attacco di Finland,
l ’ i n t r e c c i o m a t e r i c o a l l a To o l
di Dim. Il resto, dalla stessa
Finland allo sludge virulentoa e r i f o r m e d i B a c k To C h a p e l
To w n , c o n o v v i e s p r u z z a t e d i
Sunn 0))), alla ballad memor e d i Va n M o r r i s o n e d e i t a r d i
Earth di And With Her Came
The Birds, alla carovana di
fragori e interferenze di Dark
C i r y, D e a d M a n , è q u a s i s e m pre una spossante battaglia
per distinguerli tanto dai succitati Isis, quanto dai maestri
di entrambi, i Neurosis.
Te r z o t e n t a t i v o s u l l a l u n g a
distanza della band svedese,
pretendente e intransigente,
saturo di parti e spezzoni autoreferenziali, quando non tediosi. Se il genere è nemmeno
a metà strada, questo è uno
dei primi - prematuri - album
per
potenziali
completisti.
A differenza dell’insuperato
Salvation
(Earache,
2004),
l’unica cosa che poteva portare vera innovazione (i sample
recensioni
Matthew Herbert - Scale (!K7 - Accidental / Audioglobe, 29
maggio 2006)
Te r m i n a t i g l i s p o s s a n t i s p e r i m e n t a l i s m i a l i m e n t a r i d i P l a t D o
J o u r, H e r b e r t n o n s m e t t e i p a n n i d i a t t i v i s t a , a n z i l i t i r a a l u s t r o
e - a distanza di nemmeno un anno - si presenta in smoking
da gran sera, pronto ad accompagnare l’orchestra in disco.
Similmente a Goodbye Swingtime e quindi decisamente “suonato”, Scale è una glassa orchestrale suntuosa, invitante, ma
se all’epoca di quel disco il mood pescava dagli anni 30-40,
d a l l ’ e s p e r i e n z a d i E l l i n g t o n e M i l l e r, o r a l e c o m p l e s s e o r c h e strazioni flirtano con il funk Motown dei Sessanta di Something
Isn’t Right (sinuoso ed elegante passo upbeat, con Dave Okumu, Dani Siciliano e Neil Thomas a ritagliare origami vocali
morbi quanto duri nelle liriche), riempiono le ritmiche house
di The Movers And The Shakers (lo strappo di una lattina apre
il fitto dialogo tra fiati, sampler e schizzi elettronici vorticosi), si intingono di opulenza disco
Settanta in Moving Like A Train (puntuale basso funk, coro a là Sister Sledge e luci stroboscopiche per un uno dei brani più compositi e riusciti dell’album).
Pop sofisticato, lussurioso e arrangiatissimo, eppure immediato, leggero, fresco, così si presenta Scale fin dai primi brani. Minuzioso al solito il lavoro di Herbert sulle melodie, sugli arrangiamenti, come fosse partito proprio dalle linee vocali, per arricchire poi i contorni di sfumature ora vivaci, ora più intime e defilate, senza ostentazione, ma sempre con quel gusto per la
ricercatezza che a volte, inevitabilmente, lascia un’amara sensazione (perfetta interpretazione
della Siciliano nella ballata dalle evanescenze hollywoodiane We’re In Love e in Harmonise,
cassa in quattro vicina alle ritmiche di Around The House).
E non potrebbe essere diversamente: a dispetto della leggerezza che le soluzioni suggeriscono al primo ascolto, l’umore predominante prende le tonalità del blu per toccare quasi quelle
del grigio (la malinconia futurista di Those Feelings e Just Once, quasi una piece teatrale). Si
avverte una certa rassegnazione, forse meglio delusione, dell’autore nei confronti di un presente sempre più oscuro, dominato dai poteri del mercato, dalla violenza fisica e psichica di una
guerra in nome dell’oro nero a cui non si vuole porre fine.
Una sensazione che permea ogni singola nota e poco sorprende leggere nelle note stampa che
nei 723 oggetti campionati (e riportati nell’artwork) compaiono anche aerei da caccia, bare,
pompe di benzina, meteoriti. Oggetti che non si percepiscono, ma che imprimono la naturale forza sovversiva di cui si fanno portatori, funzionali così come l’infrangere le regole del “Contratto
Personale”, che da sempre guida la produzione del Nostro, senza che questo incida negativam e n t e s u l l ’ i n t e r o l a v o r o , c o m e i n v e c e è s u c c e s s o c o n P l a t D u J o u r, c h e o r a s u o n a f o r z a t a m e n t e
concettuale.
M r. H e r b e r t è r i u s c i t o n e l s u o i n t e n t o , c o m e n o n g l i c a p i t a v a d a i t e m p i d i B o d i l y F u n c t i o n s , d i
unire l’idea al suono, di rendere questi due aspetti organici e complementari, gradevoli all’orecchio e stimolanti per il cervello. E non spaventatevi se nel pieno della leggerezza e della gioiosità vi troverete per un momento a pensare, magari al presente e a quello che potrebbe essere
il futuro. Fa parte del gioco. Un gioco che si completerà con la versione live, a luglio in Italia.
Non resta che aspettare. (7.5/10)
Va l e n t i n a C a s s a n o
sentireascoltare 61
recensioni
Current 93 – Black Ships Ate the Sky (Durtro-Jnana / Goodfellas, 29 maggio 2006)
Fa sicuramente il suo effetto trovare Marc Almond ad aprire un
disco dei Current 93. Nei sei anni che separano il nuovo Black
Ships Ate The Sky dal precedente Sleep Has Is House, David
Tibet ha lavorato sempre più come un mecenate rinascimentale
attento a mettere la propria sagacia produttiva al servizio di
personalità artistiche eterogenee. Un Tibet sempre più protagonista del marketing globale dei suoni di ricerca. Basta guardare quello che è ormai diventato il roster della Durtro.
La folla di collaboratori, amici e guest stars nella nuova fatica
dei Current 93, allora si spiega anche con questo. Con la stima di cui gode uno degli artisti inglesi più singolari e colti di
sempre. Si diceva di Marc Almond, che è solo il primo in ordine di apparizione. Seguono Bonn i e P r i n c e B i l l y, B a b y D e e , A n t o n y, C l o d a g h S i m o n d s , C o s e y F a n n i Tu t t i , P a n t a l e i m o n e S h i r l e y
Collins. Tutti impegnati ad interpretare, ciascuno secondo le proprie corde, lo stesso identico
b r a n o , I d u m e a , u n i n n o d e l 1 7 9 3 s c r i t t o d a C h a r l e s W e s l e y, f r a t e l l o d e l f o n d a t o r e d e i M e t o d i s t i ,
J a m e s W e s l e y. E ’ u n p o ’ c o m e l a c o l o n n a v e r t e b r a l e d e l d i s c o . O l d h a m d à u n ’ i n t e r p r e t a z i o n e
vorace e carnale, che è probabilmente la migliore insieme alla versione in odor di madrigale
di Baby Dee e al canto isolazionista di Cosey; Antony a cappella, Clodagh Simonds e Shirley
Collins intimiste e arcaiche, Andria Degens tenerissima e onirica. E’ come ascoltare un disco
d e n t r o a l d i s c o . L’ o p e r a g e n e r a l e r i p o r t a l a s c r i t t u r a d i Ti b e t , p r e p o t e n t e m e n t e d a l l e p a r t i d i
Thunder Perfect Mind e All The Little Pretty Horses.
I l t o r b i d o o n i r i s m o d i b r a n i c o m e T h e n K i l l C a e s a r, T h i s A u t i s t i c I m p e r i u m i s N i h i l R e i c h o a n c o r a
T h e D i s s o l u t i o n o f t h e B o a t : M i l l i o n s o f Ye a r s t e s t i m o n i a d i u n a r i n n o v a t a v e r v e c o m p o s i t i v a ,
con l’aggiunta assai sensibile dell’apporto di Ben Chasny (Six Organs Of Admittance) alle chitarre acustiche. Il mood non si alleggerisce affatto e Tibet non commette peccati di vecchiaia
q u e s t a v o l t a . P r o v a n e s i a n o , i l r i t u a l i s m o p a g a n o d i B i n d Y o u r To r t o i s e M o u t h c h e m u o v e d a l l e
p a r t i d i T h e W i c k e r M a n o l e a p o c a l i s s i a v e n i r e d i B l a c k S h i p s S e e n L a s t Ye a r S o u t h o f H e a v e n
e ABBA Amma (Babylon Destroyer). Steven Stapleton (Nurse With Wound) interviene immancabilmente in modo traumatico e malevolo, con l’elettronica luciferina della title track e Antony
suggella di malinconia l’intima e altera The Beautiful Dancing Dust.
Il miglior disco che Tibet potesse partorire nel 2006, soprattutto a questo punto della sua discografia e forse è anche un bene che arrivi proprio ora, quando qualcuno era già pronto a
dargli l’Oscar alla carriera. Visto il personaggio è però bene non nascondere i difetti di un’eccessiva grandeur progettuale, la lunghezza sovrabbondante del disco, il ricorso a soluzioni già
ampiamente sperimentate, ma questi più che difetti sono caratteristiche proprie del musicista.
Prendere o lasciare.
(7.3/10) Antonello Comunale
62 sentireascoltare
d i A n d e r s Te g l u n d ) v a a v u o to o si ode in minima parte.
(5.2/10)
Michele Saran
Daniel Johnston & Jack Medicine - The Electric Ghosts
(Important records, maggio
2006)
Per quanto si tenti d’incastonarlo in un “progetto”, Daniel
rimane un diamante pazzariello. Anche perché in un modo
o nell’altro finisce sempre
per lavorare assieme a personaggi non proprio regolari
(vai a capire il motivo). E’ il
caso stavolta del produttore
Don Goede, alias Jack Medicine, sicuramente in possesso di tecnica e visione “professionali” però anche uno
sciroccato mica da poco, con
tutte le sue ossessioni folk e
psych da Hitchcock in sedicesimi (vedi l’organo vetroso e la chitarra a galoppo di
G o o d b y e To T h a t h G i r l ) e q u e i
rantoli blues-wave che mandano Bryan Ferry a sferragliare disincanto tra brume Nick
Cave (come in Blue Skies Will
Haunt From Now On). Insomma, la coppia è ben assortita
e pare altrettanto ben rodata.
L’ e n e r g i a s c a l p i t a e s c o r r e ,
anche se lungo una specie di
binario del quale restano ben
distinguibili le rotaie, i parti
dell’uno da quelli dell’altro.
Per
dire,
pezzi
come
Sweetheart e Pain In My Heart
sono senza alcun dubbio johnstoniani – quel tipico zuccherino malfermo, intossicato e
struggente - mentre in quella
Summer Jazz che sembra trascinare gli Eels sul sentiero
spigoloso e arguto del lo-fi
pavementiano, il buon Daniel
sembra entrarci poco o nulla.
Poi però c’è una clamorosa cover della bowiana Scary Monsters che rimette tutto a posto
ovvero manda tutto all’aria:
un Johnston versione invasata alle prese con devoluzioni
horror-punk,
mutazioni
pop
infantili, ipnotiche propaggini
esotic-psych ed electro-dark,
insomma la caricatura di un
delirio
fumettistico
proprio
come c’era da augurarsi. Se
infine consideriamo la ghost
track - nove minuti e passa
di melodioso russare, sorta di
goliardico corrispettivo sonoro dello Sleep di Warhol - ecco
che anche gli spiriti elettrici
sono serviti. E noi con loro.
(6.4/10)
Stefano Solventi
Divine Comedy - Victory For
The Comic Muse (Parlophone /
Emi, 19 giugno 2006)
Di fronte all’ingrato compito di
bissare i fasti di Absent Friends, Neil Hannon fa un mezzo
passo indietro, riportando il
suono della sua - ora ritrovata - band ai tempi di Casanova (1996) e recuperando al
contempo quello spirito sornione e ironico, accantonato
nei lavori precedenti. Victory
For The Comic Muse si nutre
quindi del passato dei Divine
Comedy (già il titolo riprende
il primo LP del 1990, Fanfare
For The Comic Muse), ma la
maturazione degli ultimi anni
non è passata invano: al nono
album in studio l’artista irlandese si dimostra raffinatissimo arrangiatore e produttore,
nonché (credibile e convincente) interprete di sé stesso.
To r n a a g i g i o n e g g i a r e N e i l , e
si sente da subito nella tracc i a d ’ a p e r t u r a To D i e A V i r gin,
divertente
schermaglia
amorosa su un arrangiamento
d’archi che porta dritti al suono storico del gruppo, e nella
s u c c e s s i v a M o t h e r D e a r, m a r c e t t a d a l l e s f u m a t u r e c o u n t r y,
densa di humour tipicamente
british à la Ray Davies; e se
in A Lady Of A Certain Age si
concede al melodramma francese con un po’ di maniera,
altrove rimette su la maschera del dandy raffinato, amante dei viaggi (la geografia in
musica di Count Grassi’s Passage Over Piedmont) e delle
belle donne, che canta nostalgicamente di vecchi amori (The Light Of Day) o rac-
conta storie di gente ordinaria
(l’avventuroso
protagonista
di The Plough). I numi tutelari, manco a dirlo, sono quelli di sempre, Bacharach per
gli arrangiamenti certosini (il
lounge del singolo Diva Lady),
David Bowie e Bryan Ferry per il crooning (ogni tanto
riecheggia perfino il collega
J a r v i s C o c k e r, v e d i A r t h u r C .
Clarke’s Mysterious World),
il maestro Scott Walker per
lo spessore dell’insieme (un
esempio su tutti? La trasfigur a t a P a r t y F e a r s Tw o d e g l i A s sociates); da navigato professionista poi, Hannon riserva
la zampate di classe per il finale, ripescando i drammatici
crescendo d’archi che avevano reso grande Absent Friends nella chiusura di Snowball
In Negative.
Nel suo ripiegarsi su sé stesso, forse Victory For The Comic Muse sarà una parziale
delusione per chi avrebbe voluto ritrovare i toni meditativi,
intimi e “domestici” dell’Hannon più recente, ma anche se
preso come un puro esercizio
di stile, non c’è niente da fare,
la stoffa è intatta. (6.8/10)
Antonio Puglia
Drop The Lime – We Never
Sleep (Tigerbeat6 / Goodfellas, 2006)
La Tigerbeat6 attraversa da
tempo
una
profonda
crisi
d’identità: la sua elettronica terroristica beffardamente
punk nello spirito, ma tragicamente deficitaria di comunicativa, godette dei favori di una
certa critica lesta a lanciarsi
con salti carpiati sulla prossima sensazione, in un momento
in cui – al cambio si decennio
e secolo – da qualche parte
c’era voglia di ricambio. Beneficiando del distacco concesso dallo scorrere della sabbia
nella clessidra, diremmo che
dell’hype siano oggi rimaste
scarne tracce, giusto qualcosa di Lesser e del padrone di
casa Kid 606, annotando intanto come nulla invecchi più
sentireascoltare 63
in fretta dell’avanguardia se
mancano canzoni a tener su
tutto.
Come che sia, l’etichetta cerca ora di rilanciarsi, esulando dall’ingombrante passato
per affidarsi a un electroclash
mondato da lustrini, a una
versione low-tech del cantautore stralunato o gettandosi
nell’indie rock. Il problema
è che non solo di LCD Soundsystem se ne trovano a ogni
angolo, ma neppure di Chicks
On Speed, ed ecco la conclusione: molte uscite e nulla o
quasi da ricordare, smarrito
tra le ceneri di quel warholiano quarto d’ora di fama di cui
sopra.
Lo stato di cose non migliora
nemmeno con questo secondo
disco di Drop The Lime, alias
L . Ve n e z i a , d j n e w y o r c h e s e
girovago che unisce techno a
influenze grime o pop. Malgrado il tentativo di cimentarsi
con qualcosa di inusuale per
i suoi standard, si continua a
restare a metà del guado: il
disco è gradevole, in alcuni
frangenti potabile anche al
di fuori dell’autoreferenziale
ambito di provenienza, ma non
vale l’esborso a meno che non
s i a t e s u l l i b r o p a g a d i Vo g u e o
in procinto di partire per Ibiza. (6.0/10)
Giancarlo Turra
Egokid - The K Icon (EW Records / Venus, 2006)
Parte bene, anzi benissimo,
The K Icon degli Egokid. Sean
Connery è un pezzo splendido. Il suo piglio melodico e il
suo arrangiamento beatlesiano – più McCartney che Lennon – sbancano alla grande al
Casinò della pop music. Peccato però che le fiches siano
truccate e che Radio Deejay
non ami le intromissioni indie
nel proprio territorio, perché
questo è un brano caldissimo,
meritevole di una heavy rotation esagerata.
Che poi, per la verità, è inesatto parlare di album. Il nuovo lavoro del trio capitanato
64 sentireascoltare
da Diego Palazzo (non più
pubblicato da Snowdonia ma
da EW Records) è infatti diviso in due parti: The K Icon,
per l’appunto – che, a seconda di come si pronunci, diventa Decay Icon o The Gay Icon
– e l’ep Santa Kraut: Songs
In The K Of E, composto dalle
quattro canzoni che chiudono
definitivamente la carrellata.
Un cd bello denso, quindi.
Forse troppo. Perché il rischio
concreto è di annacquare le
buone idee che una band come
gli Egokid dimostra nei fatti di
possedere. Così, in quest’ora
abbondante si passa dal brit
p o p p o s s e n t e d i Yo u T r u s t a l
p o t e n z i a l e t o r m e n t o n e d i To u ché (un azzeccato susseguirsi
di lounge, francofonia, anni
Sessanta e cori stile Beach
Boys), dalla cavalcata rock di
Emokid alla psichedelia narcolettica di Golden Egg, il tutto condito dalla tradizionale
verve del complesso.
Forse quello che manca agli
Egokid è la lingua. Se cantassero in italiano farebbero
faville, e Mtv non li relegherebbe nelle fasce serali “da
pornazzo”, come dicono loro
stessi nell’esilarante comunicato stampa. Sembra però che
non sia un’idea campata in
aria, quella del cambio di registro linguistico, ma un progetto in avanzata fase di realizzazione. Sarebbe una gran
cosa. (6.7/10)
Manfredi Lamartina
Elvis Costello & Allen Toussaint – The River In Reverse
(Verve / Universal, 29 maggio
2006)
The River In Riverse nasce
dalla collaborazione tra un
Elvis Costello ormai “americ a n o ” e d A l l e n To u s s a i n t , p r o duttore, musicista mito della
scena rythm ‘n’ blues di New
Orleans.
L’ o c c a s i o n e è s t a t a l o r o f o r nita dai concerti che si sono
susseguiti
dall’anno
scorso
per raccogliere fondi in favore
delle popolazioni colpite dal-
l ’ u r a g a n o K a t r i n a . L’ i n c o n t r o
(i due avevano già collaborato
un paio di volte negli anni ’80)
è poi sfociato in questo disco,
in cui i due musicisti rivisitano alcune canzoni del repertor i o d i To u s s a i n t , c o n s e i p e z z i
inediti:cinque scritti assieme
e la title track di cui è autore
il solo Costello.
L’ i n c o n t r o è i n n a n z i t u t t o t r a
la band di Costello, gli Imposters, a fornire la sezione ritmica (con Steve Nieve all’organo) e i fiati dell’ensemble di
To u s s a i n t , q u i a l p i a n o e a l l a
voce in
Who’s Gonna Help
Brother Get Further e altrove
nelle linee vocali. Colpisce
l’omogeneità del disco, con
Costello a amalgamare il vecchio e il nuovo (come nel pezzo che dà il titolo al disco),
a far rivivere gli standard (il
s o u l d e l l e b a l l a d N e a r e r To
Yo u , F r e e d o m F o r T h e S t a l lion, All These Things, l’err e b ì d i Te a r s Te a r s A n d M o r e
Te a r s , ) , r i a t t u a l i z z a n d o l i , r i calcando anche vocalmente lo
s t i l e s o u l - b l u e s d i To u s s a i n t .
Prosegue inarrestabile quindi
il viaggio dell’inglese Costello a ritroso nelle radici della
musica afro-americana, che
sia jazz, blues, soul poco importa, tutto viene inglobato e
rielaborato in un melting pot,
pronto per essere riusato. Il
risultato questa volta è un disco soffuso di struggente malinconia e allo stesso tempo
ricco di un’energia contagiosa, derivata da un incontro
certamente fertile. (7.0 /10)
Te r e s a G r e c o
Evangelicals – So Gone (Misra
/ Wide, 6 giugno 2006)
Indie pop, psichedelia, glam,
free, freak, prog… se gli ingredienti sono questi, e il gruppo
in questione proviene dall’Oklahoma, il paragone con i Flaming Lips diventa d’obbligo (e
forse d’impiccio).
È la Misra Records di Austin,
Te x a s ( D e s t r o y e r , T h e M e n d o za Line e Centro-matic) a farsi carico di produrne l’esordio
recensioni
The Late Cord - Lights From The Wheelhouse (4AD / Self, 19
maggio 2006)
I m m a g i n a t e M i c a h P. H i n s o n , c o n o s c i u t o e a p p r e z z a t o c o n i G o spel Of Progress e togliete dalla firma quella P; calatelo nelle
più liturgiche atmosfere 4AD, dove contemplativi accostamenti
acustico-elettronici sono come l’ostia per il parroco. Provateci.
Avrete per le mani la polpa di uno scrigno d’eppì.
Lights From The Wheelhouse è la crisalide di un Hinson denudato e poi liberato dall’ansia, essenziale, senza che la (P)otenza
s’elevi dalla disperazione, privo dell’impeto crescente che lo
contraddistingueva nell’esordio e scevro dell’urgenza espettorante che ne demarcava le esperienze live, dove ad accompagnarlo erano gli Earlies. Ed è proprio dalla band di sede a Manchester che proviene il vecchio
amico che qui lo accompagna: John-Mark Lapham, già artefice delle trovate sampledeliche di
quel combo.
E n t r a m b i - d o v e r e d i c r o n a c a - p r o v e n g o n o d a A b i l e n e , n e l Te x a s , i l l u o g o d o v e t u t t i i d i a r i d i
Micah sono cominciati; il che, più che un indizio, è una garanzia.
L’ e p p ì p r e s e n t a c i n q u e a v v o l g e n t i t r a c c e , d o v e t a p e l o o p a m b i e n t a l i e d e ff e t t i c a l i b r a t i s ’ a v v i cendano a una miriade di strumenti e suggestioni folk (chitarre , banjo, mandolini, fisarmoniche), nelle quali la voce dimessa di Hinson galleggia tra i grigi e le brume più genuine dell’etichetta inglese per la quale sono state incise.
Lila Blue in apertura, ne è la miglior sintesi: feeling folktronico per preghiere nel deserto, mentre Late Cord, sotto i riflessi del synth e dei rigorosi effetti acquatici (Pan American), esplora
di quel mood il lato più plumbeo e così la voce, roca e esistenziale.
Introdotto dal sobrio quartetto d’archi in Chains/Strings, il cuore del lavoro è tuttavia quella
My Most Meaningful Relationships Are With Dead People,il cui incedere lennoniano al piano è
un tappeto maestro per la Cohen song che si fa ricordare. A cantarla il miglior Hinson, Zombie
bianco nella stanza verde* a un passo dalla luce, e quella luce arriva in breve con gli echi di
fisarmonica e una nenia indiana d’America a calar il sipario e chiudere il lavoro subito dopo (la
successiva Hung On The Cemetary Gates), mentre ci si aspetta altre mappe, altri luoghi.
Alle volte basta poco si dice, ma qui c’è ancora tanto da costruire. Le fondamenta, del resto,
sono solide come cattedrali. (6.8/10)
Edoardo Bridda
sentireascoltare 65
recensioni
Señor Coconut and His Orchestra (feat. Argenis Brito) - Yellow Fever! (Essay / Audioglobe, 12 giugno 2006)
Dopo aver stupito con le cover di alcuni classici dei Kraftwerk,
Señor Coconut - ovvero Atom Heart, Atom™ e svariati altri nickname dietro cui si cela il musicista elettronico Uwe Schmidt
- ritorna sul luogo del delitto accompagnato dalla sodale band
latina (capitanata da Argenis Brito), con un secondo progetto a
tema. Questa volta ad esser sottoposte al “laser latinizzante”
non più cover sparse (come era accaduto nel precedente Fiesta
Songs), ma un progetto pioniere della musica elettronica, gli
Ye l l o w M a g i c O r c h e s t r a .
Macchiati di sudore e del ritmo delle balere più veraci di Santiago, questi rifacimenti dei primordi dell’ elettronica di consumo sono un seguito ideale del remodel dei manichini dusseldorfiani; ma la vera novità, a
scansare il pericolo di un’inevitabile sterilità, è il ritorno all’electro-latino che caratterizzò il
primo lavoro a firma Coconut.
Ye l l o w F e v e r s i c a r a t t e r i z z a p e r u n a m a g g i o r p r e s e n z a d e l l a m a n i p o l a z i o n e e l e t t r o n i c a , p r o t a gonista sia in fase di raccolta delle fonti musicali (catturate separatamente da session dal vivo)
che in quella di trattamento delle stesse. È un lavoro coerente eppure più “evoluto” rispetto ai
due precedenti: oltre alle dieci cover trattate elettronicamente a partire dalle “strutture”, ecco
altrettanti interludi frapposti tra una traccia e l’altra in cui il sound viene macinato senza veli,
alla la luce del sole. Da una parte, la musica degli YMO diventa una febbre latina sospesa in un
anello di Saturno, esotica e synth-pop, rétro e futurista, dall’altra un pugno di sketch s’inseriscono come elementi sabotanti della contemporaneità.
E se per questi ultimi Schmidt ha voluto numerosi ospiti tra i quali Akufen, che ha curato l’electro
house al minipimer di Coco Agogo, Schneider Tm, autore delle afose microwaves di Breaking
M u s i c e M a r i n a ( d e i N o u v e l l e V a g u e ) e To w a Te i , d i e t r o i l r o b o r a g t i m e M a m b o N u m e r i q u e , g l i
e p i s o d i p i ù i m p o r t a n t i v e d o n o p r o t a g o n i s t i g l i s t e s s i Ye l l o w M a g i c O r c h e s t r a a l c o m p l e t o . A t t r a verso il loro contributo, il surplus acquista i connotati dell’imprevedibilità: dall’esotisomo catapultato nel futuro dei brani originali si passa all’operazione inversa come accade nella bella
cover di Pure Jam, che sotto l’incedere metronomico dei fiati riporta indietro al nostrano Nino
Rota per Fellini, nelle spassose Limbo e Behind The Mask o ancora nell’exotica anni Cinquanta
di Simoon.
I n p e r e n n e o s c i l l a z i o n e t r a c a l d o / f r e d d o , N o r d / S u d , E s t / O v e s t , p a s s a t o / f u t u r o Ye l l o w F e v e r è
un lavoro ubriacante, giocato su più livelli dove il concettuale s’insinua nel fruibile senza affogarlo. (7.0/10)
Edoardo Bridda
66 sentireascoltare
e loro sono gli “evangelici”,
apocrifo combo caleidoscopico con appena un anno di vita
ma già devoto a una perenne
sospensione in movimento tra
un pedale del distorsore ben
dosato e sintetizzatori svolazzanti.
La strada forse è quella giusta: il fare paradisiaco-cinematico degli ultimi Lips (con
tanto di giochi stereofonici
e sui nastri) e quello più caciarone dei primi, cerca nuovi
equilibri in una pastiera psichedelicamente pop affogata tra le nuvole. Ne sono due
begli esempi le funamboliche
Another Day (la più spinta del
lotto, tra scorribande chitarristiche e rilasci al sintetizzatore, continui strappi ritmici,
frullato di stili per una melodia a ricordare i Kinks più
estatici) e Hello Jenn, I’m A
Mess
(apertura space-jazzrock per distensioni in odor di
Animal Collective), due brani caratterizzati da attitudine
prog e leggerezza infantile,
ma anche le uscite a piede libero nei territori di certo pop
smithsiano ai Caraibi (Here
Comes Trouble), ballate esotiche (Headache), e rincorse di
soundtrack à la Architecture
in Helsinki (Going Down) sorprendono per ispirazione.
È presto per parlare di uno
score pieno: come accade in
ogni opera prima che si rispetti, il gruppo tende spesso
a disperdere le proprie energie all’inseguimento di amori
vicini e lontani. Accade un po’
ovunque,
specialmente
nello sketch di Into The Woods
(per elettroniche e xilofoni),
per strade completamente diverse, nel glam baraccone di
What An Actress Dows Best
e nell’intimismo della finale
The Water Is Warm, tra Thom
Yo r k e e B i n g C r o s b y.
File under nuove promesse da
tenere d’occhio (nonostante
agende già forse affollatissime). (6.7/10)
Edoardo Bridda
Fabio Orsi - I’m Here Ep (Cdr
autoprodotto, 2006)
Dopo il meritatissimo successo di critica ottenuto da
Osci, Fabio Orsi si rifà vivo
con un Ep che sembra quasi
un’appendice del lavoro precedente. Come se non avesse
detto tutto, il musicista mezzo pugliese-mezzo campano
insiste sugli stilemi dell’esord i o u s c i t o p e r l a S m a l l Vo i ces, a metà tra tradizione e
(ultra)modernità: tra campionamenti di strumenti etnici ed
elettronica minimalista il mondo di Fabio oscilla tra passato
e futuro, rimescolando le carte a suo piacimento.
C’è qualcosa nella sua musica che mi ricorda Theodore,
un giovane franco-greco di
cui abbiamo parlato un anno
fa. La delicatezza delle scelte
sonore, quel piacevole ripetitivismo volto a creare ad ogni
istante un nuovo tempo musicale; le melodie semplici, soffici, mischiate ai rumori della vita come se ne fossero un
commento; un’intelligenza nel
sampling che unisce concetti
a intuizioni istintive e istantanee. Tutto questo è la musica
di Fabio Orsi.
Giusto non dare il titolo alle
tracce, così come ha fatto per
i lavori precedenti: troppo legate tra loro i cinque “movimenti” di questa mini suite,
troppo relazionati tra loro i diversi momenti, difficili da separare anche solo per mezzo
di un nome e di un numero.
Ci si aspetta davvero grandi
cose da uno dei più interessanti personaggi del panorama
“elettronico”
italiano,
probabilmente il campo più
innovativo dell’ottima produzione musicale nostrana degli
ultimi anni. (7.5/10)
Daniele Follero
First Nation - First Nation
(Paw Tracks / Goodfellas,
2006)
First Nation è un trio - allegro e pieno di brio - tutto fem-
minile che taglia il traguardo
importante dell’anno di vita
con un primo lavoro sulla lunga distanza, anticipato da un
7”, per l’etichetta degli Animal
Collective. Un dato, questo,
che dovrebbe in teoria parlare da solo, non fosse che in
realtà Nina, Kate e Melissa si
possono incasellare solo in
parte nel composito filone neo
folk, con ben altre invitanti direzioni segnate in rosso sulle
loro mappe.
A trame insieme semplici e
stratificate ordite con chitarre
acustiche, rade percussioni,
fiati e synth modesti, le ragazze intrecciano vocalità cris t a l l i n e ( s q u i s i t e i n Yo u C a n
Be, ironicamente medio orientale, e Child’s Eyes, forte di
un senso di approssimazione
studiata che ricorda da lung i Yo u n g M a r b l e G i a n t s ) , p i ù
spesso che no sorrette da una
capacità di scrittura che oggi
brilla più per la sua assenza.
Quando al contrario quel poco
di sbraco gratuito di prammatica riaffiora, ci si smarrisce in
una tediosa Waterfall e nello
sfiancante incipit di Awakes,
infine trovando meta e rifugio
in quella musica notturna - da
bambole a spasso nella giungla - che animava The Return
Of The Giant Slits (Female
Tr a n c e e M o n k e y, m o l t o r i u scite). Per ora promuoviamo
con qualche riserva in attesa
di un’auspicata maturazione,
che si spera non tardi troppo
a sopraggiungere. (6.8/10)
Giancarlo Turra
Fog – Loss Leader (Lex /
Wide, 22 maggio 2006)
Andrew Broder appartiene a
quella genia di cantautori ultra lo-fi (e amanti dell’hip hop)
legati ai dogmi di un’eccentrica e trasandata produzione casalinga, imprevedibile e
caratterizzata da un’altrettanto proverbiale inondazione di
eppì, 12”, cassette e 7”.
Nessuna sorpresa dunque se
L o s s L e a d e r, l ’ u l t i m o s h o r t c u t
a firma Fog, è un abbraccio di
sentireascoltare 67
amabile folk e granuloso glitch, secca proto-wave e ispido
avanguardismo. Si prenda l’attacco, una ballata Sufjan Stevens (The Us Beneath) a trasformare un arpeggio (e una
slide) in una festosa marcetta
da banda di paese per trombe
in placido dialogo free (proprio come sarebbe piaciuto a
Barrett); si aggiunga poi Inflatable Ape, Pt.1, un motorik
Neu! calato a Cleveland per
introdurre un canto sgraziato
costellato da eccentrismi tascabili e basi elettroniche.
Momenti di consapevole disincanto che sbocciano in autentica classe nei sette minuti
di 10th Avenue Freakout pt.2
dove, tra spettri anti-folk e
folate in distorsione fracassona, dissonanze infilzate sottopelle e una melodia stonata
a svolazzare come un malinconico requiem, si compie il
vero salto.
Broder è abilissimo nell’inserirsi sulle basi, canta stralunato e confidenziale come un
Beck-Barlow sotto valium accompagnato da dei Dinosaur
Jr altrettanto narcotici; a nostro avviso, la migliore riesumazione delle più sfasciate e
romantiche pose dell’indie dei
Novanta.
Un grandissimo merito, appena stemperato da Schws /
Scrns, altra gemma che brilla giusto un pizzico di meno
dove sottili fili indietronici si
legano a nervature vocoder
per una coda di scrosci glitch
e dreamy synth.
A quando il long playing della consacrazione? Nell’attesa,
questo EP rappresenta già una
cospicua caparra… (7.0/10)
Edoardo Bridda
Frank Black - Fast Man /
Raider Man (Cooking Vynil /
Back Porch, 19 giugno 2006)
A distanza di un anno circa,
Frank Black ripropone il copione – spiazzante e notevole insieme - di Honeycomb,
con differenze in termini di
quantità e sostanza, ma non
68 sentireascoltare
di smalto e qualità complessiva della proposta. Il frontman
dei Pixies che si reinventa
songwriter ed interprete country-soul in quel di Nashville,
circondato da una corte di
musicisti di tutto rispetto, si
conferma una formula vincente e, a questo punto, si rivela
una delle mosse più azzeccate
della sua carriera in solitaria.
Se lo scorso album era un antipasto, Fast Man Raider Man
è una scorpacciata, con le sue
ventisette canzoni - registrate
nel corso degli ultimi due anni,
talvolta in session-maratone
di dodici ore - divise in due
dischi, in cui al già rispettabilissimo carnet di collaboratori
d i H o n e y c o m b ( S t e v e C r o p p e r,
R e g g i e Yo u n g , B u d d y M i l l e r ,
Spooner Oldman e Chester
Thompson) si aggiungono stavolta signori come Levon Helm
di The Band, Marty Brown e Al
K o o p e r. S e p o i s i t i e n e c o n to che l’autore del disco si rivela - ancora - ispirato come
non mai in fase di scrittura e
altrettanto maturo nell’esecuzione, il risultato è assicurato, soprattutto perché, aldilà
dei singoli episodi, Black sa
assumere una modalità che
funziona più o meno in tutte
le composizioni, dal mid-temp o d i I f Yo u r P o i s o n G e t s Yo u
al southern soul di Fast Man e
Sad Old World , dal traditional
d i D i r t y O l d To w n e F a r e T h e e
W e l l a l l o s t r e e t r o c k d i Yo u
C a n ’ t C r u c i f y Yo u r s e l f , E l i j a h
e I t ’ s N o t J u s t Yo u r M o m e n t
, dal country acustico di I’m
Not Dead(I’m In Pittsburgh) e
Raider Man al canone Pixies
aggiornato di Where The Wind
Is Going e Johnny Barleycorn
… Quello che risalta rispetto
a Honeycomb è un maggiore
mood
rock
(particolarmente
evidente nell’attacco del cd2
con In The Time Of My Ruin e
D o w n To Y o u ) e u n a s t e s u r a
più lineare, da cui consegue
– inevitabilmente e naturalmente - un effetto sorpresa
scemato e qualche scossone
emotivo di meno, ma sono di-
fetti facilmente perdonabili.
Se, a fronte di questo episodio, da un lato viene il sospetto – la speranza? - che il buon
Charles Thompson IV voglia
inaugurare una serie come le
American Recordings di Johnny Cash, dall’altro non si può
che consigliare anche stavolta l’ascolto, a riprova ulteriore del momento d’oro che
il fondatore dei Pixies – con
cui continua tutt’ora a girare
il mondo – sta attraversando.
(6.8/10)
Antonio Puglia
Giardini Di Mirò – North
Atlantic Treaty Of Love (2nd
Rec / Wide, 9 giugno 2006)
North Atlantic Treaty Of Love
è un ep di otto brani che segna
il ritorno dopo tre anni di assenza dei Giardini Di Mirò. E
che parte di soppiatto: la cassa in quattro quarti di Othello
bussa timida sugli altoparlanti dello stereo per richiamare
ascolto e attenzione. Seguono
un basso squadrato, una voce
che sembra The Go Find e invece scopri essere quella del
chitarrista Jukka Reverberi –
che tra l’altro cuce con la sua
seicorde una serie di armonie che sono brezze polari ad
accarezzare il cuore – e una
struttura che lancia i Giardini
Di Mirò verso nuove, eccitanti
destinazioni. Subito dopo, è il
tempo delle sorprese inattese
e delle sfide impossibili. Litt l e C e s a r. L’ i n d i e c h e i n c o n t r a
l’hip hop. I Gdm con Siaz (rapp e r d i Z u c c h i n i D r i v e ) . L’ e f fetto è straniante – post rock
oversize? – e neanche tanto
convincente. Apprezzabile per
l’intento, ma innaturale per il
risultato. Meglio Blood Red
Bird, cover degli Smog che,
verso la fine, fa confluire le
proprie emozioni in Il Cielo In
Una Stanza, portando con sè
meraviglia e applausi a scena
aperta. Segue la glacialità di
The Perfect Trick, un inno alle
evoluzioni più recenti della
musica strumentale.
Poi, i Gdm regalano quattro
recensioni
Scritti Politti - White Bread Black Beer (Rough Trade / Self,
12 giugno 2006)
Da un po’ di tempo a questa parte, dando una scorsa allo spazio recensioni dei magazine specializzati sembra di imbattersi
più in un reliquiario che in un contenitore di novità: l’ultimo,
d o p p i o r i t o r n o d i To m V e r l a i n e , i l n u o v o d e i D u r u t t i C o l u m n e
persino Buzzcocks (solo per citarne alcuni)… non fosse per il
calendario che segna 2006 bene in rilievo, sembrerebbe il tiro
mancino di qualche scherzosa macchina del tempo.
A tutto questo clamore amarcord non poteva certo sottrarsi il
signor Green Gartside, volubile veterano che in carriera ha
esplorato – dopo esordi al confine tra suono di Canterbury e
avant-funk a là Pop Group – tutte le sfumature pop del suono black e non (dall’errebbi all’hip
hop, passando per la battuta in levare reggae), riuscendo nei primi lavori, ma peccando in una
seconda parte di carriera che, ad oggi, aveva nell’incerto Anomie And Bonomie (1999) l’ultimo,
sbiadito ricordo. Potremmo quindi anche affermare che, tra tutti i ritorni eccellenti, quello degli
Scritti Politti è il più pertinente, in quanto prova obbligata posta a confermare o demolire la
nuova vena compositiva della gloriosa sigla.
Dubbio che - meglio dirlo subito – cade non appena la leggerezza pop di The Boom Boom Bap
brilla nell’ugola androgina di Green. Vince, sì, questo ritorno (per la cronaca, tutto in solitaria,
con Gartside unico protagonista) e lo dimostra l’animo Wyattiano (e non poteva essere altrim e n t i ! ) d i u n a N o F i n e L i n e s l a c u i u n i c a p e c c a è n e l l a s t r i n g a t a d u r a t a , m e n t r e l a d i s c r e t a D r.
Abernathy ne guadagna, purtroppo, in eccesso; poi c’è lei, Snow In Sun, diretta parafrasi Brian
Wilson da consumarsi dopo una giornata nata male. Il reggae, vecchia passione del nostro, si
nasconde sornione nella grammatica ancora wilsoniana di Petrococadollar e mai come oggi il
retrogusto folky-pop, specie nella bella Mrs. Hughes e Robin Hood, esce allo scoperto. Spogliato delle velleità di un passato ingombrante, Green pare aver (ri)trovato quella vena popcantautorale che non aspettava altro per venire fuori; peccato solo per il minutaggio del disco,
che poteva essere alleggerito da qualche episodio di troppo.
In ogni caso, se qualcuno ricercava risposte sullo stato di forma del sig Gartside le troverà tutte
in questo White Bread Black Beer che, per inciso, è griffato nuovamente – proprio come i bei
tempi che furono - Rough Trade. (7.0/10)
Gianni Avella
sentireascoltare 69
recensioni
Parenthetical Girls - Safe As Houses (Slender Means Society,
luglio 2006)
Non vi è dubbio che i Parenthetical Girls, pronti per fare il botto con questo secondo album - non ancora distribuito in Italia
ma già chiacchieratissimo tra gli addetti ai lavori - possiedono
più di un aspetto in comune con Jamie Stewart, la metà degli
Xiu Xiu, che ne aveva prodotto l’esordio. Parliamo di un pop
dal canto enfatico, di xilofoni e campanellini, di arie confident
lacerate da storie spezzate, di incursioni avant per un’elettronica tascabile. Soprattutto di tanta bellezza in ogni gesto, parcellizzata fino allo sfinimento, artistica e irritante come quel
s a c c h e t t o t r a s p o r t a t o d a l v e n t o d i A m e r i c a n B e a u t y.
Ta n t i i f i l i c h e l e g a n o i d u e p r o g e t t i , m a a l t r e t t a n t e l e d i f f e r e n ze, a partire dalla polpa delle canzoni dell’album, dieci diamanti scolpiti da Zak Pennington, cantautore androgino ma al contempo perfettamente univoco
quando si tratta di definirne il ruolo. Il registro è quello del Brian Molko più placido e meno
autocompiaciuto (quella soavità da angelo wendersiano), e poi ci sono quegli slanci elegiaci, lo
s c a l a r e l e n o t e i n u n a g a i a v i s i o n e p o p c h e f u i n p r i m i s i l c r e d o d i M o r r i s s e y.
S e g l i X i u X i u h a n n o p o r t a n o M a r k H o l l i s ( Ta l k Ta l k ) n e i g i r o n i i n f e r n a l i d e l r o m a n t i c i s m o t r a g i co (ovviamente Paolo e Francesca), lo scarto dei Parenthetical Girls è in un limbo dalle parti
del post war dream, il sogno andato a male di Pink (Roger Waters) che si tramuta nel carillon
dell’omino che porta i gelati, ovvero nelle strofe rubate a certo pop Cinquanta, di cui s’è già
assaggiato il nettare con Sondre Lerche e Jens Lekman.
E così questo pop ’00 comincia a prendere forze e forma. Ce ne rendiamo conto proprio con
Safe As Houses, fiero e nostalgico, d’antan come potrebbe essere una canzone delle Cocorosie,
lirico come amerebbe interpretarlo Antony (l’arcangelo Gabriele di tutti loro), disturbante come i
c i t a t i X i u X i u ( m a a n c h e a i D i r t y P r o j e c t o r s ) , s i n f o n i c o à l a F i n a l F a n t a s y, c h e a p c o m e C a s i o t o n e
For The Painfully Alone, civettuolo come Patrick Wolf e, soprattutto, in bilancia tra estetica e
emotività, teatralmente Ottanta con uno o più nervi scoperti, l’intimità lo-fi del casalingo e la
materia dura della vita per la quale non c’è rimedio migliore se non l’elevazione della lirica e
della piccola sinfonia.
Dunque, in quest’esercito di formichine ora c’è pure lui, Zac Pennington, il più stiloso e fotogenico, ma anche Zac l’essenziale, capace di passare da una melodia del miglior Brett Anderson
(Love Connection, pt II, The Weight She Fell Under) al declamare a picco su un ronzio di note
al synth e marzialità Robot Ate Me (I Was the Dancer), dal passare dall’estetica Tin Pan Alley
(Oh Daughter/Disaster) a un’apertura vocale di chi sa esattamente come uscire da un incubo
raccontandosi la più rassicurante delle melodie (The Weight She Fell Under).
Insomma, un piccolo classico di chamber pop, popolato da campanellini, note appese a spianare
e falsetti raccolti attorno a altrettante melodie solide come nuvole. Ottima anche la produzione
del Dead Science Jherek Bischoff (che assieme a Sam Mickens è anche parte del gruppo): il
sound è conciso senza perdere in onestà, gli strumenti accarezzano e graffiano con la stessa
efficacia, soprattutto si sorride, si respira di polmoni, si sente quel soffio al cuore... (7.3/10)
Edoardo Bridda
70 sentireascoltare
remix di altrettanti pezzi, ad
opera di Alias, Apparat, Hood
e The Boats. Una bella botta electro. Soprattutto Once
Again I Fond Farewell, che
guadagna parecchio in appeal ed emotività rispetto alla
versione originale, tutto l’opposto di Last Act In Baires,
stravolta nelle strutture e nelle melodie. Non brutta, ma la
matrice “mirò” era tutta un’altra storia.
Proseguissero in questa direzione, comunque, i Giardini diventerebbero più grandi persino dei 65daysofstatic. Per ora
restano in mezzo al guado, tra
buoni brani che richiamano il
punk dietetico dell’ultima prova sulla lunga distanza e certe splendide tentazioni indietroniche che farebbero bene
ad assecondare. (7.0/10)
Manfredi Lamartina
Giuseppe Ielasi - Self Titled
(Häpna / Risonanza Magnetica, maggio 2006)
Il nuovo disco di Giuseppe Ielasi si apre sotto le insegne di
una sinfonia apocalittica e dolente che non è esagerato accostare alle ultime produzioni
di casa Constellation: corde di
violino e chitarra tormentate e
costrette a svelarsi nella loro
essenza di semplici presenze
lasciano il posto ad un motivo
che incede lento e maestoso
e si arricchisce per gradi di
fiati e di una ritmica sotterranea quasi jazzata. Il tutto sorretto da un’architettura quasi
immateriale di gocce di suono
digitale che paiono presagire
un temporale che per i nove
minuti di durata non arriverà
mai.
Anche nel secondo brano Ielasi è quasi irriconoscibile: le
chitarre trattate lasciano il posto a micropulsazioni dub che
prendono forma da una caotica selva di ritmiche spezzate
e glitches frantumati – quasi
degli Scorn addottrinati alla
scuola dei microsuoni di inizio
millennio.
Il terzo è un pezzo di elettro-
nica capace di elevare l’artista lombardo alla statura dei
Rechenzentrum di Director ’s
Cut, e trascinare l’ascoltatore
in una nube metafisica apparentemente inconciliabile con
i residui di umanità scorti con
piacevole sorpresa nella prima traccia. Apparentemente,
perchè sono la chitarra processata e il battito di mani
del quarto quadretto sonoro
a ricollocarlo di forza tra le
cose di questa terra. Il suono
dell’erhu sospende l’episodio
conclusivo nella dimensione
altra di culture lontane e sconosciute, il tempo che manca
perché il tema della sinfonia
iniziale ritorni ad occupare la
scena per confluire drammaticamente in un crescendo disturbato e sofferente – infine
rumore, che smaschera definitivamente la matrice umana,
troppo umana della musica di
Ielasi.
Queste nuove cinque incursioni nell’universo della sperimentazione riempiono di nuove
tempere la tavolozza sonora
di un artista visibilmente al
massimo delle proprie potenzialità, confermandolo ai vertici di un panorama musicale
italiano - quello immortalato
magistralmente dalla recente
compilation A Gift For… - in
meraviglioso fermento creativo. (7.3/10 )
Vincenzo Santarcangelo
Grant Lee Phillips - Nineteeneighties (Zoe/Rounder,
giugno 2006)
Il quarto album solista dell’ex bufalo segna una preoccupante battuta d’arresto. Se
ci erano piaciuti sia l’intimismo
electrowave
(Mobilize)
sia quel rigirarsi nel lenzuolo
fragile & fragrante del country-folk (Ladie’s Love Oracle e
Virginia Creeper), era per l’invisibile lavorio del retroterra,
per gli inafferrabili legami tra
radici e futuro, ferma restando quella voce incredibile, capace di rapimento e mistero,
di dolce affilata malinconia.
Oggi spiace proprio la svalutazione di tutto ciò a pretesto
ed espediente per sfornare un
album di classiconi rock-wave
anni ottanta riletti in chiave
country-folk.
Piuttosto
che
una mappa mnemonico-emotiva del background phillipsiano, il risultato somiglia più al
bolso rimembrare di un musicista sull’orlo della pensione,
cui non resta che masticare
i ricordi - rimpianti compresi - nella brezza serotina del
front-porch.
Ve l o s c r i v e u n o c h e è a r r i v a to a ritenere i Grant Lee Buffalo una delle band più sconvolgenti dei Novanta, sia pure
per il breve volgere di due album. Capirete quindi lo smacco di fronte alla disarmante
normalizzazione cui vengono
sottoposte una I Often Dream
Of Trains o una Wave Of Mutilation o una The Killing Moon,
strette in abiti che non prevedono slanci né ombre al di là
di una palpitazione di prammatica. E oltretutto - sciagura
- cantate col freno a mano tirato, come se neanche GrantLee ci credesse poi molto.
Qualche buon momento c’è
per forza, per inerzia, come il
Cave rannicchiato nel grembo di Cash di City Of Refugee
(grazie anche ad una bella
armonica morriconiana) o gli
Smiths che carezzano la pancia d’un cielo basso e grigio in
Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me (finalmente
un’interpretazione vocale sopra le righe). Il resto è degno
di nota più per la sventatezza
del tentativo che per l’esito: è
il caso soprattutto dell’accoppiata Age Of Consent e The
Eternal, tutto sommato credibile la prima (col mellotron
che aleggia sulla trama degli
arpeggi) e decisamente in affanno la seconda, inadeguata
come una vecchia locomotiva
nel budello d’una metropolitana. (5.4/10)
Stefano Solventi
s e n t i r e a s c o l t a r e 71
Holy Sons - Decline Of The
West (Awful Bliss, aprile
2006)
Lo sdrucito disincanto di Will
Oldham e il riassemblamento
androide dei Beta Band s’incontrano dalle parti di Portland, nell’autarchico bugigattolo sonoro di Holy Sons, al
secolo Emil Amos, di professione batterista (nei Grails),
già quattro album da solista
alle spalle. Ogni suono di questo Decline Of The West è sua
esclusiva responsabilità, così
come quest’aria da collasso
cosmico consumato in proprio. Qualcosa di decadente e
sanguigno e onirico, come una
camera del Chelsea Hotel traslocata sulle rive misteriose
d’un mississippi immaginario.
Qualcosa di sospeso sul punto di esplodere furioso, come
una lama lasciata a mezz’aria,
senza più forza per affondare (Bleakest Picture, Satanic
Androids). La batteria che
procede con passo meccanico
senza mai sciogliere il dubbio
circa la sua effettiva natura,
il baluginio caldo e ferrigno
degli organi, il ruvido appeal
delle chitarre, folate di found
sounds e germogli elettronici
(The Feral Kid).
D’un tratto, echi gospel di rinterzo beccheggiano con sgangherato trasporto Howe Gelb
tra
visioni
espanse
Radar
Bros (Slave Morality). E una
cover degli amici Daniel Johnston/Jad Fair strapazzata tra
cori paesani e strinito bailamme noise (Nothing Left). E anc o r a s i t a r, m a n d o l i n i , s q u a r -
72 sentireascoltare
ci psichedelici, falò orientali
ed elettronica fumigante (tra
gli irrequieti titoli di coda di
T h i n g s Yo u D o W h i l e W a i t i n g
For
The
Apocalypse).
Una
scaletta per nulla compatta
quindi, aperta a scarti e azzardi (dub straniti, blues attoniti, folk minimali, fantasmi
trip-hop), sempre sul punto di
perdere il filo, lasciando intendere che la cifra stilistica
del buon Amos non ha ancora
finito di sorprenderci. Inevitabilmente però ne esce penalizzato un lavoro - questo - che
forse meritava più coesione e
risolutezza. E un pizzico d’attenzione in più alle melodie,
che un bel disco non è solo
questione di (buone) suggestioni sonore. In ogni caso, lo
abbiamo segnato sulla mappa.
Attendiamo sviluppi. (6.6/10)
Stefano Solventi
Home – Sexteen (Jagjaguwar
/ Wide, 9 maggio 2006)
Home… chi sono costoro? Un
quartetto di ex compagni di
scuola proveniente dalla Florida, con alle spalle tanta gavetta costellata da album su
due e otto piste incisi su cassette marca Shack, gentilmente appoggiate per anni accanto
alla cassa di qualche piccolo
negozio di dischi, chiuse in
vasetti per biscotti...
In altre parole, quella di Eric
Morrison (piano), Andrew Deutsch (chitarra), Brad Truax
(basso) e Sean Martin (batteria) fa parte della naturale
coltura lo-fi, un’edera indie
rock stellestrisce che in questa puntata (la sedicesima, in
un’odissea che conta perfino
la parentesi illustre della produzione di Dave Friedmann
p e r X I V, d u e d i s c h i f a ) s ’ a g groviglia attorno a un concept
album, ovvero diciannove canzoni che parlano di… sesso.
Episodi strinati da una gioventù che alla “sonica urbana”
continua a preferire la provincia, che alla coolness preferisce sentimenti agrodolci e
stralunati. In matematica: la
sincerità come funzione inversa della bassa fedeltà, con
il gruppo a puntare il dito a
metà della retta.
Sexteen,
registrato
a
New
Yo r k ,
propone
esattamente
quel suono familiare che ci si
aspetta, ma anche un pizzico
in più dettato dall’esperienza (quando non dalla classe).
Ta n t e l e s a l s e e g l i i n g r e d i e n ti: chitarre pastose e pianoforti/tastiere rimbalzelli, distorsioni e folclori, situazioni
di gioia e confusione. Così la
prosa bislacca dei Grandaddy degli esordi di Other Times (con quegli accenti folk e
psych) incontra il sinfonismo
strafalcione dei Flaming Lips
in Easing And Pleasing (emul
Friedmann? Certamente…), il
feedback turbo acido di Raging Angel corrobora un blues
caciarone tra Pavement e Rolling Stones (Push), una ballata spiritata in leggero falsetto
(Deep Inside) sgomita con lo
zucchero a velo per xilofoni e
archi in odor di jazzismi AIR
(Driving)…
Senza meraviglie e cadute di
tono, le cuffie rimangono appiccicate ai padiglioni fino al
g l a m - r o c k d i B a b y Ye a h , a l
vaudeville di Come, al passo
punk felpato di Tim’s Entry
per finire ancora con gli amati
Grandaddy di Moonkiss.
Un buon lavoro, dal tratto sicuramente non distintivo eppure ineccepibile per varietà
e freschezza delle soluzioni. Concedetegli un ascolto.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
Hush Puppies - The Trap (Diamond Traxx / Self, 16 giugno
2006)
Ricordavamo la Diamond Traxx come una delle etichette
cardine del panorama pop/
dance francese, responsabile
della pubblicazione del primo album del padrone di casa
Benjamin Diamond e di altri
gustosi bon bon house presi in
consegna dalle attrezzatissime cucine della premiata ditta
Crydamoure. Ora che la moda
d e l F r e n c h To u c h è m a t e r i a le per i libri di storia, anche
i responsabili dell’etichetta
transalpina guardano altrove,
ponendo lo sguardo su quei
territori pop/rock certamente
meno glamour ma dal fascino
inossidabile.
Tra i primi beneficiari di questa riconversione, gli Hush
Puppies, cinque ragazzi originari di Perpignan, che con The
Trap (già pubblicato in patria
lo scorso anno) arrivano al
loro debutto discografico dopo
una manciata di singoli ed Ep
licenziati dalla stessa etichetta, forti di un background che
affonda le radici nel sound garage anni sessanta, qui riletto
attraverso l’ottica di una chiara visione pop/rock contemporanea. Echi di Supergrass
(Marthelot’N’Clavencine, Pale
Blue Eyes, Alice In Woderland,
A u t o m a t i c 6 ) , H i v e s ( Yo u ’ r e
G o n n a S a y Ye a h ! ) e S t r o k e s
(Single, Packt Up Like Sardines In A Crum Tin Box) sorreggono i momenti migliori di
un album non certo brillante
sotto il profilo dell’originalità,
ma sufficientemente vivace e
scattante da risultare insospettabilmente gradevole.
Con ogni probabilità, nel giro
di pochi mesi gli Hush Puppies
avranno finito la loro rincorsa
e finiranno chissà dove, ma,
a differenza di tanti colleghi,
avranno lasciato un ricordo
di loro quantomeno dignitoso.
(6.0/10)
Stefano Renzi
Imaad Wasif – Self Titled (Kill
Rock Stars / Goodfellas, 11
aprile 2006)
Alcuni lo ricorderanno accanto a Lou Barlow nella sfortunata avventura The New Folk
Implosion, mentre i più attenti
lo avranno seguito prima nei
Lowercase a fine ’90 e poi
negli Alaska! insieme a Russ
Pollard dei Sebadoh, con cui
ha siglato un paio dischi. Oggi
i l c h i t a r r i s t a d i Va n c o u v e r d i
origine indiana Imaad Wasif,
tra un concerto e l’altro con
i Ye a h Ye a h Ye a h s ( d i c u i è
membro aggiunto), debutta in
solitaria per la lungimirante
Kill Rock Stars nell’inedita
veste di songwriter acustico.
Un gioco rischioso, certo, di
cui però sembra conoscere le
regole alla perfezione: assimilata la lezione di Jeff Buckley ed Elliott Smith, il Nostro
snocciola
una
manciata
di
ballad tormentate, scarne e
malinconiche, che si reggono
interamente su delicati arpeggi folk - tra Nick Drake e Neil
Yo u n g - e u n a v o c e c r i s t a l l i na, in equilibrio tra melodia
( W i t h o u t e To m o r r o w I s O u r s )
e oscurità (Dandelion, spettrale e ipnotica in stile 4ad)
con punte di intimismo che appare sincero e toccante ancor
prima che di maniera (su tutte Isolation, in odore di Pink
M o o n ) . Ve n g o n o a n c h e i n m e n te il Beck di Sea Change, o il
m i g l i o r e B o n n i e P r i n c e B i l l y,
quando non lo stesso Lou Barlow di Emoh; ma è tutta farina
del sacco di Wasif, del cui finora - inaspettato talento di
songwriter e interprete bisognerà d’ora in poi tenere conto. Chapeau. (7.0/10)
Antonio Puglia
Isan – Plans Drawn In Pencil
(Morr Music / Wide, giugno
2006)
Non è niente male il nuovo lavoro degli Isan, Plans Drawn
In Pencil, anche questo uscito per la tedesca Morr Music.
Stavolta Antony Ryan e Robin
Saville mettono insieme una
serie di pezzi electro strumentali che mostrano un disegno generale dai contorni più
definiti rispetto al precedente Meet Next Life, che invece
soffriva di eccessivi sbalzi di
qualità tra un brano e l’altro.
Qui i suoni si allontanano leggermente dai canoni Morr per
abbracciare soluzioni più fres c h e e g l i t c h y, c h e f a n n o c a p o l i n o a d e t i c h e t t e c o m e To m l a b e , p e r c h é n o , Te m p o r a r y
Residence.
E cresce. Col passare dei minuti, degli ascolti, delle ore,
laddove sembrava esserci sterilità ed esercizio di stile, poi
sorge interesse e curiosità.
In alcuni casi è persino rapimento. La gelida Immoral Architecture, ad esempio, ridefinisce i sentieri dell’ambient.
F i v e To F o u r , Te n To E l e v e n è
un carillon post moderno che
a poco a poco esaurisce la carica ritmica ma non la spinta
passionale. E il trittico finale
se non è una chiusura in gloria
è pur sempre un’oscura e malinconica dissolvenza in nero.
Tre lame di ghiaccio conficcate in un cuore che pulsa sangue ed emozioni.
E quando il silenzio segue la
conclusione di Plans Drawn In
Pencil, ci si ritrova con i lineamenti distesi e un voto notevolmente – e meritatamente
– superiore rispetto ai primi
exit poll. Neanche fossimo ancora alle elezioni. (6.8/10)
Manfredi Lamartina
Joan As Policewoman – Real
Life (Pias / Self, 16 giugno
2006)
Joan As Policewoman è il curioso nome d’arte che Joan
Wasser si è scelta per il suo
debutto discografico. Ricordata sia come multistrumentista
e collaboratrice, tra gli altri, di
Nick Cave, Rufus Wainwright
e A n t o n y, c h e c o m e e x c o m p a gna di Jeff Buckley (a dimostrazione di quanto il gossip
non sia affatto avulso da Indieland, anzi…), la newyorkese si presenta in proprio con
una raccolta ordinata e ben
s e n t i r e a s c o l t a r e 73
congegnata di canzoni pop
fortemente screziate di soul
e a tratti anche di tenui slanci operistici. Il primo brano,
che dà il titolo alla raccolta
ed è anche il migliore dei dieci, rispolvera audacemente la
ballata al piano, si stende austera sul corpo di un lied romantico e con la voce corteggia le vertigini di un soprano.
Se tutto il disco si mantenesse su questi livelli sarebbe un
capolavoro, ma la qualità delle altre canzoni è inferiore.
Su I Defy arriva Antony a dare
una mano (e a questo punto
il problema che si corre con
lui/lei è quello di trovarselo/
a come ospite nell’80% delle
nuove uscite mensili, un po’
lo stesso problema avuto da
Mark Lanegan non molto tempo fa…) e sono da segnalare i
soffici graffi dell’anima di The
Ride, la ritmata e melanconica Christobel e la calda soul
music di Save Me e We Down’t
Own It.
In pratica Joan come poliziotta va ad occupare uno spazio
preciso lasciato vuoto, non si
sa bene per quanto tempo, da
Fiona Apple, che con tutti i
problemi avuti dalla Sony con
l’ultimo disco sembra essere
stata rapidamente archiviata tra le artiste del passato.
Le premesse sono buone, ma
c’è ancora da lavorare. Questo disco non è Tidal anche se
certamente per Joan si spera
un futuro artistico più fortunato di quello di Fiona. Più sulla
s c i a d i To r i A m o s p e r i n t e n d e r ci. Nel frattempo di lei si è in-
74 sentireascoltare
namorata Franco Battiato che
l’ha voluta fortemente come
ospite nel suo tour estivo. Il
mondo è piccolo. (6.8/10)
Antonello Comunale
Josephine Foster - A Wolf
in Sheep’s Clothing (Locust,
giugno 2006)
Il nome Josephine Foster è iniziato a circolare su carta e su
web dall’inizio della saga sonora sghemba di cui Devendra
Banhart si fece araldo, ma per
quanto ci sia senza dubbio un
humus comune, il lavoro della
Foster non condivide affatto la
pianta del “weird folk”. E infatti per quanto a vederla, forse
più che ad ascoltarla, verrebbe da paragonarla a Joanna
Newsom, la strada percorsa
daa questa sirena è stravagante: con due album da quasi-solista ed un paio di lavori
in compagnia della metà maschile Jason Ajemian con cui
c o m p o n e i l d u o B o r n H e l l e r, i l
suo intruglio sonoro è pervaso
per almeno tre quarti da uno
slancio sperimentale (“avant”)
che fa di lei una fuoriclasse,
una deviante rispetto al canone del movimento.
Quello che colpisce di Josephine, non solo di primo impatto, è la voce, o, meglio,
il registro con cui sceglie di
interpretare le sue canzoni
e, come nel caso di A Wolf In
Sheep’s Clothing, quelle di
altri – anche quando non si
tratta esattamente di canzoni. Questo terzo disco, unico
nel suo genere, è infatti la
raccolta di una serie di lieder
tedeschi di Shubert, Brahms e
Schumann ri-elaborati secondo le coordinate personali di
una performer dal gusto particolare per l’incrocio dei generi: lirica, medievale (l’arpa
automatica e la lira), classica
ed avanguardia si intrecciano
inestricabilmente ad un folk
senza forma, che fa da grande e duttile contenitore per un
canto rigorosamente in tedesco accompagnato quasi sempre, oltre che dagli strumenti
s u o n a t i d a l l a s t e s s a F o s t e r,
da Brian Goodman al fantasma
di una chitarra. E se An Die
Musik, la ballata delicata Der
König in Thule e la stupenda
Die Schwestern (“le sorelle”)
trattengono ancora tra le loro
trame il gusto per la canzone
ed il genere cui la folkeuse
Josephine si era dimostrata
p r o n a , Ve r s c h w i e g e n e L i e b e
(“amore discreto”) ed Auf Einer Burg (“nella fortezza aperta” ispirata dall’originale di
Shumann) sono esercizi liberi
eseguiti da una mano sicura
che si prepara a consacrare
la sua padrona come autrice a
tutto tondo. (7.4/10)
Marina Pierri
Keane – Under The Iron Sea
(Island / Universal, 19 giugno
2006)
Nella recente ondata brit pop
degli ultimi anni, solo i londinesi Keane sono riusciti ad
eguagliare in qualche modo
l’exploit dei “cugini” Coldplay:
cinque i milioni di copie vendute dal debutto Hopes And
Fears (2004), complice quella Everybody’s Changing entrata, volente o nolente, nella
vita di tante persone grazie
a u n n o t o s p o t t e l e f o n i c o . Va
comunque detto che la band
d i To m C h a p l i n h a p o r t a t o a
casa quel risultato in maniera dignitosa, offrendo un mix
gustoso (almeno per gli appassionati del genere e i non
allergici alla saccarina) di
emotività e melodismo romantico con una formula che faceva dell’assenza delle chitarre
il suo vanto.
Passati due anni e un logorante tour mondiale, riecco dunque i tre ragazzi protagonisti
di un ritorno discografico che
vuole mostrarsi a tutti costi
“adulto” e sfoggiare maggior
spessore (oltre che qualche
chitarra qua e là, o almeno
così pare, a scanso di artifici in studio). Il che, nei loro
termini, si traduce nel recuperare dal post punk anni ’80
più teso, senza per questo la-
sciare a casa il romanticismo
e, ahinoi, una certa melensaggine (un po’ come i tardi
Echo & The Bunnymen, per
intenderci). Uno sforzo che si
fa apprezzare in episodi come
l’ambiziosa apertura di Atlant i c ( s i m i l e a i p r i m i E l b o w, v e nati di nervi Sound e angosce
Cure) o nella sofisticata Brok e n To y , m a c h e a l t r o v e m o stra tutti i limiti – o, visti da
un’altra angolazione, i pregi
- del gruppo, come nella scontatezza un po’ piaciona di Bad
Dream o NothingIn My Way
e Try Again, in cui come per
magia i Keane finiscono per
suonare
esattamente
come
la band di Chris Martin. E se
tanta voglia di epos si traduce
nel rievocare inevitabilmente
gli U2, tanto quelli grintosi di
Achtung Baby (il singolo Is It
Any Wonder – uno dei riferimenti a Bono e compagni più
smaccato degli ultimi anni),
quanto quelli ombrosi di October (Leaving So Soon), d’altro canto in Iron Sea e Crystal Ball (con dei bei giochi
d i v o c e à l a Te a r s F o r F e a r s )
viene fuori tutta l’intenzione
di quella svolta “vera” che,
però, non arriva mai. Che fine
faranno i Keane, resteranno a
galla o affonderanno impietosamente come gli Starsailor?
Staremo
a
vedere,
intanto
Under The Iron Sea insinua
il dubbio che questi ragazzi,
con meno pressioni e aspettative intorno, potrebbero fare
quasi certamente di meglio…
(6.0/10)
Antonio Puglia
Ladyhawk – Self Titled (Jagjaguwar / Wide, giugno 2006)
A dispetto di un nome che sfiora il ridicolo e una copertina
che lo centra in pieno, questo
quartetto canadese è formazione di tutto rispetto, dedita
a un’energica e non scontata rivisitazione “indie” della
tradizione rock d’oltreoceano
che, partendo dai tardi sixties
(le desolate confessioni di
N e i l Yo u n g l ’ i n f l u e n z a p i ù e v i -
dente), attraversa gli ottanta
(forti sapori di Dream Syndicate si levano non di rado)
per giungere fino al qui e ora
(quel cantato distante così familiare…).
E’ un fatto ciclico e normale
per i gruppi americani, a seconda dei casi confortante coperta di Linus o scontro col
passato per il progresso, e
qui si mostra di conoscere regole del gioco e fondamentali
dell’esecuzione senza sbavature, alternando ballate sature di elettricità, punteggiate di strappi ritmici e cantate
con
dolente
partecipazione
(gesto convincente ribadito in
48 Hours e Long ‘Til The Morning, asperso sopra Sad Eyes/
Blue Eyes e sulla passeggiata
tra pezzi di vetro di New Joker) a sferraglianti beat pop,
non
tralasciando
collaudati
elaborati intrecci di sei corde,
una ritmica puntuale e graditi
umori country a speziare l’insieme.
Arrivati in fondo a un lavoro
che emerge alla distanza, onesto e sanguigno com’è costume della provincia decentrata,
ci si sorprende a farlo ripartire da capo, appuntandone
la scrittura già notevole per
degli esordienti (con un picco
n e l l a c o n t r o l l a t a e p i c a d i Te e nage Love Song), indicazione
di capacità sufficienti, in un
futuro non troppo lontano, a
far emergere i Ladyhawke nel
marasma discografico moderno. Se ciò dovesse mai avvenire, sarebbe meritato in
pieno, ma per il momento apprezziamone e seguiamone la
crescita. (7.0/10)
Giancarlo Turra
Lambchop - Damaged (City
Slang/Merge, agosto 2006)
Kurt Wagner e relativa combriccola (il solito plotoncino
di 17 elementi) si perpetuano
senza apportare sostanziali
variazioni al menù. Anzi riducono deviazioni e tentazioni
allo stretto indispensabile, al
più condendo di barlumi sinte-
tici i margini del sound (vedi
la coda di Fear), per poi servirti con una convinzione che
è pari solo alla cocciuta plac i d i t à . L’ a l t - c o u n t r y d e c l i n a t o
soul ne esce così sornione e
impudente, bonario e luccicoso, indifferente alla frenesia
degli scenari e delle platee,
alle sirene del progresso improcrastinabile. Ora potrebbe
essere un Lou Reed devitalizzato - A Day Without Glasses però saldo nella propria quieta pantomima, ora si trascina
pastoso e beffardello come
dei Tindersticks al massimo
del disincanto (Prepared), alleviati da una struggente dolcezza.
Per il resto, il gioco degli intrecci sonori prevede il consueto pianoforte e l’onnipres e n t e s l i d e g u i t a r, g l i a r c h i
pizzicati con circospezione o
trattenuti finché non possono
fare a meno di scoppiare in lacrime, chitarre che arpeggiano tremule o arrochiscono di
sobria elettricità, pulsazioni
narcotizzate e un flaccido, irresistibile baluginio di ottoni.
Muovendosi come equilibristi
in pantofole sul filo che separa ironia e trasporto, poesia
e sberleffo, dolcezza e malinconia, hanno il coraggio di far
sognare Stand By Me dai Dire
Straits (Crackers) e di spedire
i Mojave 3 a far visita ad un
crepuscolare O’Rourke (Beers
Before The Barbican). Con
una disinvoltura che rischia
di sfiorarti appena, i Lambchop raggiungono uno stato di
flemmatico equilibrio, sguazzano in un brodo di meditazione & arguzia & pacatezza che
sentireascoltare 75
potresti scambiare per senilità. E forse lo è veramente.
(6.4/10)
Stefano Solventi
terbend, la warpiana Swingern
In Flingren)ma anche altri degni di nota, come la sopraccitata Blasmusik (l’agonia di un
synth dimesso, che pare nondimeno una chitarra elettrica
in mano a Fennesz) e le isolazioniste Fi Intro e Fi.
Sono dei Mouse On Mars “lofi” o dei Microstoria “alternativi” quelli di Queries. Niente
che spinga all’acquisto dell’album a spada tratta, anche
se gli archeologi dell’etichetta
Sonig, alla ricerca di possibili
traiettorie musicologiche, potrebbero rimanerne catturati.
(6.2/10)
Edoardo Bridda
Lithops – Queries (Sonig /
Wide, 6 giugno 2006)
Contenente Blasmusik, traccia recentemente esaltata da
Keith Fullerton Whitman, Queries è una compilation che
raccoglie le fatiche di Jan St.
Werner (la metà dei Mouse On
Mars) del periodo 1995-1999,
ovvero quel lasso di tempo pre
e post
Autoditacker (1998),
il lavoro che sancì l’estetica
della nu elettronica tedesca.
A scanso di equivoci, non ci
troviamo di fronte a materiale di scarto di quella fase;
anzi l’album è più una sorta
di prequel di quell’astrattezza
sintetica che da sempre caratterizza le (scarse) produzioni
a firma Lithops, comprese le
microchirurgie per piccole improvvisazioni qui presenti in
coda alla tracklist.
Grappoli elettronici sotto la
mira di laser e lamiere impassibili, come ritmiche e scrosci
di vetro e acqua, s’avvicendano tanto in trame IDM versante
ambientale (Kahn con tracce
dei primi Orb, l’acquitrino cos m i c o d i S e q u e n c e d Tw i n s e t i n
o d o r d i I a o r a Ta h i t i , W r e c k l e r ,
Blasphere, Tubino See-Through sul versante Autoditacker),
quanto in piece sottocoperta,
che riportano alla mente certe
microwave di Oval (e, chiaramente, Microstoria). Su quest’ultimo
versante
troviamo
episodi poco significativi (Fil-
76 sentireascoltare
Lotterboys – Animalia (Eskimo
/ Audioglobe 15 maggio 2006)
Se siete degli animali da pista,
con quel tanto di gusto per il
“p-funk” senza cervello genere Killers ed una vena electro
pulsante (meglio se filo-crucca) che non vi lascia andare
a casa prima delle cinque di
mattina, forse avete trovato il
disco che fa per voi.
I Lotterboys sono un trio/supergruppo che nasce dall’incrocio schizofrenico tra Fetish e Shapemod dei tedeschi
Te r r a n o v a e M a c k G o u d y J r .
(aka Paris The Black Fu) dei
Detroit Grand Pubahs. Dal momento che più della metà del
gruppo viene da un’esperienza triphop e dance con un tocco sperimentale, è evidente
che Animalia, disco d’esordio
della formazione, ritenga parzialmente l’umore della radice: descrivere Blazer e Can’t
Control the Boogie come qualcosa di diverso da club music
bella e fatta è molto difficile e
i vocals, di stampo lievemente più rock, non riescono a
cambiare questo dato di fatto
neppure nella cover (che fa ridere, se non piangere) di una
Iron Man dei Black Sabbath
rivisitata attraverso fraseggi
t r a b a l l a n t i e v o c o d e r.
Trionfo del sample e di IDM
non tanto intelligent dopotutto, la maggior parte delle te-
chno-canzoni presenti in questo disco, come Star Whores,
controbilanciano le molte parti
di scimmiottamento selvaggio
dei Daft Punk con pezzi su cui
G o u d y c a n t a c o m e To m J o n e s .
A n z i , c o m e u n To m J o n e s c a m pionato su un mash-up della
D FA .
Se siete degli animali da pista
e di vostro gustate un certo tipo
di sonorità, è bene ripeterlo,
dare un ascolto ad Animalia potrebbe non essere interamente
una cattiva idea. Nel caso contrario, se proprio smaniate per
un po’ di luce di strobo, statene
alla larga e ritirate fuori Echoes
dei Rapture, i Juan McClean, o
qualcosa che abbia anche solo
vagamente a che fare con James
M u r p h y. P o i r e s p i r a t e . V i s i e t e
risparmiati uno strazio. (5.0/10)
Marina Pierri
Mauro Mercatanti & Band
– Infedele alla linea (Anomolo, 2006)
C’è lo spettro di Giorgio Gaber che si aggira tra le nove
tracce di questo Infedele Alla
Linea. Una presenza che ha un
che di familiare e parla della
nostalgia per un passato nemmeno troppo lontano in cui la
musica era anche politica,
riflessione,
critica
all’establishment, oltre che semplice
divertimento.
Chissà se Mauro Mercatanti & Band sono d’accordo con
noi, ma questo è quello che
abbiamo pensato dopo esserci calati nel mix raffinato di
combat-rock (?!) e teatro canzone del combo milanese: un
déja-vu fatto di frequenti richiami, omaggi garbati, ispirazione profonda, racchiuso
in un pugno di brani in bilico
tra impegno sociale e indomite passioni, partiture energiche e melodia. Nel “Manifesto
del partito” che la band scrive
di suo pugno ce n’è per tutti i gusti, dall’italian-country
polveroso e ironico di Infedele alla linea, al basso alla
Sandokan e le chitarre distorte di Le chiacchiere stanno a
zero, dal funk “a luci rosse” di
Pensieri burrascosi al pamphlet contro la guerra de Il contributo, dalla denuncia degli
aborti della religione di Santo
subito al tagliente continuum
spazio temporale – da Mussolini, a Craxi, a Berlusconi - di
Ninna Osanna (forse il brano
migliore del pacchetto).
Qualcuno potrebbe pensare, a
questo punto, di trovarsi davanti all’ennesimo elogio della ribellione gratuita, o impeto
controculturale “per contratto”. Niente di più sbagliato,
dal momento che la musica di
Mercatanti tocca nel profondo, costringendo chi ascolta
a prendere coscienza di sé e
di quello che ha attorno. Una
musica evidentemente democratica
anche
nell’approccio con il pubblico oltre che
nei testi, dal momento che si
concede in download gratuito
– ottimo viatico per una diffusione capillare del messaggio,
un po’ meno per le finanze di
chi suona che a nostro avviso meriterebbe qualche cosa
in più – sul sito dell’etichetta che ne cura la pubblicazione.(7.2/10)
Fabrizio Zampighi
McLusky – Mcluskyism (Too
Pure / Self, maggio 2006)
Sorvolando sull’opportunità e,
talvolta, sull’opportunismo di
certe compilation monografiche retrospettive, i famigerati
greatest hits, prendiamo atto
con piacere dell’onestà intellettuale e commerciale con il
quale è stata assemblata questa ingombrante raccolta ded i c a t a a i M c l u s k y, f o r m a z i o n e
gallese scioltasi pochi mesi
or sono, tra le più interessanti emerse dal contemporaneo
filone post punk.
Tre cd, almeno nella versione
deluxe (in commercio esiste
anche una versione “limata”
contenente soltanto i singoli), che offrono una panoramica estremamente esauriente
sul sound messo in piedi dal
terzetto, memore tanto del-
le
anfetaminiche
evoluzioni
dei Big Black quanto dell’art
punk di Wire e Fall. Nel primo potrete trovare contenuti
tutti e dieci i singoli dati alle
stampe dai McLusky tra i quali
spiccano gli sporchi e vorticosi attacchi di Joy e Rice Is
Nice, le movenze spastic pop
di Whoyouknow e Undress For
Success, le paranoiche Lights a b r e C o c k s u c k i n g B l u e s e To
Hell With Good Intentions. Il
secondo e terzo cd sono invece occupati da “b” e “c” side,
materiale demo, inediti ed una
ottima registrazione live dal
quale è possibile intuire quale
forza devastante il terzetto ha
saputo esportare anche al di
fuori dello studio di registrazione.
Poco
altro
da
aggiungere
sennonché i McLusky hanno
rappresentato
una
fulminea
quanto intensa meteora all’interno dello spesso martoriato
universo rock inglese e solo
per questo avrebbero meritato molta più fortuna di quella
riservatagli da un destino distratto. Ripescaggio obbligato, dunque, almeno per tutti
coloro che non abbiano ancora goduto di capolavori come
Do Dallas. (7.5/10)
Stefano Renzi
Michael Franti & Spearhead
– Yell Fire! (Anti / Self, 21
luglio 2006)
L’ i s p i r a z i o n e c o n t i n g e n t e p e r
Ye l l F i r e ! è n a t a i n M i c h a e l
Franti da un viaggio compiuto due anni fa in Iraq, Israel e e Te r r i t o r i O c c u p a t i , e s p e rienza da cui è scaturito un
film-documentario (I Know I’m
Not Alone che esce in contemporanea); il disco è stato
registrato in Giamaica e in
California, con la prestigiosa
collaborazione di Sly & Robbie e la supervisione del boss
della Island Chris Blackwell.
Film e musica viaggiano strettamente in questo progetto,
nel quale Franti riflette da una
parte sulla vita in tempo di
guerra, dall’altra prosegue il
discorso sulla critica alla società dei consumi e all’America in perenne guerra all’estero. E la musica? Si viaggia tra
soul e roots-reggae, mentre si
mantiene uno stretto legame
con le radici del rap e dell’hip
hop e sia accentua la matrice
soul-reggae, in perfetto stile
Spearhead.
Spoken word reggae (Time
To G o H o m e , Y e l l F i r e , E a s t
To t h e W e s t ) s i a l t e r n a n o a
ballad in levare (Sweet Little
L i e s , S e e Yo u I n T h e L i g h t ,
To l e r a n c e ) , q u a n d o F r a n t i l a scia da parte l’impeto militante per esprimersi con meno
sovrastrutture. I paragoni ingombranti - Gil Scott Heron,
Marvin Gaye, Bob Marley - las c i a m o l i d a p a r t e . L’ i m p r e s sione che si ricava è che al
di là dell’urgenza espressiva,
Franti potrebbe trovare con
soddisfazione una dimensione
personale più musicale, al di
là dello slogan, come si nota
in alcuni brani, quelli più distesi. Sono scelte di campo su
cui non si vuole sindacare e
che magari troveranno la strada per emergere. Per adesso
convince a metà. (6.6/10)
Te r e s a G r e c o
Mission Of Burma – The Obliterati (Matador / Goodfellas,
maggio 2006)
Sembra un paradosso, ma è
realtà: The Obliterati è solo
il terzo disco dei Mission Of
Burma, nonostante un corollario di live, raccolte di rarità ed ep al pari ricco (perciò
consigliato). Si aggiunga che,
s e n t i r e a s c o l t a r e 77
a dispetto di un’interruzione
piuttosto lunga che li ha diversamente impegnati, è di tre
persone in giro da venticinque
anni che stiamo parlando, che
con poco hanno esercitato un
ascendente enorme su moltissimi (attestati di stima le
numerose cover – del classico That’s When I Reach For
My Revolver soprattutto), tra
questi - lo dimostra Spider ’s
Web - un Bob Weston confermato alla regia.
Sorpresero, del loro benvenuto riaffacciarsi al mondo nel
2004, tanto il livello qualitativo quanto l’assoluta assenza di
ruggine: con gioia ritrovammo
il talento immutato dal tempo,
ingigantito anzi dai numerosi
indizi della loro importanza.
Medesima la calligrafia e gli
argomenti presentati in composizioni come organismi che
si sviluppano e auto sostentano; costante il vigoroso gusto
melodico associato al tortuoso senso delle forme, il particolare che affiora nel magma
sonoro. Cosa sola di muscoli
e intelletto, il trio di Boston,
un patrimonio di pochi da loro
stessi interpretato come l’atto
più semplice e naturale, nonostante la certezza che neppure questo lavoro smuoverà di
un millimetro la loro condizione di assoluta cult band.
Va b e n e c o s ì , i n f o n d o , p o i c h é n e m m e n o M i l l e r, P r e s c o t t
e Conley hanno l’aria di curarsene, dediti come sono a
estrarre dal cilindro gioielli
– per non elencarne che alcuni in una scaletta immacolata
– come la disco feroce di Donna Sumeria, che cita la mo-
78 s e n t i r e a s c o l t a r e
roderiana I Feel Love, o 13,
finitezza melodica tagliata da
un violoncello accorato, più
avanti sottolineata da Is This
Where?
Amareggiati dal mondo che ci
assedia, preferiscono teorizzare su Buzzcocks e Undertones adattati al presente in
Man In Decline e 2wice. Con
scioltezza, dapprima scompong o n o l ’ h a r d c o r e p e r L e t Yo u r self Go e Good, Not Great, poi
lasciano montare la tempesta
per imbrigliarla nella matematica aggressiva di The Mute
Speaks Out. Neppure l’incubo
degli eighties è risparmiato,
demolito a colpi di rumorismo
nei meandri di Nancy Reagan’s Head. Sopra ogni cosa,
però, è l’eloquenza di uno stile a imporsi in questi cinquanta minuti, parimenti compendio e conferma di un’esaltante
cifra
stilistica.
Formazione
da portare in palma di mano i
Mission Of Burma, e non certo per la misera temperie che
attraversiamo: oggi, come nel
1982 o nel 2020, questa musica risplende di rara e vitale
intensità. (7.8/10)
Giancarlo Turra
Mojave 3 - Puzzles Like You
(4ad / Self, giugno 2006)
Sin da quando dieci anni fa
cambiarono
ragione
sociale
da Slowdive a Mojave 3, per
Neil Halstead, Rachel Goswell
e Ian McCutcheon (più Alan
Forrester) c’è stata una lenta, costante evoluzione, che
ha portato la loro musica dal
folk dilatato, psichedelico e
monolitico degli inizi (una formula che toccò il suo apice in
Excuses For Travellers, 2000)
a variare di album in album,
aggiungendo elementi sempre
nuovi all’interno di un sound
ben definito che trova numi
tutelari tanto nel visionario
Barrett solista quanto in padri della canzone tradizionale
come Fred Neil, Tim Buckley
e Nick Drake. Fino ad arrivare al sesto long playing, que-
s t o P u z z l e s L i k e Yo u c h e , t r a
i cultori della band, non mancherà di destare attenzione
(se in positivo o meno, è tutto
da vedere).
C o m e n e i r e c e n t i S o n i c Yo u th, in questo disco c’è tanta
voglia di melodia e leggerezza, che nell’idioma Mojave
3 si traduce in vibrazioni di
psych-folk
californiano
alla
Love, Byrds, Buffalo Springfield, così come in una ripresa dell’indie pop di Pixies,
Cure e Smiths, aggiornando
al contempo il loro canone a
un mood più rilassato, easy e,
sostanzialmente, divertito. E
il gioco, per quanto possa far
sorgere più di una perplessità (specialmente in chi già nel
precedente Spoon And Rafter
aveva individuato una fase calante), a conti fatti funziona:
ancorché macchinose o fuori luogo, Truck Driving Man,
Breaking The Ice, Ghostship
Waiting
sono
godibilissime
pop songs, arrangiate con gusto e leggerezza, tra rimandi
sixties (Kill The Lights ondeggia pericolosamente tra jingle
jangle, caleidoscopi Doors e
onirismi Beach Boys) e nineties (la spinta Frank Black /
P a v e m e n t d i To H o l d Y o u r T i n y
To e s ) , m e n t r e R u n n i n g W i t h
Yo u r E y e s C l o s e d , l a t i t l e t r a c k
e Big Star Baby arricchiscono
il repertorio con ballad count r y - u n p o ’ N e i l Yo u n g , u n p o ’
Gram Parsons - che hanno
nella melodia il loro punto di
forza. Resta, seppure a tratti, quell’intimità quasi impalpabile a cui i Nostri ci hanno abituati sin dagli esordi,
vedi Most Days, The Mutineer
e Yo u S a i d I t B e f o r e , m a p e r
lo più, quanto a catchyness e
freschezza compositiva, pare
che i Mojave 3 oggi siano intenzionati a gareggiare con
i Belle and Sebastian (quelli
degli esordi, per intenderci)
piuttosto che crogiolarsi una
volta di troppo nelle loro malinconie “storiche”. Una bella
svolta, a pensarci. (6.8/10)
Antonio Puglia
Mr. Tube And The Flying
Objects – Listen Up (Sweet
Nothing/Cargo/Goodfellas,
aprile 2006)
M r.
Tube
And
The
Flying
Objects è la nuova e sorprendente creatura di Pall Jenkins
dei Black Heart Procession
c h e , t r a u n d i s c o e u n t o u r, s i
accompagna al bassista Jovi
Butz, svariati ospiti a fiati e
batteria e il (fantomatico?)
Sig. Tube, che in bella calligrafia compone il repertorio e
con acume arrangia e produce. Non è dato sapere per il
momento come e se vi saranno
ulteriori dispacci, ma si tratta
in fondo di una questione che
potrebbe indurre a mettere in
ombra un disco invece molto
riuscito.
Va r i o i l r a g g i o d ’ a z i o n e a l l ’ i n terno di unificanti atmosfere
urbane, che alternano il muscolare all’ombroso, la festa
latina alla sommessa meditazione (sublime la chiusura In
The Arms Of Demons, dove
cuori in frac vanno in processione con lo spettro di Babbo
Ubu), conferendo vita a un’indagine scrupolosa sul significato sia letterale che metaforico di “musica nera”. Soul e
r ’n’b (irresistibile Jesus Was
A Va t o ) q u i n d i , p i ù u n C l i n t o n
ai minimi termini in Brothers
In A Bind, ma poiché la natura intima non è sradicabile
con facilità, ecco che quella
new wave che sin dai tempi
dei Three Mile Pilot esercita il
suo fascino su Jenkins si pal e s a i n To d o s L o s N o c h e s , T h e
S e l l e L o n g N i g h t R e v i e w, m a
soprattutto dissemina disturbi nelle trame di ogni canzone, caratterizzata da un idem
sentire oppiaceo e sborniato
(quelle tastiere celate nello
stordimento mesto di Tryin’)
che le allontana da qualsiasi
estemporaneità e manierismo.
Questa in sostanza la cifra
stilistica di Listen Up, che sa
altresì distendersi su effettistiche dub per Lost Days (tra
June Of ’44 maturi e Primal
Scream a basso costo), congetturando spesso e volentieri
un plausibilissimo - ancorché
m a i e s i s t i t o – To m W a i t s m e diano tra il bitume ruvido di
Heartattack And Vine e i frullati di cuore bovino circa Swordfishtrombones, senza scordarsi dell’acqua nel frattempo
scorsa sotto i ponti. Inatteso
dono Listen Up, universo parallelo che si plasma attorno
una dimensione di seducente
culto, peculiare e senz’altro
duratura.
Iperattivo Pall: quanti assi
celi nella manica… (7.3/10)
Giancarlo Turra
Nexus - Odynephobia Conversion (Astrazioni Foniche /
Roll Over, aprile 2006)
Cercando qualche motivo per
sussultare, mi capita tra le
orecchie questo Odynephobia
Conversion dalla quanto meno
inquietante copertina. Nulla
so della band in questione, i
piemontesi Nexus, ma gli spasmi funk e le scorribande fusion dell’iniziale Claustrophobic Box mi fanno sospettare
d’aver azzeccato il disco giusto. Quel cingolo di bassobatteria ed il talkin’ serrato
(in francese) di Fabrice Dublés danno vita ad un connubio strano, squilibrato, come
un trip-hop nevrastenico che
più avanti in Ira (Second Set)
produce visioni psych scabre
e vischiose. Quando poi si palesano le altre sfaccettature
soniche del combo, lo stupore s’accompagna ad una sorta
di consapevolezza, quasi che
i rigurgiti jazz-rock tra strali
acidi à la Spirit di Plastic Dodge o il jazz-funk fumoso con
sax soprano querulo di Prolix
D r i f t i n g Va g i n a f o s s e r o l e n a turali propaggini di questo rovello sonico selvaggio ma urbano, capace d’illuminazione
cardiaca, di fluido esaltante
delirio.
I preziosi interventi canori di
M a r i l i n a Va n n i ( n e l l a s u a v o c e
minacce indifese e languori
serici), le frippiane elucubra-
zioni di chitarra (Plaster Caster Addiction), quel continuo
pendolare tra gorgoglii fusion
e sincopi funk, i siparietti impro e la serialità iridescente
(vedi il riff ostinato di Doric
Diorama, un po’ come l’ultimo
Jim O’Rourke tolto lo scintillio
pop), compongono un impasto
schizofrenico però amalgamato da un’incessante tensione.
E’ – tra le altre cose- una febbrile dichiarazione di appartenenza trasversale, che talora
indugia troppo sulle posizioni
acquisite, vedi le prevedibili
evoluzioni di sax alto di In The
Entrance Hall o il funk dinoccolato ma un po’ automatico di
Cranky Diseased Man. Perché
vivaddio, malgrado la grinta
e la sbrigliatezza, il frutto è
forse un po’ acerbo. Ma sono
difetti che di norma risolve il
tempo. Ragion per cui, attendiamo sviluppi. (6.8/10)
Stefano Solventi
[n!] - The Empty Space (Pilot
/ Wide, giugno 2006)
L’ h u m u s d e i c a n t a u t o r i i n t r o versi al confine tra post-rock,
shoegaze e indie-tronica sembra particolarmente fertile di
questi tempi. Se un attimo fa
ci stupivamo per le capacità
pittoriche di un Nathan Fake
poco più che ventenne, Nicholas Restivo parrebbe rappresentare quel coetaneo in grado di replicarne la fragranza
percorrendo simili lande desolate e assaltando il cuore
con scariche d’emozioni.
[n!] porta la mente a Finn per
l’introspezione del dopo Kid
A, a Sebastien Schuller per
l’oscillazione tra la tristezza
e la felicità, riferimenti che
paiono pertinenti nel momento in cui lo stesso autore descrive il proprio lavoro come
il movimento dalla morte alla
rinascita. Suonato principalmente con un Rhodes, una
chitarra e qualche synth, The
Empty
Space
scorre
lungo
questi binari salvo deragliare
in certo tedio di scuola 4AD e
in sinfonismi tascabili dilania-
sentireascoltare 79
ti nel feedback, e per quelle
vie il minaccioso scorrere delle immagini degli Godspeed
Yo u ! B l a c k E m p e r o r n o n è l o n tano.
Una ballata plumbea come
Part 3 fa intuire anche qualche difettuccio: c’è ancora bisogno di ricerca nell’uso della
voce, nel dosaggio degli effetti, e questo lo si nota soprattutto in Part 5 quando il
pedale nel distorsore si lascia
appassire in una brulla campagna scozzese, e nella finale
Part 7, dove il tuffo è nella piscina di Nathan Fake, seppur
senza il dono dell’essenzialità
del ragazzo di Norfolk. Forse
il brano migliore e più significativo è proprio quello che
l’autore voleva togliere dalla
scaletta, Part 1: uno scarno
plettrare su un paio di accordi
in barrè sul quale si stagliano
struggenti pennellate dei sintetizzatori e una sofferta voce
in preda a visioni e angosce
esistenziali. Nonostante i 21
minuti di durata, [n!] ritiene
che l’album vada considerato
come tale, un aspetto per lui
coerente e per noi sinonimo di
un pasto più abbondante che
attendiamo con trepidazione.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
One Second Bridge - Self
Titled (Buro / Wide, 26 giugno 2006)
Sicuramente Garcia e Bieniaszewski, il duo dietro a One
Second Bridge, non l’avranno
fatto apposta, e tanto meno
conosceranno una band italia-
80 sentireascoltare
na chiamata Offlagadiscopax,
eppure, in bellavista, il refrain
della seconda traccia del loro
album omonimo N.2 è sputato
a K a p l e r, u n o d e g l i e p i s o d i p i ù
belli del socialismo tascabile
degli emiliani.
Una chitarra dreamy e shoegazey caratterizza la song in
questione, e non è proprio un
plagio: al declamato di Max
Collini infatti, la band preferisce
un
parlato/cantato
dai noti languori post-rock e
dream-pop. Da qui il quorum
del lavoro: in equilibrio tra
pose Eighties-remember Radio
Dept. (Keep On Falling) e echi
Slowdive con qualche sfurizzo dei Mogwai più dilatati,
una manciata di indietronica a
farcire gli sfondi e un paio di
pianismi à la Satie (1000 Lights) a chiudere il cerchio.
Un ascolto piacevole e senza
scossoni, una placida risacca marina. Insomma, un lavoro derivativo senza inventiva.
Niente a che fare con l’autore
d e g l i a r r a n g i a m e n t i d i K a p l e r,
quel Daniele Carretti in arte
Agnellox. (5.0/10)
Edoardo Bridda
Our Brother The Native
– Tooth And Claw (Fat Cat /
Wide, 19 giugno 2006)
John-Michael Foss (percussioni, chitarra, voce), Joshua
Bertram (voce, rumori, chitarra, banjo) e Chaz Knapp (chitarra, piano, voce) sono i tre
giovanissimi – collezionano la
bellezza di 55 anni in tre - titolari del progetto Our Brother
The Native. Parto insolito e
prematuro, quello della creatura di cui stiamo parlando,
se è vero che i tre hanno iniziato a lavorare insieme solo
nel 2005 dopo aver scambiato musica e idee via internet;
che Knapp non aveva ancora
incontrato gli altri due componenti del gruppo prima della loro inaugurale esibizione
dal vivo come trio, all’Open
Circuit Festival di Hasselt (in
Europa, quindi!); che il personale della Fat Cat si è assi-
curato le sue prestazioni dopo
un fugace quanto appagante
ascolto di alcune demo sulla
pagina
myspace
personale.
Come nella più riuscita delle
leggende indie di inizio millennio.
Basta una Introduction – Welc o m e To T h e A v e r y a d i m m e r gere l’ascoltatore nelle coordinate entro cui il gruppo pare
muoversi:
siamo
all’incirca
dalle parti di quelle campfire
songs che hanno fatto la fortuna dell’ Animal Collective e
che devono aver spinto la Fat
Cat a scommettere su un fortunoso bis. Non sembra mancare davvero nulla: chitarre appena strimpellate davanti a un
falò, suoni trovati d’ambiente,
battiti di mani, strumenti-giocattolo potrebbero spingerci a
facilmente liquidare la proposta come una versione puberale e appena più naïf dei blasonati compagni d’etichetta.
Ma vi è qualcosa di immediatamente recepibile, un’attitudine, una propensione – che
fa quasi impressione, perché
più di una volta ridesta lo spirito assopito ma ancor carico
di creatività di Syd Barrett – a
rendere molto più che un clone questa band, molto meglio
che una opera minor il disco: è
la maestria nello scrivere ottime canzoni, capaci di andare
ben oltre il vezzo estemporaneo della freakeria fine a sé
stessa, in grado di imprimere
un segno ben più marcato di
quello, a volte labile, lasciato dalle scorribande di Panda
Bear e compagni.
Sono brani come Apodiformes
– voce di bambini ad introdurre
una struggente melodia in pieno
stile Simon & Garfunkel disturbata da battiti di mani e suoni
di strumenti-giocattolo; Falconiformes e Quercusfalcat, in
cui i tre ragazzi paiono davvero essere una versione efebica
(quelle voci androgine!) e quindi meno edulcorata delle CocoRosie; Catalpa, così vicina al
folk apocalittico degli ultimi A
Silver Mt. Zion, eppure quanto
poco pretenziosa e di maniera,
a convincerci definitivamente
della statura intrinseca di una
musica che ben presto – e mai
come questa volta abbiamo voglia e tempo di aspettare – sarà
in grado di volare con le proprie ali. (6.7/10)
Vincenzo Santarcangelo
Pan American - For Waiting,
For Chasing (Mosz, 25 maggio
2006)
In occasione del nuovo lavoro, Mark Nelson si sposta
su Mosz, l’etichetta fondata
nel duemilatre da Stefan Nemeth dei Radian e Michaela
S c h w e n t n e r. N o n è d a t o s a pere se questo significhi un
a b b a n d o n o d e l l a K r a n k y, f a t t o
sta che il cambio di etichetta
ha prodotto lo sforzo più ambient drone oriented mai concepito dal Nostro.
Registrato durante il 2004
campionando suoni uterini dal
grembo della fidanzata, item
che poi ha trovato collocazione lungo le sette tracce,
l’album abbandona del tutto
le sperimentazioni dub per
sprofondare in una brumosa
riflessione sulla nascita e la
vita. Lo si evince dall’opener
Love Song (ambient e glitch,
un corno processato e percussioni in rilascio), dai frattali
microsonori di From Here e
soprattutto dal liquido mantra di The Penguin Speaks, la
cui fissità greve e minacciosa
fa sembrare Nelson, un Keith
Fullerton Whitman meno ardito
e visionario. Ammuls chiude il
programma con dieci minuti di
quasi melodia in lento stemperamento, che si avvicinano
alla sintesi minimale dell’ultim o Ta y l o r D e u p r e e . U n q u i e t o
mare calmo fatto di droni, subfrequenze e click.
Accreditati i contributi di Steven Hess (percussioni – tra cui
il tamburo doumbek -, triangoli, bong Tibetani) e David Max
Crawford (corno francese), ma
si tratta di chicche più che soluzioni che spostano l’arrangiamento. In definitiva il più
essenziale dei lavori a firma
Pan American, ma anche il
meno affascinante. (6.3/10)
Edoardo Bridda e Antonello
Comunale
Paul Weller - Catch Flame!
(V2, 12 giugno 2006)
A coronare la ritrovata forma
degli ultimi tempi, ecco che a
meno di un anno dal buon As
Is Now arriva per Paul Weller
un doppio disco live che ha
tutto il sapore della celebrazione annunciata. Registrato
nel dicembre 2005 all’Alexandra Palace di Londra, Catch
Flame! conferma lo smalto attuale dell’ex Cappuccino Kid
che, scortato dalla sua ormai
affiatata band (Steve Cradock,
Seamus Beaghan, Damon Minchella e Steve White), snocciola uno dopo l’altro tutti i
piatti forti della sua produzione recente (compresi album
minori come Wild Wood, Illumination e Studio 150), senza
per questo temere di guardare dritto in faccia il passato.
Uno show torrenziale che sa
tanto di resa dei conti, dopo
una carriera che ha vissuto
– e vive tuttora - di alti e bassi, esaltazioni e cadute nella
polvere; così oggi Weller può
continuare a perseguire la
sua personale via al rock, nel
migliore dei modi che conos c e ( l e r e c e n t i B l i n k & Yo u ’ l l
Miss It, From The Floorboards Up, Come On/Let’s Go da
A s I s N o w, t u t t e p r o m o s s e a l l a
prova on stage), e al contempo affrontare un catalogo che
guarda dall’alto, in un misto di
arroganza e autorità, tre decadi di musica inglese, dai Novanta di Stanley Road e Heavy
Soul (The Changingman, Peac o c k S u i t , Yo u D o S o m e t h i n g
To M e ) , a g l i O t t a n t a p a s s a t i
sotto l’insegna (tutt’oggi controversa) degli Style Councyl
( L o n g H o t S u m m e r e S h o u t To
T h e To p , a t u t t ’ o g g i g r a n d i s s i mi brani) fino al passato mitologico dei Jam (prossimi ormai
a festeggiare il trentennale),
rievocato con In The Crowd,
That’s Entertainment e il final e d a b r i v i d i d i A To w n C a l l e d
Malice. Un trionfo – manco a
dirlo – meritatissimo, fino all’ultima goccia di sudore spesa sul palco. (7.0/10)
Antonio Puglia
Peaches - Impeach My Bush
(XL/Self, 10 luglio 2006)
La trilogia musicale di corredo al personaggio Peaches,
che oggi si completa - The
Te a c h e s o f P e a c h e s – F a therfucker - Impeach My Bush
-,
non sarebbe più memorabile o differente rispetto ad
un Love, Angel, Music, Baby
di Gwen Stefani se la Nisker
nel tempo non fosse riuscita a
perfezionare una formula ben
calibrata, composta di auto/
postproduzione più o meno intelligente e verve scollacciata
demenziale fino all’eccesso.
Come se proprio la “coincidentia oppositorum” tra colto e volgare fosse l’elemento
esplosivo di una poetica che
gioca con il suo stesso stereotipo.
Non è per fare di Peaches un
fenomeno filosofico, ma sì,
l’ascolto di Impeach My Bush
così come quello dei due lavori precedenti non può prescindere dal fenomeno-Peaches,
qualsiasi tipo di fenomeno si
tratti. Il peso dei testi, della
gestualità e delle intenzioni dissacratorie trovano solo
parzialmente un contraltare
efficiente nella sagacia degli
arrangiamenti:
vero
tallone
d’Achille di quella che oramai
s e n t i r e a s c o l t a r e 81
è una figura solida nell’immaginario collettivo, il discorso
che lega la Nisker alla musica non può che restare un discorso limitato alla descrizione di determinate coordinate
di genere mantenute più o
meno invariate nel corso della trilogia. Minimal techno che
non diventa quasi mai IDM e
non lo vuole apparentemente diventare, auto-sampling
selvaggio e chitarroni macho
copia-incollati volutamente a
caso incontrano il ricorso ad
ospiti bigger than life come
Iggy Pop nella Kick It di ieri
e nella Boys Wanna Be Her di
oggi il cui refrain è cantato
da quella, proprio quella Joan
Jett. E mentre la gloriosa
Fuck the Pain Away non trova ancora nessun degno rivale
o parente – né nella graziosa
ma povera Downtown, né nella
c l a s s i c a Tw o G u y s ( f o r e v e r y
girl), né nella pur intrigante
Give’er – succede che a questo giro Peaches, però, trovi
“lo” slogan perfetto: Fuck or
Kill, pamphlet di un minuto, è
il suo manifesto più efficace
fino a questo momento.
(6.5/10)
Marina Pierri
Peeping Tom – Self Titled
(Ipecac / Goodfellas, giugno
2006)
Gli esercizi di stile sono da
sempre il divertimento preferito del poliedrico Mike Patton, che non si ferma davanti
a nulla (che sia metal o musica “colta”).
Stavolta l’ex Faith No More,
82 sentireascoltare
ribattezzatosi per l’occasione
P e e p i n g To m ( d a l t i t o l o d i u n
thriller psicoanalitico di Michael Powell), dopo le esplorazioni ardite degli ultimi anni
(Fantomas
e To m a h a w k
su
tutte) si cimenta nel campo
dell’avant-pop e dell’electro
hip-hop. Lo si capisce ancor
prima di ascoltare il disco,
scorrendo i nomi degli artisti
che hanno preso parte al progetto duettando con Patton:
c’è il nocciolo duro e creativo
della Anticon (Odd Nosdam,
Jel,
Doseone);
personaggi
“improbabili” come Norah Jones e Bebel Gilberto e grandi
nomi tra cui spiccano Massive
A t t a c k e A m o n To b i n .
Ho l’impressione che ci siano più “nomi” che sostanza in
questo disco, costituito per
lo più da canzoni semplici e
neanche granché avant. Certo,
è sempre un piacere ascoltare
la voce di Mike Patton, fucina
inesauribile di stili, ma qui, a
parte qualche caso sporadico non c’è la grande sostanza
musicale a cui ci ha abituato
il Nostro.
La divertente bossa di Caipirinha, con Bebel Gilberto, ci
f a s f i o r a r e l ’ e s t r o s i t à d e i M r.
Bungle, We Are Not Alone, insieme al Dub Trio (tra i momenti migliori di tutto l’album)
ricorda un po’ i Faith No More;
è divertente anche ascoltare
dalla delicata voce di Norah
Jones parole come “sucker”
e “motherfucker”, anziché le
solite sdolcinatezze. Ma non
convincono né la collaborazione con i Massive Attack, né
q u e l l a c o n A m o n To b i n : t r o p po scontate Don’t Even Trip e
Kill The Dj, mentre l’hip hop
di Kool Keith (Getaway) non si
sposa per niente bene con il
ritornello, orecchiabile al limite del fastidio, cantato dal
“titolare”.
Ascoltatelo il disco, non è
brutto. Ma non aspettatevi
niente di che. Un album, tutto sommato, che non da fastidio a nessuno (cosa che, al
contrario, Patton è abituato
a fare), senza grandi pretese
se non quelle di comparire in
h e a v y r o t a t i o n s u M T V. C h e
sia un tentativo (considerato
l’alto potenziale commerciale
dei brani) di dare una “spintarella” economica alla sua Ipecac? (6.0/10)
Daniele Follero
Pet Shop Boys - Fundamental
(Parlophone, maggio 2006)
Oggi, i due ex-parapaninari
tornano a batter cassa licenziando un album dalla profonda leggerezza, carico di
vecchi segnali che nel frattempo sono diventati simbolici e quindi - per sempre - attuali. Ammiccano ai Depeche
Mode (la cupa ostinazione di
Psychological) e si riprendono
quanto prestato ai Grandaddy
(l’allibita iridescenza di God
Willing). Dichiarano affinità
ai brit-capricci dei Pulp (The
Sodom And Gomorrah Show)
o alla poptronica trepida dei
Notwist (I Made My Excuses
And Left). Concedono al producer Trevor Horn di lasciare sensibili impronte Frankie
Goes
To
Hollywood
(Numb
sembra in effetti la nipotina di
The Power Of Love). Altrove
ci sbalordiscono con una mesta solennità cibernetica degna del Beck di Sea Change e
dei recenti Flaming Lips (Luna
Park). Oppure, finalmente (?),
fanno la loro cosa, come l’eurodance tutta riffettini adesivi
& scintillanti di I’m With Stupid e Minimal. Non so se sono
loro ad essere in forma, lucidi e maturi come non mai, o
sono io che mi faccio irretire
da un’involontaria nostalgia.
Fatto sta che questo disco mi
sembra un buon disco. La dedica a Mahmoud Asgari e Ayaz
Marhoni, due adolescenti iran i a n i i m p i c c a t i p e r c h é g a y, è
meritevole di plauso. (7.1/10)
Stefano Solventi
Phill Niblock – Touch Three
(Touch / Family Affair, maggio 2006)
Se, a margine di un discorso
tra il serio ed il faceto, mi si
chiedesse di indicare un referente mondano per la musica
che Pitagora credeva emessa
dalle sfere celesti, non avrei
grosse difficoltà nel fare il
n o m e d i P h i l l N i b l o c k . To u c h
Three è un altro monumento
di musica assoluta e purissima, o meglio il monumento,
dato che si compone di ben
nove composizioni scritte tra
il marzo del 2003 e il settembre del 2005, ripartite in tre
diversi cd.
Il principio della scrittura di
Phill Niblock resta inalterato:
la sua è una ricerca ostinata
e incessante sulla purezza dei
singoli toni estrapolati da un
singolo strumento per volta e
reiterati con un gradualismo
che – a differenza di Steve
Reich e del minimalismo di
scuola – si fa quasi impercettibile. Monoliti di suono statico, ma al contempo dotato di
un intrinseco cromatismo svelato dal progressivo accumulo
di strati sonori uguali, eppure
diversi. Phasing dilatato sino
all’inafferrabile in un processo
dialettico che restituisce quei
monoliti nella loro infrangibile
purezza, ma arricchiti di articolazioni interne da scorgere
con infinita pazienza. Minimal i s m o ? Va b e n e , s e i l t e r m i ne aiuta a rischiarare più di
quanto fatto sinora la materia
di cui si sta parlando, ma se
Reich è 256 Colours di Ger h a r d R i c h t e r, a l l o r a N i b l o c k è
Night Sea di Agnes Martin.
Gli strumenti utilizzati da Niblock per le nove composizioni
sono chitarra (Sethwork), sassofono (Parker ’s Altered Mood,
Zrost, Alto Tune e Sax Mix),
t r o m b a ( N o t Ye t T i t l e d ) , v i o l o n c e l l o ( H a r m ) , v i o l a ( Va l e n ce) e recorders (Lucid Sea). Il
modus operandi quello di una
volta: il suono di ogni singolo
strumento viene registrato con
un unico microfono e riversato
direttamente su disco tramite
un’interfaccia protools. E’ solo
in questo momento che interviene il compositore, la sua
inesausta ricerca d’infinito: il
suono che ne risulta è lontano
eoni dalla fonte materica da
cui è stato emesso. E’ il suono
puro cui aspiravano i teorici
della musique concrète, o forse è il suono delle sfere celesti. (8.0/10)
Vincenzo Santarcangelo
Plaid & Bob Jaroc - Greedy
Baby (Warp / Self, 26 giugno
2006)
La musica è della miglior pasta IDM di marca Warp anni
Novanta, un sound che gente
come i Plaid, assieme agli Autechre degli esordi e ai Boards
Of Canada, hanno contribuito
a forgiare. I video sono invece
quelli di Bob Jaroc, grande video-installatore e altrettanto
abile animatore, collaboratore
di lunga data del duo. Assieme le due entità confezionan o G r e e d y B a b y, d o p p i o l a v o ro coordinato, cd e dvd, nove
brani e altrettante clip per un
t o t a l e d i 5 1 m i n u t i d i s h o w.
Realizzato dal duo e dal cineasta lungo quattro anni di
attività a stretto contatto, il
lavoro è di sicuro impatto,
dai toni politici ben marcati e
dalle ficcanti sociologie antioccidentali. E per alimentare
tutto ciò nulla di meglio del
sarcasmo nel bellissimo cartone di Super Barrio, eroe latino contro il sistema, ma anche nell’aspra alienazione di
u n o s h o t c o m e N e w F a m i l y,
basato su alcune anchilosate
tecniche pubblicitarie, cupe
immagini impiegatizie sgranate e riprese aerospaziali (un
po’ come una visione “attivista” dei clip dei Boards Of Canada).
Al pari dei movies, tutti ottimi, la colonna sonora, seppur
non presenti caratteri particolarmente eclatanti, s’inserisce
perfettamente
nello
streaming. I Plaid non rischiano nulla in termini d’innovazione, ma almeno ripercorro-
no la storia del loro sound (e
quella dell’etichetta che lo ha
coccolato) selezionandone i
tratti più incisivi e essenziali. Si attacca con un cutting
di toni di telefoni e “hellos”
pronunciati da varie voci sui
quali si alza un fosco synth,
il brano s’intitola War Dialer
e si commenta da solo, anche
se dal punto di vista sonoro, contrariamente al video,
è l’unico episodio a caratterizzarsi così politicamente. Il
resto vede una varietà di situazioni che vanno dall’irresistibile bossa che accompagna
Super Barrio, al drum’n’bass
e all’acid da revival Novanta
pesante (Super Positions). In
mezzo sinfonismo e cinematica à la Orbital periodo Il Santo per I Citizen The Loathsom e e To , b a l l e t t i s i n t e t i c i i n
The Launching Of Big Face, e
una perfetta IDM track come
Zn Zero,impeccabile per svolgimento e scelta timbrica.
Tirando le fila, da un punto
di vista strettamente musicale Greedy Baby non avrebbe
guadagnato che una sufficienza d’ordinanza. La presenza
del video riscatta l’operazione
di almeno un punto, tuttavia,
onde evitare sintesi e divaricazioni: (6.5/10) ai Plaid e
(7.5/10) a Jaroc.
Edoardo Bridda
Primal Scream - Riot City
Blues (Columbia, 5 giugno
2006)
Se parliamo di dar via ciò
che si ha di più caro, i Primal Scream sono senz’altro i
numeri uno. Per la loro ultima
s e n t i r e a s c o l t a r e 83
prova discografica, la band
screamadelica è tornata dalle parti di Give Out But Don’t
Give Up (contestatissimo disco del 1994, figlio dei Rolling Stones jaggeriani post
Brian
Jones),
componendo
dieci canzoni al confine tra il
blues rock e l’hard rock, prostituendosi così alla vecchia,
indissolubile
e
sempiterna,
trinità sessantottina.
In tutto ciò, nulla di meglio
che vendersi l’anima con un
singolo – Country Girl, punk
song radiofonica con coro ultra
ruffiano che manco Jagger (o
Bon Jovi, fate pure), e niente
di più sincero che festeggiare, again and again, gioie e
bagordi di una sincera carriera da eroinomani, tanto ricca
di decibel quanto di donne (la
Kate nazional-britannica su
tutte) e svarioni che più rock
non ce n’è (“Christ on a cross
with a loaded gun” recita una
strofa… soltanto Ozzy avrebbe potuto fare di meglio).
Il resto del disco oscilla tra
blues urbani elettrificati d’ordinanza, a piedi come in tren o ( N i t t y G r i t t y, H e l l ’ s C o m i n ’
Down – con il cameo di Warren Ellis – e Boogie Disease),
smozzichi di sigarette New
Yo r k D o l l s c o m p r a t e s u E - B a y
(Suicide Sally & Johnny Guitar
e Dolls), ricalchi Black Rebel
Motorcycle Club (When The
Bomb Drops, con Will Sergeant
degli Echo & The Bunnymen)
e ovviamente omaggi a Morrison, le cui visioni sciamaniche ritornano in Little Death,
un tossico sguardo sull’Arizona con ospite la suicide girl di
84 sentireascoltare
turno, Alison Mosshart (la lei
dei Kills). Convincono di più
intensità e wildness, come il
cow-punk à la Gun Club di The
99th Floor e il gospel pastorale in chiusura, Sometimes
I F e e l S o L o n e l y, c o n l a – p u r
sempre bella - voce di Bobby
Gillespie in primo piano.
Registrato live in dieci giorni
agli Olimpic Studios di Londra, Riot City Blues è semplicemente un divertissement di
chi se lo può permettere. C’è
molto meglio da comprare in
giro, ma se il feticismo è rock,
portatevelo a casa, vi divertirete per un po’. (5.5/10)
Edoardo Bridda
Psapp – The Only Thing I
Ever Wanted (Domino, maggio
2006)
Anello di congiunzione ideale
tra il pop sovversivo degli Stereolab e le produzioni di casa
Morr Music, l’esperienza degli
Psapp di Carim Classman e
Galia Durant rappresenta una
delle variabili più interessanti
tra quelle espresse dalla moltitudine di band che in tempi
più o meno recenti hanno cercato di rielaborare la classica
forma canzone attraverso la
commistione con elementi di
musica elettronica. Autori di
un discreto album d’esordio,
Ti g e r, M y F r i e n d , e d i t o d a l l a
Leaf Records a cavallo tra il
2004 ed il 2005, la coppia anglo/americana compie con The
Only Thing I Ever Wanted un
deciso passo in avanti portando a compimento una seconda
prova che per lucidità e fruibilità possiamo considerare nettamente superiore alla precedente.
I fragili acquarelli pop, spess o a p p e n a a b b o z z a t i i n Ti g e r,
My Friend, trovano in The Only
Thing I Ever Wanted la loro dimensione definitiva assumendo la forma di deliziosi microcosmi contemporanei nei quali
le più disparate influenze individuano la loro collocazione
ideale attraverso un magico
gioco d’incastri e citazioni.
Romantiche ballate per solo
pianoforte (Make Up) si alternano con brevi, ma perfette, divagazioni teen pop (Tricycle), i fantasmi di stupende
meteore come Donna Regina
(Hi) si muovono sinuosi accanto all’ennesima proliferazione dello Stereolab pensiero
( K i n g O f Yo u ) m e n t r e g l i a r c h i
ed il corno francese diventano
accessorio indispensabile per
le fughe sincopate di This Way
e New Rubbers, al pari di uno
sfuggente xilofono chiamato a
punteggiare i momenti cruciali
di una tenerissima Hill Of Our
Home.
Disco piccolo ma prezioso,
The Only Thing I Ever Wanted
potrebbe portare alla corte
degli Psapp un considerevole
numero di nuovi adepti grazie
anche all’intermediazione della Domino Records che assicurerà al disco una promozione
ed una visibilità notevolmente
superiore rispetto al passato.
(7.0/10)
Stefano Renzi
Radio 4 – Enemies Like This
(Astralwerks, 2006)
I brani sono lì dove avevamo
lasciato un paio di anni fa i
loro predecessori di Stealing
Of A Nation, in quella zona
d’ombra tra i Clash di London Calling e gli Psychedelic
F u r s d i Ta l k Ta l k Ta l k . P r a t i camente, degli Interpol in salsa reggae. Peccato però che
i Radio 4, rispetto ai gruppi
in questione, suonino più fighetti e leccati (forse a causa
della mano pesante del prod u t t o r e J a g z K o o n e r, g i à i n
passato con Kasabian e Primal Scream), laddove sarebbe
stato necessario mostrare una
sana e verace cattiveria negli
arrangiamenti, anche a costo
di sacrificare qualcosa in termini di alta fedeltà.
Enemies Like This parte sparato con la traccia eponima.
Ma la band si limita a mostrare i muscoli senza sfoderare
personalità né passione. Tutto, infatti, sembra virare nel
formalismo fine a se stesso.
C o m e i n G r a s s I s G r e e n e r,
post punk veloce e furbetto
per accalappiare i tanti reduci
di una stagione musicale vissuta e bruciata vent’anni fa.
O come Ascension Street, che
vibra groove e ritmi in levare
in un alternarsi tra dub(bi) e
reggae di poche pretese. Meglio, invece, quando la cassa
si squadra in quattro quarti
e il punk si trasforma in funk
( T h i s I s N o t A Te s t e A s F a r
As The Eye Can See): lì la
band riesce a salvare baracca
e burattini. Anche se purtroppo questo non basta per far
proseguire più del necessario
il soggiorno del cd all’interno
dello stereo. (5.5/10)
Manfredi Lamartina
Roddy Frame – Western Skies
(Redemption / Rough Trade, 1
maggio 2006)
Roddy Frame ha sempre faticato a scrollarsi di dosso l’imprinting degli Atzec Camera,
di cui è stato talentuoso - e
giovanissimo - artefice negli
anni ’80, decade che lo ha visto prima protagonista con la
“scuola di Glasgow” (gli esordi sulla Postcard degli Orange
Juice), poi con le uscite per
Rough Trade; la carriera solista, intrapresa nel ’98 (The
Northstar), arriva ora alla terza prova con Western Skies.
Non sorprende più di tanto,
fra queste undici tracce, il
predominio delle ballad più
malinconiche (la title track),
o l’uptempo di Marble Arch,
Dry Land, l’intensa e morrisseyana Rock God; o ancora
gli accenni latini (The Coast)
e desertici (She Wolf, forse il
pezzo migliore e più sentito).
Un ibrido tra passato e presente insomma, un compendio
della cifra stilistica di Frame,
in bilico tra chitarrismo pop e
canzone adulta d’autore: un
intreccio, oseremmo dire, tra
il Costello pop degli esordi (a
cui il Nostro è sempre stato
accostato) e il Morrissey più
malinconico.
Episodio inferiore al miglior
Frame solista - l’acustico Surf
uscito nel 2002 –, Western
Skies lo conferma comunque
come autore pop per eccellenza, nonostante la presenza di alcuni episodi di man i e r a ( M a r b l e A r c h , Te l l T h e
Truth). Di sicuro da uno come
lui è lecito aspettarsi di più.
(6.7/10)
Te r e s a G r e c o
Sedia - The Even Times (Wallace, aprile 2006)
Eccoli di nuovo. Parchi come
sempre, i Sedia ritornano a
distanza di un paio di anni abbondanti dall’omonimo esordio. Uno iato non improduttivo
quello del trio marchigiano;
vedasi ad esempio il disco di
Mattia Coletti, Zeno, uscito
qualche tempo fa, o il progetto End of Summer in collaborazione coi Polvere di Xabier
Iriondo, tutti e due ovviamente per Wallace, sempre più
etichetta di riferimento per un
determinato tipo di suoni che
partendo da una concezione di
rock corposo e noise si dilatano spostandosi verso territori
quasi off.
Come tradizione vuole, The
Even Times segue le coordinate dell’esordio: lì sei canzoni per una trentina di minuti;
qui sette pezzi per 37 minuti
circa, quasi che less is better
fosse il loro motto non scritto.
Nello stesso modo vengono riproposti i riferimenti all’arte
cinematografica posti nei titoli: se nell’esordio venivano
omaggiati mostri sacri del cal i b r o d i K . K i n s k i e G . M . Vo lontè, qui parafrasando il capolavoro dell’espressionismo
muto di R. Wiene si riverisce
uno dei campioni della scena
contemporanea italiana, Fabio
Magistrali (Das Kabinett Des
Doktor Magistralisss).
Anche le coordinate musicali
sono quelle solite: un tirato
noise-rock tra il matematico
(poco) e il muscoloso (molto) e strutturalmente molto
intricato, quasi fosse la ma-
nifestazione su pentagramma
della intricata selva di arbusti
posta in copertina. Non mancano però i motivi di interesse, rappresentati dai momenti
più “riflessivi”, in cui i nostri
sperimentano grumi di suono, slabbramenti, spegnimenti
graduali che lasciano intravedere nuove e forse inconsuete
strade da percorrere.
È il caso di Gingilletti, che
partita su un drumming delicato e insistito, deflagra in
un estenuante duello tra strumenti portati al massimo delle loro potenzialità, prima di
autoestinguersi
nell’ultimo
minuto in un progressivo spegnimento fatto di grumi mal
addensati di rumori assortiti.
Oppure della tensione atmosferica lunga gli interi 7 minuti
di The Battle Of Electric Swali, creata dalla batteria super
ritmica di Alessandro Calbucci
e rotta soltanto incidentalmente da improvvise deflagrazioni
quasi psycho-rock (nel senso
del Bates Motel).
Capolavoro dell’intero album
e sunto delle mire del trio è
Das Kabinett Des Doktor Magistralisss, 6 minuti e mezzo
di deragliamenti inconsulti al
limite della schizofrenia che
si alternano a vuoti pneumatici prima di concludersi in territori di agghiacciante desolazione.
In definitiva, grande conferma
per i Sedia (e indirettamente
per la Wallace che non perde ormai un colpo da secoli)
e notevoli spunti per un avvenire pieno di soddisfazioni.
sentireascoltare 85
E che la sperimentazione sia
con voi. (7.5/10)
c o u n c y l i a n o - ; Te l l i e r g i o c a a
fare lo chansonnier intimista,
mischiando le giuste dosi di
mèlo, indole pop, sfumature
jazzy (Black Doleur) e progressioni simil-canterburyane
(Broadway)
.
Un’operazione che negli intenti potrebbe
far pensare a Fragments For
A Rainy Season di John Cale
ma che come esito finale, per
forza di cose, appare soltanto una mossa furbetta e nulla
più: cambiato d’abito, il re in
realtà è nudo. (6.2/10)
Antonio Puglia
Stefano Pifferi
Sebastien Tellier – Sessions
(Discograph-Record Makers /
Self, 5 maggio 2006)
Semifinalists – Self Titled
(V2, aprile 2006)
De Rosa – Mend (Chemikal Underground, 19 giugno 2006)
Ha fama di proverbiale eccentrico (basta dare un’occhiata
Al giro di boa di questo 2006,
la scena indie britannica si
alle cover dei suoi dischi).
E ’ s t a t o p a r a g o n a t o a To d d
Rundgren, Robert Wyatt, Serge Gainsbourg e Badly Drawn
B o y. I n p a t r i a è t r a i c a n t a u t o ri più acclamati, e anche dalle
nostre parti i suoi primi due
a l b u m ( L’ I n c r o y a b l e V é r i t é e
Politics, entrambi licenziati
dalla Record Makers degli Air)
sembrano aver raccolto opinioni favorevoli. Questo Sessions in realtà non è il tanto
atteso terzo album di Sebas t i e n Te l l i e r , m a i n u n c e r t o
senso potrebbe esserlo: sulla
scia delle recenti esibizioni
live che lo hanno visto, tra gli
altri, al fianco di Magic Numbers e Royksopp, il parigino
riprende una decina di brani
del suo repertorio incentrandoli interamente su piano e
voce.
Niente a che vedere con gli
arrangiamenti ricchi e le soluzioni delle versioni originali
dunque, ma un cambio di veste che si fa sentire particolarmente in Bye Bye e League Chicanos, quasi del tutto
stravolte - la prima diventa
una ballad tra Richard Hawley
e uno Stuart Staples vivace
(sempre se riuscite a immaginarlo), l’altra un mini-dramma
per Costello e il Weller style-
sta rivelando come non mai
ricca di interessanti new acts,
capaci anche di regalare qualche gradita sorpresa. Dopo i
più che promettenti segnali
lanciati da Field Music e guiLL e M o Ts , a r r i v a d a L o n d r a i l
debutto dei Semifinalists, tre
ventenni – che la storia vuole
conosciutisi durante un corso
di cinema – intenti a succhiare dalla vena dei Flaming Lips
di Wayne Coyne (sentite un
p o ’ S h o w T h e Wa y, T h e C h e micals That Wait, Whispering
M i c e , F r o m S e v e r a l To M a n y ) ,
mostrando altresì di saper già
gestire con discreta padronanza la materia pop (in D.C. per
un attimo echeggia perfino il
Brian Wilson di Smile).
86 sentireascoltare
Dodici episodi che sfoggiano
un approccio compositivo tutt’altro che banale, in un gioco di rimandi (dai Grandaddy /
Yu p p i e F l u d i A S h o r t A c o u s t i c
S o n g a i S i g u r R ò s d i Yo u S a i d )
che non si rende mai molesto.
Si fa notare una curiosa schizofrenia tra composizioni di
derivazione preminentemente
lipsiana e canzoni wave-pop
di
scuola
Delgados-Slowdiv e ( L e t ’ s K i l l T h i s , I S a w Yo u
In The Hall), complice anche
l’alternarsi di voce maschile
e femminile - rispettivamente
Ferry Gouw e Adriana Alba,
con Chris Steele Nicholson a
completare il quadro - ; nel
piacevole sospetto che si tratti di una risorsa latente più
che di un difetto, il verdetto è
comunque pienamente positivo. Un bel viaggio. (6.9/10)
Il trip in cui ci guidano gli
scozzesi De Rosa, l’ultima
scommessa
della
Chemikal
Underground, non sarà altrettanto caleidoscopico, ma sa
di certo riservare gustosi momenti di entertainment. Questi
cinque ragazzi del Lanarkshire si muovono su un versante
decisamente più chitarristico,
con un occhio di riguardo per
l e t e n s i o n i w a v e S o n i c Yo u t h
(via Interpol), tenendo a mente la lezione degli alfieri della
loro label (Arab Strap e ancora Delgados); pur incappando
di tanto in tanto nella trappola
dell’emul-rock (quanto è ruffianamente Franz Ferdinand
il riff del singolo Camera?),
sanno comunque sfoderare interessanti soluzioni ritmiche e
dinamiche insieme a una buona sensibilità melodica. La
band viaggia sicura sui binari
di un suono dall’identità ben
definita, in un assetto che le
consente di spaziare da ballate dEUS (New Lanark, The
Engineer) a esercizi su tempi
d i s p a r i ( A l l S a i n t ’ s D a y, H e a d first), al folk acustico (Hopes
And Little Jokes, la reed-iana
Evelyn, Hattonring Pitt Disas t e r, i n o d o r e d i B i l l y B r a g g ) ,
fino al gioiellino del disco,
quella Cathkin Braes che sposa indie e fervore post/punk in
u n ’ o d e a i s u b u r b s d i G l a s g o w.
Insomma, ce n’è abbastanza
per sperare bene (6.8/10). E
se mettiamo sul piatto anche
le recenti prove di Camera Obscura e My Latest Novel, sembra proprio che a fine anno ci
ritroveremo ancora una volta a fare i conti tanto con gli
Albionici quanto con i cugini
delle Highlands…
Antonio Puglia
Shooting At Unarmed Men
– Yes, Tinnitus (Too Pure /
Self, giugno, 2006)
Six Organs Of Admittance The Sun Awakens (Drag City /
Wide, 5 giugno 2006)
Messa definitivamente la parola
fine
sull’esperienza
M c L u s k y, l e e n e r g i e d i J o n
Chapple si sono ora interamente concentrate quello che
fino a poco tempo fa era il suo
progetto collaterale ovverosia
gli Shooting At Unarmed Men,
già autori lo scorso anno di un
poco convincente album esordio anch’esso pubblicato sott o l ’ e g i d a d e l l a To o P u r e .
P e r f o r t u n a , l o r o e n o s t r a , Ye s ,
Tinnitus mostra incoraggianti
segni di miglioramento e, pur
non sfiorando neanche lontanamente le vette toccate con
i M c L u s k y, c i r e g a l a i n o g n i
caso un album quantomeno dignitoso, perso lungo i sentieri
A rivelare in modo sottile
l’intima essenza di The Sun
Awakens è, al di là d’ogni altra chiave di lettura, il suo
modo di porsi, la sua struttura se preferite, che ragiona
su quell’epoca in cui il vinile era al potere e i dischi si
meditavano a lungo, dato che
farli costava fatica. In luogo
della deleteria approssimazione che appesantisce l’ondata
“new weird folk” statunitense
(per tacer di quella scandinava…), qui ci si affida invece
- e con quali frutti - alla sapiente produzione dell’ex Nation Of Ulysses Tim Green, curando gli intrecci di sei corde
(la luminosità Love sposata a
di un claustrofobico post hardcore che individua nei Fugazi di Red Medicine e nei primi
dischi dei Jawbox i suoi referenti primari. Suoni oramai
assimilati, digeriti e mandati a memoria dai più, anche e
soprattutto da Jon Chapple e
c o m p a g n i c h e i n Ye s , T i n n i t u s
si limitano ad offrire una didascalica interpretazione del
genere e dei suoi stilemi. Viste le premesse, a salvare gli
Shooting At Unarmed Men da
un’inevitabile stroncatura è la
capacità di risultare comunque
convincenti grazie ad un naturale approccio intenso e paranoico alla materia in questione, ideale trampolino di lancio
per la genesi di episodi d’ordinaria alienazione, come l’inquietante filastrocca di I Am
United Nations, la narcolettica
P a t Yo u r s e l f O n T h e P o r v e r bial, le reminescenze Nirvana
di Never Follow Me Again, lo
scheletrico punk di I Cry For
No Woman e la rabbia implosa
del singolo Girls Music.
Giusto l’occorrente per strappare, oggi, una risicata sufficienza
ma non per far svanire del tutto
i dubbi su di un futuro che per la
band gallese sembra quanto mai
incerto. (6.0./10)
Morricone di The Desert Is A
Circe un esempio mirabile) e
la stratificazione di sonorità
che, pur nella costante economia di mezzi (elettronica
vintage o strumentazione mediorientale fa lo stesso), evocano uno spazio senza tempo
e viceversa, esteso dai ’60
californiani attraverso quattro decadi al qui e ora, dove
aleggia
palpabilissimo
quel
simulacro di John Fahey che
si fa metafisica carne blues
per Wolves’ Pup.
Ancora: la scelta di scindere
nettamente in due il disco, in
una prima parte di sei composizioni di media durata e una
seconda invece consacrata in
toto a un caliginoso, febbricitante e mesmerico espandersi
d i g a l a s s i e d a p r i m i Ta n g e r i ne Dream sperduti nella Death
Va l l e y, t r a d i s c e u n a c o n s a p e volezza lontana da pittoreschi orpelli oleografici, che
preferisce guardarsi indietro
e reinventarsi così un eterno
presente, una dimensione vitale e pulsante attorno a tre
quarti d’ora di scintillante visionarietà. Circondato da un
pugno di fidati sodali, il titolare unico Ben Chasny attinge
dal profondo del proprio bagaglio d’incanti e magnetismi,
Stefano Renzi
mescolando eterogenee e policrome suggestioni folk con
una psichedelia dapprima intesa come stato della mente, poi
liberata dall’interno di flash
acidi e ipnosi percussive. Ne
scaturisce un affresco curato
e compiuto in ogni episodio,
che sia la serena dolcezza in
punta di plettro dell’iniziale
To r n B y W o l v e s o l o s g u a r d o
s i c u r o d i B l e s s Yo u r B l o o d ,
il canto corale teso come un
ponte tra Oriente e Germania
del commiato River Of Transfiguration o le impennate di
Attar (che rimarca una volta
di più la distanza da qualsiasi revivalismo senza causa col
suo sporgersi su territori rumoristi) e di una fiammeggiante e mercuriale Black Wall.
C’è voluto tempo, e una riflessione sul senso e le finalità
del disco come oggetto artistico nell’era ipercinetica del
download e della musica come
accessorio, affinché una delle scene più enfatizzate degli
ultimi anni partorisse qualcosa di memorabile. La risposta
giace(va) nel valore indistruttibile di una musica da penetrare a occhi spalancati, trascendendo
l’estemporaneità
delle troppe fotografie di un
momento, ascoltate e in fretta
riposte a prender polvere, di
questi frenetici giorni.
Il presentimento, che si radica forte col susseguirsi degli
ascolti, è che da qui a un decennio The Sun Awakens nonsarà invecchiato di un solo minuto. Scommettiamo? (8.0/10)
Giancarlo Turra
s e n t i r e a s c o l t a r e 87
S o n i c Yo u t h - R a t h e r R i p p e d
(Geffen / Universal, 13 giugno
2006)
Ripartiti da quattro dopo l’abbandono
di
Jim
O’Rourke,
i S o n i c Yo u t h a p p r o d a n o a l
quattordicesimo album in studio che, senza troppi giri di
parole, è il loro lavoro più diretto, semplice e pop di sempre.
Una realtà che, nell’incessante girandola di attività dei
Nostri (un tour de force che
definire stacanovista sarebbe
eufemistico, tanto che, anche
da parte di certa critica, sono
sempre più frequenti crisi di
rigetto per sovraesposizione),
rischia di passare inosservata. A torto, perché se qualcuno volesse cercare una sorta
di evoluzione nel percorso
a r t i s t i c o d e i S o n i c Yo u t h ( p e r
quanto questo concetto possa avere un senso), dovrebbe partire da Rather Ripped.
Mentre lo scorso Sonic Nurse
macinava gli elementi base
costitutivi del sonic sound in
un
frullatore
post-moderno,
stavolta si parte proprio dalla canzone, dalla melodia, similmente a quanto già fatto in
Murray Street, ma lasciando
qui in secondo piano stratificazioni sonore e arrangiamenti complessi, riducendo il
noise da elemento base a puro
contorno. A pensarci, una sorta di rivoluzione copernicana
(almeno sulla carta), che nei
fatti si traduce in un songwriting
vicino più al cantautorato che alla wave (vedi Do
Yo u B e l i e v e I n R a p t u r e ? , c h e
pare uscita dalla penna del
N e i l Yo u n g p i ù r o m a n t i c o ) e
nell’impiego - ostentato e non
casuale - di elementi base del
rock classico come backing
vocals,
progressioni
armoniche convenzionali, riff (la
stooges-iana Sleepin’ Around)
e addirittura in qualche caso
assoli (per certi versi, delle
novità assolute nel repertorio
della band).
L’ u n o - d u e i n i z i a l e R e e n a e
Incinerate non lascia scampo, spandendo particelle di
un college pop sorprendentemente maturo ed orecchiabile,
spogliato com’è delle asprezze
punky del passato (quelle di
Dirty o Experimental Jet Set,
Trash And No Star), così come
Tu r q u o i s e B o y, T h e N e u t r a l ,
Or e Lights Out, tutte giocate
sulla leggerezza delle melodie
e le sospensioni piuttosto che
sull’impatto sonoro; beninteso, il sound resta pur sempre
inconfondibile, e l’alone di
già sentito è di conseguenza
inevitabile (Jam Runs Free e
What A Waste potrebbero star e s u D i r t y, P i n k S t e a m s u A
Thousand Leaves, e anche il
contributo di Ranaldo, Rats),
ma a conti fatti prevalgono i
colpi andati a segno. Prevale
soprattutto lo spirito che caratterizza da sempre i Sonic
Yo u t h , o v v e r o l ’ i n t e n d e r e l a
musica come esigenza espressiva inderogabile, a costo di
risultare ripetitivi o, come in
questo caso, di aggiungere
con successo un nuovo tassello ad un mosaico già abbondantemente definito. Che poi
è il loro massimo pregio, o, se
volete, il loro peggior difetto.
(6.8/10)
te (Forcetracks, City Centre,
Offices, R.U.C., Substatic).
Questo primo album per la
Hobby Inc. ci rivela un personaggio che tutto sommato, se
fosse rimasto ancora un po’
nell’ombra non avrebbe intaccato le nostre funzioni vitali
di ascoltatori onnivori, sempre
pronti ad attendere la rivoluzione musicale ad ogni disco.
I breakbeat sghembi, ma tutto
sommato racchiusi in una cornice ordinata, a volte “danzabile”, altre assolutamente rarefatta, richiamano senz’altro
gli esperimenti ormai decennal i d i A p h e x Tw i n , e r a p p r e s e n tano la struttura fondamentale
dello stile del Nostro. Tranne
quando si scade nella “normalità” da sottofondo affine alla
logica chill out da lunge bar
(Som En Film): tastierine e
ritmi frivoli ma mai fastidiosi.
Non si può dire che la musica
di Spinform sia scarna, anzi,
a
volte
sembra
eccessivamente carica di arrangiamenti, appesantita da stucchevoli
campionamenti di archi o da
massicce dosi di tappeti sonori melodizzati a dovere (Hjertats Mysterion)
Le cose vanno molto meglio
quando il ritmo si di dissolve e diventa pura atmosfera:
in questi casi (Det Fanns En
Tid, Froestelser Och Bekymmer) gli impasti sonori, la varietà della strumentazione e
dei materiali sonori messi in
gioco va al di là della semplice sovrapposizione e trova la
sua logica nella creazione di
un paesaggio in cui convivono
diverse esperienze musicali.
(6.0/10)
Daniele Follero
Antonio Puglia
88 s e n t i r e a s c o l t a r e
Spinform – Bryter Tystnaden
(Hobby Inc., 2 giugno 2006)
SubMarine Races - Self Titled
(In The Red / Goodfellas,
giugno 2006)
Dietro il progetto Spinform si
nasconde la persona di Erik
M ö l l e r,
svedese
di
Uppsala, vicino Stoccolma, già conosciuto negli ambienti dell’elettronica per alcuni remix
pubblicati da svariate etichet-
Non c’è soltanto il Regno a
sfornare wave rockers: nel
rock’n’roll
circus
dell’emul
c’è posto pure per i chicacoani SubMarine Races, il nuovo
gruppo del cantante chitarrista ex Ponys Ian Adams, re-
sponsabile della svolta pop
e post-punk di quel combo e
qui dedito a una strada ancor
più brit oriented. Suona come
una condanna a morte? Nient’affatto, piuttosto è una trappola, posta sapientemente dal
ragazzone dell’Illinois e dai
compagni Paul John Higgins
(batteria) e il The Countdown
Steve Denekas (basso), nei
primi tre brani in scaletta dell’album, costellati da un intro
dark-punk, un attacco funk
punk a la Gang Of Four via
F u t u r e h e a d s ( G e t Y o u r s e l f To gether) e un pop-punk Libertines (Difficult Night).
Il vero album arriva nelle
tracce
seguenti
garantendo
non solo l’assoluzione al trio,
ma anche un piccolo premio.
Prendete il gioco vocale che
si sviscera a partire da Pilgrim Shoes: riscopre la tradizione blank che da Richard
Hell porta a Thurston Moore.
Non è semplice copia incolla
ruffiano, piuttosto una riscoperta creativa che parte da
note coordinate newyorchesi
per smarcarsi avanti e indietro sul binario temporale del
rock. Così l’ottica street settantasettina di questo brano,
e soprattutto del successivo
W a t c h W h a t Yo u S a y, i n v e ce di rimanere appiccicata ai
cliché modaioli di NME si veste di pelle Lou Reed, oppure
d i S o n i c Yo u t h , c e d e i l p a s s o
a ironie sottoforma di assoli
acidi con le zeppe ai piedi,
per poi piroettare in un girotondo tra fraseggi ottimisti
folk punk (Hey Dad (The War
Is Over)) e serenate Modern
Lovers. Da lì si apre il sentiero per tutti i Cinquanta amati
dai punk pre e post (What’s A
B o y, G h o s t s A n d W o r m s ) , p e r
l’affondo nelle barricate (Six
F o o t Tw o ) , p e r u n a s t r i z z a t a
d’occhio ai Violent Femmes
(The Boat That I Row), e perché no un roccaccio tinto blues
N e w Yo r k D o l l s ( O n e F o r w a r d ,
Three Back, Postcard).
In altre parole: “Stop the british invasion and bring it all
back home!” E sapete una
cosa?
Funziona
piuttosto
bene. (6.8/10)
Edoardo Bridda
Subtle – Wishingbone (Lex
Records, 22 maggio 2006)
Se la definizione di crossover
non si fosse cristallizzata in
un periodo storico (gli anni
’90) e in un genere, ben precisi, potrebbe benissimo identificare la musica dei Subtle.
In una logica prosecuzione
del discorso sulla contaminazione nel rock avviato durante tutto il decennio passato,
la band dell’onnipresente Doseone, partendo dall’hip hop
come base (più mitologica che
reale), scommette sulle infinite possibilità dell’incontro tra
le combinazioni sonore permesse dall’elettronica e dal
campionamento e la vivacità,
la profonda umanità della musica “suonata”.
Chitarre, sintetizzatori, viol o n c e l l i , f i a t i , s a m p l e r, b a t t e rie acustiche ed elettroniche,
fanno da impalcatura a questa
grande trama sonora fatta di
breakbeats, accenti jazzati e
sonorità electro in cui la voce
di Doseone si infiltra a proprio piacimento comportandosi da strumento solista.
Wishingbone non nasce in un
momento felice per il collettivo, ancora stravolto dal grave incidente occorso a Dax
Pearson. E’ anche questo che,
probabilmente, giustifica l’incompletezza e l’eterogeneità del successore dell’ottimo
A Great White ( Lex Records,
2004), a metà tra l’album e la
raccolta. In attesa di un nuovo album totalmente inedito ci
accontentiamo di un disco che
raccoglie nuovo materiale, remix e nuovi approcci a vecchi brani prodotti con la collaborazione di alcuni “amici”:
Mike Patton (The Longvein of
Vo i c e ) , B e c k ( i l r e m i x d i F a rewell Ride), Hrvatski, Fog e
M r. J o h n S o d a .
Va r r e b b e d a s é l ’ a c q u i s t o d e l
disco il DVD allegato, che
contiene tre video della band
(disegnati dai talenti dell’animazione SSSR), legati insieme e costruiti in maniera da
dar vita ad una storia surreale, un piccolo film che ha fatto vincere loro il premio come
miglior video musicale ai British Animation Awards 2006.
(6.5/10)
Daniele Follero
Sufjan Stevens - The Avalanche: Outtakes and Extras from the Illinois Album
(Rough Trade / Self, 25 luglio
2006)
“Outtakes and extras from the
Illinois album”. Sono queste
le parole nel fumetto in copertina, dietro ad un Sufjan Stevens in versione supereroe, in
palese ironica polemica con
la DC Comics che gli ha fatto togliere il Superman dalla
copertina di Illinoise. Ci sono
altre cose sulla cover del disco. Una Chevrolet Avalanche,
che evidentemente richiama il
titolo della raccolta e poi un
po’ più piccolo, in basso, c’è
scritto “Shamelessly compiled
by Sufjan Stevens”. Shamelessly ovvero “senza vergogna”.
Un disclaimer abbastanza sui
generis, ma forse, indubbiamente, lo stesso Stevens si
rende conto che dopo appena
un anno dall’uscita di un mastodonte come Illinoise, rovesciare sul mercato un’altra
raccolta “pesante” come questa e per di più fatta di scarti (outtakes…) è un atto come
minimo azzardato.
sentireascoltare 89
S u p e r c o m p u t e r, T h e H e n n e y
Buggy Band e The Perpetual
Self, or “What Would Saul Alinsky Do?” nella loro sfacciata
solarità pop, forse un posto in
prima fila lo avrebbero pure
meritato. (6.8/10)
Antonello Comunale
Super Elastic Bubble Plastic
- Small Rooms (Red Led Records / V2, 21 aprile 2006)
La logorrea compositiva non
è certo cosa nuova nel mondo del rock e il disco o il box
di outtakes è ormai una prassi consolidata, tanto i costi di
produzione possono permetterlo. Stevens allora si toglie
sostanzialmente uno sfizio e
recupera pezzi scartati dal
disco dell’anno scorso, riformulando in qualche modo il
progetto originario del doppio album. Essendo le stesse
sessions, chi già ha sentito il
disco dedicato allo stato dell’Illinois può facilmente immaginare come suonino le ventuno canzoni qui incluse. Più
che altro, è interessante vedere l’autore all’opera con gli
arrangiamenti. Chicago viene
vestita e rivestita tre volte,
in tre versioni diverse: una
acoustic version, una adult
contemporary easy listening
version, una multiple personality disorder version. Ed è
sicuramente quest’ultima la
versione più interessante e
divertente. Il resto della raccolta aumenta la galleria di
personaggi. Appaiono in brevi
ma significativi camei: Adlai
Stevenson (in una marcetta
da Festa della Liberazione),
Saul Bellow (una chiccheria
acustica alla Seven Swans),
C l y d e To m b a u g h ( u n a d e d i c a
strumentale
space
lounge),
e i l c a r o M r.
Supercomputer
(ritmi pop e cori in gloria).
Poche sorprese comunque. I
brani migliori sono finiti tutti
su Illinoise. Quelli presenti qui
sono stati giustamente messi
d a p a r t e , m a a l m e n o D e a r M r.
90 sentireascoltare
C’è aria di cambiamento nella
casa super elastica. Saranno
le esigenze di venire incontro
a i v a n t i c o m m e r c i a l o i d i d i M t v,
che le ha dato un po’ di spazio
negli ultimi tempi (addirittura
il format Making Of The SEBP
video, “concorsone” per coinvolgere il pubblico nella realizzazione di un loro video);
sarà la voglia di rafforzare la
propria identità musicale. Ma
forse non era il caso di voltare le spalle a molto di ciò che
di buono era venuto fuori da
T h e S w i n d l e r.
Abbandonati i ritmi sghembi
e quella sfacciataggine acid
blues che ce li aveva fatti paragonare alla Blues Explosion
d i J o n S p e n c e r, l a b a n d m a n tovana, dopo il breve capitolo
dell’Ep Acoustic On Air (Red
Led Records, 2005), ripiega
- pur mantenendo una forza
espressiva invidiabile su
sonorità più scontate e datate. Chi ha amato gli Shellac e
i Nirvana ed è cresciuto con
le sonorità 90s non disdegnerà Small Rooms se non per la
sua inconsistenza di fondo. Le
belle idee del recente passato sembrano annacquate in un
rock più impersonale, fatto di
riff buttati giù senza grandi
complimenti e tempi di batteria molto più “regolari”.
L’ e n t i t à d e l c a m b i a m e n t o d e i
SEBP è evidente e inequivocabile a partire dal primo
singolo
estratto
dall’album:
a conferma del fatto che, generalmente, un singolo è testimone del lato più easy di
una band, Feel Sleepy è l’episodio più banale che fino ad
ora avevamo ascoltato dai tre
. Tracce di Therapy?, Stone
Te m p l e P i l o t s e P e a r l J a m , r i calcate dalla noiosissima ballatona Hold On.
Anche
i
momenti
migliori (Rage Age, la strumentale
16 Bits Vs Trks On 2”), quelli
che maggiormente riflettono
le idee originarie della band,
sono appannati dalla voglia di
apparire comprensibili e pronti all’uso per la fiumana fagoc i t a n t e e p s e u d o i n d i e d i M t v,
che scorre inesorabile portandosi dietro tutto ciò che è facilmente commestibile con le
orecchie.
Ora però, diamo a Cesare quel
che è di Cesare e diciamo pure
che non stiamo certo parlando
dei nuovi Negramaro (almeno
ce lo auguriamo). Ma chi fa
buone cose genera aspettative
e le aspettative, a loro volta,
generano maggiore attenzione
e maggiori pretese. E’ quello il momento di rischiare, di
scoprirsi, di mettersi in gioco
sul serio, di rischiare. I SEBP
lo hanno fatto, ma con qualche peccatuccio di presunzione, provando a “sfondare lo
schermo”.
Un passo indietro. (5.5/10)
Daniele Follero
The Aggrolites – Self Titled
(Hellcat / Self, maggio 2006)
Desmond Dekker e i Mods, i
C l a s h e d i l r o c k s t e a d y, W i l son Pickett ed i red skinhead.
Questo l’immaginario estetico,
sociale e musicale al quale gli
Aggrolites fanno riferimento,
in linea esatta con quella che
è la tendenza di casa Hellcat
Records, etichetta fortemente
voluta da Tim Armstrong dei
Rancid per dare sfogo alla
propria incontrollabile passione per i ritmi in levare.
Già molto nota nell’ambiente
della musica reggae statunitense, la formazione californiana arriva al suo debutto discografico su Hellcat con un
disco omonimo che non concede niente alle moderne derive
ska-core o ska-punk, restando
fedelmente ancorata al sound
originale
giamaicano
degli
anni sessanta.
Memori tanto del grande Jackie
Mittoo quanto del sound proveniente dalle cantine piene
zeppe di fumo dello Studio
One, figli illegittimi di molto
rhythm and blues fuoriuscito
dalla fabbrica Stax, gli Aggrolites mettono infila diciannove
pezzi uno più bello e groovoso
dell’altro che faranno la gioia
di tutti gli appassionati. Episod i c o m e T h u n d e r F i s t , T h e Vo l c a n o , L o v e I s n ’ t L o v e , W o r k To
D o e , s o p r a t t u t t o , F u r y N o w,
rappresentano infatti quanto di
meglio è stato prodotto in ambito ska-rocksteady nel corso
degli ultimi anni, più o meno
dalla pubblicazione di quel
piccolo capolavoro che è stato
Out Of Nowhere degli Hepcat,
anno di grazia 1994. Nel suo
genere, un album di grandissimo spessore. (7.0/10)
r e E l s e To B e , p e r n o n d i r e d i
q u e l l o p i a s t r e l l a t o Ti n P a n A l ley di After We Shot The Grizzly
o quello in punta d’harmonium
di Beautiful William. Poi – naturalmente - i lasciti byrdsiani
i n O u r B l u e S k y e i l To m P e t t y
s o t t o s e d a t i v o d i A l l T h e Ti m e
In Airports. Le solite cose, certo. Anzi no. Però neanche la digressione provenzale di Hunter
Green - ukulele e violoncello, il
canto di Rennie tra il problematico rovello di Thalia Zedek e le
palpitazioni sofisticate di Isobel
Campbell - riescono a darti una
scossa decisiva. Ne consegue
che il disco rimane invischiato
nella propria scenografia, così
come i pezzi, sorta di strani
animaletti
né-alghe-né-pesci
sospesi in un acquario filmico.
Quasi una caricatura che ad un
tratto ha deciso di prendersi sul
serio. Senza evidenti giustificazioni. (5.9/10)
Stefano Renzi
Stefano Solventi
The Handsome Family - Last
Days of Wonder (Loose, giugno 2006)
The Paper Chase – Now You
Are One Of Us (Southern /
Wide, maggio 2006)
Il solito vecchio country-folk,
per quanto sapientemente intorbidato di mistero, indolenzimenti e vibrazioni umoristiche. Un campionario di estasi
quotidiana, di esoterico incanto annidato tra le pieghe delle
sensazioni, di fiumi melmosi e
druidi mesmerici, di epifanie
e sdrucciolamenti sentimentali. Un impasto assieme domestico ed enigmatico, “eerie”
come potrebbe esserlo una
torta di mele cotta sulla pietra filosofale. I The Handsome Family giungono al settimo
full-lenght col passo ineffabile dei Lambchop, ma senza
quella disinvolta capacità di
smarcarsi dalla trappola del
“genere”. A pensarci bene,
sembrano più dei Tindersticks
in camicia di flanella, cappellaccio e stivaloni (ascoltatevi
Te s l a ’ s H o t e l R o o m ) .
Quanto al resto, le solite cose,
ovvero lo spirito di Gram Parsons rievocato tra le slide e i
vibrafoni di White Lights o tra il
piano e il mellotron di Somewhe-
C’è un curioso controsenso
che qualifica i Paper Chase,
e risiede nel fatto che la loro
proposta esiga notevole attenzione da parte del fruitore,
subito dissipata facendo perdere allo stesso la pazienza.
In altre parole, la complessità della loro musica diviene in
breve artificiosità, tarpando
le ali a intuizioni non disprezzabili ma affogate in eccessi
enfatici, così che le composizioni ricordano certe torte
nuziali - sontuose e cariche
d’ogni ben di dio - delle quali
si reggono giusto un paio di
bocconi di cortesia.
Il gruppo sembra voler donare una dignità indie a sonorità
di estrazione “prog”, non solo
ritenendo scontata la necessità di una tale operazione, ma
anche assorbendo unicamente
i difetti del vituperato genere. Ciò che faceva la forza del
post rock (e, mutatis mutandis, anche di non poca new
wave), ossia la scelta sapiente di quale passato riportare
alla luce e rivalutare, qui costituisce la pietra al collo che
affossa tutto: chitarre angolari con velleità crimsoniane,
pianoforte indeciso tra classica e scontati passi blues e
una ritmica troppo uniforme si
arrabattano nel ruolo di scenario delle tortuosità vocali
di John Congleton, unione del
Waters più teatrale col suo
clone Geldof (ecco, se proprio
si vuol fare un parallelo, si
può parlare di Boomtown Rats
aggiornati all’era del “dopo
rock”). Le canzoni risentono di tutta questa ampollosità sparsa a piene mani, con
le loro strutture sì articolate
ma ridondanti di forzature ed
effettistica ostentata con dubbio gusto (e dire che Congleton è affermato produttore).
L’ e s i t o d i ff o n d e u n s e n s o d i
vacua pompa ed enfasi smisurata, con l’istantanea perdita di interesse (quando non
addirittura fastidio o noia) da
parte dell’ascoltatore.
Non resta quasi nulla da salvare in questo sesto disco dei
texani, giusto il bel folk allucinato - da Dexy’s Midnight Runn e r s v i a d E U S - d i Yo u W i l l N e v e r Ta k e M e A l i v e e l a s e r r a t a
W e K n o w W h e r e Yo u S l e e p , m o mentanei barlumi di senno che
inducono a congetturare dove
approderebbero i Paper Chase
se possedessero il senso della misura. Un merito, pensandoci, forse lo hanno: rendono
ancor più anacronistici i Mars
Vo l t a , m a n o n è p o i q u e s t o f i o r
di lusinga… (5.0/10)
Giancarlo Turra
sentireascoltare 91
The Red Hot Chili Peppers
- Stadium Arcadium (Warner,
maggio 2006)
To r n a n o i p e p e r o n c i n i c o n u n
album d’inediti anzi due. Ben
ventotto canzoni, quattordici
per disco (il primo battezzat o J u p i t e r, l ’ a l t r o M a r s ) . N o n
bastasse, sembra che il progetto originale – tre album da
far uscire a distanza di pochi
mesi l’uno dall’altro - comprendesse altri dieci pezzi.
Poi le pressioni della casa discografica hanno ricondotto
la band a più miti (e redditizi)
consigli. Sia come sia, è una
dimostrazione di eccezionale
fertilità da parte dei losangelini, per quanto mediamente
il peso specifico non superi
quello di una chipster (piccante, of corse). Giunti a questo punto, non si tratta solo
di cambiare metro di giudizio,
ma di rileggere un po’ tutta la
loro carriera alla luce di questo flagrante outing pop. Quei
primi
caustici
album,
quei
morsi di cane tossico, quegli
spasmi funk-rock a rotta di
collo lungo la giugulare sforacchiata del Sunset blvd, andrebbero ri-considerati quali
frutto acerbo di scelleratezza
giovanile.
C ’ è l a s t o r i a d e l c r o s s o v e r,
certo, ma prima che stilistica
la questione mi sembra progettuale, una vigorosa commistione tra il versante scomodo
e quello potabile, la capacità
di vendere l’ansia con lo sberleffo, il delirio con la carezza.
In questo senso, se Blood Sugar Sex & Magic rimane il loro
92 sentireascoltare
capolavoro,
Californication
è stato il prodotto definitivo,
sancendo come indispensabile il fattore del redivivo Frusciante. In Stadium Arcadium
diventa uno schema martellante. La sua chitarra così acida,
satura di screziature freak in
libera uscita, è il didascalico
corpo estraneo, è il segno icastico della psichedelia, germe
ostentato sotto vetro come in
un Barnum patinato/platinato
(che trova corrispondenza nella gestualità maori di Flea). Il
resto, musicalmente parlando,
è una sezione ritmica scarna
ma rutilante, essenziale ma
incendiaria,
con
pennellate
sparse di synth, ottoni e flauti
a sfrangiare i contorni (produce Rick Rubin). Poi, certo,
c’è la voce di Kiedis che fa
quel che può, scarsa d’estensione e capace d’interpretare
solo se stessa, ma con grinta,
con convinzione, col merito
di riuscire ugualmente unica.
Quanto alle melodie, riciclano
con disarmante immediatezza
cose antiche - proprie e non
- che ti si appiccicano subito
alle sinapsi, giocando a carte
talmente scoperte che scomodare sospetti di plagi e autoplagi risulta semplicemente
ozioso.
Ora, che ci crediate o meno, il
marchingegno funziona. Anzi,
è validissimo, da un punto
di vista pop. S’incappa inevitabilmente in qualche passo falso (il pastiche insipido
e ruffiano di Dani California,
l’innodia grossolana di Desecration Smile, l’hard-bluesone cotonato di Readymade),
compensato però da qualche
inatteso preziosismo (i germ o g l i p o s t - p r o g i n A n i m a l B a r,
le angolosità eighties di 21st
C e n t u r y, i m i n i m i t e r m i n i p a l p i t a n t i d i H a r d To C o n c e n t r a te).
Il resto indugia macinando
funk e psych e ballad ed elettricità e muscoli e sguardi e
vite nel flipper colorato e periglioso della California, metonimico frammento di un’epo-
ca su di giri. In
collasso. (6.4/10)
attesa
del
Stefano Solventi
The Whitest Boy Alive Dreams (Service, 28 giugno
2006)
C r o o n e r,
e n t e r t a i n e r,
white
s o u l g u y, f o l k s t e r s o p r a l e r i ghe, vocalist tra le righe (e i
battiti dance), nerd perennemente in love, studente fuori
corso e fuori sede. Insomma,
quell’Erlend Øye mai fermo,
quel ragazzo a cui cantare
viene facile come svegliarsi
al mattino: se i Kings Of Convenience sono di fatto la cosa
dell’introspettivo e sensibile
Erik Glambek Bøe, per il rosso norvegese non esiste fede
se non il disimpegno. Uno stile di vita che lo ha portato a
offrire l’ugola per una marea
di progetti dance, e che qui lo
vede patron di una band tedesca nata come estemporaneo scherzo elettro-dance nel
2003.
A distanza di tre anni, The
Whitest Boy Alive è diventata l’etichetta dietro la quale
si celano le velleità indie rock
e funky del cantante (qui fisso anche alla chitarra) e dei
compagni di viaggio Marcin Oz
(basso), Sebastian Maschat
(batteria) e Daniel Nentwig
(tastiere). Pensate al solito
buon Øye, stralunato e rapito - ma più ironico e conciso
che mai - cantare su una base
New Order prima maniera, immaginate l’immancabile basso
felpato factory style ed ecco
Burning, l’opener del disco;
pensate poi a quattro ragazzi che rifanno i Police senza
pensare a un brano in particolaree avrete la deliziosa Abov e Yo u . I l r e s t o p r o s e g u e p e r
quelle vie (Inflation rispolvera
umori Arab Strap, Don’t Give
Up è la più Kings Of Convenience del lotto, Figures presenta il più classico registro
oye-iano, in Borders ritornano i New Order sciolti al sole
con i Death Cab For Cutie)
in un gioco che diventa chia-
ro: Dreams è stato registrato
senza layering, né editing né
effetti in uno studio di Berlino, ogni brano inizia con un
asciutto canovaccio chitarrabasso-batteria per finire su
una cheta armonizzazione alla
sei corde.
Il piglio è arioso, erbivor o , m a t t i n i e r o . L’ e s s e n z i a l i t à
ascritta in un diario indie-pop
con il giusto soffio wave di
moda e ogni brano a ricordare
un’influenza, salvo in seguito
fagocitare nei velluti e nelle
stanze del norvegese.
Spontanea la realizzazione, e
altrettanto naturale l’ascolto.
Che non è poco, ma non c’è
neanche nessuna hit da segnalare. (6.4/10)
Edoardo Bridda
Think About Life - Self Titled
(Alien8 / Wide, 2 maggio
2006)
Think About Life sono tre marpioni dell’entroterra di Montreal
(il
multistrumentista
G r a h a m Va n P e l t , i l c a n t a n t e
Martin Cesar e il batterista
Matt Shane) che hanno trovato una via media all’intrattenimento, al sano divertimento
disimpegnato della seconda
metà dei 2000: né daftpunkismo, né emul-rock, né la sommatoria dei due, solo una
semplice ricetta - vitale - che
prende con disinvoltura gli
spunti che servono al caso,
sprecando quasi niente.
Ogni brano prevede una singolare evoluzione. C’è la linea ritmica irreale, spezzatissima, con canto ubriacone alla
Wolf Parade che porta al gran
finale
d’ascendenza
corale
(Fireworks), o la figura dolente - quasi la sonata al chiaro
di luna rivisitata a loro modo
- su trambusti di piatti e invocazioni acute, che porta alla
cavalcata gioiosa condotta dal
basso funkeggiante e dalla tastiera euforica di marca Jon
Siegel (Money). C’è pure, ai
limiti della blasfemia, un organetto Manzarek accoppiato
con beat gabba, a far scattare
un missile punkfunk e la sua
trasformazione marzial-militare (Serious).
Soprattutto la band sa come
ci si sbizzarrisce. In In Her
Hands ci sono fanfare sconsiderate e rullate quasi avantprog, in Bastian And The Boar
un
canto
assorto/dissociato Liars su trotto electro che
alla lunga diventa ghirigoro
sardonico,
quindi
schizzata
synthedelica Electrelane con
tanto di tastiera finto-trionfale, in What The Future Might
Be una figura ritmica idiota su
base breakbeat (nonché una
loro versione dell’urban rap),
in Commander Riker ’s Party
una tempesta sonica vintage
preceduta da canto isterico
Modest Mouse - Frank Black e
batteria che bisticcia con sincopi e drum’n’bass che spuntano dal nulla. Tra tutto, fa
bella mostra di sé persino il
minuscolo affresco atmosferico-minimalista di Slow-Motion
Slam-Dunk From The FreeThrow Line.
Unico smacco sono le occhiate all’immaginario alternativo
Strokes-iano, spesso talmente
evidenti da sembrare più ingenuotta esaltazione che genuina autoironia. Ad uno sguardo
disincantato rimane pur sempre una raccolta esilarante,
sghemba, di piece che mandano in cortocircuito coraggio
sperimentale electro, rifiniture cantabili e ritmi dementi e compositi al cardiopalmo.
(6.4/10)
Michele Saran
Todd – Comes To Your House
(Southern / Wide, 2006)
Per gli studi dell’Amphetamine Reptile doveva girare qualche virus contagioso. Craig
Clouse è stato infettato durante i brevi trascorsi negli
Hammerhead, una delle band
meno originali e meno conosciute della label di Minneapolis. Trasferitosi a Londra ha
contagiato la moglie Fifi e un
paio di amici musicisti con cui
h a f o r m a t o i To d d , n u o v a b a n d
dedita alla diffusione del morbo: il noise.
Per iniziare vanno sul sicuro: A Killer Grows segue i
dettami Unsane al limite del
plagio, batteria maltrattata,
chitarre sature e foga da maniaci omicidi. Chair Fight non
è da meno, sembra lo scontro
senza quartiere tra Killdozer e Distorted Pony a colpi
di riff seriali, spasmi sonori,
urla efferate, le stesse che
riappaiono in Golden Rabbit.
In Black Skull si intravedono
nuove soluzioni, le pulsazioni iniziali vengono sommerse
da valanghe Barkhausen di
marca Load, Council Member
sembra un pezzo come tanti,
feroce e ripetitivo, ma dopo
pochi secondi si spegne in un
tintinnio anomalo che inganna
l’ascoltatore, prima di ripartire con un delirio strumentale
che è forse l’apice del disco,
Craig e compagni costruiscono un labirinto sonoro senza
uscita dove perdersi e impazz i r e . L ’ i p n o t i c a To D o L i s t è
la meno potente del lotto, ma
non per questo meno inquitetante, tra iterazioni soniche e
ossessioni vocali Christian St.
Christian è un melting pot abbastanza riuscito di campioni
di archi e voci,
interferenze
digitali e mostra la faccia free
e ironica della band, in netto
contrasto con la monoliticità
melvinsiana di Shepherdess,
chitarre ad alta densità e feed b a c k a d o l t r a n z a . L’ a l b u m s i
chiude con le variazioni chromatiche di Crank A Winch in
linea
con
la
noise-tronica
sentireascoltare 93
estrema made in USA.
Feroci, anfetaminici, consap e v o l i , i To d d c i t a n o i l p a s sato recente ed esplorano,
forse con troppa prudenza, le
nuove vie al rumorismo rock.
Era da tempo che non si sentiva qualcosa di simile arrivare da oltremanica. Aspettiamo
la
deflagrazione
definitiva.
(7.0/10)
Paolo Grava
Tool - 10 000 days (Volcano /
Sony - BMG, 2 maggio 2006)
A distanza di anni, la miglior e d e f i n i z i o n e d e i To o l r e s t a
quella data da una rivista americana all’epoca di Undertow:
“dei Black Sabbath composti
da eruditi studenti d’arte anziché da una manica di bombardati working-class inglesi
nostalgici del blues”.
Lasciata quindi alle spalle
l’ondata grunge, con cui all’inizio furono confusi, il post
metal di Korn e derivati, con
cui successivamente furono ulteriormente confusi e persino
il dualismo con i Radiohead,
tramite il quale qualcuno tentò di farli passare come band
generazionale, cosa ci resta
oggi di tanta speme? 10 000
giorni, apocalissi space, riff
godzilliani heavy seventies,
esoterismo
da
supermarket
con tanto di occhiali allucinogeni
nel
pacchianissimo
packaging e un’ora e passa di
gorghi strumentali canorizzati
da Maynard Keenan.
C’è poco da dubitare sullo stile. Lo riconosci subito
quando attacca Vicarious. La
94 sentireascoltare
mano ferma di Adam Jones a
disegnare riff spiraliformi sul
consueto solido tappeto percussivo. Ci sono rimandi più o
meno scoperti a tutti i precedenti lavori. The Pot è chiaram e n t e s u l l a s c i a d i S o b e r. R o setta Stoned riprende un riff
di Third-Eye e nel finale cita
pure H. Una calligrafia incredibilmente ossequiosa della
forma. E’ tutto così il disco,
con una generale tendenza ad
una sofferta morbidezza psichedelica, che trova l’apice
nelle due Wings For Marie.
Eppure, senza girarci intorno,
questo è il disco più brutto dei
To o l e a m m e t t e r e c h e A e n i m a
e Lateralus erano difficilmente perfettibili, non rende la
pillola meno amara.
Fa pensare la scelta di rendere
volutamente
le
trame
più semplici, anche perché il
tecnicismo
strumentale
non
arretra di un millimetro. Ad
ogni modo, non c’è quasi più
traccia di quello che anni fa,
Claudio Sorge ebbe a definire come “metal sci-fi tribale” o anche “pure apocalypse
music”. Il riffarama pur compresso e affannoso di Jambi e
Rosetta Stoned può mai giustificare paragoni con i Meshuggah? Quelli di Destroy Erase
Improve? Non sarà semplicemente che ogni dichiarazione
della band viene presa come
oro colato?
Il disco non è totalmente disprezzabile, anche perché a
livello strumentale è il consueto bagno di fuoco, ma un
lavoro non completamente rius c i t o d e i To o l è d o p p i a m e n t e
grave, anche in virtù del fatto che ci toccherà aspettare,
come minimo, altri cinque anni
per il successore. (6.0/10)
Antonello Comunale
Tuxedomoon - Bardo Hotel
Soundtrack (Crammed Discs,
giugno 2006)
La storia di quest’album, a serio rischio di passare inosservato, è di quelle provvidenziali: mentre i Tuexdomoon
lavorano al nuovo album, arriva una telefonata di George
Kakanakis. Il regista li vuole a
San Francisco, ha in mente un
road movie e, potendo contare
su un’amicizia di lunga data,
chiede ai quattro di volare
nella città natia per incidere
una soundtrack in totale libertà artistica. I Tuxedomoon accettano, ritornano dopo più di
vent’anni a incidere a Frisko,
il luogo dove tutto è iniziato.
E tutto vuol dire i Residents,
la Ralph, la New Wave. Non
può esserci miglior soddisfazione di questa per testare vitalità e maturazione, per riconoscersi e vedersi invecchiati
con saggezza e equilibrio.
Composto da libere improvvisazioni quasi tutte brevi, Bardo Hotel Soundtrack presenta
la fulgida firma del quartetto
diluita in una manciata di atmosfere tra l’attesa e il viaggio, dove la circolarità ritmica è il baricentro sul quale
ruotano le improvvisazioni di
R e i n i n g e r, L i e s h o u t e B r o w n .
Bardo, del resto, per i Buddisti è uno stato tra la vita e la
morte, ma anche il magico hotel parigino dove William Burroughs e Brion Gysin svilupparono l’idea del cut-up verso
la fine degli anni Cinquanta.
Degna trasposizione di tutto
ciò, la tracklist è caratterizzata da costruzioni armoniche
cameristiche
che
qualcuno
ama etichettare come classical
c o n t e m p o r a r y,
ovvero
composizioni figlie del melieu
delle avanguardie del Novecento in un background a maglie larghe, che va dal jazz
alle musiche per balletto, dalla transetnica dei Colti alla
psichedelia degli Hippie, dalla
musica dodecafonica all’elett r o n i c a s p a c e y, d a W e i m a r a l
minimalismo.
E se si tratta di farsi carico
delle istanze del Secolo più
complesso della storia e renderle comprensibili a qualche
alieno umanoide a anni luce di
distanza, pochi possiedono il
gusto e la classe dei Tuxedo-
moon. Quei Tuxedomoon che
erano classici anche quando
suonavano la new wave più
tesa, quel combo che sognava l’Europa anche trovandosi
nella città più europea d’America.
Bardo Hotel… è anche un
omaggio a Frisko, caput mundi, città del viaggio e della
memoria. E per il primo lato
della medaglia non sfugge la
magia di una Soup Du Jour tra deserti Morricone e quartomondismi Jon Hassell -, per
la seconda ci sono invece le
track che riprendono i fasti
di Half Mute: l’interlocutoria
Needles Prelude, la jazzy e
barocca Effervescing In The
Nether Sphere, mentre tra i
fuori programma spicca una
C h o r a l Ve r s i o n d i J i n x ( l a s i nistra ballata di Desire), una
fanfara balcanica come Baron Brown speziata ragtime,
e un rural blues in presa diretta Airport Blues. Su tutte
svetta l’afflato di Vulcanic,
Combustible capace di unire
Reich, Glass, Laswell e Miles
Davies. Per dirla con Herzog:
Fitz Carraldo! (7.5/10)
Edoardo Bridda
Vetiver - To Find Me Gone
(Fat Cat / Wide, 5 giugno
2006)
R i t o r n a n o i Ve t i v e r d i A n d y
Cabic. Ad intermittenza, come
l’attività del suo fondatore,
ormai impegnato in pianta stabile nella band di Devendra
B a n h a r t . To r n a n o i V e t i v e r e
torna il passato musicale degli
anni’70. A due anni di distanza dall’omonimo esordio discografico, infatti, il secondo
lavoro full lenght della band
americana, seppure molto diverso dal suo predecessore,
si pone in linea di continuità
rispetto a un approccio che
strizza ancora una volta l’occhio al folk rock e alla woodstock generation.
Melodie dolci, arrangiamenti rigorosamente acustici, ma
non per questo meno ricchi e
curati, sempre più in contra-
sto con certo radicalismo lo-fi.
T r a l e n o t e d i To F i n d M e G o n e
si sentono risuonare echi della Band (I Know No Pardon),
abbozzi di folk psichedelico
(Red Lantern Girls), il country-blues-rock dei Creedence
Clearwater Revival (Won’t Be
Me) e riferimenti barrettiani
(The Porter).
Una piccola svolta per chi apprezza e segue lo stile di Cabic, che tutto sommato, però,
rimane intatto nelle sue composizioni, sempre strettamente legate alla chitarra acustica, pronta ogni volta a tessere
le trame su cui vengono costruiti gli arrangiamenti. Canzoni che potrebbero benissimo
essere eseguite da chitarra e
tamburello, ma che spesso e
volentieri vengono infarcite
dagli archi, quasi sempre usati con parsimonia (cioè senza
risultare pacchiani).
Dopo due album e un Ep viene
da chiedersi, tirando le dovute
somme, che senso abbia riesumare continuamente il famigerato sound della West Coast
senza aggiungervi niente di
nuovo. Eludendo la domanda
si potrebbe puntare tutto sulla
qualità e dire che in fin dei
conti, questa musica è “fatta
bene”, sia a livello compositivo che a livello esecutivo. Ma
f o r s e , c a r o A n d y, è p r o p r i o a r rivato il momento di cambiare.
(6.5/10)
Daniele Follero
Zita Swoon – Camera Concert–A Band In A Box (Discograph / Self, 16 giugno 2006)
re come il frutto forse più genuino del loro panorama musicale. La loro musica fonde
infatti canzone d’autore, folk,
pop, rock in una miscela che
trova nel songwriting di Carlens, debitore tanto di Dylan
(qui omaggiato nella cover di
Yo u ’ r e A B i g G i r l N o w ) e W a i t s
quanto del conterraneo Brel,
il suo focus; questo Camera
Concert–A Band In A Box non
fa che confermare l’essenza tzigana dei suoi brani, qui
riarrangiati ad hoc per un set,
immortalato in audio e video,
appositamente allestito nell’estate del 2005 in vista un
cd+dvd celebrativo e antologico insieme.
A beneficio degli avventori
ecco dunque un fedele ritratto del gruppo così come vuole
presentarsi oggi, tra concessioni all’indie folk di marca
B e l l e a n d S e b a s t i a n ( H e y Yo u ,
Whatshadoing?) a chansons
meticcie come De Quoi A Besoin L ’Amour e Individu Animal, fino al blues (Song For
A D e a d S i n g e r, t r i b u t o a J e ff
Buckley) al lounge (proprio
come lo hanno visto i dEUS,
in Jintro And The Great Luna)
e a l f u n k ( M y B o n d W i t h Yo u
A n d Yo u r P l a n e t : D i s c o ! ) , c o n
qualche punta di AOR. Una
proposta tuttavia qualitativamente altalenante, nonostante le belle premesse: una volta individuati gli ingredienti,
l’amalgama risulta alla lunga
pesante da mandare giù per
intero. (6.3/10)
Antonio Puglia
Attivi da più di un decennio
all’interno della scena rock
belga, i Zita Swoon di Stef Kamil Carlens (già membro fondatore dei dEUS, lasciati nel
1996) si sono saputi contraddistinguere per un’attitudine
interculturale che, confrontata
con le concessioni dirette all’indie dei colleghi più blason a t i ( t a n t o l a b a n d d i To m B a r man quanto i progetti stilosi
dei fratelli Dewaele, Soulwax
e 2 Many Dj’s), li fa appari-
sentireascoltare 95
dal vivo
Primavera Sound 2006
d i A n t o n i o P u g l i a . C o n t r i b u t i d i E d o a r d o B r i d d a , Te r e s a G r e c o , V a l e n t i n a C a s s a n o
Foto: primaverasound.com
Anche quest ’anno Primavera Sound è stato segnato da buoni, quando non ottimi, concerti di “vecchie” band e di nomi storici dell’indie colti al loro apice, e
di act freschi, chiamati alla prova del fuoco sul palco dopo le, spesso convincenti, uscite discografiche. Nei limiti di quanto ci è stato possibile assistere,
ciò che segue è un resoconto dei tre giorni di spettacoli.
Giovedì 1 Giugno
I concerti di oggi si svolgono
solo su due palchi, l’anfiteatro Rockdelux Vueling e il più
contenuto Danzka Cd Drome;
in ogni caso, la location è
sempre splendida, la birra lascia ancora a desiderare, l’organizzazione è comunque impeccabile (a parte la gestione
ambigua dei ticket-pasto/bibita tipo Festa dell’Unità), le
misure di sicurezza da banca
svizzera...
Appena arrivati sfioriamo il
live dei Drones: tre ragazzi
casinari e stilosi quanto basta, con canzoni “toste” in
stile Sub Pop primo periodo.
Divertenti, nulla più, così ci
dirigiamo all’altro palco per
non
perderci
i
Castanets.
Come prevedibile, la freakerie
è di casa: set minimal / elettrico, con interessanti inserti
di tromba e banjo elettrico e
un paio di (piuttosto prevedibili) code noise. Per un live
più concentrato e meno dispersivo si è dovuto aspettare
il finale del set, con due ballate simil-buckleyane. Raposa
96 sentireascoltare
lo immaginavamo diverso, un
po’ più Gary Higgins e meno
Nikki Sudden; nel complesso,
una mezza delusione.
Il tempo di un veloce cambio
di palco ed è il momento di
No Neck Blues Band: nonostante se ne sia già parlato,
è sempre un’esperienza straniante assistere a una loro
performance, per la naturale
tendenza alla dispersione e
al bizzarro apparato visuale. Dilatazioni free form che
prendono l’aspetto di infuocate jam session, decostruzioni
soniche della forma canzone
(stavolta appena accennata),
in una performance sciamanica tra percussioni - anche
di oggetti -, chitarre minimali, tastiere, assoli di sax. Una
gestualità rituale che fa della
ripetizione ossessiva l’unica
regola, con il pubblico a metà
tra stupito e ammaliato.
Quasi in contemporanea, sul
palco principale si consuma
quello che si rivelerà lo show
più divertente della serata,
pur essendo l’evento meno
“in linea” con il trend dell’avvenimento. È sempre uno
spettacolo trovarsi di fronte
L e m m y, i l p a d r e s p i r i t u a l e d i
tutti i truzzi del mondo, che
pesta sul basso, fornito degli
immancabili stivali e cappello d’ordinanza e di quell’immutata voce da camionista
incazzato nero, mentre i suoi
Motorhead (Mikkey Dee e Phil
Campbell) incalzano. Il paragone con l’Iggy Pop dell’anno
scorso viene naturale: ecco
un’altra icona del rock, dura
a morire, inossidabile nel suo
archetipo. E il sig. Ian Kilmister risulta credibile nell’essere adorabilmente macchiettistico, come quando confessa
che questo è il primo concerto
che suona da quando ha compiuto 60 anni, o quando introduce cavalli di battaglia come
O v e r T h e To p , o q u a n d o p r e senta brani dall’ultimo Inferno
(2004) chiedendo al pubblico
se ci sia qualcuno che abbia
comprato il disco... In chiusura di set, prima un bluesaccio
acustico,
poi
l’immancabile
Ace Of Spades. Tutto prevedi-
Karen O (Yeah Yeah Yeahs)
bilissimo, ma come poteva essere altrimenti? Pubblico soddisfatto e divertito, ecco quel
che conta.
Intanto sull’altro palco ha da
poco cominciato Why?, che
si presenta accompagnato da
d u e m u s i c i s t i e c l e t t i c i . Yo n i
Wolf tiene il palco molto bene,
riesce a coinvolgere gli spettatori nelle sue storie senza
risultare inopportuno, la sua
miscela di hip hop, indie ed
elettronica è davvero niente
male, e i brani da Elephant
Eyelash on stage, densi di vibrazioni Radiohead, convincono ancora di più: promosso.
Poco dopo si torna indietro al
main stage per la pura curiosità di vedere in azione uno
dei gruppi più chiacchierati,
i Babyshambles dell’illustre
d r u g k i d P e t e D o h e r t y. E s i b i zione che conferma tutte le
voci sul personaggio, nonché
i peggiori cliché sulle rockstar
maledette:
inevitabili
pose
a parte, l’impressione è che
questi ragazzi, pur dignitosi
su disco, vivano un po’ troppo
alla lettera l’avventura dello
s t a r d o m . L’ e s i b i z i o n e è i n d e gna sia da parte di Doherty
(praticamente afono, e quando
suona la chitarra è anche peggio) che del resto della band:
si inizia con un paio di brani
dei Libertines, si termina con
l a h i t F u c k F o r e v e r, i n m e z z o ,
il nulla, tra evidenti problemi
tecnici (un guasto alla seconda chitarra che nessuno risolverà) e incapacità di gestire
la situazione. Un disastro, a
esser buoni…
Arriviamo così all’ultimo concerto di questa prima giornat a , i r i t r o v a t i Y o L a Te n g o , c h e
svolgono in modo eccellente il
ruolo di headliner della serata, spaziando con efficacia da
vecchi successi a brani nuovi dell’album atteso per metà
settembre. Ecco che alle note
Little Eyes, Stockolm Sindrom e e To m C o u r t n e a y s i a l t e r nano, in una grande varietà di
stili, cavalcate kraut in odore
di Neu!, violenze chitarristic h e S o n i c Yo u t h / N e i l Yo u n g
(il cui minutaggio spesso varca i dieci minuti), passando
per pop song pianistiche, e
u n p a i o d i b a l l a t e Ve l v e t U n derground. Ispirati, compatti,
coinvolgenti, sanguigni: grande band (ma questo si sapeva già) e grande concerto,
nonché ottima speranza per il
nuovo disco.
Ve n e r d ì 2 G i u g n o
Oggi è il debutto del palco
principale
del
festival,
l’Estrella Damm, un compito
a f f i d a t o a g l i Ye a h Ye a h Ye a h s
di Karen O. Avvolta in un vestitino dai colori sgargianti,
in puro punk-geisha style, la
frontwoman salta, ancheggia,
urla e si dimena per un’oretta
buona, l’impatto anche visivo è
innegabile, eccezion fatta per
qualche brano (sia l’ultima hit
Gold Lion che i pezzi wave più
feroci del primo album) che a
lungo andare fanno prendere
alla noia il sopravvento.
Sul palco più indie poco dopo
ecco ritroviamo il “solito” Jens
Lekman. Stavolta il Jonathan
Richman svedese si è portato
dietro una band tutta al femminile, sei donzelle poco più
sentireascoltare 97
che adolescenti divise tra tastiera, basso, batteria e una
sezione fiati di tromba, trombone e sax. Il repertorio viene
riarrangiato sulla falsa riga di
big band di pop orchestrale
anni 50-60: ecco una rilettura
c a r a i b i c a d i H a p p y B i r t h d a y,
Dear Friend Lisa.., o una vers i o n e q u a s i s o u l d i D o Yo u R e member The Riots, frammiste
al solito pezzo in solitaria con
l’ukulele e un paio di brani
nuovi, uno con Isaac Hayes a
fare da padrino e l’altro somigliante al classico r’n’b Heatwave. Carino.
Sul palco principale si stanno esibendo i redivivi Killing
Joke. Lo spettacolo è senza
dubbio efficace, anche se la
storica band pare aver aggiornato il suono dell’industrial
rock metal ai canoni del nu
metal, ma la scelta in questo
contesto appare quasi un’evoluzione naturale. Colpisce la
teatralità di Jaz Coleman in
comunicazione con il pubblico,
sorta di Alice Coper + Ian Curtis, un perfetto istrione, uno
spettacolo nello spettacolo
È la volta di Isobel Campbell.
La signorina ha indubbio carattere, è evidente anche sul
palco lo sforzo di costruirsi
un’identità artistica rispettabile all’insegna del country folk
d’autore, ma alla lunga il suo
set lascia più perplessità che
altro. Anche se si è porta dietro una leggenda indie scozzes e c o m e l ’ e x Va s e l i n e E u g e n e
K e l l y, l a s c e l t a d i u s a r l o c o m e
“rimpiazzo” di Lanegan per i
brani di Ballad Of The Broken
Seas non convince affatto (e
il loro estemporaneo duetto su
Time Wastin’ di Johnny Cash
e June Carter fa più che altro
sorridere). Da questo punto
di vista, la chiusura concerto
con Son Of A Gun è però un
momento da incorniciare.
Mentre Isobel imbraccia il suo
violoncello, al Rockdelux è il
t u r n o d i R i c h a r d H a w l e y. L o
show è brillante, in bilico tra
gli amati fifties del norvegese
Sondre Lerche (adorabile presenza dello scorso anno) e il
c r o o n i n g d i S c o t t Wa l k e r, p a s sando per la lezione di Neil
Hannon, ovvero Divine Comedy (anche lui grande star dell’edizione del 2004), e naturalmente per le maniere dei
Pulp. Eppure, a differenza di
tutti loro, il cantautore si ritaglia uno spazio più rock, convincendo i presenti con una
scaletta tra il mid e l’uptempo, con qualche momento dai
sapori gilmouriani.
Lemmy (Motorhead)
Si aprono, oggi, anche le porte dell’Auditori, ovvero il futuristico teatro al chiuso che
ospita parte dei concerti. Tra
gli appuntamenti, che hanno
penalizzato non poco gli show
pomeridiani di Final Fantasy
e José Gonzales, troviamo
in serata il set semi acustico dell’ex leader dei Tindersticks, Stuart A. Staples. Sul
palco sono in cinque (i sodali
N e i l F r a s e r e D a v i d B o u l t e r, e
i n u o v i c o m p a g n i Ya n n Ti e r s e n
e Te r r y E d w a r d s ) a r i c o p r i r e
quasi per intero le scalette
dei due recenti album solisti,
e il risultato live non è che
la naturale prosecuzione del
mood del gruppo. I presenti,
accorsi numerosi, s’aspettano
una gran performance vocale
e sotto questo aspetto Staples
non
tradisce:
timbricamen-
98 sentireascoltare
Shellac
te ineccepibile, sospeso tra i
consueti umori romantico-melanconici e un compiacimento
da chansonnier noir consumato , il crooner canta con tono
limpido e sinuoso, romantico
e adulto i brani di Lucky Dog
Recordings 03-04 e Leaving
Songs, risultando a tratti persino
trascinante,
concitato,
cosa che nelle registrazioni
accade veramente di rado. Il
pubblico (anche il più esigente) applaude.
L’ a v v i c e n d a r s i
dei
concerti
è serratissimo, e in contemporanea sul main stage è finalmente il turno dei redivivi,
e molto attesi, Dinosaur Jr .
La scelta di munirsi di tappi per le orecchie risulta più
che saggia, visto lo spietato
assalto di decibel. Il concerto
si regge tutto sulla dinamica
antagonista tra J. Mascis e
Lou Barlow: tanto pacioso (ma
comunque leader) il primo,
tanto infuocato e bellicoso il
secondo, che ha spesso dominato la scena massacrando il
basso e urlando al microfono.
Il live, breve ma tiratissimo,
si è alimentato della tensione
tra i due, mentre Murph si è
rivelato batterista stratosferico, con una scaletta parecchio hard (una grande Kracked, un’infuocata Little Fury
Things) salvo concessioni nel
finale alle “hit” Just like Heaven e la sempreverde Freakscene. Poco dopo riusciamo,
anche se di sfuggita, a seguire il live delle Sleater Kinney:
l’impressione è quella di una
band che gira meravigliosamente, con il drumming di Janet Weiss sugli scudi. Resta
poco tempo per quello che
si rivelerà l’act più atteso e
celebrato di tutto il festival,
quello dei Flaming Lips.
Uno spettacolo stupefacente,
un carnevale in piena regola,
con tanto di coriandoli, stelle filanti e palloncini lanciati
al pubblico da un entusiasta
Wayne Coyne, immerso in una
scenografia coloratissima e
attorniato da ballerini, ai lati
del palco, vestiti da alieni e
da babbi natale (un circo che
include anche Captain America
e Wonder Woman). In mezzo a
tanti effetti speciali, il leader
è come un bambino nel suo
parco giochi preferito: indossa mani giganti per Free Rad i c a l s , f a c a n t a r e Yo s h i m i … a
una bambola con le sembianze
di una suora, si trastulla con
una telecamerina posta all’altezza del microfono, collegata
ad un maxischermo alle sue
spalle, gioca con il pubblico
per tutto il concerto, mostrandosi sinceramente stupito dall’accoglienza
calorosissima
degli spagnoli e facendo - secondo prassi collaudata - loro
intonare i finali delle canzoni,
ripresi ad hoc dal piano...
Insomma, non troppo diverso
da quello che sono stati gli
s h o w d e g l i u l t i m i t o u r, m a a s sistere di persona è un’esperienza lisergica e avvincente,
che pesca nel passato recente
( R a c e F o r T h e P r i z e , D o Yo u
R e a l i z e ? e l e u l t i m e Ye a h Ye a h
S o n g , Ve i n O f S t a r s e T h e
W. A . N . D . ) , p i a z z a n d o i n c o d a
perfino una cover dei Black
Sabbath, ovviamente dedicata
a Bush. Peccato per la man-
sentireascoltare 99
Sleater Kinney al Rockdelux Stage
cata inclusione di Bohemian
R h a p s o d y. Vo t i i n e v i t a b i l m e n te alti a fine concerto, con la
certezza che i prossimi show
italiani di Ferrara e Roma potranno essere anche meglio.
È ormai notte fonda, ma c’è
ancora tempo per Animal Collective e Robocop Kraus. Questi ultimi, che chiudono gli
spettacoli nello stand Rockdelux, sono una formazione di
Norimberga poco famosa in
Italia (qualcuno li avrà visti
protagonisti di un videoclip
d a l a t e n i g h t s u M t v, i n c u i i l
cantante imita smaccatamente
Ian Curtis, sia nelle movenze
che negli sguardi alla telecamera), che il pubblico del festival invece dimostra di conoscere e apprezzare. Il sound
- manco a dirlo - è post-punk
e wave, ma dal vivo il gruppo
assume anche i connotati di
una rock’n’roll band, sulla falsariga degli Hives (senza però
possederne la concisione e il
glamour). Da questo gioco al
rimpallo non poteva che venir
fuori una tracklist derivativa
e neppure parca di momenti
100 sentireascoltare
trash, che ha visto protagonisti il paffuto chitarrista e
l’ossuto cantante, animali da
palcoscenico sì, ma nel senso
più stretto del termine.
E a proposito di Animali, il set
di Panda Bear e soci risulta
snervante e un po’ fiacco nella prima parte, in cui dominano momenti free basati essenzialmente sulle percussioni:
un sabba in cui i ragazzi si
scatenano, suscitando in un
primo momento tiepide reazioni nel pubblico. La destrutturazione lascia poi il posto alla
costruzione della forma canzone e quando parte il canto,
l’audience è più partecipe.
L’ i m p r e s s i o n e è q u i n d i m i g l i o re e si comprendono maggiormente i meccanismi di composizione. Il giudizio resta in
sospeso, ma il finale, con la
improvvisazione di I Just Call e d . . d i S t e v i e Wo n d e r, è d a
incorniciare.
Sabato 3 Giugno
Forti dell’esperienza dell’anno
scorso, siamo un po’ preoccupati per i concerti che si ter-
ranno oggi all’Auditori, ovvero
il futuristico teatro al chiuso
che ospita parte dei concerti.
E invece nessun problema per
assistere allo show pomerid i a n o d i Va s h t i B u n y a n , c h e s i
concede per breve tempo, ma
sufficiente per farsi un’idea.
La signora inglese è come ci
si aspetta: timidissima e apparentemente
fragile,
non
certo avvezza al mestiere che
ha ripreso a fare, la cui sola
sicurezza è quella voce, sottile sottile come le sue canzoni.
Nonostante l’impaccio, il concerto si snoda bene, merito
non solo dei brani in sé (innegabile la loro caratura, quasi
sempre buona malgrado l’inevitabile monotonia: metà sono
dediche ai figli, l’altra metà
sono storie di 40 anni fa finite
male), ma anche dei musicisti
che la accompagnano (piano,
violoncello, violino e chitarra,
per arrangiamenti in stile Joe
Boyd).
Intanto al Danzka Cd Drome è
cominciato il live degli Akron
/ F a m i l y, b a n d s u c u i ( c o m e
Wayne Coyne (Flaming Lips)
per NNCK) si è già quasi detto
tutto. Basti sapere che anche
in un contesto più dispersivo, come quello di un festival,
sono riusciti a coinvolgere
i presenti, rimasti estasiati,
convincendo laddove gli Animal Collective ci avevano invece lasciati perplessi. I protetti di Gira sono sicuramente
più “musicisti” e possono contare su un’alchimia invidiabile,
sapendo
esattamente
come, dove e quando dosare
l’improvvisazione ai momenti
più suonati e quelli, irresistibili, “corali” (highlight assoluto la versione di Future Myth).
Un’altra band che su palco ha
più che soddisfatto.
All’Auditori è il turno degli
Shellac. Steve Albini, il produttore più famoso dell’indie
rock, veste nuovamente i panni di leader del power trio (ins i e m e a i f i d i c o m p a g n i To d d
Trainer e Bob Weston) più matematico e rabbioso che conosciamo, invitando il pubblico
a fare domande tra un brano e
l’altro. Dietro quest’operazione, in realtà, c’è tutto il cini-
smo di Albini: fare una pantomima con l’audience a mo’ di
comizio, il corrispettivo fintamente dialettico di suono che
non ammette repliche tanto è
compatto, ringhioso e incorruttibile. Per intenderci, gli
Shellac sono degli anti-Dinosaur Jr: mentre i secondi sono
caotici e in continuo dialogo/
s c o n t r o t r a M a s c i s e B a r l o w,
rabbia scazzona e amicizia,
qui la disciplina, l’ordine e la
gerarchia dominano sovrane.
E se tanta determinazione alla
fine mostra un po’ il fianco, la
perizia del suono vince e la
bilancia pende in netto favore
degli Shellac, che attendiamo
con fiducia su disco per l’autunno.
Nel frattempo, sul palco principale si esibiscono i redivivi
B i g S t a r. L’ e ff e t t o n o s t a l g i a è
dietro l’angolo, ma Alex Chilton e i suoi nuovi compagni
(della
formazione
originale
c’è solo Jody Stephens, mentre il resto del lavoro è fatto dagli ex Posies Jon Auer
e Ken Stringfellow) schivano
l’ostacolo e imbastiscono un
set di soft rock più che dignitoso, alternandosi al canto e
presentando, oltre agli storici (una sempiterna Feel, The
Ballad Of El Goodo e Thirteen
dal primo disco, poi Back Of A
Car), qualche brano del recente In Space. Nessuna grande
pretesa, solo oneste canzoni
di classic rock, per nulla invecchiato male. In più Chilton, che somiglia a una versione pulita di Keith Richards,
pare divertirsi come non mai..
cosa chiedergli di più?
Dopo aver appreso che il live
d e i Te l e v i s i o n P e r s o n a l i t i e s è
saltato (per il secondo anno
di fila…), al main stage ci attende uno degli show più attesi dal pubblico del festival,
quello di Lou Reed. Se da un
lato c’è conferma di quanto
espresso nel recente tour invernale, dall’altro non mancano alcune - piacevolissime
- sorprese. Un Reed divertito
ed estremamente a suo agio
usa le canzoni come improvvisazoi aperte, per dare spa-
sentireascoltare 101
zio ai suoi rodati musicisti (in
special modo il bassista Fernando Saunders e il batterista
To n y T h u n d e r S m i t h ) , i n s e r e n dosi qua e là con la sua solista, come sempre caciarona
e dissonante, e un ragazzetto occhialuto a processare il
suono in diretta. La scaletta
riserva le sorprese maggiori,
con delle inaspettate zampat e a n o m e Ve l v e t U n d e r g r o u n d
(I’m Waiting For The Man, White Light White Heat e Jesus)
e un must come Coney Island
Baby arrangiata nel continuum
Songs For Drella / Berlin.
Lou, inoltre, risparmia anche
le notoriamente svogliate versioni di classiconi tipo Sweet
Jane, roba che è meglio non
sentire. Pubblico ampiamente
ripagato, e non poteva essere
altrimenti.
Stuart Braithwaite (Mogwai)
A seguire i Deerhoof in scaletta, sul palco del Danzka, ci
sono i Brian Jonestown Massacre, sestetto (ma la storia
del combo è assai travagliata in quanto a presenze) sanfranciscoano, che della città
mantiene intatti tutti i colori:
102 sentireascoltare
acidi e psichedelici, con quel
gusto rétro Sixties tra Grateful Dead e Rolling Stones. Eppure l’approccio è rock e se
volete il canto - confidente e
emotivo - richiama gli Ottanta nasali di certo Mark Hollis.
Stiamo sognando? Forse, ma
sicuramente c’è una buona
dose di folk lunatico e storto
qui, e quelle code rincorse in
groppa alle chitarre selvagge
portano dalle parti dei Bardo
Pond, alla psichedelia dunque, grande protagonista del
festival. Persi nel loro mistico
fluire, i Brian Jonestown Massacre sono un branco di hippy genuini e strampalati, una
band solida, da riscoprire,
confermati da un pubblico numeroso e catturato quasi allo
stesso modo che per i deragli
p s y c h - n o i s e d e g l i Y o L a Te n go. Long live to Frisko!
Quasi mezzanotte: è il turno
dei Violent Femmes sul palco
principale. I tre si confermano
anzitutto dei grandi intrattenitori, e più che da Gordon Gano
(un po’ defilato, ma comunque
presente quando serve), la
maggior parte della scena è
dominata dall’ineffabile Victor
De Lorenzo e dal pirotecnico
Brian Ritchie. i Femmes non
si risparmiano di certo, snocciolando quasi tutti gli episodi dell’esordio (una Blister
In The Sun giocata subito in
apertura e una strepitosa Kiss
Off in chiusura, con in mezzo Gone Daddy Gone, Please
Do Not Go, Add It Up) e altri più “rumorosi”, come American Music, aiutati da alcuni
turnisti ai fiati, alle tastiere,
al banjo e alla chitarra (laddove richiesto). C’è perfino
un momento in cui l’ensemble
si trasforma in un’orchestrina
bluegrass, con la sorella di
De Lorenzo, Silvia, a impersonare la Emmylou Harris di
turno...insomma, una grande
festa come per i Flaming Lips.
A dir poco entusiasmante.
A questo punto potremmo ritenerci sazi, ma al Rockdeluxe
stage c’è il tempo di gustare
gli Stereolab. Laetitia Saeder
sul palco è una presenza deliziosa ed elegante, e la sua
band riesce a ricreare alla
perfezione le sofisticate trame dei dischi, senza far perdere un grammo della catchyness dei brani, per la maggior
parte recenti, a sottolineare
l’apparentemente eterno stato di grazia della band inglese. Maniera? Sì, ma anche
classe infinita. Il concerto di
chiusura del main stage (e,
virtualmente, del festival) è
affidato ai Mogwai, che dal
vivo continuano ad essere
un act efficace, specialmente se aiutati da una location
e da un’acustica favorevoli. Si possono così percepire
appieno le sfumature, i vuoti, i pieni, i crescendo di cui
si compone il suono, il tutto
amplificato da un light show
davvero suggestivo. Loro non
rinunciano a sfoggiare la solita indole cazzona, portandosi
a casa un risultato notevole,
in un contesto che valorizza,
o l t r e a g l i s t o r i c i ( s u t u t t i Ye s
I Am A Long Way From Home
Boredoms
e Mogwai Fear Satan, nonché
Summer), anche lo stallo dei
brani più recenti. E a giudicare dalla risposta del pubblico,
è lecito pensare che tra altri
dieci anni li avremo ancora tra
i piedi, i Mogwai...
Ma non è finita qui: a notte
inoltrata il Danza ospita una
band attesa ansiosamente dagli ascoltatori più stravaganti
e sperimentali. Caratterizzate
dalla commistione tra noise,
istanze psichedeliche e avant,
le composizioni dei Boredoms
trovano in questo set una mirabile sintesi sotto la ritual i t à e p e r c u s s i v i t à d e l Ta i k o
(recentemente riscoperto anche dai Liars), una tradizione
trasposta in una jam ipnotica,
estenuante, con tre batterie
disposte a Y e un organista
sciamannato dietro le quint e ( . . . o v v i a m e n t e Ya m a t s u k a
Eye), che esce dalla console,
tra un fraseggio circolare e
un’acida improvvisazione, per
declamare in lingua originale
quelle che sembrano frasi da
mercato del pesce in movenze
a n t i Ta i - C h i .
C’è posto pure per una svirgolata in techno-samba a metà
d e l s e t ( Yo s h i m i P - W E s i s t a c ca dalla batteria per impugnare un sequencer con una base
sincopata e degli effetti), ma
poi si ritorna nella giungla
percussiva. Insomma, ora più
che mai diventa una sfida: fermarsi per sentire, per vedere
cosa accadrà dopo quella fitta coltre di battiti, quasi tutti
studiati. E quella fine sembra
non arrivare mai e noi, stacanovisti più di loro, a rimaner
lì inchiodati, impassibili nel
farci massacrare le orecchie
da un’esperienza che si trasforma in un autentico sballo
nippo-lisergico. Non c’è che
dire, i giapponesi sono maestri di rigore e autolesionismo
e meglio non avrebbero potuto
dimostrarlo.
La bella voce del disco si trasforma in un’oca strozzata (o
in una gatta in calore, a voi
la scelta) e le sue movenze
non sono proprio da libellula. Fortunatamente, la musica è quella che si sente sul
buon album dei due: i groove
coinvolgono, il pubblico balla
e se alle cinque del mattino
nessuno capisce molto cosa ci
sia dei Kraftwerk nella techno dell’orchestra delle bollicine, è giusto così. The infinite
beat is going on... and on..
and on...
Ultimo passaggio obbligato,
solo perchè in direzione dell’uscita, allo stand dove si
stanno esibendo Ellen Allien e
Apparat. La Allien si cimenta
al canto e dal vivo è pietosa.
sentireascoltare 103
dal vivo
Angelica 2006
Ritorna Angelica. Il festival internazionale di musica d’avanguardia e d’improvvisazione riprende il suo corso, ma con un volto nuovo: non più un festival concluso in sé, ma una sigla che lascia aperte nuove prospettive, non limitata nel tempo e pronta ad accogliere in qualsiasi momento i “suggerimenti”
e le suggestioni del mondo musicale La sedicesima edizione non è stata delle
migliori, ma è bastato il signor Anthony Braxton a infiammare l’atmosfera.
Momento Maggio
Angelica ricomincia da sedici
di Daniele Follero
Angelica ricomincia da sedici.
Erano tante le attese riguardo a uno dei festival di musica improvvisata più importanti
d’Italia. Il punto interrogativo con cui si era conclusa la
scorsa edizione aveva lasciato tutti un po’ con il fiato sospeso. I problemi economici
(ribaditi ed evidenziati, peraltro, anche quest’anno) uniti
a un crescente disinteresse
delle istituzioni per iniziative
culturali “di nicchia” (che proprio per questo non riescono
ad uscire da un ambito molto
ristretto) avevano fatto pensare al peggio.
E invece Angelica è tornata.
Per restare. Abbandonata nella sostanza la struttura di festival come evento circoscritto, la sigla comparirà a più
riprese nel corso dell’anno,
attraverso una varietà di iniziative più o meno ampie, sul
modello delle giornate in passato dedicate ad artisti come
Heiner Goebbels e Karlheinz
Stockhausen. In questo modo,
come sottolinea il direttore artistico Massimo Simonini, “le
possibilità espressive di una
104 sentireascoltare
realtà come Angelica si estendono, nel tempo, considerando quello che ci viene ‘offerto’
momento per momento”.
Una fase di transizione, di
trasformazione, in cui il classico appuntamento di maggio
non scompare, ma diviene il
fulcro, il perno di un’attività
più vasta.
Anche quest’anno, la collabor a z i o n e d e l Te a t r o C o m u n a le di Modena ha confermato
la grande apertura dell’ente
lirico modenese nei riguardi
delle musiche contemporanee,
trascinato dal “coraggio” del
direttore artistico Aldo Sisillo,
impegnato da anni nel compito di “svecchiare” il pubblico
d e i Te a t r i d ’ O p e r a . P r o p r i o S i sillo ha aperto, nei panni di
musicista, la sedicesima edizione del festival (ma Simonini preferisce parlare di anni,
più che di edizioni), quest’anno intitolata Momento Maggio, dirigendo un’ opera inedita del giovane compositore
statunitense Eyvind Kang. Il
Comunale era pieno, ma per
un evidente motivo: una delle
due voci soliste era Mike Pat-
t o n . L’ e x F a i t h N o M o r e , s e m pre più poliedrico e disperatamente in cerca di conferme
per candidarsi ufficialmente
ad essere il successore spirituale di Demetrio Stratos, ha
creato delle attese che però
non si sono risolte in niente di
particolarmente entusiasmante. Cantus Circaeus, scritta per coro, ottoni, chitarra
e due voci soliste su testi di
Giordano Bruno, John Scotus
Erigena, Marbodo di Rennes e
Pietro D’Abano, è un’opera un
po’ deboluccia. Non bastano
le belle parti corali à la Ligeti
e le “plastiche” interpretazioni dei testi di Patton e Jessica
Kenney ad evitare la piattezza
dell’insieme. Troppi applausi.
Dopo la “trasferta” a Modena,
Angelica è ritornata a giocare
i n c a s a l ’ 11 M a g g i o . M a n e a n che l’esordio tra le mura amic h e d e l Te a t r o S a n L e o n a r d o ,
ormai sede stabile del festival
da anni, è esaltante.
Michel Doneda e Fabrizio “Abi”
Rota basano tutta la loro improvvisazione sul soffio. Il sax
di Doneda dialoga con i suoni
campionati, che spesso sono
Anthony Braxton
i suoi stessi soffi. La tecnica
di emissione del sassofonista
francese, che evita accuratamente di emettere suoni pieni,
limitandosi a soffi, soffocati
ancor prima di diventare vibrazioni sonore, è d’impatto,
l’idea di fondo è bella, ma che
fatica l’ascolto!
Diverso il discorso per il progetto Camera Lirica di Domenico Caliri, già noto al pubblico di Angelica per altri suoi
progetti, tra cui lo Specchio
Ensemble.
In
questo
caso
l’ampia formazione orchestrale messa in campo contrasta
con
la
monotonia
timbrica
dell’esecuzione precedente. I
musicisti (tutti, o quasi, giovani strumentisti bolognesi)
suonano con generosità, ma
le composizioni di Caliri, rivisitate per l’occasione e dirette da lui stesso, solo qualche
volta forniscono spunti interessanti, e quasi sempre nei
momenti dedicati all’improvvisazione.
Inutile negare che a rappresentare la punta di diamante
di questa edizione di Angelica
è stato il signor Anthony Braxton, sia nelle premesse che
nel risultato. E’ stato lui a ridare vita alla grande improvvisazione dopo la delusione
dell’anno scorso con il “siparietto” di Archie Shepp.
Braxton
è
semplicemente
unico. Unico nello stile, dalle infinite dinamiche e dall’esaltante espressività; unico
nella creatività, sempre pronto a superarsi e a competere
con la sua stessa musica. Non
capita tutti i giorni di trovarsi di fronte un musicista così
“aperto”, dalle imprevedibili
soluzioni.
Il sassofonista statunitense è
arrivato a Bologna per duettare con un suo vecchio amic o , R i c h a r d Te i t e l b a u m , c o n o sciuto soprattutto per la sua
partecipazione
al
collettivo
d’avanguardia Musica Elettronica Viva (Alvin Curran, Friederic Rzewski). Dopo gli esperimenti di un tour assieme nel
1970 e altre collaborazioni
seguenti, jazz e avanguardia
elettronica si sono uniti ancora una volta per dare vita ad
una performance sensazional e : Te i t e l b a u m c o n s i n t e t i z z a tore e campionatore a fare da
sfondo ai monologhi di un Braxton in ottima forma. Una musica che naviga tra fluidità e
increspature, che gioca con le
sfumature, soprattutto quando
il tastierista campionandone
i suoni mette il sassofono di
ma l’estrosità dei due musicisti. In questi casi viene da
dire: “Grazie di cuore”!
Angelica continua, io mi fermo qui. Il mancato dono dell’ubiquità non mi ha permesso
di assistere né al trio Brötzmann (altro grande e storico
j a z z i s t a ) - P l i a k a s - We r t m ü l l e r,
né al classico workshop angelichiano, questa volta affidato a Lawrence “Butch” Morris,
da anni impegnato nelle sue
Conduction,
orchestrazioni
fronte alla sua stessa musica,
dopo averla soltanto accompagnata. Braxton contro Braxton: una sfida imperdibile, un
faccia a faccia con se stesso,
un continuo rispondere alle
proprie
provocazioni.
L’ i n tensità che i due riescono a
mantenere per più di un’ora di
concerto è incredibile e lascia
col fiato sospeso quando l’ultimo suono si spegne e i due
abbandonano il palco accompagnati da un vero e proprio
“boato” del pubblico. C’è ancora spazio per un divertente
quanto breve bis, che confer-
che utilizzano un particolare
“vocabolario” fatto di gesti e
segni del tutto originali e condivisi con i musicisti. Un’operazione, per intenderci, simile
a quella del Cobra Ensemble
di John Zorn, che aprì la scorsa edizione del festival.
Dunque, anche quest’anno la
bell’Angelica ha vinto la sua
sfida, difficile e provocatoria,
di far emergere dal loro piccolo mondo musiche che hanno
tanto da dire e che avrebbero
bisogno di più spazi per farlo.
Una sfida che continua, più
viva che mai.
sentireascoltare 105
dal vivo
Mudhoney - Circolo Degli Artisti, Roma (20 maggio 2006)
Si ha la sensazione di fare un
viaggio nel tempo, la sera del
c o n c e r t o d e i M u d h o n e y. U n
viaggio a ritroso di soli quindici anni, ma sembra già un
secolo: era il tempo di Seattle
“capitale” del grunge, il tempo
di band che ripescavano vecchi suoni per trarne linfa vitale, era il tempo dei Nirvana,
d e i M e l v i n s e d e i M u d h o n e y,
per citare solo alcuni dei più
rappresentativi.
I Mudhoney sono sempre stati
il gruppo più incline al garage
e al rock’n’roll, con frequenti sbandate nella psichedelia
e nel rock acido dei ’60, eppure riescono ancora oggi a
suonare freschi e monumentali, neanche fossero i primi
a costruirsi una poetica sulla distorsione. Il concerto è
una sorta di greatest hits, con
tutti i brani giusti al momento giusto: si apre con Suck
Yo u D r y, t a n t o p e r c h i a r i r e l e
idee, si spara qualche cartuccia dall’ultimo – prescindibile
– Under A Billion Suns (Where
Is The Future, un pezzo dedicato a Bush), qualche puntata
anche per il precedente Since We’ve Become Translucent,
come Where The Flavor Is e
Sonic Infusion, private dei
fiati e degli altri effetti che
negli ultimi due dischi hanno
variegato il sound granitico
della band.
In breve, è una versione rozza
dei Mudhoney quella sul palco,
la più vicina alle loro origini
probabilmente. All’appello non
mancano gli anthem che hanno
f a t t o s t o r i a , d a To u c h M e I ’ m
Sick a Here Comes Sickness,
106 sentireascoltare
dalla semi-ballad If I Think a
S w e e t Yo u n g T h i n g A i n ’ t S w e e t
No More, un’orgia di riff iperdistorti della premiata ditta
A r m / Tu r n e r, c o n l ’ i n c o n f o n d i bile voce del primo che si staglia sopra il caos. Il pubblico,
accorso in massa, gradisce e
poga forsennatamente, è stata
davvero la serata giusta per
sfoggiare camicie di flanella e capelli lunghi (per chi se
li può permettere). Un’ora e
mezza in marcia verso ilfuzz,
come titola un’ottima compilation del quartetto: ad una tum u l t u o s a I n t o Yo u r S h t i k e a d
una furente Hate The Police
l’onere di chiudere.
Italo Rizzo
Kronos Quartet – Auditorium
Parco della Musica, Roma (26
maggio 2006)
Più che dei musicisti, i quattro membri del Kronos Quartet danno l’impressione di essere degli artigiani. Dal loro
approccio alla musica trapela
una sapienza ed una maestria
che trascende la mera padronanza tecnica dello strumento.
La loro esperienza pluritrentennale si fa sentire tutta, e
altrettanto evidenti sono i trascorsi nei generi musicali più
disparati e le collaborazioni
con artisti di tutto il mondo.
La scaletta infatti vede affiancati indifferentemente artisti
americani, indiani, nord-europei, tutti accomunati però
da una concezione altra della musica. E proprio in una
dimensione altra il pubblico
verrà trasportato dal quartetto
che, tra affiatate prove d’insieme e virtuosismi solisti al
limite dell’onomatopea, produrrà ogni genere di suono e
d’atmosfera.
Paradossalmente queste enormi potenzialità espressive, di
c u i n e b e n e f i c i a n o Va s k s c o n
una commovente esecuzione
del suo Quartetto n.5 e i Sigur
Ros (Flugufrelsarinn) scongelati da un insolito arrangiamento esotico, non riescono
pienamente a decollare nei
brani in cui delle basi elettroniche o archi preregistrati
vengono aggiunti per completare il sound del gruppo. Ad
esempio la suite dalla colonna sonora di Requiem For A
Dream non risulta convincente e coinvolgente come nella versione originale, per via
della poca compattezza e delle ritmiche elettroniche povere della giusta grinta.
Anche le versioni di Xploding
Plastix (The Order Of Thing s ) e Te r r y R i l e y ( V e n u s U p stream) sembrano un po’ stanche, mentre come apice della
serata si staglia nettamente
Narayan
dell’indiano
Raga
Mishra Bhairavi. In questo
pezzo i due violinisti passano
a strumenti tradizionali indiani, creando un drone su cui la
viola emergerà con un assolo
intensissimo, che fa rimanere
a bocca aperta il pubblico per
le sfumature quasi vocali che
riesce a produrre.
Forse il punto debole del concerto è la scaletta presentata
secondo un criterio “classico”,
ovvero come una semplice raccolta di diversi pezzi separati
(quasi cozzano ad esempio le
parafrasi dei lieder di Mahler
e i vari riarrangiamenti di pezzi elettronici), e non come un
insieme unitario pensato per
coinvolgere e guidare lo spet-
tatore dall’inizio alla fine. Tuttavia, grazie a questa libertà
d’azione, il Kronos Quartet ha
lasciato il palco con un’incendiaria riproposizione dell’inno americano nella versione
woodstockiana di Jimi Hendrix
che ha lasciato sbigottito il
pubblico, travolto da un vortice noise creato completamente in acustico!
Petit Orb - Teatro Juvarra,
Torino (11 maggio 2006)
Nell’ambito della manifestazione Musica 90, approdano
a To r i n o g l i O r b v e r s i o n e p o c ket.
Niente di meglio per la chiusura dell’attività live dello
s t o r i c o Te a t r o J u v a r r a ; l ’ u n i c a
incognita è se Paterson e Fehlmann opteranno per un’esibizione ambientale e visionaria
o preferiranno far muovere il
pubblico con un set più danzereccio pescando dall’ultimo
Okie Dokie.
La partenza è altalenante:
si fatica a capire che direzione prenderanno tra beat
sincopati squarciati da droni
space-tronici e imbarazzanti divertissement (tra cui una
tremenda Barbie Girl). In più
manca totalmente il supporto video. e il palco illuminato
con due signori di mezza età
che scherzano e ancheggiano
a r m e g g i a n d o c o n m i x e r, p i a t t i
e laptop non è il massimo del
trip.
Ma i Nostri non ci mettono tanto a scaldare la platea, pezzi
come Captain Korma e Cool
Harbour
sono
decisamente
coinvolgenti e si inizia a vedere gente dimenarsi sulla sedia, quindi alzarsi e andare a
ballare nei corridoi laterali.
E’ un processo lento e inesorabile, che svuota la platea
e riempie i corridoi e infine
straborda sotto il palco.
La presa della Bastilia da parte dei disco dancers ristabilisce l’equilibrio, il pubblico
balla e si diverte, senza più
guardare gli artisti che ripren-
Baustelle
Andrea Monaco
dono il ruolo di invisibili dj.
Si
va
ancora
avanti
con
l’astronave Orb che lambisce
le spiagge di Goa, incrocia il
dirigibile kraut, oltrepassa le
dell’ascoltatore. Una disamina seria di questo percorso richiederebbe pagine e pagine,
ma il concerto in questione ne
è un’ottima rappresentanza,
To w e r s O f D u b e s f r e c c i a v e r so la galassia Delta MK II in
un viaggio spazio-temporale
che unisce trance e industrial,
musica etnica e avanguardia,
psichedelia e techno.
In campo elettronico il pubblico, per sua natura giovane
e alla ricerca continua dell’hype, spesso trascura il passato. Un fenomeno che genera fraintendimenti su quello
che appare come innovazione
mentre spesso non è che semplice revival.
Un’esibizione come quella degli Orb, pur non proponendo
niente di rivoluzionario, non
può che essere salutare, soprattutto per chi ai tempi di
U . F. O r b n e a n c h e a v e v a i l p e r messo per mettere piede in un
d a n c e - f l o o r.
come un ideale punto d’arrivo
(momentaneo, per lo meno).
Nello spazio solista Fripp ha
mostrato com’è riuscito a trasformare
completamente
il
suo strumento: le soundscapes, naturale evoluzione delle
frippertronics di Eno, ridefiniscono la chitarra come generatore di suoni, capace di riprodurre il timbro di qualsiasi
strumento (archi e campanellini tra i tanti che è possibile
ascoltare); inoltre i vari filtri
a p p l i c a t i , c o m e e c h o e d e l a y,
non lasciano trasparire il suono nudo e puro delle corde
neanche le poche volte che fa
capolino nell’esecuzione. Il
risultato finale è quello di un
vero e proprio oceano di suono, le cui onde, seguendo un
ritmo respiratorio, si ritirano
e s’infrangono dal musicista
agli spettatori.
Oltre al suono in sé, Fripp ha
anche rivoluzionato l’approccio prettamente tecnico, partendo sin dalla postura e dal
plettraggio. Con la sua scuola fondata nel 1985, il Guitar
Craft, ha voluto condividere
queste sue conoscenze.
La League Of Crafty Guitarists è un ensemble acustico,
con cambiamenti continui di
Paolo Grava
Robert Fripp & The League Of
Crafty Guitarists (Roma, Auditorium Parco della Musica,
20 giugno 2006)
Recensire un concerto di Robert Fripp è riduttivo ed incompleto per antonomasia: questo
singolo evento costituisce pur
sempre una tappa della sua
lunga carriera, in cui ha stravolto l’approccio alla musica
sia da parte del musicista che
sentireascoltare 107
formazione, composto da suoi
allievi. Già dall’entrata s’intuisce un atteggiamento non
comune: con un semicerchio
passano attorno al maestro,
raggiungendo poi le postazioni seguendo una curva interna
che richiama la linea che divid e l o y i n d a l l o y a n g n e l Ta o .
E’ subito evidente che, aldilà
di una mera difficoltà tecnica, è soprattutto il mantenere
una precisa sincronizzazione
che richiede la massima concentrazione dei musicisti. La
forza d’insieme risalta soprattutto nelle circulations, in cui
ognuno esegue una nota, seguito dal chitarrista accanto e
così via, creando degli arpeggi che sembrano suonati da
una singola persona. Da notare anche il modo in cui si muovono, simulando quasi un passaggio effettivo della nota da
un manico all’altro, creando
un curioso effetto “onda”. La
maggioranza delle composizioni presenta caratteristiche
crimsoniane, infatti in alcuni
pezzi è possibile avvertire decisi richiami proprio a sezioni di brani dei King Crimson,
che vengono sviluppate diversamente ed ampliate (inoltre
nel bis viene eseguita Vroom/
Coda: Marine 475 da Thrak),
ma non mancano divertenti
escursioni nel folk, blues e
rock’n’roll.
Anche il pubblico è diverso in
questo tipo di concerti: tutt’altro che nostalgico, ha accolto con ovazioni le musiche
proposte, applaudendo meritatamente tutti i musicisti e
non solo il maestro-feticcio.
D’altronde l’ambient mistico
proposto è un marchio di fabbrica di Fripp dagli anni ’70, e
la League fa concerti dall’86,
ma il Re Cremisi è riuscito ad
ogni modo a stupire, dimostrando ancora una volta che
la definizione di “dinosaur”
della musica non gli appartiene.
Andrea Monaco
108 sentireascoltare
dEUS – Roma, Villa Ada (15
luglio 2006)
La considerazione che sorge a
fine serata è quanto siano rari
eventi come questo. Quante poche volte, purtroppo, si
trova un gruppo sul palco capace di coinvolgere davvero il
pubblico dall’inizio alla fine,
dosando brani tiratissimi, che
sembrano trasmettere la stessa energia elettrica che fa vivere gli strumenti, e dolci ballate, in cui pure è impossibile
rimanere fermi, traditi da ritmiche subdole che catturano
gli arti anche nei momenti più
calmi. Inoltre, quanto poco
spesso è coinvolgente visivamente un concerto, senza
l’ausilio di spettacolari supporti scenici, e che non sfoci
in un mero esibizionismo.
Una delle caratteristiche che
rende unici i dEUS è un curioso senso della teatralità,
forse più evidente e marcato
nei primi tre dischi, in cui si
aveva a che fare quasi con
u n t e a t r o d e l l ’ a s s u r d o . E To m
Barman è sicuramente il personaggio ideale per rappresentare in scena l’opera del
gruppo belga, un cantastorie
che non si può fare a meno
di tenere d’occhio con sguardo incantato sia quando sussurra ballate come Serpentine, sia quando si scatena coi
suoi compagni in furiosi muri
di suono sonicyouthiani. Questo protagonista trova spalla
eccellente nell’imperturbabile
Klaas Janzoons, che potrebbe quasi sembrare parte della scenografia, se ogni tanto
non raggiungesse i compagni
al centro del palco straziando il violino con i suoi assoli,
oppure suonandolo a tracolla
come una qualsiasi chitarra
elettrica.
E dunque proprio questo fattore teatrale, che contrassegna
tipicamente il gruppo belga,
trova immediatamente sfogo
nell’apertura con la tomwaitsiana Theme From Turnpike,
le cui basi pre-registrate accompagnano i musicisti in pal-
co, che poi sviluppano in crescendo il brano culminando
in un’esplosione, azzeccato
assaggio di quello che hanno
preparato per mandare il pubblico a casa ben sazio.
La scelta dei brani è impeccabile, con pochissimi momenti
deboli,
ampiamente
compensati dalle altre eccellenti interpretazioni. Stupisce
il modo di accostare brani antitetici, senza che l’equilibrio
complessivo venga meno: con
nonchalance,
infatti,
viene
affiancato il punk-funk schiz o i d e d i F e l l O ff T h e F l o o r,
Man a una versione straniante
e d i l a t a t a d i W. C . S . ( F i r s t
Draft), oppure il caos ordinato
di Suds & Soda (penalizzata
da un intermezzo strumentale
più calmo e meno massiccio,
che ha smorzato l’impatto del
muro di suono originario) accoppiato con la bossa elettrica di Nothing Really Ends.
Ancora a favore dei dEUS si
può citare la padronanza tecnica, che permette di dare il
giusto risalto alle melodie e
di lanciarsi in sfuriate noise mai gratuite. Per non parlare poi dell’interplay tra le
tre voci, che sanno alternarsi
con precisione cronometrica o
darsi sostegno l’un l’altra nei
cori. Un concerto perfetto in
cui anche ai brani del debole
Pocket Revolution viene data
una dignità pari a quella dei
dischi precedenti, creando un
amalgama unico e vivo, come
un cocktail da assaporare in
u n b a r, s o t t o i l m a r e . . .
Andrea Monaco
we are demo
a cura di Stefano Solventi e Fabrizio Zampighi
Side A
Electro Plastic Box, ovvero
giochicchiare col beat senza
fare elettronica, flirtare col
groove senza fare hip hop,
dare libero sfogo al synth
senza
apparire
pretenziosi,
con l’idea fissa di rendere il
tutto gradevole già a un primo
ascolto grazie ad un approccio
minimale che farebbe la felicità di titolari di produzioni ben
più quotate.
Il motore del combo si riscalda sui campionamenti di Intro
T V . R a d i o . Te l e c o m m u n i c a t i o n
per poi aumentare i giri sulle
tessiture alla Kraftwerk di B.
O. H., cedere al fascino delle
scapicollo ritmico in Hate / Dj,
indagare
liquide
profondità
sintetiche in E’àùòì o incorrere nelle lascivie degli eighties
più tradizionali mescolate a
immaginari didgeridoo sintetici nell’inno Uk.
Tracce ben organizzate quelle
del gruppo, talvolta dall’aspetto terribilmente estemporaneo
– se non addirittura improvvisato – tuttavia coinvolgenti e
soprattutto abili nel portare a
termine la missione assegnata
loro, ovvero far muovere la testa al ritmo e divertire senza
troppe pretese. (6.9/10)
Treviso – USA e ritorno per
i Metropolis, che a dispetto
del nome fanno musica che
poco ha a che vedere con le
atmosfere oniriche e teatrali
del film di Fritz Lang. Si tratta infatti di una proposta che
si regge su trame strumentali robuste, chitarre distorte
innamorate dei suoni grevi,
wah-wah che intercettano linee di basso pulsanti, capace
di aggredire gli spazi senza
stancare, dimostrarsi lercia e
selvaggia senza apparire ridicola.
Te r m i n i d i p a r a g o n e p e r i l
guazzabuglio deflagrante e il
cantato mono-tono del grup-
pieno dal conturbante e aggraziato incedere del cantato
di Elisa Castelli, talvolta classica chanteuse alle prese con
testi-fiume – Nel momento -,
in altre occasioni più vicina a
modelli musicali noti ma poco
convenzionali come Antonella Ruggiero o Carmen Consoli
po, quegli Stooges di Iggy
“l’iguana”, chiamati in causa
in più di un’occasione dalle
strutture piuttosto elementari
ed energiche dei brani – Drippingred -, certo funk folgorante in levare da dance floor
– Frommyheadtomyfeet -, progressioni che non sarebbero dispiaciute a band come i
Black Rebel Motorcycle Club –
Dangerousgroud – e in generale un’attitudine che richiama in ugual misura l’hard dei
primi Settanta e rock-blues
dall’accento sudista.
Il potere del riff in primo piano, verrebbe da dire, qui macinato a dovere da una band
che dimostra di cavarsela alla
grande, anche quando calca la
mano – come nel caso di Timedown – su dissonanze conturbanti e oscillazioni dai sapori
lisergici. (7.4/10)
(Ninnananna). Sempre e comunque buoni i risultati complessivi della band, che con i
cinque brani contenuti in questo demo pone solidi radici in
un vissuto fatto di emozioni,
esperienza diretta e senza
vincoli, ricavandone melodie
aggraziate dall’appeal immediato. (6.7/10)
Un fluttuare di voce femminile posato su linee melodiche
articolate, testi ragionati, arrangiamenti scarni ma curati in ogni dettaglio, virtuosi
chiaroscuri fatti di deviazioni laterali e misurati apporti
strumentali di chitarra acustica, batteria e poco altro.
Folk obliquo ma gradevole
quello di Palconudo, reso ap-
Fabrizio Zampighi
Side B
I Crabway sono in quattro,
stanno insieme dal ‘95 e si rifanno ad un’idea di rock principalmente eighties, con tutto
quel compenetrare elettrico e
sintetico, spigoli e vaporosità,
romanticheria algida e minaccia sofisticata. Un po’ Japan,
un po’ Propaganda, un pizzico di residua furia progressiv a Ye s : v e d i a t a l p r o p o s i t o i l
funkettino algido di Weekend
Lover ed il piglio affilato di
Sweet Crystal, l’emblematica coppia che apre questo
My Time. Più avanti i Nostri
non mancano di bazzicare vibrazioni psichedeliche, pantomime folkloristiche e scorribande teatrali. La voce di
Silvia mantiene il calore entro i ranghi di un flemmatico
struggimento, molto poseur se
vogliamo e quindi ben accor-
sentireascoltare 109
data alle linee guida del progetto. Un progetto che non sa
scrollarsi di dosso l’aria dilettantesca, che traballa quando
più osa (le strane alchimie digitali nel funk di My Time, le
aperture errebì in Control) ma
che comunque e vivaddio osa,
lasciando così intuire poten-
sioni orizzontali, l’electro e il
rock collassano nel transito
delle sensazioni. Fai fatica a
d i s c e r n e r e f r a m m e n t i Va n g e l i s
o Massive Attack, Radiohead
o Vincent Gallo, Bjork o Giardini Di Mirò, Juliette Lewis
o Beth Gibbons... Sai che ci
sono perché sta scritto negli
di hip-hop sfibrato che va a
rifugiarsi tra ruvide vibrazioni
f u n k ( A g a i n ) . Va n n o p o i m e s s e
nel conto una bossa capace di
t r a v e s t i r s i p o p - p r o g ( Vo r r e i ) e
quella specie d’intruglio lo-fi
con additivo soul-psych e sfuriate Manuel Agnelli (Il dialogo), la quale sigillerebbe il
zialità che qualche occhiuto
produttore potrebbe mettere
meglio a fuoco. Ideale chios a è l a c o v e r d i P s y c h o K i l l e r,
dove
l’insidia
nevrastenica
dell’ineffabile Byrne procede
a passo d’uomo tra chitarrine
volatili, organi e synth per una
stilizzazione
deliziosamente
affettata. (6.3/10)
“ingredienti”. La frammentarietà mimetizza l’origine, disorienta e incanta, crea l’artefatto nuovo. Il risultato è
forse un po’ troppo distaccato
e progettuale, si sente un bisogno quasi fisico di qualche
grado centigrado in più. Ma la
fusione, si sa, può accadere
anche fredda. Bravi (7.0/10)
Dietro
l’egida
Pinkie
&
S.A.D.E. si nasconde il sodalizio tra Andrea e Marco, all e s t i t o i n q u e l d i Ve n e z i a n e l
2004 per cospirare suoni elettroacustici che non disdegnino
impronte rock. In occasione
del progetto Untitled però decidono di non suonare alcunché e darsi al campionamento
integrale. Messi da parte basso, tastiere e glockenspiel,
realizzano un collage di trenta
minuti coi tagli, ritagli e frattaglie del repertorio pop-rock
più o meno recente. Tre tracce
da dieci minuti esatti ciascuna, per le quali non c’è neanche bisogno d’inventare titoli.
Minimal trip-hop, drum’n’bass
e guizzi post-soul, riff alieni
e vocalizzi sottomarini, pulsazioni pressurizzate e loop
attoniti, chitarra jazz blues e
vetrosa iridescenza.
Mentre ascolti accadono esplo-
E veniamo ai Sofia da Ancona.
Anzi no, quello è il nome che
sta scritto sul cd. Nel frattempo sono tornati all’antica rag i o n e s o c i a l e S i s t e r D e w.
Il
nome non è poi così importante, d’accordo. La musica viene prima. Ma un nome è anche
e soprattutto identità, quindi
attenti a non trascurare certi
s e g n a l i . P o i m e t t i L’ i n t a n g i b i le voglia nello stereo e smetti
di pensare a tutte queste bischerate: sei tracce più una,
cantautorato e pop, post punk
accartocciato soul, la franchezza indolenzita dei testi
cantata con malferma intensità Greg Dulli (Dedica), quel
disincanto indossato come una
maschera a stemperare un languido malanimo Perturbazione
(Scivola). E poi improvvise
palpitazioni pop-prog a squarciare un ironico rovello Marlene Kuntz (Ieri). Ed un senso
programma se non fosse per
una ghost track che fa salire
su un palco immaginario gli
Afghan Whigs e i CSI. Ricapitoliamo: sono quattro ragazzi,
maneggiano chitarre, tastiere,
basso e batteria. Il cantante e
leader canta come scrive, con
un nodo tra stomaco, cuore e
cervello che ogni tanto fa le
capriole. Stanno organizzando
un suono non banale attorno
ad una sensibilità acuta, sanguigna, impudente. Si chiamano, almeno per ora, come una
c a n z o n e d e i d E U S . Te n e t e l i a
mente. (7.2/10)
11 0 s e n t i r e a s c o l t a r e
classic
Devo
Evoluzione e de-evoluzione di una tra le band più importanti degli
ultimi venticinque anni, dalle parole del suo fondatore Gerald
Casale.
Canzoni di protesta degli uomini
post-moderni
di Filippo Bordignon
Devo è, senz’ombra di dubbio,
un universo parallelo. Sulle
pagine di My-space centinaia
e centinaia di loro adepti si
fanno ritrarre con addosso i
celebri Energy Dome, copricapi portati in auge dal video del
mega singolo Whip It (recita il
testo “Non è troppo tardi / Per
frustarla a dovere”). Oltre alle
classiche spillette, magliette
e cappellini Devopropone la
maschera del bimbo de-evolut o B o o j i B o y, i l p u p a z z o c o n
le teste intercambiabili della
prima storica formazione, insieme a parrucche plastificate, picture discs a forma di
astronauta e chissà quali altri
feticci dispersi nei labirinti di
E b a y. M a i s i e r a v i s t o u n t a l e
spiegamento di merchandising
per un gruppo di musica alternativa. Ma furono i Devo un
gruppo di musica alternativa?
Seminale di sicuro, vista l’infinita schiera di cloni e brutte
copie che l’ascolto dei loro album riesce ancora a generare.
Dall’esordio coi due singoli poi
raccolti nell’Ep Be Stiff (Stiff
Records, 1977) fino alla con-
clusione della loro epopea con
le fiacche uscite dei lavori di
fine anni ’80 Devo ha mantenuto intatta l’irriverenza della
propria visione artistica e una
sprezzante acrimonia verso la
mordacchia che il sistema discografico troppo spesso impone ai veri artisti.
Il gruppo venne fondato col
nome Sextet Devo (altri se
li ricordano come Devolution
Band) nel 1973 da Gerald
Casale (classe ’48) e Mark
Mothersbaugh (’50), compagni
di università alla Kent State
University (indirizzo artistico sperimentale) annoiati dal
grigiume di Akron, città industriale nello stato dell’Ohio. I
due (rispettivamente basso e
tastiera, oltre che voce) accorciarono presto nome e organico, escludendo il cantante Fred Weber e confermando
i fratelli di Mark Jim e Bob
alla batteria e alla chitarra
solista, e il fratello di Gerald
Bob alla chitarra ritmica. Questa la formazione di partenza,
tutto in famiglia. Il concetto
supportato
con
inattaccabi-
le convinzione dal gruppo è
che l’uomo, dopo un periodo evolutivo durato milioni di
anni sia destinato (causa una
stupidità di fondo acquisita
via civilizzazione e mutazioni genetiche) a de-evolversi
in una razza capace soltanto di regredire, fino alla sua
completa estinzione. Il manifesto
della
de-evoluzione
è riassunto nel sito ufficiale
della band in cinque punti:
1) Sii come chi ti ha preceduto o
sii diverso. Non ha importanza
2) Scegli di produrre un milione
di uova o di farne schiudere uno
3 ) Ve s t i c o l o r i s g a r g i a n t i o e v i t a
di esporti. Non ha importanza
4) Saranno i più idonei a
sopravvivere
ma
c’è
posto
anche
per
gli
altri
5)
Dobbiamo
ripeterci
Pur non contenendo l’arguta
analisi sociale di uno Zappa
(periodo
Tinseltown
Rebellion), il Devo-pensiero, con
le sue semplificazioni e i suoi
slogan per canzoni da tre minuti e mezzo si rivelerà parte
integrante della buona riuscita
d e l p r o g e t t o . Te r m i n a t o i l p e -
s e n t i r e a s c o l t a r e 111
riodo di formazione, all’indomani della pubblicazione dell’EP Be Stiff, Jim è sostituito
con Alan Myers. Da subito le
velleità intellettuali dell’ensemble vennero riversate senza alcuna continenza all’interno di spettacoli di chiara
impronta dadaista, nei quali
i Nostri proponevano un rock
destrutturato e condito con
gli interventi dissonanti della tastiera di Mark. Spettacoli
terminati in piccole sommosse popolari, coi nostri vestiti
in completini sportivi succinti
e maschere di plastica, erano
all’ordine del giorno. Il cortometraggio In The Beginning
Was The End: The Truth About
De-Evolution, realizzato con il
regista e compagno di università Chuck Statler nel ’76, finì
per entusiasmare a tal punto
David Bowie che questi pensò
di formalizzare una proposta
discografica. La spuntò invece Brian Eno il quale, innamoratosi del loro sound durante
u n a d a t a a l M a x ’ s K a n s a s C i t y,
li invitò in Germania per registrare un LP con il guru degli
11 2 s e n t i r e a s c o l t a r e
studi di registrazione Konrad
‘Conny’ Plank (attivo in precedenza per conto di Kraftwerk,
A s h R a Te m p e l , N e u ! e n e l l a
trilogia berlinese del già citato ‘duca bianco’)
In quattro settimane il masterpiece Q: Are We Not Men? A:
We Are Devo! (Warner Bros.,
’78) era bello che terminato.
Album su cui si è detto, scritto e pontificato fino alla noia,
Are We Not Men resta ancor
oggi tra i capolavori seminali della new wave per eccell e n z a . L’ a d r e n a l i n a a r t i f i c i a l e
della (già) post-punk Uncontrollable Urge funge da perfetto apripista per album e concerti. Praying Hands e Space
Junk giocano col pop minimalista che sarà la fortuna dei
Ta l k i n g H e a d s p e r i o d o E n o .
Mongoloid (gemma made in
Casale) è un anthem per pogo
robotico e Shrivel-Up vanta dissonanze in comune coi
Pere Ubu (freschi pure loro
di primo album, l’epocale The
M o d e r n D a n c e ) . L’ u n i c o p e z zo non appartenente ai nostri
(Satisfaction
degli
Stones)
sottolinea una volta per tutte la differenza tra ‘cover ’ e
‘remake’ (buona la seconda).
con la stessa forza dirompente e decostruttiva dimostrata
in tutt’altro ambito anni prima
dalla versione hendrixiana di
A l l A l o n g T h e Wa t c h t o w e r. È
cosa buona e giusta ricordare
che furono i Residents i primi a demolire il classico degli
Stones (il 7’’ è del ’76) sfregiandolo a suon di demenze
abrasive e conferendogli una
preziosa oscurità che nessun
altro riuscì a replicare.
A questo punto la vicenda si fa
frenetica. I concerti s’ispessiscono di trovate, provocazioni, luci pianificate dalla mente
artistica della coppia Casale /
Mothersbaugh. Citazioni al futurismo e all’espressionismo
tedesco si mischiano felicemente con un viscerale amore
per il kitch e i nostri s’ingegnano a progettare personaggi, terminologie (il ballo del
‘Poot’ citato nella stupenda
Jocko Homo è pura invenzione… qualcuno però sostiene
sia illustrato dalle mosse de-
menti dello scienziato pazzo
nel corto In The Beginning…)
e un’iconografia che attraverso costumi, gadget e art-work
d’ogni sorta contribuirà ad
alimentare la fama del gruppo. Si prenda la front cover
dell’album d’esordio: trattasi della travagliatissima elaborazione di un’immagine di
Chi Chi Rodriguez -decorato
golfista portoricano- mista ad
estratti dalle facce dei presid e n t i K e n n e d y, J o h n s o n , N i x o n
e Ford. Puro spirito dada. Il
risultato è storia.
I Devo poseranno con caschetti alla Beatles, maschere
da alieni, seni finti, calze in
testa, tute da operai, uniform i d a c o w b o y d e l Te r z o R e i ch. Segmenti video verranno
proiettati durante i concerti su schermi di 7m x 5 (assieme ai Rez, furono pionieri
nell’utilizzo di sfondi animati
realizzati con il computer).
Cavalcando l’onda dell’interesse di critica e della propria
ispirazione, l’anno seguente è
il turno di Duty Now For The
Future (Warner Bros., 1979)
con il rock indiavolato e l’elettronica schizofrenica del medl e y S m a r t P a t r o l l / M r. D N A e
l’angoscia post-industriale di
Triumph Of The Will. Da segnalare in questo periodo la
collaborazione di alcuni membri della band al sottovalutato
album d’esordio dell’ex cantante degli Stranglers, Hugh
Corwell, Nosferatu.
Freedom Of Choice (Warner
Bros., ’80) raccoglie grande
consenso di pubblico (grazie
al singolo Whip It), ma porge
il fianco alle accuse di commercializzazione. Il rock’n’roll
di Girl U Want e il facile synth-pop di Gates Of Steel non
serbano la metà del fascino
obliquo del repertorio precedente. Roba buona per i prossimi ascoltatori degli Human
League di Dare. Spaventati
dalla candidatura a presidente
degli Stati Uniti dell’ex-attore
Ronald Reagan, Devo muta in
Dove, parodia di una pop band
revaivalista e, di poliestere
vestiti, realizzano tre concerti
spiazzando fans e critica. Sul
campo della discografia ufficiale invece, poco o nulla aggiunge il live Dev-O (Warner
Bros, ’81) che, privato del forte impatto visivo della band,
scorre senza infamia ripercorrendo le tappe più attuali e tralasciando i primi pezzi storici.
N e l l ’ 8 1 N e i l Yo u n g , s f e g a t a t o
estimatore dei Nostri, li contatta per la realizzazione del
controverso
lungometraggio
Human Highway (memorabile
la versione di Hey Hey My My
cantata da Booji Boy dentro
al suo lettino d’infante). Nella pellicola i Devo faranno la
parte del leone, interpretando
gli addetti alle scorie radioattive di una centrale nucleare,
mentre alla spassosa Worried
Man verrà attribuita la responsabilità di concludere il film
dove l’intero cast (pure Dennis Hopper) si produce in un
balletto allucinato.
Con New Traditionalists (Warner Bros., ‘81) Devo accentua i toni di denuncia sociale
in pezzi come Through Being
Cool, nel quale si tenta lo
smantellamento della famiglia
americana media, ma la musica è ormai appianata su di
un pop elettronico buono per
gli ultimi guizzi da classifica.
Love Without Anger prende di
mira l’amore idealizzato dalla
fede cristiana, e in Beautiful
World (“È un mondo meraviglioso per te/ Non per me”) il
tono leggero della melodia nasconde ai più il cinismo sempre meno velato del gruppo. Il
processo sembra ormai irreversibile in Oh No! It’s Devo
(Warner Bros., ’82) e Shout
(Warner Bros., ’84); il primo
gigioneggia
sardonicamente
con il singolo Peek-A-Boo!, il
secondo fallisce nel tentativo
di replicare i fasti del passato
c o n A r e Yo u E x p e r i e n c e d ? d i
Jimi Hendrix (il video, censurato come tanti altri prodotti
Devo, mostra un sosia del celebre chitarrista uscire dalla
bara durante un concerto della band).
Sconfortati da una situazione che non sembra prospettare alcun miglioramento e dal
declino culturale dell’America
reaganiana, i Devo annuncian o i l r i t i r o d a l l e s c e n e . Ve r rà comunque pubblicata l’interessante raccolta di vecchi
pezzi ri-arrangiati E-Z Listening Disc (Rykodisc, ’87) oggi
purtroppo fuori catalogo.
Gerald di per contro si rivela
capace regista pubblicitario
(pure per la warholiana Cam-
s e n t i r e a s c o l t a r e 113
pbell’s Soup) e videomaker
(suoi i primi due video dei
C a r s , P a n o r a m a e To u c h A n d
Go), attivo fino ad oggi per
g r u p p i c o m e R u s h , S i l v e r c h a i r,
Soundgarden e Foo Fighters.
Mark invece fonda la Mutato
Music, compagnia responsabile di jingle pubblicitari, colonne sonore per videogames,
cd-rom e film (sue le musiche
di Le avventure acquatiche
di Steve Zissou e del cartone
animato Rugrats). E pazienza
se i Devo finiscono per comparire pure nei credits musicali di pellicole tipo le Superchicche -il film-: in fondo
l’ironia è un talento fatto per
spiazzare.
Inaspettatamente, nell’88 si tenta la spallata
m a To t a l D e v o ( E n i g m a ) e i l
funky demenziale del singolo
Disco Boy non risollevano la
situazione. Ben gradita invece l’uscita del live Now It Can
B e To l d ( E n i g m a , ’ 8 8 ) s e n o n
altro per la rivisitazione country del classico Jocko Homo.
La seconda chance da studio
fornita dalla Enigma vedrà la
luce nel ’90; Smooth Noodle
Maps, ad oggi, è l’ultimo album dei Nostri, ormai incapaci
di sorprendere o di acquisire
nuovo pubblico.
Ottimo materiale è disponibile
inoltre nelle raccolte di inediti
Hardcore Devo vol. 1 e 2 contenenti materiale del periodo
74-77; il resto, raccolte e raccoltine, ‘essential’ e greatest
hits bene che vada concedono
qualche mezzo inedito o remix
buoni per collezionisti. Piccola gemma da ricercare è invece la resurrezione del primo
gruppo di Mark, i Wipeouters
che,
riformatisi
estemporaneamente dopo più di venticinque anni, per la prima volta
affrontano la prova da studio:
P ’ t w a a a n g ! ! ! ( C a s u a l To n a l i ties, 2001) riserverà delle sorprese a più di un ascoltatore
(si tratta di un godibilissimo
surf-rock in chiave modernista). Indispensabile per occhi
ed orecchi il doppio dvd The
Complete Truth About De-Evo-
11 4 s e n t i r e a s c o l t a r e
lution (tutti i video eccezion
f a t t a p e r A r e Yo u E x p e r i e n c e d ?
giudicato irrispettoso) e Devo
Live (magnifica testimonianza di un concerto californiano
d e l ’ 9 6 ) . Te s t i m o n i a n z e a t t e n dibili danno i Devo in forma
smagliante durante le tournée
celebrative 2005-2006.
Per il momento la notizia di un
nuovo album della band risulta
infondata. Nel 2006 Gerald è
tornato in pista a nome Jihad
Jerry & The Evildoers, proponendo un rock sintetico che nel
video promozionale del singolo Army Girls Gone Wild si fa
beffe dell’attuale conflitto tra
U.S. e Medioriente. Pare invece seriamente avviata l’iniziativa Dev2.O che vede protagonista una band di cinque
ragazzini di età compresa tra
i 10 e i 13 anni alle prese con
alcune delle più celebri canzoni del gruppo. Già disponibili cd e dvd distribuiti dalla
Buena Vista Records (diramaz i o n e d e l l a D i s n e y ) . L’ i n i z i a t i va tenta di avvicinare anche i
più piccoli al songbook della
band di Akron: le riletture ad
opera Devo-seconda-maniera
suonano accattivanti e ideali
per un lungo viaggio in automobile. Niente più.
Difficile se non impossibile
cambiare il menù della casa:
“We must repeat” è forse un
monito a doppio taglio.
Intervista
Gerald, ho sempre pensato
che l’apporto di Eno al vostro
album d’esordio sia stato sovrastimato rispetto alla realtà
effettiva della vicenda. Come
la vedi?
Inizialmente mettemmo Eno a
dura prova poiché tentava di
influenzare il nostro sound.
Anche se era uno dei nostri
eroi ci eravamo forgiati un
estetica
industrial,
brutale
e per niente incline al sentimento. Lui invece voleva imbellettare le canzoni, aggiungere armonizzazioni vocali e
melodie suonate al synth. Nel
mix finale di Conny Plank non
utilizzammo molto di quanto
proposto da Brian. C’è da dire
però che le sue incredibili storie e le sue carte di Strategie
Oblique ci conquistarono al
punto da riuscire a stimolare
al meglio la nostra vena creativa, e questo fece andare a
buon fine le registrazioni.
In questi ultimi vent’ anni
Akron ha subito dei cambiamenti significativi?
Non è più la città avvolta dai
fumi delle fabbriche che in
molti ricordano; è discretamente ‘civilizzata’ e noiosa
come tante altre città. Ora
mancano i presupposti perché
possa generare altri talentiguida.
Un mucchio di gente considera i Devo l’unica cosa buona
uscita da Akron…
Beh, Chrissie Hynde dei Pretenders è un esempio lampante di un altro grande talento
uscito dalla nostra città.
Ci sarà pure una formula per
invertire il processo di de-evoluzione della razza umana…
La de-evoluzione deve compiere per intero il suo corso.
Oggi più che mai è un concetto d’attualità, come puoi vedere dai comportamenti irrazionali e dal fondamentalismo
anti-democratico generati dagli astuti fautori del controllo
globale attraverso i conflitti e
le strategie politiche. Stiamo
mostrando la parte peggiore della natura umana. Ogni
giorno permettiamo che manipolino i nostri cervelli fino
a quando non ci saremo sterminati tutti. Il pianeta tornerebbe ad essere meraviglioso
solo se si estinguesse la nostra razza.
Chi era la mente visiva nei
Devo?
Mark ed io eravamo i visual
artists della situazione. Condividevamo una simile visione
estetica della faccenda e si
collaborava in piena libertà.
Fui io a recuperare i comple-
ti industriali gialli e personalizzarli con il logo dei Devo.
Mark amò quell’idea. Poi disegnai il classico cappello rosso
simil-ziggurat che chiamammo Energy Dome. Dunque io e
Mark disegnammo il completo
argentato da abbinarci. Abbiamo elaborato inoltre la grafica
di tutte le nostre copertine,
d e i p o s t e r, g l i s t o r y b o a r d e l e
trovate visive per i video.
Devo: pionieri del videoclip.
Oggi che la tecnologia ha raggiunto vette insperate, per
qualche ragione, sembra che
la formula del videoclip abbia
smarrito la magia che la contraddistingueva ai suoi esordi. Sottoscrivi?
Come ben sai una delle cinque
regole della de-evoluzione è:
“Dobbiamo ripeterci”. Purtroppo è una condizione sostanziale degli esseri umani. La
coscienza / conoscenza si acquisisce tempestivamente ma
s e n t i r e a s c o l t a r e 11 5
non in forma continuativa: la
realtà è che spesso si scordano gli insegnamenti impartiti.
Nei tardi anni ’70 il videoclip
fornì agli artisti un nuovo mondo entro il quale poter esprimere sé stessi. I Devo, David
B o w i e , i Ta l k i n g H e a d s , P e t e r
Gabriel e altri abbracciarono questo veicolo espressivo
scevri da ogni cinismo dando vita ad opere che avevano qualcosa di importante da
dire. Oggi la gente non ha una
propria visione da condividere con gli altri. I video sono
un prodotto studiato in funzione alle esigenze commerciali
dell’artista.
I vostri idoli musicali?
Amavamo James Brown, gli
Ya r d b i r d s , S p i k e J o n e s , E d g a r Va r è s e , M o r t o n S u b o t nick, il Nairobi Trio ed Elvis
P r e s l e y. M a c i p i a c e v a n o p u r e
quelle sigle terribili di certi
programmi televisivi e i jingle
delle pubblicità. Questi ultimi
influenzarono molto la nostra
propensione creativa per il
gioco, lo scherzo, l’ironia.
Domanda banale: qual è la
canzone che avresti sempre
voluto scrivere?
Ce ne sono anche troppe di
canzoni: 1984 di Bowie, Cars
d i G a r y N u m a n , T h e Te a r s O f
A Clown di Smokey Robinson,
Let’s All Make A Bomb degli
Heaven 17 e tanti altri pezzi
apri-pista.
Il miglior verso di una canzone pop che ti viene in mente?
“Per essere un fuorilegge /
Devi essere onesto”, da Ab-
11 6 s e n t i r e a s c o l t a r e
solutely
Dylan.
Sweet
Marie
di
Bob
Il manifesto dei Devo contiene un preciso messaggio politico?
La politica è presente, nell’universo
Devo.
Siamo
a
questo mondo per soffrire e
m o r i r e ; o g n i l e a d e r, o g n i d e tentore del cosiddetto ‘potere’
dovrebbe adoperarsi con ogni
mezzo per alleviare a quante più persone questa brutta
situazione. Dovrebbe essere
la linea ideologica per eccellenza di ogni fazione politica.
Distogliere la propria attenzione dalle priorità effettive
dovrebbe essere considerata
una grave inadempienza nei
confronti della gente. Tutti
gli attuali leader occidentali
andrebbero
immediatamente
sollevati dal loro incarico. In
questi tempi bui non c’è più
posto per autorità illegittime
che si scontrano con lo spirito
comune del popolo.
Come lo vedi il mondo dell’Arte con le sue gallerie, i suoi
ampollosi vernissage?
Non è poi tanto diverso da
quello della moda, dell’arredamento ecc… Il 99 percento
di ciò che viene definita ‘arte’
è stantio, ‘leccato’ e francamente assai brutto.
Ormai
dare
ad
un
musicista
dell’intellettuale è diventata
un’offesa bella e buona, come
lo spieghi?
I responsabili delle etichette
discografiche
usano
questo
termine in senso dispregiativo. I musicisti che ho sempre
amato, di per contro, erano
tutti ‘intellettuali’: esistono
diversi tipi di approcci mentali, si va da Captain Beefheart
a Prince, passando attraverso tutti coloro che stanno tra
questi due opposti.
L’ e s p l i c i t o r i f e r i m e n t o a C h u c k
Berry in Come Back Jonee dovrebbe suonare come un tributo o uno sberleffo?
Come nella migliore tradizione Devo c’è un po’ di entrambi. La vedo come una sorta di
tributo obliquo ed, essendo il
chiaro esempio di un approccio post-moderno, esprime naturalmente una sensibilità assai contorta.
Nei Devo ci sono ruoli ben definiti o vige una certa libertà
compositiva?
Salvo qualche eccezione, io
e Mark scriviamo musiche e
testi. Ma non esistono regole fisse ed ognuno è libero di
contribuire come meglio crede.
Finora è funzionato così. Comunque è il contributo di ogni
singolo membro della band a
trasformare una successione
di idee e abbozzi in una canzone vera e propria.
Un traguardo artistico che ti
secca non aver raggiunto?
M’infastidisce
pensare
che
non siamo ancora stati nominati per la Rock’n’Roll Hall Of
Fame.
Mi chiedo quali sono i film che
prediligi?
Mi piacciono i classici noir
come
Piombo
Rovente
(di
Alexander
Mackendrick
con
To n y C u r t i s e B u r t L a n c a s t e r ) ,
Un volto nella folla, Fronte
del porto (Elia Kazan) e Criss
Cross Robert Siodmak). E pure
la scena neo-noir del Martin
S c o r s e s e d i To r o S c a t e n a t o ,
Re Per Una Notte, Quei Bravi Ragazzi, Casinò. Ma il mio
f i l m p r e f e r i t o è L u n g o L a Va l l e
D e l l e B a m b o l e d i R u s s M e y e r.
Anche il vostro secondo album
è un classico dalla prima all’ultima canzone…
Le canzoni dei primi due album le avevamo già scritte
ed eseguite dal vivo più volte
prima dell’incontro con Eno.
Decidemmo che solo una parte sarebbe finita sul nostro album d’esordio. Nel 1979, col
produttore Ken Scott, ri-registrammo a Los Angeles alcuni
dei brani rimanenti che finirono per costituire Duty Now For
The Future.
Ci sarà pure qualche uscita di
cui non vai orgoglioso.
Ero molto insoddisfatto dell’album Shout!. Sentivo che
non corrispondeva particolarmente all’innata irriverenza
dei Devo. Mi pareva che Mark
avesse attribuito troppo importanza al Fairlight Synthesizer scordando di lavorare a
quattro mani con me nel tentativo di conferire a quello strumento il giusto peso.
C’è qualcosa che proprio non
fa decollare l’album Smooth
Noodle Maps…
Onestamente penso che sia
un prodotto sonoro di scarsa
ispirazione. Le canzoni avrebbero dovuto essere valorizzate da un arrangiatore esperto
e invece ci ostinammo a volerle produrre e mixare per conto
nostro.
Simeon Coxe dei Silver Apples
sostiene che stiamo vivendo
una nuova rivoluzione della
musica elettronica. Confermi?
Credo che da un certo punto
di vista abbia ragione. Scrivere e mixare musica in maniera
efficiente dal pc è una realtà
effettiva degli ultimi 7-8 anni.
Realtà che, tra l’altro, continua a progredire e affinarsi di
giorno in giorno. Considero i
Chemical Brothers i pionieri
di questa nuova forma di elettronica.
Dopo aver assistito ad una vostra recente performance live
mi sono reso conto che attribuite alla libertà esecutiva
più importanza di quanto mi
aspettassi.
Il nostro processo creativo si
fondava
sugli
insegnamenti
derivati dall’arte delle performance e sull’improvvisazione
musicale.
Estrapolavamo
le
risultanti
elaborando
organizzazioni musicali ben definite. Poi eseguivamo il brano
dal vivo asciugandolo di ogni
sovrappiù in funzione di altre
bizzarrie.
Manuel Göttsching trova più
semplice
sperimentare
attraverso l’elettronica. Ma se
ascoltiamo certi album dei
Pere Ubu è indubbio sia possibile creare nuove strutture
anche
attraverso
strumenti
tradizionali. Qual è la differenza sostanziale tra questi
due approcci nell’ambito del
pop di ricerca?
Una strumentazione tradizionale di basso, chitarra e batteria consente un approccio
alla sperimentazione più diretto e interattivo. I computer
e gli effetti digitali sono per
natura maggiormente ‘autocratici’, se vuoi, ma suonano
tediosi quando cerchi di esprimere un’idea musicale.
Siete interessati a quel che la
critica musicale ha da dire sul
vostro conto?
La leggiamo e ce la buttiamo
alle spalle. I Devo possono
certamente dirsi la band più
fraintesa e sottovalutata degli
anni ’80. Solo adesso la critica sta rivalutando con cognizione di causa la validità del
nostro operato.
Ai tempi delle vostre prime
dissacranti esibizioni dal vivo
quali erano le reazioni della
gente?
Come puoi immaginare il pubblico era compatto nel deriderci e in alcuni casi si mostrò duramente ostile. Ma ci
facevamo forza poiché quelle
reazioni sottolineavano la nostra capacità nel saper evocare emozioni contrastanti nella gente. Ricordo una volta,
durante un concerto a Cleveland, in cui un pubblico pret-
s e n t i r e a s c o l t a r e 117
tamente composto da hippie ci
gridò di tutto durante il call
& response di Jocko Homo.
Dovettero intervenire i nostri
roadies per tenerli a bada e
alla fine ci toccò abbandonare
il palco.
Sei ottimista quando si tratta
di analizzare l’attuale scena
pop degli States?
In generale non sono affatto
ottimista se si tratta di musica pop. Anche le migliori band
in circolazione ripropongono
attitudini pescate dagli anni
’70, ’80 e ’90. In questi tempi
reazionari vorrei tanto sentire
qualcosa di rivoluzionario.
Per un musicista è importante ‘farsi le ossa’ con delle cover?
In una parola, no.
Che mi dici della partecipazion e a l f i l m d i N e i l Yo u n g H u m a n
Highway?
Un’esperienza veramente bizzarra, preziosa ed entusiasmante che nessuno si sarebbe mai aspettato andasse in
porto.
Eccezion fatta per Human Hig h w a y, n o n r i c o r d o n e s s u n ’ a l tra collaborazione del gruppo
con altri artisti. Si tratta di
una scelta premeditata?
È andata così, non c’era nessuna premeditazione. Forse
influì il fatto che fossimo unici
e avanti rispetto ai tempi; magari è per questo che la gente non ci ha proposto nessuna
collaborazione
interessante.
Li spaventiamo.
Dei Devo come persone non si
sa praticamente nulla; non ti
chiedo la tua ‘giornata tipo’,
ma di descriverti come meglio
credi.
Le persone creative non conducono necessariamente una
vita privata più interessante
di quelle normali. A me piace
viaggiare, consumare ottime
pietanze, bere vino di qualità e fare un bel po’ di sesso.
118 s e n t i r e a s c o l t a r e
Cerco di portare avanti i miei
affari standomene quanto più
lontano possibile dalle teste
di cazzo. Sono uno chef navigato e un esperto conoscitore
di vini con una vasta collezione di etichette toscane e dell’Oregon. Mi piace mettere a
dura prova il motore della mia
Audi S4 e farmi qualche bella
partita di tennis.
Mi sono sempre chiesto quale
sia l’opinione di un musicista
di ‘sintesi’ come te in merito al sound ultra elaborato di
gruppi tipo King Crimson (nella versione tardo sixties).
Presi a piccole dosi sono ottimi… se ti vuoi fumare una
canna.
Cosa ti fa arrossire?
I complimenti.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Come artista devi relazionarti e vivere con intensità il
tuo presente, senza aspettarti nessuna risposta e senza
chiedere ad alcuno il permesso per agire.
a Raffaella Girardi
classic
Scritti Politti
Da quasi trent ’anni deus ex machina degli Scritti Politti, Green
Gartside ha da poco siglato il suo ritorno sulle scene, “White Bread
Black Beer” (vedi spazio recensioni), all’insegna di una ritrovata
v e n a d a s o n g w r i t e r p o p , n u o v a m e n t e s o t t o l ’ e g i d a d e l l a R o u g h Tr a d e .
Ripercorriamo le tappe della sua storia, dagli esordi - post - punk
m i l i t a n t i a l l e “ S o n g s To R e m e m b e r ” , f i n o a l t u f f o n e l m a i n s t r e a m
degli ’80 con l’approvazione di gente come Robert Wyatt, Miles Davis
e Madonna, fino alle sparizioni/apparizioni degli ultimi anni.
Another GREEN World
di Gianni Avella e Antonio Puglia
Chi ha avuto modo di vedere
la pellicola che omaggia la
scena post-punk di Manches t e r, 2 4 H o u r P a r t y P e o p l e ( d i
Michael Winterbottom, film del
2002 uscito l’anno dopo in Italia), ricorderà la scena dove
dei giovani Sex Pistols suonano, la sera 4 giugno del 1976,
al Lesser Free Trade Hall per
un pubblico che di lì a poco
e invogliato da quello show
(tra i pochi presenti c’erano
To n y W i l s o n , M a r t i n H a n n e t t ,
Howard Devoto di Buzzcocks e
Magazine, i futuri Joy Division
e persino Mick Hucknall dei
prossimi Simply Red) avrebbe
intuito cosa fare delle proprie
vite.
In quella stessa tournee, esattamente il 6 dicembre 1976, la
banda assemblata dal “bottegaio” Malcom McLaren fece
tappa nel nord dell’Inghilterra,
destinazione Leeds. La scena
che si presentò quella sera
fu una fotocopia dei sei mesi
precedenti, ossia un pubblico
(verosimilmente più numeroso
della tappa mancuniana) stregato da quei quattro inetti che
padroni (si fa per dire…) di
un songbook rubato a Chuck
Berry e Stooges, suonavano
terribilmente più eccitanti di
chicchessia accademico progr o c k e r. L a s t o r i a q u i n d i s i r i pete: infatti, dopo quel concerto un giovane lì presente,
Green Gartside, decide che
il momento di mettere su una
band è arrivato.
Green (Paul Strohmeyes all’anagrafe) è di origini gallesi.
Una madre poco incline alle
passioni artistiche del proprio
ragazzo e un padre commesso
viaggiatore lo portano da subito, come reazione, a crearsi un proprio metro quadro ed
avvicinarsi alla musica (il primo disco ascoltato dal nostro
fu Revolver dei Beatles che lo
spinse ad abbonarsi, all’età
di otto anni, al New Musical
Express, mentre il primo concerto assistito fu Rod Stewart
al Reading Festival del 1970)
e poi alla politica, entrando a
far parte del partito comunista
locale (con interessi manifesti
verso le teorie di Marx, Bakunin, Derrida, Deleuze e Lacan)
insieme al suo collega di studi Nial Jinks. Il divorzio dei
genitori lo porta ad assumere il cognome del nuovo compagno della madre, Gartside,
mentre il nome Green se l’affibbia egli medesimo dopo un
viaggio in treno che gli rivela
come tutto fuori dal finestrino
fosse verde (…).
La differenza sostanziale –
forse la più sostanziale – tra
i musicisti punk e quelli di
estrazione post è la costante tendenza agli studi artistici di questi ultimi, tant’è che
Green, in compagnia dell’inseparabile Jinks, si trasferisce
di stanza a Leeds per studiare
nel locale istituto d’arte. Una
sosta di appena quattro anni
che gli permette, tuttavia, di
conoscere il futuro batteri-
s e n t i r e a s c o l t a r e 11 9
s t a To m M o r l e y , i n t r a p r e n d e r e
saltuari lavori (lavorerà anche
in un garage) al fine di acquistare la sua prima chitarra
elettrica nonché assistere a
quel famoso concerto di fine
’76 che pigia il nervo scoperto di Green e dei suoi colleghi, che armati di do it yourself e qualche ascolto velato
– ma non troppo – di Henry
Cow (band che attraversò gli
anni del prog per puro caso…)
e Robert Wyatt
decidono di
dire la loro sotto la sigla The
Against, suonando il primo
gig come supporters ai locali
Sos. Ma proprio mentre Leeds si appresta a divenire la
“città dei Gang Of Four” (altri
marxisti dichiarati), nel 1978
i The Against traghettano via
a Londra e si accasano nel
120 sentireascoltare
colorito quartiere di Camden
To w n i n u n o s q u a t i n C a r o l
Street per ribattezzarsi Scritti Politti, ovvero moniker che
storpia i famosi Scritti Politici
dello scrittore, filosofo e politico Antonio Gramsci.
Skank Bloc Bologna (palesemente ispirata dalle agitazioni politiche italiane del ’77;
quante le assonanze coi Durutti Column…) è la nuova via
del gruppo: cinque tortuosi
minuti di funk pallido distribuiti Rough Trade ma di pertinenza St. Pancras, label fantasma con tanto di packaging
descrivente costi di produzione e dettagli riguardanti la registrazione. Il singolo arriva
alle orecchie di John Peel, che
non esita un attimo a passarlo
in rotazione nel suo influente
show per poi invitarli a registrare la prima delle famigerate session, negli studi della BBC: quattro canzoni che
poco si discostano dal singolo
di debutto e che collocano I
SP al crocevia tra il Canterb u r y s o u n d ( H e n r y C o w, R o bert Wyatt) e nascente avantrock (This Heat e in parte
Pop Group). Ma è la seconda
session – siamo ora nel 1979
– ad esibire i primi cenni del
Gartside che verrà, dacché la
p r e s e n z a d i H e g e m o n y, s e p pur ostica, esibisce una linea
melodica alquanto dissonante
al cospetto delle oblique Messthetics e Opec-Immac che
con Confidence, dal successivo Ep Four A Sides, delineano
uno scenario pop.
Un sentore che si tocca con
mano non appena Gartside,
che intanto è ritornato brevemente nel natio Galles per
curarsi da una forma acuta di
polmonite nonché dallo stress
da concerto, stende le note di
The Sweetest Girl, deliziosa
ballata in levare à la Wyatt
(che qui suona le tastiere) che
non solo apre il nuovo corso
del nostro, ma anche la compilation in combine tra Rough
Trade e New Musical Express
C81 che festeggia i cinque
anni di vita della label.
Ma mentre tutti i debutti eccellenti della new wave sono
stati più che consumati, gli
Scritti Politti continuano a macinare singoli come Faithless,
Asylums in Jerusalem e Jacques Derrida finché, nel 1982,
la Rough Trade dà alle stamp e S o n g s t o R e m e m b e r, t i t o l o
sufficientemente
pleonastico
dal momento che ognuna delle
nove canzoni si ricordano tra
le migliori dell’epoca. Influenzato dal nuovo R&B, soul e proto-dance proveniente da New
Yo r k , i l f u l l l e n g h t è l o s p a r tiacque definitivo tra i Politti
che furono di fine seventies e
quelli che attraverseranno gli
anni ’80: rimane lo spauracchio canterburiano, ma alle
asprezze simil Henry Cow fa
posto definitivamente il verbo
più pop della cittadina anglosassone, ossia Hatfield And
The North, Caravan e ovviamente Robert Wyatt cosi come
si risente il funk, oggi non più
spigoloso anzi filtrato secondo i nuovi modelli dance statunitensi. Inaugura Asylums in
Jerusalem, reggae dolciastro
e meno efficace di Gettin’,
Havin’ And Holdin’,
laddove
il battito in levare nasconde
una sottile patina melanconica. Si scopre, poi, come la
duttilità vocale di Gartside si
espanda sino a lambire inaspettate ascendenze glam al
modo di colui che il glam l’inventò, Marc Bolan, rivelatorie
nel boogie-folkye di Jacques
Derrida (ovvia la dedica per
il teorico della Decostruzio-
ne…) e bluesy di Rock-A-Boy
Blue. Poi il wyattismo puro
della bellissima, con tanto di
vocoder e cori gospel, Faithless che fa da aperitivo per la
su Arif Mardin (già al lavoro
con Chaka Khan e
Aretha
Franklin), uomo che fa intendere come il sound sarà ancor più laccato per le charts.
conosciuta The Sweetest Girl
con una Sex che farà ballare
anche nel terzo millennio.
Ma l’argomento lo riprenderemo più avanti; quello che conta è il successo del disco che
guadagna il sesto posto nella
classifica inglese e il primo
in quella indipendente. Con
Songs to Remember si chiude
però la parentesi indie dei Politti, visto che l’abbandono di
To m M o r l e y c o i n c i d e c o n u n
contratto Virgin che permette
un dispendio economico, viste le casse folte della nuova label, senza freni. La scelta del produttore cade quindi
Non illuda la presenza di Robert Quine alla chitarra e Fred
Maher alla batteria, Cupid &
Psiche (Warner Bros, 1985)
possiede
quella
precisione
di plastica che negli anni ’80
significava
drum-machine:
Maher è plagiato dall’ego di
Gartside che lo costringe l’ex
Massacre (mica uno qualunque..) a sampler pomposi che
all’epoca neanche i Breakfast
Club! Wood Girl (Flesh and
Blood) è un reggae allegrotto
che quasi scimmiotta il lavor o d e i c o e v i U b 4 0 ; S m a l l Ta l k
e Perfect Way sonofiumane di
stacchi ritmici – rigorosamen-
sentireascoltare 121
te generati dall’allora popolare Fairlight Music Computer
poveri di verve e ora anche la voce di Green comincia
fastidiosamente ad assumere
toni artificiali quasi volesse
imitare il Michael Jackson più
romantico (A Little Knowledge,). In definitiva, un disco
che ascoltato oggi non regge il peso degli anni ma che
all’epoca stravinse la sfida
delle vendite, arrivando quinto nella classifica inglese e
cinquantesimo in quella americana. Preceduto da riconoscimenti da parte di Madness
(che nel 1986 coverizzano The
Sweetest Girl, seguiti di qualche mese addirittura da Miles
Davis che risuonerà Perfect
Way per il suo Tutu) il signor
Gartside,
oramai
cittadino
newyorkese, arriva alla soglia
degli eighties per inerzia, inespressivo e partecipe dell’unico tonfo artistico di Madonna,
che nel pessimo Who’s That
Girl pensa bene di affidare al
nostro quattro minuti oltremodo pessimi, quelli di Best
T h i n g E v e r, p e r l a s o u n d t r a c k
omonima alla pellicola. Provision (Warner Bros, 1988)indi
saluta il decennio nel peggiore dei modi, patinando all’eccesso gli arrangiamenti – stavolta in odore di sequencer
– e senza lasciare un ricordo
di canzone che sia una; e se
il meglio proviene dall’ennesimo omaggio al peggio Michael
Jackson (Overnite), neanche
l’onore di disco posto a tastare l’efficienza degli impianti Hi-Fi (si parla del suono e
122 sentireascoltare
non certo del contenuto…) lo
salva da un anonimato preoccupante. Un Dark Side Of The
Moon degli’80, insomma, che
vede tra l’altro uno sfatto (chi
vuole capire capisca…) Miles
Davis ospite in quella Oh Patti
(Don’t Feel Sorry For Loverboy) presente poi nientemeno
c h e a l F e s t i v a l b a r.
Dopo questo tracollo un silenzio di undici anni, un gap attenuato da una collaborazione
con la British Electric Foundation, progetto di Martyn Ware
degli Heaven 17, per l’indovinatissima cover di
I Don’t
K n o w W h y I L o v e Yo u d i S t e v i e
Wonder bissata subito dopo
dalla singolare rivisitazione
di una vecchia b-side dei Beatles, She’s A Woman, che vede
come ospite il rapper Shabba
Ranks: è
l’ ouverture didascalica al nuovo lavoro. Anomie & Bonomie (Virgin, 1999),
disco che riverisce il nuovo
suono nero con credits a firma
Mos Def, Me’Shell Ndegeocello, Wendy Melvoin (già corista con Prince) funziona nello
sdoppiarsi tra hip-hop da stad i o ( T i n s e l t o w n To T h e B o o giedown, Die Alone, Smith ‘n’
Slappy) e ritrovato smalto pop
(First Goodbye è bella come
il sole e la chiusa di Brushed
With Oil, Dusted With Powder
non è da meno). Certo, il disco è alquanto incerto (fa uno
strano effetto il Gardside che
si incrocia col parlato di Mos
Def…) ma la vena ritrovata
(specie in episodi esenti di
rhyming hip-hop) lascia ben
sperare.
Poi il nuovo millennio del ritrovato amore per la new wave
d’antan: Rapture, !!! e compagnia a studiare il
vecchio
catalogo Factory e Rough Trade. Tra i tanti un riccioluto
che pare la versione radical
s h i c d i G i o r g i o M o r o d e r, Tr e vor Jackson, pesca dal vecchio roster di Geoff Travis
Sex degli Scritti Politti, che
r i e d i t a t a c o m e To o M u c h s a r à
uno dei pezzi forti del debutto
dei Playgroup. Un piccolo ma
significativo segnale che verrà raccolto anche dalla stessa Rough Trade che nel 2005
raccoglierà – finalmente – i
singoli pre-Songs to Rememb e r n e l l ’ a n t o l o g i c o E a r l y.
Gianni Avella
Il bello di essere “outside”
Intervista a Green Gartside
Raggiunto via e mail, Green si
rivela personaggio affabile e
acuto, mosso da un ritrovato
entusiasmo verso la sua rinata carriera, il suonare dal vivo
e la musica in generale (presente e passata).
Anzitutto, com’è stato tornare dopo ventiquattro anni alla
R o u g h Tr a d e ? C h e d i f f e r e n z e
ci sono con l’etichetta che ricordavi?
La Rough Trade di oggi mi ricorda tantissimo quella di fine
’70 / inizio ’80. C’è lo stesso
entusiasmo, lo stesso straordinario supporto per gli artisti.
Sono fortunatissimo ad essere tornato. Devo tantissimo a
Geoff Travis, letteralmente e
metaforicamente!
Per White Bread, Black Beer
hai fatto quasi tutto da solo.
C’è qualcuno che ti ha aiutato?
L’ u n i c o a i u t o m i è a r r i v a t o
dall’ingegnere del suono Andy
Houston, che ha registrato le
parti vocali e mi ha dato una
mano a mixare l’album. Per il
meglio o per il peggio, è tutta
che se nella tua cultura probabilmente non sono un pasto
molto indicato, la birra scura
e il pane bianco (insieme alle
noccioline) sono alla base
della mia dieta!
Se in brani come After Six
viene fuori il tuo solito stile,
l’elemento base di queste nuo-
Sul versante opposto, qua e là
resta una certa impostazione
elettronica, comunque molto
leggera ed eterea (come in
Boom Boom Bap o Petrococadollar). Usi strumenti analogici o digitali?
Sì, infatti le altre cose che
ascoltavo al liceo erano Brian
mia la responsabilità!
Se confrontato con il precedente Anomie & Bonomie, White Bread è un disco molto diverso. Se quello era più vicino
al classico stile pop elaborato
dagli Scritti Politti negli ’80,
questo nuovo album suona
molto più intimo, rilassato e,
per certi versi, “adulto”. Come
lo rapporti all’interno della
tua discografia?
Penso di essere d’accordo
quando dici “intimo e rilassato”, un po’ meno quando dici
“adulto”, grazie a Dio il mio
sviluppo si è arrestato qualche anno fa! Scherzi a parte, penso che in dischi come
Cupid And Psiche e Provision
fossi molto più interessato all’aspetto musicale, volevo che
fossero incisivi da quel punto
di vista. Sono dischi incentrati sul concetto di groove, di
musica suonata da più persone; questa volta invece è tutto incentrato sulla voce, sulle
parole e sulla melodia.
A parte i riferimenti alimentari, a cosa si riferisce il titolo
del disco?
“White bread” è un termine
americano, usato in senso
dispregiativo per indicare la
parte “senz’anima” della cultura bianca. Per il resto, an-
ve canzoni sembra il folk-pop,
come se il tuo songwriting si
sia orientato decisamente sul
versante classico (vedi Snow
In The Sun. Cooking, Mrs. Hughes, Dr. Abenathe), un po’
tra i Beach Boys, il pop californiano dei ’60, gli inevitabili
Beatles... mi sbaglio?
Hai
assolutamente
ragione.
In questo disco ci sono tutti
gli ascolti della mia infanzia.
Prima del punk, quando ero al
liceo adoravo Joni Mitchell, i
Fairport Convention.. insomma, tra l’Inghilterra e la West
Coast.
Eno e Robert Wyatt! Amavo
il mood di dischi come Rock
B o t t o m e Ta k i n g T i g e r M o u n t a i n B y S t r a t e g y. I n q u e s t o
mio nuovo album c’è un mix
tra synth analogici - Se1,
Nord, Super Jupiter etc - e
roba come Virus, Supernova,
più alcuni synth più soft come
il Pro 53. Come software, preferisco il Logic piuttosto che
i l P r o To o l s , l a v o r a n d o s u u n
Mac G5.
A proposito di Wyatt, sei sempre in contatto con lui?
No, ma dovrei… e lo sarò presto!
sentireascoltare 123
A quali stili musicali sei interessato oggi?
Continuo ad avere una mentalità molto aperta. Ho ascoltato un sacco di hip hop della
prima ora, dell’electro e, tra
le cose della mia infanzia, Richard Thompson (per esempio).
tissimo la mancanza. Non so
se qualcuno potrà mai prendere il suo posto. Sono stato anche al suo funerale. E’ stato
enormemente importante per
la mia vita, gli devo così tanto. Nuove band britanniche?
Beh, tutte le “nuove” band britanniche che cercano di suo-
Di recente hai compiuto cinquant’anni. Se è vero che chi
crede nelle utopie è un sognatore, quali sono i sogni che
vuoi realizzare?
Come canto in Robin Hood: “I
dream of ending these dreams
of mine” (“Sogno di porre fine
ai miei sogni”). Sono speran-
E della scena contemporanea,
che ne pensi? Ho letto che
adori Sufjan Stevens.. e che
mi dici della scena hip hop ed
electro attuale?
Oh, sì, sapevo ci saresti arrivato.. Sufjan.. brillante, assolutamente brillante! Di recente
non ho seguito molto la scena
hip hop contemporanea, ho
sempre amato l’hip hop della
East Coast. E’ arrivata l’ora di
scoprire qualcosa di nuovo!
Dopo una carriera che ti ha
dato le sue soddisfazioni, negli ultimi diciotto anni hai pubblicato soltanto due dischi. Ti
definiresti un outsider?
Oh, sì.. penso più che altro di
essere “outside”! Gartside è
assolutamente “outside”. Non
tollero l’industria musicale, e
in più sono pigro, e disprezzo il successo tanto quanto il
fallimento.
Come per molte altre band,
John Peel ha avuto un ruolo
primario nel promuovere la
musica degli Scritti Politti ai
tempi della vostra comparsa
sulle scene. Adesso che non
c’è più, cosa pensi della situazione mediatica in UK? Ci
sono altri talent scout? E che
mi dici delle nuove band britanniche?
Eh, di John Peel si sente tan-
nare come i Fall o i Gang Of
Four o i Jam o i Clash o qualsiasi altra cosa.. mi fanno vomitare.
L’ a n n o s c o r s o l a c o m p i l a t i o n
Early ha di nuovo messo sotto i riflettori la tua primissima produzione. Da allora la
tua musica ha attraversato diverse fasi, ma come vedi oggi
quelle canzoni, il tuo modo di
suonare di allora, il loro significato in termini sia musicali sia culturali?
Non
credo
sopporterei
di
ascoltare di nuovo quelle canzoni! Detto ciò, stiamo provando Skank Bloc Bologna per
suonarla presto dal vivo! Penso quelli fossero tempi molto interessanti per tantissimi
motivi, ma non mi guardo mai
alle spalle. Non sono un nostalgico, tanto meno della mia
storia.
Pensi che il rock o la musica
“popolare” oggi possano avere
ancora una funzione politica?
Funzione politica? Hmm… ho
problemi con il concetto di
“funzione”. La musica di oggi
è politicamente interessante?
Sì. Può avere un significato
politico? Sì. Può il suo futuro avere una dimensione politica? Da qualche parte.. in
qualche modo.
zoso. Mi piacerebbe avvicinarmi ad una verità (qualsiasi
verità). Mi piacerebbe capire
di più. Mi piacerebbe essere
apprezzato.
E’ noto che non ha mai avuto
un grande feeling con il suonare dal vivo. Di recente però
hai ripreso. Com’è stato? Chi
ti accompagna sul palco? Proporrai vecchio materiale insieme a quello nuovo?
Sì, ho ripreso a suonare dal
vivo soltanto da poco … Di solito diventavo molto ansioso e
soffrivo attacchi di panico! Ho
arruolato una nuova band di
giovani musicisti senza esperienza dal pub del mio quartiere!! Era quello che volevo
fare. Enfatizzare l’amicizia,
non tanto il suonare insieme.
Sto cercando di rielaborare
delle vecchie canzoni; l’altra sera abbiamo suonato The
Sweetest Girl!
Che ne dici di un tour in Italia?
E tu, che ne dici di un invito? Stiamo per fare un po’ di
concerti, e mi piacerebbe che
presto qualcuno ci ingaggi per
uno show in Italia!
124 sentireascoltare
Antonio Puglia
classic
This Heat
In occasione della ristampa dell’intero catalogo in un box di sei
cd, Out Of Cold Storage, riassumiamo la parabola dei This Heat: un
ponte tra passato - kraut - e futuro – post-rock
Salute ed efficienza
di Giancarlo Turra
Come per i Faust a inizio millennio, la ReR di Chris Cutler
ha approntato in occasione
dei trenta anni dell’esordio
dei This Heat Out Of Cold Storage, cofanetto che in sei cd
ne raggruppa l’intero catalogo. Per l’occasione ci sforziamo di riassumere pensieri e
significato di una delle formazioni più innovative e misconosciute di sempre.
Parecchi
paragoni
possono
essere tracciati, analizzando
al proprio stile. Da ultimo - e
più importante - l’aver narrato ieri molti dei nostri eccellenti domani. Ancora: il trio
britannico fu avanguardia al
cui centro ha sempre pulsato,
anche quando l’oggetto era
il grigiore di panorami industriali o l’invettiva contro il
buio degli eighties, un cuore
umanissimo, capace di avvicinare a musiche d’impatto
eppure comunicative come poche. Cosa rara al giorno d’og-
la sostanza del suo agire artistico, conservando un alone
situazionista – e perciò punk
nel senso più pieno - in un
look falsamente anonimo e fotografie sottilmente provocatorie. Tutto comincia coi Dolphin Logic, formatisi nei primi
’70 da due Charles (Bullen e
Hayward, chitarra, nastri e
viola l’uno, batteria, tastiere
e ancora manipolazioni magnetiche l’altro) che incrociano nel 1975 Gareth Williams
la storia dei This Heat, col già
citato ensemble di Wümme: innanzitutto, essere stati emeriti sconosciuti o quasi in attività e, una volta (ri)scoperti,
venir additati quali antesignani di una delle stagioni tra le
più stimolanti di sempre (il
post-rock); l’aver gestito – da
provetti non musicisti - la tecnologia a loro disposizione
(primitiva se confrontata a
quella odierna) e inteso studio e processi di registrazione
al pari di strumenti integrati
gi, in cui regna lo sfoggio dell’intellettualismo lambiccato a
scapito della trasmissione del
messaggio, trappola seducente in cui il trio non cadde mai
durante la sua breve però fulgida parabola.
(basso e ancora tastiere e nastri), iniziando a sperimentare ardite commistioni sonore
dapprima a casa Hayward e
poi sfruttando uno studio preso in affitto - il Cold Storage,
appunto - nel quartiere londinese di Brixton. Ricavato con
immane lavoro da una cella
frigorifera, fungerà da casa
per altri genialoidi dell’epoca
come, per non riferire che dei
più noti, Art Bears, Raincoats
e Robert Wyatt. Se state pensando ai Can e all’Inner Space
Nel racconto troverete ben
pochi scossoni e la totale assenza di avvenimenti buoni
per la “mitologia rock”: precursore anche in questo, il
trio non perse mai di vista la
concentrazione sulla musica,
sentireascoltare 125
siete sulla strada giusta: medesima l’incessante dedizione
a lavorare sul tessuto sonoro e la concezione del luogo
d i r e g i s t r a z i o n e c o m e a t e l i e r,
per non dire dell’impiego di
registrazioni per dar vita a
sonorità che la strumentazione dell’epoca non consentiva. Come accennato, il debutto col nuovo appellativo si
compie nel febbraio del 1976,
ma è la lungimiranza di John
Peel a premiarli, poiché questi li ospita, sconosciuti privi di contratto discografico,
in una session nel marzo del
’77. Assemblata in Made Available diciannove anni dopo,
insieme a un’altra trasmissione dell’ottobre dello stesso
anno, è uno dei più folgoranti
domani avvenne mai ascoltati, una profusione di idee in
anticipo e pertanto fuori posto
(siamo nel pieno dell’apoteosi
punk) amata senza condizioni
da chi seppe cogliere. Da qui
conviene partire saltando l’ordine cronologico ufficiale, dal
momento che questi otto brani
precedono l’esordio su disco
di ben ventiquattro mesi costituendone in parte l’ossatura. Horizontal Hold riassume il
miglior rock “avant”pervenuto
dall’asse
Chicago-Louisville, centrifuga di matematica
Crimsoniana e algido funk che
nel frattempo brevetta la Banda dei Quattro. Su di esso una
chitarra si snoda serpentina
squadrando un blues krauto
che muore tra macchie acide d’organo, stasi industriali
e strappi ritmici subliminali.
126 sentireascoltare
Basterebbe da solo a sancire
la grandezza del trio, e non
si fatica a immaginare i giovani virgulti della nuova onda
a prendere furiosamente nota,
la bocca spalancata davanti
alla radio. In realtà ci sono
elargite ulteriori stupefacenti
illuminazioni, come l’ambient
malata e sulfurea di Not Waving (Eno sputato fuori dalla
t e r z a f a c c i a t a d i Ta g o M a g o )
e la cupa veduta di una Canterbury trafitta d’epici e irosi
clangori per l’anticipo di June
Of ’44 a nome The Fall Of Saigon. La seconda serie di registrazioni mostra un lato in piccola misura più lineare della
f o r m a z i o n e i n B a s e m e n t B o y,
Slither e nell’astratto jazz di
Sitting. A una più profonda
disamina, tuttavia, le carte
sono mandate in aria a mescolarsi dall’urto frontale di Rimp
Romp Ramp, sospensione tra
Shellac e Liars (!) che sconfina in un rabbrividente incubo di percussioni rade, e da
Makeshift, efferato presagio
della furia incompromissoria
d i P. I . L . e P o p G r o u p , i l c u i
caracollare ritmico richiama
alla mente gli Slint.
Devono passare due anni perché cotanto dispiego di idee
possa essere digerito: gli unici a dare un’opportunità alla
band sono Chris Cunningham
dei Flying Lizards, che dopo
aver aiutato in studio pubbli-
ca quanto prescelto sulla sua
neonata Piano, e Anthony Moore, spirito affine negli Slapp
Happy che si affianca in fase
produttiva. Una vera pietra
miliare il risultato, l’omonimo
album (Piano Records, 1978)
che studia le infinite possibilità di organizzare il suono
dopo la sua frammentazione
in un apocalittico termometro
di tempi a venire. Epocale,
in una semplice definizione.
Saranno in pochi, nonostante
Peel e qualche isolata penna
albionica (grande loro fan fu
John Lydon: se ne comprendono senza sforzo le ragioni), ad
accorgersi di questa musica
che si va sempre più ammantando di un vivo senso di umana drammaticità. Nell’album si
ripescano i tre brani della prima apparizione alla BBC, ora
più affilati e scaltri grazie al
magistrale uso dello studio,
del quale il brano che apre la
seconda facciata costituisce
l’epitome suprema. 24 Track
Loop consta di dieci secondi
di musica incisi su 24 piste,
mandati in circolo e filtrati
da effetti. Brano molto amato
dal gruppo e ripreso più volte,
rappresenta una tautologica
meditazione sull’ipnosi sonora
- L a M o n t e Yo u n g s f i g u r a t o d a
plumbei germanismi - che non
dimostra le venticinque e più
primavere sulle spalle, anzi
pare fatto della medesima ma-
teria creativa dell’elettronica
e del rock non più rock degli
ultimi anni. Come del resto è
i l f a n t a s m a t i c o Te s t c a r d , l a m i na di drone posta come inizio
e chiusura dell’lp, abbaglio
dei suoni del nulla di fine secolo. Not Waving partecipa in
una versione cantata impregnata di tristezza wyattiana
amalgamata perfettamente coi
fondali da dopo bomba su cui
poggia. Water dispiega trame
percussive tra Can e il Bowie
di stanza a Berlino, ma i vocalismi sono orrorifici lament i ; Tw i l i g h t F u r n i t u r e c a v a l c a
tribale eppure frenata verso
la rarefazione mentre la sei
corde produce note sparse
perciò pesantissime, chiudendo la prima metà di un lavoro
che, nel prosieguo, scioglie
la trilogia senza soluzione di
continuità di Diet Of Worms
(follia in dissoluzione), Music
Like Escaping Gas (nenia che
accentuando la componente
tossica del proprio nome) e
Rainforest (sfaldarsi acustico
estrapolato dal primo concerto della band).
Prima di congedarsi avanza
tempo per una nuova The Fall
Of Saigon, coralità aspersa di
livore in cui la chitarra cresce angolare e frenetica. Conosciuto anche come Blue And
Ye l l o w p e r i c o l o r i d e l l a r i d u zionista copertina, il disco è
un teatro dello smembramento
del suono, la scomposizione
delle sue parti prima studiate
per forma e funzione e in seguito riassemblate con esiti di
i m p r e v e d i b i l e m i s u r a . L’ a n n o
successivo porta quale dote un
tour europeo e il 12” che dà il
nome a questo articolo: stampato ancora dalla Piano con
l’aiuto di Rough Trade, Health
A n d E f f i c i e n c y / G r a p h i c Va rispeed (1980), conduce alle
estreme conseguenze nel retro - nomen omen che si suppone sarcastico - le potenzialità di trattamento dei nastri,
sfigurandoli da presentimenti
isolazionisti. Il lato A media il
krautrock con una melodia folk
albionica in un gioco di pieni
e vuoti, ritmo ed effetti sonori
presi sul campo, segnalando
un ingegno per la forma canzone che in retrospettiva dice
di un ponte gettato sul lavoro
successivo.
Mossi da assoluta e costante
fedeltà a un credo artistico improntato alla sperimentazione,
i tre pubblicano nel 1982 Deceit, seconda fatica sulla lunga distanza sotto l’egida Rough Trade, mettendo in mostra
sensibili mutazioni nella continuità. Si infiltrano influenze
etniche (Williams fu studioso e cultore della materia da
laurearsi in religione e lingua
dell’India dopo lo scioglimento del gruppo) nella percussività terzomondista di Shrink
Wrap, e in una Indipendence
dalla quale si levano suadenti aromi da potenziale outtake
di Remain In Light. La forma
canzone – seppur deviata prevale sovente sulla ricerca,
imbrigliata in forme lievemente più contenute per capolavor i c o m e l ’ i n n o d i c a S . p . q . r. c h e
inventa o quasi Savage Repu-
blic, o la cantilenante Sleep
che assesta uno schiaffo a
certi damerini sedicenti orientalisti. Permangono elementi
di raccordo con l’esordio nel
satirico jazz mitteleuropeo da
rigattiere Triumph e nella frenetica Paper Hats. Altrove si
ascoltano progressioni compatte dominate da vocalità ieratica e nondimeno cantabile
(Cenotaph: a Chicago se n’è
preso nota), un esperimento collagistico sottotono ma
sensato nel complesso (Radio
Prague), la ripresa matura di
Makeshift accompagnata nel
titolo da un fuorviante Swahili, invece travolgente quanto
equilibrato carro armato dai
cingoli di velluto. New Kind
O f Wa t e r, s t r a v o l t o c a n t o s u
percussioni slanciate e sottilmente irregolari contrappuntate da minimali ronzii chitarristici, immette sulla conclusiva
elegia funebre Suffer Bomb
Disease, base di melodica e
rumori, falsa field recording
da un oriente futuro visto con
disfattisti occhi occidentali.
Meritevole addio Deceit, le
cui liriche puntano l’indice
contro
l’irrespirabile
clima
sentireascoltare 127
politico e sociale del globo,
immane sforzo espressivo che
richiede
come
contropartita lo scioglimento del gruppo
nel maggio del 1982, mentre
Williams già da un po’ studia
in India. Prendono così il via
le carriere soliste di Hayward
c o n C a m b e r w e l l N o w, d i B u l len come Lifetones e Circadian Rhythms e infine di Gareth, attivo anche nei circoli
dell’improvvisazione inglese,
sotto la sigla Mind The Gap.
Si risentirà parlare di nuovo
di This Heat nel 1993, quando
l’etichetta legata al gruppo - la
These - immetterà sul mercato
Repeat, che ripesca Graphic
Va r i s p e e d e l a t i t l e t r a c k , v e r sione lunga di 24 Track Loop
più che mai faustiana, cosparsa di frammentazioni rumoristico-ritmiche che fiutano la
sperimentazione
elettronica
oggi popolare. Metal, l’altro
inedito, è ipnosi ricomposta
in studio, la base di partenza una registrazione effettuata fuori dal Cold Storage con
una testina
tridimensionale,
spettrale gamelan urbano che
stratifica bordoni metallici essiccando un sentire post-industriale in trance pura. Tre
anni dopo giungono il dispaccio delle Peel Session (il già
citato Made Available) e la
ristampa sempre su These di
Deceit, mentre l’omonimo resta, dopo una fugace stampa
del 1991, chimera fuori catalogo; sarà la ReR a rendere
g i u s t i z i a a B l u e A n d Ye l l o w r i stampandolo dieci anni dopo,
nel 2006. Frattanto, grazie al
mutare dei paesaggi sonori e
all’assurgere del post rock,
vanno chiarendosi influenza e
peso della formazione britannica.
Nel dicembre del 2001, dopo
che i tre si erano ritrovati a
suonare assieme, Gareth Williams ci è strappato da un
male incurabile; alla sua memoria si organizza un concerto al quale suonano Bullen più
Hayward e gli immensi Wire
al gran completo. Negli ulti-
128 sentireascoltare
mi giorni del 2004 dalla ReR
trapela la notizia relativa a
Out Of Cold Storage (1. This
Heat; 2. Health & Efficiency;
3. Deceit; 4. Repeat; 5. Made
Available (BBC); 6. Live - previously unreleased; con un libretto a colori di 44 pagine),
e inizia la trepidante attesa
concretizzatasi nell’afosa tarda primavera di quest’anno.
In tanta abbondanza, fiore all’occhiello un libretto generoso e rivelatore per apparato
critico e iconografico, il sesto
cd mette ordine tra cassetti e
archivi rintracciando due concerti dal biennio ’80-’81, cui
s’aggiunge un altro dischetto
3” compreso solo nelle prime
milleduecento
copie
prenotate. Alla luce della filosofia
artistica della band, vi starete probabilmente domandando se vi siano ancora inediti
provenienti dalle mura del fu
Cold Storage. A questo proposito, due anni fa Hayward si
è pronunciato così: “Abbiamo
vagliato parecchio materiale
e ce ne sarebbe per un paio
di doppi cd, più un montaggio virtuale di un live. Tuttavia, dopo la morte di Gareth
queste cose sono sempre più
dure da farsi dal punto di vista emotivo”. Cuore e anima:
uno, sicuramente, brucerà.
classic
album
Arthur Russell - First Thought
Best Thought (Rough TradeAudika / Self, aprile 2006)
“Se Nick Drake fosse vissuto
abbastanza a lungo da poter
r e g i s t r a r e c o n i N e w O r d e r, i l
risultato sarebbe qualcosa di
molto simile ad Arthur Russell”.
Così un numero del 2004 di
Rolling Stone sintetizzò l’operato in vita di Arthur Russell.
Definizione seria ma non totale: semplicemente incompleta.
Ovvio che il magazine faceva
perno sul Russell che tutti conoscono, ovvero quello dance
e luminare pop trasversale,
trascurando - vuoi per la scarsità di materiale reperibile,
vuoi che questo stesso materiale non è mai stato degno di
un adeguata visibilità - l’operato di quello della prima ora,
compositore
d’avanguardia,
fautore di piece orchestrali
che oggi, in epoca digitale, rivendicano il proprio esistere.
Quindi tocca ringraziare per
l’ennesima volta l’Audika Records (label che tiene molto a
cuore la causa Russell), che,
con un encomiabile operazione di ripescaggio, (ri)mette
mano a quei nastri dimenticati
e sconosciuti appartenenti al
primo soggiorno newyorkese
del Nostro, quando, poco più
che ventitreenne, raggiunse la
Grande Mela, lui nativo dello
b u ì t e m p o a v a n t i n e i Ta l k i n g
Heads), mentre tutt’altro che
una voce fu l’interessamento
di John Hammond (l’uomo dietro Dylan, Springsteen e Billie
Holiday) per l’arte di quell’ensemble, che scelse come proprio teatro le mura del Kitchen
Iowa, dopo un apprendistato
di musica indiana nella celebre Ali Akbar Khan School di
San Francisco.
Animo buddista e un violoncello: ecco cos’era il Russell
dei primissimi anni ’70. Requisiti minimi che però lo portarono ad inserirsi da subito
nella downtown pulsante che
e r a a l l ’ e p o c a N e w Yo r k . T r o vò domicilio in una palazzina situata nella 12ma Strada
East, dividendo numero civico
con Richard Hell (che proprio
nel medesimo stabile viveva),
marciapiede e qualche performance con Allen Ginsberg (che
a pochi isolati da lui abitava)
e casa con Rhys Chatham,
futuro agitatore sonico della
N e w Yo r k p i ù o f f ( n o n q u e l l a
d i Te l e v i s i o n e P a t t i S m i t h ,
tanto per intenderci).
Tra una lezione e l’altra presso
la Manhattan School Of Music,
il musicista sperimenta con
Peter Zummo quella che sarà
la sua prima bozza di gruppo,
i Flying Hearts, compagine
aperta che ospiterà molta della scena avant locale, come il
citato Chatham, Ernie Brooks,
Larry Saltzman e Jesse Chamberlin tra gli altri.
Leggende metropolitane mai
smentite dicono di un David Byrne anch’egli coinvolto
(sicuro è che Russell contri-
Club (come a dire, non si vive
di solo CBGB’s…), registrandoci in due serate (quelle del
27 aprile 1975 e del 10 maggio 1978 - con un eccezione
datata 23 giugno 1977 ed eseguita al Franklyn St. Art Center) buona parte del materiale
incluso nella raccolta doppia
First Thought Best Thought.
Ora, occorre far chiarezza
sull’operato
dell’Audika:
in
First… si ascolta, finalmente
nella sua totale bellezza, il
progetto Instrumentals, lavoro
inspiegabilmente mai edito per
intero (la sua prima parte appartiene alla nidiata di inediti
ivi contenuta) e vittima, nell ’ e d i z i o n e I n s t r u m e n t a l s Vo l 2
(licenziata dalla Les Disques
Du Crépuscule nel 1984), di
un madornale errore in fase
di
masterizzazione,
nonché
nella lista dei credits. Un disastro che meritava giustizia,
una magia la musica che ne
deriva. Molti rimarranno basiti nello scoprire che il Russell
di Instrumentals è il medesimo
di The World Of Arthur Russell
o di Another Thought: una musica dal sottile impianto rock
- ci suonano Ernie Brooks al
basso, Arthur Russell al cello,
Andy Paley alla batteria, Rhys
Chatham, Jon Gibson, Peter
Zummo e Garrett List ai fiati,
Jon Sholle alla chitarra, Peter
sentireascoltare 129
Gordon alle tastiere e David
Va n Ti e g h e m a l l e p e r c u s s i o n i
- che accarezza la musica da
camera più lovely per poi sciogliersi in epiche frasi morriconiane; poi Reach One, inedito
intreccio (in tutti i sensi) tra
due elegiaci Fender Rhodes
c h e p r e l u d o n o To w e r O f M e a ning, ripescaggio di un rarissimo Lp uscito in sole 320 copie
per la Chatham Sq di Philip
Glass: un onore per i fortunati possessori, un crimine per i
t a n t i r i m a s t i f u o r i . L’ a n d a z z o
è simile alla seconda parte di
Instrumentals ma è la novità,
il piacere nell’ascoltare queste arie memori sia di Glass
che Charles Ives a trascendere il valore documentaristico
e colpire al cuore.
Chiude l’inedito Sketch For
The Face Of Helen, nove cosmici minuti per tone generator e tugboat suonati dallo
stesso Russell in uno sconosciuto giorno dei primi ’80,
quando cioè il Nostro cominciava a sdoppiarsi tra piste
da ballo e mondi di eco. Altra
storia, questa…
Gianni Avella
Sebadoh – III (Homestead,
settembre 1991 / Domino Self, 23 luglio 2006)
1 9 9 1 , T h e Ye a r P u n k B r o k e .
Così recitava il titolo di un
celebre documentario di Dave
M a r k e y s u S o n i c Yo u t h , N i r v a n a e D i n o s a u r J r. , e q u e l l o
fu proprio l’anno in cui finalmente, dopo aver covato sot-
13 0 s e n t i r e a s c o l t a r e
to la cenere, esplose il fenomeno dell’alternative rock, in
buona parte grazie alle band
protagoniste di quel film. In
settembre usciva l’album che
avrebbe sancito l’inizio della nuova era, Nevermind; in
contemporanea
Lou
B a r l o w,
il reietto del Dinosauro, dava
ufficialmente il via a una nuova avventura che avrebbe a
sua
volta
istituzionalizzato
un ulteriore mondo sotterraneo (una sorta di underground
dell’underground, se volete).
In realtà, già da diverso tempo l’ex bassista aveva trovato
un’intesa con il vecchio amico Eric Gaffney – chitarrista,
batterista, autore e “terrorista
musicale”, nelle parole di Barlow – inaugurando dapprima i
Sentridoh (1987), poi appunto
i Sebadoh, sigla sotto la quale
erano uscite le due cassette
The Freed Man (1989) e Weed
Forestin’ (1990), raccolte di
folk song casalinghe, sound
collage amatoriali e giochi
con i nastri dei due; ma soltanto con l’inserimento di Jason Loewenstein (a sua volta
chitarrista, batterista e autore) e un accordo con la Homestead il progetto prese effettivamente, da esperimento
di home recording qual era, la
forma che ne consentì partenza ed evoluzione negli anni,
fino allo stop del 1999 - interrotto da sporadici tour acustici e relative voci di ripresa.
Quello di III è un gruppo rock
come
probabilmente
se
ne
vedevano pochi nel 1991, un
mostro a tre teste basato su
un equilibrio quanto mai precario (allergico alla routine,
Gaffney abbandonerà nel giro
di un paio d’anni, non senza
aver lasciato il segno), tanto
che in questo caso la diversità e la varietà compositiva
sono
un’inevitabile
conseguenza ancor prima che un difetto. I ventitre brani del disco costituiscono un mosaico
schizofrenico e imprevedibile,
in cui l’indie-emo, l’hardcore
e il folk dolente di Barlow (in
T h e F r e e d P i g , G o d To l d M e
e To t a l P e a c e c ’ è t u t t a u n a
carriera) convivono con i folli
esperimenti psych di Gaffney
(i quasi sette minuti conclusivi di As The World Dies The
E y e s O f G o d G r o w B i g g e r, o
le altrettanto stranianti Violet
Execution e Supernatural Force), con un Loewenstein non
ancora perfettamente inserito (vedi il jazz-noir di Smoke
a Bowl, il country “nirvanico”
Black Haired Gurl e Hoppin’
Up And Down, in odore del primissimo Lanegan solista - ma
il suo apporto diventerà significativo soltanto in seguito);
ad intorbidire ancora di più le
acque, accanto a questa nuova impostazione “rock” riaffiora in coda all’album l’impronta collagistico-acustica delle
prime cassette (Hassle, No
Different, Spoiled).
Una specie di White Album
dell’indie rock, insomma; di lì
a poco verrà il Sgt. Pepper ’s
del caso - ovvero Slanted &
Enchanted dei Pavement - e
il resto, come si dice, è storia. Ma il valore di III, più che
musicale - per chi scrive, i
Sebadoh il meglio lo avrebbero dato nel post-Gaffney con
Bakesale (1994), quando non
ancora prima con la tripletta Vs Helmet / Rocking The
Forest / Bubble And Scrape
(1992-93) - è storico-ideologico: con questo discoil lo-fi
irrompe nell’alternative in maniera esteticamente fondante,
non più – non solo - come una
mera necessità legata alla carenza di mezzi; da allora in
poi la bassa fedeltà sarà uno
stile, ed essere sgangherati
e disgraziati diventerà - perversamente - tanto cool quant o , p e r d i r e , i S o n i c Yo u t h .
Ma, a sentire un recente Lou
B a r l o w, c ’ e r a a n c h e q u a l c o s a
in più: “Sentivo che la musica underground era diventata
mono-dimensionale, rumorosa,
e la mia reazione a ciò fu di
prendere in mano una chitarra
acustica. Sapevo di percorrere la via giusta, anche se la
gente diceva che ero una ‘fighetta’: piano era il nuovo forte” (da un’intervista a Mojo).
Parole che, seppur nel tipico
stile vittimista e autocommiserativo del Nostro, suonano
maledettamente bene.
La ristampa expanded targata
Domino dell’estate 2006 arriva a suggellare l’attuale momento di rivalsa dell’indie,
mentre Barlow continua a girare il mondo coi riformati Dinosaur Jr e annuncia un tour
autunnale con Loewenstein,
che a sua volta aveva fatto
alcuni concerti con Gaffney
nel 2005. In attesa di una – a
questo punto fin troppo prevedibile – reunion, ecco intanto
un cd extra che include lo storico EP Gimmie Indie Rock del
1991 (ça va sans dire, l’inno di
una - un’altra – generazione)
e qualche imperdibile oddity
come Showtape ’91 (umoristico collage di false presentazioni del tipo: “i salvatori
dell’alternative rock, i vostri
fumatori d’erba preferiti, Jason, Eric e Lou, i Sebadoh!”);
ma che in realtà consta per
la maggior parte di demo di
G a f f n e y, q u a s i a r i b a d i r e c h e
Sebadoh non è mai significato
s o l t a n t o B a r l o w. D i f r o n t e a l
ritrovato riconoscimento del
pubblico, siamo sicuri che all’occhialuto Lou non dispiacerà più di tanto.
Antonio Puglia
The Triffids – Born Sandy Devotional (Hot, 1985 / Domino,
giugno 2006)
Lode e gloria alla Domino Records che dopo tanti, troppi,
anni d’attesa decide di riportare alla luce l’intera discografia di una delle più grandi
band australiane di tutti i tempi, i Triffids, attraverso una
serie di ristampe che culmineranno con la pubblicazione di
un monumentale greatest hits
già previsto per i primi mesi
del prossimo anno.
Formatisi nella prima metà degli anni Ottanta attorno alla figura carismatica del cantante,
autore e chitarrista David McComb (scomparso nel 1999), i
Triffids hanno rappresentato
una delle parabole più sincere e sfortunate dell’intero panorama rock australiano. Più
volte sul punto di compiere il
definitivo salto di qualità verso lidi commerciali e di pubblico più appropriati alla statura
della loro musica, la band originaria di Perth ha sempre dovuto fare i conti con un destino capriccioso e beffardo che
ha negato a McComb e compagni quel successo e quella
gloria che avrebbero indiscutibilmente meritato, dall’alto
di una manciata di dischi assolutamente strepitosi. Album
di una semplicità poco meno
che disarmante, dove la classica ballata di stampo west
coast è la formula ideale per
raccontare storie d’ordinaria
emarginazione, rese ancora
più disperate de quella patina
darkeggiante che aleggia su
ogni singolo episodio narrato
dalla band australiana, come
i Doors catapultati in epoca
new wave.
Originariamente
pubblicato
nel 1986, Born Sandy Devotional rappresenta il punto più
alto mai toccato dal gruppo e
uno dei vertici assoluti di tutto
il rock australiano. La scrittura cruda e feroce di Mc Comb
trova la sua naturale collocazione all’interno di una struttura compositiva che guar-
da alla classicità del suono
roots americano con invidiabile concretezza, sfociando ora
i n b l u e s c a t a c o m b a l i ( Ta r r i l u p
Bridge) ora in preziose fughe pop and roll (Chicken Killer) che da lì a qualche anno
avrebbero fatto la fortuna di
band come i Primal Scream.
Imbattersi in Lonely Stretch
vuol dire essere scaraventati contro uno spiritato boogie
blues che soltanto la penna
di Jeffrey Lee Pierce avrebbe
potuto partorire: Wide Open
Road è la ballata che ogni
rocker sogna di scrivere almeno una volta nella vita; Life Of
Crime un sanguigno ed insinuante mid tempo mentre Per-
sonal Things mostra con orgoglio le ferite sanguinanti del
miglior Cave. Il punto di non
ritorno dell’album e di tutta
la vicenda compositiva di Mc
Comb è però quell’infinita e
romantica escursione sospesa
tra il bene ed il male che risponde al nome di Stolen Property: sei minuti e quaranta di
scintillante bellezza dove gli
angeli e i demoni, che hanno sempre vigilato sulla vita
e la morte di David, sembrano unirsi in un unico magico
coro. Riscoprire questo album
è un dovere morale.
Stefano Renzi
Fred Neil - Self Titled (Capitol, 1967; Water, gennaio
2006)
Fred attese pazientemente il
terzo lp per il titolo omonimo,
s e n t i r e a s c o l t a r e 131
esordendo su Capitol nella
probabilmente fioca luce del
gennaio 1967 dopo aver girovagato gli Stati Uniti, vergato
brani per Buddy Holly e Roy
Orbison ed esser infine app r o d a t o a N e w Yo r k , e n t r a n do nel giro del folk revival
del Greenwich Village. Da lì,
prima di un album (più mezzo
con Vince Martin, Bleeker &
Macdougal) per l’Elektra, avrà
ancora tempo e modo di divenire un mito per i Jefferson
Airplane,
influenzare
David
Crosby e farsi accompagnare
da John Sebastian e Bob Dylan. Fin qui i fatti, nudi e crudi.
Dice bene, anzi benissimo Peter Childs, nelle note della
recente ristampa (una tantum
priva di bonus per non intacc a r n e l a p e r f e z i o n e ) s u Wa t e r,
che per conoscere Fred Neil
non si deve fare altro che distendersi e ascoltare questo
disco. Sta tutta lì, insomma, la
magia del suo autore, che sulle ali di una voce che congiunge Buckley e Cash ti abbatte
il cuore a colpi di avvolgente
malinconia, la medesima che
si lascia ghermire per un attimo dagli sguardi della copertina. Dieci composizioni sono
il mezzo, allora, per spaziare
dal blues all’acidità attraversando il più possibile la gamma di toni intermedi, piegando
l’elettricità dentro una buccia
jazz, scompigliando le carte
di un folk-rock che trapassava
in qualcosa di sconosciuto o
quasi.
Una canzone di questo album
l’hanno ascoltata tutti almeno una volta, in molte salse,
garantendo a Fred un sereno campare quando si ritirerà
dalle scene nel 1977 tornando
nella natia Florida per dedicarsi alla biologia marina, ed
è E v e r y b o d y ’ s Ta l k i n ’ , r i l e t t a
da Harry Nilsson per la colonna sonora del capolavoro
di John Schlesinger Un uomo
da marciapiede. Dimenticatene la vivacità e datevi in toto
alla scarna meditazione del-
13 2 s e n t i r e a s c o l t a r e
l’originale, scorgendovi e attraversando la “pioggia che
cade” per andare “dove il sole
continua a splendere”. Prima,
però, sappiate che c’è una
facciata intera di meraviglie
da ascoltare, dischiusa dal liquido peana ai più intelligenti
mammiferi acquatici, venato
da lame tristi che ne affollano
il finale, The Dolphins, classico ripreso infinite altre volte
e che sarà canto di redenzione finale dall’abisso del Tim
ormai sprofondato. I’ve got A
Secret segue (fischiettante e
distesa versione di un brano
di Elizabeth Cotton) profonda e calda come un abbraccio
di un vecchio amico, campagna appena inurbata da chitarra e melodia di cristallo,
laddove That’s The Bag I’m
In è il testimone blues che
Mark
Lanegan
raccoglierà,
premurandosi di rileggere più
di tre decenni dopo l’inquieta asciuttezza serpentina di
Badi-Da. Faretheewell (Fred’s
Tune) mette il nostro a nudo,
confessione dietro quinte di
contrabbasso e chitarra in cui
Fred si nasconde e ricompare, scavalcando la hit di cui
sopra, per buttarsi di slancio,
attraverso l’irresistibile swingare di Everything Happens e
il brio tutt’altro che narcotico
di Sweet Cocaine, sulla chiusura, affidata alla trasfigurazione diddleyana Green Rocky
Road e agli otto minuti otto
di vorticoso “inalare” etnopsichedelico strumentale di Cynicrustpetefredjohn Raga, lezione da manuale di visionarietà
messa a fuoco e a frutto.
Non stupisce che in pochi si
accorsero di questo album un capolavoro, non mi fossi
fin qui spiegato a sufficienza
- all’epoca della sua uscita,
continuando così il destino
inevitabile di parecchie opere
di medesima fatta. Nel rendergli giustizia, farete uno smisurato e sempiterno favore a
voi stessi.
Giancarlo Turra
classic
note a margine
una rubrica di Giulio Pasquali
A volte una risata è soltanto una risata, altre volte ridere è una
cosa seria, anzi serissima. Un excursus sul rock demenziale italiano,
d a g l i S q u a l l o r a E l i o e l e S t o r i e Te s e , p a s s a n d o p e r g l i S k i a n t o s .
T’ILLUMINO, DEMENZA.
Ovver o g l i e q u i v o c i s u l r o c k d e m e n z i a l e e i s u o i p r o t a g o nisti
Ridere sul serio
Non dovrebbe esserci bisogno
di scomodare filosofi e scrittori veri (Bergson e Pirandello
per dirne due) né libri immaginari (il fantomatico secondo
libro della Poetica di Aristotele evocato ne Il nome della
rosa ) per spiegare che, per
quanto possa sembrare strano
dirlo, ridere è anche una cosa
seria.
In teoria basterebbe pensare a Giorgio Gaber (nella sua
f a s e d e l “ Te a t r o C a n z o n e ” ) ,
o a Beppe Grillo, e nessuno
dovrebbe avere problemi a riconoscere che attraverso la
comicità si possono dire cose
serie. In generale non dovrebbe essere un problema riconoscere che esistono risate
di tanti tipi diversi, e che una
battuta che per esempio coglie
il lato divertente di una tragedia non è uguale alla satira su
un politico ladro né alla goliardata o alla battuta volgare
da osteria.
M a i l c a s o d i R A I - O T, c o n a l cuni politici che pretendevano
che la satira fosse “bonaria
presa in giro del potere al fine
di rendere più amabili alla
gente i suoi rappresentanti”,
dimostra che la questione non
è chiara per niente, e che per
costoro (guarda caso i bersagli degli strali satirici della
Guzzanti ) ridere è una cosa
innocua, leggera, pura evasione.
Purtroppo non sono i soli: anche a livello di senso comune
si pensa che ciò che fa ridere sia per sua stessa natura
poco serio. E se la distinzione tra lo stile tragico “alto” e
quello comico “basso” esiste
fin dall’antica Grecia, è anche
vero che la satira, quella che
“ridendo castiga i costumi”,
non solo all’epoca esisteva
già ma era addirittura codificata come genere letterario
vero e proprio.
E se costumi e bassezze da
satireggiare sono sempre esi-
stiti, sono però cambiate nei
secoli le forme del loro dileggio. Non si vuole certo farne una storia qui, ma tra le
commedie di Plauto, quelle di
Molière o Goldoni, e la furia
iconoclasta con cui le avanguardie di inizio ‘900 attaccavano il conformismo e l’ipocrisia delle nuove classi medie e
dominanti c’è una certa differenza. E mentre da una parte
vecchie forme e stili permangono, dall’altra lo stesso tipo
di risata può cambiare anche
nella storia.
Tutto questo per dire che non
basta che uno spettacolo o
una canzone “faccia ridere”
per determinarne automaticamente la natura, e che capirla
è ancora più difficile se perfino su un genere plurimillenario come la satira spesso
manca chiarezza.
Ed è da qui che ha origine la
confusione sul rock demenziale, che nel sentire comune
(ma non solo: perfino Berton-
s e n t i r e a s c o l t a r e 133
celli, in un articolo su Cuore
dei primi anni ‘90 cadeva in
questo equivoco) da una parte
è identificato per lo più con gli
Squallor e con Elio e le storie
tese, dall’altra anche chi associa a questa definizione gli
Skiantos spesso fatica a identificare le pur notevoli differenze estetico-stilistiche tra
loro e gli altri due gruppi.
Pierpaolo a Napoli: gli
Squallor
Tutto
comincia
quando
un
gruppo di discografici di base
a Napoli decide che per rilassarsi non c’è niente di meglio
che formare un gruppo-fantasma (avranno preso esempio dai Residents ?) dal nome
programmatico
di
S q u a l l o r,
nei cui dischi Troia non è solo
l’antica città asiatica (nonostante il cavallo di legno in
copertina, che però è a dondolo....), bensì uno degli infiniti doppi sensi che intitolano
le loro opere (e così Pompa,
Cappelle, Scoraggiando hanno in copertina rispettivamente un distributore di benzina,
dei funghi e ... vabbè, una
donna vista da dietro). All’interno della loro nutrita discografia, se si eccettua qualche
puntata nella satira ( USA for
Italy , nella quale si chiedevano soldi a Michael Jackson nel
periodo in cui faceva il Live
Aid) e altre surreali ( Non mi
mordere il dito, la cui musica
proveniva nientemeno che da
The Mosquito, un pezzo dei
Doors post-Morrison), il tipo
di umorismo non va molto più
in là di quello delle copertine,
ovvero doppi sensi e bozzetti
di costume da avanspettacolo
riversati nel formato disco con
spirito goliardico. Si gioca anche sullo scarto tra l’apparente normalità della musica che
imita i generi in voga (e qui
l’esperienza di produttori si
sente) e i suddetti testi; ma il
successo del gruppo si basa
soprattutto sulla loro novità,
per quanto discutibile. Nell’Italia bigotta pre-’68, infatti,
13 4 s e n t i r e a s c o l t a r e
gli Squallor non sarebbero potuti esistere (come, per dire,
non esistevano le riviste porno). “Proibito” ma possibile
invece negli anni ‘70, il gruppo costituiva un’oasi di turpiloquio franco, uno sfogo di
umorismo crasso equivalente
ai film di Pierino; i suoi erano i dischi in cui “si rideva”,
se uno ha del ridere un’idea
prevalentemente di evasione
leggera legata al nominare le
funzioni corporali.
Niente di male, per carità,
ognuno ride come vuole; e
poi quest’umorismo aveva anche una sua piccola valenza
liberatoria, e nei dischi c’era
anche qualche spunto interessante di umorismo surreale o
di satira.
Ma non era “rock demenziale”: il genere, e il nome, nascono qualche anno dopo con
gli Skiantos, che come gruppo
sono completamente un’altra
cosa.
Largo all’avanguardia, pubblico di m...
Gli Skiantos nascono negli
anni ‘70 a Bologna ad opera di
alcuni studenti del DAMS che
amavano sia il rock’n’roll e il
punk che il teatro d’avanguardia. La loro poetica era figlia
del clima bolognese di metà
anni ‘70, ossia quella magica fusione tra impegno politico anche duro (non a caso
a reprimere il Movimento arrivarono perfino i carri armati)
e il felice fermento creativo
che vide nascere riviste come
Il Male, Cannibale e Frigidaire e fiorire i talenti di fumettisti come Andrea Pazienza
(che in Pentothal cantò quegli
anni e in Pompeo , in qualche
modo, la loro brutta fine) e
Ta n i n o L i b e r a t o r e n o n c h é d i
romanzieri come Stefano Benni. Un’esplosione di fantasia
militante che sperimentava la
fusione delle varie discipline
artistiche e che spesso dava
un elemento creativo anche
alla lotta politica.
Nel clima generale di un de-
cennio che non era strano solo
a Bologna, era possibile questo, erano possibili i suddett i S q u a l l o r, e r a p o s s i b i l e c h e
accanto a quelli tradizionali
fiorisse una genìa di cantautori folli (Rino Gaetano il più
illustre, un altro per il quale
ridere era una cosa serissima)
ma anche che il mainstream
fosse popolato da personaggi
pazzerelli come Amanda Lear
, il primo Renato Zero, le Fig l i e d e l Ve n t o e u n p o ’ a n c h e i
Matia Bazar .
Gli Skiantos sono figli del luogo e del tempo in cui sono nati,
sebbene non fossero strettamente politici come molti artisti loro contemporanei. Il loro
mix di sberleffo, programmatica incapacità a suonare e a
cantare, e messa alla berlina
dei luoghi comuni della canzone (ma non solo), sia a livello
musicale che lirico (vabbè...)
- un merito questo che Freak
Antoni ha riconosciuto in parte anche agli Squallor - era
politico in senso lato, nel senso di critica al conformismo e
di rivoluzione creativa.
La canzone comica esisteva
da sempre nella tradizione
popolare, e anche nel ‘900 gli
esempi erano stati numerosi
( Freak Antoni qualche anno
più tardi ne studierà la storia
col progetto Beppe Starnazza
e i Vo r t i c i ) e a n c h e i n q u e g l i
anni c’erano comici attori e
cantanti che usavano la canzone in questa direzione. Ma
per l’appunto si trattava di comicità, non di demenza.
Gli Skiantos aggiungono l’oltraggio punk e il gusto per
l’happening ereditato dal Living Theatre, che renderà i
primi concerti del gruppo dei
veri e propri eventi (il lancio
di ortaggi e oggetti dal -prima
che sul- palco, le reazioni del
pubblico che veniva provocato
da versi come “largo all’avanguardia, pubblico di merda”,
ma anche il caso famoso del
concerto in cui il gruppo invece di suonare cucinò la pasta
sul palco). E anche la demisti-
ficazione dei luoghi comuni,
già arma dei comici e presente
in parte anche nel gruppo napoletano, nei bolognesi acquista un colore e un’incisività
differenti perché nata da una
consapevolezza
dei
modelli
culturali del potere acquisita
sugli scritti sociologici dell’epoca.
E poi l’elemento propriamente “demente”, nato dagli studi sulle avanguardie storiche
(quando Freak Antoni parla
del demenziale non manca
mai di nominare il Dadaismo)
e fatto di nonsense, di poesia
casuale, di follia e sberleffo
mancava nel punk inglese (anche se i Fall arriveranno di lì
a poco) e rende la proposta
dei nostri originale e più vicina a certo Zappa che non, per
dire, ai Clash.
Anche musicalmente il gruppo,
mentre derideva gli stilemi più
classici del rock d’oltreoceano e oltremanica, creava allo
stesso tempo i primi esempi
italiani di un certo tipo di questa musica, dando al Belpaese
quel rock cui non erano giunti
né i suoi gruppi beat dei ‘60 né
il suo ricco filone prog dei ‘70
(tra l’altro, dal secondo disco
in poi avevano anche imparato
a suonare: rock, punk, un po’
di new wave, ma li sapevano
suonare).
E’ la sintesi di tutti questi elementi, alcuni nuovi altri usati
per la prima volta in un certo modo, il punto di originalità degli Skiantos , ciò che
li rende diversi non solo dai
s u c c i t a t i S q u a l l o r, m a a n c h e
da un certo gruppo milanese
di grande successo negli anni
‘90...
Somari, tonti e mezzo
rimbambiti
Ma prima gli anni ‘80, il decennio in cui gli Skiantos prima muoiono, poi provano a
rinascere, infine ci riescono.
E non solo perché dal 1987
in poi la loro attività non ha
più conosciuto soste (sia pure
senza la rilevanza di fine anni
‘70), ma anche perché era già
qualche anno che alcuni gruppi avevano cominciato a raccoglierne il testimone.
Nascono infatti tutta una serie di band che, rifiutando i
buoni sentimenti, la retorica rassicurante, la razionalità ma anche la versione ormai codificata e innocua della
“trasgressione” rock rifiutano
anche quegli elementi che garantiscono il successo presso
il grande pubblico. Infatti restano per lo più in ambito underground (testimone ne è il
fatto che i tentativi di alcuni
manager di rendere più commerciale il suono degli Skiantos non abbiano sortito effetti
monetariamente
apprezzabili), preferendo dedicarsi alla
ricerca di formule personali
per raccontare le loro storie,
declinando a modo loro le intuizioni dei bolognesi.
I T r u z z i B r o d e r s d i To r i n o ,
per
esempio,
ereditano
la
sgangheratezza degli esordi
Skiantos come programmatica
risposta alla New Wave (per
loro il nemico n. 1 del rock
vero) per un realismo nato
dalla metropoli piemontese e
filtrato attraverso l’ironia e
il gioco, per esempio sul linguaggio
pubblicitario
(vedi
Kasamercato ).
Meno stressati i romagnoli
Lino e i Mistoterital e i toscani Edipo e il suo complesso :
l’amore per il rock in entrambi
i gruppi si unisce a un buon
talento melodico, che li rende
artefici di un demenziale più
“gentile” ma comunque efficace nel deridere luoghi comuni
di ogni tipo usando o colpendo
le icone e il linguaggio dei media, nonché il linguaggio tout
court (vedi Tienti le tue trote
per i primi e Ma, Sanga Trafanga per i secondi). Tra un
gioco metamusicale ( Se sono
storie di vent’anni fa , Lino
che omaggia i Beatles e M’è
morto il gatto di Edipo, cover
in pistoiese di With or Without
Yo u b l o c c a t a d a l m a n a g e m e n t
degli U2), qualche storia sur-
reale e una satira sulle vacanze il gioco, svolto con efficacia e talento, è il solito: una
musica che rifacendo in burla
il passato diventa allo stesso
tempo più consapevole, e un
linguaggio che mentre ride e
scherza col dialetto e con i
media fa filtrare storie e sensibilità particolari.
Mentre lo zappiano Sandro Oliva unisce - come il suo maestro - elaborazione musicale e
attitudine d’avanguardia, con
una lingua tagliente e sopra
le righe puntata su conformismo e banalità musicali e non;
mentre negli anni ‘90 Latte e
i suoi derivati bersaglieranno
gli stessi obiettivi per mezzo
di un’impostazione più da comicità classica -sostenuta da
un notevole talento attorialee di un accentuato eclettismo
musicale; mentre un cantautore di talento come il livornese
Bobo Rondelli (del gruppo Ottavo Padiglione) fonde l’amore
per la canzone nobile del filon e Te n c o - C i a m p i c o n l o s p i r i to irriverente della sua città;
mentre sempre nei ‘90 il techno-sciamano MGZ mette alla
berlina le follie della vita moderna su basi Prodigy; mentre
succede tutto questo, intorno
al ‘90 è arrivata la quadratura
del cerchio.
Pierpaolo a Milano: Elio e le
storie tese
Se ridere non è a senso unico, non lo è nemmeno il turpiloquio. Questo era stato un
tratto distintivo degli Squallor
, per i quali nasceva più che
dalla riproduzione senza filtri
del linguaggio parlato, dal gusto goliardico di parlare finalmente di ciò che buona creanza e pruderie impedivano di
trattare esplicitamente nelle
canzoni.
Ma la goliardia, più che essere
una dimostrazione di libertà,
dimostra che la repressione è
innanzitutto nella testa di chi
la pratica. Basterebbe leggere
i testi di Leonard Cohen per
capire come parla di sesso,
s e n t i r e a s c o l t a r e 13 5
per esempio, uno che ha fatto pace con l’argomento e ne
parla in modo davvero libero.
E basterebbe notare che negli Skiantos e negli altri gruppi nominati il turpiloquio, se
non assente, è puramente occasionale e dettato dal contesto, capita come capita nel
parlato quotidiano invece di
essere ostentato come chissà
che cosa esaltante. Certo, nei
romani Santarita Sakkascia il
linguaggio quotidiano è quello
di gente non particolarmente fine, ma come nei momenti
grezzi dell’ Ottavo Padiglione
si sente che è parlata popolare senza filtri, che non stanno
ammiccando ma parlano proprio così. Insomma, saranno
entrambe “volgarità”, ma ammiccare chiamando un disco
Palle non è come dire “largo
all’avanguardia, pubblico di
merda”.
Per cui poi si verifica il curioso fenomeno per il quale, di
tutti i gruppi nominati finora,
quelli che hanno venduto di
più siano stati, contrariamente a quanto si può pensare (e
con l’eccezione dei Santarita
), proprio i più sboccati, ovvero gli Squallor e Elio e le
S t o r i e Te s e .
Nato all’inizio degli anni ‘80,
questo gruppo milanese esplode dopo una gavetta decennale nel cabaret verso l’inizio
dei ‘90, trovando appunto la
quadratura del cerchio, cioè
vendere il demenziale, grazie
a una formula di rara efficacia
-almeno commerciale- riassumibile in pochi punti.
1 - Una tecnica strumentale
notevole che li legittima
davanti ai critici, attira i
cultori del virtuosismo e dà
una giustificazione a chi si
vergogna di ascoltare un
gruppo che “scherza” o “dice
le parolacce”.
2 - Citazioni furbe di
elementi dell’immaginario
trash, che si inseriscono
nel revival e fanno “gruppo
arguto” solleticando la
13 6 s e n t i r e a s c o l t a r e
memoria di un pubblico più o
meno coetaneo.
3 - Un’epica dello sfigato
sessualmente represso e
imbranato con le donne,
vagamente maschilista, che
n e l p a e s e d e l Va t i c a n o n o n
poteva che spopolare.
4 - Analogo quindi il modo
in cui parlano di sesso
o di funzioni corporali:
compiaciuto e allo stesso
tempo innocuo, è quello del
bimbetto che dice “cacca”
per scandalizzare il parroco
pensando di aver fatto chissà
cosa.
Risultato? Il culto di milioni
di
fans,
che
premiano
perfino un album trainato da
un singolo come Shpalmen
(quella
h
odiosa,
chissà
perché), nel quale si parla di
un supereroe che spalma di
sterco i suoi nemici: poi dice
che Freak Antoni si incazza...
e infatti sono anni che li
accusa di monetizzare le sue
intuizioni con una versione
annacquata
delle
stesse.
Va d e t t o c h e q u a n d o l a s c i a n o
perdere il turpiloquio gratuito
e si abbandonano alla demenza a ruota libera (come nelle
notevoli cover Nella vecchia
azienda agricola o in Born to
be Abramo) in effetti funzionano; e fu ammirevole il gesto di sfruttare una diretta televisiva per leggere la fedina
penale di Ciarrapico. Però,
perché rovinare il possente
jungle-punk de Lo stato A lo
stato B col solito testo su un
ragazzo e una ragazza che
avrebbe potuto scrivere qualsiasi adolescente col terrore
delle donne? Perché, quando
si è capaci di una satira intelligente come quella della sanremese La terra dei cachi, o di
colpi di genio come Mio cuggino (sulle leggende urbane) o I
mortacci (sulle star morte che
in realtà sarebbero vive) continuare a elencare volgarità
da asilo con quel tono di voce
infantilmente compiaciuto?
E tra chi ti provoca a una reazione chiamandoti “pubblico
di merda”, e sfotte i luoghi comuni che sei stato troppo pigro per mettere in discussione
da una parte, e chi ti fa fare
due risate assolutamente non
impegnative facendo un’epica
dei tuoi difetti dall’altra, chi
era più probabile che avesse
seguito e successo?
Prossimamente su SA un libro
virtuale dedicato al Rock Demenziale italiano, con analisi
e testimonianze esclusive dei
protagonisti.
rubrica la sera della prima
a c u r a d i Te r e s a G r e c o
Romance & Cigarettes (di John Turturro, USA, 2005)
Sorprende venire a conoscenza che come prima scelta per il
protagonista del suo terzo film (James Gandolfini, il complessato mafioso della serie tv I Soprano) John Turturro avesse in
origine pensato a Bruce Springsteen, omaggiato nella pellicola
con Red Headed Woman. Non avrebbe forse sfigurato nel ruolo di un working man neworkese, ma tant’è, è andata meglio
così.
Gli attori (Gandolfini, Susan Sarandon, Steve Buscemi, Kate
Winslet, Cristopher Walken tra gli altri) sono infatti il perno su
cui si regge Romance & Cigarettes, film onirico coeniano (producono infatti i fratelli Joel ed Ethan) e bukowskiano, progetto
che per una decina d’anni è covato nella mente di Turturro; un
omaggio da un lato alla commedia musicale e alle sue origini
(la madre cantante, la sua passione per la musica), dall’altro
al cinema da cui proviene e alla passione per l’immaginario
dell’eccesso di Charles Bukowski.
Sulla base di una storia di tradimenti e passioni (un operaio
tradisce la moglie con la volgare e provocante Tula, una sboccatissima Kate Winslet), il regista costruisce un musical giocato sull’ironia e sul gusto per l’assurdo, in cui però si rivelano
vistose falle nella sceneggiatura e nel finale consolatorio (lui
ritorna dalla moglie), e una costruzione troppo meccanica nel
passaggio alla parte musicale. I film finisce così per essere un
minestrone di generi e citazioni, senza la genialità dissacrante
dei Coen. Numerosi infatti sono i riferimenti, da Ballando sotto
la pioggia al Titanic (la scena della sirena Winslet sott’acqua)
alle atmosfere da Grande Lebowski, in un miscuglio che finisce per essere fumettistico e iperreale. Alcuni attori sembrano
fare autoparodia dei loro ruoli più famosi, da Walken (sopra le
righe, come in Ferrara) alla Sarandon (la casalinga frustrata
di Thelma e Louise). Colonna sonora a tema: l’amore e le sue
variazioni, le vittime e i tradimenti, le passioni, da Janis Joplin
(Piece Of My Heart) a Springsteen, dalle canzoni italoamericane (ma c’è anche l’italiana Quando m’innamoro), a James
B r o w n ( I t ’ s a M a n ’ s W o r l d ) e To m J o n e s ( D e l i l a h ) .
In sostanza, un’occasione che poteva essere giocata meglio e
un film che rimane in superficie, senza realmente mai graffiare. Peccato.
Te r e s a G r e c o
s e n t i r e a s c o l t a r e 137
Radio America (di Robert Altman, USA, 2006)
Robert Altman (premio alla carriera ai recenti Oscar) dedica la
sua ultima fatica a una gloriosa trasmissione musicale radiofonica americana, A Prairie Home Companion (che è anche il
titolo originale del film) che nella realtà va in onda in diretta
da oltre 30 anni.
Film corale, come d’altra parte Nashville e America oggi, non
raggiunge i loro livelli, mantenendosi entro il canone del genere, con solide interpretazioni attoriali: su tutti, Meryl Streep,
L i l y To m l i n , K e v i n K l i n e , G a r r i s o n K e i l l o r . I l t e m a s u c u i r u o t a
la pellicola è la malinconia per un’epoca e un modo di vivere
che non esistono più; prendendo a pretesto l’ultima puntata
dello show (ambientato nell’America rurale del Midwest) e le
e s i b i z i o n i d e i c a n t a n t i ( e s s e n z i a l m e n t e c o u n t r y, m a a n c h e j a z z ,
gospel, swing), il film mostra le differenze generazionali (madre cantante country/figlia dark), di linguaggio e di costume
(le canzoni piene di osceni giochi di parole non esattamente
politically correct di due cantanti country), la fine di un’epoca
ingenua e non in vendita, a scapito della mercificazione odierna. Il teatro in cui lo show si svolge infatti sarà demolito per
far posto a un parcheggio, evento di ordinaria amministrazione nei tempi della società dei consumi e del commercio, a cui
quasi non si fa più caso. Ennesima riflessione sui media e sul
loro potere sulla vita, la politica e la società, a suo modo un
film impegnato del democratico Altman.
Se da un lato il regista usa la struttura del film coral-musicale
à la Nashville, dall’altro aggiunge qua e là citazioni dal noir
anni ’40 (anche nell’ambientazione, con incipit e finale da diner
uscito da un quadro di Hopper) e dal film investigativo, attraverso il personaggio autoironico e sopra le righe del custode
del teatro, il chandleriano Guy Noire, che fa da narratore (un
Kevin Kline a suo agio nel ruolo). Un ex investigatore privato
appunto, che sa che sta andando in onda l’ultima puntata e che
verrà ad assistervi il futuro proprietario del teatro, sarcasticamente mostrato come tycoon ignorante , il cui predominio sarà
inevitabile. A questo status quo, di per sé eloquente, il regista
aggiunge un elemento di irrazionalità, di cui forse si poteva
fare a meno: una donna misteriosa (un fantasma), si aggira per
il teatro, visibile solo ad alcuni, una sorta di fato ineluttabile,
una nemesi che alla fine compirà il suo disegno per il bene
d e l l o s h o w. M a s a r à d e l t u t t o i n u t i l e .
Le leggi spietate dello spettacolo (lo show deve continuare a
tutti i costi, anche dopo la morte di un anziano cantante, tenuta nascosta) dominano gli eventi, anche nel finale, in cui si fa
capire che la demolizione dell’edificio in cui si trova il teatro
avverrà, nonostante tutto.
Film a più voci, ben diretto e recitato, non fa eccezione allo
schema del film altmaniano, dove ogni scena e frammento celano anche qualcos’altro, in un doppio livello di lettura e di
significati. Dove perde è nell’eccessiva freddezza e nel poco
coinvolgimento umano: tutto resta come in superficie, una rappresentazione analitica, su più livelli, ma fredda emotivamente
e mai empatica. Un film su commissione, quindi, con il tocco
del maestro.
Te r e s a G r e c o
138 s e n t i r e a s c o l t a r e
cultmovie
I 400 colpi (di François Truffaut, Francia, 1959)
Primo lungometraggio del regista francese, I 400 colpi è un
film di formazione che rispecchia in parte, trasfigurandola e
universalizzandola, la materia autobiografica di François Truffaut, la cui infanzia e adolescenza furono non poco turbolente.
Fece “il diavolo a quattro” (questo è il significato del titolo,
un’espressione gergale) anche lui, come d’altra parte il giovane protagonista, Antoine Doinel (Jean Pierre Léaud).
Il tema del film è la realtà osservata dal punto di vista di un
adolescente, Antoine, le cui aspirazioni alla libertà e alla conoscenza non vengono colte dal mondo indifferente degli adulti, persi nel loro egoismo; da qui deriva la solitudine e l’angoscia, il sentirsi rifiutato e il tentativo di un approccio con
l’universo della ragione (e del buon senso) e con sue regole,
che non capisce e da cui si sente escluso. Il sentirsi costretto
e imprigionato (anche letteralmente, nelle scene del riformatorio), è una costante della pellicola, che si riflette anche nella
diversa impostazione delle scene in interni, claustrofobiche e
statiche, rispetto a quelle in esterni, dove dominano i movimenti di macchina lunghi e dinamici.
Truffaut segue Antoine, che è costantemente in campo, mostrandone a commento i primi piani (permettendo così l’identificazione da parte del pubblico), lasciando al giovane attore
libertà di esprimersi (come ricorda il regista: “Ho lasciato a
Jean Pierre piena libertà di rispondere, perché volevo le sue
parole, le sue esitazioni, la sua spontaneità totale”). Nel famoso finale, con Antoine in fuga, la corsa del ragazzo viene
seguita dalla macchina da presa, con lunghe carrellate, attraverso la campagna, fino all’ultima meta, il mare (che non aveva
mai visto e su cui fantasticava): qui capisce che c’è un prezzo
per la libertà, forse il primo passo verso un inizio di crescita e
consapevolezza. Il suo primo piano sconvolto e attonito è indimenticabile, il regista lascia che siano i suoi occhi a esprimere
il disagio e la disperazione. Un finale aperto, quindi. Senza
risposte.
Lo sguardo del regista non scade mai nel patetico e nel pietismo, è antipoetico, memore della lezione di Rossellini (Germania anno zero, Roma citta aperta), Renoir e Vigo ( Zero
in condotta), e il tema dell’infanzia a lui caro, tornerà nei
film successivi (Il ragazzo selvaggio, 1969 e Gli anni in tasca, 1976). Il personaggio di Antoine Doinel seguirà Truffaut e
L é a u d i n a l t r e q u a t t r o p e l l i c o l e , L’ a m o r e a v e n t ’ a n n i ( e p i s o d i o
Antoine e Colette, 1962), Baci rubati (1968), Domicile conjugal
( 1 9 7 0 , L’ a m o r e f u g g e ( 1 9 7 9 ) , u n a s a g a D o i n e l , n o n p r i v a d i i r o nia sottile, sull’educazione sentimentale del protagonista.
Vincitore della Palma d’Oro a Cannes per la miglior regia nel
1959, il film fu dedicato ad André Bazin, fondatore dei Cahiers
du Cinema, scomparso appena un anno prima, maestro e mentore del regista, attraverso il quale Truffaut iniziò il mestiere
prima di critico e poi di regista. Figura fondamentale a cui il
Nostro deve molto. I 400 colpi segnò un esordio memorabile
p e r Tr u f f a u t e p e r l a N o u v e l l e Va g u e t u t t a c h e c o m i n c i a v a a l l o ra la propria affermazione in Francia e all’estero.
Te r e s a G r e c o
s e n t i r e a s c o l t a r e 13 9
rubrica i cosiddetti contemporanei
a cura di Daniele Follero
Pierre Schaeffer
Considerato da molti uno sperimentatore più che un musicista, un
tecnico del suono più che un artista, Pierre Schaeffer ha dovuto
lottare contro le reticenze di un’opinione pubblica assolutamente
impreparata al suo approccio musicale, che cinquant’anni dopo
sarebbe diventata la prassi compositiva più utilizzata: il campionamento.
“Sfortunatamente ci ho messo quarant’anni a capire che non è
possibile niente al di fuori delle note Do Re Mi. In altre parole…ho perso la mia vita” (Pierre Schaeffer)
Il padre d e l c a m p i o n a m e n t o
di
Se si fa caso alla sproporzione tra il successo (quasi
nullo) e l’influenza (capillare) delle sue idee musicali, si
può comprendere meglio l’isolamento della figura di Pierre
Schaeffer e al contempo, la
sua grande importanza storica.
Considerato da molti uno sperimentatore più che un musicista, un tecnico del suono più
che un artista, il compositore francese ha dovuto lottare
contro le reticenze di un’opinione pubblica assolutamente
impreparata al suo approccio
musicale,
che
cinquant’anni dopo sarebbe diventata la
prassi compositiva più utilizzata: il campionamento. La
140 sentireascoltare
Daniele Follero
pratica di registrare i suoni
dalla natura, modificandoli su
nastro o su disco, cioè, quella
che lui stesso definì musique
concrète, cos’è se non la fase
embrionale del campionamento?
Sono molti più di quelli che
ne sono consapevoli, in realtà, gli artisti che devono a
Schaeffer il merito di aver
dischiuso un ambito prima di
allora inesplorato e di aver
aperto un vero e proprio vaso
di Pandora, che ha allargato
oltremodo i confini della produzione musicale. Gli esperimenti su nastro magnetico di
Steve Reich, i procedimenti
compositivi della techno e le
costruzioni ritmiche dell’hip
hop si può dire che abbiano
lo stesso padre “spirituale”,
che come tale, per il bene dei
suoi figli ha sacrificato la sua
fama lasciandosi alle spalle
un’eredità pronta per essere
raccolta.
Con questo non si vuole assolutamente dire che senza la
musique concrète non sarebbe nata l’house music. Questo
determinismo
semplicistico
non renderebbe giustizia alle
sfumature storiche e alle dinamiche socio-culturali che
caratterizzano i cambiamenti musicali, né al senso delle
differenti funzioni e strutture
musicali che i generi assumono con il tempo. Ma dire che il
pionierismo (sia a livello tec-
nologico che strettamente artistico) del compositore francese abbia dato il “la” ad un
modo radicalmente diverso di
fare musica mi sembra un dato
di fatto ineludibile.
Sfortunato pioniere naufrago
nel mare magnum della tradizione europea
I concetti di “paesaggio sonoro”, di “object trouvé” e di “musica concreta” trovano posto
nel linguaggio musicale per la
prima volta attorno agli anni
Cinquanta. Ma nata in una Parigi che non conosce ancora le
frenesie consumistiche della
società occidentale, la musica “concreta” non ha lo stesso impatto e la stessa fortuna
degli esperimenti aleatori di
Cage e delle tecniche seriali
della pop art, che negli U.S.A.
trovavano un terreno più fertile perché meno legate ad una
tradizione artistica “pesante”,
a dir poco ingombrante, come
quella europea.
Nell’epoca dominata dai postweberniani di Darmstadt, impegnati a (pro)seguire il percorso tracciato dalla scuola
viennese della triade Schoenberg-Berg-Webern, in un rapporto costante con i linguaggi tradizionali del repertorio
storico occidentale, la “musica” di Scheffer appare come
un’isoletta perduta nell’oceano, inaccessibile perché incomprensibile. Eppure a suo
modo il compositore di Nancy
si collega con questa tradizione, se non altro per l’interesse con il quale si concentra sulla dimensione spaziale
della musica, già esplorata da
Anton Webern con le sue melodie di timbri.
Ma la dimensione “oggettuale”
della musica, il fulcro delle
teorie schaefferiane, cozzava
con uno dei principi basilari della musica stessa e cioè
l’organizzazione del suono.
Nella “musica concreta” l’oggettività con la quale il suono
si pone rispetto all’ascoltatore non ha precedenti nella
storia musicale europea, ed
è soprattutto per questo che
il suo tentativo di imporsi ad
orecchie abituate a tutt’altri
linguaggi risultò fallimentare, almeno in una prima fase.
Lo stesso Schaeffer criticherà
i suoi primi esperimenti e, in
effetti, spesso i primi esempi
di questo tipo di composizioni
non vanno molto al di là del
pastiche umoristico, del “vitalismo macchinistico alla Russolo o alla Honegger” (Andrea
Lanza). Tra le prime composizioni, forse solo la Symphonie
Pour Un Homme Seul, scritta
a quattro mani con il composi-
tore Pierre Henry è quella che
rappresenta
meglio
questo
primo periodo e allo stesso
tempo riesce a fondere intenti
artistici e sperimentazione. La
“sinfonia” rappresenta sonoramente la giornata di un uomo
con respiri, passi, porte sbattute, quasi a fare da colonna
sonora dell’Ulisse di Joyce.
La svolta del ‘51
E’ evidente che una musica
basata
unicamente
sull’uso
delle tecnologie abbia come limite maggiore proprio l’entità
di questi strumenti di lavoro.
Di fatto, il passaggio dal pic-
sentireascoltare 141
colo studio d’ Essai alla fondazione del Group de Recherches de Musique Concrète,
nel 1951, finanziato dalla radio francese, rappresenta una
svolta epocale per la scuola
concreta (a cui si ascrivono,
o l t r e a l l o s t e s s o S c h a e ff e r,
alcuni suoi colleghi tra cui
Henry e il fisico Abraham Moles). La possibilità di utilizzare apparecchiature per la registrazione magnetica su tre
piste invece dei rudimentali
giradischi dell’epoca d’Essai
crea un accelerazione vorticosa nella spinta alla sperimentazione del gruppo, suggellata
dal trattato di Schaeffer A La
Recherche d’une musique concrète (1952) che, parodiando
il tempo perduto di proustiana
memoria, prova ad esporre i
principi tecnico-estetici della
sua filosofia musicale. Si intensificano in questo periodo
anche i contatti con la scuola di Darmstadt che daranno
vita ad interessanti, anche
se isolati, episodi di collaborazione. A rispondere all’appello saranno: Pierre Boulez
(Etudes,1952), Iannis Xenakis
(Diamorphoses, 1957) e Messiaen (Timbres-Durèes), ma
sarà l’arrivo a Parigi di Edg a r d Va r è s e a d a r e l ’ a p p o r t o
artisticamente decisivo alla
musique
concrète
con
Dèserts e con il famoso Poème
Electronique.
Da questi anni di grande cambiamento nasce anche il primo
tentativo di creare un’”Opera
concreta”. Il titolo di questo
lavoro teatrale, Orphèe 1953,
rimanda ad uno dei soggetti più
utilizzati nel teatro d’opera,
addirittura il primo in assoluto: la prima opera della storia
è considerata infatti l’Euridice
di Jacopo Peri (1600), basata
proprio sul mito di Orfeo, a cui
seguì pochi anni dopo l’Orfeo
di Claudio Monteverdi (1607),
per non parlare della riforma
operistica di Gluck con Orfeo
ed Euridice (1762). Un’opera,
dunque che si pone in relazione con il passato e con il
142 sentireascoltare
futuro contemporaneamente e
fa da premessa ad una fase
del lavoro di Schaeffer in cui
la ricerca si fa sempre più rigorosa, con un controllo sempre più rigido e catalogatorio
sui materiali sonori. Frutto di
questo periodo saranno alcune brevi composizioni (ed il
Traitè des Object Musicaux
del 1966) che testimoniano
già dai titoli un allontanamento dalla prospettiva “naturalistica” verso un maggiore intimismo (Aux Sons Animes, Aux
chiuso il capitolo della musica
“concreta”. Se è vero però che
la produzione di composizioni dichiaratamente “concrete”
quasi si arresta a partire dagli anni ’60, è pur vero che le
suo idee prenderanno il largo
e invaderanno tutti i generi
musicali, camminando sempre
di pari passo con il progresso
tecnologico.
Esiste un filo rosso che unisce agli esperimenti del compositore francese tanto alla
musica intenzionalmente “og-
Allures).
Interrotta
la
collaborazione
c o n i l f e d e l e P i e r r e H e n r y,
Schaeffer si avvicinò, verso
la fine degli anni Cinquanta,
ad una diversa cerchia di collaboratori, tra cui spicca il
nome di Luc Ferrari.
A questo punto le cronache si
interrompono e non perché sia
venuto meno il suo protagonis t a p r i n c i p a l e ( S c h a e ff e r, n a t o
nel 1910 ci ha lasciati solo di
recente, all’età di 85 anni),
quanto perché si è ritenuto
gettistica” dei Matmos, quanto
ai loop ripetitivi e stratificati
della minimal techno, almeno
dal punto di vista dei processi compositivi. La creazione
di un ambiente sonoro e il fascino per gli accostamenti di
suoni campionati e la loro elaborazione appartengono sempre di più alla nostra cultura
e oggi li percepiamo con una
certa naturalezza. Riflettere
su chi ha dato il via a questa nuova “mentalità” ci aiuta
a comprendere e ad apprezza-
re meglio il ruolo del pionierismo, dell’avanguardia, nella
nostra società. Quell’affascinante guardare “troppo” in
avanti rispetto agli altri che
qualcuno chiama “genialità”.
The Essential Pierre Schaeffer
• Etudes De Bruits (1948)
• Symphonie Pour Un Homme Seul (con Pierre Henry - 1949)
• Etudes Au Piano I & II (con Pierre Boulez – 1951-52)
• Orphèe 1953 (1953)
• Continuo (1958)
• Etudes (Aux Sons Animes; Aux Allures; Aux Objets
1958-59)
Assaggi di Musica Concreta:
Pierre Henry
• Antiphonie (1952)
• Astrologie (music for film) (1953)
• Va r i a t i o n s P o u r U n e P o r t e E t U n S o u p i r ( 1 9 6 3 )
Olivier Messiaen
• Timbres-Durèes (1952)
• Andrè Hodeir
• Jazz Et Jazz (Per piano e nastro magnetico) (1952)
Ivo Malec
• Mavena (1957)
Luc Ferrari
• Visage V (1959)
Iannis Xenakis
• Diamorphoses (1957)
• Concert PH (1958)
sentireascoltare 143
rubrica on Connaït la chanson
a cura di Andreas Flevin
Joseph D’Anvers
Les choses en face è l’esordio del parigino Joseph D’anvers,
giovane autore che rientra a pieno titolo nella nuova generazione
di chanteurs-compositerus che imperversa di recente in Francia
nel completo rispetto della tradizione.
Le ch o s e s e n f a c e
di Andreas Flevin
Spesso, davanti a un lavoro
di questo genere, si dice che
c’è chi lo ha già fatto prima
e meglio. Il che, in effetti, è
vero, come nel caso dell’opera prima di Joseph D’Anvers,
Les choses en face.
Bisogna però distinguere le
operazioni musicali che nascono con la pretesa (o presunzione) di aggiungere qualcosa di nuovo alla musica,
e quelle che invece nascono
con ben altre preoccupazioni.
Questo album rientra a pieno
titolo nella nuova generazione di chanteurs-compositeurs
che imperversa in Francia nel
completo rispetto della tradizione; più un’esigenza genetica che un piacere, quindi alle
urgenze creative degli autori
si associa il dovere patriottico
di passarsi la staffetta, ad un
certo punto.
All’interno di tali meccanismi
- da cui ogni tanto emerge un
nome che diventa portavoce
di un’intera generazione - ac-
144 sentireascoltare
cadono tanti piccoli episodi
da non sottovalutare, avendo il ruolo di creare l’humus
necessario affinché rimanga
vivo l’interesse e il feeling
per questo modo di intendere l’arte di scrivere canzoni.
In definitiva, è grazie a una
base di tanti piccoli contributi
alla canzone francese che gli
autori più grossi riescono tutt’ora ad emergere e diventare
rappresentativi.
E’ presto per dire se Joseph
D’Anvers continuerà ad alimentare l’humus o se in futuro sarà promosso al grado di
“pezzo di storia della canzone
francese”; fatto sta che l’attenzione di pubblico e critica
per il suo lavoro lascia supporre che in lui ci credono e
scommettono.
Il nome di D’Anvers deriva da
un quartiere parigino nei pressi del noto quartiere Pigalle,
e ciò denota già da subito il
genere di approccio alla città
e al modo in cui si sceglie di
viverla: la vita in gran parte
limitata a un unico quartiere
– o arrondissement – è una
precisa scelta che si fa per
potersi ritagliare uno spazio a
propria dimensione, all’interno di una metropoli dispersiva
come Parigi.
I testi e le sonorità di D’Anvers, al pari della stragrande
maggioranza delle produzioni
della capitale francese, raramente suggeriscono una dimensione caotica e frenetica,
ma piuttosto un quotidiano più
a portata di mano e per questo a tutti più comprensibile,
come un andare al bar sotto
casa, citofonare agli amici
che abitano ad un isolato da
te, fare la spesa sempre dallo stesso negozio di alimentari, il tutto reso esistenziale
in quanto vissuto. Più un racconto è vicino all’autore, più
sarà comprensibile per chi lo
ascolta.
Joseph D’Anvers ha pubblicato il suo primo album solo nel
2006, ma musicalmente è nato
già alcuni anni fa quando cercava di conciliare il suo lavoro “ufficiale” di tecnico delle
luci per il cinema a quello di
autore di canzoni.
I primi esperimenti finirono
nel dimenticatoio ben presto,
in seguito alla totale indifferenza delle etichette alle quali i promo furono inviati.
Grazie a un incontro con il
produttore Daniel Darc, D’Anvers si convince a rivedere le
basi stesse del suo operato,
riscrivendo testi e musica e
modificando
l’organico
per
dare all’insieme un carattere
un po’ meno “solito”; è a questo proposito che si fa rilevan-
te l’intervento, per il sound
e gli arrangiamenti, di JeanLouis Piérot, già collaboratore di Alain Bashung, Brigitte
Fontaine, Etienne Daho, tutte
figure chiave (in particolare
i primi due) di un modo tutto
nuovo di intendere lo standard
della canzone d’autore.
Forte dei suggerimenti avuti,
Joseph D’Anvers invia alcune
delle canzoni riscritte o appen a c o m p o s t e a l l a FA I R ( i l f o n do per il sostegno alle iniziative rock: tenetelo in mente e
immaginate se potrà mai esserci nulla di simile in Italia).
Da questo punto in poi le cose
s i a c c e l e r a n o d o p o c h e l a FA I R
promuove l’autore nel 2004 e
ne consente l’accesso ad una
importante selezione pubblicata nel 2005 da Les Inrocks,
a cui segue una proposta discografica con l’etichetta Atmospherique. E’ proprio con
questa label che un anno dopo
esce Les choses en face.
Maneggiare del materiale musicale in origine destinato ad
essere “canzone d’autore francese” condendolo con elementi che ne deviano il percorso
rendendolo qualcos’altro, può
essere molto pericoloso.
Per certi versi la forza di quest’album è il tentativo di osare, anche se in maniera poco
appariscente, nel tentativo di
creare commistioni - in parte
più prossime alla musica anglosassone – tra rock, folk,
un po’ di ritmi jazzy e il cantautorato anni 70, in alcuni
momenti
lasciando
pensare
persino ai Tindersticks o Jeff
B u c k l e y. D a u n a l t r o p u n t o d i
vista, sporcare dei brani che
per loro natura sono assolutamente riconoscibili in un
contesto tradizionalista con
qualcosa che li renda a tutti costi “originali”, è ciò che
farà invecchiare precocemente l’album.
Nel brano considerato il “faro”
del disco, La vie est une putain, D’Anvers si avvale della
collaborazione di Miossec, il
quale non esita a peggiorare
rovinosamente il pezzo sbraitando il titolo in maniera insostenibile.
Da qui sorge spontanea la domanda su cosa il pubblico – il
grande pubblico –, così come
la critica ufficiale, si aspetti
da un nuovo autore e cosa di
lui davvero percepisca, se la
canzone più rappresentativa
dell’album va a finire che è la
peggiore di tutta la tracklist.
Il pezzo più bello e toccante
rimane invece –e senza ombra
di dubbio - Les Treves per la
sua semplicità e poeticità e
una marcia in più che potrebbe far sopravvivere il brano
persino al proprio autore.
La voce di D’Anvers (che ri-
sentireascoltare 145
corda talvolta quella di Nicolas, voce dei Superflu) funziona perfettamente nel contesto
delle sue composizioni nelle
quali si fondono armonicamente archi, chitarre acustiche ed
elettriche, ed è bella come lo
sono tutte le cose dimesse e
poco appariscenti, cosa che
non accade con tutti quei cantanti che vogliono dimostrare
come hanno speso bene i loro
soldi in lezioni private di canto.
Nonostante tutto risulta difficile riuscire a svelare un
volto, ovvero una personalità
precisa, dietro quella voce che
resta comunque molto meno
improntata di quella di un Delerm ad esempio, che uno può
amare o no, ma di cui rimane
innegabile la forte personalizzazione.
Ascoltare Les choses en face
è facile e pulito come descrivere qualcosa avendolo davanti agli occhi, anche perché è proprio di questo che le
canzoni raccontano: tutto ciò
che l’autore si sente in grado
di narrare perché lo conosce,
semplicemente, che è molto meglio di cantare di grandi temi senza sapere bene di
cosa si stia parlando.
Le cose che abbiamo di fronte,
dunque, come nella più banale delle ipotesi hanno sempre
un loro rovescio della medaglia, che spesso si può tradurre piuttosto in una difficoltà a
identificare il reale soggetto
di ciò che stiamo guardando. Di queste canzoni appare
ugualmente difficile stabilirne
l’obiettivo, vale a dire il loro
senso reale, proprio perché
rimangono confinate in una
sorta di equilibrio che non lascia intendere se ci sia e quale sia l’intenzione. Un limbo a
metà tra l’esigenza creativa e
la tradizione.
Possiamo immaginare queste
canzoni come un angolo che
al contempo separa ed unisce due superfici: avendo uno
sguardo obbligato su di esso,
nasce spontaneo chiedersi se
146 sentireascoltare
possa essere l’angolo stesso il soggetto principale della nostra visione o se non sia
invece una delle due superfici – e quale – al centro delle
quali esso si colloca.
Per descrivere in breve il suo
primo album, D’Anvers si è
avvalso di un proverbio che in
italiano si può tradurre come:
“A troppo guardare le cose in
faccia, si rischia di rimanere
ciechi”. Parafrasando questo
proverbio,
possiamo
avere
un’idea piuttosto attendibile
di cosa rappresenta questo album, ovvero un lavoro che ad
ascoltarlo troppo, si rischia di
rimanere sordi; forse perché
viene di sforzarsi a trovare
spiegazioni, novità, particolarità e sperimentazioni che
non ci sono, poiché si tratta in
definitiva “solo” di un lavoro
sulla canzone e sul mestiere
di scriverle, che ha a che fare
da un lato con l’universo intimo dell’autore e dall’altro con
la storia della canzone francese la quale, a sua volta, per
esistere necessita ancora e
sempre di nuovi nomi che la
mantengano in vita. D’Anvers
è uno di questi.
Scarica

Scarica pdf - SentireAscoltare