SENTIRE A SCOLTARE online music magazine GIUGNO / LUGLIO / AGOSTO N. 20 Lisa Germano Grandaddy Matthew Herbert Tv On The Radio Triosk Futureheads Scritti Politti Primavera s e n t i r e Sound a s c o l t a r2006 e Pierre Schaeffer This Heat Sebadoh Devo Arthur Russell in copertina Lisa Germano SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore Edoardo Bridda Direttore responsabile Ivano Rebustini Provider NGI S.p.A. Copyright © 2006 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare sommario 4 News 1 0 Speciali 21 St u a r t A . S t a p l e s , Tr i o s k , T h e F u t ure h e a d s , M a t t h e w H e r b e r t , G r a n d a d dy, L i s a G e r m a n o . . . 4 5 Recensioni Cur r e n t 9 3 , H o t C h i p , T h e L a t e C o r d , Son i c Yo u t h , T h o m Yo r k e , T v O n T h e Rad i o , J o h n n y C a s h . . . 100 9 6 Dal vivo Pr i m a v e r a S o u n d , A n g e l i c a , K r o n o s Qu a r t e t , O r b , B a u s t e l l e . . . 1 0 9 Rubriche We A r e D e m o : S i s t e r D e w, P i n k i e & S.A . D . E . , C r a b w a y, P a l c o n u d o . . . Clas s i c : D e v o , S c r i t t i P o l i t t i , T h i s Hea t , S e b a d o h , A r t h u r R u s s e l l . . . I co s i d d e t t i c o n t e m p o r a n e i : P i e r r e Sch a e ff e r Cine m a : Radio America, R o m a n c e & Ciga r e t t e s , i 4 0 0 C o l p i Can z o n e f r a n c e s e : J o s e p h D ’ A n ve r s Direttore Edoardo Bridda Direttore responsabile Ivano Rebustini Coordinamento Antonio Puglia Consulenti alla redazione Daniele Follero Stefano Solventi Staff Valentina Cassano Antonello Comunale Teresa Greco Hanno collaborato Gianni Avella, Filippo Bordignon, Marco Braggion, Gaspare Caliri, Andrea Erra, Andreas Flevin, Paolo Grava, Manfredi Lamartina, Andrea Monaco, Giulio Pasquali, Marina Pierri, Stefano Pifferi, Stefano Renzi, Italo Rizzo, Michele Saran, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi 111 46 Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) Grafica Paola Squizzato, Squp, Edoardo Bridda sentireascoltare news a c u r a d i Te r e s a G r e c o Syd Barrett si è spento nella sua casa di Cambridge all’età di 60 anni. La notizia è stata resa nota dal management dei Pink F l o y d l ’ 11 l u g l i o , m e n t r e i l d e c e s s o d o v r e b b e e s s e r e a v v e n u t o due giorni prima, a causa di complicanze derivate dal diabete... In una recente intervista al Guardian, Brian Eno conferma la reunion dei Roxy Music: non prenderà parte ai concerti, ma scriverà due nuovi pezzi per il disco previsto per il prossimo autunno, partecipando anche in altri brani con parti di pianoSyd Barrett forte… In uscita il 6 giugno per la Family Vineyard un triplo box set di Loren Mazzacane Connors, Night Through: Singles & Collected Works, 1976-2004 contenente singoli e materiale inedito… Il prossimo mese vedrà la luce il primo singolo degli Who dopo 23 anni; potrebbe essere Wire & Glass, versione condensata ( d i b e n 11 m i n u t i ! M a p o t r e b b e s u b i r e a c c o r c i a m e n t i ) d i u n a rock opera dal titolo omonimo. In uscita ad ottobre il nuovo album di studio (o così pare)… J o s e p h i n e F o s t e r e n t r a a f a r p a r t e d e l r o s t e r d e l l a Yo u n g G o d e annuncia l’inizio della registrazione del nuovo disco, dopo il recente A Wolf In Sheep’s Clothing… I Decemberists sono al lavoro al prossimo disco, The Crane Wife. Meloy e soci ne hanno annunciato l’uscita su Capitol per il 3 ottobre in un messaggio alla loro fan mailing list… Il nuovo disco di Bonnie ‘Prince’ Billy, Then The Letting Go, registrato in Islanda lo scorso inverno con il produttore di B j o r k , Va l g e i r S i g u r d s s o n , u s c i r à i l 1 8 o t t o b r e p e r l a D o m i n o i n Inghilterra e per la Drag City in America, preceduto dal singolo Cursed Sleep previsto il 24 luglio… P r i m o d i s c o s o l i s t a p e r B r e t t A n d e r s o n . L’ a l b u m v e d r à l a l u c e non prima del gennaio 2007. Una buona parte è già stata regis t r a t a i n s i e m e a B e r n a r d B u t l e r d u r a n t e i l p r o g e t t o T h e Te a r s … Progetti in vista per Xiu Xiu: esce a settembre su 5RC il nuovo disco, The Air Force, prodotto da Greg Saunier già con i Deerhoof; nello stesso mese sarà pubblicato un EP di ambient music realizzato in collaborazione con Grouper… sentireascoltare David Bowie ospite a sorpresa di David Gilmour: è successo alla Royal Albert Hall il 29 maggio, quando alla fine del concerto ha cantato Arnold Layne e Confortably Numb. Durante lo s h o w, c h e h a v i s t o i l c h i t a r r i s t a i n t e r p r e t a r e a l c u n i c l a s s i c i d e i PF e il suo recente disco solista On A Island, altri ospiti illus t r i : G r a h a m N a s h e D a v i d C r o s b y, c h e h a n n o c a n t a t o c o n l u i S h i n e O n Yo u C r a z y D i a m o n d e F i n d T h e C o a s t O f F r e e e d o m … E ’ r i p a r t i t o l ’ 11 l u g l i o d a M i l a n o i l t o u r m o n d i a l e d e i R o l l i n g Stones, interrotto a causa di un incidente capitato a Keith Richards. In seguito alla caduta da una palma, il chitarrista ha dovuto subire un’operazione al cervello, conclusasi con succ e s s o . I l B i g g e r B a n g To u r p r o s e g u i r à i n a l t r e 2 0 c i t t à , p e r Xiu Xiu concludersi il 3 settembre in Danimarca… Escono l’8 agosto per la Rhino altre ristampe per i Cure, rimas t e r i z z a t e e i n d o p p i o c d c o n b o n u s : T h e To p ( 1 9 8 4 ) , T h e H e a d On The Door (1985), Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987) e The Blue Sunshine (1983) dei Glove, il side-project di Robert Smith e del bassista Steve Severin… I n u s c i t a a s e t t e m b r e s u Yo u n g G o d u n n u o v o a l b u m p e r A k r o n / F a m i l y , d a l t i t o l o M e e k Wa r r i o r, p r o d o t t o d a l l a b a n d e d a M i chael Gira, che vede tra gli altri la collaborazione con il percussionista free jazz Hamid Drake… A distanza di 25 anni tornano i Radio Birdman, leggendaria band punk-rock australiana. Zeno Beach, il nuovo disco, regis t r a t o i n d i c e m b r e , è i n u s c i t a i l 2 2 a g o s t o s u Ye p R o c R e c o r d s . La band si era sciolta nel 1978 prima dell’uscita del secondo disco, per poi riunirsi in alcune occasioni speciali negli anni 90. La Sub Pop aveva pubblicato nel 2001 un best, The Essential Radio Birdman:1974-1978. Quest’estate parte il loro primo tour in America, a settembre toccheranno anche l’Italia (il 29 a Milano, al Rainbow e il 30 a Cesena, al Vidia Club)… Gia annunciata in febbraio, la reunion delle Slits, gruppo punk femminile formatosi nel 1977, si concretizzerà con l’uscita, di un EP in autunno, The Revenge Of The Killer Slits, a cui parteciperà Paul Cook, batterista dei Sex Pistols… A n t o l o g i a p e r g l i S t e r e o l a b s u R h i n o : S e r e n e Ve l o c i t y s a r à pubblicata il 22 agosto, conterrà 16 brani (remixati da Tim sentireascoltare Gane agli studi di Abbey Road), due dei quali provengono da s i n g o l i , J e n n y O n d i o l i n e e Wo w A n d F l u t t e r, i l r e s t o d a g l i a l b u m tra il 1993 e il 2004… Il nuovo disco di Bob Dylan, Modern Times, sarà disponibile dal 29 agosto; registrato tra febbraio e marzo di quest’anno, segue a distanza di 5 anni l’uscita dell’ultimo suo disco, Love & Theft… Stereolab B a r d o H o t e l S o u n d t r a c k è i l t i t o l o d e l n u o v o d i s c o d e i Tu x e d o m o o n , uscito il 13 giugno su Crammed Discs, colonna sonora di un film che la band sta realizzando con l’artista greco George Kakanakis… Come Home, il nuovo album dei Franklin Delano, uscirà in Italia a ottobre su Ghost Records. È stato prodotto a Chicago da Brian Deck (al mixer per Modest Mouse, Iron&Wine, Califone…) e vede la partecipazione, tra gli altri, di Jim Becker dei Califone al banjo e Fred Lomberg-Holm dei Flying Luttembachers al violoncello… In uscita il 26 settembre su Sub Pop il nuovo disco di Wolf Eyes, Human Animal, anticipato da un singolo, The Driller il 25 luglio. È questo il primo album con il nuovo membro Mike C o n n e l l y ( d e g l i H a i r P o l i c e ) , e s e n z a A a r o n D i l l o w a y, c h e h a missato il disco… Secondo disco per Dani Siciliano: Slapper uscirà il 19 settembre su !K7, sarà un album di songwriting, che vedrà il prevedibile contributo di Matthew Herbert, tra gli altri… Da un’intervista a Billboard, si apprende che sta per essere completato il nuovo disco degli Air, che uscirà all’inizio del 2007 su Astralwerks; intanto Dunckel ha un’uscita solista, sempre per la stessa etichetta, prevista per il 19 settembre, sotto il moniker Dankel. Il duo ha scritto la musica per il disco della cantante-attrice Charlotte Gainsbourg, 5:55 in uscita il 28 agosto e ha composto la colonna sonora dell’ultimo film di Sofia Coppola, Maria Antonietta.. Collaborazione per Devendra Banhart nel disco della cantante brasiliana Cibelle, The Shine of Dried Electric Leaves (su Crammed), che vede anche la partecipazione di Seu Jorge… Il bassista degli Arctic Monkeys, Andy Nicholson, ha lasciato la band, ma non è stato ancora rimpiazzato definitivamente; durante gli ultimi concerti il suo posto è stato preso da Nick O ’ M a l l e y, g i à c o n g l i A r c t i c d u r a n t e i l r e c e n t e t o u r i n N o r d America… Necrologi: è morto a 55 anni il 2 giugno scorso in un ospedale californiano Vince Welnick, tastierista dei Grateful Dead dal sentireascoltare 1990; non si conoscono le cause del decesso. Addio anche a Billy Preston, che Si è spento in un ospedale dell’Arizona il 6 giugno scorso, a 59 anni. Il tastierista, malato da tempo, era famoso per aver collaborato con i Beatles, ma aveva lavorato anche con i Rolling Stones per Sticky Fingers ed Exile On Main Street; di recente aveva partecipato a Stadium Arcadium dei Red Hot Chili Peppers. A distanza di tre anni dall’ultimo Echoes, esce il 4 settembre Rapture s u Ve r t i g o i n E u r o p a e M o t o w n / U n i v e r s a l i n A m e r i c a , i l n u o v o disco dei Rapture, Pieces of the People We Love, preceduto dal singolo Get Myself Into It il 21 agosto… News dai festival: reso noto il programma di Strade Blu06, ricco festival che si svolge tra luglio, agosto e settembre a Faenza. Tra i nomi in programma: Green On Red (14 luglio), Howe Gelb, Isobel Campbell, Robin Hitchcock (4 agosto), Giant Sand (5 agosto), Matmos (8 settembre). Il calendario completo su http://stradeblu.org. To r n a F r e q u e n z e D i s t u r b a t e a l l a F o r t e z z a A l b o r n o z d i U r b i n o : con Afterhours e Calla (4 agosto), The Whitest Boy Alive e The Ve i l s ( 5 a g o s t o ) e We A r e S c i e n t i s t s e Tu n n g ( 6 a g o s t o ) ; i l p r o gramma è in via di definizione… Scompare un pezzo di storia musicale inglese: dal 30 luglio la BBC ha deciso di sospendere dopo 42 anni la trasmissione To p O f T h e P o p s , a c a u s a d e l l a c o n c o r r e n z a d e l l e t e l e v i s i o n i musicali; la prima puntata era andata in onda nel 1964, i primi o s p i t i f u r o n o i R o l l i n g S t o n e s c o n I W a n n a B e Yo u r M a n … La RCA/Legacy fa sapere che il 25 agosto uscirà un’edizione d e l u x e d i C o n e y I s l a n d B a b y, i n o c c a s i o n e d e l t r e n t e s i m o a n n i versario del disco di Lou Reed. In doppio CD, conterrà alcune rarità, tra cui le B-side Nowhere at All, Downtown Dirt e Leave Me Alone, le ultime due già pubblicate nel 1992 nel cofanetto Between Thought and Expression. Inoltre ci saranno le versioni d i C o n e y I s l a n d B a b y, S h e ’ s M y B e s t F r i e n d e C r a z y F e e l i n g r e g i s t r a t e c o n l ’ e x - v e l v e t D o u g Yu l e d u r a n t e l e p r o v e d e l t o u r nel gennaio 1975, mai pubblicate… La Thrill Jockey farà uscire il 22 agosto un triplo cd compreso d i D V D d e i T o r t o i s e , A L a z a r u s Ta x o n , c h e c o m p r e n d e s i n g o l i , B-sides e rarità… I M a r s Vo l t a h a n n o f i n i t o d i r e g i s t r a r e i l n u o v o d i s c o A m p u t e chture, che uscirà il 15 agosto per la Universal; tra gli ospiti il chitarrista John Frusciante… L a f e s t a p e r i l v e n t i c i n q u e n n a l e d e l l a To u c h a n d G o ! c h e s i terrà a Chicago dall’8 al 10 settembre vedrà molte bands esibirsi, tra cui The Black Heart Procession, Calexico, Big Black sentireascoltare (Steve Albini parteciperà anche con gli Shellac), CocoRosie… Pulp: il 21 agosto usciranno le ristampe di tre dischi, His ‘n’ Hers (1994), Different Class (1995) e This Is Hardcore (1998), comprese di B-sides, rarità, demo; intanto Jarvis Cocker dovrebbe essere al lavoro su un disco solista, in compagnia di R i c h a r d H a w l e y, c h e a c c o m p a g n a v a i P u l p i n t o u r … Dopo undici anni si sciolgono le Sleater-Kinney: ne dà notiSleater-Kinney zia la Sub Pop in un comunicato presente anche nel loro sito ufficiale, in cui non si spiegano la ragione dello split. Le tre musiciste faranno un ultimo tour in America tra la fine di luglio e gli inizi di agosto prima di separarsi… Resi noti altri particolari sulla colonna sonora di Control, film sulla vita di Ian Curtis che Anton Corbijn sta per cominciare a girare; saranno presenti nuovi brani scritti per l’occasione dai New Order oltre a pezzi dei Joy Division e dei Warsaw (primo nome della band) e di altri musicisti, quali Iggy Pop, David Bowie, Lou Reed, Sex Pistols, Buzzcocks, Roxy Music. Per il r u o l o d e l p r o t a g o n i s t a è s t a t o s c e l t o S a m R i l e y, f r o n t m a n d e i 10,000 Things… E’ in preparazione un film sulla vita di Jeff Buckley, nato dall’accordo tra il regista e sceneggiatore Brian Jun e la madre dell’artista Mary Guibert, il cui benestare al film è venuto prevedibilmente senza problemi… Unica data italiana per i Red Hot Chili Peppers, che si esibiranno il 29 novembre al Datchforum di Assago… Annunciato un unico concerto italiano dei Pere Ubu, l’8 ottobre a S.Vito di Leguzzano (VI), in occasione del tour europeo per la presentazione di un nuovo disco, Why I Ate Women, in uscita a settembre… In uscita il primo DVD per il defilato Jandek, Glasgow Sunday (stesso titolo del live pubblicato qualche mese dopo il concerto), relativo alla performance all’Instal festival di Glasgow del 2 0 0 5 , a c c o m p a g n a t o d a R i c h a r d Yo u n g s e A l e x N e i l s o n ; J a n d e k si esibirà a Chicago all’ Adventures in Modern Music Festival (dal 20 al 24 settembre) il 20 settembre… E’ stato pubblicato il 5 giugno Revep, un EP a nome di Alva Noto e Riuichi Sakamoto, che contiene materiale relativo alle precedenti collaborazioni tra i due musicisti, Vrion e Insen, e u n a r i e l a b o r a z i o n e d e l t e m a d i M e r r y C h r i s t m a s M r. L a w r e n c e (Furyo), dal film dell’83 di Nagisa Oshima… Ancora ristampe: sono usciti il 10 luglio su Island / Universal i primi tre dischi degli Ultravox! con bonus tracks (Ultravox !, Ha! Ha! Ha!, Systems Of Romance); John Foxx intanto ha appena pubb l i c a t o u n n u o v o a l b u m s u M e t a M a t i c / A r t f u l R e c o r d s , Ti n y C o l o u r sentireascoltare Movies, 15 tracce strumentali, e ha iniziato un tour europeo… Beck ha terminato di incidere il nuovo disco, di cui non è ancora noto il titolo e che uscirà in autunno, in compagnia di Nigel Godrich, già produttore del fortunato Sea Change; in un’intervista a Mtv durante il Bonnaroo Festival, il musicista ha reso noto che sarà un disco in cui l’hip hop avrà il suo peso Intanto è stata pubblicata solo su iTunes una videoraccolta con 19 pezzi e due bonus, Guess I’m Doing Fine e The Golden Age eseguite dal vivo…, N e w s d a l l a P a w Tr a c k s : è p r e v i s t a p e r i l 3 1 o t t o b r e u n a r i s t a m pa dell’introvabile live degli Animal Collective, Hollindagain Beck (in origine uscito per la St. Ives Records in 300 copie); intant o P a n d a B e a r p r o s e g u e l e r e g i s t r a z i o n i d e l s e g u i t o d i Yo u n g P r a y e r, p r e v i s t o p e r l ’ i n i z i o d e l 2 0 0 7 … Nina Nastasia ha firmato per la Fat Cat e sta preparando un nuovo disco, On Leaving, in uscita a settembre… To r n a l ’ o t t a v a e d i z i o n e d e l N o s i l e n z I n d i e r o c k F e s t i v a l d i 0rzinuovi (BS) dal 20 al 23 luglio, con Piano Magic, Les Fauv e s , G o m o , R o s o l i n a M a r, D e n t e e T h r e e S e c o n d K i s s … Ancora necrologi: è morto a Vienna a 83 anni il compositore G y o r g i L i g e t i . L’ a u t o r e e r a n o t o a n c h e p e r l e m u s i c h e u s a t e nei film di Stanley Kubrick, 2001 Odissea nello spazio, Shining e E y e s W i d e S h u t … E ’ s c o m p a r s o a N e w Yo r k a 7 4 a n n i A r i f Mardin, produttore e arrangiatore per la Atlantic Records, che lavorò per Aretha Franklin, Barbra Streisand, Chaka Khan. sentireascoltare speciale Stuart A. Staples L’ u l t i m o d i s c o L e a v i n g S o n g s , i l f u t u r o d e i T i n d e r s t i c k s , i p r o g e t t i in corso, la malinconia e lo spleen di un artista riservato: Stuart Staples si racconta in un’intervista. That Leaving Feeling d i Te r e s a G r e c o Con i Tindersticks in attesa chissà per quanto altro ancora, Stuart Staples fa uscire a metà del 2006 un secondo disco solista, Leaving Songs, dopo la prova dell’anno precedente, quel Lucky Recordings 03-04, minimale ed eterogenea raccolta di canzoni soffuse. Artista malinconico e riservato, Staples si conferma cantore del disagio esistenziale, perfettamente a suo agio in atmosfere decadenti e fumose da club, la voce da crooner suadente in bilico tra nostalgia e rimpianto, tormenti interiori e umori introspettivi, un beautiful loser alla C o h e n . L’ u l t i m o d i s c o t o c c a i temi della perdita e del rimpianto, del lasciarsi dietro situazioni e persone e del senso di disagio e sofferenza che ne consegue. Ne abbiamo parlato con lui via mail dopo l’uscita dell’album: questo il resoconto dell’incontro. 10 sentireascoltare Il disco uscito l’anno scorso, Lucky Dog Recordings, comprendeva una serie di canzoni registrate nel corso degli ultimi tre anni. Consideri Leaving Songs come il primo disco vero e proprio, cioè un progetto più focalizzato? Con Lucky Dog ho cercato di mettere ordine in uno stato di cose che sentivo confusionario. E’ nato infatti in posti differenti e con diversi obiettivi; l’ultimo è stato realizzato in un arco di tempo minore ed è più focalizzato e conciso. Le canzoni in Lucky Dog erano più spoglie rispetto a quest’ultime, che mostrano arrangiamenti più complessi: è una scelta voluta? Ci sono similarità tra le canzoni dei due dischi? All’inizio le canzoni erano state concepite molto semplicemente, poi nel corso della loro realizzazione, mi sono reso conto che musicalmente necessitavano di molto più lavoro. Suppongo che sia dovuto andare in posti in cui non volevo, per trovarne gli arrangiamenti. Come è nata la decisione di lavorare a Nashville nello studio di Mark Nevers (dei Lambchop) per questo disco? Conosco Mark da molto tempo (dal 2000, quando abbiamo lavorato con la band per il singolo What Is A Man?) e siamo rimasti sempre in contatto. Mi ha offerto un modo in cui potessi realizzare i miei sogni mentre stavo lavorando alle canzoni. Il tema del disco sembra essere quello della perdita, anche amorosa: andarsene, lasciare qualcuno di importante e poi guardarsi indietro, con rimpianto, preparar- si al commiato… Ci puoi dire qualcosa sul mood che lega le canzoni? Le canzoni sono state scritte dal punto di vista di chi è sulla soglia di un cambiamento, con tutti i tormenti che ne conseguono. Credi ci sia un legame tra questo disco e Curtains? Penso che c’è un legame con tutto il mio lavoro, sebbene non credo di aver mai scritto canzoni così facilmente dai tempi del secondo album dei Tindersticks. In Leaving Songs ci sono un paio di duetti, con Maria Mckee (This Road Is Long) e con Lhasa De Sela (That Leaving Feeling). Come sono nate queste collaborazioni? Quando scrivo un duetto, aspetto che la canzone mi faccia venire in mente, in modo naturale, la persona con cui cantarla; con Lhasa questo è avvenuto subito, con Maria invece ho dovuto aspettare parecchio tempo. Puoi dirci qualcosa sulla tua collaborazione, passa- ta e presente con la regista francese Claire Denis (per le colonne sonore dei film Nénette et Boni, 1996 e Trouble Every Day, 2001, con i Tindersticks, e per l’ultimo film L’ i n t r u s , 2 0 0 5 , n d r. ) ? Cosa pensi dei suoi film, c’è qualche similarità con la tua musica? Non ho mai cercato razionalmente di capire se esista in effetti un legame di qualche tipo tra noi due, quando lavoriamo insieme so che qualcosa accade. Alla fine mi sento sempre esausto, ma sono consapevole che è tempo ben speso. A proposito del tuo legame con la Francia, se dovessi scegliere tra Gainsbourg e Brel? Credo che invece sceglierei Leo Ferrè… Leonard Cohen sembra essere una delle maggiori influenze nella tua musica, quanto ti ha influenzato? Ci sono altri artisti a cui ti senti debitore? Sono pochissimi gli artisti a cui mi sento legato profondamente, che fanno ormai parte di me per la vita, Cohen è uno di questi: anche se lo ascolto raramente, so qual è il suo posto. David Boulter e Neil Frazer hanno collaborato con te nel disco; c’è un futuro per i Tindersticks, qualche progetto a venire? Al momento sono totalmente aperto nei riguardi del futuro, infatti non lascio chiusa nessuna porta. Con Boulter e Frazer stai lavorando anche a un altro progetto, Songs For The Young At Heart . Di che si tratta? Il disco è stata un’idea di Dav i d B o u l t e r. S i t r a t t a d i u n i n sieme di canzoni e di ricordi della nostra infanzia, con ospiti scelti per ogni canzone. E’ David (quasi) al suo meglio! Ci sono altri progetti a cui stai lavorando al momento? In questo periodo mi sto divertendo a stare lontano dallo studio, fare concerti e percorrere nuove strade. s e n t i r e a s c o l t a r e 11 Lucky Dog Recordings 03-04 (Beggars Banquet / Self, 2005) Primo disco da solista di Stuart Staples, composto da pezzi registrati nel suo studio nel corso dei due anni a cui il titolo fa riferimento, Lucky Dog Recordings 03-04 segna un cambiamento nelle atmosfere del pop dal mood dark, marchio di fabbrica del gruppo madre, i Tindersticks. Qui infatti Staples riduce la musica all’osso, abbandonando i sontuosi arrangiamenti orchestrali: il disco ruota essenzialmente attorno a piano, organo, e chitarre; lo accompagnano, t r a g l i a l t r i , Ya n n Ti e r s e n ( p i a n o ) , i s o d a l i N e i l F r a s e r ( c h i t a r re) e David Boulter (tastiere), e due membri dei Tiger Lillies, il batterista Adrian Huge e il bassista Adrian Stout. L’ i n c i p i t m i n i m a l e d e l b r a n o d ’ e s o r d i o , p e r s o l o p i a n o ( S o m e r set House), puntellato da una tromba nel finale e dalla voce di G i n a F o s t e r, c i i n t r o d u c e n e l m o o d m e l a n c o n i c o d e l d i s c o , c o n Staples a proseguire la sua lush life decadente, la voce da lang u i d o c r o o n e r, t r a o r g a n o e g l o c k e n s p i e l ( M a r s e i l l e S u n s h i n e ) . Tra un Cohen minimale e un Cave appena oscuro (Shame On Yo u , P e o p l e F a l l D o w n , ) , a p p u n t o . A l t r o v e s o n o a s c i u t t e b a l l a te (Dark Days, per sola chitarra), pezzi dal sapore Tindersticks (Say Something Now con un bel giro di basso) per un album certamente eterogeneo, che va a segnare l’inizio di un nuovo corso per Staples, al di là del cammino intrapreso con la sua band. (6.8/10) Leaving Songs (Beggar’s Banquet/ Self, 29 maggio 2006) Canzoni sulla perdita, sul rimpianto per aver lasciato qualcuno/ qualcosa dietro di sé, non più recuperabile: dieci romantiche, accorate composizioni alla maniera del Cohen più dolente, con il dolore nell’anima e la consapevolezza di dover comunque andare avanti. Questo è Leaving Songs, seconda prova solista - con i Tindersticks in stand-by – di Stuart Staples, disco che v e d e l a c o l l a b o r a z i o n e d e i c o m p a g n i N e i l F r a z e r, D a v i d B o u l t e r e Te r r y E d w a r d s e d i d u e g u e s t s i n g e r , l a c a n t a n t e c o u n t r y M a ria McKee, già nei Lone Justice (in The Road Is Long) e Lhasa de Sela in That Leavin Feeling (struggente ballad call & response, che ricorda il Cohen più orchestrale, nel disco evocato anche dalla presenza dei cori femminili in background, come in The Path). Il lavoro si muove su terreni più convenzionali del precedente Lucky Dog Recordings ’03-’04 (Beggars Banquet / Self, 2005), è più suonato e arrangiato; si snoda tra sussurri acustici (Dance With An Old Man) ed elettrici (Already Gone con un arpeggio di chitarra a far da contrappunto, archi e un organo che cresce lentamente in accompagnamento fino al sax finale, uno d e i p e z z i m i g l i o r i d e l d i s c o ) , u m o r i c o u n t r y i n T h i s O l d To w n , e b a l l a d c r e p u s c o l a r i , c o m e l ’ i n i z i a l e G o o d b y e To O l d F r i e n d s (che procede in crescendo con un malinconico inserto d’organo e fiati in contrappunto). Si ha l’impressione che Staples sia arrivato a un punto della carriera in cui fosse giusto prendere musicalmente una strada parallela: meno crooner maledetto alla Cave e più malinconico chansonnier tra Gainsbourg e un Bryan Ferry poco lezioso, con la voce a rimanere punto di contatto tra i due percorsi, suadentemente melanconica, perfettamente a suo agio nei temi della nostalgia e del rimpianto. Bentornato. (6.9/10) 12 sentireascoltare speciale Triosk Un combo australiano in equilibrio tra jazz e electro, sempre pronto a infilare stendardi canterburiani, minimalismo, ambient e drone music. In tre album una sfida latente: rifondare il sound dei To r t o i s e Jazz rock per il nuovo millennio di Edoardo Bridda Un combo australiano che suona Gil Evans e dissotterra gli stendardi canterburiani infarcendoli di kraut e immergendoli negli errori digitali; un gruppo aperto a istanze exotiche, che usa contrabbasso pensando al dub, senza dimenticare la ricerca timbrica, l’ambient e la drone music. Pensi ai Triosk e non puoi che p e n s a r e a i To r t o i s e , a c o m e la lezione del gruppo di Doug McCombs abbia ancora un’importanza capitale nella ricerca musicale in questi ambiti. I Triosk sembrano tre late night jazzers innamorati di alcune intuizioni di Mosquito, G a m e r a e To r t o i s e : s t e s s a propensione alla liquidità e medesimo distacco, utilizzo di loop calati in qualche smoke singal parente dei Matching Mole, oppure sfondo a percussioni free, o ancora background per minimalismi tra Reich e Glass. Dall’esordio 1 + 3 + 1 al recente The Headlight Serenades, il percorso del trio si sintetizza in un lento praticantato volto a rifondare un’esperienza incredibile, partendo più propriamente dal jazz e dal laptop. Un percorso lento e compatto che inizialmente punta tutte le fiches sul bilanciamento jazz-tronico e sulla scientifica vivisezione del sound, ma che troverà la propria via sottendendo il secondo elemento e liberando altri stilemi quali l’ambient e la lezione minimalista. La storia dei Triosk è targata ventunesimo secolo: nel 2002 una fitta corrispondenza internet tra il trio e il musicista elettronico Jan Jelinek porta starter di un’esperienza tutta contemporanea. Durante u n a g i g a S y d n e y, d o v e p r e senta Loop Finding Jazz Records, un lavoro giocato su campionamenti di dischi jazz d’antan in lunghi loop spaziali (un po’ come stava facendo Atom Heart con la musica latina esattamente nello stesso periodo), riceve un demotape contenente una manciata di composizioni tra improvvisazione, basi concrete e glitch. Ne rimane entusiasta, una volta tornato in Germania propone al trio di comporre le trame elettroniche sulle quali il combo dovrà improvvisare. Il modus è istantaneo: alcuni file contenenti sample glitch e gelaterie di soffusa ambient alla realizzazione di un long playing epistolare via ftp. Jelinek, fresco di contratto con la Scape Records, è l’uomo chiave in questa storia, lo viaggiano per la rete e, in Australia, sopra quelle tracce i Triosk improvvisano, accompagnano, suonano jazz classico e free, metafisico e dada. s e n t i r e a s c o l t a r e 13 Infine, il tutto viene rispedito al mittente per l’assemblaggio finale, che avviene, ancora una volta, grazie a un sampler e un Mac. 1 + 3 + 1 è ambient jazz, bop music futurista, un prodotto forse più vicino ai cutting di Jelinek che all’improvvisazione digitalizzata immaginata dei Triosk (Vibes/Pulse). Ma del resto, per un combo smanioso d’apprendere e espandere i propri confini, è un compromesso più che soddisfacente e d’altro canto, quando la partnership ingrana le proprie marce come accade in Mis-Leader e Munmorah (batteria free, contrabbasso angolare, fuligini di xilofoni e piatti, piano-synth liquorosi), il tentativo di rivedere la lez i o n e d e i To r t o i s e a t t r a v e r s o uno sguardo organico-meccanico-digitale, sempre asettico ma ancor più astratto (espanso a partire dal suo lato più liquid jazz e depurato quasi del tutto del rock e dall’industrial), è senz’altro degno di nota. Theme From Trioskinek,(falso) manifesto dell’album, mescola fraseggi circolari/minimalisti di basso e pianoforte in una marmellata di pulviscoli synth e sibili, per poi calarsi in smalti di jazz canterburiano (il synth Matching Mole, la batteria à la Dan Bitney d e i To r t o i s e ) c o m e n o i r m u s i c per silver screen; Neckless si ferma prima approfondendo i loop dinoccolati e il crescen- 14 sentireascoltare do su strutture semirigide e semielettroniche. Ma i fulcri dell’album sono Mis-Leader (i Soft Machine sparati nella stratosfera) e On The Lake: uno scarto stilistico nei confronti delle tartarughe e al contempo un tentativo di superamento, servendosi della lezione digitale del nuovo millennio. Qui il percorso dei Triosk risulta chiaro: non è una strada maestra, né una ricerca della grande firma, né il frutto di menti anche molto distanti per gusti e ispirazione; piuttosto un gioco d’angoli, il rigore, la sperimentazione minuziosa negli accostamenti, l’osservazione delle escrescenze sonore. Se l’operazione difetta è proprio nell’utilizzo eccessivo dei software digitali, e conseguentemente di stilemi in rapida senescenza (certi espedienti glitch su tutti), quel cader nella tazza dell’affogato al caffè digitale (track2), eppure, più che free climbing di note, questi brani sono anche test d’ingegneria. (7.0/10) Quello dei Triosk è anche un jazz da scienziati: a poco più di un anno dall’esordio, quell’approccio trova un seguito in Moment Returns (Leaf, 2004), un album in proprio, anche se con contributi sporadici di Jelinek. La produzione in loco non ne cambia il format, l’“uno più tre più uno” rimane il canovaccio prediletto, ovvero quasi tutti i brani vedono guizzi di campioni in loop stagliarsi in sezioni suonate (come fosse- ro improvvisate, anche se non lo sono) che a loro volta sono abilmente caricate d’effetti ad hoc (echi ed equalizzazioni, ma senza esagerare). S’accentuano le dilatazioni della cultura jazz (quasi lasciata a un’improvvisazione devoluta in Chronosynclastic Infundibula), l’ambient vischiosa (i sample bucolici e le tastiere d o c i l i d i To m o r r o w To d a y ( P a r t 1) e Goodnight) quando non cupa (The Streets Are Empty), e certa malinconia postr o c k ( Tw o ; Tw e l v e ) , s a l v o u n a maggior presenza della componente minimalista, grande protagonista in un gioco di specchi dai mille punti di fuga (il groove lattiginoso su battiti technoidi di Love Chariot e soprattutto i nove minuti di I Am A Beautiful And Unique Snowflake con lo zampino di Jelinek). La sezione più classicament e j a z z d e l p l a t t e r, s e p p u r guarnita di minuzie elettro, n o n s c o m p a r e ( To m o r r o w To day (Part 2) e Re-Ignite),ma rappresenta anche la parte meno interessante (come del resto gli esperimenti umbratili di Awake In The Deep) di un lavoro comunque fortemente spinto sulla ricerca elettroacustica. Moment Returns è un album riuscito, studiato nei minimi dettagli, dove a mancare è forse la mano lunga di Jelinek a tutto campo, ma è probabilmente quest’assenza a rendere possibile lo studio di soluzioni acustiche differenziate, la spazializzazione dell’ambient e l’uso estensivo dei synth. (6.9/10) Forse i Triosk di Moment Returns sono ancora troppo rigidi, forse troppo bravi, ma due anni più tardi con The Headlight Serenades (Leaf, 2006) il trio di Sydney ritorna sulle scene, con una grande scommessa: il confronto con i To r t o i s e . M a i c o m e i n q u e sto lavoro le istanze del minimalismo, come quelle di certo pianismo à la Satie (o a tratti Debussy), dell’elettronica psichedelica e di un drumming più deciso (e persino rock), si fondono a mood jazzy non più dominanti, non più contrappesi del gingillo elettronico. Dalla sofisticata provetta in laboratorio dell’esordio si passa all’impressione di sensazioni, al disegno di ambienti liberi dal vincolo del drone a tutti i costi. In The Headlight Serenades, mentre rimangono alcuni sporadici profumi post-rock (Not To H u r t Y o u p a r e u n a c o ver degli Ui), s’accentuano i pianismi (Intensives Leben), mentre il frastaglio ritmico sostituisce quasi del tutto il facile frullato elettrodigitale. Maggior spazio è dunque ricoperto dai synth e dai quei suoni all’imbrunire firmati Boards Of Canada, qui ancor più evidenti che nella prova preced e n t e ( l ’ a t t a c c o d i V i s i o n s I v, F e a r S u r v i v o r, M o m e n t R e t u r ns). Eppure, come si diceva, il leit motiv porta dalle parti della band di McCombs, come accade fin dall’apertura Visions I v, u n a t r a c c i a d o v e g r a p p o l i d i note al piano si stagliano su percussioni sempre più energ i c h e d a l l e p a r t i d i T N T, o p p u r e , a n c o r d i p i ù , i n Vo s t o k , doveil gioco scoperto tra chitarra elettrica e un giro pseudo dub al contrabbasso portano diritti all’ultimo lavoro della band chicagoana, It’s All A r o u n d Yo u . C i t a z i o n i c a l i b r a te che trovano un gusto inter- pretativo mai troppo ostentato o suddito, condite abilmente con altri momenti più intensi e duraturi come i deici minuti a m b i e n t - S a t i e d i O n e , Tw e n t y F o u r, c h e d e n o t a n o l a m a g gior conquistadi quest’album: una freeness ritmica libera dai giochi della mano, perché espansa dai trucchi taglia-ecuci di potenti software. I Triosk vincono la prova del tre. Mai come in quest’album il loro sound risulta potente e pieno, accessibile. Un lavoro maturato, a distanza di due album, che pur mantenendo quel distacco da scienziati, appassiona per l’intelligenza delle soluzioni e per la varietà delle suggestioni. Per il colpo di genio forse ci vorrà ancora del tempo, ma i Triosk, si sa, prendono le cose con calma. (7.0/10) sentireascoltare 15 speciale Tunng L’ e n t u s i a s m o i n i z i a l e p e r u n s u o n o t a n t o u m a n o e n a t u r a l e q u a n t o figlio del presente. La difficoltà di superarne i limiti: tecnologia o r i t o r n o a l l ’ e s s e n z i a l i t à ? S t r a d e g i à p e r c o r s e , m a i Tu n n g s e m b r a n o possedere la chiave di volta. In realtà è la storia della folktronica che si ripete. Rinascimento folktronico d i Va l e n t i n a C a s s a n o In principio, la classicità del suono acustico si mescola a minute cianfrusaglie elettroniche. C’è chi lavora solo di lapt o p - F o u r Te t - e c h i , i n v e c e , si diverte a pizzicare le corde di una chitarra su un sostrato di vorticose ritmiche sintetiche - The Books. Quale che sia il modus operandi, l’intento è creare un suono che sia tanto umano e naturale, fatto di abitudini e calore domestici, quanto figlio del presente, con i suoi mille specchi a rifrangere una realtà composita e in fieri. Così pulsazioni sintetiche, rumori di fondo rubati di soppiatto e creativi strappi poi ricuciti riscoprono il folk, traghettandolo nel ventunesimo secolo. E se i primi episodi, di quella che verrà presto definita folktronica, lasciano piacevolmente spiazzati per l’intuizione e la resa, al tempo stesso ne mostrano i limiti, prospettando una tendenza che dopo poco emerge- 16 sentireascoltare rà: quella, cioè, di superare l’empasse creativo giocando di esperienza e tecnologia (il caso Rounds del 2003), oppure rispolverando canoni e stilemi già adoperati e subito consunti (Lost And Safe del 2005, giusto per rimanere in dalla Static Caravan. Un debutto da cui vengono fuori dei Simon & Garfunkel fulminati dalla psichedelia cinematica dei Boards Of Canada, la Beta Band persa nei fremiti percussivi africani, la laconicità rifuggita da un Keiran Hebden . tema con i riferimenti). In un simile scenario, nel 2005 sbucano gli inglesi Tunng. E arrivano già in ritardo. Insieme da un paio d’anni, Mike Lindsay (produzione e chitarra) e Sam Genders (voce e chitarra), dopo aver sfornato diversi singoli e aver partecipato alla soundtrack del dvd Donnie Darko: The Director ’s Cut, riescono a registrare Mother ’s Daughter And Other Songs, pur trovandosi in condizioni di fortuna (stando a quanto raccontano, la sala d’incisione si trovava sotto un negozio di lingerie femminile, la cui entrata, l’unica, era posta proprio all’interno di uno dei camerini), poi licenziato Ancora una volta, ad essere celebrato è il matrimonio tra folk ed elettronica, unione particolarmente diffusa in terra d’Albione, che pesca nebbiose inquietudini dal fingerpicking drakeiano sporcandole di chincaglierie sintetiche (la melodiosa Song Of The Sea, che sa già di classico), aprendo squarci visionari sulle highlands scozzesi (le ritmiche jungle di Out The Window With T h e W i n d o w, i n c u i s i d i l u i scono frame di voci registrate, e i giochi d’acqua in 4/4 di Code Breaker), senza negarsi u n l o f t n e l c u o r e d i N e w Yo r k dove poter sezionare suoni e ricomporli seguendo l’estro del momento (in Beautiful And Light come dei Books a cui manchi l’umano nonsense). Certo, nel duemilacinque rimetter fuori dall’armadio la dimessa folktronica non è proprio un geniale colpo di testa ( l o s t e s s o F o u r Te t p a r e e s s e r si stufato), il duo inglese però mantiene un equilibrio sobrio e attuale, e questo Mother ’s Daughter And Other Songs non gli farà vincere la targa di nuovi campioni del genere, ma almeno potrà essere considerato un buon debutto. E chissà che i suoi spunti interessanti non aprano altre porte… (6.4/10) Intanto questo primo lavoro ha fatto sì che i riflettori di critica e pubblico puntassero, con estrema attenzione, i due britannici, dando loro l’opportunità di condividere il palco con personalità più o meno affini, come King Creosote e Josè Gonzales, piuttosto che Va s h t i B u n y a n . E dopo la buona partecipazione al tributo ai Buckley per l a F u l l Ti m e H o b b y, e c c o c h e la stessa etichetta pubblica il secondo Comments Of The Inner Chorus (Full Time Hobby / Audioglobe, 22 maggio 2006). Insomma, pare che i Tunng abbiano seguito il motto “battere il ferro finché è caldo” in questi sedici mesi, il che non equivale ad una nota di merito. Se, in realtà, lo scorso anno li avevamo congedati con un “promettenti, vedremo in futuro”, di quel futuro che si è fatto presente dobbiamo ora ricrederci. Tra i solchi di Comments… spira infatti un’aria ferma, stagnante, chiusa tra gli skyscrapers dei Books (quell’estrapolare frasi, discorsi, come in The Wind Up Bird), la melodiosità agreste dei padrini folk Paul & Art in chiave aggiornata Adem (l’intreccio delle voci, in particolare in Red And Green e nella ballata zuccherosa Jenny Again) sotto la lente d’ingrandimento Klint (Man In The Box) e la dimensione casalinga di Pause dell’anglo-iraniano (il vortice chitarra/percussioni di Stories). Messa da parte la visionarietà cinematica dei Boards Of Canada e relegata l’elettronica al ruolo di mera cornice, Lindsay e Genders si dedicano alla costruzione di evergreen dall’improbabile avvenire, tornando quindi agli elementi basici del folk, ad un taglio standard che ne sbiadisce la forza propositiva, nonostante una visione d’insieme più ampia (che ha richiesto la presenza di una vera e propria band alle spalle) e un paio di tracce degne di attenzione: il fraseggio gentile e il ritornello corale di Woodcat e la sinistra confessione violoncello/banjo di Sweet William. Allarmarsi per così poco sarebbe, però, davvero esagerato. (6.0/10) s e n t i r e a s c o l t a r e 17 speciale The Futureheads Dai Gang Of Four venati di pop dell’esordio all’urgenza melodica targata Police del second coming, i Futureheads sono tra i più promettenti allievi della scena emul-rock... I Don’t Mind di Edoardo Bridda All’ombra del successo planetario dei Franz Ferdinand, ce li stavamo perdendo. I Futureheads, cometa emulrock delle ultime generazioni, quartetto white funk angolare di Sunderland alle prese con la riscoperta dell’amfetamina che fu amore del primissimo Weller e dei sempiterni XTC di White Music. Insomma, uno degli act “non nuovi” del panorama attuale, magari quel tipico fenomeno di cui si sente dire che, se non fosse stato per i cugini più fortunati (e ci mettiamo pure i Bloc Party), avrebbe goduto di blasoni più alti. Retorica a parte, quel modo tutto duemila di fare ‘77 è anche il pane dei Futureheads, una formazione che, forte di un’attitudine tutta brit per la melodia che non si vergogna di misurarsi con richiami Sixties, e una fascinazione tanto per il funk-punk dei Gang Of Four (Andy Gill in persona produce l’esordio) quanto per il più stiloso gusto della seconda generazione mod nel- 18 s e n t i r e a s c o l t a r e l’era dei Pistols, sforna per la 679 Records (marzo, 2004) il classico Self Titled, un debutto di tutto rispetto che corona una gavetta iniziata nel 2002 corredata da tre rapidi singoli. I ragazzi hanno da poco raggiunto i vent’anni ma le capacità interpretative, quando non si esauriscono nel più automatico dei ritmi da ballo rock, sono già accattivanti e appiccicose come si deve. Fin dall’opener il tiro garagista si poggia un medio profilo, quel che ci vuole per un sound più vicino ai quartieri e ai sobborghi, lontano cioè dalle stilosità franzferdinandiane: Le Garage è una profusione di coretti mielosi, ma ingegnosamente metronomici, sui quali si staglia l’energia vocale di Barry Hyde, wave quanto basta per veicolare glamour cheap e immediatezza, canto enfatico e stacchi punk. Il motore ritmico è chiaramente di scuola Alex Kapranos e così l’impronta del disco, ma lo scarto si gioca sull’attitudi- n e : c o n R o b o t e A To B q u e l l a vena garagista, tra strada e voglia di riscatto, trova un genuino momento ricreativo per la working class britannica di welleriana memoria. The Futureheads è infatti il figlio di quattro ragazzi strappati alla s t r a d a g r a z i e a u n o d e i Yo u t h Project attivati dallo loro città natale, un progetto nato per riscattare alcuni squattrinati teppistelli dalla cultura della strada e dell’ultrà calcistico. Quella rabbia si sente sotto sotto, ma è la ricerca per il pop la maggior conquista del combo: i giochi di voci doo wop in stereofonia di Danger Of The Water potranno anche far sorridere, ma le capacità, seppur acerbe, sono tutte lì, dietro il tono stralunato del leader e dei fraseggi circolari dei compagni. Ancora una volta sono gli intrecci melodici a catalizzare l’attenzione: canto, controcanto, chiacchiericcio, urletti in call and response, bridge confidenziali dove i giovani che parlano giovani, senza fronzoli e senza ideolo- gia, cercano un posto là fuori dove poter bucare le nuvole, scansare la pioggia del controllo totale della british dem o c r a c y, c o m e a l l ’ a l b a d e l l ’ e r a T h a t c h e r. C’è da dire che l’album cede un po’ verso la fine: in Carnival Kids il gioco di voci in salsa punk-rock è ordinaria amministrazione, il reggae affilato di The City Is Here For Yo u i n s i s t e t r o p p o n e i c o r i , il glam psicotico di First Day (terzo singolo della band risalente all’anno precedente) pare già roba del passato della band. Insomma difetti che da un’opera prima - sospesa tra il 2002 e il 2004 - ci si può attendere, d’altro canto i chewingum da masticare sono la freschezza melodica e il gusto punk-pop, le mascelle si rinforzeranno. E l’arrangiamento di Hounds Of Love - cover di Kate Bush (!) -, chicca quasi in chiusura e asso nascosto dei Futureheads, è l’evidenza della loro maggiore conquista: l’aver creato un suono che è l’esatta trasposizione pop dei p r i m i G a n g O f F o u r. ( 7 . 0 / 1 0 ) Una volta esordito da entrambe le parti dell’Atlantico, i Futureheads hanno l’onore di fare da spalla ai Franz Ferdinand nella tournée nord americana. Seguono nel duemilacinque una serie di fitti appuntamenti in spalla a Foo Fighters, Oasis, e Pixies, tutti pesci grossi di un mercato che il gruppo inizia a mordere. In questo stesso periodo esce infatti un singolo per il mercato inglese (che nella versione statunitense presenta un paio di aggiunte). Si tratta di Area EP (679, 28 novembre 2005), tre brani nuovi e un remix, tra cui spicca la traccia omonima, episodio decisamente wave dominato da un drumming più calibrato e dal sofisticato gioco tra cori e interplay tra canto e contro canto a cui fa pendant un rifforama sintetico ma funambolico. Help Us Out è più nella direzione di Robot, chitarre che si comportano come synth e impeto power punk. In chiusura il teen pop per arrabbiati di We Cannot Lose, giochino frivolo con un testo Ramones, ma perfettamente funzionale all’economia dell’inedito da eppì. Il second comin’ News & Tributes (679, 29 maggio 2006) esce trainato dall’epica solenne e marziale dell’iniziale Ye s , N o , t r a e m o t i v i t à N e w O r der e barricate ‘77. Che l’album sia ben diverso dall’esordio, è comunque evidente già dal titolo del brano omonimo, sentireascoltare 19 che parla dell’incidente aereo che, nel 1958, uccise l’intero team del Manchester United F o o t b a l l Te a m . C o m e d i r e : l a fine dell’età dell’innocenza, la presa di coscienza, per un lavoro più prodotto, meno Gang Of Four (eccetto per Cope e R e t u r n O f T h e B e s e r k e r, p a r a dossalmente più ringhiose che mai), e una tracklist, concentrata sulle liriche, che avrà anche il coraggio di abbandonare l’impeto anfetaminico e dance del recente passato. 20 sentireascoltare Da una parte compaiono una manciata di mid-tempo dal retrogusto dolceamaro (Burnt, N e w s A n d T r i b u t e s , B a c k To The Sea - la più Jam del lott o - , Wo r r y A b o u t I t L a t e r, Thursday), dall’altro arrangiamenti più meditati e rallentati nell’impeto funk punk con maggior uso dell’incedere ska punk (la buona Face, l’omaggio - anche nel titolo - ai Police di Fallout, Favours For Flavours). La traccia migliore è i l s i n g o l o , S k i p To T h e E n d : riffaccio garage rock, asso piglia tutto per ottimismo melodico e graffi pop alla sei corde, in una tracklist che lascia tutto sommato l’amaro in bocca. Certo, i Futureheads sono maturati, ma a discapito della naturalezza dell’esordio e di una chiara via da intraprendere. D’ obbligo allora aspettare il fatidico terzo disco, per vedere se i lembi del foglio sono stati uniti a dovere. (6.6/10) monografia Matthew Herbert Eclettico eppure esigente, multiforme nelle sue attività di produttore, dj e musicista, è riuscito negli anni a mantenere salda la sua integrità, artistica e personale, costruendo un discorso politico a colpi di sampler e field recording. Dagli esordi rumoristi alla forma canzone, la musica elettronica secondo Matthew Herbert. Il medium è il messaggio d i Va l e n t i n a C a s s a n o La lattina di una bibita, la c o n f e z i o n e d i u n h a m b u r g e r, i cornflakes della prima colazione, il sangue che scorre nelle vene. Tutto è suono, nella testa di Matthew Herbert. E tutto è memoria, insieme storica e personale. E l’elemento elettronico è il quid che rende possibile una reale e istantanea partecipazione, messaggio stesso, ancor prima che medium, che ha intensificato la consapevolezza della responsabilità umana con la sua forza centripeta, eliminando e così via). È questo il materiale su cui nasce, tra il 1992 e il 1996, il primo progetto, nonché prima identità, Wishmountain, capace di tenere in piedi un intero live set con un solo pacchetto di patatine, omaggiando John Cage, che si presentò da Mike Bongiorno con dei frullatori. Mettere in diretto contatto il processo compositivo e il pubblico, instaurare una connessione che inneschi una reazione e sui cui contemporaneamente riflettere: il giovane inglese non temporanea gli amici Matmos, provenienti anche loro dai territori dell’house-techno-trance, ma su cui Herbert arriva con leggero anticipo, tanto da assumere il ruolo di padrino artistico del duo. Se Wishmountain verrà presto ucciso dalle stesse mani del suo creatore, a partire dal 1995 saranno Doctor Rockit, Herbert e Radioboy a rimpiazzarlo. Con il primo la concretezza elettronica si addolcisce di elementi marcatamente musi- le barriere spazio-temporali e innescando quel meccanismo di azione-reazione in cui tutti sono implicati. Herbert ne intuisce le capacità esplicative fin dai tempi del college: studente di teat r o a l l a E x e t e r U n i v e r s i t y, v i e ne subito attratto dall’idea di una stretta relazione tra interpretazione e musica, tanto da iniziare a raccogliere un nutrito numero di suoni provenienti dalle fonti più disparate (tazzine, cucchiai, teiere si trincera dietro le macchine, come gli architetti Autechre nel loro autismo acquatico di cervellotici incastri e scissioni, ma ne svela i meccanismi di casualità e quotidianità, proseguendo e declinando in una impressionante varietà di lavori quella commistione tra musica e oggetti preconizzata da John Cage sin dagli anni Trenta e teorizzata da Pierre Schaeffer dieci anni più tardi. Una modalità sulla quale stavano lavorando quasi in con- cali: in The Music Of Sound (Clear / Wide, 1996) il lato downbeat si invischia ai languori del jazz (gli studi classici di pianoforte e violino del Nostro riaffiorano nelle due Song Without Words, punteggiata da un soffio abbozzato di sax, e Song Without Italian Words, registrata quasi di soppiatto alla chiusura di un ristorante, tra il tintinnare delle posate e le campane a segnare l’ora), o si inerpica sulle tensioni house, ora in corsia sentireascoltare 21 di sorpasso (Hong Kong) ora in più quieto andamento da crociera (A Quiet Week In The House). Luoghi particolari, legati all’infanzia oppure protagonisti di un viaggio, sanciscono così la loro esistenza nella misura in cui il caso li rivela all’orecchio, andando a comporre una soundtrack che rimane ancora nei recinti del proprio vissuto, ma che inizia già ad affacciarsi sull’umanità. (6.5/10) Personalità dai contorni ancora sfumati, quella del dot- Soundlike / Audioglobe, 2001) i microfoni ultra sensibili già usati dai Matmos entrano nelle fitte e intricate reti della corporeità per indagarne il funzionamento, per svelarne la mistica realtà ed estrapolare la connessione tra fisico e viscerale, infrangendo quel limite che ha sempre tenuto a distanza il rumore dal suono. Cosa fa di un feto la controp a r t e f o n d a m e n t a l e d i Yo u ’ r e U n k n o w n To M e , d e l f l u i r e d e l sangue la base ritmica per Foreign Bodies, dei laser che prensioni, di visioni distorte e di rammarico, ma anche di mistero, quello proprio e sacro dell’uomo, raccontate da Herbert attraverso beat serrati ed intriganti, irradiati sugli asteroidi jazzy di It’ Only e S u d d e n l y, c o n l a v o c e d e l la Siciliano a scivolare nelle pieghe, nelle imperfezioni, colmandole con la sua grazia interpretativa, come una moderna Ella Fitzgerald, mentre in Leave Me Now pulsa house con la passione che solo un cuore possiede, pronta ad tore, che verrà assimilata e sviluppata nei lavori a nome Herbert, in cui è il 4/4 a fare gli onori di casa, ma solo con l’entrata in scena di Dani Siciliano in Around The House (Phonography 1998, ristampa !K7 - Soundlike / Audioglobe, 2002) la direzione si sposterà dal racconto/ricordo in prima persona alle dinamiche relazionali tout court, di cui il corpo umano ne è la più perfetta sintesi. Con Bodily Functions (!K7 - operano sulla vista le interf e r e n z e i n Yo u S a w I t A l l ? I l loro essere sostanza vitale, che è rumore prima di tutto. È quindi la tecnica del campionamento che ridona libertà alla musica, che le permette di riappropriarsi della sua natura istintiva, rappresentando quella umanità dissoltasi pian piano nella voragine edonistica e che poco dopo verrà brutalmente cancellata dal crollo d e l l e T w i n To w e r s . Storie di mancanze e di incom- infondere un calore melanconico in Last Beat, ballata per pianoforte, contrabbasso e spazzole del prossimo futuro, per poi abbandonarsi all’ineluttabile desiderio di intimità di On Reflection, minimale nei sui screzi sonici. Insieme agli oggetti del corpo, è quindi l’house l’altro elemento unificante. Mentre però nei lavori contemporanei del duo di San Francisco California Rhinoplasty Ep (in cui il Nostro compare nelle vesti di 22 sentireascoltare sentireascoltare 23 Doctor Rockit dj) e A Chance To C u t I s A C h a n c e To C u r e s i avvertono chiaramente e volutamente le tensioni, i tagli, i campionamenti, gli oggetti che materialmente vengono suonati, in Herbert nulla del mondo concreto utilizzato è comprensibile: tutto è nascosto, filtrato dalle macchine, fagocitato e poi ricostruito in un puzzle dalle dimensioni microscopiche, così da risultare non più fredda rimescolanza di pezzi, ma calda estensione del centro nervoso umano. Il tocco lieve e l’appeal fisico che il disco comunica in tutti i quattordici episodi quasi non lasciano percepire l’elaborata scrittura delle canzoni, l’accuratezza negli arrangiamenti, la manipolazione calibrata e consapevole delle fonti sonore, trasfigurate fino all’irriconoscibilità. Solo quando si arriva all’ultimo brano, The Audience, si viene svegliati da uno schiaffo poderoso di ritmiche funk frantumate, con la voce femminile sdoppiata, triplicata e in rincorsa, alter ego di se stessa, riflessa sulle superfici della battuta in quattro, con le tastiere tra il piano bar e il Blue Note a chiudere il climax house. Qualcosa, nella coscienza, ora si è mosso. Il paradosso della tecnologia del ventunesimo secolo quale unico espediente, “strumento” in grado di ridare al suono una costruttiva originalità, assume i connotati di una ferocia denuncia: il corpo umano come corpo sociale, indagato nei suoi fragili rapporti tra organi, tessuti e altri corpi, diversi ma uguali, tenuti assieme da una serie di circostanze fortuite e coincidenze, che è pura magia. Da preservare. (8.0/10) Ad allargare i confini e spostare la visuale del metodo compositivo è, nello stesso periodo, anche Radioboy: trovandosi stretto tra le mura degli 8 suoni in cui la sua prima personalità si era barricata, 24 sentireascoltare viola apertamente le regole avvalendosi di un insieme eterogeneo di sorgenti, campionate, registrate e processate innumerevoli volte, torturate fino a stabilire quel limite capace di mantenere l’integrità della fonte. Una ricerca estrema, che assume sempre più un carattere politico, fino ad esplodere in maniera compiuta in The Mechanics Of Destruction (Accidental / Wide, 2001), un titolo emblematico, che rivela subito il carattere demistificatorio dell’operazione. Sotto i colpi di ritmiche assordanti, di sussulti e strappi sonori industrial si assiste all’annientamento della società consumistica attraverso i suoi stessi simboli: i metalli funambolici di Gap, l’ossessività percussiva di McDonald’s, l’ambient acquatico di Nike, la techno s e n z a r e s p i r o d i To t a l O i l . E c c o quindi che il medium diventa il messaggio: servirsi del rumore di una lattina di Coca Cola schiacciata o di una tazza di Starbucks frantumata, equivale a schierarsi apertamente contro un certo tipo di mercato, di industria, di politica, quella capitalistica (il tutto supportato da una autonoma gestione della distribuzione del disco: durante i live, attraverso il download dall’omonimo sito assieme alla nascita di una etichetta personale, la Accidental), una scelta che non può non generare ripercussioni su chi ascolta e vede - famose rimangono le performance del periodo, durante le quali è il pubblico stesso a donare propri cd, libri, oggetti da distruggere, un esempio di partecipazione completa. Nonostante la forma richiami in certi momenti i profumi di casa Warp e metta in campo l ’ A p h e x Tw i n p i ù r u m o r i s t a , è la sua genesi e organizzazione ad avere una portata innovativa: scegliere di “suonare” determinati oggetti piuttosto che altri, distruggerli e ri- comporli secondo una logica che rispetti principi comuni, nell’ottica di un ordine sociale equo e solidale. A dispetto della dilagante omogeneità, la musica elettronica è ancora capace di offrire un’alternativa. (7.0/10) Proprio la rigorosità di queste prove e il continuo lavoro sul suono spingono il Nostro a stilare il “Personal Contract For The Composition Of Music”, un documento sulla falsa riga d e l D o g m a 9 5 d i Vo n Tr i e r, a g giornato personalmente di volta in volta, che lo costringe ad una serie di vincoli (come ad esempio il divieto assoluto di pattern di batteria elettronica, dell’utilizzo di campionamenti altrui) per salvaguardare l’unicità della musica, evitando sentieri già noti, familiari. Chiamato nel 2001 dalla coreografa Blanca Li a scrivere tre brani per una big band da inserire nel musical francese La Defi, e incoraggiato poi da Gilles Peterson a metterne in piedi una propria per esibirsi al Montreux Jazz Festival d e l 2 0 0 2 , M r. H e r b e r t a c c e t ta la sfida e l’anno successivo sforna Goodbye Swingtime (Accidental / Wide, 2003). Un nuovo shock emotivo, un cambiamento radicale: il disco si pone tra i solchi degli standard jazz degli anni 3040, quando le grandi orchestre di Glenn Miller e George Gershwin e le sfarzose composizioni di Henry Mancini riuscivano a coniugare la forma popolare del jazz alla colta tradizione europea. Difficile immaginare come l’effluvio di magnificenza che sgorga da un organico di quasi venti p e r s o n e ( t r a c u i A r t o L i n d s a y, l’insostituibile compagna Dani Sicliano, Jamie Lidell, Mara Carlyle, Shingai Shoniwa, Plaid e Mouse On Mars) si possa amalgamare all’asciutta arte digitale, da sempre sinonimo di isolamento e individualismo. Come Carl Craig con il suo Detroit Experiment e la London Sinfonietta con il roster della Warp, Herbert dimostra che la simbiosi è possibile e con fare da gran cerimoniere realizza dieci tracce dal sapore lontano, ma incredibilmente attuali: in primo piano è la melodia, morbida nell’iniziale Turning Pages, sincopata e convulsa in Fiction, in contrasto cromatico con gli stridori tecnologici sparsi in tutto il lavoro, dai sobbalzi ritmici di Misprints, all’ambient cinem a t i c a d i S t a t i o n a r y, a i g i o c h i stranianti nelle swingante The Battle. Armonia e dissonanza, tradizione e innovazione, autorità dominante e libertà di pensiero e azione, il cuore del lavoro è ancora una volta un “affare pubblico”, non solo nella scelta di campo, ma anche nell’uso dei suoni organici, prodotti per la maggior parte dalla letteratura politica ( N o a m C h o m s k y, M i c h a e l M o o re, John Pilger) e assolutamente impercettibili (ritagli di giornali riguardanti l’invasione dell’Iraq provenienti da tutto il mondo, la stampa di pag i n e t r a t t e d a l s i t o w w w. s o a w. org, ed altri curiosi aneddoti). Non è dunque una reverenza al mondo del jazz, come si potrebbe pensare, ma un appropriarsi dello stile e della libertà propria del genere per esprimere il proprio punto di vista, sempre critico e sempre altro. (7.0/10) Traslare un simile lavoro nella versione live non è cosa facile, ma i risultati sono più che entusiasmanti, come dimostra il plauso unanime ricevuto al Sonar di Barcellona e al Roskilde Festival in Danimarca: Herbert sul palco si scopre un’abile direttore d’orchestra, nonché divertente ed estroso intrattenitore, instaurando uno scambio dialettico tra macchine, orchestra e pubblico. Il continuo girovagare e la svolta orchestrale non gli impediscono comunque di proseguire la sua ricerca sul suono e con Plat Du Jour (Acciden- tal / Wide, luglio 2005) ritorna alla musica per oggetti e ai concetti delle bodily functions. Dopo due anni di field recording al fianco di esperti e autorità e dopo sei mesi di lavoro in studio, il wiz kid del campionamento svela i segreti del cibo, o meglio, i segreti delle grandi corporation dell’industria alimentare. Ancora una volta si tratta di un’operazione musicale indirettamente politica, proprio come quella d e i M a t m o s d i C i v i l Wa r, m a a differenza del duo, che preferisce contaminare il proprio sound con l’acustico, sulla scia di The West, Herbert rimane ferramente attaccato al campionamento. E quindi ecco che il verso di polli, galline e pulcini di allevamento dà vita a The Truncated Life Of A Modern Industrialized Chicken, al ritmo scandito quasi orientaleggiante di una dozzina di uova biologiche rotte in una ciotola di pirex, mentre una miscela di ben nove differenti marche di acqua minerale fa scivolare in un’atmosfera jazzy These Branded Waters, accompagnata dalle percussioni del fondo di una bottiglia San Pellegrin o . To c c a p o i a l c a f f è r e n d e r si protagonista di An Empire Of Coffee, 60 semi di robusta stillati in un contenitore di roundup, pesticida usato dalla Monsanto (nome noto nel mondo delle biotecnologie e del transgenico), su un frenetico sampler di tazze, lattine e confezioni di caffé, come se ci si trovasse all’interno di una delle grandi fabbriche produttrici. Altro colpo messo a segno è la frizzante Celebrity - a metà tra house e hip hop a suon di Pepsi -, unico brano cantato in cui la cristallina voce di Dani Siciliano si fa gioco delle star (viene citata una certa Beyonce…), gli sponsor più richiesti quando si tratta di alimenti per bambini dal dubbio valore nutritivo. Sono questi gli episodi migliori - insieme alla cartoonesca leggerezza ritmica di The Final Meal Of Stacey Lawton - di un piccolo vademecum sul linguaggio internazionale del cibo, anch’esso sempre più globalizzato. Idealmente divisibile in due, la seconda parte del lavoro perde colpi, mostrando il fianco: pur non risparmiando da critiche lo zucchero (Hidden Sugars ), le barrette diet e t i c h e ( F a t t e r, S l i m m e r, F a s t e r, S l o w e r ) o i l p r a n z o d e l presidente americano Bush con il primo ministro britannico Blair (la cacofonia assord a n t e d i N i g e l l a , G e o r g e , To n y And Me), Herbert, forse anteponendo (o legando) troppo l’idea all’esecuzione, finisce per peccare di manierismo. Il risultato: autoreferenziale, quando non proprio autocelebrativo. (6.7/10) sentireascoltare 25 monografia Grandaddy Jason Lytle filava veloce sul suo skateboard. Ma avvenne un incidente e - come la famosa tartaruga - rallentò. Fu allora che riuscì a vedere cose che correndo troppo non aveva mai notato. Ad esempio, quella periferia irrimediabile a sole due ore di volo da Los Angeles. Un luogo reale, oppure no. Il palcoscenico della post-modernità. L’apocalisse giocattolo del nonno di Stefano Solventi e Antonio Puglia Fatevi un giro a Modesto, California, duecentomila anime a r i d o s s o d e l l a C e n t r a l Va l l e y. La città di George Lucas e dei suoi Graffiti Americani, giovinezza eternamente rimpianta, innocenza mai provata davvero, esausta prima che corrotta. A vederla da qui, dallo scorcio surreale di Internet, Modesto sembra una città garbata. Una messa in scena refrattaria ai clamori del Sogno Immanente d’America. Sogno in continua autocelebrazione, appeso ai raggi d’un sole che tramonta solo per promettere l’eterno ritorno. E una sera che può mangiarsi la notte. Strade e giardini ed auto ad alta definizione cromatica. I candidi marmi dei palazzi istituzionali intruppati a ventaglio nelle piazze principali. Bandiere, bandiere, bandiere. Stelle e strisce per tenere assieme l’appartenenza frastagliata di un popolo che non esiste, se non in quel sogno 26 sentireascoltare che dicevamo. E quello sì, che è un mistero. Il sogno di una città-popolo-Paese-mondo. Un mondo, quel mondo, che si muove all’unisono, stiepidito da un’eccitazione senza tregua, dalla fragrante evidenza di un meccanismo inarresta- quando la modernità smette di essere vita. E lascia alle spalle situazioni in disarmo, farragini fatiscenti di vita. Il collasso della modernità è la modernità. O r a p e n s a t e a N e i l Yo u n g . Allo smarrimento furioso, ai bile. Col conforto incessante del più spettacolare apparato di sogni a smaltare il cielo, l’orizzonte di ogni pensiero. Un orizzonte, però, non privo di pieghe. Se ti avvicini, le periferie possono essere brulle, disperse. Il senso di abbandono è uno schianto sul petto. Un attimo di lucidità e ti accorgi che dietro la scenografia c’è il mondo vero, l’unico che realmente esiste malgrado abbia perso la forza di esistere. Perché non lo pensiamo più. Non ne siamo capaci, non ne abbiamo il tempo, i mezzi. Il collasso della modernità non avverrà nella modernità, ma accanto ad essa. Assieme ad essa. Avviene di continuo, tremori sognanti, al malinconico allarme che informava la sua “visione” del progresso a cavallo tra sessanta e settanta. Il seme d’argento sparato verso il cielo della nuova corsa all’oro faceva germogliare incubi dolciastri, una narcosi emotiva come stratagemma di difesa contro l’atroce presentimento della disfatta. La dissipazione del fattore umano come tributo inevitabile all’inevitabile vittoria sulla Natura. Un quarto di secolo dopo, i Grandaddy di Jason Lytle mettono in musica il danno compiuto. Modesto, primi anni novanta. Jason, classe ‘69, ha serie chances d’intraprendere la carriera di skateboarder professionista, prospettiva presto stroncata da un brutto infortunio al ginocchio. Piace credere che questo stop obbligatorio, questa visione d’un tratto raggelata delle cose, gli abbia regalato quell’attimo di lucidità di cui sopra. Una lucidità inedita. Come vedere con sguardo nuovo, vergine, un mondo mai visto prima da quel punto d’osservazione statico. Cantante e polistrumentista, decide di mettere assieme un trio col bassista Kevin Garcia e col batterista Aaron Burtch. A loro si aggiungono presto la chitarra di Jim Fairchild e le tastiere di Tim Dryden. E’ il 1 9 9 2 . N a s c o n o i G r a n d a d d y. Fin dai primi passi (due album autoprodotti, una manciata di ep, vedi appendice) si delinea il solco nel quale scorrerà la musica della band, un gioco di visioni scostanti ed eteree cui presupposto irrinunciabile è una sorta di astrazione dei musicisti stessi, graficamente occultati nei collage degli artwork, relegati al rango di recettori periferici, di microsensibilità disperse affidate ad un autentico patchwork di linguaggi. Dream pop, post punk, electro wave, protoprog, psych folk. Di ognuno viene colto il lato amarognolo, la tenera scontrosità dell’outsider che ha imparato a convivere con la sconfitta delle (proprie) utopie. Nevrosi minime come lo specchio opaco della catastrofe sociale. Liquide malinconie spiegazzate con voce d’androide spossato. Turbinante iconologia mainstream e “alternativa”, N e i l Yo u n g v i a F l a m i n g L i p s , un Lennon sognato dai Pavement, Ray Davies digitalizzato Notwist. Sogni dalla veemenza sfasata, implosi nel cofanetto d’argento delle cose preziose. Tra gli elementi di maggiore riconoscibilità, il canto di Lytle, serico e fumigante, angelico e psicotico, visionario e soft come un Alan Parson disilluso, senza più alcuna strategia da contemplare. Una voce tra intimità e delirio, attraversata dall’inquietudine familiare e vulnerabile che trovi quale ultima compagna, alla fine di ogni giornata. Nella filigrana isterica e palpitante di testi e musica puoi scorgere l’America di De Lillo, soggiogata dal proprio mito pervadente e implacabile, dall’iperreale miraggio quotidiano, in bilico tra struggimento esistenziale e crash emotivo. Sul punto di far saltare le cervella alla Storia. Di sparirci dentro. Per ritrovarsi ai margini di ogni gioco. Come non essere più. Un attimo di lucidità, e sei il burattino con le cuffie, l’uomo-manichino in un brullo landscape di tastiere smesse e paperi-decoupage a certificare l’assurdità del luogo/situazione. Sentirsi vivi e insensati, privati di senso e valore dall’enormità della Struttura, dalla sua immanente fatiscenza. Qualcosa è sfuggito al controllo. Oltre ogni previsione. I margini di manovra si sono ristretti, basta volerlo vedere. Il libero arbitrio è un aspetto trascurabile della vic e n d a . L a l i b e r t à , p u r e . L’ e r a post-umana germina per frattali di piacere e dolore, senza saperli più indagare. Under The Western Freeway (Big Cat / Will, 3 novembre 1997) I Grandaddy ci provano comunque. Il debutto ufficiale Under The Western Freeway organizza tutte queste premesse in un impalpabile concept. Chiamandosi fuori dal consueto clamore della contemporaneità, nell’oasi di niente periferico circondato dal deserto ipertecnologico, accendono il loro falò sen- sentireascoltare 27 z a i l l u d e r s i c h e p a s s i u n To m Joad a spandere propositi di rivalsa, l’orgoglio del mondo antico, la furia degli sconfitti. Domina piuttosto una voglia di affabulazione amara, un disincanto indolenzito capace però di scavarsi nel cuore nicchie di meraviglia. Come se la sensibilità non fosse stata annichilita ma posta fuori corso, svalutata al rango di modernariato, riciclabile come paccottiglia nostalgica. Ecco, il problema. Ed ecco come lo affrontano Lytle e compagni, con la loro pensosa naiveté, col fiabesco solipsismo capace di folgoranti epifanie pop. Fin dall’iniziale Nonphenomenal Lineage si entra a far parte di un mondo tremolante, fatto di tastierina fuori corso, arpeggi allibiti, malinconie fantasma c o m e u n N e i l Yo u n g s o g n a t o dai Notwist. La compresenza, quasi un conflitto giocoso, tra 28 sentireascoltare passato e presente, tra nostalgia e post-modernità, sarà il loro tormentone principe. E la schizofrenia geografico stilistica, che fa incocciare Pavement e Abba (il delirio onirico e incendiario di Summer Here Kids), dEUS e Pet Shop Boys (lo pseudo soul teso tra elettroniche croccanti di Everything Beautiful is Faraway), Lennon e Floyd (nell’indolent e f a n t a s m a g o r i a d i W h y To o k your Advice). Se il principale scopo del disco sembra definire un raggio d’azione specifico, un’enclave poetica prima che formale, e su ciò edificre la cifra espressiva della band, a sbalordire è pure la qualità della scrittura, capace di sfornare gioielli pop a pronta presa come A.M.180, con quell’irresistibile riffettino di tastiera (di cui in futuro si confermeranno specialisti), con quell’aria tra il dimesso e il sublime, con le distorsioni del lo-fi recuperate ad un’inn o c e n z a s f a v i l l a n t e . Ta s t i e re cremose, fruscii sintetici, senso di perdita, delirio d’esistenza al capolinea, polaroid sovraesposte e consumate dal tempo immobile, angolosità sciroppate e implosioni prospettiche, vene psych scavate nel cuore stesso del miraggio, dove i sessanta si consumano in un loop splendido ma senza scampo (Lawn And So On, Go Progress Chrome). (7.6/10) The Sophtware Slump (V2, 8 maggio 2000) Sbalordito, il pubblico “indie” apprezza e spende gli elogi del caso. Tra i più convinti c’è Howe Gelb, che a quanto pare già conosce il lavoro di Lytle e compagni per una cassetta finitagli chissà come per le mani. E’ anche grazie alla sua intercessione che la ben più importante V2 si muove per scritturare la band di Mode- sto. Il primo frutto della nuova contrattualizzazione arriva in coincidenza del cambio di millennio, con quello che può ben dirsi il disco giusto al momento giusto: The Sophtware Slump vede tutte le istanze abbozzate dai Grandaddy portate a definitiva maturazione. I nove minuti dell’iniziale He’s Simple, He’s Dumb, He’s The Pilot cuociono una suite eterea ed androide, diafana e allarmante. Il falsetto sbeccheggiato in un’eco friabile, quel soffice incubo di tastiere cristalline, un valzer di solenne mestizia e scollamento esistenziale, folate di videogames agonizzanti e marchingegni analogici, brume angosciose Crimson e la psichedelia proto-prog dei Floyd. Allarme e arrendevolezza, un languore esistenziale estremamente consapevole, perciò capace di giocarsi la carta d’un fatalismo plastico, irreversibile. Che è la più drastica sentenza ipotizzabile circa l ’ a n d a z z o d e l l e c o s e . L’ i m m a gine delle tastiere sepolte nella polvere, icone di rivoluzione tecnologica appena ieri e oggi già rifiuto difficile da smaltire, sono il punto di combustione stesso della poetica-Grandaddy: non a caso vengono scelte le keys – interfaccia in via d’obsolescenza tra l’uomo e la macchina – quale simbolo della deperibilità repentina, dell’impersistenza perniciosa. La programmazione, il mito del controllo totale, divengono espressione del loro stesso rovescio: Broken Household Appliance National Forest alterna la folktronica sognante delle strofe ad un chorus post-glam devoluto (nel senso di Devo + T Rex), adombrando nella dissociazione stilistica la compenetrazione/dualismo tra natura e tecnologia, un po’ come in Miner At The Dial-AView fa il frigido break a base di voce registrata tra le volute di wave vaporosa. Come dire, non esiste più una via este- tica coerente. Non esiste più un vivere armonico. Siamo al capolinea asettico e confortevole del mondo. L’ a b i l i t à d i Ly t l e e c o m p a g n i è riuscire a metter in scena tutto questo carico d’angoscia senza rinunciare alla leggerezza, senza che questa leggerezza sia priva a sua volta di senso, perché sintomo di un’apocalisse già avvenuta, per quanto somigliasse al gioco più divertente d’ogni tempo. Ecco quindi Hewlett’s Daughter e The Crystal Lake, scintillanti congerie powerpop, elettricità impellente ed elettronica vivida, il riffettino adesivo come marchio di fabbrica, melodie che sembrano colte dal generoso catalogo Abba, quel senso di alta definizione formale opposta allo stato d’animo oppiaceo. Non che evitino d’affrontarla di petto, la malinconia, però sempre attraverso una lente che ti sbalza dal reale, precipitando in un collasso fumettistico-cinematografico-televisivo, giù dove hanno saputo infiltrarsi i germi del pop: la vicenda di Jed The Humanoid sta tra le inquietudini bidimensionali dei Marvel Comics, le premonizioni Asimov-Philip K. Dick e l’humour grottesco di John Landis, intanto che va delineandosi un specie di valzer Kurt Weill riprocessato Brian Eno, pianoforte e sclerosi digitali, organetti e synth radioattivi. Si è già scritto molto, ma occorre dilungarsi ancora un attimo, quanto occorre per rendere merito ai due vertici del programma: la conclus i v a S o Y o u ’ l l A i m To w a r d s T h e S k y, f o u n d v o i c e s e a r c h i (finti?), elettronica suadente ma ostile, è psych cosmica come degli Air alle prese con una sconfinata mestizia Neil Yo u n g , q u e l l a s t e s s a c h e i n Under The Weeping Willow si fa diafana e spietata, il friabile primo piano del canto nel tremolio vetroso dei synth, il pianoforte preda di un abbandono che ricorda il solipsismo struggente dei migliori Eels. Se questi sono gli (opinabili) pezzi migliori, è comunque vero che ogni canzone coglie nel segno, imbastendo assieme a quell’angoscia che dicevamo il suo antidoto sognante. In virtù di uno sguardo microscopico e periferico, condizioni necessarie all’ultima lucidità possibile. Che scorge la nudità del re. Ed altro non può. (7.9/10) Sumday (V2 / Edel, 9 giugno 2003) Occorrono oltre due anni per dare un seguito a Sopthware Slump. Se era difficile ipotizzare un lavoro all’altezza del predecessore, Lytle e compagni danno l’impressione di non essersi neppure posti il problema. O meglio, scelgono di aggirarlo a bella posta. Sono infatti quasi del tutto svaniti, o comunque parecchio diluiti, i landscapes di madreperla decadente, le obsolescenze polverose. E quei decolli orizzontali col groppo alla gola. E le visioni in apnea come Pink Floyd apatici. E il cigolio scomposto, e la destrutturazione palpitante delle forme in obbedienza ad improbabili, emblematiche storie di robotiche allucinazioni. E lo sguardo allibito rivolto al tempo che sempre più implacabile e rapido macina l’attualità – scenari, abiti, pensieri, automobili, way of life, passioni, hardware & software – rendendola paccottiglia da modernariato. Tutto perlopiù evaporato alla luce nitida e intrigante di questi dodici pezzi pop, pasturati da un’ironia malinconica che se da un lato rimanda ai sogni opalescenti di Brian Wilson, dall’altra prefigura un senso di minaccia fragile ascrivibile tanto ai Flaming Lips quanto ai Pavement e – of course – al padre di tutti i disadatt(at)i N e i l Yo u n g . U n a d i s c e n d e n za mai tanto chiara, scienti- sentireascoltare 29 ficamente perseguita, che si arricchisce di particolari col succedersi degli ascolti, rivelando legami e spolverando le zone d’ombra, sottolineando intuizioni melodiche e soluzioni orchestrali. Come lo stupendo ondeggiare pianistico di S a d d e s t Va c a n t L o t I n A l l T h e World, valzer di mestizie masticate sul tramonto di tutte le prospettive, o la gragnola di watt in slow motion che puntella il lisergico abbandono di Ye a h I s W h a t W e H a d , o p p u r e le perturbazioni cosmiche su cui levita l’amarezza in disarm o d i O . K . W i t h M y D e c a y. Maggiormente prevedibili, pur se bagnati da una grazia malsana, gli episodi più “mossi” (alla Crystal Lake per intenderci), in cui assieme alla distorsione frizzantella compaiono le immancabili tastierine giocattolo e/o gli arzigogoli da videogame (Stray Dog And The Chocolate Snake, El Caminos In The West) quando non inserti di archi cibernetici 30 sentireascoltare (nella propulsione dell’iniziale Now It’s On). Prevedibilità che raggiunge l’apoteosi nel retrogusto amarognolo di The Group Who Couldn’t Say e nella quadratura folk rock di I’m O n S t a n d b y, c o m u n q u e r i c o n ducibili come tutto il programma ad un ben meditato progetto stilistico-concettuale che avvicina Jason Lytle e compagni al lavoro di Radar Bros e Sparklehorse, anch’essi impegnati nel recupero e aggiornamento di certa tradizione folk psych. A conferma di ciò le due tracce finali – il valzer i n a p n e a d i T h e F i n a l P u s h To The Sum e soprattutto il trepidante crescendo del ballatone seventies The Warming Sun - aderiscono in pieno ai dettami di psichedelia estatica e angoscia da declino che sottendono i quasi coevi And The Surrounding Mountain e It’s A Wonderful Life. Superato quindi lo spaesamento iniziale, questa sorta di normalizzazione stilisti- ca sembra un necessario aggiustamento prospettico, uno stare tra le cose del presente con maggiore immediatezza e intimità, quasi a sussurrare un messaggio impronunciabile – il crollo di un sogno, l’autofagia di un incanto - col tono più amoroso, confidenziale, rassicurante possibile. E’ forse un album fin troppo “normalizzato”, con l’intenzione d’esserlo. In quest’ottica tuttavia, piaccia o meno, è il lavoro più compiuto dei Grand a d d y. ( 6 . 8 / 1 0 ) Just Like The Fambly Cat (V2 / Edel, 9 maggio 2006) Nell’autunno 2005, l’EP Excerpts From The Diary Of To d d Z i l l a f a u n m e z z o p a s so indietro, rispolverando il caleidoscopio dei primi tempi (vedi appendice). Poi, repentinamente ma nel modo migliore, chiude la premiata ditta Grand a d d y. E ’ u n l a c o n i c o J a s o n Lytle ad annunciarlo, contestualmente alla presentazione di Just Like The Fambly Cat. Un gioco di micro tragedie la morte del gatto di Jason, la morte della band - che si specchiano confondendosi, alludendo qualcosa di profondo/ sfuggente, una perdita in corso senza proclami, mimetizzata nel continuum emotivo del quotidiano. Cosa è successo alla band? Cosa è successo al gatto? Esistono solo risposte ovvie, ma ognuna sarebbe un piccolo inganno. Per questo la vocina fanciulla di What Happened non riceve risposta, o meglio si stempera in una spensieratezza farraginosa. Angoscia e distacco, abbandono e furori, trovate soniche e sbilanciamenti strutturali: il vocabolario Grandaddy converge tutto intero a plasmare una scaletta che oscilla tra distrazione e dolore, tra angoscia e incanto. Un’antologia programmatica che rende quest’album accessorio rispetto al mosaico estetico della band di Modesto, tuttavia opera per nulla trascurabile anzi più che dignitosa, anche rispetto a cotanta parabola artistica che a dire il vero ha scricchiolato non poco sotto l’urto del nuovo millennio. Sbriciolati gli antichi timori sotto il peso di un’evidenza terrificante (chi si preoccupa del futuro in un presente tanto feroce?), il margine di manovra “poetico” si è ristretto, l’incubo post-moderno è imploso in una dimensione sempre più intima, tra levità interlocutoria (l’up-tempo di Skateboarding S a v e s M e Tw i c e s u l v e l l u t o d i tastierina pseudo-Abba) e ballad dolceagra (i Beach Boys sull’orlo del collasso glam di S u m m e r. . . I t ’s G o n e ) , d o v e ogni scatto rabbioso sembra fatto di latta e lucine colorate (il power caliginoso di Jeez Louise, il post-punk sbrigativo di 50%) e dove l’electro va a sciacquare i panni nelle scenografie acriliche di un Giorgio Moroder (la fiabesca Campershell Dreams, la pantomima indolenzita di Where I’m Anymore, la solennità allibita di The Animal World). C’è insomma un senso di gioco giocato alla meno nella residua voglia di paradigma formale annidato nei vari punti di tensione, sia quelli che s’innescano nel cuore dei pezzi (si veda la folle indolenza N e i l Yo u n g e l ’ a r g u t o m o d e r nariato Air nel crogiolo caramelloso di Rear View Mirror) sia quelli alimentati dai contrasti emotivi del programma (da una parte l’accomodante disimpegno robowave - tra Alberto Camerini e Buggles - di Elevate Myself, dall’altra il languido abbandono Flaming Lips di This Is How It Always Starts). Proprio nello iato tra riffettini adesivi e spaesamento onirico, tra giocattolo e trepidazione, potremmo edificare il monumento in memoria dei G r a n d a d d y, d i c u i c e r t o Ly t l e è stato il principale artefice. A meno che per il resto dei giorni il buon Jason non voglia darsi in esclusiva allo skateboard – suo principale interesse, al momento - abbiamo ragione di credere (di sperare) che il nonno tornerà a cullarci. Prima o poi. (6.9/10) Wretched Songs – Piccola guida ai Grandaddy sotterranei Come ogni indie band che si rispetti, Jason Lytle e soci hanno sempre intrattenuto un rapporto proficuo con quel territorio per soli fans costituito dalle uscite cosiddette “minori”: la loro discografia completa è costellata, oltre che dai canonici singoli ed EP di contorno, da una nutrita serie di autoproduzioni, split e apparizioni su compilation. Già nel 1992, a gruppo appena costituito, tra gli amici e addetti ai lavori comincia a circolare una cassetta autoprodotta di sei brani, Prepare To B a w l , o g g i d i d i f f i c i l e - s e non impossibile - reperibilità anche per il più accanito maniaco del p2p. Sarebbe interessante sentire i Grandaddy in nuce, lo stesso anno in cui imperversava Slanted & Enchanted dei Pavement e l’estetica lo-fi viveva la sua stagione più florida; tuttavia, un’idea piuttosto esaustiva di come la band suonava nella fase anteriore al debutto ufficiale la rende The Complex Party Come Along Theories (1994), album autoprodotto e distribuito in sole 200 copie in cassetta, ma attualmente rintracciabile in rete con discreta facilità (basta una connessione internet, un programma di file sharing e un po’ di pazien- s e n t i r e a s c o l t a r e 31 recensioni za). Come prevedibile, allora Lytle e compagni inzuppavano letteralmente il pane nell’opera dei numi tutelari in bassa fedeltà di allora (Pavement in Could This Be Love, Sebadoh i n Ta s t e r e W o r s h i p P ) , c o n u n sound ancora incentrato prevalentemente sulle chitarre (gli inconfondibili echi Dinosaur Jr in Nebraska e Black Bats), mostrando anche una spiccata e interessante attit u d i n e p s y c h ( M i c h a e l B a r r y, un Untitled per soli piano e theremin), senza tralasciare significative aperture folk tra N e i l Yo u n g ( F l a i r l e s s ) e D a n i e l J o h n s t o n ( Yo u D r o v e Yo u r Car Into A Moving Train). Quattro di queste tracce troveranno posto un paio d’anni dopo nella prima uscita ufficiale per un’etichetta, l’EP A Pretty Mess By This One Band (Will Records, 23 aprile 1996); titolo di per sé esplicativo, anche se va detto che il mess dei Grandaddy presenta una band dal potenziale espressivo notevole, che all’hard wave d i K i m Y o u B o r e M e To D e a t h e le distorsioni di Pre-Merced alterna la vena psichedelica di Away Birdies w/ Special Sounds (un semi-strumentale folk-prog) e del quasi free form Flaming Lips Egg Hit and J a c k To o , p e r p o i s n o c c i o l a r e un quadretto acustico, malinconico e sgangherato come Gentle Spike Resort. Un antipasto niente male in vista del full-lenght Under The W e s t e r n F r e e w a y, a c u i s e g u i rà di poco Machines Are Not 32 sentireascoltare She (Big Cat, marzo 1998), altro EP contenente sei episodi tenuti fuori dalla tracklist probabilmente per non intaccarne l’omogeneità; infatti anche qui la varietà è di casa, tra stranezze assortite (il cazzeggio Fall Sikh in a Baja VW Bug), morbide ballate (la younghiana Lava Kiss, la sognante For the Dishwasher) e miraggi di un futuro da lì a venire (Levitz, già in odore di Sopthware Slump). Punta di diamante la schizofrenica Wretched Songs, sintesi delle due anime in bilico di Lytle, tra l’urgenza della prima fase del gruppo e la psichedelia sintetica della seconda, con passaggi e alternanze - dal punk-noise in s t i l e S o n i c Yo u t h a s p a z i a l i t à Pink Floyd - davvero mirabili. Negli anni successivi, A Pretty Mess… e Machines… verranno pubblicati in due compilation quasi gemelle, The Broken Down Comforter Collection (Big Cat, 28 giugno 1999) e Concrete Dunes (Lakeshore, 21 ottobre 2002), entrambe ampiamente disponibili; occhio alla differenza: la seconda edizione contiene in più tre b sides tratte da singoli del primo album (una menzione particolare per 12-Pak-599, sorta di The Band-meets-Neil Yo u n g ) . A cavallo del secondo disco vengono dati alle stampe altri d u e E P : S i g n a l To S n o w R a tio (V2, 28 settembre 1999) e Through A Frosty Plate Glass (V2, aprile 2001), sorta di prologo e postilla all’opera principale. Il primo - che verrà anche incluso come bonus cd in un’edizione speciale di Sopthware Slump – anticipa efficacemente la nuova dimensione sonora della band sia nella forma (Hand Crank Transmitter) sia nei contenuti (Jeddy 3’s Poem, prima parte della saga di Jed the Humanoid), col solo diversivo di MGM Grand (in odore delle s c o r r i b a n d e D i n o s a u r J r. d e gli esordi); il secondo si limita a racchiudere alcune b sides dell’epoca (dalla classica ballad Grandaddy Our Dying Brains alla punky Street Bunny), tra cui spicca l’electro country “harvestiano” Wives Of Farmers. Il mini album Excerpts From T h e D i a r y O f To d d Z i l l a ( V 2 / Edel, 27 settembre 2005) è infine storia recente: un divertissement registrato durante le session di Just Like The Fambly Cat, che si rivela una sorta di bignami in cui confluisce un po’ tutto il repertor i o d e i G r a n d a d d y, f a c e n d o s i altresì notare per un leggero allontanamento dal pop fort e m e n t e m e l o d i c o d i S u m d a y. Un’opera di transizione, che comunque evidenzia ancora una volta le doti compositive di livello superiore della band, seppur tra alti e bassi - dal pop-rock easy (e per la verità un poco deludente) di Pull The Curtains, alle classiche ballate folk più (At My Post) o meno (la conclusiva Goodbye) intrise della distintiva elettronica cartoonesca. Em- blematica in tal senso la tripletta mozzafiato capeggiata dallo space-pop di Cinderland - una ballata in cui la voce di Lytle fluttua, carica di pathos, nell’aria densa di un’instabile elettricità, venendone avvolta e anestetizzata – cui fa da contraltare il timido piano dell ’ i n t i m a F u c k T h e Va l l e y F u d ge, prima di liberare il campo per il brano migliore del lotto, Florida (candida pop-song, che collassa sotto cascate di chitarre distorte accompagnate da spaventose urla belluine). Chi non si accontenta dei canali della discografia ufficiale, troverà ancora più interessanti alcune operazioni “collaterali”, svolte all’insegna di un’autogestione fieramente indipendente e, come nel caso d i T h e W i n d f a l l Va r i e t a l , t a l volta osteggiate dalle stesse case discografiche. Si tratta di una compilation di rarità ed inediti, stampata e venduta direttamente dalla band durante il tour del 2000 con Elliott Smith; dopo le proteste - e minacce di denuncia - della label per questioni di autorizzazioni e di diritti, Lytle e soci hanno dovuto interromperne bruscamente la diffusione. Sebbene il dischetto sia rintracciabile in rete, un’edizione ufficiale è altamente auspicabile: anche solo come raccolta di stranezze assortite, si rivela un ascolto divertente e interessante. Tra le chicche: una alt. version “robotica” della sezione centrale di He’s Simple, He’s Dumb, He’s The Pilot; incarnazioni primigenie di Fare Thee Not Well Mutineer (poi rara b side di Sumday) e Sarah 5646766 (reintitolata in seguito First Movement / Message Fade); una versione più soft di Levitz e una più hard di Lawn And So On; le sgangheratissime cover di I’m Not In Love (10 cc) e Fun, Fun, Fun (Beach Boys). Dello stesso tenore segnaliamo le rarissime cassette Re- corded Live Amongst Friends And Fidget (1994) e Live At The Art Factory (1997), nonché – dulcis in fundo - la oddity di tutte le oddities, ovvero il mitologico disco di Arm Of R o g e r, T h e H a m A n d I t ’s L i l y (1999, pubblicato da Sweat of the Alps nel 2002); in pratica, i Grandaddy sotto falso nome che giocano un tiro mancino alla casa discografica, spacciando brani con titoli come The Pussy Song per demo di Sopthware Slump… I completisti e cacciatori di rarità possono infine mettersi alla ricerca di tutte le altre piccole gemme disseminate tra compilation, split e b-sides; ci limitiamo a segnalare una Revolution dei Beatles sghemba e quasi irriconos c i b i l e ( d a I A m S a m O . S . T. , 2001), l’irresistibile semi-parodia della classica strenna natalizia Winter Wonderland (che diventa Alan Parsons In A Winter Wonderland per la raccolta It’s A Cool, Cool Christmas, Jeepster 2000) o la devota - e distorta - cover di Here dei Pavement, catturata dal vivo come b side di A.M. 180 (1998). Buona caccia. (per approfondire nel dettaglio: http://grandaddylandscape.com/discography/) Antonio Puglia (contributi di G i a n l u c a Ta l i a p e r “ E x c e r p t s F r o m T h e D i a r y O f To d d Zilla”) s e n t i r e a s c o l t a r e 33 monografia Lisa Germano Da John Mellencamp a Michael Gira il passo non è breve. E’ un percorso tortuoso che Lisa Germano si è trovata ad affrontare portando con sé canzoni, sogni, paure e visioni. Sempre sul punto di scomparire per sempre, sbarcando il lunario in un bookstore e collaborando con il musicista di turno. Un po’ Emily Dickinson, un po’ G i o v a n n a d ’ A r c o , u n p o ’ d a r k l a d y n o i r, u n p o ’ b a m b i n a f u o r i t e m p o massimo, quello che c’è da sapere su uno dei grandi talenti nascosti dell’America contemporanea. Una regina senza regno di Antonello Comunale “Una regina senza regno” fu la definizione che Robert Mapplethorpe diede, una volta, di Laura Nyro. Al di là delle differenze anagrafiche, di metodo, di stile, di qualunque cosa, sembra la definizione più pertinente per definire anche Lisa Germano, che forse non a caso si è trovata a coverizzare proprio un brano della Nyro (Eli’s Comin, nell’antologia tributo Time And Love: The Music of Laura Nyro). Originaria di Mishawaka, nell’Indiana, terza di sei figli e dalle radici italiane (siciliane) per parte di padre, Lisa Germano è un piccolo fenomeno musicale degli anni ‘90. Sfortune produttive, ma soprattutto distributive, ne hanno costantemente minato la carriera. C’è sempre il vessillo di dover raddrizzare un torto storico, quando si parla di un artista sfortunato, ma nel caso della Germano la cosa si enfatizza ulteriormente. 34 sentireascoltare La fortuna critica della song w r i t e r, n e l c o r s o d e g l i a n n i , è stata un percorso a corrente alternata. E’ stata definita “ex multistrumentista di Mellencamp” nonostante i due abbiamo smesso da molto tempo di lavorare insieme, oppure sospendere per un po’ il giudizio, abbandonarsi alle melodie così ricercate e oblique, agli arrangiamenti sempre particolari e all’ironia amara e sarcastica dei testi. Quello di Lisa Germano è un mondo a sé stante, esattamen- si è sempre sottolineato, in maniera più o meno evidente, la sfortuna discografica e di come fosse sottovalutata da pubblico e critica. Quando, dopo un silenzio di cinque anni, Lullaby For Liquid Pig ha portato di nuovo il nome di Lisa Germano sugli scaffali di dischi, l’80% delle recensioni presentava un cappelletto standard, che recitava più o meno così: “Dopo una carriera di tutto rispetto, e nonostante cinque ottimi dischi, Lisa Germano non è riuscita a ottenere tutto il successo che meritava”. Chissà perché. In verità, Lisa Germano andrebbe per lo più ascoltata, nelle parole e nella musica. Bisognerebbe te come quello di tutti i grandi cantautori. Un qualcosa verso cui muovere e perdersi. Il modo stesso in cui ha cominciato la carriera di musicista è un’anomalia, e quando l’anomalia da contingente diventa strutturale reca disturbo, non la si riesce ad inquadrare e ad inscatolare in formati standard. Non è cosa che capiti a tutti, quella di esordire all’età di 33 anni, di muovere i primi passi come session woman, multistrumentista e in particolare violinista per John Cougar Mellencamp e solo successivamente cominciare a fare dischi solisti (che, per inciso, c’entrano poco o nulla con lo stile del grande autore sentireascoltare 35 dell’Indiana). Sono Big Daddy e Lonesome Jubilee i suoi dischi impreziositi dal violino della Germano, con uno stile che si mostra subito versatile, arioso e ricco di spunti melodici. Quello che doveva essere il battesimo di fuoco si rivela, con il senno di poi, solo il primo di un lunghissimo percorso di collaborazioni che ha dell’incredibile. Subito dopo Mellencamp, Lisa Germano darà una mano ai Simple Minds, e ancora si registrano collaborazioni con U2, Johnny M a r r, N e i l F i n n , E e l s , M i c h a e l Brook, Pat Green, Latin Playboys, David Bowie, Iggy Pop, E d H a r c o u r t , Ya n n Ti e r s e n , Giant Sand, Indigo Girls, Wend y & L i s a , S h e r y l C r o w, Tr a c y Bonham, Craig Ross, Billy Joel, Bellamy Brothers, Har o l d B u d d , P e t e r M a f f a y, B o b S e e g e r, N a n c y W i l s o n . . . a r t i s t i che non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro. Anche a fronte delle collaborazioni avute nel corso del tempo, appare decisamente riduttivo limitare Lisa Germano al rango di semplice “ex violinista per Mellencamp”, ma più delle collaborazioni lo testimonia il suo curriculum solista. Il primo disco On The Way Down From The Moon Palace (Major Bill - Koch, 1991), sgombra subito il campo da dubbi di sorta, da timori revenziali, timidezze da debuttanti. Nonostante sia un album ancora acerbo e grezzo, con l’elemento country-folk e quello classico ancora separati e poco amalgamati, lo stile della Germano mostra subito fattezze gentili, ricercate, inedite. Metà del disco è composto da strumentali agrodolci. Un repertorio da romanza tradizionale, grandi praterie e sogni americani da coltivare. Ouverture è l’unico termine adatto ad etichettare i brani strumentali come la title track che apre il disco, Calling..., Screaming Angels 36 sentireascoltare D a n c i n g I n Yo u r G a r d e n , S i m p l y To n y e D a r k I r i e . V e r i e propri salti nel buio del suono. Frammenti di concerti per violino che aprono l’orizzonte di piccoli drammi domestici. I brani cantati sono country blues ironici e sarcastici, cantati a mezza voce e suonati quasi tutti in solitario. Blue Monday e Hangin’ With A Dead Man narrano storie di relazioni difficili e controverse, il ruolo della donna nelle piccole comunità di provincia, fino all’incubo noir di Riding My Bike ( He followed me home/ He knows where I live/ He knows my name/ He followed me home/ He knows my name) e alla controversa resa con se stessi di Dig My Own Grave. The Other One - tappeto d’organo, ricami di violino e canto lunare - è il brano più originale del disco, quello dove la Germano si allontana definitivamente dal modello di Mellencamp, sebbene quello di Moon Palace sia un country declinato in un modo così femminile ed ironico da mantenere con il modello originario lo stesso rapporto di somiglianza che c’è tra Marylin e le serigrafie di Warhol. C’è sicuramente ancora molto su cui lavorare. Lo stile è ancora in fieri alla ricerca di una veste completamente personale. Eppure è già a fuoco l’idea di una musica aliena, chiusa nelle proprie paure e riflessioni, con una voce che più che cantare è per lo più un sussurro a labbra strette, con il bisogno di esternare qualcosa che si è covato a lungo dentro. (7.2/10) Sogni e lettere d’amore di una geek girl La sorpresa diventa certezza con Happiness (Capitol, 1993), un disco dove la mutazione si è ormai compiuta definitivamente e il ritratto dell’artista da giovane si completa con una cornice defini- ta unicamente da sé stessa. Questa volta, tra l’altro, la produzione più ricca veste a gran festa i brani e le melodie hanno tutto lo spazio per conquistarsi la ribalta insieme agli arrangiamenti. Un disco che, abbandonati i residui di country-folk dell’esordio, si permette sterzate più rock, c o m e i n Yo u M a k e M e W a n t to Wear Dresses, Happiness, S y c o p h a n t , E n e r g y, P u p p e t , These Boots Were Made For Walking, Everyone’s Victim. Happiness rimarrà l’album più energico della discografia e segnerà anche l’inizio di un avvicinamento verso lidi sonori p i ù d r e a m y, c h e s e m b r a n o d i scendere direttamente da The Other One e gli altri minuetti preziosi di Moon Palace. Nel lento incidere di Bad Attitude c’è tutta la musica della Germano: chitarre effettate, violino che ricama arie di corredo, drumming cadenzato, voce sussurata che nella strofa si scioglie in un unico sospiro, t e s t i s a r c a s t i c i ( Yo u w i s h i t w a s s u n n y, b u t i t ’ s n o t . . . hahaha/ The sun will come out t h e d a y a f t e r t o m o r r o w. . h a h a [ . . . ] Yo u w i s h y o u w e r e p r e t t y, but you’re not...hahaha/ But your baby loves you, he tells you so all the time). Un capolavoro. Si sprecano i cambi di ritmo e ambientazione. Ogni canzone è un discorso a parte. Sycophant è un’altra efficace scenografia psicologica, con la voce che si sdoppia e si triplica nel finale e gli ostinati di piano a marcare la melodia eterea. Un po’ la prima parte di Everyone’s Victim, una confessione di sarcastico vittimismo che si appoggia ad un drumming freddo e marz i a l e . S u Yo u M a k e M e W a n t to Wear Dresses e Breathe A c r o s s Te x a s l a p a r t e d e l l e o ne la fa il violino, corteggiando arie celtiche nella prima e echi di romanticismo classico nella seconda, in pratica uno strumentale orfano di un posto su Moon Palace. Once Around The Wworld è un girotondo pensieroso che anticipa le atmosfere più childish di Love Circus e la title-track, con quella sua intro e il lavorio di chitarra quasi shoegazey sarà un ideale lasciapassare per un approdo a 4AD. Proprio il deus ex machina della 4AD, Ivo Watts-Russell, si trova ad assistere ad un concerto di Lisa Germano al Trobadour di Los Angeles, nel tour di supporto ad Happiness, e rimane molto colpito dalla performance di Lisa, al punto di acquistare i diritti del disco dalla Capitol e scritturarla per la propria etichetta. Un’occasione irripetibile: da un lato la label all’epoca si trova a navigare in cattive acque, dall’altro lo status di culto della 4AD era qualcosa di già abbondantemente acquisito nella storia del rock. Fu così che si decise di rimaneggiare Happiness (4AD, 1993) e riconvertirlo all’estetica dell’etichetta inglese. Non solo un nuovo artwork, ma anche un cambiamento nella tracklist e nel missaggio degli arrangiamenti di alcuni brani, ad opera di John Fryer e Ivo Russell stesso. Il disco questa volta si apre con Bad Attitude, che ha una lunga intro di chitarra effettata. Subiscono a l c u n i c a m b i a m e n t i a n c h e Yo u Make Me Want to Wear Dresses, che diventa The Dresses Song su un tappeto elettronico che segue meglio il fraseggio del violino; Puppet viene rinvigorita ulteriormente da distorsioni, con un missaggio che rende più corposo il basso e mette la voce in riga con gli altri strumenti. Una cosa ancora più evidente in Happiness e nei brani più dark come Sycophant e Everyone’s victim che acquistando in corposità sembrano diventare ancora p i ù s c u r i . Ve n g o n o d e p e n n a t e dalla tracklist These Boots Are Made For Walking e Breathe A c r o s s Te x a s e a g g i u n t e d u e canzoni nuove: The Earth e D e s t r o y T h e F l o w e r. L a p r i m a è un’elegia acustica in punta di dita, mentre la seconda è una canzone che lambisce certe cose di Lou Reed, condita dal sapiente uso del piano e con ritmica in crescendo verso il ritornello. (7.5/10) “Hi, this is the story of geek the girl, a girl who is confused about stuff like how to be cool and sexual in the world but finds out she isn’t cool and gets taken advantage of sexuality a lot, gets kind of sick and enjoys giving up, but in the end still tries to believe in dreams and beauty and still hopes of loving a man that he might save her from her shit life... ha ha what a geek! ” Nel primo vero disco di Lisa per 4AD, la Everyone’s Victim di Happiness diventa qualcosa di più definito. Geek The Girl (1994, 4AD) rimane ancora oggi una testimonianza straordinariamente sincera, cruda e intensa. La sensibilità di una donna che stringe i pugni contro le proprie paure e strofina le nocche fino a farsi sanguinare. Non è un caso che sia proprio questo il suo disco più conosciuto e amato. Geek The Girl ha la stessa intimità e confidenza di certe ballate di John Lennon, quando con pochi accordi sembra raccontarti una vicenda personale. Tutti possono riconoscersi nelle parole, nelle impressioni e nelle paure di questa geek, che altri non è se non un’ironica incarnazione dell’artista. Le note di copertina lo dicono chiaramente: questa è la storia di una ragazza che non riesce a rapportarsi con il mondo esterno, vittima delle proprie paure e insicurezze, ma che forse crede ancora nella possibilità che un principe azzurro arrivi a salvarla. Il tema centrale dell’insicurezza, della donna come vittima di un sistema intrecciato di veti, incomprensioni, manie e persecuzioni e la ricerca determinata di una verità più vera a cui aggrapparsi. Il frammento di tarantella che apre il disco e torna per altre due volte, al di là dei connotati autobiografici, messo così... tra melodie tanto tristi e dimesse, aumenta il senso di disagio. Una stravaganza dai sinistri contorni morbosi. Così come è morboso lo sprofondare a testa bassa nel proprio disagio. Non è malinconia, ma un passo più giù verso la tristezza. La sua verità segreta (My Secret Reason) è l’accettazione del male (In my secret reason, my secret reasons/ If no one’s right and no one’s s e n t i r e a s c o l t a r e 37 wrong/ In between this we are learning much about evil, it’s just evil) e la necessità di superare le proprie paure a qualunque costo (Trouble). Il momento più nero del disco è la terrificante ...A Psychopath. Ritmica esangue, un fraseggio greve di violino, poche parole cantate in ipnosi alternate alla registrazione di una t e l e f o n a t a a l 9 11 a m e r i c a n o , dove una donna urla la testimonianza del proprio stupro. Tutto il disco sopravvive quasi senza fiato a questo e altri maniacali pugni nello stomaco. Altrove non è la paura, ma la tristezza purissima di una Cry Wolf.: un movimento circolare, un carillon acustico, mantrico e ipnotico. O anche la stessa Geek The Girl: un girotondo di l a c r i m e , b a s s i e d e l a y. I l m o o d è così sfacciatamente triste e oppresso che la Nostra ha però l’ironia di condire il tutto con il goticismo sfacciato d e g l i a r r a n g i a m e n t i . L’ o r g a n o transilvano di Phantom Love, il look vampire-chic dei violini di Just Geek e Sexy Little Girl Princess, con quest’ultima che parte da un’intro vagamente à la Cure e poi evapora letteralmente nell’etere, e la voce che diventa un incrocio tra un fantasma e Bette Davis cantando sinistramente: “Run along, little girl unto mommy/ Sexy little girl princess/ Say you loved it”. E ancora la mortifera autoironia di Cancer Of Everything (This is a happy song/ ‘Cause I want cancer of everything, 38 s e n t i r e a s c o l t a r e yeah right / And if I fall down in a face of scars, I get attention) e la caustica acidità di ...Of Love And Colors (People, all our fucked-up smiles / We quit dreaming long ago and our / Distrust and our add i c t i o n s a n d o u r d e s i r e / To kill each other makes all the sense in the world ). Si chiude a metà tra la speranza e il p r e s a g i o c o n A G u y L i k e Yo u e Stars. (8.0/10) Geek The Girl è un sudario di musiche tristi e confessioni intimiste che, complice anche la griffe 4AD, riesce a conquistarsi una certa attenzione da parte della stampa specializzata. Rolling Stone chiude la sua recensione con un “unforgettable” e Spin con un profetico “some may find it depressing. But that’s because it’s pushing their buttons- and revealing things they don’t want to see”. A dispetto del plebiscito critico, ritardi nella distribuzione compromettono l’effetto commerciale e il disco non vende molto. Il dado è però tratto. Ormai Lisa Germano è stata connotata come u n a s o f t d a r k l a d y, c a p a c e d i dischi musicalmente sofisticati e dagli umori minacciosi se non proprio “devastanti”. E’ su un simile background che il quarto disco si trova ad agire. Excerpts From A Love Circus sfere infantili e fiabesche, che fa decisamente rima con certe cose di This Mortal Coil e Durutti Column. Dopo un lavoro nerissimo come Geek The Girl Lisa attenua la componente più spigolosa, si ritrae come una bambina nei propri sogni e nelle proprie visioni e tira fuori dal cilindro una serie di pop songs dal fascino arcaico, mesto e onirico. Un lavoro dal grande impatto sonoro, complice anche il sapiente lavoro di Paul Mahern che sottolinea magnificamente il sottotesto musicale. Baby On The Plane apre subito alla sua maniera: un valzer clownesco e brumoso, che si arricchisce piano piano di dettagli ed effetti e su cui le parole volteggiano come in stato di trance. Sulla stessa linea la successiva a Beautiful Schizophrenic, una tristissima giostra onirica, che trasuda le solite confessioni autobiografiche e la bellissima Bruises, che muove da un irresistibile refrain del violino. Questi estratti dal circo dell’amore sono i pensieri di storie ed affetti che si rincorrono, si intrecciano e si tradiscono l’un l’altro. Anche il fraseggio testuale si addolcisce. Non ci si martirizza più e si esplorano le mille risorse delle relazioni umane, come l’ironica I love A Snot (Shaky shaky thoughts/ (1996, 4AD) è generalmente considerato il disco dal taglio più consono alla 4AD. Trattasi infatti di un vero e proprio dreamscape ricolmo di atmo- Each and every one/ When I a m w i t h y o u / R u n t u b b y, r u n to) o Small Heads (The world revolves around you/ But it revolves around me too/ So how could we see the same one). Certo Lisa Germano non potrà mai essere una indie girl tutta rosa e cuoricini. I fantasmi interiori e l’acredine verso il mondo circostante tornano anche qui. We Suck è l’eloquente titolo di una confessione di sfiducia verso gli uomini e l’incomunicabilità tra i sessi; il segreto di Victoria, ovvero Victoria’s Secret, è il catalogo di costumi da bagno, ricolmo di bellissime donne in bikini, che dalle fotografie stampate salutano Lisa e quante non riescono ad essere così perfette, in un sarcastico e ipotetico dialogo (She says you are u g l y I a m p r e t t y / Yo u r m a n wishes you looked like me). Se su Geek.. il brano chiave era ...A Psychopath, qui tutto sembra girare intorno a Lovesick, un vero e proprio blues su drum machine, che parte con la memorabile strof a ( Yo u ’ r e n o t m y y o k o o n o / Yo u s a i d t h o s e w o r d s t o m e / Yo u s a y s o m e h u r t f u l t h i n g s now / None cut so deeply) e nel secondo ritornello vede una Germano - in maniera al quanto inedita per lei - urlare ripetutamente “Lovesick” come ad esorcizzare un incubo. Il trittico finale (Singing to the Birds, Messages from Sophia, Big, Big World) chiude con distacco, su partiture ironicamente altezzose, sopra le righe, come l’apoteosi di archi e cori che sta alla fine della seconda strofa di Messages from Sophia o l’accenno di Jingle Bells... un attimo prima di chiudere. Il vero tema di Geek… era la paura. La paura di non farcela, la paura di provarci. Love Circus invece è un lavoro incentrato sulla ricerca di un contatto, sul tentativo di uscire dalla solitudine autoinflitta e r a p p o r t a r s i a l l ’ e s t e r n o . L’ a l t r o grande protagonista del disco è Miamo-tutti, l’amato gatto di Lisa, che torna a più riprese, con dei brevi intermezzi tra un brano e l’altro, miagolando e facendo le fusa, e restituendo un’immagine ancora più solitaria della protagonista. Ma allora Lisa Germano è solo una gattofila che sta chiusa in casa? (8.0/10) La mossa successiva sembra rispondere a questa domanda con un fermo diniego. Love Circus vende poco (tra le 10 e le 20000 copie) e forse è anche per questo che un nuovo progetto a cui la Nostra si dedica nel 1997 sembra naufragare. Gli OP8 (sigla che sta per Opiate) nascono infatti come una estensione solista. Lisa chiama Howe Gelb, John Convertino e Joey Burns (in pratica Giant Sand e Calexico) per registrare qualcosa insieme. Il feeling è così forte che il quartetto si trova a registrare tre canzoni in un giorno e mezzo. La 4AD scarica definitivamente il progetto e rilascia i diritti, permettendo ai quattro di trasferirsi a Tucson. I soldi non sono molti così decidono di contenere i costi registrando tutto in sei giorni. E’ questa la gestazione di Slush (1997, Thirsty Ear), un matrimonio tra terra e cielo che cita Lee Hazlewood e Nancy Sinatra (Sand), Neil Yo u n g ( R o u n d a n d R o u n d ) e nel mezzo affina doti e caratteristiche di singoli e coppie. If I Think Of Love è la morbida ballad intimista a cui la Nostra ci ha abituati, che si sposa a meraviglia con le ruvidezze desertiche dei Giant Sand, su passo marziale e chitarre acustiche. Ancora, It’s A Rainbow classicamente person a l e e To m , D i c k & H a r r y . d r o gata ballata acidula. Questi i pezzi scritti integralmente da Lisa Germano. Ma il repertorio degli OP8 trae il proprio fascino dall’unione degli opposti, dal mood jazz noir per un saloon perso nel deserto, che muove sabbia e polveri in Leather o nella magnifica sinfonia mariachi di Cracklin’wat e r. U n i c o d i s c o d e l p r o g e t t o dato alle stampe fino ad oggi, Slush mostra una Lisa Germano sicura di sé nei panni della chanteuse d’antan che sposa l’attualità indie. (7.8/10) Il mancato patrocinio della 4AD per Slush testimonia l’incrinatura di un rapporto che, seppure costante sul piano artistico, vacilla su quello economico. I dischi della Germano vendono troppo poco. Slide (1998, 4AD) allora è l’ultimo disco per l’etichetta che viste le ridicole vendite (6000 copie) scarica l’artista. Un peccato doppio, anche perché Slide è un altro viaggio erudito e pregevole nel mondo fatat o d e l l a s o n g w r i t e r. I m p r e z i o s i t e d a l l a p r o d u z i o n e d i Tc h a d Blake, le canzoni vivono contemporaneamente in un corpo opaco e cristallino, che risalta le melodie. I tipici arrangiamenti eccentrici diventano un tutt’uno con gli effetti da studio. Un esempio perfetto è la ballata acustica No Color Here, che parte con il ventre vuoto e si riempie cammin facendo di effetti e suoni. Una sorta di digitalizzazione della psichedelia dei ‘60, che trova i suoi apici in oniriche ballate d’avanguardia. Un esempio magnifico è Electrified che dopo una sinfonia di liriche partiture di violino e stellari suoni in reverse sfuma in un tristissimo valzer ovattato o anche l’iniziale Way Below The Radio che saltella su ritmiche elaborate al pro tool e le più m o v i m e n t a t e To m o r r o w i n g e Tu r n i n g I n t o T h e B e t t y, o b l i q u i capolavori melodici. La Germano triste e contrita, che si lecca le ferite e inveisce a mezza voce torna con le ballad per piano più classiche del suo repertorio: Slide, Wood Floors e soprattutto Guillotine. Slide, ancora oggi, rimane uno dei dischi con il suono migliore e la produzione più intelligentemente amica degli arrangiamenti. Il duo Germano/Blake non tornerà ed è un peccato, perché entrambi nei rispettivi successivi pro- sentireascoltare 39 getti tenteranno di riprodurre la particolare alchimia di questo disco. Blake, soprattutto, si troverà a ripeterne alcune soluzioni nella produzione di Tr u s t d e i L o w, e s p r e s s a m e n t e voluto da Alan Sparhawk proprio dopo aver sentito Slide, ma non riuscirà ad ottenerne la stessa chimica sonora. (8.0/10) Dopo essere stata scaricata dalla 4AD Lisa Germano mediterà a lungo il ritiro, alternandosi tra il lavoro in libreria e le collaborazioni che continua a fare un po’ per bisogno artistico, un po’ per necessità ali- 40 sentireascoltare mentari. Tra queste si segnalano, in particolare, due brani c a n t a t i s u L’ A b s e n t e d i Ya n n Tiersen, un tour con gli Eels (e più di una mano su Shootenanny!) e ancora un tour con Latin Playboys e uno con Neil Finn. Insomma, non rimane certo con le mani in mano, ma il periodo non è comunque dei migliori e la Nostra cade in una profonda depressione, a cui sembra dare il colpo di grazia la morte dell’amato Miamo-tutti. E’ in questo contesto, con l’unico sollievo della bottiglia, a cui si aggrappa sempre di più, che si svilup- pano le canzoni di Lullaby For Liquid Pig (2003, Ineffable/I Music). Ninne-nanne per cuo r i solitari Lisa concepisce tutte le canzoni in solitaria a casa, e una volta completate la registrazioni, spedisce i provini a cinque / sei persone di fiducia, alla ricerca di un modo per distribuire l’album (solo molto dopo si scoprirà che tra questi cinque / sei c’è anche Michael Gira). Il primo a ris p o n d e r e a l l ’ a p p e l l o è To n y Berg, un amico conosciuto nel bookstore dove lei lavora, che sta cercando un disco per far partire una nuova label, chiamata Ineffable. I suoi mezzi sono però ancora abbastanza limitati, così è la stessa Lisa a consigliare Berg di mettersi in contatto con Marc Geiger dell’ARTISTdirect e fare una quello di tornare con i piedi per terra ed evitare l’oblio facile e la regressione nella solitudine. Un invito a sé stessa come quando in Lullaby For Liquid Pig sentenzia inequivocabile: “I need a fix / A little one / And then it’s over [...] I probably won’t (stop)/ Without sorta di joint venture distributiva. E’ così che va alla fine. Dopo cinque anni di silenzio, Lisa Germano torna finalmente a far parlare di sé con un disco abbastanza diverso da quello a cui ci aveva abituati (mancano cmq anno ed etic h e t t a d e l d i s c o ) . L’ a p p r o c c i o è sempre quello di un personale colloquio fra sé e la Luna fatto di sussurri e malinconie, ma questa volta si torna nel mood più nero di Geek The Girl. Dal punto di vista sonoro, invece, si prosegue lungo le coordinate tracciate da Slide e il sound si riallaccia soprattutto alle piano ballads di quel disco, sempre disturbate ai margini da rumori, effetti e suoni. Sono austere elegie di solitudine e malinconia come l’iniziale Nobody’s Playing e Pearls a tracciare i contorni di un diario personale intimo e contrito. L’ a m a r a a u t o i r o n i a c h e l a c o n traddistingue emerge evidente in Liquid Pig, un nomignolo che era solita affibbiarsi quando esagerava con l’alcool o nel country giocattolo che sentenzia ironico It’s Party Time, con tanto di chitarrina slide, decisamente sopra le righe. L’ i n v i t o c e n t r a l e d e l d i s c o è you here/ Without your love” o come quando in Dream Glasses off ci si appoggia a qualunque cosa, anche a persone e cose sbagliate, pur di colmare un vuoto implacabile (Hey again / I thought that you were my f r i e n d / Ta k e t h e d r e a m g l a s ses off / And see again) o il bisogno fisico e psichico di un amore a cui affidarsi per trovare un equilibrio interiore ( T h e r e i s l o v e / To b e f o u n d / With the gods all gone and the souls making sound). Lullaby For Liquid Pig è un emozionante matrimonio di suoni e parole. Un ritorno in grande stile alla densità di Geek e Love Circus. Quello che si perde sul piano melodico lo si acquista in scenografia e passionalità. Il disco è certamente “intenso e monocromo” come ebbe a definirlo Beppe Colli, senza quei salti di registro tra un brano e l’altro, caratteristica dei dischi precedenti, ma il gusto per l’arrangiamento fantasioso è evidente anche in un lavoro così omogeneo. Saltano fuori arpeggi acustici a rianimare l’esangue Paper Doll; la fauna onirica da cui prende l’abbrivio Liquid Pig, con voce distorta e basso cavernoso o ancora i mandolini della title track, l’ovattato e opaco pro tool sound su cui volteggia All The Pretty Lies e il refrain da belle epoque che anima Into The Night. (7.8/10) Dopo questo disco la Ineffable fallisce inesorabilmente. Va d a s é c h e i c o m m e n t i s u l disco, sono mediamente ottimi con punte entusiaste (Pitchfork), ma ancora una volta le vendite sono quello che sono. Lisa Germano si ritrova di nuovo senza etichetta e sembra sparire ancora una volta per sempre, fino a quando non si viene a conoscenza che c’è un nuovo disco e che per di più vede la luce s u Yo u n g G o d R e c o r d s , l ’ e t i chetta dell’ex Swans Michael Gira, uno che come minimo ha un ottimo gusto musicale (Devendra Banhart, Akron Famil y, C a l l a , U l a n B a t o r, W i n d s o r f o r t h e D e r b y, A n g e l s o f L i g h t , M i & L’ A u ) e c o m e m a s s i m o ha qualcosa di geniale (Filth, Cop, Children of God, i cosidetti “Bunny Records” degli Swans e ancora le cose con Angels of Light). Rarità, stranezze e brutte canzoni Lisa Germano è un’artista che si è sempre concentrata sul formato dell’album standard, ma nell’epoca dell’iperproduttività e del presenzialismo nei mercati, nemmeno una old style come lei è riuscita ad evitare il formato Ep. La Nostra fa le conoscenze di questo formato contestualmente sentireascoltare 41 all’ingresso in 4AD. E’ infatti con un mini intolato Inconsiderate Bitch che la Nostra si fa conoscere sull’etichetta; è in pratica la prova generale del remissaggio di Happiness, contenente cinque brani tratti dalla versione Capitol del disco. Qualcosa comincia già a cambiare, come testimonia il vuoto etereo in cui viene lanciata Sycophant e la prima versione rinnovata di The Dresses Song, che qui è (late night) Dresses. La grafica del disco è affidata al grande Va u g h e n O l i v i e r, c h e s i o c c u perà anche del nuovo artwork di Happiness. Un altro Ep targato 4AD è un estensione del singolo di Cry Wolf. Quattro i brani, tra cui un’inedita The Mirror is Gone che dal pigno country deve essere avanzata dall’epoca di Moon Palace. Si segnalano poi due remix abbastanza inutili, uno di Cancer of Everything e uno di Sexy Little Girl Princess. Segue Small Heads, che viaggia insieme a Excerpts from a Love Circus. Un pezzo inedito, Fun, Fun for Everyone e u n a p r i m a v e r s i o n e d i To m , D i c k a n d H a r r y. N e l s u c c e s s i vo singolo di I Love A Snot c’è una prima collaborazione con Tc h a d B l a k e c h e r e m i x a p r o prio questa canzone, mentre l’arte del remix, molto in voga all’epoca, produce un singolo totalmente elettronico di Lovesick, con la song di Love Circus remixata da Underdog. Infine c’è da segnalare che anche Lisa Germano ha i suoi best of e raccolte di outtakes. Nel buco nero temporale che va da Slide a Lullaby for Liquid Pig, la Nostra apre finalmente il proprio sito e decide di usarlo per vendere due dischi autocompilati, uno con il meglio dei suoi dischi e un altro che raccoglie versioni inedite, outtakes e b sides. I due dischi in questione sono Concentrated e Rare, Unusual or Just Bad Songs. Il primo è appunto una sorta di “Grea- 42 sentireascoltare test Hits”, ma più che questo, visto che di grandi hits non è propriamente corretto parlare, Concentrated è proprio quello che dice la parola: un bignami della carriera, tutto concentrato in un disco. Una selezione avvincente, ma tra i due il disco più interessante è per forza di cose Rare, Unusual or Just Bad Songs. Oh...Just A Melody che apre il disco, è probabilmente un abbozzo di valzer che sta tra gli avanzi di Love Circus e Slide, mentre Starfish e una ballata dell’epoca di Happiness. Seguono stranezze come una versione strumentale di I Love A Snot, un frammento di ...Breathe A c r o s s Te x a s e u n a v e r s i o n e grunge di Fun Fun For Everyone!. Ma sono gli inediti il vero fascino di questo disco, come le misteriose Cat Mask And Cowboy Hat, Dreamland, Ice Cream Truck, Offering, Guardian At The Exit Gate. Tutte rimaste poco più che provini, chiuse per sempre nel limbo dei lati B. F i n d o v e si spingono i n o s t r i forse - Due c h i a c c h iere con Lisa Beh, prima di tutto, mi piacerebbe sapere qualcosa sul tuo incontro con Michael Gira e su come quest’ultimo sia riuscito a convincerti ad incidere per l a s u a Yo u n g G o d . C o n o s c e v i già gli Swans? Ho sentito parlare per la prima volta degli Swans dal mio b a t t e r i s t a T h o r, n e l t o u r d i “Happiness”. Non foss’altro che per il fatto che ascoltava gli Swans per TUTTO il tempo: era in qualche modo ossessionato, così qualche anno più tardi mi chiamò tutto eccitato, perché aveva finalmente incontrato Michael Gira. Stava formando una nuova band chiamata Angels of Light, e chiese a lui di suonare sul disco. Non so se allora Thor introdusse Michael alla mia musica…ma credo di si. Dopo di che abbiamo cominciato a comunicare quando stavo lavorando a Lullaby For Liquid Pig, e nonostante mi sentissi a mio agio con lui e con lo scambio che stavamo avendo, decisi di fare uscire il disco per una label di qui in L. A [la Inneffable]. Ad ogni modo decidemmo di rimanere in contatto. Ho poi avuto molti problemi con la distribuzione… l’etichetta chiuse non molto dopo aver fatto uscire il mio disco etc… ma ho sempre apprezzato il tempo e la dedizione che hanno messo a disposizione per me, così c o m e f a c c i o o r a c o n Yo u n g God. Quando stavo cercando di capire se lavorare o meno su queste nuove canzoni, la prima persona a cui le ho mandate è stata Michael ed è stato lui a convincermi a finirle… sono veramente contenta di averlo fatto con il suo aiuto e mi sento onorata di essere s u l l a s u a e t i c h e t t a . Credo nella sua estetica, con tutti i dischi che ha fatto uscire… ognuno con una sua unica personalità e caratteristica e questo lo si vede anche dagli artwork. A proposito di artwork, dopo la cover di Lullaby For Liquid Pig, il dipinto di Francesca Sundsten si mantiene sugli stessi toni allegri… hai scelto tu le immagini? Michael mi ha mandato i dipinti di Francesca Sundsten e li ho subito adorati, e tra di essi a b b i a m o p o i s c e l t o l a c o v e r. E’ un’immagine triste, ma ha un qualcosa di bello dentro e credo che centri perfettamente il tema di questo disco… che è l’accettazione della morte… guardare ad essa con tristezza ma anche con la bellezza che può avere una porta aperta attraverso cui poter guardare diversamente… ad esempio non c’è sangue che fuoriesce dalla testa del coniglio, è lui che sta abbandonando se stesso o i piccioni a beccarlo per svegliarlo. Tutte le canzoni del disco hanno in qualche modo a che fare con questo sentimento del “risveglio”. Quello che dici mi fa venire in mente Miamo-tutti, il tuo gatto diventato una superstar (tra i fan) dopo le performance canore su “Excerpts from the Love Circus”. Quando morì, ti ritirasti in te stessa e mettesti anche un messaggio sul sito. Questo episodio è in qualche modo connesso al nuovo album? Quando Miamo-tutti morì, fu un colpo al cuore per me, ma anche un momento davvero magico in cui mi sentivo vitale e pienamente cosciente del mio bisogno di apprezzare qualunque cosa fosse viva. Come la canzone “Golden Cities”. Miamo-tutti, deve averla scritta lui perché ho cominciato a cantargliela, mentre lo abbracciavo prima di morire [NdR. Nei credits del disco si legge infatti: “actually written by miamo-tutti”] Lui ancora viene a visitarmi in spirito così…. perché la morte deve essere così orribile, quando lui è ancora qui a volte? Di cosa parla la canzone che dà il titolo al disco? Cos’è questo Mondo del Forse? Ho scritto la canzone In The Maybe World quando i gatti cominciavano a portarmi uccelli dal tetto per poi ucciderli… era una cosa che mi rendeva così triste, ma dovevo guardarla in un modo del tutto differente, perché loro sono solo gatti e stavano veramente portando a ME questi uccelli…una specie di dono. Adesso ho due gatti, Lou e Vian, ma non li lascio andare più sul tetto. Ad ogni modo, la maggior parte delle canzoni hanno questo argomento, la morte e la sua accettazione e di come noi non possiamo conoscere quello che accade… nel mondo del forse. Non ci sono solo gatti e uccelli in questo disco, anche persone, nella fattispecie appaiono tra le pieghe dei testi, tuo pad r e e a n c h e J e f f B u c k l e y. . . S ì . To o M u c h S p a c e è u n a canzone che scrissi immaginando come mi sarei sentita se mio padre fosse morto. Doveva avere un’operazione chirurgica ed ero terrorizzata…. Ma tutto andò come si deve e lui adesso sta bene. Except For The Ghosts è una canzone che scrissi molti anni fa quando Jeff Buckley annegò. Stavo immaginando come ci si deve sentirsi mentre si annega… accettare le onde e ad un certo punto arrendersi alla morte… forse bisognerebbe ricordare le cose belle invece che la paura…. solo una speranza che lui abbia sentito questo. Per venire all’aspetto produttivo del disco, sembra che anche questa volta, come per Lullaby for Liquid Pig, sia stata una tua avventura solitaria. In quell’occasione i contributi di Johnny Marr e Neil Finn furono registrati a parte e sovraincisi in un secondo momento dopo che questi ultimi te li avevano spediti. Come hai sentireascoltare 43 lavorato questa volta e quanto è stato importante il contributo di Jamie Candiloro? Questo disco e Lullaby sono stati registrati originariamente da me, qui a casa, e così… con la mia esperienza e strumentazione limitate, hanno un suono molto simile. Ho il bisogno di registrare le canzoni qui, prima per me, e vedere se mi convincono, quando finalmente ci riescono posso portarle da un’altra parte per finirle. Jamie Candiloro è stato veramente importante nell’aiutarmi a finire l’album e nel cercare di far suonare le canzoni meglio delle versioni demo. Lui ha trasferito le tracce sul suo protools e allora abbiamo aggiunto alcuni dei miei amici, Sebastian Steinberg, Johnny Marr e Joey Wa r o n k e r, c h e h a n n o m e s s o un po’ di profondità. Mi piace quello che hanno fatto e in generale amo lavorare con altri artisti… ci sono programmi in vista, ma recentemente ho scritto una canzone con Michael Brook che è sul suo nuovo disco, chiamato Rock Paper Scissors e che esce il 18 luglio. Sembri essere la musicista preferita dagli altri musicisti…Neil Finn, Eels, Calexic o , Ya n n T i e r s e n , e c c … A l a n Sparhawk dei Low disse che Slide era uno dei suoi dischi preferiti… come ti spieghi che presso gli addetti ai lavori hai un credito considerevole, mentre il pubblico fa sistematicamente fatica a creditarti l o s t e s s o t r i b u t o d i u n a To r i Amos, tanto per fare un esempio? Non so perché la mia musica non vende più di quanto f a o p e r c h é To r i A m o s s i e i o no, ma è solo la mia sfida a crescere sempre e a superare tutto. Le lettere che ricevo dalla gente mi aiutano molto a capire che la mia musica riesce a raggiungere qualcuno… ringrazio queste persone per 44 sentireascoltare avermi fatto capire. Questo mi fa in qualche modo intendere che non ritieni il mood melanconico delle tue canzoni un motivo di allontanamento dal grande pubblico, come qualcuno afferma. Non penso che la mia musica sia così dark e depressa come certe persone dicono. Metto un po’ di humour nelle canzoni così come nell’opera… quando c’è tanta tragedia, c’è anche tanto divertimento… questo mi aiuta a mantenermi distante dai drammi e a guardare alle cose con occhi differenti. Devi avere senso dello humour in questo business, così non prendi le cose duramente quando non vanno bene… come lavorare con degli stronzi o non vendere dischi, che sono due cose che musica. C’è un posto per tutte loro, da qualche parte nei tuoi stati d’animo. Ho tentato di poter realizzare un altro disco degli OP8, ma è difficile perché Joey è veramente impegnato con i Calexico e lui e Howe non parlano da molto tempo… forse… un domani… lo spero. possono accadere di sicuro. e ci vedremo allora. Come senti di essere cambiata dai tempi di Mellencamp e qual è la collaborazione artistica che ricordi con più piacere? In particolare, il mondo sta aspettando un secondo disco degli OP8. Che preghiera dobbiamo pregare per vederlo realizzato? Sono stata veramente fortunata a poter lavorare con artisti cosi diversi, da Mellencamp ai Giant Sand, da Bowie ai Latin Playboys, forse perché mi piacciono tutte le forme di Voglio chiudere nella maniera più banale possibile, e farti la classica domanda sull’Italia, non foss’altro che c’è un agguerrito, seppure piccolo, gruppo di tuoi fan che vorrebbero vederti dal vivo. Quindi, quando pensi che ci verrai a trovare? E’ ormai tempo di venire in Italia per suonare e per trovare marito… ha ha ha probabilmente no… ma forse… grazie recensioni Lisa Germano - In The Maybe World (Young God Records / Goodfellas, 18 luglio 2006) Che Michael Gira avesse un fiuto infallibile e una predilezione per certe sonorità rétro e arcaiche era cosa già ampiamente d i m o s t r a t a d a l l ’ e x p l o i t d i M r. D e v e n d r a B a n h a r t , m a c h e a d d i rittura la sua maniacale dedizione per la musica lo spingesse a salvare dall’oblio una Lisa Germano certo non di primo pelo e per di più fuori dal trend contemporaneo delle riscoperte (che allo stato attuale sembrano ancora non interessare i ‘90), assomiglia proprio ad una delle storie melanconiche su cui la cantautrice ha costruito la sua poetica. Il feeling tra i due era iniziato con Lullaby For Liquid Pig, con un Gira che aveva tentato fino all’ultimo di poter pubblicare il d i s c o s u Yo u n g G o d . R i e s c e q u i n d i a d a v e r l a v i n t a c o n q u e s t o In The Maybe World e a scritturare finalmente Lisa Germano sulla propria etichetta. Ma come si spiegano un simile attaccamento e un entusiasmo decisamente sopra le righe? Ce lo dice lui stesso: “Sono stato un fan della musica di Lisa per anni. Le sue canzoni sono incredibilmente vive e spesso straziantemente belle. E’ una grande autrice di testi e cantante ma anche una multi strumentista estremamente talentuosa”. Ok. Sta sostanzialmente cercando di vendere un suo prodotto, ma certi toni entusiastici si commentano semplicemente per quello che sono: sincere attestazioni di stima. E allora il nuovo disco ripaga con la merce di cui sono fatti i sogni... della Germano, qualcosa che è sempre pronto a mutarsi in tragedia o viceversa a scherzare ironicamente sui lati bui della vita. Che il disco in questione abbia come tema dominante “la morte e la sua accettazione” si ricollega direttamente a vicende personali. In The Maybe World è il disco del “risveglio” dopo l’abisso depressivo in cui la Nostra era sprofondata con Liquid Pig. Il disco è stato prodotto nuovamente in solitaria, tra le mura della propria casa e solo successivamente rinvigorito con gli effetti arc h i t e t t a t i i n s i e m e a J a m i e C a n d i l o r o e a i c o n t r i b u i t i d i J o h n n y M a r r, S e b a s t i a n S t e i n b e r g e J o e y Wa r o n k e r. L a t o n a l i t à è l a s t e s s a d e l d i s c o p r e c e d e n t e , m a l e m e l o d i e s o n o p i ù p r o n u n c i a t e e m e n o a b b a n d o n a t e n e l l ’ e t e r e . L o d i c e s u b i t o l a c l a s s i c i s s i m a To o M u c h S p a c e , c h e m u o v e l e n t a e avvolgente fino alla chiusura finale con voce espansa. Tutta la prima parte del disco ha il cuore rivolto al passato ed è sostanzialmente omogenea. La sinistra ballata In The Land of Fairies spezza l’idillio e comincia ad agitare le acque. Il dispiego dell’armonia è di rara eleganza, fino al riverbero della seconda strofa che altera il suono. Questo disco e Lullaby For Liquid Pig sono lavori in qualche modo gemelli, sebbene dagli umori opposti, e condividono un approccio alla produzione forzatamente solitario, quasi lo fi. Questa volta, la pesantezza minimale degli arrangiamenti toglie parecchi punti alle melodie. Un maggior dispiego di mezzi in sede produttiva avrebbe senz’altro giovato a brani come Moon In Hell e Into The Oblivion. Per il resto, certe cose sono così personali e autografe, che sarebbe impossibile immaginarle da parte di chiunque altro: il carnevale onirico della title-track che chiude sui toni gotico burtoniani di un Danny Elfman; la coda folk di Into Oblivion, quella lunare in punta di carillion di Moon In Hell o il cinguettio che accompagna Golden Cities (“una canzone scritta da Miamo-tutti”, il gatto che cantava su Excerpts From A Love Circus); il valzer che trafigge al cuore di Red Thread (una love song delle sue: “ Go to hell, fuck you, I love you”) e l’austera e struggente ode a Jeff Buckley di Except For The Ghosts. Fa una certa tenerezza notare come ormai giunta al settimo disco ufficiale, e dopo averne passate di tutti i colori con la distribuzione e il mondo del music business, Lisa Germano non abbia ancora capito come fare a confezionare un disco - anche solo vagamente - ruffiano. In The Maybe World è un altro lavoro che si concede lentamente, lontano dalla fretta attuale e che sedimenterà negli anni, come tutta l’opera dell’artista. (7.5/10) Antonello Comunale sentireascoltare 45 recensioni Tv On The Radio - Return To Cookie Mountain (Interscope 4AD /Self, 30 giugno 2006) Il secondo disco dei Tv On The Radio ha riprodotto, negli anfetaminici anni 2000, quella ossequiosa e trepidante attesa che ha sempre accompagnato le grandi stelle del rock. Un guazzabuglio di voci di corridoio, indiscrezioni, versioni advance mandate in rete prive di masterizzazione, senza un titolo definitivo, con l’incognita della data di uscita e la tracklist da rivedere. A riprova che l’attesa fosse quella delle grandi occasioni e il senso di déja vu evidente, anche il cambio di etichetta. Nient e p i ù To u c h & G o . P e r i l d i s c o d e l l a m a t u r i t à è p a r s a s u b i t o evidente a tutti la necessità di distribuzioni più professionali e performanti, e quindi ecco i newyorkesi targati major Interscope (sussidiaria Universal) per la distribuzione statunitense, noncuranti delle richieste provenienti dalla base, e pronti a mostrare cinica professionalità e scaltro calcolo programmatico. E s i a m o d u n q u e a R e t u r n To C o o k i e M o u n t a i n . I l f a t i d i c o s e c o n d o d i s c o . “ Q u e l l o d e l l a m a t u r i t à ” . Va s u b i t o s e g n a t a t r a i p r e g i l ’ a v v e n u t a p r e s a d i d i m e s t i c h e z z a c o n i p r o p r i m e z z i , c o n i l p r o p r i o s t i l e , c h e s u D e s p e r a t e Yo u t h . . . e r a a n c o r a i n f i e r i . Q u e l m o s t r o d i F r a n k e n s t e i n c h e è il suono dei Tv On The Radio, a dispetto delle sue caratteristiche meticcie è, invero, ormai riconoscibilissimo al primo secondo di ascolto. Gioca a tutto vantaggio il coacervo canoro che anima tutti i pezzi. Kip Malone e Tunde Adebimpe nei brani più alla Bowie cantano ancora più alla Bowie; nei brani più alla Gabriel, ancora più alla Gabriel; negli scarti più gospel-soul ancora più gospel-soul. Se è vero che la regola non scritta di tutti i sequel hollywoodiani di successo è quella di aumentare esponenzialmente gli effetti, le esplosioni, le sparatorie, buon viso a cattivo gioco ed ecco Bowie, quello vero, unirsi alla banda nella calda ballata sgraziata di Province. Ma la lunga ombra del duca bianco si allunga su tutto il disco. Wolf Like Me - che si fregia, tra l’altro, del contributo di Katrina Ford dei compagni d’arme Celebration- è una specie di Suffragette City più acida per uno Ziggy Stardust negro da romanza pulp e l’iniziale I Was A Lover è l’uomo che cadde sulla terra, sprofondando in pieno ghetto hip hop. Ma i Tv On The Radio non sono sic et simpliciter degli emulatori. Il loro approccio è quello dei ragazzini anni ‘80 che giocavano agli incastri con il cubo di Rubik. La sequenza blu è quella delle plumbee pagine new wave. Hours, complice anche Kazu dei Blonde Redhead, si muove sul passo cadenzato degli Psychedelic Furs e il coro da ululato alla luna, nella migliore tradizione britannica. E ancora la vigoria tutta punk rock di Playhouses, che pare uscita dritta dritta da un D r a g n e t o u n H e x E n d u c t i o n H o u r, s e o v v i a m e n t e a c a p e g g i a r e i F a l l c i f o s s e s t a t o u n d e a d l o c ker nero e non Mark “denti marci” Smith. Gli arrangiamenti sono tutti estremamente elaborati. Il battito di mani che tiene il tempo in Let The Devil In, lo scampanellio che apre le danze di A Method e l’organetto di Dirty Whirl, cose che stanno a metà tra un brano r’n’b e un outtake di Peter Gabriel. Sotto il segno di quest’ultimo si chiude tra l’altro il disco. Wash The Day Away: densa e magnetica, come le costruzioni tecno-melodiche di Us o Up. Il disco pur nella sua ricercata varietà vive benissimo come un tutt’uno e in fase di scrittura mostra i segni del lavoro di mani ormai sapienti, seppure il déja vu, di fronte a certe armonie, emerga comunque. Ma è un peccato veniale di questi tempi. Che il post modernismo, inteso come assimilazione, rielaborazione e riproduzione di elementi, stili e idee del passato, in nuove forme, sia la prerogativa dominante dell’attuale popular music, fuor di dubbio. I Tv On The Radio ne sono l’epitome. Estremamente divertente, tra l’altro. (7.5/10) Antonello Comunale 46 sentireascoltare AA.VV. – An Anthology Of Noise & Electronic Music / Fourth A-Chronology (Sub Rosa, 2006) Gran bella idea quella della Sub Rosa: mettere insieme, attraverso quattro diverse (a)cronologie, la storia del noise e della musica elettronica. Una storia della musica “parallela”, trasversale in cui trovano posto Gyorgy Ligeti e i S o n i c Yo u t h , R o b e r t W y a t t e Olivier Messiaen; che associa artisti in apparenza così lontani come Luigi Russolo (esponente del futurismo e inventore del celebre “intonarumori”) e gli Einstürzende Neubauten, cercando sentieri alternativi per raccontare il corso della musica del Novecento, sotto l’”ombrello” confortevole di categorie assieme generiche e pertinenti come, per l’appunto, quelle di “noise” e “musica elettronica”, che spesso e volentieri hanno incrociato le loro rispettive filosofie. Un’idea pretenziosa, forse un po’azzardata e facile bersaglio degli anti-relativisti, ma senz’altro un gran bel lavoro, che avrà il merito di far conoscere alcuni tra i più acuti e arditi musicisti del secolo appena trascorso, a chi si interessa prevalentemente di rock e popular music. Un buon ripasso, invece, per chi normalmente “bazzica” gli ambienti delle avanguardie, vista la presenza di belle composizioni, spesso inedite e di un booklet di tutto rispetto. Come dire: una cosa seria. Di particolare rilievo, alcuni esempi di questo quarto capitolo, di questa quarta cronologia, che va dal 1937 al 2005, vanno nella direzione della sperimentazione totale e del minimalismo: il punk-noiserock estremo di Les Rallizes Denudes, la celeberrima Pendulum Music di Steve Reich, ma anche il semisconosciuto compositore Halim-El-Dabh, precursole delle teorie di Pierre Schaeffer sulla musi- que concrète. Trovano posto anche gli esperimenti con le onde martenot di Olivier Messiaen, un po’ l’outsider della situazione, ruolo che gli si addice anche in contesti più generali, un musicista un po’ “a parte”. Outsider lo è sempre stato anche William Borroughs, presente qui con i suoi Present Time Exercises, esperimenti fatti con audiocassette, una sorta di cut-up artigianale “senza forbici” simile al processo compositivo della radio music di Cage. Un’iniziativa che nel bene e nel male potrebbe far parlare di sé, basata su un’idea che più che preoccuparsi, come di solito succede, delle “invasioni di campo” (“è più rock o più avanguardia?” e cose del genere) prova ad unire concettualmente musiche che, solo perché nate in differenti contesti, sono considerate lontane, impossibili da comparare. E allora ben venga se Kevin Ayers, Steve Reich e Ligeti stanno così vicini, tanto da toccarsi, purché questo accostamento sia pertinente. In questo caso mi pare che lo sia. (7.5/10) Daniele Follero AA.VV. - To: Elliott From: Portland (Santeria / Audioglobe, giugno 2006) La particolarità di questo tributo al compianto Elliott Smith è che gli artisti coinvolti sono rigorosamente di Portland. L’ i n t e n t o è c o m p r e n s i b i l e e anche condivisibile: oltre che un affettuoso ringraziamento da parte dei suoi concittadini, vuole essere il segno di qualcosa che è stato seminato, che germoglia sull’assenza, sul vuoto fisico e sentimentale lasciato dall’artista e dall’uomo. Alla resa dei conti però diventa una limitazione. Pezzi come Between The Bars o Ballad Of Big Nothing avrebbero meritato di meglio che non il querulo country-pop de- gli Amelia o il lo-fi stemperato c o l l e g e - r o c k d e i T h e Te r m a l s . D’altro canto, in tal modo viene messo in rilievo un aspetto normalmente trascurato, quanto cioè Smith fosse un grande interprete oltre che un compositore coi fiocchi. Era tutt’altro che ordinario infatti quella strano gioco di palpiti psych sospesi tra i richiami di un folk antico e deragliamenti sensoriali dalla disparata origine. Ci vanno abbastanza vicini gli Helio Sequence con una trepida Satellite, provano ad aggirare l’ostacolo i Knock-Knock con una Speed Trials immersa in brodaglia radioattiva Air e trovate fiabesche (un banjo esotico, un suggello di flauto), giocano la carta dei minimi termini i Sexton Blake con una Rose Parade tutta riverberi, vibrafonino e mestizia in eccesso. Bene, ma non benissimo. Sempre meglio comunque del consueto chitarra-e-falò allestito dai The Decemberists (una lagnosa Clementine) o del folkrock morbidello targato Dolorean (una potabilissima The Biggest Lie). No, Elliott non merita tanta banalità. Occorre buttarglisi addosso senza ritegno, impadronirsi del mood con energia e coraggio, tuffarsi di testa nel cuore della cosa. Come faceva lui. Come fanno una Happiness virata electro e hip-hop dai Lifesaves, una laneganiana Needle In The Hay a cura del trombettista e cantante Eric Matthews, e soprattutto l’inedita High Times messa in piedi da un nickcaveano Sean Croghan, amico di Smith fin da ragazzo. Il 10% del ricavato va a Free Arts For Abused Children: ad Elliott farà piacere. (6.3/10) Stefano Solventi Aberfeldy – Do Whatever Turns You On (Rough Trade, luglio 2006) Una volta bissato l’ascolto d e l l ’ e s o r d i o Yo u n g F o r e v e r (2004) con questo nuovo Do W h a t e v e r T u r n s Yo u O n , è f a - sentireascoltare 47 cile concludere che gli scozzesi Aberfeldy sanno come si scrive una canzone pop. Non brani memorabili, niente capace di scavalcare i rigidi steccati di un ascolto stagionale oppure di resistere all’urto prepotente di qualcosa di più intellettualmente stimolante, ma pezzi leggeri e sinceri, adatti per essere ascoltati durante una scampagnata domenicale, magari viaggiando su una decappottabile con il tettuccio abbassato. Canzoni che sanno illudere e farsi amare all’istante, salvo poi malinconicamente abbandonarti poco dopo, magari evocando le meraviglie soul dei Prefab Sprout e virandole country come dei novelli Travis (Never Give Up) oppure recitando a memoria il copione di tante formazion i S a r a h ( T h e r e Yo u G o , P o e try). Tristezze che gli Aberfeldy sanno però spazzare via con dei brani talmente solari e scanzonati che sembrano il prodotto di un incontro tra i B52’s ed una qualche formazione college rock americana dim e n t i c a t a n e l t e m p o ( N e e d To K n o w, 1 9 7 0 ’s , l a t i t l e t r a c k ) senza contare una Up Tight che potrebbe rappresentare la b-side perfetta per un singolo dei Phoenix, tutta giocata su quei sapori primi Novanta che hanno fatto la fortuna del gruppo francese. D o W h a t e v e r T u r n s Yo u O n p o trebbe essere uno dei vostri migliori compagni di questa estate ma non chiedetegli di accompagnarvi oltre, potreste rimanere delusi. (6.2/10) Stefano Renzi Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O. – Have You Seen The Other Side Of The Sky (Ace Fu / Goodfellas, maggio 2006) Tra le peculiarità di quel mondo a sé che è il Giappone, quella che più impressiona chi traffica con la musica è la capacità di assorbire – fagocitare addirittura – elementi delle 48 sentireascoltare (sotto)culture occidentali per estremizzarli, ottenendo in tal modo risultati unici. Ne deriva, ad esempio, che i gruppi pop scintillano di cosmesi, il noise sia tra i più incompromissori e la psichedelia oltrepassi ogni porta del cosmo. Altrettanto naturale, allora, che da un tal Paese dei Balocchi si ricevano in dono opere di genio alternate a sconcezze e orrori. I n q u e s t o p a n o r a m a , i l Te m p i o Delle Madri Acide Eccetera è consolidata istituzione underground, capace di metter d’accordo attempati passatisti ed esteti della ricerca, cultori del sommerso e specialisti del bizzarro, e negli anni ha visto crescersi attorno una solida cerchia di adepti pronti a seguire ogni mossa. Questo nuovo disco va ad aggiungersi a una nutrita serie e, se già avete buttato l’occhio sui titoli e adocchiato la copertina “deadiana”, avrete inteso dove si va a parare: acid-rock trasbordante nel prog, visionario ma più spesso prolisso, col resto mancia di variazioni cosmiche e hard (gli Hawkwind evocat i i n I W a n n a B e Yo u r B y c i c l e Saddle elargiscono nondimeno l’episodio migliore), bucoliche oasi etno folk, orgasmi vocali alla Gong e bric-à-brac rètro di prammatica. L’ a t t i t u d i n e , d i v e r s a m e n t e d a i compatrioti Ghost, è più enciclopedica e imitativa, così che nonostante lo sforzo apprezzabile di fondere i rimandi storici, le pur discrete intuizioni finiscono per disperdersi in confuse e nostalgiche cartoline. Alla fine, sempre più perplessi sulle fondamenta del culto, si fa strada la convinzione che Kawabata e nutrita compagnia siano una folkloristica curiosità ben lontana dal lasciare il segno. E se fosse tutta una burla ? (6.0/10) Giancarlo Turra Adem – Love And Other Planets (Domino / Self, maggio 2006) Due anni fa, al momento della pubblicazione del suo primo album solista Homesongs, Adem Ihlan fu circondato da un coro unanime di consensi provenienti da critica e pubblico, pronti ad individuare in lui la prossima stella del firmamento nu folk. In realtà, quell’album pagava un prezzo troppo alto in termini di influenze verso certi cantautori americani dell’ultima generazione (Bill Callahan in primis) e, pur dimostrando di possedere un discreto slancio compositivo, allora sfociato nella creazione di alcuni piccoli gioielli a c u s t i c i q u a l i T h e s e A r e Yo u r F r i e n d s e d E v e r y t h i n g Yo u Need, non riusciva a convincere pienamente, stretto com’era nella morsa di referenti temporalmente troppo vicini per non risultare quantomeno ingombranti. Il talento era però evidente e la scrittura, lineare, concreta, spesso di facile fruizione, faceva ben sperare per le future vicende discografiche del cantautore. Aspettative che in larga parte vengono confermate dalla bontà di Love And Other Planets, album che segna un notevole passo avanti rispetto alle compassate atmosfere di Homesongs, consegnandoci un musicista finalmente capace di intraprendere e sviluppare un personale percorso stilistico. Un’evoluzione che non taglia completamente i ponti con il recente passato (di cui rimangono ampie tracce in X For Kisses, Sea Of Tranquill i t y, Wa r n i n g C a l l , o l t r e c h e nella bellissima title track), ma che cerca invece di integrare le nostalgie di ieri con quello che è l’attuale sentire del musicista britannico, contraddistinto da inattesi slanci s o l a r i ( S o m e n t h i n g ’ s G o i n g To Come), reminescenze del miglior Badly Drawn Boy (These recensioni Thom Yorke – The Eraser (XL / Self, 9 luglio 2006) C’è chi ha preso la notizia come un fulmine a ciel sereno, chi invece non aspettava altro. C’è chi, forse, resterà un po’ deluso e chi, in fondo, non ne sentiva il bisogno. Comunque sia, l’uscita di The Eraser potrebbe avere un peso rilevante nell’annata musicale in corso, non tanto per ciò che significa in sé - il debutto solista (per quanto lui abbia deprecato l’uso di q u e s t a p a r o l a , p r e s e n t a n d o i l d i s c o ) d i T h o m Yo r k e , c o n t u t t o il rumore che ne consegue - , né per il ruolo che si trova ad assumere in questo momento della storia dei Radiohead – una s o r t a d i d i v e r s i v o i n a t t e s a d e l s u c c e s s o r e d i H a i l To T h e T h i e f , con il gruppo attualmente senza contratto discografico né una deadline per la pubblicazione dei nuovi brani che, per inciso, in questi mesi vengono rodati sul palco. C’era bisogno quest’album perché, finalmente, le aspettative gigantesche che sorgono costantemente intorno alla band di Oxford sono portate su un piano più sopportabile e, in definitiva, umano. Presentato in veste fieramente indipendente, The Eraser è soltanto il lavoro elettronico di un cantautore, ovvero un disco di canzoni al laptop nello stile Radiohead post-Ok Computer: Melodie tormentate, atmosfere spesso claustrofobiche, qualche mirabile apertura pop; tutto incentrato su sample, beat e blip di scuola Warp - nati da giochi di cut & paste del producer Nigel Godrich su alcune bozze che il cantante aveva in archivio, come rivelato in un’intervista a “The Globe and Mail” -, più qualche loop di chitarra e un po’ di basso, batteria e piano all’occorrenza. Ciliegina sulla torta, una ritrovata voce – reale fulcro di queste c a n z o n i - e l i r i c h e m a g g i o r m e n t e a c c e s s i b i l i , n e l l e q u a l i Yo r k e r i p r e s e n t a l a s u a c o n s u e t a v i s i o n e c u p a d e l p r e s e n t e , i n u n m i x t r a p u b b l i c o ( H a r r o w d o w n h i l l , i s p i r a t a d a l s u i c i d i o d i D . K e l l y, i s p e t t o r e b r i t a n n i c o i n I r a q ) e p r i v a t o ( T h e E r a s e r, r i t r a t t o d e l l a n u o v a v i t a f a m i l i a r e i n s i e m e a i due figli). Una sostanziale conferma della tesi secondo cui la svolta elettronica di Kid A sarebbe stata principalmente farina del suo sacco, suffragata dal possibile mancato coinvolgimento di Godrich nel prossimo album dei cinque (al desk di produzione si è seduto per alcune sessioni Mark “Spike” Stent); se due indizi fanno una prova, The Eraser sancirebbe una sorta di divorzio in casa e, implicitamente, farebbe presagire un ruolo marginale dell’elettronica nel futuro suono dei Radiohead (come dimostrerebbero le registrazioni pirata degli ultimi concerti). Messe da parte le supposizioni del caso, restano le nove canzoni dell’album: alcune molto belle (quella gemma che è la title track, il groove di Black Swan, la kraftwerkiana Atoms For Peace), altre meno (Skip Divided e The Clock, le più deboli del lotto), altre ancora a ripercorrere sentieri recentemente battuti (Harrowdownhill e And It Rained All Night riportano a The Gloaming, Cymbal Rush riprende There There), senza che comunque vengano mai meno la complessità e la profondità a cui siamo abituati. In ogni caso, niente di veramente nuovo; solo il naturale conforto, con annesse conferme e smentite, che la dimensione solista può dare. A conti fatti, c’è solo da sentirsi sollevati…(7.2/10) Antonio Puglia sentireascoltare 49 recensioni The Robot Ate Me - Good World (5RC / Goodfellas, 6 giugno 2006) The Hunter #1 ce lo ricorda scafato cantautore da cameretta: falsetto inconfondibile ormai marchio di fabbrica e chitarra acustica carezzata controvoglia. Un saggio di classe in quarantaquattro secondi di musica. The Hunter #2 lo conferma fine sperimentatore e filologo fedele: folk stravagante degno del m i g l i o r To m W a i t s , p e r m e t à k l e z m e r e p e r m e t à m a r c e t t a d a banda di paese. Indeciso su quale indossare delle due maschere che hanno forgiato il personaggio o, più probabilmente, instancabile ricercatore, Rylan Buchard vaga tra le più disparate ed eterogenee soluzioni sonore, indifferente a qualsiasi stabile ancoraggio gli si prospetti. Guizzi di geniale cantautorato visionario (Stone Giants e Sin Like Holy Men) si alternano a schegge impazzite di jazz eterodosso e paranoico: qualcosa che si avvicina vistosamente (Djien, Bloody Knife #2) agli El Guapo, invaghiti delle teorie braxtoniane, di Super/System. Altrove è un indiepop allucinato e poverista – piano e drum machine formano lo scheletro scarno su cui si posano le immancabili involuzioni canore di Buchard – a sfidare l’ispirata vena cantautoriale: Bloody Knife #3 e Celebration Time diventano dei piccoli classici in questo senso. Le stranezze e l’umorismo nero continuano a piacergli da matti - She Owl #2 è un valzer patafisico leggero e gaudente – ma quando c’è da fare sul serio non ci si tira indietro: Good World #2 e le conclusive Warrior #1 e #2 ce lo riconsegnano, con il loro incedere mesto e commovente, all’altezza di un Mark Everett in scala minore, e un cerchio si chiude. Semplici elucubrazioni di un cantastorie abortito o ventuno minuti di genialità liofilizzata? Noi scommettiamo per la seconda delle alternative, guadagnandone di ritorno un gran bel sentire. (7.0/10) Vincenzo Santarcangelo 50 sentireascoltare Lights Are Meaningful) e dilatazioni proto ambientali capaci di riportare alla mente certe pagine del Mark Hollis solista (Last Transmissions From The Lost Missions). Anche l’elettronica, usata in Homesongs come elemento “invisibile”, acquista in Love And Other Planets un ruolo decisivo, diventando il perno attorno al quale ruotano alcuni dei momenti più affascinanti dell’alb u m ( L a u n c h Yo u s e l f e Yo u And Moon). Alla luce di tutto questo, piace pensare ad Adem Ihlan come ad un onesto e sincero artigiano della canzone che, se saprà mantenere così elevati i propri standard anche in futuro, potrebbe aspirare ad un posto di primo piano tra le fila dei migliori songwriter di culto. (7.2/10) Stefano Renzi Alias & Tarsier – Brookland / Oaklyn (Anticon / Southern Records, 2006) Ritorna Alias, grande creatore di suoni di casa Anticon e rit o r n a Ta r s i e r , v o c e f e m m i n i l e di gran classe. Ritornano insieme, dolcemente. Le atmosfere rilassate, al limite della stucchevolezza, caratterizzano tutto il lavoro: un dream pop raffinato, rifinito, al confine con l’ambient, in cui i giochi ritmici dei beat e i loop di Alias fanno da sfondo alla delicatezza della voce femminile. Una voce, quella della Ta r s i e r , c h e s e m b r a r i e v o c a r e grandi esempi di un passato più o meno prossimo, da Bjork a Beth Gibbons, fino ad arrivare alla sognante pacatezza d i E l i z a b e t h F r a z i e r. Come in tutte le produzioni di casa Anticon, anche in questo caso siamo in presenza di un lavoro “di gruppo” ricco di collaborazioni: oltre all’onnipresente Dose One (che presta il suo inconfondibile rapping in Luck and Fear duettando contemporaneamente con i beats e con la voce femminile), a supporto del duo arrivano anche Kirsten McCord (direttamente dalla Estatic Peace!, la label di Thurston Moore) e Te l e p h o n e J i m J e s u s , c o m p a gno di scuderia di Alias. Brookland/Oaklyn già dal titolo mette a confronto due realtà musicali americane: l’incommensurabile scena newyorchese e lo sperimentalismo di Oakland (una sorta di Bristol del 2000, se mi è perm e s s o i l p a r a l l e l o ) . L’ i n c o n t r o non è ricco di sorprese, risolto in sé stesso, piacevolmente pop senza osare, risultando di gran lunga più importante la compiutezza della forma che l’esperimento. Cub, Rising Sun, Anon sono brani di una perfezione straordinaria, che funzionano su più livelli, ma che non stupiscono nel loro m i x d i C o c t e a u Tw i n s s t y l e , drum’n’bass e hip hop sperimentale preso a piccole dosi. Difficile resistere, però alla cullante Last Nail, spaccata nel mezzo da interventi a perdifiato di Alias, o ai bellissimi campionamenti di strumenti acustici, che siano la chitarra ( D r . C ) e i l v i o l o n c e l l o ( 5 Ye a r Eve). (7.0/10) Daniele Follero Angelica Sauprel Scutti - Pomeriggi Similabissali (Point Of View Records, maggio 2006) Un esordio covato a lungo per Angelica Sauprel Scutti. In questo disco non c’è posto infatti per l’ingenuità: ogni suono sembra funzionale all’atmosfera d’insieme, se qualcosa si muove è per irradiare fremiti e molto di quel che si muove è manovrato dalla stessa cantautrice romana, impegnata alle chitarre, tastiere ed elettroniche oltre che a cantare lo scostante languore dei testi. Un canto passionale ma schivo, uno struggimento algido, una disperata leggerezza che fa pensare ad una Ginevra Di Marco meno aperta, la vena soul immersa in un brodo acidulo, l’estro screziato di alienazioni cyber e vapori wave. Ad aiutarla c’è soprattutto Alessandro Canini a basso e batteria, il cui tocco risulta decisivo quando si tratta di imbastire il tipico battito legnoso/digitale del trip-hop. Non possiamo omettere infatti di pensare ai Massive Attack in occasione della torva ed eterea Allumettes e delle circospette movenze di Init, con le emulsioni sintetiche insidiose, la spersa radiazione delle chitarre, il basso spalmato come una memoria blues andata a male. Il disco oscilla tra potabilità e azzardo, col pregio di mescolarli spesso e volentieri ma col difetto di evidenziare in tal modo una certa artificios i t à . P r e n d e t e A l i e n Ta x i , f u n k claudicante con giri di basso frantumati, strali di corde, sibili digitali e scaglie di pentatoniche à la Andy Summers: possiede un bel tiro, però non sa raggiungere la temperatura di fusione, sembra più il tentativo di ricostruire una certa atmosfera febbrile senza possedere la giusta scintilla. Preoccupata di non apparire banale, Angelica rischia di suonare finta. E, peggio, presuntuosa. Ne avrebbe anche ragione, sentendo cosa sa imbastire in A.M. (riff di piano e found voices, la paradisiaca minaccia del mellotron), in Poco importante (soul/blues che schiude vene seventies fino al sentore prog del finale) e soprattutto in quella Guarda; impara, ricorda che sgasa irrequietezza e duttile malinconia per un solenne languore vagamente Battiato. Anche in queste però sembra troppo presa a recitare la parte di alchimista dark tra alambicchi electro/psych, quasi tenesse più a porre distanze che a prendere realmente possesso di ciò che interpreta. Resta un lavoro interessante, però peccato. (6.0/10) Stefano Solventi sentireascoltare 51 Badawi – Safe (Asphodel / Wide, 7 aprile 2006) Con Safe, Badawi - recentemente accreditato come percussionista nell’album Father Divine di Mike Ladd, ma anche attivo nella scena sperimentale che fa capo a John Zorn - prosegue il suo percorso di ricerca di un territorio comune tra linguaggi musicali diversi. Il basso elettrico di Shahzad Ismaily crea percorsi dub sopra ipnotici tappeti percussivi di tablas, mentre archi e pianoforte si ritagliano spazi improvvisati (o dal sapore jazz); non mancano poi alcune tipiche melodie mediorientali (affidate al flauto o ancora agli archi). Molti brani sono veri e propri soundscape figli di un approccio cinematico (il musicista è infatti impiegato nel campo delle arti visive e nella composizione di musiche per film) e dell’intenso lavoro di editing e processing, che grazie all’equilibrio tra i diversi generi musicali, le indubbie qualità dei singoli e il loro ottimo interplay acquistano profondità e appeal. Un lavoro valido sia per chi è interessato alle commistioni tra generi musicali, ma anche per gli appassionati di dub music etnica fuori dagli schemi. (7.0/10) Andrea Erra Bardo Pond - Ticket Crystals (ATP / Goodfellas, 12 giugno 2006) Ticket Crystals è il sesto disco ufficiale dei Bardo Pond ed è anche quello che chiude una sorta di trilogia della vecchiaia, iniziata confusamente con Dilate e proseguita con l’involuto e irrisolto On the E l l i p s e . Ve c c h i a i a i n t e s a c o m e ripiegamento su un manierismo lisergico e su un’avanzata morbidezza folkish che davvero rende poco onore al gruppo che ha massaggiato le nostre orecchie per tutti gli anni ’90, 52 sentireascoltare con dischi sciolti nell’acido di un suono che corrodeva tutto. Su Ticket Crystals, l’astrattezza delle loro pagine migliori trova la sola cassa di risonanza di Fc II e Montana Sacra II. La prima è il tipico dirge al peyote e molto oltre, che sprofonda il mondo e le sue sembianze in 18 minuti di visioni e chitarre effettate che si inseguono l’un l’altra su una ritmica vagamente dub. Montana Sacra II chiude il disco prendendo da Jodorowsky e sperimentando compiutamente con tape loops e scarti sonori in uno strumentale scomposto che si attorciglia su se stesso e si mangia la coda. Il resto del programma, evolve e migliora il trend degli ultimi dischi. Destroying Angel, Moonshine e soprattutto Isle, sono le creature di un gruppo che ha osservato la scena free folk, con la consapevolezza di averci messo qualcosa di proprio. Un assortimento di crepitii acustici per flauto traverso che qua e la si rivingoriscono con la tipica distorsione dei fratelli Gibbons, nei passaggi in minore che odorano di Black Sabbath lontano un miglio. Lost World ha una felice intro, da folklore nipponico e si tramuta rapidamente in una ballata bucolica e alterata. C ’ è a n c h e u n a c o v e r. N e l l a f a t t i s p e c i e C r y B a b y C r y, c l a s sico preso dal White Album dei Beatles e originariamente registrata per la BBC in occasione delle commemorazioni per il 25° anniversario della morte di John Lennon. Ma non si capisce l’utilità di averla inserita, visto che spezza nettamente i ritmi e l’atmosfera del disco. I Bardos riconquistano qualche punto di merito, dopo il disastroso On the Ellipse, ma sono ancora lontani dalla forma fisica migliore. (6.5/10) Antonello Comunale Barry Adamson – Stranger On The Sofa (Central Control International/Wide, giugno 2006) Te r m i n a t o d o p o o l t r e q u i n d i c i anni il sodalizio con la Mute Records, Barry Adamson, già membro di Magazine, Visage e dei Bad Seeds di Nick Cave, ricomincia da capo la sua avventura nell’industria discografica fondando una nuova etichetta, la Central Control International, il cui primo parto è rappresentato proprio dal nuovo lavoro, Stranger On The Sofa, album che interrompe un silenzio lungo oltre quattro anni. Una carriera, quella solista di Adamson, durate la quale il bassista inglese ha più volte esternato la sua profonda passione per la musica di derivazione “cinematografica” realizzando colonne sonore per film veri e propri ed assemblando album che, in realtà, altro non sono che ipotetiche colonne sonore per pellicole immaginarie. Per entrare pienamente nel mood dei lavori del musicista inglese è quindi opportuno armarsi di fantasia ed immaginazione, cercando di elaborare mentalmente visioni che possano essere coerentemente associate ai suoi brani. Un esercizio che in alcuni momenti di Stranger On The Sofa risulta abbastanza naturale, soprattutto quando ci s’imbatte in pezzi di stampo post dance (Free Love) oppure in più canoniche composizioni spy jazz (Who Killed Big Bird?), che rimandano immediatamente il pensiero ai migliori noir d’annata e che in tutti questi anni hanno costituito le fondamenta dell’Adamson pensiero. Ben più difficile è decifrare le molte, classiche ballate di stampo pop rock che affollano l’album, una tipologia di brano solitamente estranea ai lavori di Adamson, che stavolta costituisce invece una parte cospicua e basilare dell’album. recensioni Riccardo Sinigallia - Incontri a metà strada (Sony BMG, 23 giugno 2006) Suona facile Incontri a metà strada, talmente facile che ti sembra di averlo compreso dal primo ascolto. Pianoforte, chitarre (elettriche e acustiche), basso, batteria e poco altro sono i rami rigogliosi su cui la melodia fa mostra di sé, nella sua naturalezza, senza costrizioni o sovrastrutture. La forma compiutamente cantautorale italiana diventa estensione del corpo nella modernità, come nell’immagine riflessa allo specchio di Finora, striata dai colori elettronici dei campionatori e cadenzata dalla malinconia dei tasti bianconeri, la stessa che innervava nel 2001 Il sig. Domani di Roberto Angelini. Eppure qualcosa sfugge. Ed è qui che l’ostinazione e l’ascolto p a g a n o . L’ e s s e n z a d e l d i s c o , b e n l o n t a n a d a l l ’ e s s e r e s t a t a c a t turata, è tutta nei testi, ma non è la complessità della scrittura a rendere sfocati i contorni, bensì l’immediatezza delle parole. Quando non si è più abituati a vedere e sentire la realtà per quello che è, i racconti della quotidianità fanno fatica ad entrare sotto pelle, hanno bisogno di essere masticati e metabolizzati fino a quando qualcosa, d’irrazionale, d’istintivo, non scuote i sensi. Allora, e solo allora, si possono seguire i tracciati di un vissuto personale, quello di Riccardo, che diventa comune. Così Laura non è solo un brano dedicato alla sua compagna Laura Arzilli (bassista e produttrice dell’album insieme al fratello Daniele Sinigallia), ma uno stralcio di vita rielaborato dagli occhi di chi l’ama, come un De Gregori perso negli echi pinkfloydiani; Amici nel tempo si aggroviglia sulle dinamiche relazionali, tra strappi e ricostruzioni, improvvisi e delicati ritrovamenti che sanno di “gioia a portata di mano”; mentre Il nostro fragile equilibrio è la riflessione a cuore e mente aperti nell’età della maturazione, con i fiati e i cori della Arzilli a soffiare lievi sui pensieri. Si snoda così un percorso artistico e umano che proietta la canzone pop d’autore nel futuro, confinando in un angolo, neanche troppo lontano, l’elettronica, trepidazione fascinatoria dell’esordio (ancora presente nel battito etereo di Se potessi incontrarti ancora e nel congedo strumentale Ciao) che rischiava di lasciarlo dietro le quinte. Lo sviluppo del racconto in prima persona, invece, riesce a dischiudere la voce, vera protagonista e incarnazione delle parole (la dedica solo chitarra di Una canzone per Fede), che in Impressioni da un’ecografia diventa confessione immaginifica e genitrice di speranza: “Dai miei pensieri nell’acqua / Una spina dorsale / A t t r a v e r s a i l d i g i t a l e / I l l u m i n a l a s t a n z a e m i l a s c i a / L’ i m p r e s s i o n e d i e s s e r t i p a d r e ” . Una prova toccante e difficile da fare propria, se non si lascia spazio all’empatia. La vita, nel bene e nel male. (7.7/10) Va l e n t i n a C a s s a n o sentireascoltare 53 recensioni Johnny Cash – American V: A Hundred Highways (Lost Highway, 4 luglio 2006) Non è un azzardo affermare che, negli ultimi tempi, non c’è stato un artista tanto amato, riconosciuto e omaggiato come Johnny Cash. A tre anni dalla scomparsa, l’ombra lunga del man in black continua a stendersi sui nostri giorni: dopo il grande successo del biopic Walk The Line e l’uscita del cofanetto Unearthed, è infine arrivato il momento di pubblicare le ultime canzoni registrate dal Nostro per il quinto volume delle American Recordings, curate da Rick Rubin a partire dal 1994. Nella sostanza, A Hundred Highways non fa che confermare quanto già era emerso dai precedenti quattro episodi: le straordinarie doti interpretative di Cash restano intatte, così come la caratura degli arrangiamenti – messi a punto in fase p o s t u m a d a i f i d a t i M i k e C a m p b e l l , B e n m o n t Te n c h e S m o k e y H o r m e l , p i ù M a t t S w e e n e y e J o h n ny Polansky-, stavolta ancora più minimali del solito, tanto che il set di brani appare come il più omogeneo della serie (unica eccezione in una maggioranza di ballate, il blues à la Waits di G o d ’ s G o n n a C u t Yo u D o w n ) ; q u e l l o c h e c a m b i a è c o m e l ’ a r t i s t a n e v i e n e f u o r i , c o l t o n e i s u o i ultimi giorni, quando la fine era vicina. Accantonato l’epos, c’è soltanto spazio per la preghiera e la fede (l’iniziale Help Me, l’autografa I C a m e To B e l i e v e ) , p e r l ’ a c c e t t a z i o n e d e l p r o p r i o d e s t i n o ( l ’ i n e d i t a L i k e T h e 3 0 9 , l ’ u l t i m a c a n zone scritta e composta da Johnny), per piangere chi non c’è più (On The Evening Train di Hank W i l l i a m s s u o n a c o m e u n e s t r e m o s a l u t o a J u n e C a r t e r, s c o m p a r s a q u a l c h e m e s e p r i m a d e l m a r i to), nell’incantesimo di una voce che è insieme fierezza e rimpianto, sconfitta e resistenza. E così accade che la magia si ripeta ancora una volta, che Further On Up The Road del tardo S p r i n g s t e e n s e m b r i s c r i t t a a p p o s t a p e r l u i , c o s ì c o m e I f Yo u C o u l d R e a d M y M i n d o I ’ d B e A Legend In My Time (le originali rispettivamente del canadese Gordon Lightfoot e di Ronnie Milsap), mentre il finale di Rose Of My Heart, Four Strong Winds (in passato interpretata, tra gli a l t r i , d a N e i l Yo u n g ) e I ’ m F r e e F r o m T h e C h a i n G a n g N o w c i r e s t i t u i s c e i l C a s h p i ù c l a s s i c o , quello delle country ballad romantiche, dei traditional e dei canti dei detenuti. Un disco sincero e sentito dunque, lontano da ogni retorica e logica celebrativa, che suona come un ideale addio. Tutt’altro che scontato. (7.7/10) Antonio Puglia 54 sentireascoltare Canzoni che possono far venire in mente gli U2 ( Officer Bentley’s Fairly Serious Dilemma) così come lo Shane MacGowan solista (The Long W a y B a c k A g a i n ) , i P u l p ( Yo u S o l d Yo u r D r e a m s ) a n z i c h é D i vine Comedy (Theresa Green). Brani di buon livello ma senza dubbio spiazzanti per chi si è imbattuto in Adamson durante la prima fase della sua carriera oppure ne ha approcciato lo stile tramite ben più elaborati, complessi e umorali lavori quali Moss Side Story e King Of Nothing Hill. Il risultato complessivo è in ogni modo discreto, anche se la scelta operata da Adamson lascia la porta aperta ad una duplice interpretazione: Stranger On The Sofa potrebbe le capacità: se è vero, questi sedici brani svolgono il loro ruolo più che degnamente, accentuando la componente più rovinosa e malata (da giovani Cramps) che innerva scempi c o m e M y s t e r y S h o p p e r, T h e Mummy o la surfistica Office Desperate, capaci di trascinare la carcassa delle dodici battute dalla cantina alla discarica (e ritorno) con sintesi e freschezza invidiabili. Si può certamente sollevare u n a s e r i e d i o b i e z i o n i a l Te m po Nero: che di dischi simili ne abbiamo ascoltati a bizzeffe, che non potranno mai esercitare lo stesso impatto sulla Storia che ebbe l’accolita di Jon Spencer (bella forza: una porta la si sfonda una volta sola) e via sciorinando. dphase, i Boards Of Canada rispondono tornando sui loro passi con un eppì meno ottimista e solare. Trans Canada Highway presenta il fortunato brano Dayvan Cowboy in due versioni assieme a una quaterna di brani a tastar le tempie degli umori ambiental-psicologici del memorabile short-cut A Beautiful P l a c e I n T h e C o u n t r y. E se per qualcuno è già miracolo (e se anche così non fosse), il melting pot è sicuramente ad alti livelli: il singolo Dayvan Cowboy (già nell’album) è un’esplosione di feedback sciolti nella ionosfera che si traforma in una lenta panoramica sull’Arizona con echi di twang e smalti cinemascope in concitato avvita- rappresentare, infatti, il primo passo di svolta verso lidi e soluzioni più “accessibili” e commerciali ipotesi che però si scontra con la determinata scelta di tornare ad essere un musicista “indipendente”, oppure un album strettamente finalizzato alla promozione della sua nuova label, ma anche in questo caso non si capirebbe la scelta di rimanere in silenzio per ben quattro anni. Rimaniamo con un grosso punto interrogativo tra le mani, a cui soltanto il buon Barry potrà rispondere in futuro. (6.5/10) In verità, assodate le manifeste origini - in elenco anche gli Electric Eels meno dissennati e i Pagans - che sono ormai eredità inesorabile per chiunque dopo cinque decadi di rock, la compagine mostra peculiare gusto pop nel frastuon o d e l l e “ p s i c o c a r a m e l l e ” Yo u Are Stealing My Time e New Fiction, ribadito in chiusura da Classical Mess ed Escape Ve l o c i t y. U n r e t a g g i o b r i t a n n i co (visibile pure nella scorza Fall di Psychic Tracks) che filtra tra le atmosfere cupe, valore aggiunto privo di retorica che eleva i Black Time sopra la media di un genere spesso refrattario, oltremodo ligio a precetti e dogmi. Perspicace la In The Red ad inseguire i tre e metterli sotto la sua ala protettrice, nella certezza che L e m m y C a u t i o n , J a n i e To o B a d e M r. S t i x p o s s a n o f a r e a n c o r di meglio. Che lo tengano in serbo per il notoriamente “difficile” terzo album? (7.6/10) mento psych; mentre Left Side Drive (in levigata pelle elettronica) è già in odor di class i c o . H e a r e d F r o m T h e Te l e graph Lines e Under The Coke Sign sono due inframezzi “là fuori in campagna”, e infine Skyliner ritorna alle vischiose sonorità di Sixtyniner con battiti del cuore warp-style e legnose percussioni. Una versione ambient di oltre nove minuti per mano di Odd Nosdam di Dayvan Cowboy (una sorta di mantra con una parte centrale a base di ritmiche hip-hop – prese pari pari d a K i d F o r To d a y - e u n a f a tamorgana d’archi in rilascio) chiude in bellezza un grande ritorno dei Boards Of Canada “glacial side”. Un must (e bello pure il videoclip in “caduta libera” di Melissa Olson nel dvd allegato all’album). (7.0/10) Stefano Renzi Black Time – Midnight World (In The Red / Goodfellas, giugno 2006) Le aspettative possono divenire un fardello sgradito e ingombrante, desideri scompigliati che lasciano insoddisfatte e frustrate entrambe le parti. Nulla di ciò grava su Midnight World, ricomparsa del trio d’oltremanica dopo l’esordio del 2004 Blackout, convincente ipotesi di Pussy Galore legati alla prima Catena di Gesù e Maria. Si suole affermare che il secondo album illumini sulla consistenza di una band e ne chiarisca Giancarlo Turra Boards Of Canada - Trans Canada Highway (Warp / Self, 6 giugno 2006) Per chi è rimasto deluso dagli esperimenti chitarristici del recente The Campfire Hea- Edoardo Bridda Camera Obscura – Let’s Get Out Of This Country (Elefant / Goodfellas, giugno 2006) Il pop, quello vero, è spesso spensieratezza, che non vuol dire però superficialità. Anzi, tutt’altro. E proprio il pop ritrova la sua voce in una band scozzese dal nome quantome- sentireascoltare 55 no insolito: Camera Obscura. E diciamolo subito. Belle And Sebastian sono qualcosa di più di una semplice e nebbiosa evocazione. Sembra quasi che accompagnino spiritualmente la band di Tracyanne Campbell – una voce che fa innamorare – anche in questo nuovo “obscuro” lavoro, dal titolo L e t ’ s G e t O u t O f T h i s C o u n t r y. Ma le rotelle girano comunque fluide e il meccanismo è davvero ben congegnato. Perché è un concentrato di potenziali hit che sarebbero perfetti per bonificare le scalette delle radio nazionali. I l s i n g o l o L l o y d , I ’ m R e a d y To Be Heartbroken – che non a caso apre il disco – è semplicemente irresistibile, tra i Commotions di Lloyd Cole (chi n o n s i r i c o r d a A r e Yo u R e a d y To B e H e a r t b r o k e n ? ) e i B r o ken Social Scene (per certi azzeccati fraseggi di strument i a f i a t o ) . Te a r s F o r A f f a i r s rallenta il ritmo, ed è calore e passione che ricorda un po’ i Cardigans e ci fa innamorare e struggere di malinconia allo stesso tempo. Perché in fondo i Camera Obscura sono così. Un velo di tristezza che si nasconde tra sguardi aperti e bocche sorridenti. (7.0/10) Manfredi Lamartina Carnifull Trio – Modamare (Riotmaker / Wide, 24 aprile 2006) Less is more: per l’etichetta più massimalista del panorama italico sembra quasi un controsenso. Nella nuova produzione Riotmaker usando solo una chitarra, delle percussioni, l’immancabile elettronica e una voce, si distilla l’anima della scuderia friulana: il puro e sacro ritmo del funk. Già nel progetto dance Fare $oldi, Luka Carnifull ci aveva allietato con ritmi e insert di elettronicherie anni 70/80. Qui riaggiusta il tiro con suoni di chitarra noisy che vanno ad amalgamarsi in modo perfetto alla sua ben nota vena 56 sentireascoltare ritmica. Il sound chitarristico dell’accattivante incipit (Perché le ragazze dicono no) ci ricorda gli stop dei Don Caballero, mescolati a progressioni in stile anni ‘60. Le canzoni strumentali si basano sempre su questo schema: ripetizioni e stop tanto cari alla scena post-rock, seppur mescolate con percussioni che le rendono più calde e con distorsioni e feedback che sporcano ulteriormente il risultato. La vera sorpresa si ha negli episodi cantati (43140, Cold P i z z a , L’ a m o r e p r i m a d i i n ternet): un miscuglio che attinge dalla melodia dei vicini Amari, senza ingredienti hiphop e con una maggiore vena ‘black’, allietata da coretti e da vari ‘parappappappà’ che ricordano le sgommate delle sigle dei CHiPs o i riff supersoul di Curtis Mayfield. Un altro ingrediente che spezza la monotonia e rende l’ascolto più pacioccoso e nerdy è l’inserimento di samples dal sapore di sale: un ricordo di sala giochi in Subliminal Heavy Metal , un estratto di Big Jim (sic!) in Song For Guido, e una vocetta innocente di bambino che vi lascio scoprire. Un album che apre un sentiero alla meglio gioventù del rock nostrano, sempre più alla ricerca di nuovi input, innestando la wave con diavolerie ritmico-elettroniche e un gusto rétro mai nostalgico e invece pieno di spunti creativi. (7.1/10) Marco Braggion Charalambides – A Vintage Burden (Kranky / Wide, 22 maggio 2006) Incastonato tra i due splendidi Ep Live/Dead – Dead/Live, omaggi ai Grateful Dead e al contempo intense polaroid dal vivo, il nuovo lavoro effettivo dei Charalambides viene licenziato da Kranky e segna il distacco dal gruppo di Hea- t h e r L e i g h M u r r a y. R i t o r n a t i un duo, il suono dei Carter si fa di nuovo carne dopo le vertigini opache e impenetrabili del densissimo Joy Shapes. Si ritorna un po’ alle origini, ad un suono folk allucinato e arso sull’asfalto delle strade intorno Houston, con quel minimo di weirdness che non sembra mancare mai ai suoni rock prodotti nello stato più reazionario degli States (Butthole Surfers, Jandek, Red C r a y o l a , P a i n Te e n s , W i n d s o r f o r t h e D e r b y, B e d h e a d , ecc…). Il passo languido e ascetico di There Is No End infatti si sintonizza immediatamente lungo le coordinate narcotiche dei vari Houston, Union, Market Square. Arpeggi al rallenty e doppia voce di Christina in stato di ipnosi permanente. L’ i n t r o f a i l s u o e ff e t t o , m a i l resto del lavoro si ammorbidisce sempre più sulle melodie eteree e pronunciate di Spring e Dormant Love. I suoni acustici, puliti e nettissimi, nel missaggio finale si animano in sordina dietro la traccia vocale, sceneggiando ritornelli epici. I Charalambides tendono sensibilmente verso una forma più pop. Si sciolgono le polveri che incrostavano il folk brumoso di Market Square all’apertura aerea di Dormant L o v e e d e l l a s p l e n d i d a Tw o Birds, che forse complice anche l’assonanza vocale, semb r a r i c o r d a r e l a Tw o S t e p s d e i Low di Secret Name. Il sentimento avvertito e intimo della melodia e il passo lento delle cadenze ha più di qualche punto di contatto con il cosiddetto slow core. Nel momento in cui i texani rinunciano alla carica avanguardista delle loro pagine migliori, si accasano presso una tradizione già ampiamente esplorata e che loro stessi avevano in qualche modo, per vie traverse, contribuito ad alimentare. Che il passaggio sia indeciso e i tentativi tutt’altro che cer- recensioni Juana Molina - Son (Domino/Self, maggio 2006) Son è il quarto album per Juana Molina, argentina di Buenos Aires, che praticamente da sola prepara un’ipnotica pietanza a base di chitarra acustica (l’arpeggio delicato ma intenso) e voce (quell’etereo languore, quei vocalizzi carnosi), guarnendola di synth speziati e percussioni palpitanti. Il tutto stemperato in un brodo di field recordings, cinguettii, friniti, vociare di bimbi e scoppiettii di falò. Segnali di vita che germoglia e accade nel grembo stesso della Natura, lo schermo ideale su cui proiettare queste meditazioni fantasma, questi esotismi dissimulati. Il tropico come un tatuaggio invisibile, una geometria esistenziale dagli impalpabili riflessi formali. Folk psichedelico che sembra esalare da uno di quei giardini pieni d’incanto e minaccia di Rousseau il Doganiere, o almeno è simile il senso di mistero e particelle elementari, di antico annidato nel presente, di mimesi magica del tempo in attesa. Malgrado una certa ripetitività strutturale, l’effetto è avvincente: i folk si alternano tesi ed estatici, sfarfallanti e ombrosi, dai melismi rochi dell’iniziale Rio Seco (straniante come un Cobain unplugged in visibilio mistico) al languore enigmatico e suadente di Elena, passando per l’incedere torvo di Las Culpas (quasi una PJ Harvey ancestrale) ed il medioevo angelicato di Micael. Anche quando l’approccio “avant” prevale, non va perduta quella leggerezza sostanziale, quella g e n u i n i t à c h e t i d i s a r m a e a t t a n a g l i a s e n z a s o v r a c c a r i c h i n é a m p o l l o s i t à . P e r d i r e , Yo N o è u n bozzetto funk screziato di ansiti, reverse birichini e cori futuristici come piacerebbe (ri)sentirne dalla diva Bjork, idem dicasi dell’electrosalsa volatile e guizzante di Malherido. O, ancora, vedi come l’acidità trasognata di Un Beso Llega o la lunare inquietudine della title track sappiano emanare dolcezza attraverso gli stranianti sviluppi degli organi e delle elettroniche. Un gioco c h e v a a c o n c l u d e r s i n e l l ’ a r p e g g i o s t r e t t o d i H a y Q u e Ve r S i Vo y, q u e l l a f l e m m a t i c a t e n s i o n e come certo Drake, il canto pastoso che si spalma diafano, destrutturazioni folk à la Califone, quindi un lungo baluginante finale per cori e voci sperse come ectoplasma spiritual. Di lei s’è innamorato David Byrne. Non si fatica a capire il perché. (7.1/10) Stefano Solventi sentireascoltare 57 recensioni Hot Chip – The Warning (Emi, maggio 2006) Dopo una prova d’esordio poco meno che meravigliosa (Coming On Strong, pubblicato nel 2004 dalla Moshi Moshi Records), erano in molti ad attendere gli Hot Chip al varco del secondo album, ansiosi di capire se quel disco fosse stato veramente l’inizio di un’avventura sopra le righe oppure un fortunato incidente di quelli che sempre più spesso accadono a coloro che si cimentano con laptop, console giocattolo e macchinari vari. Una curiosità divenuta addirittura morbosa da quando è cominciata a circolare la voce che la band inglese aveva stretto un p a t t o d ’ a c c i a i o c o n i t i p i d e l l a D FA e n t r a n d o q u i n d i i n c o m b u t t a con quello che è il team di produttori più agguerrito, chiacchierato e corteggiato del momento. L’ i d e a c o m u n e e r a c h e q u e s t o s o d a l i z i o p o t e s s e g e n e r a r e d e l l e v e r e e p r o p r i e a l t e r a z i o n i s t i listiche in casa Hot Chip magari rendendo più heavy e pulsante il groove della band. Niente di tutto questo è invece successo, il dna della band inglese è rimasto pressoché inalterato, sempre fedelmente ancorato a quel techno/soul/pop di matrice eightes che anche in questo secondo episodio costituisce la piattaforma ideale dalla quale si diramano le evoluzioni sonore di Joe Goddard e soci. Apparentemente più “solare” e scanzonato di Coming On Strong, The Warning viene letteralmente spedito in orbita dai primi due singoli estratti dall’album And I Was A Boy From School e Over And Over (per chi avesse voglia, tempo e desiderio, in circolazione esistono molte versioni di questi due brani licenziati in formato sette e dodici pollici con ottimi remix firmati, tra gli altri, da Erol Alkan e Solid Groove), rispettivamente una limpida cavalcata pop house come gli X Press 2 impegnati a produrre il nuovo singolo degli Orange Juice ed un improbabile numero spastic dance rock contornato di chitarre elettriche, videogame e fraseggi di organo, il cui video, in fottuto nerd style, è già diventato un must sulle televisioni specializzate. Il resto dell’album si attesta, ovviamente, un gradino al di sotto dei due brani precedentemente citati, ma è comunque materiale di grandissimo spessore: la title track si allunga come un vellutato carillion breakbeat dal ritornello assassino, Look After Me il brano da ascoltare nel p o s t p a r t y a c c o c c o l a t i c o n l a r a g a z z a d e l c u o r e , A r r e s t Y o u r s e l f l a t r a c c i a e l e c t r o c h e i Ta l k i n g H e a d s s c r i v e r e b b e r o o g g i , S o G l a d To S e e Y o u u n a r o b o b a l l a t a p e r i n g r a n a g g i u m a n i , N o F i t State semplicemente quello che manca nell’ultimo album dei Royksopp ovverosia la Beta Band alle prese con la contemporaneità euro-pop. Impossibile chiedere di più, difficile immaginare qualcosa di meglio in ambito (techno) pop. The Warning è un album da possedere a tutti i costi. (8.0/10) Stefano Renzi 58 sentireascoltare ti, lo testimonia l’imponente Black Bed Blues, un tappeto acustico di diciassette minuti c h e p e r m e t t e a To m C a r t e r d i esprimersi in alcune delle sue migliori soluzioni chitarristiche, in una sorta di Dark Star per gli anni 2000. A Vintage Burden scaccerà via qualche fanatico e accoglierà nel suo caldo grembo nuovi adepti, in una rivoluzione pienamente riuscita a metà. Pur non conquistandosi un posto tra i migliori lavori della coppia, riesce comunque a conf e r m a r e C h r i s t i n a e To m C a r ter tra gli apici dell’attualità folk americana. (6.5/10) Antonello Comunale Comets On Fire – Avatar (Sub Pop / Audioglobe, 8 agosto 2006) E’ curioso constatare come i Comets On Fire abbiano deciso di abbassare i volumi del loro muro di suono chitarristico per lasciar riaffiorare sulla superficie dinamiche quasi frippiane (diciamo King Crimson era In The Wake Of Poseidon), eppure è quanto accade nell’iniziale Dogwood Rust. Sia detto, lo sfondo resta sempre quel magma sonoro alla Hawkind, la cui trama viene ispessita ulteriormente dall’immancabile echoplex di Noel Harmonson, ma come biglietto da visita il brano lascia presagire novità. Novità gradite, che non si fatica a scorgere nei toni quasi soft (meglio: meno forsennati del solito) di Jaybird – mai il fraseggio delle chitarre è stato voce solista come in questo caso – e nel blues acido e cant a b i l e d i L u c i f e r ’ s M e m o r y. The Swallow Eyes e sopratt u t t o H o l y Te e t h s i f a n n o d e positarie dell’annoso dilemma sulla posizione dei Comets On Fire, mai troppo chiari in proposito, nei confronti dello ston e r. D i s c u s s i o n e s t e r i l e e f i n e a sé stessa, se non fosse che rinfocola il dubbio su quanto, e se, Ethan Miller e com- pagni siano succubi di quella che Bloom chiamava angoscia dell’influenza, la causa prima, a ben vedere, della fine poco edificante a cui è giunto lo s t o n e r. S e è a l t a m e n t e p r o b a bile che la musica dei cinque sia solo maschera di revivalismo cieco e a volte persino becero, dietro la quale invero si nascondono ben altri tesori da scovare nelle maglie nascoste del loro suono, come dobbiamo allora comportarci di fronte al rifferama seventies compiaciutamente ignor a n t e d i H o l y Te e t h ? Per fortuna intervengono Sour Smoke, strumentale tutta org a n o e I r o n B u t t e r f l y, f l o w e r power mediato dalle intuizioni f o l k d i B e n C h a s n y, e i l p o p psichedelico – presumibilmente farà la gioia dei nostrani Jennifer Gentle - di Hatched Upon The Age a confermare Avatar il parto più maturo e accessibile di una band il cui vivido sguardo sul futuro sembra non risentire di nessuna angoscia retrospettiva. (7.2/10) tra le trame semplici ed efficaci della chitarra (l’iniziale Gegen Alles Bereit, col suo incedere epico e malinconico che non ammette repliche di sorta) e ritmi di stampo decisamente più vicini ai canoni Morr (Zwei Streifen In Blau, dalle melodie più primaverili rispetto a quelle del pezzo di apertura). In pratica, la versione rallentata dell’arrembante post rock futuristico dei 65daysofstatic, con richiami allo stile morbido e d e v o c a t i v o d i F o u r Te t . Anche se a volte il meccanismo s’inceppa in qualche banalità di troppo – come nel caso di Position: Wieder Eins, che quasi subito palesa il proprio aspetto di indigesto polpettone mogwaiano – comunque il risultato è godibile come un sorso di birra gelida mentre tutto il resto è arido e dannatamente caldo. (6.5/10) Vincenzo Santarcangelo To r n a n o i C o u n t r y Te a s e r s , complesso scozzese promotore di un lo-fi a forte misantropia. Il disco deve il titolo ad una raccolta di studi sul razzismo dei primi anni 80; lo recensiremo seguendo l’impianto argomentativo anglosassone. Thesis. Fa notizia la prima traccia, una simil-cover di In The Flesh dei Pink Floyd (qui Spiderman In The Flesh): rifare qualcosa di The Wall dev’essere qualcosa tipo per un gruppo indie italiano suonare Uomini soli dei Pooh, con tutto il – poco - rispetto; ma il brano, trasformato in un resoconto lamentoso, solo alla fine (“How many queers!”) svela la sua paternità diretta, rinnovando – in mazurca – il fortissimo coupe de théâtre dell’originale. Subito dopo il cowpunk scoppiato di Point s O f Vi e w, b a s s o g u a s c o n e e batteria che quasi imbrocca il Couch – Figur 5 (Morr Music / Wide, giugno 2006) Stavolta sì. Ci siamo. Forse – sicuramente – non si tratta di un capolavoro, ma Figur 5 dei tedeschi Couch non suona come gli ultimi dischi targati Morr Music. Ovvero dei riempitivi senza infamia e senza lode che hanno livellato verso il basso – appiattimento, routine, noia – quella che invece era nata come una saga elettronica eccitante, moderna, innovativa. E ci voleva un gruppo come questo per ridare fiato ad una formula che, in mancanza – temporanea, si spera – dei depositari del brevetto, stenta ad emozionare. I Couch, d’altronde, sanno essere diversi dai loro compagni di scuderia, perché nascono post rock e crescono indietronici. Brani strumentali che si divincolano Manfredi Lamartina Country Teasers – The Empire Strikes Back. Race And Racism In 70s Britain (In The Red / Goodfellas, maggio 2006) sentireascoltare 59 tempo di She’s Lost Control dei Joy Division, ci riporta ai fasti di Satan Is Real Again, il fulgido primo long-playing, probabilmente rimasto insuperato. Counter thesis. Non si raggiungono, infatti, le intuizioni pestifere di quell’esordio, ormai di dieci anni fa ma ancora freschissimo, nella sua sporcizia scazzata. I CT di Empire Strikes Back non fanno che infilare (come un ubriacone che fa la collanina di margherite) una serie di passi da manuale a bassa fedeltà, riuscendo a mettere a punto la maniera del lo-fi, come giocassero con un equalizzatore a sottrazione. Esemplare la batteria, che pare di sentire in concerto, senza filtri né scusanti, secc a c o m e Te r e n c e H i l l . C i s o n o comunque un paio di novità: la minimale e disfattista Mos E 1 7 l e y, e W h i t e P a t c h e s , d o v e il ramo dei CT si avvicina a quello dei giovani Casio-fili Experimental Dental School. C o u n t r y Te a s e r s . M a n o n p o s siamo fare battute del tipo: “ i C o u n t r y Te a s e r s c o l p i s c o no ancora”; non per lo scarso valore della freddura, ma per l’afa che lascia il complesso di queste tracce, un po’ troppo strette nel loro genere, comunque spassose, non dico evitabili, ma neanche troppo inevitabili. Senza esser razzisti: è la razza che si autorappresenta. (6.1/10) Gaspare Caliri Crifiu – Tra terra e mare (Dilinò-Etnoworld / Venus, maggio 2006) Crifiu è un sestetto del Salento dalle scarse similitudini coi più noti conterranei Sud Sound System, collocabile piuttosto nel solco di quelle formazioni italiane che, indagando le sfaccettate radici popolari, hanno maturato un equilibrio tra multiculturalità, militanza e confronto con la modernità. Una tradizione rivisitata e ibridata che ha offerto negli 60 sentireascoltare anni dischi di valore, sospesi tra antico e moderno, ricerca e passione, impeto e riflessività. Tutte caratteristiche che, insieme al concept su cui è basato,vivificano anche questo Tra terra e mare, terzo disco al cui centro è un Mediterraneo inteso come luogo di meticciato, attraversato da capo a capo raccogliendo impressioni poi tra loro intrecciate, meglio se travalicando le coordinate, come negli echi celtici della title track. Nel programma, a parte la presenza dei fratelli Severini nell’adeguatamente cupa Onda D’Ombra, spiccano il dub speziato di Maghreb Trans-World Express, l’innodia di Rock In Sud, che fa vela tra Fossati, Gang e Irlanda e la felice unione tra cajun, combat rock e schegge drum ‘n’ bass in Sutta 7 cieli. Nella seconda metà dell’opera affiora qualche flessione, di natura peraltro mai grave e altresì prevedibile in un minutaggio che lambisce l’ora, all’interno del quale però il folk-rock mutant e d i C o m e s a r à ? e Ta m m u r i a ta d’Espérance o la memoria plausibilmente attualizzata di Nu’ mm’ha dire brillano di convincente luce propria. Una vasta gamma di influenze, e l’abilità del gruppo nel gestirle e padroneggiarle, inducono a sostenere che l’ambizioso obiettivo è stato per lo più centrato, e confermano che la penisola costituisce da sempre –oggi più che mai- un teatro di floridi incroci di culture, come del resto profetizzava già il Pasolini “campionato” lungo il cd. Un fatto inconfutabile e attualissimo, questo, piaccia o meno a certi tristi figuri che popolano il mondo politico nazionale. (7.0/10) Giancarlo Turra Cult Of Luna - Somewhere Along The Highway (Earache / Self, 27 giugno 2006) I Cult Of Luna (voce, due chi- tarre, sezione ritmica, tastiere e campionatore) vengono dallo stesso circolo svedese che ha partorito gente del calibro di Meshuggah e Refused. Il loro nuovo album aggiunge poco niente, tanto alla loro carriera quanto (e soprattutto) al genere, quel drone metal in una fase di sviluppo ancora delicata ma già fortificato dagli Isis post-rock-metaldi Panopticon (Ipecac, 2004), come pure dai Mastodon e dagli esperimenti sul grind degli Orthrelm. Anzitutto, questo Somewhere rispolvera un tema mitico quello dell’highway - che forse, per la prima volta, c’entra quanto i cavoli a merenda. O forse andrebbe sfruttato diversamente, perché qui di veloce, di realmente progressivo, di riflessivo, di poetico in senso trasversale, c’è ben poco. Ma le cose non cambiano nemmeno a leggere l’album senza ambizioni tematiche. Emergono appena i fuzz neriss i m i d e l l ’ i n t r o d i M a r c h i n g To The Heartbeats, il battito insistito dell’attacco di Finland, l ’ i n t r e c c i o m a t e r i c o a l l a To o l di Dim. Il resto, dalla stessa Finland allo sludge virulentoa e r i f o r m e d i B a c k To C h a p e l To w n , c o n o v v i e s p r u z z a t e d i Sunn 0))), alla ballad memor e d i Va n M o r r i s o n e d e i t a r d i Earth di And With Her Came The Birds, alla carovana di fragori e interferenze di Dark C i r y, D e a d M a n , è q u a s i s e m pre una spossante battaglia per distinguerli tanto dai succitati Isis, quanto dai maestri di entrambi, i Neurosis. Te r z o t e n t a t i v o s u l l a l u n g a distanza della band svedese, pretendente e intransigente, saturo di parti e spezzoni autoreferenziali, quando non tediosi. Se il genere è nemmeno a metà strada, questo è uno dei primi - prematuri - album per potenziali completisti. A differenza dell’insuperato Salvation (Earache, 2004), l’unica cosa che poteva portare vera innovazione (i sample recensioni Matthew Herbert - Scale (!K7 - Accidental / Audioglobe, 29 maggio 2006) Te r m i n a t i g l i s p o s s a n t i s p e r i m e n t a l i s m i a l i m e n t a r i d i P l a t D o J o u r, H e r b e r t n o n s m e t t e i p a n n i d i a t t i v i s t a , a n z i l i t i r a a l u s t r o e - a distanza di nemmeno un anno - si presenta in smoking da gran sera, pronto ad accompagnare l’orchestra in disco. Similmente a Goodbye Swingtime e quindi decisamente “suonato”, Scale è una glassa orchestrale suntuosa, invitante, ma se all’epoca di quel disco il mood pescava dagli anni 30-40, d a l l ’ e s p e r i e n z a d i E l l i n g t o n e M i l l e r, o r a l e c o m p l e s s e o r c h e strazioni flirtano con il funk Motown dei Sessanta di Something Isn’t Right (sinuoso ed elegante passo upbeat, con Dave Okumu, Dani Siciliano e Neil Thomas a ritagliare origami vocali morbi quanto duri nelle liriche), riempiono le ritmiche house di The Movers And The Shakers (lo strappo di una lattina apre il fitto dialogo tra fiati, sampler e schizzi elettronici vorticosi), si intingono di opulenza disco Settanta in Moving Like A Train (puntuale basso funk, coro a là Sister Sledge e luci stroboscopiche per un uno dei brani più compositi e riusciti dell’album). Pop sofisticato, lussurioso e arrangiatissimo, eppure immediato, leggero, fresco, così si presenta Scale fin dai primi brani. Minuzioso al solito il lavoro di Herbert sulle melodie, sugli arrangiamenti, come fosse partito proprio dalle linee vocali, per arricchire poi i contorni di sfumature ora vivaci, ora più intime e defilate, senza ostentazione, ma sempre con quel gusto per la ricercatezza che a volte, inevitabilmente, lascia un’amara sensazione (perfetta interpretazione della Siciliano nella ballata dalle evanescenze hollywoodiane We’re In Love e in Harmonise, cassa in quattro vicina alle ritmiche di Around The House). E non potrebbe essere diversamente: a dispetto della leggerezza che le soluzioni suggeriscono al primo ascolto, l’umore predominante prende le tonalità del blu per toccare quasi quelle del grigio (la malinconia futurista di Those Feelings e Just Once, quasi una piece teatrale). Si avverte una certa rassegnazione, forse meglio delusione, dell’autore nei confronti di un presente sempre più oscuro, dominato dai poteri del mercato, dalla violenza fisica e psichica di una guerra in nome dell’oro nero a cui non si vuole porre fine. Una sensazione che permea ogni singola nota e poco sorprende leggere nelle note stampa che nei 723 oggetti campionati (e riportati nell’artwork) compaiono anche aerei da caccia, bare, pompe di benzina, meteoriti. Oggetti che non si percepiscono, ma che imprimono la naturale forza sovversiva di cui si fanno portatori, funzionali così come l’infrangere le regole del “Contratto Personale”, che da sempre guida la produzione del Nostro, senza che questo incida negativam e n t e s u l l ’ i n t e r o l a v o r o , c o m e i n v e c e è s u c c e s s o c o n P l a t D u J o u r, c h e o r a s u o n a f o r z a t a m e n t e concettuale. M r. H e r b e r t è r i u s c i t o n e l s u o i n t e n t o , c o m e n o n g l i c a p i t a v a d a i t e m p i d i B o d i l y F u n c t i o n s , d i unire l’idea al suono, di rendere questi due aspetti organici e complementari, gradevoli all’orecchio e stimolanti per il cervello. E non spaventatevi se nel pieno della leggerezza e della gioiosità vi troverete per un momento a pensare, magari al presente e a quello che potrebbe essere il futuro. Fa parte del gioco. Un gioco che si completerà con la versione live, a luglio in Italia. Non resta che aspettare. (7.5/10) Va l e n t i n a C a s s a n o sentireascoltare 61 recensioni Current 93 – Black Ships Ate the Sky (Durtro-Jnana / Goodfellas, 29 maggio 2006) Fa sicuramente il suo effetto trovare Marc Almond ad aprire un disco dei Current 93. Nei sei anni che separano il nuovo Black Ships Ate The Sky dal precedente Sleep Has Is House, David Tibet ha lavorato sempre più come un mecenate rinascimentale attento a mettere la propria sagacia produttiva al servizio di personalità artistiche eterogenee. Un Tibet sempre più protagonista del marketing globale dei suoni di ricerca. Basta guardare quello che è ormai diventato il roster della Durtro. La folla di collaboratori, amici e guest stars nella nuova fatica dei Current 93, allora si spiega anche con questo. Con la stima di cui gode uno degli artisti inglesi più singolari e colti di sempre. Si diceva di Marc Almond, che è solo il primo in ordine di apparizione. Seguono Bonn i e P r i n c e B i l l y, B a b y D e e , A n t o n y, C l o d a g h S i m o n d s , C o s e y F a n n i Tu t t i , P a n t a l e i m o n e S h i r l e y Collins. Tutti impegnati ad interpretare, ciascuno secondo le proprie corde, lo stesso identico b r a n o , I d u m e a , u n i n n o d e l 1 7 9 3 s c r i t t o d a C h a r l e s W e s l e y, f r a t e l l o d e l f o n d a t o r e d e i M e t o d i s t i , J a m e s W e s l e y. E ’ u n p o ’ c o m e l a c o l o n n a v e r t e b r a l e d e l d i s c o . O l d h a m d à u n ’ i n t e r p r e t a z i o n e vorace e carnale, che è probabilmente la migliore insieme alla versione in odor di madrigale di Baby Dee e al canto isolazionista di Cosey; Antony a cappella, Clodagh Simonds e Shirley Collins intimiste e arcaiche, Andria Degens tenerissima e onirica. E’ come ascoltare un disco d e n t r o a l d i s c o . L’ o p e r a g e n e r a l e r i p o r t a l a s c r i t t u r a d i Ti b e t , p r e p o t e n t e m e n t e d a l l e p a r t i d i Thunder Perfect Mind e All The Little Pretty Horses. I l t o r b i d o o n i r i s m o d i b r a n i c o m e T h e n K i l l C a e s a r, T h i s A u t i s t i c I m p e r i u m i s N i h i l R e i c h o a n c o r a T h e D i s s o l u t i o n o f t h e B o a t : M i l l i o n s o f Ye a r s t e s t i m o n i a d i u n a r i n n o v a t a v e r v e c o m p o s i t i v a , con l’aggiunta assai sensibile dell’apporto di Ben Chasny (Six Organs Of Admittance) alle chitarre acustiche. Il mood non si alleggerisce affatto e Tibet non commette peccati di vecchiaia q u e s t a v o l t a . P r o v a n e s i a n o , i l r i t u a l i s m o p a g a n o d i B i n d Y o u r To r t o i s e M o u t h c h e m u o v e d a l l e p a r t i d i T h e W i c k e r M a n o l e a p o c a l i s s i a v e n i r e d i B l a c k S h i p s S e e n L a s t Ye a r S o u t h o f H e a v e n e ABBA Amma (Babylon Destroyer). Steven Stapleton (Nurse With Wound) interviene immancabilmente in modo traumatico e malevolo, con l’elettronica luciferina della title track e Antony suggella di malinconia l’intima e altera The Beautiful Dancing Dust. Il miglior disco che Tibet potesse partorire nel 2006, soprattutto a questo punto della sua discografia e forse è anche un bene che arrivi proprio ora, quando qualcuno era già pronto a dargli l’Oscar alla carriera. Visto il personaggio è però bene non nascondere i difetti di un’eccessiva grandeur progettuale, la lunghezza sovrabbondante del disco, il ricorso a soluzioni già ampiamente sperimentate, ma questi più che difetti sono caratteristiche proprie del musicista. Prendere o lasciare. (7.3/10) Antonello Comunale 62 sentireascoltare d i A n d e r s Te g l u n d ) v a a v u o to o si ode in minima parte. (5.2/10) Michele Saran Daniel Johnston & Jack Medicine - The Electric Ghosts (Important records, maggio 2006) Per quanto si tenti d’incastonarlo in un “progetto”, Daniel rimane un diamante pazzariello. Anche perché in un modo o nell’altro finisce sempre per lavorare assieme a personaggi non proprio regolari (vai a capire il motivo). E’ il caso stavolta del produttore Don Goede, alias Jack Medicine, sicuramente in possesso di tecnica e visione “professionali” però anche uno sciroccato mica da poco, con tutte le sue ossessioni folk e psych da Hitchcock in sedicesimi (vedi l’organo vetroso e la chitarra a galoppo di G o o d b y e To T h a t h G i r l ) e q u e i rantoli blues-wave che mandano Bryan Ferry a sferragliare disincanto tra brume Nick Cave (come in Blue Skies Will Haunt From Now On). Insomma, la coppia è ben assortita e pare altrettanto ben rodata. L’ e n e r g i a s c a l p i t a e s c o r r e , anche se lungo una specie di binario del quale restano ben distinguibili le rotaie, i parti dell’uno da quelli dell’altro. Per dire, pezzi come Sweetheart e Pain In My Heart sono senza alcun dubbio johnstoniani – quel tipico zuccherino malfermo, intossicato e struggente - mentre in quella Summer Jazz che sembra trascinare gli Eels sul sentiero spigoloso e arguto del lo-fi pavementiano, il buon Daniel sembra entrarci poco o nulla. Poi però c’è una clamorosa cover della bowiana Scary Monsters che rimette tutto a posto ovvero manda tutto all’aria: un Johnston versione invasata alle prese con devoluzioni horror-punk, mutazioni pop infantili, ipnotiche propaggini esotic-psych ed electro-dark, insomma la caricatura di un delirio fumettistico proprio come c’era da augurarsi. Se infine consideriamo la ghost track - nove minuti e passa di melodioso russare, sorta di goliardico corrispettivo sonoro dello Sleep di Warhol - ecco che anche gli spiriti elettrici sono serviti. E noi con loro. (6.4/10) Stefano Solventi Divine Comedy - Victory For The Comic Muse (Parlophone / Emi, 19 giugno 2006) Di fronte all’ingrato compito di bissare i fasti di Absent Friends, Neil Hannon fa un mezzo passo indietro, riportando il suono della sua - ora ritrovata - band ai tempi di Casanova (1996) e recuperando al contempo quello spirito sornione e ironico, accantonato nei lavori precedenti. Victory For The Comic Muse si nutre quindi del passato dei Divine Comedy (già il titolo riprende il primo LP del 1990, Fanfare For The Comic Muse), ma la maturazione degli ultimi anni non è passata invano: al nono album in studio l’artista irlandese si dimostra raffinatissimo arrangiatore e produttore, nonché (credibile e convincente) interprete di sé stesso. To r n a a g i g i o n e g g i a r e N e i l , e si sente da subito nella tracc i a d ’ a p e r t u r a To D i e A V i r gin, divertente schermaglia amorosa su un arrangiamento d’archi che porta dritti al suono storico del gruppo, e nella s u c c e s s i v a M o t h e r D e a r, m a r c e t t a d a l l e s f u m a t u r e c o u n t r y, densa di humour tipicamente british à la Ray Davies; e se in A Lady Of A Certain Age si concede al melodramma francese con un po’ di maniera, altrove rimette su la maschera del dandy raffinato, amante dei viaggi (la geografia in musica di Count Grassi’s Passage Over Piedmont) e delle belle donne, che canta nostalgicamente di vecchi amori (The Light Of Day) o rac- conta storie di gente ordinaria (l’avventuroso protagonista di The Plough). I numi tutelari, manco a dirlo, sono quelli di sempre, Bacharach per gli arrangiamenti certosini (il lounge del singolo Diva Lady), David Bowie e Bryan Ferry per il crooning (ogni tanto riecheggia perfino il collega J a r v i s C o c k e r, v e d i A r t h u r C . Clarke’s Mysterious World), il maestro Scott Walker per lo spessore dell’insieme (un esempio su tutti? La trasfigur a t a P a r t y F e a r s Tw o d e g l i A s sociates); da navigato professionista poi, Hannon riserva la zampate di classe per il finale, ripescando i drammatici crescendo d’archi che avevano reso grande Absent Friends nella chiusura di Snowball In Negative. Nel suo ripiegarsi su sé stesso, forse Victory For The Comic Muse sarà una parziale delusione per chi avrebbe voluto ritrovare i toni meditativi, intimi e “domestici” dell’Hannon più recente, ma anche se preso come un puro esercizio di stile, non c’è niente da fare, la stoffa è intatta. (6.8/10) Antonio Puglia Drop The Lime – We Never Sleep (Tigerbeat6 / Goodfellas, 2006) La Tigerbeat6 attraversa da tempo una profonda crisi d’identità: la sua elettronica terroristica beffardamente punk nello spirito, ma tragicamente deficitaria di comunicativa, godette dei favori di una certa critica lesta a lanciarsi con salti carpiati sulla prossima sensazione, in un momento in cui – al cambio si decennio e secolo – da qualche parte c’era voglia di ricambio. Beneficiando del distacco concesso dallo scorrere della sabbia nella clessidra, diremmo che dell’hype siano oggi rimaste scarne tracce, giusto qualcosa di Lesser e del padrone di casa Kid 606, annotando intanto come nulla invecchi più sentireascoltare 63 in fretta dell’avanguardia se mancano canzoni a tener su tutto. Come che sia, l’etichetta cerca ora di rilanciarsi, esulando dall’ingombrante passato per affidarsi a un electroclash mondato da lustrini, a una versione low-tech del cantautore stralunato o gettandosi nell’indie rock. Il problema è che non solo di LCD Soundsystem se ne trovano a ogni angolo, ma neppure di Chicks On Speed, ed ecco la conclusione: molte uscite e nulla o quasi da ricordare, smarrito tra le ceneri di quel warholiano quarto d’ora di fama di cui sopra. Lo stato di cose non migliora nemmeno con questo secondo disco di Drop The Lime, alias L . Ve n e z i a , d j n e w y o r c h e s e girovago che unisce techno a influenze grime o pop. Malgrado il tentativo di cimentarsi con qualcosa di inusuale per i suoi standard, si continua a restare a metà del guado: il disco è gradevole, in alcuni frangenti potabile anche al di fuori dell’autoreferenziale ambito di provenienza, ma non vale l’esborso a meno che non s i a t e s u l l i b r o p a g a d i Vo g u e o in procinto di partire per Ibiza. (6.0/10) Giancarlo Turra Egokid - The K Icon (EW Records / Venus, 2006) Parte bene, anzi benissimo, The K Icon degli Egokid. Sean Connery è un pezzo splendido. Il suo piglio melodico e il suo arrangiamento beatlesiano – più McCartney che Lennon – sbancano alla grande al Casinò della pop music. Peccato però che le fiches siano truccate e che Radio Deejay non ami le intromissioni indie nel proprio territorio, perché questo è un brano caldissimo, meritevole di una heavy rotation esagerata. Che poi, per la verità, è inesatto parlare di album. Il nuovo lavoro del trio capitanato 64 sentireascoltare da Diego Palazzo (non più pubblicato da Snowdonia ma da EW Records) è infatti diviso in due parti: The K Icon, per l’appunto – che, a seconda di come si pronunci, diventa Decay Icon o The Gay Icon – e l’ep Santa Kraut: Songs In The K Of E, composto dalle quattro canzoni che chiudono definitivamente la carrellata. Un cd bello denso, quindi. Forse troppo. Perché il rischio concreto è di annacquare le buone idee che una band come gli Egokid dimostra nei fatti di possedere. Così, in quest’ora abbondante si passa dal brit p o p p o s s e n t e d i Yo u T r u s t a l p o t e n z i a l e t o r m e n t o n e d i To u ché (un azzeccato susseguirsi di lounge, francofonia, anni Sessanta e cori stile Beach Boys), dalla cavalcata rock di Emokid alla psichedelia narcolettica di Golden Egg, il tutto condito dalla tradizionale verve del complesso. Forse quello che manca agli Egokid è la lingua. Se cantassero in italiano farebbero faville, e Mtv non li relegherebbe nelle fasce serali “da pornazzo”, come dicono loro stessi nell’esilarante comunicato stampa. Sembra però che non sia un’idea campata in aria, quella del cambio di registro linguistico, ma un progetto in avanzata fase di realizzazione. Sarebbe una gran cosa. (6.7/10) Manfredi Lamartina Elvis Costello & Allen Toussaint – The River In Reverse (Verve / Universal, 29 maggio 2006) The River In Riverse nasce dalla collaborazione tra un Elvis Costello ormai “americ a n o ” e d A l l e n To u s s a i n t , p r o duttore, musicista mito della scena rythm ‘n’ blues di New Orleans. L’ o c c a s i o n e è s t a t a l o r o f o r nita dai concerti che si sono susseguiti dall’anno scorso per raccogliere fondi in favore delle popolazioni colpite dal- l ’ u r a g a n o K a t r i n a . L’ i n c o n t r o (i due avevano già collaborato un paio di volte negli anni ’80) è poi sfociato in questo disco, in cui i due musicisti rivisitano alcune canzoni del repertor i o d i To u s s a i n t , c o n s e i p e z z i inediti:cinque scritti assieme e la title track di cui è autore il solo Costello. L’ i n c o n t r o è i n n a n z i t u t t o t r a la band di Costello, gli Imposters, a fornire la sezione ritmica (con Steve Nieve all’organo) e i fiati dell’ensemble di To u s s a i n t , q u i a l p i a n o e a l l a voce in Who’s Gonna Help Brother Get Further e altrove nelle linee vocali. Colpisce l’omogeneità del disco, con Costello a amalgamare il vecchio e il nuovo (come nel pezzo che dà il titolo al disco), a far rivivere gli standard (il s o u l d e l l e b a l l a d N e a r e r To Yo u , F r e e d o m F o r T h e S t a l lion, All These Things, l’err e b ì d i Te a r s Te a r s A n d M o r e Te a r s , ) , r i a t t u a l i z z a n d o l i , r i calcando anche vocalmente lo s t i l e s o u l - b l u e s d i To u s s a i n t . Prosegue inarrestabile quindi il viaggio dell’inglese Costello a ritroso nelle radici della musica afro-americana, che sia jazz, blues, soul poco importa, tutto viene inglobato e rielaborato in un melting pot, pronto per essere riusato. Il risultato questa volta è un disco soffuso di struggente malinconia e allo stesso tempo ricco di un’energia contagiosa, derivata da un incontro certamente fertile. (7.0 /10) Te r e s a G r e c o Evangelicals – So Gone (Misra / Wide, 6 giugno 2006) Indie pop, psichedelia, glam, free, freak, prog… se gli ingredienti sono questi, e il gruppo in questione proviene dall’Oklahoma, il paragone con i Flaming Lips diventa d’obbligo (e forse d’impiccio). È la Misra Records di Austin, Te x a s ( D e s t r o y e r , T h e M e n d o za Line e Centro-matic) a farsi carico di produrne l’esordio recensioni The Late Cord - Lights From The Wheelhouse (4AD / Self, 19 maggio 2006) I m m a g i n a t e M i c a h P. H i n s o n , c o n o s c i u t o e a p p r e z z a t o c o n i G o spel Of Progress e togliete dalla firma quella P; calatelo nelle più liturgiche atmosfere 4AD, dove contemplativi accostamenti acustico-elettronici sono come l’ostia per il parroco. Provateci. Avrete per le mani la polpa di uno scrigno d’eppì. Lights From The Wheelhouse è la crisalide di un Hinson denudato e poi liberato dall’ansia, essenziale, senza che la (P)otenza s’elevi dalla disperazione, privo dell’impeto crescente che lo contraddistingueva nell’esordio e scevro dell’urgenza espettorante che ne demarcava le esperienze live, dove ad accompagnarlo erano gli Earlies. Ed è proprio dalla band di sede a Manchester che proviene il vecchio amico che qui lo accompagna: John-Mark Lapham, già artefice delle trovate sampledeliche di quel combo. E n t r a m b i - d o v e r e d i c r o n a c a - p r o v e n g o n o d a A b i l e n e , n e l Te x a s , i l l u o g o d o v e t u t t i i d i a r i d i Micah sono cominciati; il che, più che un indizio, è una garanzia. L’ e p p ì p r e s e n t a c i n q u e a v v o l g e n t i t r a c c e , d o v e t a p e l o o p a m b i e n t a l i e d e ff e t t i c a l i b r a t i s ’ a v v i cendano a una miriade di strumenti e suggestioni folk (chitarre , banjo, mandolini, fisarmoniche), nelle quali la voce dimessa di Hinson galleggia tra i grigi e le brume più genuine dell’etichetta inglese per la quale sono state incise. Lila Blue in apertura, ne è la miglior sintesi: feeling folktronico per preghiere nel deserto, mentre Late Cord, sotto i riflessi del synth e dei rigorosi effetti acquatici (Pan American), esplora di quel mood il lato più plumbeo e così la voce, roca e esistenziale. Introdotto dal sobrio quartetto d’archi in Chains/Strings, il cuore del lavoro è tuttavia quella My Most Meaningful Relationships Are With Dead People,il cui incedere lennoniano al piano è un tappeto maestro per la Cohen song che si fa ricordare. A cantarla il miglior Hinson, Zombie bianco nella stanza verde* a un passo dalla luce, e quella luce arriva in breve con gli echi di fisarmonica e una nenia indiana d’America a calar il sipario e chiudere il lavoro subito dopo (la successiva Hung On The Cemetary Gates), mentre ci si aspetta altre mappe, altri luoghi. Alle volte basta poco si dice, ma qui c’è ancora tanto da costruire. Le fondamenta, del resto, sono solide come cattedrali. (6.8/10) Edoardo Bridda sentireascoltare 65 recensioni Señor Coconut and His Orchestra (feat. Argenis Brito) - Yellow Fever! (Essay / Audioglobe, 12 giugno 2006) Dopo aver stupito con le cover di alcuni classici dei Kraftwerk, Señor Coconut - ovvero Atom Heart, Atom™ e svariati altri nickname dietro cui si cela il musicista elettronico Uwe Schmidt - ritorna sul luogo del delitto accompagnato dalla sodale band latina (capitanata da Argenis Brito), con un secondo progetto a tema. Questa volta ad esser sottoposte al “laser latinizzante” non più cover sparse (come era accaduto nel precedente Fiesta Songs), ma un progetto pioniere della musica elettronica, gli Ye l l o w M a g i c O r c h e s t r a . Macchiati di sudore e del ritmo delle balere più veraci di Santiago, questi rifacimenti dei primordi dell’ elettronica di consumo sono un seguito ideale del remodel dei manichini dusseldorfiani; ma la vera novità, a scansare il pericolo di un’inevitabile sterilità, è il ritorno all’electro-latino che caratterizzò il primo lavoro a firma Coconut. Ye l l o w F e v e r s i c a r a t t e r i z z a p e r u n a m a g g i o r p r e s e n z a d e l l a m a n i p o l a z i o n e e l e t t r o n i c a , p r o t a gonista sia in fase di raccolta delle fonti musicali (catturate separatamente da session dal vivo) che in quella di trattamento delle stesse. È un lavoro coerente eppure più “evoluto” rispetto ai due precedenti: oltre alle dieci cover trattate elettronicamente a partire dalle “strutture”, ecco altrettanti interludi frapposti tra una traccia e l’altra in cui il sound viene macinato senza veli, alla la luce del sole. Da una parte, la musica degli YMO diventa una febbre latina sospesa in un anello di Saturno, esotica e synth-pop, rétro e futurista, dall’altra un pugno di sketch s’inseriscono come elementi sabotanti della contemporaneità. E se per questi ultimi Schmidt ha voluto numerosi ospiti tra i quali Akufen, che ha curato l’electro house al minipimer di Coco Agogo, Schneider Tm, autore delle afose microwaves di Breaking M u s i c e M a r i n a ( d e i N o u v e l l e V a g u e ) e To w a Te i , d i e t r o i l r o b o r a g t i m e M a m b o N u m e r i q u e , g l i e p i s o d i p i ù i m p o r t a n t i v e d o n o p r o t a g o n i s t i g l i s t e s s i Ye l l o w M a g i c O r c h e s t r a a l c o m p l e t o . A t t r a verso il loro contributo, il surplus acquista i connotati dell’imprevedibilità: dall’esotisomo catapultato nel futuro dei brani originali si passa all’operazione inversa come accade nella bella cover di Pure Jam, che sotto l’incedere metronomico dei fiati riporta indietro al nostrano Nino Rota per Fellini, nelle spassose Limbo e Behind The Mask o ancora nell’exotica anni Cinquanta di Simoon. I n p e r e n n e o s c i l l a z i o n e t r a c a l d o / f r e d d o , N o r d / S u d , E s t / O v e s t , p a s s a t o / f u t u r o Ye l l o w F e v e r è un lavoro ubriacante, giocato su più livelli dove il concettuale s’insinua nel fruibile senza affogarlo. (7.0/10) Edoardo Bridda 66 sentireascoltare e loro sono gli “evangelici”, apocrifo combo caleidoscopico con appena un anno di vita ma già devoto a una perenne sospensione in movimento tra un pedale del distorsore ben dosato e sintetizzatori svolazzanti. La strada forse è quella giusta: il fare paradisiaco-cinematico degli ultimi Lips (con tanto di giochi stereofonici e sui nastri) e quello più caciarone dei primi, cerca nuovi equilibri in una pastiera psichedelicamente pop affogata tra le nuvole. Ne sono due begli esempi le funamboliche Another Day (la più spinta del lotto, tra scorribande chitarristiche e rilasci al sintetizzatore, continui strappi ritmici, frullato di stili per una melodia a ricordare i Kinks più estatici) e Hello Jenn, I’m A Mess (apertura space-jazzrock per distensioni in odor di Animal Collective), due brani caratterizzati da attitudine prog e leggerezza infantile, ma anche le uscite a piede libero nei territori di certo pop smithsiano ai Caraibi (Here Comes Trouble), ballate esotiche (Headache), e rincorse di soundtrack à la Architecture in Helsinki (Going Down) sorprendono per ispirazione. È presto per parlare di uno score pieno: come accade in ogni opera prima che si rispetti, il gruppo tende spesso a disperdere le proprie energie all’inseguimento di amori vicini e lontani. Accade un po’ ovunque, specialmente nello sketch di Into The Woods (per elettroniche e xilofoni), per strade completamente diverse, nel glam baraccone di What An Actress Dows Best e nell’intimismo della finale The Water Is Warm, tra Thom Yo r k e e B i n g C r o s b y. File under nuove promesse da tenere d’occhio (nonostante agende già forse affollatissime). (6.7/10) Edoardo Bridda Fabio Orsi - I’m Here Ep (Cdr autoprodotto, 2006) Dopo il meritatissimo successo di critica ottenuto da Osci, Fabio Orsi si rifà vivo con un Ep che sembra quasi un’appendice del lavoro precedente. Come se non avesse detto tutto, il musicista mezzo pugliese-mezzo campano insiste sugli stilemi dell’esord i o u s c i t o p e r l a S m a l l Vo i ces, a metà tra tradizione e (ultra)modernità: tra campionamenti di strumenti etnici ed elettronica minimalista il mondo di Fabio oscilla tra passato e futuro, rimescolando le carte a suo piacimento. C’è qualcosa nella sua musica che mi ricorda Theodore, un giovane franco-greco di cui abbiamo parlato un anno fa. La delicatezza delle scelte sonore, quel piacevole ripetitivismo volto a creare ad ogni istante un nuovo tempo musicale; le melodie semplici, soffici, mischiate ai rumori della vita come se ne fossero un commento; un’intelligenza nel sampling che unisce concetti a intuizioni istintive e istantanee. Tutto questo è la musica di Fabio Orsi. Giusto non dare il titolo alle tracce, così come ha fatto per i lavori precedenti: troppo legate tra loro i cinque “movimenti” di questa mini suite, troppo relazionati tra loro i diversi momenti, difficili da separare anche solo per mezzo di un nome e di un numero. Ci si aspetta davvero grandi cose da uno dei più interessanti personaggi del panorama “elettronico” italiano, probabilmente il campo più innovativo dell’ottima produzione musicale nostrana degli ultimi anni. (7.5/10) Daniele Follero First Nation - First Nation (Paw Tracks / Goodfellas, 2006) First Nation è un trio - allegro e pieno di brio - tutto fem- minile che taglia il traguardo importante dell’anno di vita con un primo lavoro sulla lunga distanza, anticipato da un 7”, per l’etichetta degli Animal Collective. Un dato, questo, che dovrebbe in teoria parlare da solo, non fosse che in realtà Nina, Kate e Melissa si possono incasellare solo in parte nel composito filone neo folk, con ben altre invitanti direzioni segnate in rosso sulle loro mappe. A trame insieme semplici e stratificate ordite con chitarre acustiche, rade percussioni, fiati e synth modesti, le ragazze intrecciano vocalità cris t a l l i n e ( s q u i s i t e i n Yo u C a n Be, ironicamente medio orientale, e Child’s Eyes, forte di un senso di approssimazione studiata che ricorda da lung i Yo u n g M a r b l e G i a n t s ) , p i ù spesso che no sorrette da una capacità di scrittura che oggi brilla più per la sua assenza. Quando al contrario quel poco di sbraco gratuito di prammatica riaffiora, ci si smarrisce in una tediosa Waterfall e nello sfiancante incipit di Awakes, infine trovando meta e rifugio in quella musica notturna - da bambole a spasso nella giungla - che animava The Return Of The Giant Slits (Female Tr a n c e e M o n k e y, m o l t o r i u scite). Per ora promuoviamo con qualche riserva in attesa di un’auspicata maturazione, che si spera non tardi troppo a sopraggiungere. (6.8/10) Giancarlo Turra Fog – Loss Leader (Lex / Wide, 22 maggio 2006) Andrew Broder appartiene a quella genia di cantautori ultra lo-fi (e amanti dell’hip hop) legati ai dogmi di un’eccentrica e trasandata produzione casalinga, imprevedibile e caratterizzata da un’altrettanto proverbiale inondazione di eppì, 12”, cassette e 7”. Nessuna sorpresa dunque se L o s s L e a d e r, l ’ u l t i m o s h o r t c u t a firma Fog, è un abbraccio di sentireascoltare 67 amabile folk e granuloso glitch, secca proto-wave e ispido avanguardismo. Si prenda l’attacco, una ballata Sufjan Stevens (The Us Beneath) a trasformare un arpeggio (e una slide) in una festosa marcetta da banda di paese per trombe in placido dialogo free (proprio come sarebbe piaciuto a Barrett); si aggiunga poi Inflatable Ape, Pt.1, un motorik Neu! calato a Cleveland per introdurre un canto sgraziato costellato da eccentrismi tascabili e basi elettroniche. Momenti di consapevole disincanto che sbocciano in autentica classe nei sette minuti di 10th Avenue Freakout pt.2 dove, tra spettri anti-folk e folate in distorsione fracassona, dissonanze infilzate sottopelle e una melodia stonata a svolazzare come un malinconico requiem, si compie il vero salto. Broder è abilissimo nell’inserirsi sulle basi, canta stralunato e confidenziale come un Beck-Barlow sotto valium accompagnato da dei Dinosaur Jr altrettanto narcotici; a nostro avviso, la migliore riesumazione delle più sfasciate e romantiche pose dell’indie dei Novanta. Un grandissimo merito, appena stemperato da Schws / Scrns, altra gemma che brilla giusto un pizzico di meno dove sottili fili indietronici si legano a nervature vocoder per una coda di scrosci glitch e dreamy synth. A quando il long playing della consacrazione? Nell’attesa, questo EP rappresenta già una cospicua caparra… (7.0/10) Edoardo Bridda Frank Black - Fast Man / Raider Man (Cooking Vynil / Back Porch, 19 giugno 2006) A distanza di un anno circa, Frank Black ripropone il copione – spiazzante e notevole insieme - di Honeycomb, con differenze in termini di quantità e sostanza, ma non 68 sentireascoltare di smalto e qualità complessiva della proposta. Il frontman dei Pixies che si reinventa songwriter ed interprete country-soul in quel di Nashville, circondato da una corte di musicisti di tutto rispetto, si conferma una formula vincente e, a questo punto, si rivela una delle mosse più azzeccate della sua carriera in solitaria. Se lo scorso album era un antipasto, Fast Man Raider Man è una scorpacciata, con le sue ventisette canzoni - registrate nel corso degli ultimi due anni, talvolta in session-maratone di dodici ore - divise in due dischi, in cui al già rispettabilissimo carnet di collaboratori d i H o n e y c o m b ( S t e v e C r o p p e r, R e g g i e Yo u n g , B u d d y M i l l e r , Spooner Oldman e Chester Thompson) si aggiungono stavolta signori come Levon Helm di The Band, Marty Brown e Al K o o p e r. S e p o i s i t i e n e c o n to che l’autore del disco si rivela - ancora - ispirato come non mai in fase di scrittura e altrettanto maturo nell’esecuzione, il risultato è assicurato, soprattutto perché, aldilà dei singoli episodi, Black sa assumere una modalità che funziona più o meno in tutte le composizioni, dal mid-temp o d i I f Yo u r P o i s o n G e t s Yo u al southern soul di Fast Man e Sad Old World , dal traditional d i D i r t y O l d To w n e F a r e T h e e W e l l a l l o s t r e e t r o c k d i Yo u C a n ’ t C r u c i f y Yo u r s e l f , E l i j a h e I t ’ s N o t J u s t Yo u r M o m e n t , dal country acustico di I’m Not Dead(I’m In Pittsburgh) e Raider Man al canone Pixies aggiornato di Where The Wind Is Going e Johnny Barleycorn … Quello che risalta rispetto a Honeycomb è un maggiore mood rock (particolarmente evidente nell’attacco del cd2 con In The Time Of My Ruin e D o w n To Y o u ) e u n a s t e s u r a più lineare, da cui consegue – inevitabilmente e naturalmente - un effetto sorpresa scemato e qualche scossone emotivo di meno, ma sono di- fetti facilmente perdonabili. Se, a fronte di questo episodio, da un lato viene il sospetto – la speranza? - che il buon Charles Thompson IV voglia inaugurare una serie come le American Recordings di Johnny Cash, dall’altro non si può che consigliare anche stavolta l’ascolto, a riprova ulteriore del momento d’oro che il fondatore dei Pixies – con cui continua tutt’ora a girare il mondo – sta attraversando. (6.8/10) Antonio Puglia Giardini Di Mirò – North Atlantic Treaty Of Love (2nd Rec / Wide, 9 giugno 2006) North Atlantic Treaty Of Love è un ep di otto brani che segna il ritorno dopo tre anni di assenza dei Giardini Di Mirò. E che parte di soppiatto: la cassa in quattro quarti di Othello bussa timida sugli altoparlanti dello stereo per richiamare ascolto e attenzione. Seguono un basso squadrato, una voce che sembra The Go Find e invece scopri essere quella del chitarrista Jukka Reverberi – che tra l’altro cuce con la sua seicorde una serie di armonie che sono brezze polari ad accarezzare il cuore – e una struttura che lancia i Giardini Di Mirò verso nuove, eccitanti destinazioni. Subito dopo, è il tempo delle sorprese inattese e delle sfide impossibili. Litt l e C e s a r. L’ i n d i e c h e i n c o n t r a l’hip hop. I Gdm con Siaz (rapp e r d i Z u c c h i n i D r i v e ) . L’ e f fetto è straniante – post rock oversize? – e neanche tanto convincente. Apprezzabile per l’intento, ma innaturale per il risultato. Meglio Blood Red Bird, cover degli Smog che, verso la fine, fa confluire le proprie emozioni in Il Cielo In Una Stanza, portando con sè meraviglia e applausi a scena aperta. Segue la glacialità di The Perfect Trick, un inno alle evoluzioni più recenti della musica strumentale. Poi, i Gdm regalano quattro recensioni Scritti Politti - White Bread Black Beer (Rough Trade / Self, 12 giugno 2006) Da un po’ di tempo a questa parte, dando una scorsa allo spazio recensioni dei magazine specializzati sembra di imbattersi più in un reliquiario che in un contenitore di novità: l’ultimo, d o p p i o r i t o r n o d i To m V e r l a i n e , i l n u o v o d e i D u r u t t i C o l u m n e persino Buzzcocks (solo per citarne alcuni)… non fosse per il calendario che segna 2006 bene in rilievo, sembrerebbe il tiro mancino di qualche scherzosa macchina del tempo. A tutto questo clamore amarcord non poteva certo sottrarsi il signor Green Gartside, volubile veterano che in carriera ha esplorato – dopo esordi al confine tra suono di Canterbury e avant-funk a là Pop Group – tutte le sfumature pop del suono black e non (dall’errebbi all’hip hop, passando per la battuta in levare reggae), riuscendo nei primi lavori, ma peccando in una seconda parte di carriera che, ad oggi, aveva nell’incerto Anomie And Bonomie (1999) l’ultimo, sbiadito ricordo. Potremmo quindi anche affermare che, tra tutti i ritorni eccellenti, quello degli Scritti Politti è il più pertinente, in quanto prova obbligata posta a confermare o demolire la nuova vena compositiva della gloriosa sigla. Dubbio che - meglio dirlo subito – cade non appena la leggerezza pop di The Boom Boom Bap brilla nell’ugola androgina di Green. Vince, sì, questo ritorno (per la cronaca, tutto in solitaria, con Gartside unico protagonista) e lo dimostra l’animo Wyattiano (e non poteva essere altrim e n t i ! ) d i u n a N o F i n e L i n e s l a c u i u n i c a p e c c a è n e l l a s t r i n g a t a d u r a t a , m e n t r e l a d i s c r e t a D r. Abernathy ne guadagna, purtroppo, in eccesso; poi c’è lei, Snow In Sun, diretta parafrasi Brian Wilson da consumarsi dopo una giornata nata male. Il reggae, vecchia passione del nostro, si nasconde sornione nella grammatica ancora wilsoniana di Petrococadollar e mai come oggi il retrogusto folky-pop, specie nella bella Mrs. Hughes e Robin Hood, esce allo scoperto. Spogliato delle velleità di un passato ingombrante, Green pare aver (ri)trovato quella vena popcantautorale che non aspettava altro per venire fuori; peccato solo per il minutaggio del disco, che poteva essere alleggerito da qualche episodio di troppo. In ogni caso, se qualcuno ricercava risposte sullo stato di forma del sig Gartside le troverà tutte in questo White Bread Black Beer che, per inciso, è griffato nuovamente – proprio come i bei tempi che furono - Rough Trade. (7.0/10) Gianni Avella sentireascoltare 69 recensioni Parenthetical Girls - Safe As Houses (Slender Means Society, luglio 2006) Non vi è dubbio che i Parenthetical Girls, pronti per fare il botto con questo secondo album - non ancora distribuito in Italia ma già chiacchieratissimo tra gli addetti ai lavori - possiedono più di un aspetto in comune con Jamie Stewart, la metà degli Xiu Xiu, che ne aveva prodotto l’esordio. Parliamo di un pop dal canto enfatico, di xilofoni e campanellini, di arie confident lacerate da storie spezzate, di incursioni avant per un’elettronica tascabile. Soprattutto di tanta bellezza in ogni gesto, parcellizzata fino allo sfinimento, artistica e irritante come quel s a c c h e t t o t r a s p o r t a t o d a l v e n t o d i A m e r i c a n B e a u t y. Ta n t i i f i l i c h e l e g a n o i d u e p r o g e t t i , m a a l t r e t t a n t e l e d i f f e r e n ze, a partire dalla polpa delle canzoni dell’album, dieci diamanti scolpiti da Zak Pennington, cantautore androgino ma al contempo perfettamente univoco quando si tratta di definirne il ruolo. Il registro è quello del Brian Molko più placido e meno autocompiaciuto (quella soavità da angelo wendersiano), e poi ci sono quegli slanci elegiaci, lo s c a l a r e l e n o t e i n u n a g a i a v i s i o n e p o p c h e f u i n p r i m i s i l c r e d o d i M o r r i s s e y. S e g l i X i u X i u h a n n o p o r t a n o M a r k H o l l i s ( Ta l k Ta l k ) n e i g i r o n i i n f e r n a l i d e l r o m a n t i c i s m o t r a g i co (ovviamente Paolo e Francesca), lo scarto dei Parenthetical Girls è in un limbo dalle parti del post war dream, il sogno andato a male di Pink (Roger Waters) che si tramuta nel carillon dell’omino che porta i gelati, ovvero nelle strofe rubate a certo pop Cinquanta, di cui s’è già assaggiato il nettare con Sondre Lerche e Jens Lekman. E così questo pop ’00 comincia a prendere forze e forma. Ce ne rendiamo conto proprio con Safe As Houses, fiero e nostalgico, d’antan come potrebbe essere una canzone delle Cocorosie, lirico come amerebbe interpretarlo Antony (l’arcangelo Gabriele di tutti loro), disturbante come i c i t a t i X i u X i u ( m a a n c h e a i D i r t y P r o j e c t o r s ) , s i n f o n i c o à l a F i n a l F a n t a s y, c h e a p c o m e C a s i o t o n e For The Painfully Alone, civettuolo come Patrick Wolf e, soprattutto, in bilancia tra estetica e emotività, teatralmente Ottanta con uno o più nervi scoperti, l’intimità lo-fi del casalingo e la materia dura della vita per la quale non c’è rimedio migliore se non l’elevazione della lirica e della piccola sinfonia. Dunque, in quest’esercito di formichine ora c’è pure lui, Zac Pennington, il più stiloso e fotogenico, ma anche Zac l’essenziale, capace di passare da una melodia del miglior Brett Anderson (Love Connection, pt II, The Weight She Fell Under) al declamare a picco su un ronzio di note al synth e marzialità Robot Ate Me (I Was the Dancer), dal passare dall’estetica Tin Pan Alley (Oh Daughter/Disaster) a un’apertura vocale di chi sa esattamente come uscire da un incubo raccontandosi la più rassicurante delle melodie (The Weight She Fell Under). Insomma, un piccolo classico di chamber pop, popolato da campanellini, note appese a spianare e falsetti raccolti attorno a altrettante melodie solide come nuvole. Ottima anche la produzione del Dead Science Jherek Bischoff (che assieme a Sam Mickens è anche parte del gruppo): il sound è conciso senza perdere in onestà, gli strumenti accarezzano e graffiano con la stessa efficacia, soprattutto si sorride, si respira di polmoni, si sente quel soffio al cuore... (7.3/10) Edoardo Bridda 70 sentireascoltare remix di altrettanti pezzi, ad opera di Alias, Apparat, Hood e The Boats. Una bella botta electro. Soprattutto Once Again I Fond Farewell, che guadagna parecchio in appeal ed emotività rispetto alla versione originale, tutto l’opposto di Last Act In Baires, stravolta nelle strutture e nelle melodie. Non brutta, ma la matrice “mirò” era tutta un’altra storia. Proseguissero in questa direzione, comunque, i Giardini diventerebbero più grandi persino dei 65daysofstatic. Per ora restano in mezzo al guado, tra buoni brani che richiamano il punk dietetico dell’ultima prova sulla lunga distanza e certe splendide tentazioni indietroniche che farebbero bene ad assecondare. (7.0/10) Manfredi Lamartina Giuseppe Ielasi - Self Titled (Häpna / Risonanza Magnetica, maggio 2006) Il nuovo disco di Giuseppe Ielasi si apre sotto le insegne di una sinfonia apocalittica e dolente che non è esagerato accostare alle ultime produzioni di casa Constellation: corde di violino e chitarra tormentate e costrette a svelarsi nella loro essenza di semplici presenze lasciano il posto ad un motivo che incede lento e maestoso e si arricchisce per gradi di fiati e di una ritmica sotterranea quasi jazzata. Il tutto sorretto da un’architettura quasi immateriale di gocce di suono digitale che paiono presagire un temporale che per i nove minuti di durata non arriverà mai. Anche nel secondo brano Ielasi è quasi irriconoscibile: le chitarre trattate lasciano il posto a micropulsazioni dub che prendono forma da una caotica selva di ritmiche spezzate e glitches frantumati – quasi degli Scorn addottrinati alla scuola dei microsuoni di inizio millennio. Il terzo è un pezzo di elettro- nica capace di elevare l’artista lombardo alla statura dei Rechenzentrum di Director ’s Cut, e trascinare l’ascoltatore in una nube metafisica apparentemente inconciliabile con i residui di umanità scorti con piacevole sorpresa nella prima traccia. Apparentemente, perchè sono la chitarra processata e il battito di mani del quarto quadretto sonoro a ricollocarlo di forza tra le cose di questa terra. Il suono dell’erhu sospende l’episodio conclusivo nella dimensione altra di culture lontane e sconosciute, il tempo che manca perché il tema della sinfonia iniziale ritorni ad occupare la scena per confluire drammaticamente in un crescendo disturbato e sofferente – infine rumore, che smaschera definitivamente la matrice umana, troppo umana della musica di Ielasi. Queste nuove cinque incursioni nell’universo della sperimentazione riempiono di nuove tempere la tavolozza sonora di un artista visibilmente al massimo delle proprie potenzialità, confermandolo ai vertici di un panorama musicale italiano - quello immortalato magistralmente dalla recente compilation A Gift For… - in meraviglioso fermento creativo. (7.3/10 ) Vincenzo Santarcangelo Grant Lee Phillips - Nineteeneighties (Zoe/Rounder, giugno 2006) Il quarto album solista dell’ex bufalo segna una preoccupante battuta d’arresto. Se ci erano piaciuti sia l’intimismo electrowave (Mobilize) sia quel rigirarsi nel lenzuolo fragile & fragrante del country-folk (Ladie’s Love Oracle e Virginia Creeper), era per l’invisibile lavorio del retroterra, per gli inafferrabili legami tra radici e futuro, ferma restando quella voce incredibile, capace di rapimento e mistero, di dolce affilata malinconia. Oggi spiace proprio la svalutazione di tutto ciò a pretesto ed espediente per sfornare un album di classiconi rock-wave anni ottanta riletti in chiave country-folk. Piuttosto che una mappa mnemonico-emotiva del background phillipsiano, il risultato somiglia più al bolso rimembrare di un musicista sull’orlo della pensione, cui non resta che masticare i ricordi - rimpianti compresi - nella brezza serotina del front-porch. Ve l o s c r i v e u n o c h e è a r r i v a to a ritenere i Grant Lee Buffalo una delle band più sconvolgenti dei Novanta, sia pure per il breve volgere di due album. Capirete quindi lo smacco di fronte alla disarmante normalizzazione cui vengono sottoposte una I Often Dream Of Trains o una Wave Of Mutilation o una The Killing Moon, strette in abiti che non prevedono slanci né ombre al di là di una palpitazione di prammatica. E oltretutto - sciagura - cantate col freno a mano tirato, come se neanche GrantLee ci credesse poi molto. Qualche buon momento c’è per forza, per inerzia, come il Cave rannicchiato nel grembo di Cash di City Of Refugee (grazie anche ad una bella armonica morriconiana) o gli Smiths che carezzano la pancia d’un cielo basso e grigio in Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me (finalmente un’interpretazione vocale sopra le righe). Il resto è degno di nota più per la sventatezza del tentativo che per l’esito: è il caso soprattutto dell’accoppiata Age Of Consent e The Eternal, tutto sommato credibile la prima (col mellotron che aleggia sulla trama degli arpeggi) e decisamente in affanno la seconda, inadeguata come una vecchia locomotiva nel budello d’una metropolitana. (5.4/10) Stefano Solventi s e n t i r e a s c o l t a r e 71 Holy Sons - Decline Of The West (Awful Bliss, aprile 2006) Lo sdrucito disincanto di Will Oldham e il riassemblamento androide dei Beta Band s’incontrano dalle parti di Portland, nell’autarchico bugigattolo sonoro di Holy Sons, al secolo Emil Amos, di professione batterista (nei Grails), già quattro album da solista alle spalle. Ogni suono di questo Decline Of The West è sua esclusiva responsabilità, così come quest’aria da collasso cosmico consumato in proprio. Qualcosa di decadente e sanguigno e onirico, come una camera del Chelsea Hotel traslocata sulle rive misteriose d’un mississippi immaginario. Qualcosa di sospeso sul punto di esplodere furioso, come una lama lasciata a mezz’aria, senza più forza per affondare (Bleakest Picture, Satanic Androids). La batteria che procede con passo meccanico senza mai sciogliere il dubbio circa la sua effettiva natura, il baluginio caldo e ferrigno degli organi, il ruvido appeal delle chitarre, folate di found sounds e germogli elettronici (The Feral Kid). D’un tratto, echi gospel di rinterzo beccheggiano con sgangherato trasporto Howe Gelb tra visioni espanse Radar Bros (Slave Morality). E una cover degli amici Daniel Johnston/Jad Fair strapazzata tra cori paesani e strinito bailamme noise (Nothing Left). E anc o r a s i t a r, m a n d o l i n i , s q u a r - 72 sentireascoltare ci psichedelici, falò orientali ed elettronica fumigante (tra gli irrequieti titoli di coda di T h i n g s Yo u D o W h i l e W a i t i n g For The Apocalypse). Una scaletta per nulla compatta quindi, aperta a scarti e azzardi (dub straniti, blues attoniti, folk minimali, fantasmi trip-hop), sempre sul punto di perdere il filo, lasciando intendere che la cifra stilistica del buon Amos non ha ancora finito di sorprenderci. Inevitabilmente però ne esce penalizzato un lavoro - questo - che forse meritava più coesione e risolutezza. E un pizzico d’attenzione in più alle melodie, che un bel disco non è solo questione di (buone) suggestioni sonore. In ogni caso, lo abbiamo segnato sulla mappa. Attendiamo sviluppi. (6.6/10) Stefano Solventi Home – Sexteen (Jagjaguwar / Wide, 9 maggio 2006) Home… chi sono costoro? Un quartetto di ex compagni di scuola proveniente dalla Florida, con alle spalle tanta gavetta costellata da album su due e otto piste incisi su cassette marca Shack, gentilmente appoggiate per anni accanto alla cassa di qualche piccolo negozio di dischi, chiuse in vasetti per biscotti... In altre parole, quella di Eric Morrison (piano), Andrew Deutsch (chitarra), Brad Truax (basso) e Sean Martin (batteria) fa parte della naturale coltura lo-fi, un’edera indie rock stellestrisce che in questa puntata (la sedicesima, in un’odissea che conta perfino la parentesi illustre della produzione di Dave Friedmann p e r X I V, d u e d i s c h i f a ) s ’ a g groviglia attorno a un concept album, ovvero diciannove canzoni che parlano di… sesso. Episodi strinati da una gioventù che alla “sonica urbana” continua a preferire la provincia, che alla coolness preferisce sentimenti agrodolci e stralunati. In matematica: la sincerità come funzione inversa della bassa fedeltà, con il gruppo a puntare il dito a metà della retta. Sexteen, registrato a New Yo r k , propone esattamente quel suono familiare che ci si aspetta, ma anche un pizzico in più dettato dall’esperienza (quando non dalla classe). Ta n t e l e s a l s e e g l i i n g r e d i e n ti: chitarre pastose e pianoforti/tastiere rimbalzelli, distorsioni e folclori, situazioni di gioia e confusione. Così la prosa bislacca dei Grandaddy degli esordi di Other Times (con quegli accenti folk e psych) incontra il sinfonismo strafalcione dei Flaming Lips in Easing And Pleasing (emul Friedmann? Certamente…), il feedback turbo acido di Raging Angel corrobora un blues caciarone tra Pavement e Rolling Stones (Push), una ballata spiritata in leggero falsetto (Deep Inside) sgomita con lo zucchero a velo per xilofoni e archi in odor di jazzismi AIR (Driving)… Senza meraviglie e cadute di tono, le cuffie rimangono appiccicate ai padiglioni fino al g l a m - r o c k d i B a b y Ye a h , a l vaudeville di Come, al passo punk felpato di Tim’s Entry per finire ancora con gli amati Grandaddy di Moonkiss. Un buon lavoro, dal tratto sicuramente non distintivo eppure ineccepibile per varietà e freschezza delle soluzioni. Concedetegli un ascolto. (6.5/10) Edoardo Bridda Hush Puppies - The Trap (Diamond Traxx / Self, 16 giugno 2006) Ricordavamo la Diamond Traxx come una delle etichette cardine del panorama pop/ dance francese, responsabile della pubblicazione del primo album del padrone di casa Benjamin Diamond e di altri gustosi bon bon house presi in consegna dalle attrezzatissime cucine della premiata ditta Crydamoure. Ora che la moda d e l F r e n c h To u c h è m a t e r i a le per i libri di storia, anche i responsabili dell’etichetta transalpina guardano altrove, ponendo lo sguardo su quei territori pop/rock certamente meno glamour ma dal fascino inossidabile. Tra i primi beneficiari di questa riconversione, gli Hush Puppies, cinque ragazzi originari di Perpignan, che con The Trap (già pubblicato in patria lo scorso anno) arrivano al loro debutto discografico dopo una manciata di singoli ed Ep licenziati dalla stessa etichetta, forti di un background che affonda le radici nel sound garage anni sessanta, qui riletto attraverso l’ottica di una chiara visione pop/rock contemporanea. Echi di Supergrass (Marthelot’N’Clavencine, Pale Blue Eyes, Alice In Woderland, A u t o m a t i c 6 ) , H i v e s ( Yo u ’ r e G o n n a S a y Ye a h ! ) e S t r o k e s (Single, Packt Up Like Sardines In A Crum Tin Box) sorreggono i momenti migliori di un album non certo brillante sotto il profilo dell’originalità, ma sufficientemente vivace e scattante da risultare insospettabilmente gradevole. Con ogni probabilità, nel giro di pochi mesi gli Hush Puppies avranno finito la loro rincorsa e finiranno chissà dove, ma, a differenza di tanti colleghi, avranno lasciato un ricordo di loro quantomeno dignitoso. (6.0/10) Stefano Renzi Imaad Wasif – Self Titled (Kill Rock Stars / Goodfellas, 11 aprile 2006) Alcuni lo ricorderanno accanto a Lou Barlow nella sfortunata avventura The New Folk Implosion, mentre i più attenti lo avranno seguito prima nei Lowercase a fine ’90 e poi negli Alaska! insieme a Russ Pollard dei Sebadoh, con cui ha siglato un paio dischi. Oggi i l c h i t a r r i s t a d i Va n c o u v e r d i origine indiana Imaad Wasif, tra un concerto e l’altro con i Ye a h Ye a h Ye a h s ( d i c u i è membro aggiunto), debutta in solitaria per la lungimirante Kill Rock Stars nell’inedita veste di songwriter acustico. Un gioco rischioso, certo, di cui però sembra conoscere le regole alla perfezione: assimilata la lezione di Jeff Buckley ed Elliott Smith, il Nostro snocciola una manciata di ballad tormentate, scarne e malinconiche, che si reggono interamente su delicati arpeggi folk - tra Nick Drake e Neil Yo u n g - e u n a v o c e c r i s t a l l i na, in equilibrio tra melodia ( W i t h o u t e To m o r r o w I s O u r s ) e oscurità (Dandelion, spettrale e ipnotica in stile 4ad) con punte di intimismo che appare sincero e toccante ancor prima che di maniera (su tutte Isolation, in odore di Pink M o o n ) . Ve n g o n o a n c h e i n m e n te il Beck di Sea Change, o il m i g l i o r e B o n n i e P r i n c e B i l l y, quando non lo stesso Lou Barlow di Emoh; ma è tutta farina del sacco di Wasif, del cui finora - inaspettato talento di songwriter e interprete bisognerà d’ora in poi tenere conto. Chapeau. (7.0/10) Antonio Puglia Isan – Plans Drawn In Pencil (Morr Music / Wide, giugno 2006) Non è niente male il nuovo lavoro degli Isan, Plans Drawn In Pencil, anche questo uscito per la tedesca Morr Music. Stavolta Antony Ryan e Robin Saville mettono insieme una serie di pezzi electro strumentali che mostrano un disegno generale dai contorni più definiti rispetto al precedente Meet Next Life, che invece soffriva di eccessivi sbalzi di qualità tra un brano e l’altro. Qui i suoni si allontanano leggermente dai canoni Morr per abbracciare soluzioni più fres c h e e g l i t c h y, c h e f a n n o c a p o l i n o a d e t i c h e t t e c o m e To m l a b e , p e r c h é n o , Te m p o r a r y Residence. E cresce. Col passare dei minuti, degli ascolti, delle ore, laddove sembrava esserci sterilità ed esercizio di stile, poi sorge interesse e curiosità. In alcuni casi è persino rapimento. La gelida Immoral Architecture, ad esempio, ridefinisce i sentieri dell’ambient. F i v e To F o u r , Te n To E l e v e n è un carillon post moderno che a poco a poco esaurisce la carica ritmica ma non la spinta passionale. E il trittico finale se non è una chiusura in gloria è pur sempre un’oscura e malinconica dissolvenza in nero. Tre lame di ghiaccio conficcate in un cuore che pulsa sangue ed emozioni. E quando il silenzio segue la conclusione di Plans Drawn In Pencil, ci si ritrova con i lineamenti distesi e un voto notevolmente – e meritatamente – superiore rispetto ai primi exit poll. Neanche fossimo ancora alle elezioni. (6.8/10) Manfredi Lamartina Joan As Policewoman – Real Life (Pias / Self, 16 giugno 2006) Joan As Policewoman è il curioso nome d’arte che Joan Wasser si è scelta per il suo debutto discografico. Ricordata sia come multistrumentista e collaboratrice, tra gli altri, di Nick Cave, Rufus Wainwright e A n t o n y, c h e c o m e e x c o m p a gna di Jeff Buckley (a dimostrazione di quanto il gossip non sia affatto avulso da Indieland, anzi…), la newyorkese si presenta in proprio con una raccolta ordinata e ben s e n t i r e a s c o l t a r e 73 congegnata di canzoni pop fortemente screziate di soul e a tratti anche di tenui slanci operistici. Il primo brano, che dà il titolo alla raccolta ed è anche il migliore dei dieci, rispolvera audacemente la ballata al piano, si stende austera sul corpo di un lied romantico e con la voce corteggia le vertigini di un soprano. Se tutto il disco si mantenesse su questi livelli sarebbe un capolavoro, ma la qualità delle altre canzoni è inferiore. Su I Defy arriva Antony a dare una mano (e a questo punto il problema che si corre con lui/lei è quello di trovarselo/ a come ospite nell’80% delle nuove uscite mensili, un po’ lo stesso problema avuto da Mark Lanegan non molto tempo fa…) e sono da segnalare i soffici graffi dell’anima di The Ride, la ritmata e melanconica Christobel e la calda soul music di Save Me e We Down’t Own It. In pratica Joan come poliziotta va ad occupare uno spazio preciso lasciato vuoto, non si sa bene per quanto tempo, da Fiona Apple, che con tutti i problemi avuti dalla Sony con l’ultimo disco sembra essere stata rapidamente archiviata tra le artiste del passato. Le premesse sono buone, ma c’è ancora da lavorare. Questo disco non è Tidal anche se certamente per Joan si spera un futuro artistico più fortunato di quello di Fiona. Più sulla s c i a d i To r i A m o s p e r i n t e n d e r ci. Nel frattempo di lei si è in- 74 sentireascoltare namorata Franco Battiato che l’ha voluta fortemente come ospite nel suo tour estivo. Il mondo è piccolo. (6.8/10) Antonello Comunale Josephine Foster - A Wolf in Sheep’s Clothing (Locust, giugno 2006) Il nome Josephine Foster è iniziato a circolare su carta e su web dall’inizio della saga sonora sghemba di cui Devendra Banhart si fece araldo, ma per quanto ci sia senza dubbio un humus comune, il lavoro della Foster non condivide affatto la pianta del “weird folk”. E infatti per quanto a vederla, forse più che ad ascoltarla, verrebbe da paragonarla a Joanna Newsom, la strada percorsa daa questa sirena è stravagante: con due album da quasi-solista ed un paio di lavori in compagnia della metà maschile Jason Ajemian con cui c o m p o n e i l d u o B o r n H e l l e r, i l suo intruglio sonoro è pervaso per almeno tre quarti da uno slancio sperimentale (“avant”) che fa di lei una fuoriclasse, una deviante rispetto al canone del movimento. Quello che colpisce di Josephine, non solo di primo impatto, è la voce, o, meglio, il registro con cui sceglie di interpretare le sue canzoni e, come nel caso di A Wolf In Sheep’s Clothing, quelle di altri – anche quando non si tratta esattamente di canzoni. Questo terzo disco, unico nel suo genere, è infatti la raccolta di una serie di lieder tedeschi di Shubert, Brahms e Schumann ri-elaborati secondo le coordinate personali di una performer dal gusto particolare per l’incrocio dei generi: lirica, medievale (l’arpa automatica e la lira), classica ed avanguardia si intrecciano inestricabilmente ad un folk senza forma, che fa da grande e duttile contenitore per un canto rigorosamente in tedesco accompagnato quasi sempre, oltre che dagli strumenti s u o n a t i d a l l a s t e s s a F o s t e r, da Brian Goodman al fantasma di una chitarra. E se An Die Musik, la ballata delicata Der König in Thule e la stupenda Die Schwestern (“le sorelle”) trattengono ancora tra le loro trame il gusto per la canzone ed il genere cui la folkeuse Josephine si era dimostrata p r o n a , Ve r s c h w i e g e n e L i e b e (“amore discreto”) ed Auf Einer Burg (“nella fortezza aperta” ispirata dall’originale di Shumann) sono esercizi liberi eseguiti da una mano sicura che si prepara a consacrare la sua padrona come autrice a tutto tondo. (7.4/10) Marina Pierri Keane – Under The Iron Sea (Island / Universal, 19 giugno 2006) Nella recente ondata brit pop degli ultimi anni, solo i londinesi Keane sono riusciti ad eguagliare in qualche modo l’exploit dei “cugini” Coldplay: cinque i milioni di copie vendute dal debutto Hopes And Fears (2004), complice quella Everybody’s Changing entrata, volente o nolente, nella vita di tante persone grazie a u n n o t o s p o t t e l e f o n i c o . Va comunque detto che la band d i To m C h a p l i n h a p o r t a t o a casa quel risultato in maniera dignitosa, offrendo un mix gustoso (almeno per gli appassionati del genere e i non allergici alla saccarina) di emotività e melodismo romantico con una formula che faceva dell’assenza delle chitarre il suo vanto. Passati due anni e un logorante tour mondiale, riecco dunque i tre ragazzi protagonisti di un ritorno discografico che vuole mostrarsi a tutti costi “adulto” e sfoggiare maggior spessore (oltre che qualche chitarra qua e là, o almeno così pare, a scanso di artifici in studio). Il che, nei loro termini, si traduce nel recuperare dal post punk anni ’80 più teso, senza per questo la- sciare a casa il romanticismo e, ahinoi, una certa melensaggine (un po’ come i tardi Echo & The Bunnymen, per intenderci). Uno sforzo che si fa apprezzare in episodi come l’ambiziosa apertura di Atlant i c ( s i m i l e a i p r i m i E l b o w, v e nati di nervi Sound e angosce Cure) o nella sofisticata Brok e n To y , m a c h e a l t r o v e m o stra tutti i limiti – o, visti da un’altra angolazione, i pregi - del gruppo, come nella scontatezza un po’ piaciona di Bad Dream o NothingIn My Way e Try Again, in cui come per magia i Keane finiscono per suonare esattamente come la band di Chris Martin. E se tanta voglia di epos si traduce nel rievocare inevitabilmente gli U2, tanto quelli grintosi di Achtung Baby (il singolo Is It Any Wonder – uno dei riferimenti a Bono e compagni più smaccato degli ultimi anni), quanto quelli ombrosi di October (Leaving So Soon), d’altro canto in Iron Sea e Crystal Ball (con dei bei giochi d i v o c e à l a Te a r s F o r F e a r s ) viene fuori tutta l’intenzione di quella svolta “vera” che, però, non arriva mai. Che fine faranno i Keane, resteranno a galla o affonderanno impietosamente come gli Starsailor? Staremo a vedere, intanto Under The Iron Sea insinua il dubbio che questi ragazzi, con meno pressioni e aspettative intorno, potrebbero fare quasi certamente di meglio… (6.0/10) Antonio Puglia Ladyhawk – Self Titled (Jagjaguwar / Wide, giugno 2006) A dispetto di un nome che sfiora il ridicolo e una copertina che lo centra in pieno, questo quartetto canadese è formazione di tutto rispetto, dedita a un’energica e non scontata rivisitazione “indie” della tradizione rock d’oltreoceano che, partendo dai tardi sixties (le desolate confessioni di N e i l Yo u n g l ’ i n f l u e n z a p i ù e v i - dente), attraversa gli ottanta (forti sapori di Dream Syndicate si levano non di rado) per giungere fino al qui e ora (quel cantato distante così familiare…). E’ un fatto ciclico e normale per i gruppi americani, a seconda dei casi confortante coperta di Linus o scontro col passato per il progresso, e qui si mostra di conoscere regole del gioco e fondamentali dell’esecuzione senza sbavature, alternando ballate sature di elettricità, punteggiate di strappi ritmici e cantate con dolente partecipazione (gesto convincente ribadito in 48 Hours e Long ‘Til The Morning, asperso sopra Sad Eyes/ Blue Eyes e sulla passeggiata tra pezzi di vetro di New Joker) a sferraglianti beat pop, non tralasciando collaudati elaborati intrecci di sei corde, una ritmica puntuale e graditi umori country a speziare l’insieme. Arrivati in fondo a un lavoro che emerge alla distanza, onesto e sanguigno com’è costume della provincia decentrata, ci si sorprende a farlo ripartire da capo, appuntandone la scrittura già notevole per degli esordienti (con un picco n e l l a c o n t r o l l a t a e p i c a d i Te e nage Love Song), indicazione di capacità sufficienti, in un futuro non troppo lontano, a far emergere i Ladyhawke nel marasma discografico moderno. Se ciò dovesse mai avvenire, sarebbe meritato in pieno, ma per il momento apprezziamone e seguiamone la crescita. (7.0/10) Giancarlo Turra Lambchop - Damaged (City Slang/Merge, agosto 2006) Kurt Wagner e relativa combriccola (il solito plotoncino di 17 elementi) si perpetuano senza apportare sostanziali variazioni al menù. Anzi riducono deviazioni e tentazioni allo stretto indispensabile, al più condendo di barlumi sinte- tici i margini del sound (vedi la coda di Fear), per poi servirti con una convinzione che è pari solo alla cocciuta plac i d i t à . L’ a l t - c o u n t r y d e c l i n a t o soul ne esce così sornione e impudente, bonario e luccicoso, indifferente alla frenesia degli scenari e delle platee, alle sirene del progresso improcrastinabile. Ora potrebbe essere un Lou Reed devitalizzato - A Day Without Glasses però saldo nella propria quieta pantomima, ora si trascina pastoso e beffardello come dei Tindersticks al massimo del disincanto (Prepared), alleviati da una struggente dolcezza. Per il resto, il gioco degli intrecci sonori prevede il consueto pianoforte e l’onnipres e n t e s l i d e g u i t a r, g l i a r c h i pizzicati con circospezione o trattenuti finché non possono fare a meno di scoppiare in lacrime, chitarre che arpeggiano tremule o arrochiscono di sobria elettricità, pulsazioni narcotizzate e un flaccido, irresistibile baluginio di ottoni. Muovendosi come equilibristi in pantofole sul filo che separa ironia e trasporto, poesia e sberleffo, dolcezza e malinconia, hanno il coraggio di far sognare Stand By Me dai Dire Straits (Crackers) e di spedire i Mojave 3 a far visita ad un crepuscolare O’Rourke (Beers Before The Barbican). Con una disinvoltura che rischia di sfiorarti appena, i Lambchop raggiungono uno stato di flemmatico equilibrio, sguazzano in un brodo di meditazione & arguzia & pacatezza che sentireascoltare 75 potresti scambiare per senilità. E forse lo è veramente. (6.4/10) Stefano Solventi terbend, la warpiana Swingern In Flingren)ma anche altri degni di nota, come la sopraccitata Blasmusik (l’agonia di un synth dimesso, che pare nondimeno una chitarra elettrica in mano a Fennesz) e le isolazioniste Fi Intro e Fi. Sono dei Mouse On Mars “lofi” o dei Microstoria “alternativi” quelli di Queries. Niente che spinga all’acquisto dell’album a spada tratta, anche se gli archeologi dell’etichetta Sonig, alla ricerca di possibili traiettorie musicologiche, potrebbero rimanerne catturati. (6.2/10) Edoardo Bridda Lithops – Queries (Sonig / Wide, 6 giugno 2006) Contenente Blasmusik, traccia recentemente esaltata da Keith Fullerton Whitman, Queries è una compilation che raccoglie le fatiche di Jan St. Werner (la metà dei Mouse On Mars) del periodo 1995-1999, ovvero quel lasso di tempo pre e post Autoditacker (1998), il lavoro che sancì l’estetica della nu elettronica tedesca. A scanso di equivoci, non ci troviamo di fronte a materiale di scarto di quella fase; anzi l’album è più una sorta di prequel di quell’astrattezza sintetica che da sempre caratterizza le (scarse) produzioni a firma Lithops, comprese le microchirurgie per piccole improvvisazioni qui presenti in coda alla tracklist. Grappoli elettronici sotto la mira di laser e lamiere impassibili, come ritmiche e scrosci di vetro e acqua, s’avvicendano tanto in trame IDM versante ambientale (Kahn con tracce dei primi Orb, l’acquitrino cos m i c o d i S e q u e n c e d Tw i n s e t i n o d o r d i I a o r a Ta h i t i , W r e c k l e r , Blasphere, Tubino See-Through sul versante Autoditacker), quanto in piece sottocoperta, che riportano alla mente certe microwave di Oval (e, chiaramente, Microstoria). Su quest’ultimo versante troviamo episodi poco significativi (Fil- 76 sentireascoltare Lotterboys – Animalia (Eskimo / Audioglobe 15 maggio 2006) Se siete degli animali da pista, con quel tanto di gusto per il “p-funk” senza cervello genere Killers ed una vena electro pulsante (meglio se filo-crucca) che non vi lascia andare a casa prima delle cinque di mattina, forse avete trovato il disco che fa per voi. I Lotterboys sono un trio/supergruppo che nasce dall’incrocio schizofrenico tra Fetish e Shapemod dei tedeschi Te r r a n o v a e M a c k G o u d y J r . (aka Paris The Black Fu) dei Detroit Grand Pubahs. Dal momento che più della metà del gruppo viene da un’esperienza triphop e dance con un tocco sperimentale, è evidente che Animalia, disco d’esordio della formazione, ritenga parzialmente l’umore della radice: descrivere Blazer e Can’t Control the Boogie come qualcosa di diverso da club music bella e fatta è molto difficile e i vocals, di stampo lievemente più rock, non riescono a cambiare questo dato di fatto neppure nella cover (che fa ridere, se non piangere) di una Iron Man dei Black Sabbath rivisitata attraverso fraseggi t r a b a l l a n t i e v o c o d e r. Trionfo del sample e di IDM non tanto intelligent dopotutto, la maggior parte delle te- chno-canzoni presenti in questo disco, come Star Whores, controbilanciano le molte parti di scimmiottamento selvaggio dei Daft Punk con pezzi su cui G o u d y c a n t a c o m e To m J o n e s . A n z i , c o m e u n To m J o n e s c a m pionato su un mash-up della D FA . Se siete degli animali da pista e di vostro gustate un certo tipo di sonorità, è bene ripeterlo, dare un ascolto ad Animalia potrebbe non essere interamente una cattiva idea. Nel caso contrario, se proprio smaniate per un po’ di luce di strobo, statene alla larga e ritirate fuori Echoes dei Rapture, i Juan McClean, o qualcosa che abbia anche solo vagamente a che fare con James M u r p h y. P o i r e s p i r a t e . V i s i e t e risparmiati uno strazio. (5.0/10) Marina Pierri Mauro Mercatanti & Band – Infedele alla linea (Anomolo, 2006) C’è lo spettro di Giorgio Gaber che si aggira tra le nove tracce di questo Infedele Alla Linea. Una presenza che ha un che di familiare e parla della nostalgia per un passato nemmeno troppo lontano in cui la musica era anche politica, riflessione, critica all’establishment, oltre che semplice divertimento. Chissà se Mauro Mercatanti & Band sono d’accordo con noi, ma questo è quello che abbiamo pensato dopo esserci calati nel mix raffinato di combat-rock (?!) e teatro canzone del combo milanese: un déja-vu fatto di frequenti richiami, omaggi garbati, ispirazione profonda, racchiuso in un pugno di brani in bilico tra impegno sociale e indomite passioni, partiture energiche e melodia. Nel “Manifesto del partito” che la band scrive di suo pugno ce n’è per tutti i gusti, dall’italian-country polveroso e ironico di Infedele alla linea, al basso alla Sandokan e le chitarre distorte di Le chiacchiere stanno a zero, dal funk “a luci rosse” di Pensieri burrascosi al pamphlet contro la guerra de Il contributo, dalla denuncia degli aborti della religione di Santo subito al tagliente continuum spazio temporale – da Mussolini, a Craxi, a Berlusconi - di Ninna Osanna (forse il brano migliore del pacchetto). Qualcuno potrebbe pensare, a questo punto, di trovarsi davanti all’ennesimo elogio della ribellione gratuita, o impeto controculturale “per contratto”. Niente di più sbagliato, dal momento che la musica di Mercatanti tocca nel profondo, costringendo chi ascolta a prendere coscienza di sé e di quello che ha attorno. Una musica evidentemente democratica anche nell’approccio con il pubblico oltre che nei testi, dal momento che si concede in download gratuito – ottimo viatico per una diffusione capillare del messaggio, un po’ meno per le finanze di chi suona che a nostro avviso meriterebbe qualche cosa in più – sul sito dell’etichetta che ne cura la pubblicazione.(7.2/10) Fabrizio Zampighi McLusky – Mcluskyism (Too Pure / Self, maggio 2006) Sorvolando sull’opportunità e, talvolta, sull’opportunismo di certe compilation monografiche retrospettive, i famigerati greatest hits, prendiamo atto con piacere dell’onestà intellettuale e commerciale con il quale è stata assemblata questa ingombrante raccolta ded i c a t a a i M c l u s k y, f o r m a z i o n e gallese scioltasi pochi mesi or sono, tra le più interessanti emerse dal contemporaneo filone post punk. Tre cd, almeno nella versione deluxe (in commercio esiste anche una versione “limata” contenente soltanto i singoli), che offrono una panoramica estremamente esauriente sul sound messo in piedi dal terzetto, memore tanto del- le anfetaminiche evoluzioni dei Big Black quanto dell’art punk di Wire e Fall. Nel primo potrete trovare contenuti tutti e dieci i singoli dati alle stampe dai McLusky tra i quali spiccano gli sporchi e vorticosi attacchi di Joy e Rice Is Nice, le movenze spastic pop di Whoyouknow e Undress For Success, le paranoiche Lights a b r e C o c k s u c k i n g B l u e s e To Hell With Good Intentions. Il secondo e terzo cd sono invece occupati da “b” e “c” side, materiale demo, inediti ed una ottima registrazione live dal quale è possibile intuire quale forza devastante il terzetto ha saputo esportare anche al di fuori dello studio di registrazione. Poco altro da aggiungere sennonché i McLusky hanno rappresentato una fulminea quanto intensa meteora all’interno dello spesso martoriato universo rock inglese e solo per questo avrebbero meritato molta più fortuna di quella riservatagli da un destino distratto. Ripescaggio obbligato, dunque, almeno per tutti coloro che non abbiano ancora goduto di capolavori come Do Dallas. (7.5/10) Stefano Renzi Michael Franti & Spearhead – Yell Fire! (Anti / Self, 21 luglio 2006) L’ i s p i r a z i o n e c o n t i n g e n t e p e r Ye l l F i r e ! è n a t a i n M i c h a e l Franti da un viaggio compiuto due anni fa in Iraq, Israel e e Te r r i t o r i O c c u p a t i , e s p e rienza da cui è scaturito un film-documentario (I Know I’m Not Alone che esce in contemporanea); il disco è stato registrato in Giamaica e in California, con la prestigiosa collaborazione di Sly & Robbie e la supervisione del boss della Island Chris Blackwell. Film e musica viaggiano strettamente in questo progetto, nel quale Franti riflette da una parte sulla vita in tempo di guerra, dall’altra prosegue il discorso sulla critica alla società dei consumi e all’America in perenne guerra all’estero. E la musica? Si viaggia tra soul e roots-reggae, mentre si mantiene uno stretto legame con le radici del rap e dell’hip hop e sia accentua la matrice soul-reggae, in perfetto stile Spearhead. Spoken word reggae (Time To G o H o m e , Y e l l F i r e , E a s t To t h e W e s t ) s i a l t e r n a n o a ballad in levare (Sweet Little L i e s , S e e Yo u I n T h e L i g h t , To l e r a n c e ) , q u a n d o F r a n t i l a scia da parte l’impeto militante per esprimersi con meno sovrastrutture. I paragoni ingombranti - Gil Scott Heron, Marvin Gaye, Bob Marley - las c i a m o l i d a p a r t e . L’ i m p r e s sione che si ricava è che al di là dell’urgenza espressiva, Franti potrebbe trovare con soddisfazione una dimensione personale più musicale, al di là dello slogan, come si nota in alcuni brani, quelli più distesi. Sono scelte di campo su cui non si vuole sindacare e che magari troveranno la strada per emergere. Per adesso convince a metà. (6.6/10) Te r e s a G r e c o Mission Of Burma – The Obliterati (Matador / Goodfellas, maggio 2006) Sembra un paradosso, ma è realtà: The Obliterati è solo il terzo disco dei Mission Of Burma, nonostante un corollario di live, raccolte di rarità ed ep al pari ricco (perciò consigliato). Si aggiunga che, s e n t i r e a s c o l t a r e 77 a dispetto di un’interruzione piuttosto lunga che li ha diversamente impegnati, è di tre persone in giro da venticinque anni che stiamo parlando, che con poco hanno esercitato un ascendente enorme su moltissimi (attestati di stima le numerose cover – del classico That’s When I Reach For My Revolver soprattutto), tra questi - lo dimostra Spider ’s Web - un Bob Weston confermato alla regia. Sorpresero, del loro benvenuto riaffacciarsi al mondo nel 2004, tanto il livello qualitativo quanto l’assoluta assenza di ruggine: con gioia ritrovammo il talento immutato dal tempo, ingigantito anzi dai numerosi indizi della loro importanza. Medesima la calligrafia e gli argomenti presentati in composizioni come organismi che si sviluppano e auto sostentano; costante il vigoroso gusto melodico associato al tortuoso senso delle forme, il particolare che affiora nel magma sonoro. Cosa sola di muscoli e intelletto, il trio di Boston, un patrimonio di pochi da loro stessi interpretato come l’atto più semplice e naturale, nonostante la certezza che neppure questo lavoro smuoverà di un millimetro la loro condizione di assoluta cult band. Va b e n e c o s ì , i n f o n d o , p o i c h é n e m m e n o M i l l e r, P r e s c o t t e Conley hanno l’aria di curarsene, dediti come sono a estrarre dal cilindro gioielli – per non elencarne che alcuni in una scaletta immacolata – come la disco feroce di Donna Sumeria, che cita la mo- 78 s e n t i r e a s c o l t a r e roderiana I Feel Love, o 13, finitezza melodica tagliata da un violoncello accorato, più avanti sottolineata da Is This Where? Amareggiati dal mondo che ci assedia, preferiscono teorizzare su Buzzcocks e Undertones adattati al presente in Man In Decline e 2wice. Con scioltezza, dapprima scompong o n o l ’ h a r d c o r e p e r L e t Yo u r self Go e Good, Not Great, poi lasciano montare la tempesta per imbrigliarla nella matematica aggressiva di The Mute Speaks Out. Neppure l’incubo degli eighties è risparmiato, demolito a colpi di rumorismo nei meandri di Nancy Reagan’s Head. Sopra ogni cosa, però, è l’eloquenza di uno stile a imporsi in questi cinquanta minuti, parimenti compendio e conferma di un’esaltante cifra stilistica. Formazione da portare in palma di mano i Mission Of Burma, e non certo per la misera temperie che attraversiamo: oggi, come nel 1982 o nel 2020, questa musica risplende di rara e vitale intensità. (7.8/10) Giancarlo Turra Mojave 3 - Puzzles Like You (4ad / Self, giugno 2006) Sin da quando dieci anni fa cambiarono ragione sociale da Slowdive a Mojave 3, per Neil Halstead, Rachel Goswell e Ian McCutcheon (più Alan Forrester) c’è stata una lenta, costante evoluzione, che ha portato la loro musica dal folk dilatato, psichedelico e monolitico degli inizi (una formula che toccò il suo apice in Excuses For Travellers, 2000) a variare di album in album, aggiungendo elementi sempre nuovi all’interno di un sound ben definito che trova numi tutelari tanto nel visionario Barrett solista quanto in padri della canzone tradizionale come Fred Neil, Tim Buckley e Nick Drake. Fino ad arrivare al sesto long playing, que- s t o P u z z l e s L i k e Yo u c h e , t r a i cultori della band, non mancherà di destare attenzione (se in positivo o meno, è tutto da vedere). C o m e n e i r e c e n t i S o n i c Yo u th, in questo disco c’è tanta voglia di melodia e leggerezza, che nell’idioma Mojave 3 si traduce in vibrazioni di psych-folk californiano alla Love, Byrds, Buffalo Springfield, così come in una ripresa dell’indie pop di Pixies, Cure e Smiths, aggiornando al contempo il loro canone a un mood più rilassato, easy e, sostanzialmente, divertito. E il gioco, per quanto possa far sorgere più di una perplessità (specialmente in chi già nel precedente Spoon And Rafter aveva individuato una fase calante), a conti fatti funziona: ancorché macchinose o fuori luogo, Truck Driving Man, Breaking The Ice, Ghostship Waiting sono godibilissime pop songs, arrangiate con gusto e leggerezza, tra rimandi sixties (Kill The Lights ondeggia pericolosamente tra jingle jangle, caleidoscopi Doors e onirismi Beach Boys) e nineties (la spinta Frank Black / P a v e m e n t d i To H o l d Y o u r T i n y To e s ) , m e n t r e R u n n i n g W i t h Yo u r E y e s C l o s e d , l a t i t l e t r a c k e Big Star Baby arricchiscono il repertorio con ballad count r y - u n p o ’ N e i l Yo u n g , u n p o ’ Gram Parsons - che hanno nella melodia il loro punto di forza. Resta, seppure a tratti, quell’intimità quasi impalpabile a cui i Nostri ci hanno abituati sin dagli esordi, vedi Most Days, The Mutineer e Yo u S a i d I t B e f o r e , m a p e r lo più, quanto a catchyness e freschezza compositiva, pare che i Mojave 3 oggi siano intenzionati a gareggiare con i Belle and Sebastian (quelli degli esordi, per intenderci) piuttosto che crogiolarsi una volta di troppo nelle loro malinconie “storiche”. Una bella svolta, a pensarci. (6.8/10) Antonio Puglia Mr. Tube And The Flying Objects – Listen Up (Sweet Nothing/Cargo/Goodfellas, aprile 2006) M r. Tube And The Flying Objects è la nuova e sorprendente creatura di Pall Jenkins dei Black Heart Procession c h e , t r a u n d i s c o e u n t o u r, s i accompagna al bassista Jovi Butz, svariati ospiti a fiati e batteria e il (fantomatico?) Sig. Tube, che in bella calligrafia compone il repertorio e con acume arrangia e produce. Non è dato sapere per il momento come e se vi saranno ulteriori dispacci, ma si tratta in fondo di una questione che potrebbe indurre a mettere in ombra un disco invece molto riuscito. Va r i o i l r a g g i o d ’ a z i o n e a l l ’ i n terno di unificanti atmosfere urbane, che alternano il muscolare all’ombroso, la festa latina alla sommessa meditazione (sublime la chiusura In The Arms Of Demons, dove cuori in frac vanno in processione con lo spettro di Babbo Ubu), conferendo vita a un’indagine scrupolosa sul significato sia letterale che metaforico di “musica nera”. Soul e r ’n’b (irresistibile Jesus Was A Va t o ) q u i n d i , p i ù u n C l i n t o n ai minimi termini in Brothers In A Bind, ma poiché la natura intima non è sradicabile con facilità, ecco che quella new wave che sin dai tempi dei Three Mile Pilot esercita il suo fascino su Jenkins si pal e s a i n To d o s L o s N o c h e s , T h e S e l l e L o n g N i g h t R e v i e w, m a soprattutto dissemina disturbi nelle trame di ogni canzone, caratterizzata da un idem sentire oppiaceo e sborniato (quelle tastiere celate nello stordimento mesto di Tryin’) che le allontana da qualsiasi estemporaneità e manierismo. Questa in sostanza la cifra stilistica di Listen Up, che sa altresì distendersi su effettistiche dub per Lost Days (tra June Of ’44 maturi e Primal Scream a basso costo), congetturando spesso e volentieri un plausibilissimo - ancorché m a i e s i s t i t o – To m W a i t s m e diano tra il bitume ruvido di Heartattack And Vine e i frullati di cuore bovino circa Swordfishtrombones, senza scordarsi dell’acqua nel frattempo scorsa sotto i ponti. Inatteso dono Listen Up, universo parallelo che si plasma attorno una dimensione di seducente culto, peculiare e senz’altro duratura. Iperattivo Pall: quanti assi celi nella manica… (7.3/10) Giancarlo Turra Nexus - Odynephobia Conversion (Astrazioni Foniche / Roll Over, aprile 2006) Cercando qualche motivo per sussultare, mi capita tra le orecchie questo Odynephobia Conversion dalla quanto meno inquietante copertina. Nulla so della band in questione, i piemontesi Nexus, ma gli spasmi funk e le scorribande fusion dell’iniziale Claustrophobic Box mi fanno sospettare d’aver azzeccato il disco giusto. Quel cingolo di bassobatteria ed il talkin’ serrato (in francese) di Fabrice Dublés danno vita ad un connubio strano, squilibrato, come un trip-hop nevrastenico che più avanti in Ira (Second Set) produce visioni psych scabre e vischiose. Quando poi si palesano le altre sfaccettature soniche del combo, lo stupore s’accompagna ad una sorta di consapevolezza, quasi che i rigurgiti jazz-rock tra strali acidi à la Spirit di Plastic Dodge o il jazz-funk fumoso con sax soprano querulo di Prolix D r i f t i n g Va g i n a f o s s e r o l e n a turali propaggini di questo rovello sonico selvaggio ma urbano, capace d’illuminazione cardiaca, di fluido esaltante delirio. I preziosi interventi canori di M a r i l i n a Va n n i ( n e l l a s u a v o c e minacce indifese e languori serici), le frippiane elucubra- zioni di chitarra (Plaster Caster Addiction), quel continuo pendolare tra gorgoglii fusion e sincopi funk, i siparietti impro e la serialità iridescente (vedi il riff ostinato di Doric Diorama, un po’ come l’ultimo Jim O’Rourke tolto lo scintillio pop), compongono un impasto schizofrenico però amalgamato da un’incessante tensione. E’ – tra le altre cose- una febbrile dichiarazione di appartenenza trasversale, che talora indugia troppo sulle posizioni acquisite, vedi le prevedibili evoluzioni di sax alto di In The Entrance Hall o il funk dinoccolato ma un po’ automatico di Cranky Diseased Man. Perché vivaddio, malgrado la grinta e la sbrigliatezza, il frutto è forse un po’ acerbo. Ma sono difetti che di norma risolve il tempo. Ragion per cui, attendiamo sviluppi. (6.8/10) Stefano Solventi [n!] - The Empty Space (Pilot / Wide, giugno 2006) L’ h u m u s d e i c a n t a u t o r i i n t r o versi al confine tra post-rock, shoegaze e indie-tronica sembra particolarmente fertile di questi tempi. Se un attimo fa ci stupivamo per le capacità pittoriche di un Nathan Fake poco più che ventenne, Nicholas Restivo parrebbe rappresentare quel coetaneo in grado di replicarne la fragranza percorrendo simili lande desolate e assaltando il cuore con scariche d’emozioni. [n!] porta la mente a Finn per l’introspezione del dopo Kid A, a Sebastien Schuller per l’oscillazione tra la tristezza e la felicità, riferimenti che paiono pertinenti nel momento in cui lo stesso autore descrive il proprio lavoro come il movimento dalla morte alla rinascita. Suonato principalmente con un Rhodes, una chitarra e qualche synth, The Empty Space scorre lungo questi binari salvo deragliare in certo tedio di scuola 4AD e in sinfonismi tascabili dilania- sentireascoltare 79 ti nel feedback, e per quelle vie il minaccioso scorrere delle immagini degli Godspeed Yo u ! B l a c k E m p e r o r n o n è l o n tano. Una ballata plumbea come Part 3 fa intuire anche qualche difettuccio: c’è ancora bisogno di ricerca nell’uso della voce, nel dosaggio degli effetti, e questo lo si nota soprattutto in Part 5 quando il pedale nel distorsore si lascia appassire in una brulla campagna scozzese, e nella finale Part 7, dove il tuffo è nella piscina di Nathan Fake, seppur senza il dono dell’essenzialità del ragazzo di Norfolk. Forse il brano migliore e più significativo è proprio quello che l’autore voleva togliere dalla scaletta, Part 1: uno scarno plettrare su un paio di accordi in barrè sul quale si stagliano struggenti pennellate dei sintetizzatori e una sofferta voce in preda a visioni e angosce esistenziali. Nonostante i 21 minuti di durata, [n!] ritiene che l’album vada considerato come tale, un aspetto per lui coerente e per noi sinonimo di un pasto più abbondante che attendiamo con trepidazione. (6.5/10) Edoardo Bridda One Second Bridge - Self Titled (Buro / Wide, 26 giugno 2006) Sicuramente Garcia e Bieniaszewski, il duo dietro a One Second Bridge, non l’avranno fatto apposta, e tanto meno conosceranno una band italia- 80 sentireascoltare na chiamata Offlagadiscopax, eppure, in bellavista, il refrain della seconda traccia del loro album omonimo N.2 è sputato a K a p l e r, u n o d e g l i e p i s o d i p i ù belli del socialismo tascabile degli emiliani. Una chitarra dreamy e shoegazey caratterizza la song in questione, e non è proprio un plagio: al declamato di Max Collini infatti, la band preferisce un parlato/cantato dai noti languori post-rock e dream-pop. Da qui il quorum del lavoro: in equilibrio tra pose Eighties-remember Radio Dept. (Keep On Falling) e echi Slowdive con qualche sfurizzo dei Mogwai più dilatati, una manciata di indietronica a farcire gli sfondi e un paio di pianismi à la Satie (1000 Lights) a chiudere il cerchio. Un ascolto piacevole e senza scossoni, una placida risacca marina. Insomma, un lavoro derivativo senza inventiva. Niente a che fare con l’autore d e g l i a r r a n g i a m e n t i d i K a p l e r, quel Daniele Carretti in arte Agnellox. (5.0/10) Edoardo Bridda Our Brother The Native – Tooth And Claw (Fat Cat / Wide, 19 giugno 2006) John-Michael Foss (percussioni, chitarra, voce), Joshua Bertram (voce, rumori, chitarra, banjo) e Chaz Knapp (chitarra, piano, voce) sono i tre giovanissimi – collezionano la bellezza di 55 anni in tre - titolari del progetto Our Brother The Native. Parto insolito e prematuro, quello della creatura di cui stiamo parlando, se è vero che i tre hanno iniziato a lavorare insieme solo nel 2005 dopo aver scambiato musica e idee via internet; che Knapp non aveva ancora incontrato gli altri due componenti del gruppo prima della loro inaugurale esibizione dal vivo come trio, all’Open Circuit Festival di Hasselt (in Europa, quindi!); che il personale della Fat Cat si è assi- curato le sue prestazioni dopo un fugace quanto appagante ascolto di alcune demo sulla pagina myspace personale. Come nella più riuscita delle leggende indie di inizio millennio. Basta una Introduction – Welc o m e To T h e A v e r y a d i m m e r gere l’ascoltatore nelle coordinate entro cui il gruppo pare muoversi: siamo all’incirca dalle parti di quelle campfire songs che hanno fatto la fortuna dell’ Animal Collective e che devono aver spinto la Fat Cat a scommettere su un fortunoso bis. Non sembra mancare davvero nulla: chitarre appena strimpellate davanti a un falò, suoni trovati d’ambiente, battiti di mani, strumenti-giocattolo potrebbero spingerci a facilmente liquidare la proposta come una versione puberale e appena più naïf dei blasonati compagni d’etichetta. Ma vi è qualcosa di immediatamente recepibile, un’attitudine, una propensione – che fa quasi impressione, perché più di una volta ridesta lo spirito assopito ma ancor carico di creatività di Syd Barrett – a rendere molto più che un clone questa band, molto meglio che una opera minor il disco: è la maestria nello scrivere ottime canzoni, capaci di andare ben oltre il vezzo estemporaneo della freakeria fine a sé stessa, in grado di imprimere un segno ben più marcato di quello, a volte labile, lasciato dalle scorribande di Panda Bear e compagni. Sono brani come Apodiformes – voce di bambini ad introdurre una struggente melodia in pieno stile Simon & Garfunkel disturbata da battiti di mani e suoni di strumenti-giocattolo; Falconiformes e Quercusfalcat, in cui i tre ragazzi paiono davvero essere una versione efebica (quelle voci androgine!) e quindi meno edulcorata delle CocoRosie; Catalpa, così vicina al folk apocalittico degli ultimi A Silver Mt. Zion, eppure quanto poco pretenziosa e di maniera, a convincerci definitivamente della statura intrinseca di una musica che ben presto – e mai come questa volta abbiamo voglia e tempo di aspettare – sarà in grado di volare con le proprie ali. (6.7/10) Vincenzo Santarcangelo Pan American - For Waiting, For Chasing (Mosz, 25 maggio 2006) In occasione del nuovo lavoro, Mark Nelson si sposta su Mosz, l’etichetta fondata nel duemilatre da Stefan Nemeth dei Radian e Michaela S c h w e n t n e r. N o n è d a t o s a pere se questo significhi un a b b a n d o n o d e l l a K r a n k y, f a t t o sta che il cambio di etichetta ha prodotto lo sforzo più ambient drone oriented mai concepito dal Nostro. Registrato durante il 2004 campionando suoni uterini dal grembo della fidanzata, item che poi ha trovato collocazione lungo le sette tracce, l’album abbandona del tutto le sperimentazioni dub per sprofondare in una brumosa riflessione sulla nascita e la vita. Lo si evince dall’opener Love Song (ambient e glitch, un corno processato e percussioni in rilascio), dai frattali microsonori di From Here e soprattutto dal liquido mantra di The Penguin Speaks, la cui fissità greve e minacciosa fa sembrare Nelson, un Keith Fullerton Whitman meno ardito e visionario. Ammuls chiude il programma con dieci minuti di quasi melodia in lento stemperamento, che si avvicinano alla sintesi minimale dell’ultim o Ta y l o r D e u p r e e . U n q u i e t o mare calmo fatto di droni, subfrequenze e click. Accreditati i contributi di Steven Hess (percussioni – tra cui il tamburo doumbek -, triangoli, bong Tibetani) e David Max Crawford (corno francese), ma si tratta di chicche più che soluzioni che spostano l’arrangiamento. In definitiva il più essenziale dei lavori a firma Pan American, ma anche il meno affascinante. (6.3/10) Edoardo Bridda e Antonello Comunale Paul Weller - Catch Flame! (V2, 12 giugno 2006) A coronare la ritrovata forma degli ultimi tempi, ecco che a meno di un anno dal buon As Is Now arriva per Paul Weller un doppio disco live che ha tutto il sapore della celebrazione annunciata. Registrato nel dicembre 2005 all’Alexandra Palace di Londra, Catch Flame! conferma lo smalto attuale dell’ex Cappuccino Kid che, scortato dalla sua ormai affiatata band (Steve Cradock, Seamus Beaghan, Damon Minchella e Steve White), snocciola uno dopo l’altro tutti i piatti forti della sua produzione recente (compresi album minori come Wild Wood, Illumination e Studio 150), senza per questo temere di guardare dritto in faccia il passato. Uno show torrenziale che sa tanto di resa dei conti, dopo una carriera che ha vissuto – e vive tuttora - di alti e bassi, esaltazioni e cadute nella polvere; così oggi Weller può continuare a perseguire la sua personale via al rock, nel migliore dei modi che conos c e ( l e r e c e n t i B l i n k & Yo u ’ l l Miss It, From The Floorboards Up, Come On/Let’s Go da A s I s N o w, t u t t e p r o m o s s e a l l a prova on stage), e al contempo affrontare un catalogo che guarda dall’alto, in un misto di arroganza e autorità, tre decadi di musica inglese, dai Novanta di Stanley Road e Heavy Soul (The Changingman, Peac o c k S u i t , Yo u D o S o m e t h i n g To M e ) , a g l i O t t a n t a p a s s a t i sotto l’insegna (tutt’oggi controversa) degli Style Councyl ( L o n g H o t S u m m e r e S h o u t To T h e To p , a t u t t ’ o g g i g r a n d i s s i mi brani) fino al passato mitologico dei Jam (prossimi ormai a festeggiare il trentennale), rievocato con In The Crowd, That’s Entertainment e il final e d a b r i v i d i d i A To w n C a l l e d Malice. Un trionfo – manco a dirlo – meritatissimo, fino all’ultima goccia di sudore spesa sul palco. (7.0/10) Antonio Puglia Peaches - Impeach My Bush (XL/Self, 10 luglio 2006) La trilogia musicale di corredo al personaggio Peaches, che oggi si completa - The Te a c h e s o f P e a c h e s – F a therfucker - Impeach My Bush -, non sarebbe più memorabile o differente rispetto ad un Love, Angel, Music, Baby di Gwen Stefani se la Nisker nel tempo non fosse riuscita a perfezionare una formula ben calibrata, composta di auto/ postproduzione più o meno intelligente e verve scollacciata demenziale fino all’eccesso. Come se proprio la “coincidentia oppositorum” tra colto e volgare fosse l’elemento esplosivo di una poetica che gioca con il suo stesso stereotipo. Non è per fare di Peaches un fenomeno filosofico, ma sì, l’ascolto di Impeach My Bush così come quello dei due lavori precedenti non può prescindere dal fenomeno-Peaches, qualsiasi tipo di fenomeno si tratti. Il peso dei testi, della gestualità e delle intenzioni dissacratorie trovano solo parzialmente un contraltare efficiente nella sagacia degli arrangiamenti: vero tallone d’Achille di quella che oramai s e n t i r e a s c o l t a r e 81 è una figura solida nell’immaginario collettivo, il discorso che lega la Nisker alla musica non può che restare un discorso limitato alla descrizione di determinate coordinate di genere mantenute più o meno invariate nel corso della trilogia. Minimal techno che non diventa quasi mai IDM e non lo vuole apparentemente diventare, auto-sampling selvaggio e chitarroni macho copia-incollati volutamente a caso incontrano il ricorso ad ospiti bigger than life come Iggy Pop nella Kick It di ieri e nella Boys Wanna Be Her di oggi il cui refrain è cantato da quella, proprio quella Joan Jett. E mentre la gloriosa Fuck the Pain Away non trova ancora nessun degno rivale o parente – né nella graziosa ma povera Downtown, né nella c l a s s i c a Tw o G u y s ( f o r e v e r y girl), né nella pur intrigante Give’er – succede che a questo giro Peaches, però, trovi “lo” slogan perfetto: Fuck or Kill, pamphlet di un minuto, è il suo manifesto più efficace fino a questo momento. (6.5/10) Marina Pierri Peeping Tom – Self Titled (Ipecac / Goodfellas, giugno 2006) Gli esercizi di stile sono da sempre il divertimento preferito del poliedrico Mike Patton, che non si ferma davanti a nulla (che sia metal o musica “colta”). Stavolta l’ex Faith No More, 82 sentireascoltare ribattezzatosi per l’occasione P e e p i n g To m ( d a l t i t o l o d i u n thriller psicoanalitico di Michael Powell), dopo le esplorazioni ardite degli ultimi anni (Fantomas e To m a h a w k su tutte) si cimenta nel campo dell’avant-pop e dell’electro hip-hop. Lo si capisce ancor prima di ascoltare il disco, scorrendo i nomi degli artisti che hanno preso parte al progetto duettando con Patton: c’è il nocciolo duro e creativo della Anticon (Odd Nosdam, Jel, Doseone); personaggi “improbabili” come Norah Jones e Bebel Gilberto e grandi nomi tra cui spiccano Massive A t t a c k e A m o n To b i n . Ho l’impressione che ci siano più “nomi” che sostanza in questo disco, costituito per lo più da canzoni semplici e neanche granché avant. Certo, è sempre un piacere ascoltare la voce di Mike Patton, fucina inesauribile di stili, ma qui, a parte qualche caso sporadico non c’è la grande sostanza musicale a cui ci ha abituato il Nostro. La divertente bossa di Caipirinha, con Bebel Gilberto, ci f a s f i o r a r e l ’ e s t r o s i t à d e i M r. Bungle, We Are Not Alone, insieme al Dub Trio (tra i momenti migliori di tutto l’album) ricorda un po’ i Faith No More; è divertente anche ascoltare dalla delicata voce di Norah Jones parole come “sucker” e “motherfucker”, anziché le solite sdolcinatezze. Ma non convincono né la collaborazione con i Massive Attack, né q u e l l a c o n A m o n To b i n : t r o p po scontate Don’t Even Trip e Kill The Dj, mentre l’hip hop di Kool Keith (Getaway) non si sposa per niente bene con il ritornello, orecchiabile al limite del fastidio, cantato dal “titolare”. Ascoltatelo il disco, non è brutto. Ma non aspettatevi niente di che. Un album, tutto sommato, che non da fastidio a nessuno (cosa che, al contrario, Patton è abituato a fare), senza grandi pretese se non quelle di comparire in h e a v y r o t a t i o n s u M T V. C h e sia un tentativo (considerato l’alto potenziale commerciale dei brani) di dare una “spintarella” economica alla sua Ipecac? (6.0/10) Daniele Follero Pet Shop Boys - Fundamental (Parlophone, maggio 2006) Oggi, i due ex-parapaninari tornano a batter cassa licenziando un album dalla profonda leggerezza, carico di vecchi segnali che nel frattempo sono diventati simbolici e quindi - per sempre - attuali. Ammiccano ai Depeche Mode (la cupa ostinazione di Psychological) e si riprendono quanto prestato ai Grandaddy (l’allibita iridescenza di God Willing). Dichiarano affinità ai brit-capricci dei Pulp (The Sodom And Gomorrah Show) o alla poptronica trepida dei Notwist (I Made My Excuses And Left). Concedono al producer Trevor Horn di lasciare sensibili impronte Frankie Goes To Hollywood (Numb sembra in effetti la nipotina di The Power Of Love). Altrove ci sbalordiscono con una mesta solennità cibernetica degna del Beck di Sea Change e dei recenti Flaming Lips (Luna Park). Oppure, finalmente (?), fanno la loro cosa, come l’eurodance tutta riffettini adesivi & scintillanti di I’m With Stupid e Minimal. Non so se sono loro ad essere in forma, lucidi e maturi come non mai, o sono io che mi faccio irretire da un’involontaria nostalgia. Fatto sta che questo disco mi sembra un buon disco. La dedica a Mahmoud Asgari e Ayaz Marhoni, due adolescenti iran i a n i i m p i c c a t i p e r c h é g a y, è meritevole di plauso. (7.1/10) Stefano Solventi Phill Niblock – Touch Three (Touch / Family Affair, maggio 2006) Se, a margine di un discorso tra il serio ed il faceto, mi si chiedesse di indicare un referente mondano per la musica che Pitagora credeva emessa dalle sfere celesti, non avrei grosse difficoltà nel fare il n o m e d i P h i l l N i b l o c k . To u c h Three è un altro monumento di musica assoluta e purissima, o meglio il monumento, dato che si compone di ben nove composizioni scritte tra il marzo del 2003 e il settembre del 2005, ripartite in tre diversi cd. Il principio della scrittura di Phill Niblock resta inalterato: la sua è una ricerca ostinata e incessante sulla purezza dei singoli toni estrapolati da un singolo strumento per volta e reiterati con un gradualismo che – a differenza di Steve Reich e del minimalismo di scuola – si fa quasi impercettibile. Monoliti di suono statico, ma al contempo dotato di un intrinseco cromatismo svelato dal progressivo accumulo di strati sonori uguali, eppure diversi. Phasing dilatato sino all’inafferrabile in un processo dialettico che restituisce quei monoliti nella loro infrangibile purezza, ma arricchiti di articolazioni interne da scorgere con infinita pazienza. Minimal i s m o ? Va b e n e , s e i l t e r m i ne aiuta a rischiarare più di quanto fatto sinora la materia di cui si sta parlando, ma se Reich è 256 Colours di Ger h a r d R i c h t e r, a l l o r a N i b l o c k è Night Sea di Agnes Martin. Gli strumenti utilizzati da Niblock per le nove composizioni sono chitarra (Sethwork), sassofono (Parker ’s Altered Mood, Zrost, Alto Tune e Sax Mix), t r o m b a ( N o t Ye t T i t l e d ) , v i o l o n c e l l o ( H a r m ) , v i o l a ( Va l e n ce) e recorders (Lucid Sea). Il modus operandi quello di una volta: il suono di ogni singolo strumento viene registrato con un unico microfono e riversato direttamente su disco tramite un’interfaccia protools. E’ solo in questo momento che interviene il compositore, la sua inesausta ricerca d’infinito: il suono che ne risulta è lontano eoni dalla fonte materica da cui è stato emesso. E’ il suono puro cui aspiravano i teorici della musique concrète, o forse è il suono delle sfere celesti. (8.0/10) Vincenzo Santarcangelo Plaid & Bob Jaroc - Greedy Baby (Warp / Self, 26 giugno 2006) La musica è della miglior pasta IDM di marca Warp anni Novanta, un sound che gente come i Plaid, assieme agli Autechre degli esordi e ai Boards Of Canada, hanno contribuito a forgiare. I video sono invece quelli di Bob Jaroc, grande video-installatore e altrettanto abile animatore, collaboratore di lunga data del duo. Assieme le due entità confezionan o G r e e d y B a b y, d o p p i o l a v o ro coordinato, cd e dvd, nove brani e altrettante clip per un t o t a l e d i 5 1 m i n u t i d i s h o w. Realizzato dal duo e dal cineasta lungo quattro anni di attività a stretto contatto, il lavoro è di sicuro impatto, dai toni politici ben marcati e dalle ficcanti sociologie antioccidentali. E per alimentare tutto ciò nulla di meglio del sarcasmo nel bellissimo cartone di Super Barrio, eroe latino contro il sistema, ma anche nell’aspra alienazione di u n o s h o t c o m e N e w F a m i l y, basato su alcune anchilosate tecniche pubblicitarie, cupe immagini impiegatizie sgranate e riprese aerospaziali (un po’ come una visione “attivista” dei clip dei Boards Of Canada). Al pari dei movies, tutti ottimi, la colonna sonora, seppur non presenti caratteri particolarmente eclatanti, s’inserisce perfettamente nello streaming. I Plaid non rischiano nulla in termini d’innovazione, ma almeno ripercorro- no la storia del loro sound (e quella dell’etichetta che lo ha coccolato) selezionandone i tratti più incisivi e essenziali. Si attacca con un cutting di toni di telefoni e “hellos” pronunciati da varie voci sui quali si alza un fosco synth, il brano s’intitola War Dialer e si commenta da solo, anche se dal punto di vista sonoro, contrariamente al video, è l’unico episodio a caratterizzarsi così politicamente. Il resto vede una varietà di situazioni che vanno dall’irresistibile bossa che accompagna Super Barrio, al drum’n’bass e all’acid da revival Novanta pesante (Super Positions). In mezzo sinfonismo e cinematica à la Orbital periodo Il Santo per I Citizen The Loathsom e e To , b a l l e t t i s i n t e t i c i i n The Launching Of Big Face, e una perfetta IDM track come Zn Zero,impeccabile per svolgimento e scelta timbrica. Tirando le fila, da un punto di vista strettamente musicale Greedy Baby non avrebbe guadagnato che una sufficienza d’ordinanza. La presenza del video riscatta l’operazione di almeno un punto, tuttavia, onde evitare sintesi e divaricazioni: (6.5/10) ai Plaid e (7.5/10) a Jaroc. Edoardo Bridda Primal Scream - Riot City Blues (Columbia, 5 giugno 2006) Se parliamo di dar via ciò che si ha di più caro, i Primal Scream sono senz’altro i numeri uno. Per la loro ultima s e n t i r e a s c o l t a r e 83 prova discografica, la band screamadelica è tornata dalle parti di Give Out But Don’t Give Up (contestatissimo disco del 1994, figlio dei Rolling Stones jaggeriani post Brian Jones), componendo dieci canzoni al confine tra il blues rock e l’hard rock, prostituendosi così alla vecchia, indissolubile e sempiterna, trinità sessantottina. In tutto ciò, nulla di meglio che vendersi l’anima con un singolo – Country Girl, punk song radiofonica con coro ultra ruffiano che manco Jagger (o Bon Jovi, fate pure), e niente di più sincero che festeggiare, again and again, gioie e bagordi di una sincera carriera da eroinomani, tanto ricca di decibel quanto di donne (la Kate nazional-britannica su tutte) e svarioni che più rock non ce n’è (“Christ on a cross with a loaded gun” recita una strofa… soltanto Ozzy avrebbe potuto fare di meglio). Il resto del disco oscilla tra blues urbani elettrificati d’ordinanza, a piedi come in tren o ( N i t t y G r i t t y, H e l l ’ s C o m i n ’ Down – con il cameo di Warren Ellis – e Boogie Disease), smozzichi di sigarette New Yo r k D o l l s c o m p r a t e s u E - B a y (Suicide Sally & Johnny Guitar e Dolls), ricalchi Black Rebel Motorcycle Club (When The Bomb Drops, con Will Sergeant degli Echo & The Bunnymen) e ovviamente omaggi a Morrison, le cui visioni sciamaniche ritornano in Little Death, un tossico sguardo sull’Arizona con ospite la suicide girl di 84 sentireascoltare turno, Alison Mosshart (la lei dei Kills). Convincono di più intensità e wildness, come il cow-punk à la Gun Club di The 99th Floor e il gospel pastorale in chiusura, Sometimes I F e e l S o L o n e l y, c o n l a – p u r sempre bella - voce di Bobby Gillespie in primo piano. Registrato live in dieci giorni agli Olimpic Studios di Londra, Riot City Blues è semplicemente un divertissement di chi se lo può permettere. C’è molto meglio da comprare in giro, ma se il feticismo è rock, portatevelo a casa, vi divertirete per un po’. (5.5/10) Edoardo Bridda Psapp – The Only Thing I Ever Wanted (Domino, maggio 2006) Anello di congiunzione ideale tra il pop sovversivo degli Stereolab e le produzioni di casa Morr Music, l’esperienza degli Psapp di Carim Classman e Galia Durant rappresenta una delle variabili più interessanti tra quelle espresse dalla moltitudine di band che in tempi più o meno recenti hanno cercato di rielaborare la classica forma canzone attraverso la commistione con elementi di musica elettronica. Autori di un discreto album d’esordio, Ti g e r, M y F r i e n d , e d i t o d a l l a Leaf Records a cavallo tra il 2004 ed il 2005, la coppia anglo/americana compie con The Only Thing I Ever Wanted un deciso passo in avanti portando a compimento una seconda prova che per lucidità e fruibilità possiamo considerare nettamente superiore alla precedente. I fragili acquarelli pop, spess o a p p e n a a b b o z z a t i i n Ti g e r, My Friend, trovano in The Only Thing I Ever Wanted la loro dimensione definitiva assumendo la forma di deliziosi microcosmi contemporanei nei quali le più disparate influenze individuano la loro collocazione ideale attraverso un magico gioco d’incastri e citazioni. Romantiche ballate per solo pianoforte (Make Up) si alternano con brevi, ma perfette, divagazioni teen pop (Tricycle), i fantasmi di stupende meteore come Donna Regina (Hi) si muovono sinuosi accanto all’ennesima proliferazione dello Stereolab pensiero ( K i n g O f Yo u ) m e n t r e g l i a r c h i ed il corno francese diventano accessorio indispensabile per le fughe sincopate di This Way e New Rubbers, al pari di uno sfuggente xilofono chiamato a punteggiare i momenti cruciali di una tenerissima Hill Of Our Home. Disco piccolo ma prezioso, The Only Thing I Ever Wanted potrebbe portare alla corte degli Psapp un considerevole numero di nuovi adepti grazie anche all’intermediazione della Domino Records che assicurerà al disco una promozione ed una visibilità notevolmente superiore rispetto al passato. (7.0/10) Stefano Renzi Radio 4 – Enemies Like This (Astralwerks, 2006) I brani sono lì dove avevamo lasciato un paio di anni fa i loro predecessori di Stealing Of A Nation, in quella zona d’ombra tra i Clash di London Calling e gli Psychedelic F u r s d i Ta l k Ta l k Ta l k . P r a t i camente, degli Interpol in salsa reggae. Peccato però che i Radio 4, rispetto ai gruppi in questione, suonino più fighetti e leccati (forse a causa della mano pesante del prod u t t o r e J a g z K o o n e r, g i à i n passato con Kasabian e Primal Scream), laddove sarebbe stato necessario mostrare una sana e verace cattiveria negli arrangiamenti, anche a costo di sacrificare qualcosa in termini di alta fedeltà. Enemies Like This parte sparato con la traccia eponima. Ma la band si limita a mostrare i muscoli senza sfoderare personalità né passione. Tutto, infatti, sembra virare nel formalismo fine a se stesso. C o m e i n G r a s s I s G r e e n e r, post punk veloce e furbetto per accalappiare i tanti reduci di una stagione musicale vissuta e bruciata vent’anni fa. O come Ascension Street, che vibra groove e ritmi in levare in un alternarsi tra dub(bi) e reggae di poche pretese. Meglio, invece, quando la cassa si squadra in quattro quarti e il punk si trasforma in funk ( T h i s I s N o t A Te s t e A s F a r As The Eye Can See): lì la band riesce a salvare baracca e burattini. Anche se purtroppo questo non basta per far proseguire più del necessario il soggiorno del cd all’interno dello stereo. (5.5/10) Manfredi Lamartina Roddy Frame – Western Skies (Redemption / Rough Trade, 1 maggio 2006) Roddy Frame ha sempre faticato a scrollarsi di dosso l’imprinting degli Atzec Camera, di cui è stato talentuoso - e giovanissimo - artefice negli anni ’80, decade che lo ha visto prima protagonista con la “scuola di Glasgow” (gli esordi sulla Postcard degli Orange Juice), poi con le uscite per Rough Trade; la carriera solista, intrapresa nel ’98 (The Northstar), arriva ora alla terza prova con Western Skies. Non sorprende più di tanto, fra queste undici tracce, il predominio delle ballad più malinconiche (la title track), o l’uptempo di Marble Arch, Dry Land, l’intensa e morrisseyana Rock God; o ancora gli accenni latini (The Coast) e desertici (She Wolf, forse il pezzo migliore e più sentito). Un ibrido tra passato e presente insomma, un compendio della cifra stilistica di Frame, in bilico tra chitarrismo pop e canzone adulta d’autore: un intreccio, oseremmo dire, tra il Costello pop degli esordi (a cui il Nostro è sempre stato accostato) e il Morrissey più malinconico. Episodio inferiore al miglior Frame solista - l’acustico Surf uscito nel 2002 –, Western Skies lo conferma comunque come autore pop per eccellenza, nonostante la presenza di alcuni episodi di man i e r a ( M a r b l e A r c h , Te l l T h e Truth). Di sicuro da uno come lui è lecito aspettarsi di più. (6.7/10) Te r e s a G r e c o Sedia - The Even Times (Wallace, aprile 2006) Eccoli di nuovo. Parchi come sempre, i Sedia ritornano a distanza di un paio di anni abbondanti dall’omonimo esordio. Uno iato non improduttivo quello del trio marchigiano; vedasi ad esempio il disco di Mattia Coletti, Zeno, uscito qualche tempo fa, o il progetto End of Summer in collaborazione coi Polvere di Xabier Iriondo, tutti e due ovviamente per Wallace, sempre più etichetta di riferimento per un determinato tipo di suoni che partendo da una concezione di rock corposo e noise si dilatano spostandosi verso territori quasi off. Come tradizione vuole, The Even Times segue le coordinate dell’esordio: lì sei canzoni per una trentina di minuti; qui sette pezzi per 37 minuti circa, quasi che less is better fosse il loro motto non scritto. Nello stesso modo vengono riproposti i riferimenti all’arte cinematografica posti nei titoli: se nell’esordio venivano omaggiati mostri sacri del cal i b r o d i K . K i n s k i e G . M . Vo lontè, qui parafrasando il capolavoro dell’espressionismo muto di R. Wiene si riverisce uno dei campioni della scena contemporanea italiana, Fabio Magistrali (Das Kabinett Des Doktor Magistralisss). Anche le coordinate musicali sono quelle solite: un tirato noise-rock tra il matematico (poco) e il muscoloso (molto) e strutturalmente molto intricato, quasi fosse la ma- nifestazione su pentagramma della intricata selva di arbusti posta in copertina. Non mancano però i motivi di interesse, rappresentati dai momenti più “riflessivi”, in cui i nostri sperimentano grumi di suono, slabbramenti, spegnimenti graduali che lasciano intravedere nuove e forse inconsuete strade da percorrere. È il caso di Gingilletti, che partita su un drumming delicato e insistito, deflagra in un estenuante duello tra strumenti portati al massimo delle loro potenzialità, prima di autoestinguersi nell’ultimo minuto in un progressivo spegnimento fatto di grumi mal addensati di rumori assortiti. Oppure della tensione atmosferica lunga gli interi 7 minuti di The Battle Of Electric Swali, creata dalla batteria super ritmica di Alessandro Calbucci e rotta soltanto incidentalmente da improvvise deflagrazioni quasi psycho-rock (nel senso del Bates Motel). Capolavoro dell’intero album e sunto delle mire del trio è Das Kabinett Des Doktor Magistralisss, 6 minuti e mezzo di deragliamenti inconsulti al limite della schizofrenia che si alternano a vuoti pneumatici prima di concludersi in territori di agghiacciante desolazione. In definitiva, grande conferma per i Sedia (e indirettamente per la Wallace che non perde ormai un colpo da secoli) e notevoli spunti per un avvenire pieno di soddisfazioni. sentireascoltare 85 E che la sperimentazione sia con voi. (7.5/10) c o u n c y l i a n o - ; Te l l i e r g i o c a a fare lo chansonnier intimista, mischiando le giuste dosi di mèlo, indole pop, sfumature jazzy (Black Doleur) e progressioni simil-canterburyane (Broadway) . Un’operazione che negli intenti potrebbe far pensare a Fragments For A Rainy Season di John Cale ma che come esito finale, per forza di cose, appare soltanto una mossa furbetta e nulla più: cambiato d’abito, il re in realtà è nudo. (6.2/10) Antonio Puglia Stefano Pifferi Sebastien Tellier – Sessions (Discograph-Record Makers / Self, 5 maggio 2006) Semifinalists – Self Titled (V2, aprile 2006) De Rosa – Mend (Chemikal Underground, 19 giugno 2006) Ha fama di proverbiale eccentrico (basta dare un’occhiata Al giro di boa di questo 2006, la scena indie britannica si alle cover dei suoi dischi). E ’ s t a t o p a r a g o n a t o a To d d Rundgren, Robert Wyatt, Serge Gainsbourg e Badly Drawn B o y. I n p a t r i a è t r a i c a n t a u t o ri più acclamati, e anche dalle nostre parti i suoi primi due a l b u m ( L’ I n c r o y a b l e V é r i t é e Politics, entrambi licenziati dalla Record Makers degli Air) sembrano aver raccolto opinioni favorevoli. Questo Sessions in realtà non è il tanto atteso terzo album di Sebas t i e n Te l l i e r , m a i n u n c e r t o senso potrebbe esserlo: sulla scia delle recenti esibizioni live che lo hanno visto, tra gli altri, al fianco di Magic Numbers e Royksopp, il parigino riprende una decina di brani del suo repertorio incentrandoli interamente su piano e voce. Niente a che vedere con gli arrangiamenti ricchi e le soluzioni delle versioni originali dunque, ma un cambio di veste che si fa sentire particolarmente in Bye Bye e League Chicanos, quasi del tutto stravolte - la prima diventa una ballad tra Richard Hawley e uno Stuart Staples vivace (sempre se riuscite a immaginarlo), l’altra un mini-dramma per Costello e il Weller style- sta rivelando come non mai ricca di interessanti new acts, capaci anche di regalare qualche gradita sorpresa. Dopo i più che promettenti segnali lanciati da Field Music e guiLL e M o Ts , a r r i v a d a L o n d r a i l debutto dei Semifinalists, tre ventenni – che la storia vuole conosciutisi durante un corso di cinema – intenti a succhiare dalla vena dei Flaming Lips di Wayne Coyne (sentite un p o ’ S h o w T h e Wa y, T h e C h e micals That Wait, Whispering M i c e , F r o m S e v e r a l To M a n y ) , mostrando altresì di saper già gestire con discreta padronanza la materia pop (in D.C. per un attimo echeggia perfino il Brian Wilson di Smile). 86 sentireascoltare Dodici episodi che sfoggiano un approccio compositivo tutt’altro che banale, in un gioco di rimandi (dai Grandaddy / Yu p p i e F l u d i A S h o r t A c o u s t i c S o n g a i S i g u r R ò s d i Yo u S a i d ) che non si rende mai molesto. Si fa notare una curiosa schizofrenia tra composizioni di derivazione preminentemente lipsiana e canzoni wave-pop di scuola Delgados-Slowdiv e ( L e t ’ s K i l l T h i s , I S a w Yo u In The Hall), complice anche l’alternarsi di voce maschile e femminile - rispettivamente Ferry Gouw e Adriana Alba, con Chris Steele Nicholson a completare il quadro - ; nel piacevole sospetto che si tratti di una risorsa latente più che di un difetto, il verdetto è comunque pienamente positivo. Un bel viaggio. (6.9/10) Il trip in cui ci guidano gli scozzesi De Rosa, l’ultima scommessa della Chemikal Underground, non sarà altrettanto caleidoscopico, ma sa di certo riservare gustosi momenti di entertainment. Questi cinque ragazzi del Lanarkshire si muovono su un versante decisamente più chitarristico, con un occhio di riguardo per l e t e n s i o n i w a v e S o n i c Yo u t h (via Interpol), tenendo a mente la lezione degli alfieri della loro label (Arab Strap e ancora Delgados); pur incappando di tanto in tanto nella trappola dell’emul-rock (quanto è ruffianamente Franz Ferdinand il riff del singolo Camera?), sanno comunque sfoderare interessanti soluzioni ritmiche e dinamiche insieme a una buona sensibilità melodica. La band viaggia sicura sui binari di un suono dall’identità ben definita, in un assetto che le consente di spaziare da ballate dEUS (New Lanark, The Engineer) a esercizi su tempi d i s p a r i ( A l l S a i n t ’ s D a y, H e a d first), al folk acustico (Hopes And Little Jokes, la reed-iana Evelyn, Hattonring Pitt Disas t e r, i n o d o r e d i B i l l y B r a g g ) , fino al gioiellino del disco, quella Cathkin Braes che sposa indie e fervore post/punk in u n ’ o d e a i s u b u r b s d i G l a s g o w. Insomma, ce n’è abbastanza per sperare bene (6.8/10). E se mettiamo sul piatto anche le recenti prove di Camera Obscura e My Latest Novel, sembra proprio che a fine anno ci ritroveremo ancora una volta a fare i conti tanto con gli Albionici quanto con i cugini delle Highlands… Antonio Puglia Shooting At Unarmed Men – Yes, Tinnitus (Too Pure / Self, giugno, 2006) Six Organs Of Admittance The Sun Awakens (Drag City / Wide, 5 giugno 2006) Messa definitivamente la parola fine sull’esperienza M c L u s k y, l e e n e r g i e d i J o n Chapple si sono ora interamente concentrate quello che fino a poco tempo fa era il suo progetto collaterale ovverosia gli Shooting At Unarmed Men, già autori lo scorso anno di un poco convincente album esordio anch’esso pubblicato sott o l ’ e g i d a d e l l a To o P u r e . P e r f o r t u n a , l o r o e n o s t r a , Ye s , Tinnitus mostra incoraggianti segni di miglioramento e, pur non sfiorando neanche lontanamente le vette toccate con i M c L u s k y, c i r e g a l a i n o g n i caso un album quantomeno dignitoso, perso lungo i sentieri A rivelare in modo sottile l’intima essenza di The Sun Awakens è, al di là d’ogni altra chiave di lettura, il suo modo di porsi, la sua struttura se preferite, che ragiona su quell’epoca in cui il vinile era al potere e i dischi si meditavano a lungo, dato che farli costava fatica. In luogo della deleteria approssimazione che appesantisce l’ondata “new weird folk” statunitense (per tacer di quella scandinava…), qui ci si affida invece - e con quali frutti - alla sapiente produzione dell’ex Nation Of Ulysses Tim Green, curando gli intrecci di sei corde (la luminosità Love sposata a di un claustrofobico post hardcore che individua nei Fugazi di Red Medicine e nei primi dischi dei Jawbox i suoi referenti primari. Suoni oramai assimilati, digeriti e mandati a memoria dai più, anche e soprattutto da Jon Chapple e c o m p a g n i c h e i n Ye s , T i n n i t u s si limitano ad offrire una didascalica interpretazione del genere e dei suoi stilemi. Viste le premesse, a salvare gli Shooting At Unarmed Men da un’inevitabile stroncatura è la capacità di risultare comunque convincenti grazie ad un naturale approccio intenso e paranoico alla materia in questione, ideale trampolino di lancio per la genesi di episodi d’ordinaria alienazione, come l’inquietante filastrocca di I Am United Nations, la narcolettica P a t Yo u r s e l f O n T h e P o r v e r bial, le reminescenze Nirvana di Never Follow Me Again, lo scheletrico punk di I Cry For No Woman e la rabbia implosa del singolo Girls Music. Giusto l’occorrente per strappare, oggi, una risicata sufficienza ma non per far svanire del tutto i dubbi su di un futuro che per la band gallese sembra quanto mai incerto. (6.0./10) Morricone di The Desert Is A Circe un esempio mirabile) e la stratificazione di sonorità che, pur nella costante economia di mezzi (elettronica vintage o strumentazione mediorientale fa lo stesso), evocano uno spazio senza tempo e viceversa, esteso dai ’60 californiani attraverso quattro decadi al qui e ora, dove aleggia palpabilissimo quel simulacro di John Fahey che si fa metafisica carne blues per Wolves’ Pup. Ancora: la scelta di scindere nettamente in due il disco, in una prima parte di sei composizioni di media durata e una seconda invece consacrata in toto a un caliginoso, febbricitante e mesmerico espandersi d i g a l a s s i e d a p r i m i Ta n g e r i ne Dream sperduti nella Death Va l l e y, t r a d i s c e u n a c o n s a p e volezza lontana da pittoreschi orpelli oleografici, che preferisce guardarsi indietro e reinventarsi così un eterno presente, una dimensione vitale e pulsante attorno a tre quarti d’ora di scintillante visionarietà. Circondato da un pugno di fidati sodali, il titolare unico Ben Chasny attinge dal profondo del proprio bagaglio d’incanti e magnetismi, Stefano Renzi mescolando eterogenee e policrome suggestioni folk con una psichedelia dapprima intesa come stato della mente, poi liberata dall’interno di flash acidi e ipnosi percussive. Ne scaturisce un affresco curato e compiuto in ogni episodio, che sia la serena dolcezza in punta di plettro dell’iniziale To r n B y W o l v e s o l o s g u a r d o s i c u r o d i B l e s s Yo u r B l o o d , il canto corale teso come un ponte tra Oriente e Germania del commiato River Of Transfiguration o le impennate di Attar (che rimarca una volta di più la distanza da qualsiasi revivalismo senza causa col suo sporgersi su territori rumoristi) e di una fiammeggiante e mercuriale Black Wall. C’è voluto tempo, e una riflessione sul senso e le finalità del disco come oggetto artistico nell’era ipercinetica del download e della musica come accessorio, affinché una delle scene più enfatizzate degli ultimi anni partorisse qualcosa di memorabile. La risposta giace(va) nel valore indistruttibile di una musica da penetrare a occhi spalancati, trascendendo l’estemporaneità delle troppe fotografie di un momento, ascoltate e in fretta riposte a prender polvere, di questi frenetici giorni. Il presentimento, che si radica forte col susseguirsi degli ascolti, è che da qui a un decennio The Sun Awakens nonsarà invecchiato di un solo minuto. Scommettiamo? (8.0/10) Giancarlo Turra s e n t i r e a s c o l t a r e 87 S o n i c Yo u t h - R a t h e r R i p p e d (Geffen / Universal, 13 giugno 2006) Ripartiti da quattro dopo l’abbandono di Jim O’Rourke, i S o n i c Yo u t h a p p r o d a n o a l quattordicesimo album in studio che, senza troppi giri di parole, è il loro lavoro più diretto, semplice e pop di sempre. Una realtà che, nell’incessante girandola di attività dei Nostri (un tour de force che definire stacanovista sarebbe eufemistico, tanto che, anche da parte di certa critica, sono sempre più frequenti crisi di rigetto per sovraesposizione), rischia di passare inosservata. A torto, perché se qualcuno volesse cercare una sorta di evoluzione nel percorso a r t i s t i c o d e i S o n i c Yo u t h ( p e r quanto questo concetto possa avere un senso), dovrebbe partire da Rather Ripped. Mentre lo scorso Sonic Nurse macinava gli elementi base costitutivi del sonic sound in un frullatore post-moderno, stavolta si parte proprio dalla canzone, dalla melodia, similmente a quanto già fatto in Murray Street, ma lasciando qui in secondo piano stratificazioni sonore e arrangiamenti complessi, riducendo il noise da elemento base a puro contorno. A pensarci, una sorta di rivoluzione copernicana (almeno sulla carta), che nei fatti si traduce in un songwriting vicino più al cantautorato che alla wave (vedi Do Yo u B e l i e v e I n R a p t u r e ? , c h e pare uscita dalla penna del N e i l Yo u n g p i ù r o m a n t i c o ) e nell’impiego - ostentato e non casuale - di elementi base del rock classico come backing vocals, progressioni armoniche convenzionali, riff (la stooges-iana Sleepin’ Around) e addirittura in qualche caso assoli (per certi versi, delle novità assolute nel repertorio della band). L’ u n o - d u e i n i z i a l e R e e n a e Incinerate non lascia scampo, spandendo particelle di un college pop sorprendentemente maturo ed orecchiabile, spogliato com’è delle asprezze punky del passato (quelle di Dirty o Experimental Jet Set, Trash And No Star), così come Tu r q u o i s e B o y, T h e N e u t r a l , Or e Lights Out, tutte giocate sulla leggerezza delle melodie e le sospensioni piuttosto che sull’impatto sonoro; beninteso, il sound resta pur sempre inconfondibile, e l’alone di già sentito è di conseguenza inevitabile (Jam Runs Free e What A Waste potrebbero star e s u D i r t y, P i n k S t e a m s u A Thousand Leaves, e anche il contributo di Ranaldo, Rats), ma a conti fatti prevalgono i colpi andati a segno. Prevale soprattutto lo spirito che caratterizza da sempre i Sonic Yo u t h , o v v e r o l ’ i n t e n d e r e l a musica come esigenza espressiva inderogabile, a costo di risultare ripetitivi o, come in questo caso, di aggiungere con successo un nuovo tassello ad un mosaico già abbondantemente definito. Che poi è il loro massimo pregio, o, se volete, il loro peggior difetto. (6.8/10) te (Forcetracks, City Centre, Offices, R.U.C., Substatic). Questo primo album per la Hobby Inc. ci rivela un personaggio che tutto sommato, se fosse rimasto ancora un po’ nell’ombra non avrebbe intaccato le nostre funzioni vitali di ascoltatori onnivori, sempre pronti ad attendere la rivoluzione musicale ad ogni disco. I breakbeat sghembi, ma tutto sommato racchiusi in una cornice ordinata, a volte “danzabile”, altre assolutamente rarefatta, richiamano senz’altro gli esperimenti ormai decennal i d i A p h e x Tw i n , e r a p p r e s e n tano la struttura fondamentale dello stile del Nostro. Tranne quando si scade nella “normalità” da sottofondo affine alla logica chill out da lunge bar (Som En Film): tastierine e ritmi frivoli ma mai fastidiosi. Non si può dire che la musica di Spinform sia scarna, anzi, a volte sembra eccessivamente carica di arrangiamenti, appesantita da stucchevoli campionamenti di archi o da massicce dosi di tappeti sonori melodizzati a dovere (Hjertats Mysterion) Le cose vanno molto meglio quando il ritmo si di dissolve e diventa pura atmosfera: in questi casi (Det Fanns En Tid, Froestelser Och Bekymmer) gli impasti sonori, la varietà della strumentazione e dei materiali sonori messi in gioco va al di là della semplice sovrapposizione e trova la sua logica nella creazione di un paesaggio in cui convivono diverse esperienze musicali. (6.0/10) Daniele Follero Antonio Puglia 88 s e n t i r e a s c o l t a r e Spinform – Bryter Tystnaden (Hobby Inc., 2 giugno 2006) SubMarine Races - Self Titled (In The Red / Goodfellas, giugno 2006) Dietro il progetto Spinform si nasconde la persona di Erik M ö l l e r, svedese di Uppsala, vicino Stoccolma, già conosciuto negli ambienti dell’elettronica per alcuni remix pubblicati da svariate etichet- Non c’è soltanto il Regno a sfornare wave rockers: nel rock’n’roll circus dell’emul c’è posto pure per i chicacoani SubMarine Races, il nuovo gruppo del cantante chitarrista ex Ponys Ian Adams, re- sponsabile della svolta pop e post-punk di quel combo e qui dedito a una strada ancor più brit oriented. Suona come una condanna a morte? Nient’affatto, piuttosto è una trappola, posta sapientemente dal ragazzone dell’Illinois e dai compagni Paul John Higgins (batteria) e il The Countdown Steve Denekas (basso), nei primi tre brani in scaletta dell’album, costellati da un intro dark-punk, un attacco funk punk a la Gang Of Four via F u t u r e h e a d s ( G e t Y o u r s e l f To gether) e un pop-punk Libertines (Difficult Night). Il vero album arriva nelle tracce seguenti garantendo non solo l’assoluzione al trio, ma anche un piccolo premio. Prendete il gioco vocale che si sviscera a partire da Pilgrim Shoes: riscopre la tradizione blank che da Richard Hell porta a Thurston Moore. Non è semplice copia incolla ruffiano, piuttosto una riscoperta creativa che parte da note coordinate newyorchesi per smarcarsi avanti e indietro sul binario temporale del rock. Così l’ottica street settantasettina di questo brano, e soprattutto del successivo W a t c h W h a t Yo u S a y, i n v e ce di rimanere appiccicata ai cliché modaioli di NME si veste di pelle Lou Reed, oppure d i S o n i c Yo u t h , c e d e i l p a s s o a ironie sottoforma di assoli acidi con le zeppe ai piedi, per poi piroettare in un girotondo tra fraseggi ottimisti folk punk (Hey Dad (The War Is Over)) e serenate Modern Lovers. Da lì si apre il sentiero per tutti i Cinquanta amati dai punk pre e post (What’s A B o y, G h o s t s A n d W o r m s ) , p e r l’affondo nelle barricate (Six F o o t Tw o ) , p e r u n a s t r i z z a t a d’occhio ai Violent Femmes (The Boat That I Row), e perché no un roccaccio tinto blues N e w Yo r k D o l l s ( O n e F o r w a r d , Three Back, Postcard). In altre parole: “Stop the british invasion and bring it all back home!” E sapete una cosa? Funziona piuttosto bene. (6.8/10) Edoardo Bridda Subtle – Wishingbone (Lex Records, 22 maggio 2006) Se la definizione di crossover non si fosse cristallizzata in un periodo storico (gli anni ’90) e in un genere, ben precisi, potrebbe benissimo identificare la musica dei Subtle. In una logica prosecuzione del discorso sulla contaminazione nel rock avviato durante tutto il decennio passato, la band dell’onnipresente Doseone, partendo dall’hip hop come base (più mitologica che reale), scommette sulle infinite possibilità dell’incontro tra le combinazioni sonore permesse dall’elettronica e dal campionamento e la vivacità, la profonda umanità della musica “suonata”. Chitarre, sintetizzatori, viol o n c e l l i , f i a t i , s a m p l e r, b a t t e rie acustiche ed elettroniche, fanno da impalcatura a questa grande trama sonora fatta di breakbeats, accenti jazzati e sonorità electro in cui la voce di Doseone si infiltra a proprio piacimento comportandosi da strumento solista. Wishingbone non nasce in un momento felice per il collettivo, ancora stravolto dal grave incidente occorso a Dax Pearson. E’ anche questo che, probabilmente, giustifica l’incompletezza e l’eterogeneità del successore dell’ottimo A Great White ( Lex Records, 2004), a metà tra l’album e la raccolta. In attesa di un nuovo album totalmente inedito ci accontentiamo di un disco che raccoglie nuovo materiale, remix e nuovi approcci a vecchi brani prodotti con la collaborazione di alcuni “amici”: Mike Patton (The Longvein of Vo i c e ) , B e c k ( i l r e m i x d i F a rewell Ride), Hrvatski, Fog e M r. J o h n S o d a . Va r r e b b e d a s é l ’ a c q u i s t o d e l disco il DVD allegato, che contiene tre video della band (disegnati dai talenti dell’animazione SSSR), legati insieme e costruiti in maniera da dar vita ad una storia surreale, un piccolo film che ha fatto vincere loro il premio come miglior video musicale ai British Animation Awards 2006. (6.5/10) Daniele Follero Sufjan Stevens - The Avalanche: Outtakes and Extras from the Illinois Album (Rough Trade / Self, 25 luglio 2006) “Outtakes and extras from the Illinois album”. Sono queste le parole nel fumetto in copertina, dietro ad un Sufjan Stevens in versione supereroe, in palese ironica polemica con la DC Comics che gli ha fatto togliere il Superman dalla copertina di Illinoise. Ci sono altre cose sulla cover del disco. Una Chevrolet Avalanche, che evidentemente richiama il titolo della raccolta e poi un po’ più piccolo, in basso, c’è scritto “Shamelessly compiled by Sufjan Stevens”. Shamelessly ovvero “senza vergogna”. Un disclaimer abbastanza sui generis, ma forse, indubbiamente, lo stesso Stevens si rende conto che dopo appena un anno dall’uscita di un mastodonte come Illinoise, rovesciare sul mercato un’altra raccolta “pesante” come questa e per di più fatta di scarti (outtakes…) è un atto come minimo azzardato. sentireascoltare 89 S u p e r c o m p u t e r, T h e H e n n e y Buggy Band e The Perpetual Self, or “What Would Saul Alinsky Do?” nella loro sfacciata solarità pop, forse un posto in prima fila lo avrebbero pure meritato. (6.8/10) Antonello Comunale Super Elastic Bubble Plastic - Small Rooms (Red Led Records / V2, 21 aprile 2006) La logorrea compositiva non è certo cosa nuova nel mondo del rock e il disco o il box di outtakes è ormai una prassi consolidata, tanto i costi di produzione possono permetterlo. Stevens allora si toglie sostanzialmente uno sfizio e recupera pezzi scartati dal disco dell’anno scorso, riformulando in qualche modo il progetto originario del doppio album. Essendo le stesse sessions, chi già ha sentito il disco dedicato allo stato dell’Illinois può facilmente immaginare come suonino le ventuno canzoni qui incluse. Più che altro, è interessante vedere l’autore all’opera con gli arrangiamenti. Chicago viene vestita e rivestita tre volte, in tre versioni diverse: una acoustic version, una adult contemporary easy listening version, una multiple personality disorder version. Ed è sicuramente quest’ultima la versione più interessante e divertente. Il resto della raccolta aumenta la galleria di personaggi. Appaiono in brevi ma significativi camei: Adlai Stevenson (in una marcetta da Festa della Liberazione), Saul Bellow (una chiccheria acustica alla Seven Swans), C l y d e To m b a u g h ( u n a d e d i c a strumentale space lounge), e i l c a r o M r. Supercomputer (ritmi pop e cori in gloria). Poche sorprese comunque. I brani migliori sono finiti tutti su Illinoise. Quelli presenti qui sono stati giustamente messi d a p a r t e , m a a l m e n o D e a r M r. 90 sentireascoltare C’è aria di cambiamento nella casa super elastica. Saranno le esigenze di venire incontro a i v a n t i c o m m e r c i a l o i d i d i M t v, che le ha dato un po’ di spazio negli ultimi tempi (addirittura il format Making Of The SEBP video, “concorsone” per coinvolgere il pubblico nella realizzazione di un loro video); sarà la voglia di rafforzare la propria identità musicale. Ma forse non era il caso di voltare le spalle a molto di ciò che di buono era venuto fuori da T h e S w i n d l e r. Abbandonati i ritmi sghembi e quella sfacciataggine acid blues che ce li aveva fatti paragonare alla Blues Explosion d i J o n S p e n c e r, l a b a n d m a n tovana, dopo il breve capitolo dell’Ep Acoustic On Air (Red Led Records, 2005), ripiega - pur mantenendo una forza espressiva invidiabile su sonorità più scontate e datate. Chi ha amato gli Shellac e i Nirvana ed è cresciuto con le sonorità 90s non disdegnerà Small Rooms se non per la sua inconsistenza di fondo. Le belle idee del recente passato sembrano annacquate in un rock più impersonale, fatto di riff buttati giù senza grandi complimenti e tempi di batteria molto più “regolari”. L’ e n t i t à d e l c a m b i a m e n t o d e i SEBP è evidente e inequivocabile a partire dal primo singolo estratto dall’album: a conferma del fatto che, generalmente, un singolo è testimone del lato più easy di una band, Feel Sleepy è l’episodio più banale che fino ad ora avevamo ascoltato dai tre . Tracce di Therapy?, Stone Te m p l e P i l o t s e P e a r l J a m , r i calcate dalla noiosissima ballatona Hold On. Anche i momenti migliori (Rage Age, la strumentale 16 Bits Vs Trks On 2”), quelli che maggiormente riflettono le idee originarie della band, sono appannati dalla voglia di apparire comprensibili e pronti all’uso per la fiumana fagoc i t a n t e e p s e u d o i n d i e d i M t v, che scorre inesorabile portandosi dietro tutto ciò che è facilmente commestibile con le orecchie. Ora però, diamo a Cesare quel che è di Cesare e diciamo pure che non stiamo certo parlando dei nuovi Negramaro (almeno ce lo auguriamo). Ma chi fa buone cose genera aspettative e le aspettative, a loro volta, generano maggiore attenzione e maggiori pretese. E’ quello il momento di rischiare, di scoprirsi, di mettersi in gioco sul serio, di rischiare. I SEBP lo hanno fatto, ma con qualche peccatuccio di presunzione, provando a “sfondare lo schermo”. Un passo indietro. (5.5/10) Daniele Follero The Aggrolites – Self Titled (Hellcat / Self, maggio 2006) Desmond Dekker e i Mods, i C l a s h e d i l r o c k s t e a d y, W i l son Pickett ed i red skinhead. Questo l’immaginario estetico, sociale e musicale al quale gli Aggrolites fanno riferimento, in linea esatta con quella che è la tendenza di casa Hellcat Records, etichetta fortemente voluta da Tim Armstrong dei Rancid per dare sfogo alla propria incontrollabile passione per i ritmi in levare. Già molto nota nell’ambiente della musica reggae statunitense, la formazione californiana arriva al suo debutto discografico su Hellcat con un disco omonimo che non concede niente alle moderne derive ska-core o ska-punk, restando fedelmente ancorata al sound originale giamaicano degli anni sessanta. Memori tanto del grande Jackie Mittoo quanto del sound proveniente dalle cantine piene zeppe di fumo dello Studio One, figli illegittimi di molto rhythm and blues fuoriuscito dalla fabbrica Stax, gli Aggrolites mettono infila diciannove pezzi uno più bello e groovoso dell’altro che faranno la gioia di tutti gli appassionati. Episod i c o m e T h u n d e r F i s t , T h e Vo l c a n o , L o v e I s n ’ t L o v e , W o r k To D o e , s o p r a t t u t t o , F u r y N o w, rappresentano infatti quanto di meglio è stato prodotto in ambito ska-rocksteady nel corso degli ultimi anni, più o meno dalla pubblicazione di quel piccolo capolavoro che è stato Out Of Nowhere degli Hepcat, anno di grazia 1994. Nel suo genere, un album di grandissimo spessore. (7.0/10) r e E l s e To B e , p e r n o n d i r e d i q u e l l o p i a s t r e l l a t o Ti n P a n A l ley di After We Shot The Grizzly o quello in punta d’harmonium di Beautiful William. Poi – naturalmente - i lasciti byrdsiani i n O u r B l u e S k y e i l To m P e t t y s o t t o s e d a t i v o d i A l l T h e Ti m e In Airports. Le solite cose, certo. Anzi no. Però neanche la digressione provenzale di Hunter Green - ukulele e violoncello, il canto di Rennie tra il problematico rovello di Thalia Zedek e le palpitazioni sofisticate di Isobel Campbell - riescono a darti una scossa decisiva. Ne consegue che il disco rimane invischiato nella propria scenografia, così come i pezzi, sorta di strani animaletti né-alghe-né-pesci sospesi in un acquario filmico. Quasi una caricatura che ad un tratto ha deciso di prendersi sul serio. Senza evidenti giustificazioni. (5.9/10) Stefano Renzi Stefano Solventi The Handsome Family - Last Days of Wonder (Loose, giugno 2006) The Paper Chase – Now You Are One Of Us (Southern / Wide, maggio 2006) Il solito vecchio country-folk, per quanto sapientemente intorbidato di mistero, indolenzimenti e vibrazioni umoristiche. Un campionario di estasi quotidiana, di esoterico incanto annidato tra le pieghe delle sensazioni, di fiumi melmosi e druidi mesmerici, di epifanie e sdrucciolamenti sentimentali. Un impasto assieme domestico ed enigmatico, “eerie” come potrebbe esserlo una torta di mele cotta sulla pietra filosofale. I The Handsome Family giungono al settimo full-lenght col passo ineffabile dei Lambchop, ma senza quella disinvolta capacità di smarcarsi dalla trappola del “genere”. A pensarci bene, sembrano più dei Tindersticks in camicia di flanella, cappellaccio e stivaloni (ascoltatevi Te s l a ’ s H o t e l R o o m ) . Quanto al resto, le solite cose, ovvero lo spirito di Gram Parsons rievocato tra le slide e i vibrafoni di White Lights o tra il piano e il mellotron di Somewhe- C’è un curioso controsenso che qualifica i Paper Chase, e risiede nel fatto che la loro proposta esiga notevole attenzione da parte del fruitore, subito dissipata facendo perdere allo stesso la pazienza. In altre parole, la complessità della loro musica diviene in breve artificiosità, tarpando le ali a intuizioni non disprezzabili ma affogate in eccessi enfatici, così che le composizioni ricordano certe torte nuziali - sontuose e cariche d’ogni ben di dio - delle quali si reggono giusto un paio di bocconi di cortesia. Il gruppo sembra voler donare una dignità indie a sonorità di estrazione “prog”, non solo ritenendo scontata la necessità di una tale operazione, ma anche assorbendo unicamente i difetti del vituperato genere. Ciò che faceva la forza del post rock (e, mutatis mutandis, anche di non poca new wave), ossia la scelta sapiente di quale passato riportare alla luce e rivalutare, qui costituisce la pietra al collo che affossa tutto: chitarre angolari con velleità crimsoniane, pianoforte indeciso tra classica e scontati passi blues e una ritmica troppo uniforme si arrabattano nel ruolo di scenario delle tortuosità vocali di John Congleton, unione del Waters più teatrale col suo clone Geldof (ecco, se proprio si vuol fare un parallelo, si può parlare di Boomtown Rats aggiornati all’era del “dopo rock”). Le canzoni risentono di tutta questa ampollosità sparsa a piene mani, con le loro strutture sì articolate ma ridondanti di forzature ed effettistica ostentata con dubbio gusto (e dire che Congleton è affermato produttore). L’ e s i t o d i ff o n d e u n s e n s o d i vacua pompa ed enfasi smisurata, con l’istantanea perdita di interesse (quando non addirittura fastidio o noia) da parte dell’ascoltatore. Non resta quasi nulla da salvare in questo sesto disco dei texani, giusto il bel folk allucinato - da Dexy’s Midnight Runn e r s v i a d E U S - d i Yo u W i l l N e v e r Ta k e M e A l i v e e l a s e r r a t a W e K n o w W h e r e Yo u S l e e p , m o mentanei barlumi di senno che inducono a congetturare dove approderebbero i Paper Chase se possedessero il senso della misura. Un merito, pensandoci, forse lo hanno: rendono ancor più anacronistici i Mars Vo l t a , m a n o n è p o i q u e s t o f i o r di lusinga… (5.0/10) Giancarlo Turra sentireascoltare 91 The Red Hot Chili Peppers - Stadium Arcadium (Warner, maggio 2006) To r n a n o i p e p e r o n c i n i c o n u n album d’inediti anzi due. Ben ventotto canzoni, quattordici per disco (il primo battezzat o J u p i t e r, l ’ a l t r o M a r s ) . N o n bastasse, sembra che il progetto originale – tre album da far uscire a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro - comprendesse altri dieci pezzi. Poi le pressioni della casa discografica hanno ricondotto la band a più miti (e redditizi) consigli. Sia come sia, è una dimostrazione di eccezionale fertilità da parte dei losangelini, per quanto mediamente il peso specifico non superi quello di una chipster (piccante, of corse). Giunti a questo punto, non si tratta solo di cambiare metro di giudizio, ma di rileggere un po’ tutta la loro carriera alla luce di questo flagrante outing pop. Quei primi caustici album, quei morsi di cane tossico, quegli spasmi funk-rock a rotta di collo lungo la giugulare sforacchiata del Sunset blvd, andrebbero ri-considerati quali frutto acerbo di scelleratezza giovanile. C ’ è l a s t o r i a d e l c r o s s o v e r, certo, ma prima che stilistica la questione mi sembra progettuale, una vigorosa commistione tra il versante scomodo e quello potabile, la capacità di vendere l’ansia con lo sberleffo, il delirio con la carezza. In questo senso, se Blood Sugar Sex & Magic rimane il loro 92 sentireascoltare capolavoro, Californication è stato il prodotto definitivo, sancendo come indispensabile il fattore del redivivo Frusciante. In Stadium Arcadium diventa uno schema martellante. La sua chitarra così acida, satura di screziature freak in libera uscita, è il didascalico corpo estraneo, è il segno icastico della psichedelia, germe ostentato sotto vetro come in un Barnum patinato/platinato (che trova corrispondenza nella gestualità maori di Flea). Il resto, musicalmente parlando, è una sezione ritmica scarna ma rutilante, essenziale ma incendiaria, con pennellate sparse di synth, ottoni e flauti a sfrangiare i contorni (produce Rick Rubin). Poi, certo, c’è la voce di Kiedis che fa quel che può, scarsa d’estensione e capace d’interpretare solo se stessa, ma con grinta, con convinzione, col merito di riuscire ugualmente unica. Quanto alle melodie, riciclano con disarmante immediatezza cose antiche - proprie e non - che ti si appiccicano subito alle sinapsi, giocando a carte talmente scoperte che scomodare sospetti di plagi e autoplagi risulta semplicemente ozioso. Ora, che ci crediate o meno, il marchingegno funziona. Anzi, è validissimo, da un punto di vista pop. S’incappa inevitabilmente in qualche passo falso (il pastiche insipido e ruffiano di Dani California, l’innodia grossolana di Desecration Smile, l’hard-bluesone cotonato di Readymade), compensato però da qualche inatteso preziosismo (i germ o g l i p o s t - p r o g i n A n i m a l B a r, le angolosità eighties di 21st C e n t u r y, i m i n i m i t e r m i n i p a l p i t a n t i d i H a r d To C o n c e n t r a te). Il resto indugia macinando funk e psych e ballad ed elettricità e muscoli e sguardi e vite nel flipper colorato e periglioso della California, metonimico frammento di un’epo- ca su di giri. In collasso. (6.4/10) attesa del Stefano Solventi The Whitest Boy Alive Dreams (Service, 28 giugno 2006) C r o o n e r, e n t e r t a i n e r, white s o u l g u y, f o l k s t e r s o p r a l e r i ghe, vocalist tra le righe (e i battiti dance), nerd perennemente in love, studente fuori corso e fuori sede. Insomma, quell’Erlend Øye mai fermo, quel ragazzo a cui cantare viene facile come svegliarsi al mattino: se i Kings Of Convenience sono di fatto la cosa dell’introspettivo e sensibile Erik Glambek Bøe, per il rosso norvegese non esiste fede se non il disimpegno. Uno stile di vita che lo ha portato a offrire l’ugola per una marea di progetti dance, e che qui lo vede patron di una band tedesca nata come estemporaneo scherzo elettro-dance nel 2003. A distanza di tre anni, The Whitest Boy Alive è diventata l’etichetta dietro la quale si celano le velleità indie rock e funky del cantante (qui fisso anche alla chitarra) e dei compagni di viaggio Marcin Oz (basso), Sebastian Maschat (batteria) e Daniel Nentwig (tastiere). Pensate al solito buon Øye, stralunato e rapito - ma più ironico e conciso che mai - cantare su una base New Order prima maniera, immaginate l’immancabile basso felpato factory style ed ecco Burning, l’opener del disco; pensate poi a quattro ragazzi che rifanno i Police senza pensare a un brano in particolaree avrete la deliziosa Abov e Yo u . I l r e s t o p r o s e g u e p e r quelle vie (Inflation rispolvera umori Arab Strap, Don’t Give Up è la più Kings Of Convenience del lotto, Figures presenta il più classico registro oye-iano, in Borders ritornano i New Order sciolti al sole con i Death Cab For Cutie) in un gioco che diventa chia- ro: Dreams è stato registrato senza layering, né editing né effetti in uno studio di Berlino, ogni brano inizia con un asciutto canovaccio chitarrabasso-batteria per finire su una cheta armonizzazione alla sei corde. Il piglio è arioso, erbivor o , m a t t i n i e r o . L’ e s s e n z i a l i t à ascritta in un diario indie-pop con il giusto soffio wave di moda e ogni brano a ricordare un’influenza, salvo in seguito fagocitare nei velluti e nelle stanze del norvegese. Spontanea la realizzazione, e altrettanto naturale l’ascolto. Che non è poco, ma non c’è neanche nessuna hit da segnalare. (6.4/10) Edoardo Bridda Think About Life - Self Titled (Alien8 / Wide, 2 maggio 2006) Think About Life sono tre marpioni dell’entroterra di Montreal (il multistrumentista G r a h a m Va n P e l t , i l c a n t a n t e Martin Cesar e il batterista Matt Shane) che hanno trovato una via media all’intrattenimento, al sano divertimento disimpegnato della seconda metà dei 2000: né daftpunkismo, né emul-rock, né la sommatoria dei due, solo una semplice ricetta - vitale - che prende con disinvoltura gli spunti che servono al caso, sprecando quasi niente. Ogni brano prevede una singolare evoluzione. C’è la linea ritmica irreale, spezzatissima, con canto ubriacone alla Wolf Parade che porta al gran finale d’ascendenza corale (Fireworks), o la figura dolente - quasi la sonata al chiaro di luna rivisitata a loro modo - su trambusti di piatti e invocazioni acute, che porta alla cavalcata gioiosa condotta dal basso funkeggiante e dalla tastiera euforica di marca Jon Siegel (Money). C’è pure, ai limiti della blasfemia, un organetto Manzarek accoppiato con beat gabba, a far scattare un missile punkfunk e la sua trasformazione marzial-militare (Serious). Soprattutto la band sa come ci si sbizzarrisce. In In Her Hands ci sono fanfare sconsiderate e rullate quasi avantprog, in Bastian And The Boar un canto assorto/dissociato Liars su trotto electro che alla lunga diventa ghirigoro sardonico, quindi schizzata synthedelica Electrelane con tanto di tastiera finto-trionfale, in What The Future Might Be una figura ritmica idiota su base breakbeat (nonché una loro versione dell’urban rap), in Commander Riker ’s Party una tempesta sonica vintage preceduta da canto isterico Modest Mouse - Frank Black e batteria che bisticcia con sincopi e drum’n’bass che spuntano dal nulla. Tra tutto, fa bella mostra di sé persino il minuscolo affresco atmosferico-minimalista di Slow-Motion Slam-Dunk From The FreeThrow Line. Unico smacco sono le occhiate all’immaginario alternativo Strokes-iano, spesso talmente evidenti da sembrare più ingenuotta esaltazione che genuina autoironia. Ad uno sguardo disincantato rimane pur sempre una raccolta esilarante, sghemba, di piece che mandano in cortocircuito coraggio sperimentale electro, rifiniture cantabili e ritmi dementi e compositi al cardiopalmo. (6.4/10) Michele Saran Todd – Comes To Your House (Southern / Wide, 2006) Per gli studi dell’Amphetamine Reptile doveva girare qualche virus contagioso. Craig Clouse è stato infettato durante i brevi trascorsi negli Hammerhead, una delle band meno originali e meno conosciute della label di Minneapolis. Trasferitosi a Londra ha contagiato la moglie Fifi e un paio di amici musicisti con cui h a f o r m a t o i To d d , n u o v a b a n d dedita alla diffusione del morbo: il noise. Per iniziare vanno sul sicuro: A Killer Grows segue i dettami Unsane al limite del plagio, batteria maltrattata, chitarre sature e foga da maniaci omicidi. Chair Fight non è da meno, sembra lo scontro senza quartiere tra Killdozer e Distorted Pony a colpi di riff seriali, spasmi sonori, urla efferate, le stesse che riappaiono in Golden Rabbit. In Black Skull si intravedono nuove soluzioni, le pulsazioni iniziali vengono sommerse da valanghe Barkhausen di marca Load, Council Member sembra un pezzo come tanti, feroce e ripetitivo, ma dopo pochi secondi si spegne in un tintinnio anomalo che inganna l’ascoltatore, prima di ripartire con un delirio strumentale che è forse l’apice del disco, Craig e compagni costruiscono un labirinto sonoro senza uscita dove perdersi e impazz i r e . L ’ i p n o t i c a To D o L i s t è la meno potente del lotto, ma non per questo meno inquitetante, tra iterazioni soniche e ossessioni vocali Christian St. Christian è un melting pot abbastanza riuscito di campioni di archi e voci, interferenze digitali e mostra la faccia free e ironica della band, in netto contrasto con la monoliticità melvinsiana di Shepherdess, chitarre ad alta densità e feed b a c k a d o l t r a n z a . L’ a l b u m s i chiude con le variazioni chromatiche di Crank A Winch in linea con la noise-tronica sentireascoltare 93 estrema made in USA. Feroci, anfetaminici, consap e v o l i , i To d d c i t a n o i l p a s sato recente ed esplorano, forse con troppa prudenza, le nuove vie al rumorismo rock. Era da tempo che non si sentiva qualcosa di simile arrivare da oltremanica. Aspettiamo la deflagrazione definitiva. (7.0/10) Paolo Grava Tool - 10 000 days (Volcano / Sony - BMG, 2 maggio 2006) A distanza di anni, la miglior e d e f i n i z i o n e d e i To o l r e s t a quella data da una rivista americana all’epoca di Undertow: “dei Black Sabbath composti da eruditi studenti d’arte anziché da una manica di bombardati working-class inglesi nostalgici del blues”. Lasciata quindi alle spalle l’ondata grunge, con cui all’inizio furono confusi, il post metal di Korn e derivati, con cui successivamente furono ulteriormente confusi e persino il dualismo con i Radiohead, tramite il quale qualcuno tentò di farli passare come band generazionale, cosa ci resta oggi di tanta speme? 10 000 giorni, apocalissi space, riff godzilliani heavy seventies, esoterismo da supermarket con tanto di occhiali allucinogeni nel pacchianissimo packaging e un’ora e passa di gorghi strumentali canorizzati da Maynard Keenan. C’è poco da dubitare sullo stile. Lo riconosci subito quando attacca Vicarious. La 94 sentireascoltare mano ferma di Adam Jones a disegnare riff spiraliformi sul consueto solido tappeto percussivo. Ci sono rimandi più o meno scoperti a tutti i precedenti lavori. The Pot è chiaram e n t e s u l l a s c i a d i S o b e r. R o setta Stoned riprende un riff di Third-Eye e nel finale cita pure H. Una calligrafia incredibilmente ossequiosa della forma. E’ tutto così il disco, con una generale tendenza ad una sofferta morbidezza psichedelica, che trova l’apice nelle due Wings For Marie. Eppure, senza girarci intorno, questo è il disco più brutto dei To o l e a m m e t t e r e c h e A e n i m a e Lateralus erano difficilmente perfettibili, non rende la pillola meno amara. Fa pensare la scelta di rendere volutamente le trame più semplici, anche perché il tecnicismo strumentale non arretra di un millimetro. Ad ogni modo, non c’è quasi più traccia di quello che anni fa, Claudio Sorge ebbe a definire come “metal sci-fi tribale” o anche “pure apocalypse music”. Il riffarama pur compresso e affannoso di Jambi e Rosetta Stoned può mai giustificare paragoni con i Meshuggah? Quelli di Destroy Erase Improve? Non sarà semplicemente che ogni dichiarazione della band viene presa come oro colato? Il disco non è totalmente disprezzabile, anche perché a livello strumentale è il consueto bagno di fuoco, ma un lavoro non completamente rius c i t o d e i To o l è d o p p i a m e n t e grave, anche in virtù del fatto che ci toccherà aspettare, come minimo, altri cinque anni per il successore. (6.0/10) Antonello Comunale Tuxedomoon - Bardo Hotel Soundtrack (Crammed Discs, giugno 2006) La storia di quest’album, a serio rischio di passare inosservato, è di quelle provvidenziali: mentre i Tuexdomoon lavorano al nuovo album, arriva una telefonata di George Kakanakis. Il regista li vuole a San Francisco, ha in mente un road movie e, potendo contare su un’amicizia di lunga data, chiede ai quattro di volare nella città natia per incidere una soundtrack in totale libertà artistica. I Tuxedomoon accettano, ritornano dopo più di vent’anni a incidere a Frisko, il luogo dove tutto è iniziato. E tutto vuol dire i Residents, la Ralph, la New Wave. Non può esserci miglior soddisfazione di questa per testare vitalità e maturazione, per riconoscersi e vedersi invecchiati con saggezza e equilibrio. Composto da libere improvvisazioni quasi tutte brevi, Bardo Hotel Soundtrack presenta la fulgida firma del quartetto diluita in una manciata di atmosfere tra l’attesa e il viaggio, dove la circolarità ritmica è il baricentro sul quale ruotano le improvvisazioni di R e i n i n g e r, L i e s h o u t e B r o w n . Bardo, del resto, per i Buddisti è uno stato tra la vita e la morte, ma anche il magico hotel parigino dove William Burroughs e Brion Gysin svilupparono l’idea del cut-up verso la fine degli anni Cinquanta. Degna trasposizione di tutto ciò, la tracklist è caratterizzata da costruzioni armoniche cameristiche che qualcuno ama etichettare come classical c o n t e m p o r a r y, ovvero composizioni figlie del melieu delle avanguardie del Novecento in un background a maglie larghe, che va dal jazz alle musiche per balletto, dalla transetnica dei Colti alla psichedelia degli Hippie, dalla musica dodecafonica all’elett r o n i c a s p a c e y, d a W e i m a r a l minimalismo. E se si tratta di farsi carico delle istanze del Secolo più complesso della storia e renderle comprensibili a qualche alieno umanoide a anni luce di distanza, pochi possiedono il gusto e la classe dei Tuxedo- moon. Quei Tuxedomoon che erano classici anche quando suonavano la new wave più tesa, quel combo che sognava l’Europa anche trovandosi nella città più europea d’America. Bardo Hotel… è anche un omaggio a Frisko, caput mundi, città del viaggio e della memoria. E per il primo lato della medaglia non sfugge la magia di una Soup Du Jour tra deserti Morricone e quartomondismi Jon Hassell -, per la seconda ci sono invece le track che riprendono i fasti di Half Mute: l’interlocutoria Needles Prelude, la jazzy e barocca Effervescing In The Nether Sphere, mentre tra i fuori programma spicca una C h o r a l Ve r s i o n d i J i n x ( l a s i nistra ballata di Desire), una fanfara balcanica come Baron Brown speziata ragtime, e un rural blues in presa diretta Airport Blues. Su tutte svetta l’afflato di Vulcanic, Combustible capace di unire Reich, Glass, Laswell e Miles Davies. Per dirla con Herzog: Fitz Carraldo! (7.5/10) Edoardo Bridda Vetiver - To Find Me Gone (Fat Cat / Wide, 5 giugno 2006) R i t o r n a n o i Ve t i v e r d i A n d y Cabic. Ad intermittenza, come l’attività del suo fondatore, ormai impegnato in pianta stabile nella band di Devendra B a n h a r t . To r n a n o i V e t i v e r e torna il passato musicale degli anni’70. A due anni di distanza dall’omonimo esordio discografico, infatti, il secondo lavoro full lenght della band americana, seppure molto diverso dal suo predecessore, si pone in linea di continuità rispetto a un approccio che strizza ancora una volta l’occhio al folk rock e alla woodstock generation. Melodie dolci, arrangiamenti rigorosamente acustici, ma non per questo meno ricchi e curati, sempre più in contra- sto con certo radicalismo lo-fi. T r a l e n o t e d i To F i n d M e G o n e si sentono risuonare echi della Band (I Know No Pardon), abbozzi di folk psichedelico (Red Lantern Girls), il country-blues-rock dei Creedence Clearwater Revival (Won’t Be Me) e riferimenti barrettiani (The Porter). Una piccola svolta per chi apprezza e segue lo stile di Cabic, che tutto sommato, però, rimane intatto nelle sue composizioni, sempre strettamente legate alla chitarra acustica, pronta ogni volta a tessere le trame su cui vengono costruiti gli arrangiamenti. Canzoni che potrebbero benissimo essere eseguite da chitarra e tamburello, ma che spesso e volentieri vengono infarcite dagli archi, quasi sempre usati con parsimonia (cioè senza risultare pacchiani). Dopo due album e un Ep viene da chiedersi, tirando le dovute somme, che senso abbia riesumare continuamente il famigerato sound della West Coast senza aggiungervi niente di nuovo. Eludendo la domanda si potrebbe puntare tutto sulla qualità e dire che in fin dei conti, questa musica è “fatta bene”, sia a livello compositivo che a livello esecutivo. Ma f o r s e , c a r o A n d y, è p r o p r i o a r rivato il momento di cambiare. (6.5/10) Daniele Follero Zita Swoon – Camera Concert–A Band In A Box (Discograph / Self, 16 giugno 2006) re come il frutto forse più genuino del loro panorama musicale. La loro musica fonde infatti canzone d’autore, folk, pop, rock in una miscela che trova nel songwriting di Carlens, debitore tanto di Dylan (qui omaggiato nella cover di Yo u ’ r e A B i g G i r l N o w ) e W a i t s quanto del conterraneo Brel, il suo focus; questo Camera Concert–A Band In A Box non fa che confermare l’essenza tzigana dei suoi brani, qui riarrangiati ad hoc per un set, immortalato in audio e video, appositamente allestito nell’estate del 2005 in vista un cd+dvd celebrativo e antologico insieme. A beneficio degli avventori ecco dunque un fedele ritratto del gruppo così come vuole presentarsi oggi, tra concessioni all’indie folk di marca B e l l e a n d S e b a s t i a n ( H e y Yo u , Whatshadoing?) a chansons meticcie come De Quoi A Besoin L ’Amour e Individu Animal, fino al blues (Song For A D e a d S i n g e r, t r i b u t o a J e ff Buckley) al lounge (proprio come lo hanno visto i dEUS, in Jintro And The Great Luna) e a l f u n k ( M y B o n d W i t h Yo u A n d Yo u r P l a n e t : D i s c o ! ) , c o n qualche punta di AOR. Una proposta tuttavia qualitativamente altalenante, nonostante le belle premesse: una volta individuati gli ingredienti, l’amalgama risulta alla lunga pesante da mandare giù per intero. (6.3/10) Antonio Puglia Attivi da più di un decennio all’interno della scena rock belga, i Zita Swoon di Stef Kamil Carlens (già membro fondatore dei dEUS, lasciati nel 1996) si sono saputi contraddistinguere per un’attitudine interculturale che, confrontata con le concessioni dirette all’indie dei colleghi più blason a t i ( t a n t o l a b a n d d i To m B a r man quanto i progetti stilosi dei fratelli Dewaele, Soulwax e 2 Many Dj’s), li fa appari- sentireascoltare 95 dal vivo Primavera Sound 2006 d i A n t o n i o P u g l i a . C o n t r i b u t i d i E d o a r d o B r i d d a , Te r e s a G r e c o , V a l e n t i n a C a s s a n o Foto: primaverasound.com Anche quest ’anno Primavera Sound è stato segnato da buoni, quando non ottimi, concerti di “vecchie” band e di nomi storici dell’indie colti al loro apice, e di act freschi, chiamati alla prova del fuoco sul palco dopo le, spesso convincenti, uscite discografiche. Nei limiti di quanto ci è stato possibile assistere, ciò che segue è un resoconto dei tre giorni di spettacoli. Giovedì 1 Giugno I concerti di oggi si svolgono solo su due palchi, l’anfiteatro Rockdelux Vueling e il più contenuto Danzka Cd Drome; in ogni caso, la location è sempre splendida, la birra lascia ancora a desiderare, l’organizzazione è comunque impeccabile (a parte la gestione ambigua dei ticket-pasto/bibita tipo Festa dell’Unità), le misure di sicurezza da banca svizzera... Appena arrivati sfioriamo il live dei Drones: tre ragazzi casinari e stilosi quanto basta, con canzoni “toste” in stile Sub Pop primo periodo. Divertenti, nulla più, così ci dirigiamo all’altro palco per non perderci i Castanets. Come prevedibile, la freakerie è di casa: set minimal / elettrico, con interessanti inserti di tromba e banjo elettrico e un paio di (piuttosto prevedibili) code noise. Per un live più concentrato e meno dispersivo si è dovuto aspettare il finale del set, con due ballate simil-buckleyane. Raposa 96 sentireascoltare lo immaginavamo diverso, un po’ più Gary Higgins e meno Nikki Sudden; nel complesso, una mezza delusione. Il tempo di un veloce cambio di palco ed è il momento di No Neck Blues Band: nonostante se ne sia già parlato, è sempre un’esperienza straniante assistere a una loro performance, per la naturale tendenza alla dispersione e al bizzarro apparato visuale. Dilatazioni free form che prendono l’aspetto di infuocate jam session, decostruzioni soniche della forma canzone (stavolta appena accennata), in una performance sciamanica tra percussioni - anche di oggetti -, chitarre minimali, tastiere, assoli di sax. Una gestualità rituale che fa della ripetizione ossessiva l’unica regola, con il pubblico a metà tra stupito e ammaliato. Quasi in contemporanea, sul palco principale si consuma quello che si rivelerà lo show più divertente della serata, pur essendo l’evento meno “in linea” con il trend dell’avvenimento. È sempre uno spettacolo trovarsi di fronte L e m m y, i l p a d r e s p i r i t u a l e d i tutti i truzzi del mondo, che pesta sul basso, fornito degli immancabili stivali e cappello d’ordinanza e di quell’immutata voce da camionista incazzato nero, mentre i suoi Motorhead (Mikkey Dee e Phil Campbell) incalzano. Il paragone con l’Iggy Pop dell’anno scorso viene naturale: ecco un’altra icona del rock, dura a morire, inossidabile nel suo archetipo. E il sig. Ian Kilmister risulta credibile nell’essere adorabilmente macchiettistico, come quando confessa che questo è il primo concerto che suona da quando ha compiuto 60 anni, o quando introduce cavalli di battaglia come O v e r T h e To p , o q u a n d o p r e senta brani dall’ultimo Inferno (2004) chiedendo al pubblico se ci sia qualcuno che abbia comprato il disco... In chiusura di set, prima un bluesaccio acustico, poi l’immancabile Ace Of Spades. Tutto prevedi- Karen O (Yeah Yeah Yeahs) bilissimo, ma come poteva essere altrimenti? Pubblico soddisfatto e divertito, ecco quel che conta. Intanto sull’altro palco ha da poco cominciato Why?, che si presenta accompagnato da d u e m u s i c i s t i e c l e t t i c i . Yo n i Wolf tiene il palco molto bene, riesce a coinvolgere gli spettatori nelle sue storie senza risultare inopportuno, la sua miscela di hip hop, indie ed elettronica è davvero niente male, e i brani da Elephant Eyelash on stage, densi di vibrazioni Radiohead, convincono ancora di più: promosso. Poco dopo si torna indietro al main stage per la pura curiosità di vedere in azione uno dei gruppi più chiacchierati, i Babyshambles dell’illustre d r u g k i d P e t e D o h e r t y. E s i b i zione che conferma tutte le voci sul personaggio, nonché i peggiori cliché sulle rockstar maledette: inevitabili pose a parte, l’impressione è che questi ragazzi, pur dignitosi su disco, vivano un po’ troppo alla lettera l’avventura dello s t a r d o m . L’ e s i b i z i o n e è i n d e gna sia da parte di Doherty (praticamente afono, e quando suona la chitarra è anche peggio) che del resto della band: si inizia con un paio di brani dei Libertines, si termina con l a h i t F u c k F o r e v e r, i n m e z z o , il nulla, tra evidenti problemi tecnici (un guasto alla seconda chitarra che nessuno risolverà) e incapacità di gestire la situazione. Un disastro, a esser buoni… Arriviamo così all’ultimo concerto di questa prima giornat a , i r i t r o v a t i Y o L a Te n g o , c h e svolgono in modo eccellente il ruolo di headliner della serata, spaziando con efficacia da vecchi successi a brani nuovi dell’album atteso per metà settembre. Ecco che alle note Little Eyes, Stockolm Sindrom e e To m C o u r t n e a y s i a l t e r nano, in una grande varietà di stili, cavalcate kraut in odore di Neu!, violenze chitarristic h e S o n i c Yo u t h / N e i l Yo u n g (il cui minutaggio spesso varca i dieci minuti), passando per pop song pianistiche, e u n p a i o d i b a l l a t e Ve l v e t U n derground. Ispirati, compatti, coinvolgenti, sanguigni: grande band (ma questo si sapeva già) e grande concerto, nonché ottima speranza per il nuovo disco. Ve n e r d ì 2 G i u g n o Oggi è il debutto del palco principale del festival, l’Estrella Damm, un compito a f f i d a t o a g l i Ye a h Ye a h Ye a h s di Karen O. Avvolta in un vestitino dai colori sgargianti, in puro punk-geisha style, la frontwoman salta, ancheggia, urla e si dimena per un’oretta buona, l’impatto anche visivo è innegabile, eccezion fatta per qualche brano (sia l’ultima hit Gold Lion che i pezzi wave più feroci del primo album) che a lungo andare fanno prendere alla noia il sopravvento. Sul palco più indie poco dopo ecco ritroviamo il “solito” Jens Lekman. Stavolta il Jonathan Richman svedese si è portato dietro una band tutta al femminile, sei donzelle poco più sentireascoltare 97 che adolescenti divise tra tastiera, basso, batteria e una sezione fiati di tromba, trombone e sax. Il repertorio viene riarrangiato sulla falsa riga di big band di pop orchestrale anni 50-60: ecco una rilettura c a r a i b i c a d i H a p p y B i r t h d a y, Dear Friend Lisa.., o una vers i o n e q u a s i s o u l d i D o Yo u R e member The Riots, frammiste al solito pezzo in solitaria con l’ukulele e un paio di brani nuovi, uno con Isaac Hayes a fare da padrino e l’altro somigliante al classico r’n’b Heatwave. Carino. Sul palco principale si stanno esibendo i redivivi Killing Joke. Lo spettacolo è senza dubbio efficace, anche se la storica band pare aver aggiornato il suono dell’industrial rock metal ai canoni del nu metal, ma la scelta in questo contesto appare quasi un’evoluzione naturale. Colpisce la teatralità di Jaz Coleman in comunicazione con il pubblico, sorta di Alice Coper + Ian Curtis, un perfetto istrione, uno spettacolo nello spettacolo È la volta di Isobel Campbell. La signorina ha indubbio carattere, è evidente anche sul palco lo sforzo di costruirsi un’identità artistica rispettabile all’insegna del country folk d’autore, ma alla lunga il suo set lascia più perplessità che altro. Anche se si è porta dietro una leggenda indie scozzes e c o m e l ’ e x Va s e l i n e E u g e n e K e l l y, l a s c e l t a d i u s a r l o c o m e “rimpiazzo” di Lanegan per i brani di Ballad Of The Broken Seas non convince affatto (e il loro estemporaneo duetto su Time Wastin’ di Johnny Cash e June Carter fa più che altro sorridere). Da questo punto di vista, la chiusura concerto con Son Of A Gun è però un momento da incorniciare. Mentre Isobel imbraccia il suo violoncello, al Rockdelux è il t u r n o d i R i c h a r d H a w l e y. L o show è brillante, in bilico tra gli amati fifties del norvegese Sondre Lerche (adorabile presenza dello scorso anno) e il c r o o n i n g d i S c o t t Wa l k e r, p a s sando per la lezione di Neil Hannon, ovvero Divine Comedy (anche lui grande star dell’edizione del 2004), e naturalmente per le maniere dei Pulp. Eppure, a differenza di tutti loro, il cantautore si ritaglia uno spazio più rock, convincendo i presenti con una scaletta tra il mid e l’uptempo, con qualche momento dai sapori gilmouriani. Lemmy (Motorhead) Si aprono, oggi, anche le porte dell’Auditori, ovvero il futuristico teatro al chiuso che ospita parte dei concerti. Tra gli appuntamenti, che hanno penalizzato non poco gli show pomeridiani di Final Fantasy e José Gonzales, troviamo in serata il set semi acustico dell’ex leader dei Tindersticks, Stuart A. Staples. Sul palco sono in cinque (i sodali N e i l F r a s e r e D a v i d B o u l t e r, e i n u o v i c o m p a g n i Ya n n Ti e r s e n e Te r r y E d w a r d s ) a r i c o p r i r e quasi per intero le scalette dei due recenti album solisti, e il risultato live non è che la naturale prosecuzione del mood del gruppo. I presenti, accorsi numerosi, s’aspettano una gran performance vocale e sotto questo aspetto Staples non tradisce: timbricamen- 98 sentireascoltare Shellac te ineccepibile, sospeso tra i consueti umori romantico-melanconici e un compiacimento da chansonnier noir consumato , il crooner canta con tono limpido e sinuoso, romantico e adulto i brani di Lucky Dog Recordings 03-04 e Leaving Songs, risultando a tratti persino trascinante, concitato, cosa che nelle registrazioni accade veramente di rado. Il pubblico (anche il più esigente) applaude. L’ a v v i c e n d a r s i dei concerti è serratissimo, e in contemporanea sul main stage è finalmente il turno dei redivivi, e molto attesi, Dinosaur Jr . La scelta di munirsi di tappi per le orecchie risulta più che saggia, visto lo spietato assalto di decibel. Il concerto si regge tutto sulla dinamica antagonista tra J. Mascis e Lou Barlow: tanto pacioso (ma comunque leader) il primo, tanto infuocato e bellicoso il secondo, che ha spesso dominato la scena massacrando il basso e urlando al microfono. Il live, breve ma tiratissimo, si è alimentato della tensione tra i due, mentre Murph si è rivelato batterista stratosferico, con una scaletta parecchio hard (una grande Kracked, un’infuocata Little Fury Things) salvo concessioni nel finale alle “hit” Just like Heaven e la sempreverde Freakscene. Poco dopo riusciamo, anche se di sfuggita, a seguire il live delle Sleater Kinney: l’impressione è quella di una band che gira meravigliosamente, con il drumming di Janet Weiss sugli scudi. Resta poco tempo per quello che si rivelerà l’act più atteso e celebrato di tutto il festival, quello dei Flaming Lips. Uno spettacolo stupefacente, un carnevale in piena regola, con tanto di coriandoli, stelle filanti e palloncini lanciati al pubblico da un entusiasta Wayne Coyne, immerso in una scenografia coloratissima e attorniato da ballerini, ai lati del palco, vestiti da alieni e da babbi natale (un circo che include anche Captain America e Wonder Woman). In mezzo a tanti effetti speciali, il leader è come un bambino nel suo parco giochi preferito: indossa mani giganti per Free Rad i c a l s , f a c a n t a r e Yo s h i m i … a una bambola con le sembianze di una suora, si trastulla con una telecamerina posta all’altezza del microfono, collegata ad un maxischermo alle sue spalle, gioca con il pubblico per tutto il concerto, mostrandosi sinceramente stupito dall’accoglienza calorosissima degli spagnoli e facendo - secondo prassi collaudata - loro intonare i finali delle canzoni, ripresi ad hoc dal piano... Insomma, non troppo diverso da quello che sono stati gli s h o w d e g l i u l t i m i t o u r, m a a s sistere di persona è un’esperienza lisergica e avvincente, che pesca nel passato recente ( R a c e F o r T h e P r i z e , D o Yo u R e a l i z e ? e l e u l t i m e Ye a h Ye a h S o n g , Ve i n O f S t a r s e T h e W. A . N . D . ) , p i a z z a n d o i n c o d a perfino una cover dei Black Sabbath, ovviamente dedicata a Bush. Peccato per la man- sentireascoltare 99 Sleater Kinney al Rockdelux Stage cata inclusione di Bohemian R h a p s o d y. Vo t i i n e v i t a b i l m e n te alti a fine concerto, con la certezza che i prossimi show italiani di Ferrara e Roma potranno essere anche meglio. È ormai notte fonda, ma c’è ancora tempo per Animal Collective e Robocop Kraus. Questi ultimi, che chiudono gli spettacoli nello stand Rockdelux, sono una formazione di Norimberga poco famosa in Italia (qualcuno li avrà visti protagonisti di un videoclip d a l a t e n i g h t s u M t v, i n c u i i l cantante imita smaccatamente Ian Curtis, sia nelle movenze che negli sguardi alla telecamera), che il pubblico del festival invece dimostra di conoscere e apprezzare. Il sound - manco a dirlo - è post-punk e wave, ma dal vivo il gruppo assume anche i connotati di una rock’n’roll band, sulla falsariga degli Hives (senza però possederne la concisione e il glamour). Da questo gioco al rimpallo non poteva che venir fuori una tracklist derivativa e neppure parca di momenti 100 sentireascoltare trash, che ha visto protagonisti il paffuto chitarrista e l’ossuto cantante, animali da palcoscenico sì, ma nel senso più stretto del termine. E a proposito di Animali, il set di Panda Bear e soci risulta snervante e un po’ fiacco nella prima parte, in cui dominano momenti free basati essenzialmente sulle percussioni: un sabba in cui i ragazzi si scatenano, suscitando in un primo momento tiepide reazioni nel pubblico. La destrutturazione lascia poi il posto alla costruzione della forma canzone e quando parte il canto, l’audience è più partecipe. L’ i m p r e s s i o n e è q u i n d i m i g l i o re e si comprendono maggiormente i meccanismi di composizione. Il giudizio resta in sospeso, ma il finale, con la improvvisazione di I Just Call e d . . d i S t e v i e Wo n d e r, è d a incorniciare. Sabato 3 Giugno Forti dell’esperienza dell’anno scorso, siamo un po’ preoccupati per i concerti che si ter- ranno oggi all’Auditori, ovvero il futuristico teatro al chiuso che ospita parte dei concerti. E invece nessun problema per assistere allo show pomerid i a n o d i Va s h t i B u n y a n , c h e s i concede per breve tempo, ma sufficiente per farsi un’idea. La signora inglese è come ci si aspetta: timidissima e apparentemente fragile, non certo avvezza al mestiere che ha ripreso a fare, la cui sola sicurezza è quella voce, sottile sottile come le sue canzoni. Nonostante l’impaccio, il concerto si snoda bene, merito non solo dei brani in sé (innegabile la loro caratura, quasi sempre buona malgrado l’inevitabile monotonia: metà sono dediche ai figli, l’altra metà sono storie di 40 anni fa finite male), ma anche dei musicisti che la accompagnano (piano, violoncello, violino e chitarra, per arrangiamenti in stile Joe Boyd). Intanto al Danzka Cd Drome è cominciato il live degli Akron / F a m i l y, b a n d s u c u i ( c o m e Wayne Coyne (Flaming Lips) per NNCK) si è già quasi detto tutto. Basti sapere che anche in un contesto più dispersivo, come quello di un festival, sono riusciti a coinvolgere i presenti, rimasti estasiati, convincendo laddove gli Animal Collective ci avevano invece lasciati perplessi. I protetti di Gira sono sicuramente più “musicisti” e possono contare su un’alchimia invidiabile, sapendo esattamente come, dove e quando dosare l’improvvisazione ai momenti più suonati e quelli, irresistibili, “corali” (highlight assoluto la versione di Future Myth). Un’altra band che su palco ha più che soddisfatto. All’Auditori è il turno degli Shellac. Steve Albini, il produttore più famoso dell’indie rock, veste nuovamente i panni di leader del power trio (ins i e m e a i f i d i c o m p a g n i To d d Trainer e Bob Weston) più matematico e rabbioso che conosciamo, invitando il pubblico a fare domande tra un brano e l’altro. Dietro quest’operazione, in realtà, c’è tutto il cini- smo di Albini: fare una pantomima con l’audience a mo’ di comizio, il corrispettivo fintamente dialettico di suono che non ammette repliche tanto è compatto, ringhioso e incorruttibile. Per intenderci, gli Shellac sono degli anti-Dinosaur Jr: mentre i secondi sono caotici e in continuo dialogo/ s c o n t r o t r a M a s c i s e B a r l o w, rabbia scazzona e amicizia, qui la disciplina, l’ordine e la gerarchia dominano sovrane. E se tanta determinazione alla fine mostra un po’ il fianco, la perizia del suono vince e la bilancia pende in netto favore degli Shellac, che attendiamo con fiducia su disco per l’autunno. Nel frattempo, sul palco principale si esibiscono i redivivi B i g S t a r. L’ e ff e t t o n o s t a l g i a è dietro l’angolo, ma Alex Chilton e i suoi nuovi compagni (della formazione originale c’è solo Jody Stephens, mentre il resto del lavoro è fatto dagli ex Posies Jon Auer e Ken Stringfellow) schivano l’ostacolo e imbastiscono un set di soft rock più che dignitoso, alternandosi al canto e presentando, oltre agli storici (una sempiterna Feel, The Ballad Of El Goodo e Thirteen dal primo disco, poi Back Of A Car), qualche brano del recente In Space. Nessuna grande pretesa, solo oneste canzoni di classic rock, per nulla invecchiato male. In più Chilton, che somiglia a una versione pulita di Keith Richards, pare divertirsi come non mai.. cosa chiedergli di più? Dopo aver appreso che il live d e i Te l e v i s i o n P e r s o n a l i t i e s è saltato (per il secondo anno di fila…), al main stage ci attende uno degli show più attesi dal pubblico del festival, quello di Lou Reed. Se da un lato c’è conferma di quanto espresso nel recente tour invernale, dall’altro non mancano alcune - piacevolissime - sorprese. Un Reed divertito ed estremamente a suo agio usa le canzoni come improvvisazoi aperte, per dare spa- sentireascoltare 101 zio ai suoi rodati musicisti (in special modo il bassista Fernando Saunders e il batterista To n y T h u n d e r S m i t h ) , i n s e r e n dosi qua e là con la sua solista, come sempre caciarona e dissonante, e un ragazzetto occhialuto a processare il suono in diretta. La scaletta riserva le sorprese maggiori, con delle inaspettate zampat e a n o m e Ve l v e t U n d e r g r o u n d (I’m Waiting For The Man, White Light White Heat e Jesus) e un must come Coney Island Baby arrangiata nel continuum Songs For Drella / Berlin. Lou, inoltre, risparmia anche le notoriamente svogliate versioni di classiconi tipo Sweet Jane, roba che è meglio non sentire. Pubblico ampiamente ripagato, e non poteva essere altrimenti. Stuart Braithwaite (Mogwai) A seguire i Deerhoof in scaletta, sul palco del Danzka, ci sono i Brian Jonestown Massacre, sestetto (ma la storia del combo è assai travagliata in quanto a presenze) sanfranciscoano, che della città mantiene intatti tutti i colori: 102 sentireascoltare acidi e psichedelici, con quel gusto rétro Sixties tra Grateful Dead e Rolling Stones. Eppure l’approccio è rock e se volete il canto - confidente e emotivo - richiama gli Ottanta nasali di certo Mark Hollis. Stiamo sognando? Forse, ma sicuramente c’è una buona dose di folk lunatico e storto qui, e quelle code rincorse in groppa alle chitarre selvagge portano dalle parti dei Bardo Pond, alla psichedelia dunque, grande protagonista del festival. Persi nel loro mistico fluire, i Brian Jonestown Massacre sono un branco di hippy genuini e strampalati, una band solida, da riscoprire, confermati da un pubblico numeroso e catturato quasi allo stesso modo che per i deragli p s y c h - n o i s e d e g l i Y o L a Te n go. Long live to Frisko! Quasi mezzanotte: è il turno dei Violent Femmes sul palco principale. I tre si confermano anzitutto dei grandi intrattenitori, e più che da Gordon Gano (un po’ defilato, ma comunque presente quando serve), la maggior parte della scena è dominata dall’ineffabile Victor De Lorenzo e dal pirotecnico Brian Ritchie. i Femmes non si risparmiano di certo, snocciolando quasi tutti gli episodi dell’esordio (una Blister In The Sun giocata subito in apertura e una strepitosa Kiss Off in chiusura, con in mezzo Gone Daddy Gone, Please Do Not Go, Add It Up) e altri più “rumorosi”, come American Music, aiutati da alcuni turnisti ai fiati, alle tastiere, al banjo e alla chitarra (laddove richiesto). C’è perfino un momento in cui l’ensemble si trasforma in un’orchestrina bluegrass, con la sorella di De Lorenzo, Silvia, a impersonare la Emmylou Harris di turno...insomma, una grande festa come per i Flaming Lips. A dir poco entusiasmante. A questo punto potremmo ritenerci sazi, ma al Rockdeluxe stage c’è il tempo di gustare gli Stereolab. Laetitia Saeder sul palco è una presenza deliziosa ed elegante, e la sua band riesce a ricreare alla perfezione le sofisticate trame dei dischi, senza far perdere un grammo della catchyness dei brani, per la maggior parte recenti, a sottolineare l’apparentemente eterno stato di grazia della band inglese. Maniera? Sì, ma anche classe infinita. Il concerto di chiusura del main stage (e, virtualmente, del festival) è affidato ai Mogwai, che dal vivo continuano ad essere un act efficace, specialmente se aiutati da una location e da un’acustica favorevoli. Si possono così percepire appieno le sfumature, i vuoti, i pieni, i crescendo di cui si compone il suono, il tutto amplificato da un light show davvero suggestivo. Loro non rinunciano a sfoggiare la solita indole cazzona, portandosi a casa un risultato notevole, in un contesto che valorizza, o l t r e a g l i s t o r i c i ( s u t u t t i Ye s I Am A Long Way From Home Boredoms e Mogwai Fear Satan, nonché Summer), anche lo stallo dei brani più recenti. E a giudicare dalla risposta del pubblico, è lecito pensare che tra altri dieci anni li avremo ancora tra i piedi, i Mogwai... Ma non è finita qui: a notte inoltrata il Danza ospita una band attesa ansiosamente dagli ascoltatori più stravaganti e sperimentali. Caratterizzate dalla commistione tra noise, istanze psichedeliche e avant, le composizioni dei Boredoms trovano in questo set una mirabile sintesi sotto la ritual i t à e p e r c u s s i v i t à d e l Ta i k o (recentemente riscoperto anche dai Liars), una tradizione trasposta in una jam ipnotica, estenuante, con tre batterie disposte a Y e un organista sciamannato dietro le quint e ( . . . o v v i a m e n t e Ya m a t s u k a Eye), che esce dalla console, tra un fraseggio circolare e un’acida improvvisazione, per declamare in lingua originale quelle che sembrano frasi da mercato del pesce in movenze a n t i Ta i - C h i . C’è posto pure per una svirgolata in techno-samba a metà d e l s e t ( Yo s h i m i P - W E s i s t a c ca dalla batteria per impugnare un sequencer con una base sincopata e degli effetti), ma poi si ritorna nella giungla percussiva. Insomma, ora più che mai diventa una sfida: fermarsi per sentire, per vedere cosa accadrà dopo quella fitta coltre di battiti, quasi tutti studiati. E quella fine sembra non arrivare mai e noi, stacanovisti più di loro, a rimaner lì inchiodati, impassibili nel farci massacrare le orecchie da un’esperienza che si trasforma in un autentico sballo nippo-lisergico. Non c’è che dire, i giapponesi sono maestri di rigore e autolesionismo e meglio non avrebbero potuto dimostrarlo. La bella voce del disco si trasforma in un’oca strozzata (o in una gatta in calore, a voi la scelta) e le sue movenze non sono proprio da libellula. Fortunatamente, la musica è quella che si sente sul buon album dei due: i groove coinvolgono, il pubblico balla e se alle cinque del mattino nessuno capisce molto cosa ci sia dei Kraftwerk nella techno dell’orchestra delle bollicine, è giusto così. The infinite beat is going on... and on.. and on... Ultimo passaggio obbligato, solo perchè in direzione dell’uscita, allo stand dove si stanno esibendo Ellen Allien e Apparat. La Allien si cimenta al canto e dal vivo è pietosa. sentireascoltare 103 dal vivo Angelica 2006 Ritorna Angelica. Il festival internazionale di musica d’avanguardia e d’improvvisazione riprende il suo corso, ma con un volto nuovo: non più un festival concluso in sé, ma una sigla che lascia aperte nuove prospettive, non limitata nel tempo e pronta ad accogliere in qualsiasi momento i “suggerimenti” e le suggestioni del mondo musicale La sedicesima edizione non è stata delle migliori, ma è bastato il signor Anthony Braxton a infiammare l’atmosfera. Momento Maggio Angelica ricomincia da sedici di Daniele Follero Angelica ricomincia da sedici. Erano tante le attese riguardo a uno dei festival di musica improvvisata più importanti d’Italia. Il punto interrogativo con cui si era conclusa la scorsa edizione aveva lasciato tutti un po’ con il fiato sospeso. I problemi economici (ribaditi ed evidenziati, peraltro, anche quest’anno) uniti a un crescente disinteresse delle istituzioni per iniziative culturali “di nicchia” (che proprio per questo non riescono ad uscire da un ambito molto ristretto) avevano fatto pensare al peggio. E invece Angelica è tornata. Per restare. Abbandonata nella sostanza la struttura di festival come evento circoscritto, la sigla comparirà a più riprese nel corso dell’anno, attraverso una varietà di iniziative più o meno ampie, sul modello delle giornate in passato dedicate ad artisti come Heiner Goebbels e Karlheinz Stockhausen. In questo modo, come sottolinea il direttore artistico Massimo Simonini, “le possibilità espressive di una 104 sentireascoltare realtà come Angelica si estendono, nel tempo, considerando quello che ci viene ‘offerto’ momento per momento”. Una fase di transizione, di trasformazione, in cui il classico appuntamento di maggio non scompare, ma diviene il fulcro, il perno di un’attività più vasta. Anche quest’anno, la collabor a z i o n e d e l Te a t r o C o m u n a le di Modena ha confermato la grande apertura dell’ente lirico modenese nei riguardi delle musiche contemporanee, trascinato dal “coraggio” del direttore artistico Aldo Sisillo, impegnato da anni nel compito di “svecchiare” il pubblico d e i Te a t r i d ’ O p e r a . P r o p r i o S i sillo ha aperto, nei panni di musicista, la sedicesima edizione del festival (ma Simonini preferisce parlare di anni, più che di edizioni), quest’anno intitolata Momento Maggio, dirigendo un’ opera inedita del giovane compositore statunitense Eyvind Kang. Il Comunale era pieno, ma per un evidente motivo: una delle due voci soliste era Mike Pat- t o n . L’ e x F a i t h N o M o r e , s e m pre più poliedrico e disperatamente in cerca di conferme per candidarsi ufficialmente ad essere il successore spirituale di Demetrio Stratos, ha creato delle attese che però non si sono risolte in niente di particolarmente entusiasmante. Cantus Circaeus, scritta per coro, ottoni, chitarra e due voci soliste su testi di Giordano Bruno, John Scotus Erigena, Marbodo di Rennes e Pietro D’Abano, è un’opera un po’ deboluccia. Non bastano le belle parti corali à la Ligeti e le “plastiche” interpretazioni dei testi di Patton e Jessica Kenney ad evitare la piattezza dell’insieme. Troppi applausi. Dopo la “trasferta” a Modena, Angelica è ritornata a giocare i n c a s a l ’ 11 M a g g i o . M a n e a n che l’esordio tra le mura amic h e d e l Te a t r o S a n L e o n a r d o , ormai sede stabile del festival da anni, è esaltante. Michel Doneda e Fabrizio “Abi” Rota basano tutta la loro improvvisazione sul soffio. Il sax di Doneda dialoga con i suoni campionati, che spesso sono Anthony Braxton i suoi stessi soffi. La tecnica di emissione del sassofonista francese, che evita accuratamente di emettere suoni pieni, limitandosi a soffi, soffocati ancor prima di diventare vibrazioni sonore, è d’impatto, l’idea di fondo è bella, ma che fatica l’ascolto! Diverso il discorso per il progetto Camera Lirica di Domenico Caliri, già noto al pubblico di Angelica per altri suoi progetti, tra cui lo Specchio Ensemble. In questo caso l’ampia formazione orchestrale messa in campo contrasta con la monotonia timbrica dell’esecuzione precedente. I musicisti (tutti, o quasi, giovani strumentisti bolognesi) suonano con generosità, ma le composizioni di Caliri, rivisitate per l’occasione e dirette da lui stesso, solo qualche volta forniscono spunti interessanti, e quasi sempre nei momenti dedicati all’improvvisazione. Inutile negare che a rappresentare la punta di diamante di questa edizione di Angelica è stato il signor Anthony Braxton, sia nelle premesse che nel risultato. E’ stato lui a ridare vita alla grande improvvisazione dopo la delusione dell’anno scorso con il “siparietto” di Archie Shepp. Braxton è semplicemente unico. Unico nello stile, dalle infinite dinamiche e dall’esaltante espressività; unico nella creatività, sempre pronto a superarsi e a competere con la sua stessa musica. Non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte un musicista così “aperto”, dalle imprevedibili soluzioni. Il sassofonista statunitense è arrivato a Bologna per duettare con un suo vecchio amic o , R i c h a r d Te i t e l b a u m , c o n o sciuto soprattutto per la sua partecipazione al collettivo d’avanguardia Musica Elettronica Viva (Alvin Curran, Friederic Rzewski). Dopo gli esperimenti di un tour assieme nel 1970 e altre collaborazioni seguenti, jazz e avanguardia elettronica si sono uniti ancora una volta per dare vita ad una performance sensazional e : Te i t e l b a u m c o n s i n t e t i z z a tore e campionatore a fare da sfondo ai monologhi di un Braxton in ottima forma. Una musica che naviga tra fluidità e increspature, che gioca con le sfumature, soprattutto quando il tastierista campionandone i suoni mette il sassofono di ma l’estrosità dei due musicisti. In questi casi viene da dire: “Grazie di cuore”! Angelica continua, io mi fermo qui. Il mancato dono dell’ubiquità non mi ha permesso di assistere né al trio Brötzmann (altro grande e storico j a z z i s t a ) - P l i a k a s - We r t m ü l l e r, né al classico workshop angelichiano, questa volta affidato a Lawrence “Butch” Morris, da anni impegnato nelle sue Conduction, orchestrazioni fronte alla sua stessa musica, dopo averla soltanto accompagnata. Braxton contro Braxton: una sfida imperdibile, un faccia a faccia con se stesso, un continuo rispondere alle proprie provocazioni. L’ i n tensità che i due riescono a mantenere per più di un’ora di concerto è incredibile e lascia col fiato sospeso quando l’ultimo suono si spegne e i due abbandonano il palco accompagnati da un vero e proprio “boato” del pubblico. C’è ancora spazio per un divertente quanto breve bis, che confer- che utilizzano un particolare “vocabolario” fatto di gesti e segni del tutto originali e condivisi con i musicisti. Un’operazione, per intenderci, simile a quella del Cobra Ensemble di John Zorn, che aprì la scorsa edizione del festival. Dunque, anche quest’anno la bell’Angelica ha vinto la sua sfida, difficile e provocatoria, di far emergere dal loro piccolo mondo musiche che hanno tanto da dire e che avrebbero bisogno di più spazi per farlo. Una sfida che continua, più viva che mai. sentireascoltare 105 dal vivo Mudhoney - Circolo Degli Artisti, Roma (20 maggio 2006) Si ha la sensazione di fare un viaggio nel tempo, la sera del c o n c e r t o d e i M u d h o n e y. U n viaggio a ritroso di soli quindici anni, ma sembra già un secolo: era il tempo di Seattle “capitale” del grunge, il tempo di band che ripescavano vecchi suoni per trarne linfa vitale, era il tempo dei Nirvana, d e i M e l v i n s e d e i M u d h o n e y, per citare solo alcuni dei più rappresentativi. I Mudhoney sono sempre stati il gruppo più incline al garage e al rock’n’roll, con frequenti sbandate nella psichedelia e nel rock acido dei ’60, eppure riescono ancora oggi a suonare freschi e monumentali, neanche fossero i primi a costruirsi una poetica sulla distorsione. Il concerto è una sorta di greatest hits, con tutti i brani giusti al momento giusto: si apre con Suck Yo u D r y, t a n t o p e r c h i a r i r e l e idee, si spara qualche cartuccia dall’ultimo – prescindibile – Under A Billion Suns (Where Is The Future, un pezzo dedicato a Bush), qualche puntata anche per il precedente Since We’ve Become Translucent, come Where The Flavor Is e Sonic Infusion, private dei fiati e degli altri effetti che negli ultimi due dischi hanno variegato il sound granitico della band. In breve, è una versione rozza dei Mudhoney quella sul palco, la più vicina alle loro origini probabilmente. All’appello non mancano gli anthem che hanno f a t t o s t o r i a , d a To u c h M e I ’ m Sick a Here Comes Sickness, 106 sentireascoltare dalla semi-ballad If I Think a S w e e t Yo u n g T h i n g A i n ’ t S w e e t No More, un’orgia di riff iperdistorti della premiata ditta A r m / Tu r n e r, c o n l ’ i n c o n f o n d i bile voce del primo che si staglia sopra il caos. Il pubblico, accorso in massa, gradisce e poga forsennatamente, è stata davvero la serata giusta per sfoggiare camicie di flanella e capelli lunghi (per chi se li può permettere). Un’ora e mezza in marcia verso ilfuzz, come titola un’ottima compilation del quartetto: ad una tum u l t u o s a I n t o Yo u r S h t i k e a d una furente Hate The Police l’onere di chiudere. Italo Rizzo Kronos Quartet – Auditorium Parco della Musica, Roma (26 maggio 2006) Più che dei musicisti, i quattro membri del Kronos Quartet danno l’impressione di essere degli artigiani. Dal loro approccio alla musica trapela una sapienza ed una maestria che trascende la mera padronanza tecnica dello strumento. La loro esperienza pluritrentennale si fa sentire tutta, e altrettanto evidenti sono i trascorsi nei generi musicali più disparati e le collaborazioni con artisti di tutto il mondo. La scaletta infatti vede affiancati indifferentemente artisti americani, indiani, nord-europei, tutti accomunati però da una concezione altra della musica. E proprio in una dimensione altra il pubblico verrà trasportato dal quartetto che, tra affiatate prove d’insieme e virtuosismi solisti al limite dell’onomatopea, produrrà ogni genere di suono e d’atmosfera. Paradossalmente queste enormi potenzialità espressive, di c u i n e b e n e f i c i a n o Va s k s c o n una commovente esecuzione del suo Quartetto n.5 e i Sigur Ros (Flugufrelsarinn) scongelati da un insolito arrangiamento esotico, non riescono pienamente a decollare nei brani in cui delle basi elettroniche o archi preregistrati vengono aggiunti per completare il sound del gruppo. Ad esempio la suite dalla colonna sonora di Requiem For A Dream non risulta convincente e coinvolgente come nella versione originale, per via della poca compattezza e delle ritmiche elettroniche povere della giusta grinta. Anche le versioni di Xploding Plastix (The Order Of Thing s ) e Te r r y R i l e y ( V e n u s U p stream) sembrano un po’ stanche, mentre come apice della serata si staglia nettamente Narayan dell’indiano Raga Mishra Bhairavi. In questo pezzo i due violinisti passano a strumenti tradizionali indiani, creando un drone su cui la viola emergerà con un assolo intensissimo, che fa rimanere a bocca aperta il pubblico per le sfumature quasi vocali che riesce a produrre. Forse il punto debole del concerto è la scaletta presentata secondo un criterio “classico”, ovvero come una semplice raccolta di diversi pezzi separati (quasi cozzano ad esempio le parafrasi dei lieder di Mahler e i vari riarrangiamenti di pezzi elettronici), e non come un insieme unitario pensato per coinvolgere e guidare lo spet- tatore dall’inizio alla fine. Tuttavia, grazie a questa libertà d’azione, il Kronos Quartet ha lasciato il palco con un’incendiaria riproposizione dell’inno americano nella versione woodstockiana di Jimi Hendrix che ha lasciato sbigottito il pubblico, travolto da un vortice noise creato completamente in acustico! Petit Orb - Teatro Juvarra, Torino (11 maggio 2006) Nell’ambito della manifestazione Musica 90, approdano a To r i n o g l i O r b v e r s i o n e p o c ket. Niente di meglio per la chiusura dell’attività live dello s t o r i c o Te a t r o J u v a r r a ; l ’ u n i c a incognita è se Paterson e Fehlmann opteranno per un’esibizione ambientale e visionaria o preferiranno far muovere il pubblico con un set più danzereccio pescando dall’ultimo Okie Dokie. La partenza è altalenante: si fatica a capire che direzione prenderanno tra beat sincopati squarciati da droni space-tronici e imbarazzanti divertissement (tra cui una tremenda Barbie Girl). In più manca totalmente il supporto video. e il palco illuminato con due signori di mezza età che scherzano e ancheggiano a r m e g g i a n d o c o n m i x e r, p i a t t i e laptop non è il massimo del trip. Ma i Nostri non ci mettono tanto a scaldare la platea, pezzi come Captain Korma e Cool Harbour sono decisamente coinvolgenti e si inizia a vedere gente dimenarsi sulla sedia, quindi alzarsi e andare a ballare nei corridoi laterali. E’ un processo lento e inesorabile, che svuota la platea e riempie i corridoi e infine straborda sotto il palco. La presa della Bastilia da parte dei disco dancers ristabilisce l’equilibrio, il pubblico balla e si diverte, senza più guardare gli artisti che ripren- Baustelle Andrea Monaco dono il ruolo di invisibili dj. Si va ancora avanti con l’astronave Orb che lambisce le spiagge di Goa, incrocia il dirigibile kraut, oltrepassa le dell’ascoltatore. Una disamina seria di questo percorso richiederebbe pagine e pagine, ma il concerto in questione ne è un’ottima rappresentanza, To w e r s O f D u b e s f r e c c i a v e r so la galassia Delta MK II in un viaggio spazio-temporale che unisce trance e industrial, musica etnica e avanguardia, psichedelia e techno. In campo elettronico il pubblico, per sua natura giovane e alla ricerca continua dell’hype, spesso trascura il passato. Un fenomeno che genera fraintendimenti su quello che appare come innovazione mentre spesso non è che semplice revival. Un’esibizione come quella degli Orb, pur non proponendo niente di rivoluzionario, non può che essere salutare, soprattutto per chi ai tempi di U . F. O r b n e a n c h e a v e v a i l p e r messo per mettere piede in un d a n c e - f l o o r. come un ideale punto d’arrivo (momentaneo, per lo meno). Nello spazio solista Fripp ha mostrato com’è riuscito a trasformare completamente il suo strumento: le soundscapes, naturale evoluzione delle frippertronics di Eno, ridefiniscono la chitarra come generatore di suoni, capace di riprodurre il timbro di qualsiasi strumento (archi e campanellini tra i tanti che è possibile ascoltare); inoltre i vari filtri a p p l i c a t i , c o m e e c h o e d e l a y, non lasciano trasparire il suono nudo e puro delle corde neanche le poche volte che fa capolino nell’esecuzione. Il risultato finale è quello di un vero e proprio oceano di suono, le cui onde, seguendo un ritmo respiratorio, si ritirano e s’infrangono dal musicista agli spettatori. Oltre al suono in sé, Fripp ha anche rivoluzionato l’approccio prettamente tecnico, partendo sin dalla postura e dal plettraggio. Con la sua scuola fondata nel 1985, il Guitar Craft, ha voluto condividere queste sue conoscenze. La League Of Crafty Guitarists è un ensemble acustico, con cambiamenti continui di Paolo Grava Robert Fripp & The League Of Crafty Guitarists (Roma, Auditorium Parco della Musica, 20 giugno 2006) Recensire un concerto di Robert Fripp è riduttivo ed incompleto per antonomasia: questo singolo evento costituisce pur sempre una tappa della sua lunga carriera, in cui ha stravolto l’approccio alla musica sia da parte del musicista che sentireascoltare 107 formazione, composto da suoi allievi. Già dall’entrata s’intuisce un atteggiamento non comune: con un semicerchio passano attorno al maestro, raggiungendo poi le postazioni seguendo una curva interna che richiama la linea che divid e l o y i n d a l l o y a n g n e l Ta o . E’ subito evidente che, aldilà di una mera difficoltà tecnica, è soprattutto il mantenere una precisa sincronizzazione che richiede la massima concentrazione dei musicisti. La forza d’insieme risalta soprattutto nelle circulations, in cui ognuno esegue una nota, seguito dal chitarrista accanto e così via, creando degli arpeggi che sembrano suonati da una singola persona. Da notare anche il modo in cui si muovono, simulando quasi un passaggio effettivo della nota da un manico all’altro, creando un curioso effetto “onda”. La maggioranza delle composizioni presenta caratteristiche crimsoniane, infatti in alcuni pezzi è possibile avvertire decisi richiami proprio a sezioni di brani dei King Crimson, che vengono sviluppate diversamente ed ampliate (inoltre nel bis viene eseguita Vroom/ Coda: Marine 475 da Thrak), ma non mancano divertenti escursioni nel folk, blues e rock’n’roll. Anche il pubblico è diverso in questo tipo di concerti: tutt’altro che nostalgico, ha accolto con ovazioni le musiche proposte, applaudendo meritatamente tutti i musicisti e non solo il maestro-feticcio. D’altronde l’ambient mistico proposto è un marchio di fabbrica di Fripp dagli anni ’70, e la League fa concerti dall’86, ma il Re Cremisi è riuscito ad ogni modo a stupire, dimostrando ancora una volta che la definizione di “dinosaur” della musica non gli appartiene. Andrea Monaco 108 sentireascoltare dEUS – Roma, Villa Ada (15 luglio 2006) La considerazione che sorge a fine serata è quanto siano rari eventi come questo. Quante poche volte, purtroppo, si trova un gruppo sul palco capace di coinvolgere davvero il pubblico dall’inizio alla fine, dosando brani tiratissimi, che sembrano trasmettere la stessa energia elettrica che fa vivere gli strumenti, e dolci ballate, in cui pure è impossibile rimanere fermi, traditi da ritmiche subdole che catturano gli arti anche nei momenti più calmi. Inoltre, quanto poco spesso è coinvolgente visivamente un concerto, senza l’ausilio di spettacolari supporti scenici, e che non sfoci in un mero esibizionismo. Una delle caratteristiche che rende unici i dEUS è un curioso senso della teatralità, forse più evidente e marcato nei primi tre dischi, in cui si aveva a che fare quasi con u n t e a t r o d e l l ’ a s s u r d o . E To m Barman è sicuramente il personaggio ideale per rappresentare in scena l’opera del gruppo belga, un cantastorie che non si può fare a meno di tenere d’occhio con sguardo incantato sia quando sussurra ballate come Serpentine, sia quando si scatena coi suoi compagni in furiosi muri di suono sonicyouthiani. Questo protagonista trova spalla eccellente nell’imperturbabile Klaas Janzoons, che potrebbe quasi sembrare parte della scenografia, se ogni tanto non raggiungesse i compagni al centro del palco straziando il violino con i suoi assoli, oppure suonandolo a tracolla come una qualsiasi chitarra elettrica. E dunque proprio questo fattore teatrale, che contrassegna tipicamente il gruppo belga, trova immediatamente sfogo nell’apertura con la tomwaitsiana Theme From Turnpike, le cui basi pre-registrate accompagnano i musicisti in pal- co, che poi sviluppano in crescendo il brano culminando in un’esplosione, azzeccato assaggio di quello che hanno preparato per mandare il pubblico a casa ben sazio. La scelta dei brani è impeccabile, con pochissimi momenti deboli, ampiamente compensati dalle altre eccellenti interpretazioni. Stupisce il modo di accostare brani antitetici, senza che l’equilibrio complessivo venga meno: con nonchalance, infatti, viene affiancato il punk-funk schiz o i d e d i F e l l O ff T h e F l o o r, Man a una versione straniante e d i l a t a t a d i W. C . S . ( F i r s t Draft), oppure il caos ordinato di Suds & Soda (penalizzata da un intermezzo strumentale più calmo e meno massiccio, che ha smorzato l’impatto del muro di suono originario) accoppiato con la bossa elettrica di Nothing Really Ends. Ancora a favore dei dEUS si può citare la padronanza tecnica, che permette di dare il giusto risalto alle melodie e di lanciarsi in sfuriate noise mai gratuite. Per non parlare poi dell’interplay tra le tre voci, che sanno alternarsi con precisione cronometrica o darsi sostegno l’un l’altra nei cori. Un concerto perfetto in cui anche ai brani del debole Pocket Revolution viene data una dignità pari a quella dei dischi precedenti, creando un amalgama unico e vivo, come un cocktail da assaporare in u n b a r, s o t t o i l m a r e . . . Andrea Monaco we are demo a cura di Stefano Solventi e Fabrizio Zampighi Side A Electro Plastic Box, ovvero giochicchiare col beat senza fare elettronica, flirtare col groove senza fare hip hop, dare libero sfogo al synth senza apparire pretenziosi, con l’idea fissa di rendere il tutto gradevole già a un primo ascolto grazie ad un approccio minimale che farebbe la felicità di titolari di produzioni ben più quotate. Il motore del combo si riscalda sui campionamenti di Intro T V . R a d i o . Te l e c o m m u n i c a t i o n per poi aumentare i giri sulle tessiture alla Kraftwerk di B. O. H., cedere al fascino delle scapicollo ritmico in Hate / Dj, indagare liquide profondità sintetiche in E’àùòì o incorrere nelle lascivie degli eighties più tradizionali mescolate a immaginari didgeridoo sintetici nell’inno Uk. Tracce ben organizzate quelle del gruppo, talvolta dall’aspetto terribilmente estemporaneo – se non addirittura improvvisato – tuttavia coinvolgenti e soprattutto abili nel portare a termine la missione assegnata loro, ovvero far muovere la testa al ritmo e divertire senza troppe pretese. (6.9/10) Treviso – USA e ritorno per i Metropolis, che a dispetto del nome fanno musica che poco ha a che vedere con le atmosfere oniriche e teatrali del film di Fritz Lang. Si tratta infatti di una proposta che si regge su trame strumentali robuste, chitarre distorte innamorate dei suoni grevi, wah-wah che intercettano linee di basso pulsanti, capace di aggredire gli spazi senza stancare, dimostrarsi lercia e selvaggia senza apparire ridicola. Te r m i n i d i p a r a g o n e p e r i l guazzabuglio deflagrante e il cantato mono-tono del grup- pieno dal conturbante e aggraziato incedere del cantato di Elisa Castelli, talvolta classica chanteuse alle prese con testi-fiume – Nel momento -, in altre occasioni più vicina a modelli musicali noti ma poco convenzionali come Antonella Ruggiero o Carmen Consoli po, quegli Stooges di Iggy “l’iguana”, chiamati in causa in più di un’occasione dalle strutture piuttosto elementari ed energiche dei brani – Drippingred -, certo funk folgorante in levare da dance floor – Frommyheadtomyfeet -, progressioni che non sarebbero dispiaciute a band come i Black Rebel Motorcycle Club – Dangerousgroud – e in generale un’attitudine che richiama in ugual misura l’hard dei primi Settanta e rock-blues dall’accento sudista. Il potere del riff in primo piano, verrebbe da dire, qui macinato a dovere da una band che dimostra di cavarsela alla grande, anche quando calca la mano – come nel caso di Timedown – su dissonanze conturbanti e oscillazioni dai sapori lisergici. (7.4/10) (Ninnananna). Sempre e comunque buoni i risultati complessivi della band, che con i cinque brani contenuti in questo demo pone solidi radici in un vissuto fatto di emozioni, esperienza diretta e senza vincoli, ricavandone melodie aggraziate dall’appeal immediato. (6.7/10) Un fluttuare di voce femminile posato su linee melodiche articolate, testi ragionati, arrangiamenti scarni ma curati in ogni dettaglio, virtuosi chiaroscuri fatti di deviazioni laterali e misurati apporti strumentali di chitarra acustica, batteria e poco altro. Folk obliquo ma gradevole quello di Palconudo, reso ap- Fabrizio Zampighi Side B I Crabway sono in quattro, stanno insieme dal ‘95 e si rifanno ad un’idea di rock principalmente eighties, con tutto quel compenetrare elettrico e sintetico, spigoli e vaporosità, romanticheria algida e minaccia sofisticata. Un po’ Japan, un po’ Propaganda, un pizzico di residua furia progressiv a Ye s : v e d i a t a l p r o p o s i t o i l funkettino algido di Weekend Lover ed il piglio affilato di Sweet Crystal, l’emblematica coppia che apre questo My Time. Più avanti i Nostri non mancano di bazzicare vibrazioni psichedeliche, pantomime folkloristiche e scorribande teatrali. La voce di Silvia mantiene il calore entro i ranghi di un flemmatico struggimento, molto poseur se vogliamo e quindi ben accor- sentireascoltare 109 data alle linee guida del progetto. Un progetto che non sa scrollarsi di dosso l’aria dilettantesca, che traballa quando più osa (le strane alchimie digitali nel funk di My Time, le aperture errebì in Control) ma che comunque e vivaddio osa, lasciando così intuire poten- sioni orizzontali, l’electro e il rock collassano nel transito delle sensazioni. Fai fatica a d i s c e r n e r e f r a m m e n t i Va n g e l i s o Massive Attack, Radiohead o Vincent Gallo, Bjork o Giardini Di Mirò, Juliette Lewis o Beth Gibbons... Sai che ci sono perché sta scritto negli di hip-hop sfibrato che va a rifugiarsi tra ruvide vibrazioni f u n k ( A g a i n ) . Va n n o p o i m e s s e nel conto una bossa capace di t r a v e s t i r s i p o p - p r o g ( Vo r r e i ) e quella specie d’intruglio lo-fi con additivo soul-psych e sfuriate Manuel Agnelli (Il dialogo), la quale sigillerebbe il zialità che qualche occhiuto produttore potrebbe mettere meglio a fuoco. Ideale chios a è l a c o v e r d i P s y c h o K i l l e r, dove l’insidia nevrastenica dell’ineffabile Byrne procede a passo d’uomo tra chitarrine volatili, organi e synth per una stilizzazione deliziosamente affettata. (6.3/10) “ingredienti”. La frammentarietà mimetizza l’origine, disorienta e incanta, crea l’artefatto nuovo. Il risultato è forse un po’ troppo distaccato e progettuale, si sente un bisogno quasi fisico di qualche grado centigrado in più. Ma la fusione, si sa, può accadere anche fredda. Bravi (7.0/10) Dietro l’egida Pinkie & S.A.D.E. si nasconde il sodalizio tra Andrea e Marco, all e s t i t o i n q u e l d i Ve n e z i a n e l 2004 per cospirare suoni elettroacustici che non disdegnino impronte rock. In occasione del progetto Untitled però decidono di non suonare alcunché e darsi al campionamento integrale. Messi da parte basso, tastiere e glockenspiel, realizzano un collage di trenta minuti coi tagli, ritagli e frattaglie del repertorio pop-rock più o meno recente. Tre tracce da dieci minuti esatti ciascuna, per le quali non c’è neanche bisogno d’inventare titoli. Minimal trip-hop, drum’n’bass e guizzi post-soul, riff alieni e vocalizzi sottomarini, pulsazioni pressurizzate e loop attoniti, chitarra jazz blues e vetrosa iridescenza. Mentre ascolti accadono esplo- E veniamo ai Sofia da Ancona. Anzi no, quello è il nome che sta scritto sul cd. Nel frattempo sono tornati all’antica rag i o n e s o c i a l e S i s t e r D e w. Il nome non è poi così importante, d’accordo. La musica viene prima. Ma un nome è anche e soprattutto identità, quindi attenti a non trascurare certi s e g n a l i . P o i m e t t i L’ i n t a n g i b i le voglia nello stereo e smetti di pensare a tutte queste bischerate: sei tracce più una, cantautorato e pop, post punk accartocciato soul, la franchezza indolenzita dei testi cantata con malferma intensità Greg Dulli (Dedica), quel disincanto indossato come una maschera a stemperare un languido malanimo Perturbazione (Scivola). E poi improvvise palpitazioni pop-prog a squarciare un ironico rovello Marlene Kuntz (Ieri). Ed un senso programma se non fosse per una ghost track che fa salire su un palco immaginario gli Afghan Whigs e i CSI. Ricapitoliamo: sono quattro ragazzi, maneggiano chitarre, tastiere, basso e batteria. Il cantante e leader canta come scrive, con un nodo tra stomaco, cuore e cervello che ogni tanto fa le capriole. Stanno organizzando un suono non banale attorno ad una sensibilità acuta, sanguigna, impudente. Si chiamano, almeno per ora, come una c a n z o n e d e i d E U S . Te n e t e l i a mente. (7.2/10) 11 0 s e n t i r e a s c o l t a r e classic Devo Evoluzione e de-evoluzione di una tra le band più importanti degli ultimi venticinque anni, dalle parole del suo fondatore Gerald Casale. Canzoni di protesta degli uomini post-moderni di Filippo Bordignon Devo è, senz’ombra di dubbio, un universo parallelo. Sulle pagine di My-space centinaia e centinaia di loro adepti si fanno ritrarre con addosso i celebri Energy Dome, copricapi portati in auge dal video del mega singolo Whip It (recita il testo “Non è troppo tardi / Per frustarla a dovere”). Oltre alle classiche spillette, magliette e cappellini Devopropone la maschera del bimbo de-evolut o B o o j i B o y, i l p u p a z z o c o n le teste intercambiabili della prima storica formazione, insieme a parrucche plastificate, picture discs a forma di astronauta e chissà quali altri feticci dispersi nei labirinti di E b a y. M a i s i e r a v i s t o u n t a l e spiegamento di merchandising per un gruppo di musica alternativa. Ma furono i Devo un gruppo di musica alternativa? Seminale di sicuro, vista l’infinita schiera di cloni e brutte copie che l’ascolto dei loro album riesce ancora a generare. Dall’esordio coi due singoli poi raccolti nell’Ep Be Stiff (Stiff Records, 1977) fino alla con- clusione della loro epopea con le fiacche uscite dei lavori di fine anni ’80 Devo ha mantenuto intatta l’irriverenza della propria visione artistica e una sprezzante acrimonia verso la mordacchia che il sistema discografico troppo spesso impone ai veri artisti. Il gruppo venne fondato col nome Sextet Devo (altri se li ricordano come Devolution Band) nel 1973 da Gerald Casale (classe ’48) e Mark Mothersbaugh (’50), compagni di università alla Kent State University (indirizzo artistico sperimentale) annoiati dal grigiume di Akron, città industriale nello stato dell’Ohio. I due (rispettivamente basso e tastiera, oltre che voce) accorciarono presto nome e organico, escludendo il cantante Fred Weber e confermando i fratelli di Mark Jim e Bob alla batteria e alla chitarra solista, e il fratello di Gerald Bob alla chitarra ritmica. Questa la formazione di partenza, tutto in famiglia. Il concetto supportato con inattaccabi- le convinzione dal gruppo è che l’uomo, dopo un periodo evolutivo durato milioni di anni sia destinato (causa una stupidità di fondo acquisita via civilizzazione e mutazioni genetiche) a de-evolversi in una razza capace soltanto di regredire, fino alla sua completa estinzione. Il manifesto della de-evoluzione è riassunto nel sito ufficiale della band in cinque punti: 1) Sii come chi ti ha preceduto o sii diverso. Non ha importanza 2) Scegli di produrre un milione di uova o di farne schiudere uno 3 ) Ve s t i c o l o r i s g a r g i a n t i o e v i t a di esporti. Non ha importanza 4) Saranno i più idonei a sopravvivere ma c’è posto anche per gli altri 5) Dobbiamo ripeterci Pur non contenendo l’arguta analisi sociale di uno Zappa (periodo Tinseltown Rebellion), il Devo-pensiero, con le sue semplificazioni e i suoi slogan per canzoni da tre minuti e mezzo si rivelerà parte integrante della buona riuscita d e l p r o g e t t o . Te r m i n a t o i l p e - s e n t i r e a s c o l t a r e 111 riodo di formazione, all’indomani della pubblicazione dell’EP Be Stiff, Jim è sostituito con Alan Myers. Da subito le velleità intellettuali dell’ensemble vennero riversate senza alcuna continenza all’interno di spettacoli di chiara impronta dadaista, nei quali i Nostri proponevano un rock destrutturato e condito con gli interventi dissonanti della tastiera di Mark. Spettacoli terminati in piccole sommosse popolari, coi nostri vestiti in completini sportivi succinti e maschere di plastica, erano all’ordine del giorno. Il cortometraggio In The Beginning Was The End: The Truth About De-Evolution, realizzato con il regista e compagno di università Chuck Statler nel ’76, finì per entusiasmare a tal punto David Bowie che questi pensò di formalizzare una proposta discografica. La spuntò invece Brian Eno il quale, innamoratosi del loro sound durante u n a d a t a a l M a x ’ s K a n s a s C i t y, li invitò in Germania per registrare un LP con il guru degli 11 2 s e n t i r e a s c o l t a r e studi di registrazione Konrad ‘Conny’ Plank (attivo in precedenza per conto di Kraftwerk, A s h R a Te m p e l , N e u ! e n e l l a trilogia berlinese del già citato ‘duca bianco’) In quattro settimane il masterpiece Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! (Warner Bros., ’78) era bello che terminato. Album su cui si è detto, scritto e pontificato fino alla noia, Are We Not Men resta ancor oggi tra i capolavori seminali della new wave per eccell e n z a . L’ a d r e n a l i n a a r t i f i c i a l e della (già) post-punk Uncontrollable Urge funge da perfetto apripista per album e concerti. Praying Hands e Space Junk giocano col pop minimalista che sarà la fortuna dei Ta l k i n g H e a d s p e r i o d o E n o . Mongoloid (gemma made in Casale) è un anthem per pogo robotico e Shrivel-Up vanta dissonanze in comune coi Pere Ubu (freschi pure loro di primo album, l’epocale The M o d e r n D a n c e ) . L’ u n i c o p e z zo non appartenente ai nostri (Satisfaction degli Stones) sottolinea una volta per tutte la differenza tra ‘cover ’ e ‘remake’ (buona la seconda). con la stessa forza dirompente e decostruttiva dimostrata in tutt’altro ambito anni prima dalla versione hendrixiana di A l l A l o n g T h e Wa t c h t o w e r. È cosa buona e giusta ricordare che furono i Residents i primi a demolire il classico degli Stones (il 7’’ è del ’76) sfregiandolo a suon di demenze abrasive e conferendogli una preziosa oscurità che nessun altro riuscì a replicare. A questo punto la vicenda si fa frenetica. I concerti s’ispessiscono di trovate, provocazioni, luci pianificate dalla mente artistica della coppia Casale / Mothersbaugh. Citazioni al futurismo e all’espressionismo tedesco si mischiano felicemente con un viscerale amore per il kitch e i nostri s’ingegnano a progettare personaggi, terminologie (il ballo del ‘Poot’ citato nella stupenda Jocko Homo è pura invenzione… qualcuno però sostiene sia illustrato dalle mosse de- menti dello scienziato pazzo nel corto In The Beginning…) e un’iconografia che attraverso costumi, gadget e art-work d’ogni sorta contribuirà ad alimentare la fama del gruppo. Si prenda la front cover dell’album d’esordio: trattasi della travagliatissima elaborazione di un’immagine di Chi Chi Rodriguez -decorato golfista portoricano- mista ad estratti dalle facce dei presid e n t i K e n n e d y, J o h n s o n , N i x o n e Ford. Puro spirito dada. Il risultato è storia. I Devo poseranno con caschetti alla Beatles, maschere da alieni, seni finti, calze in testa, tute da operai, uniform i d a c o w b o y d e l Te r z o R e i ch. Segmenti video verranno proiettati durante i concerti su schermi di 7m x 5 (assieme ai Rez, furono pionieri nell’utilizzo di sfondi animati realizzati con il computer). Cavalcando l’onda dell’interesse di critica e della propria ispirazione, l’anno seguente è il turno di Duty Now For The Future (Warner Bros., 1979) con il rock indiavolato e l’elettronica schizofrenica del medl e y S m a r t P a t r o l l / M r. D N A e l’angoscia post-industriale di Triumph Of The Will. Da segnalare in questo periodo la collaborazione di alcuni membri della band al sottovalutato album d’esordio dell’ex cantante degli Stranglers, Hugh Corwell, Nosferatu. Freedom Of Choice (Warner Bros., ’80) raccoglie grande consenso di pubblico (grazie al singolo Whip It), ma porge il fianco alle accuse di commercializzazione. Il rock’n’roll di Girl U Want e il facile synth-pop di Gates Of Steel non serbano la metà del fascino obliquo del repertorio precedente. Roba buona per i prossimi ascoltatori degli Human League di Dare. Spaventati dalla candidatura a presidente degli Stati Uniti dell’ex-attore Ronald Reagan, Devo muta in Dove, parodia di una pop band revaivalista e, di poliestere vestiti, realizzano tre concerti spiazzando fans e critica. Sul campo della discografia ufficiale invece, poco o nulla aggiunge il live Dev-O (Warner Bros, ’81) che, privato del forte impatto visivo della band, scorre senza infamia ripercorrendo le tappe più attuali e tralasciando i primi pezzi storici. N e l l ’ 8 1 N e i l Yo u n g , s f e g a t a t o estimatore dei Nostri, li contatta per la realizzazione del controverso lungometraggio Human Highway (memorabile la versione di Hey Hey My My cantata da Booji Boy dentro al suo lettino d’infante). Nella pellicola i Devo faranno la parte del leone, interpretando gli addetti alle scorie radioattive di una centrale nucleare, mentre alla spassosa Worried Man verrà attribuita la responsabilità di concludere il film dove l’intero cast (pure Dennis Hopper) si produce in un balletto allucinato. Con New Traditionalists (Warner Bros., ‘81) Devo accentua i toni di denuncia sociale in pezzi come Through Being Cool, nel quale si tenta lo smantellamento della famiglia americana media, ma la musica è ormai appianata su di un pop elettronico buono per gli ultimi guizzi da classifica. Love Without Anger prende di mira l’amore idealizzato dalla fede cristiana, e in Beautiful World (“È un mondo meraviglioso per te/ Non per me”) il tono leggero della melodia nasconde ai più il cinismo sempre meno velato del gruppo. Il processo sembra ormai irreversibile in Oh No! It’s Devo (Warner Bros., ’82) e Shout (Warner Bros., ’84); il primo gigioneggia sardonicamente con il singolo Peek-A-Boo!, il secondo fallisce nel tentativo di replicare i fasti del passato c o n A r e Yo u E x p e r i e n c e d ? d i Jimi Hendrix (il video, censurato come tanti altri prodotti Devo, mostra un sosia del celebre chitarrista uscire dalla bara durante un concerto della band). Sconfortati da una situazione che non sembra prospettare alcun miglioramento e dal declino culturale dell’America reaganiana, i Devo annuncian o i l r i t i r o d a l l e s c e n e . Ve r rà comunque pubblicata l’interessante raccolta di vecchi pezzi ri-arrangiati E-Z Listening Disc (Rykodisc, ’87) oggi purtroppo fuori catalogo. Gerald di per contro si rivela capace regista pubblicitario (pure per la warholiana Cam- s e n t i r e a s c o l t a r e 113 pbell’s Soup) e videomaker (suoi i primi due video dei C a r s , P a n o r a m a e To u c h A n d Go), attivo fino ad oggi per g r u p p i c o m e R u s h , S i l v e r c h a i r, Soundgarden e Foo Fighters. Mark invece fonda la Mutato Music, compagnia responsabile di jingle pubblicitari, colonne sonore per videogames, cd-rom e film (sue le musiche di Le avventure acquatiche di Steve Zissou e del cartone animato Rugrats). E pazienza se i Devo finiscono per comparire pure nei credits musicali di pellicole tipo le Superchicche -il film-: in fondo l’ironia è un talento fatto per spiazzare. Inaspettatamente, nell’88 si tenta la spallata m a To t a l D e v o ( E n i g m a ) e i l funky demenziale del singolo Disco Boy non risollevano la situazione. Ben gradita invece l’uscita del live Now It Can B e To l d ( E n i g m a , ’ 8 8 ) s e n o n altro per la rivisitazione country del classico Jocko Homo. La seconda chance da studio fornita dalla Enigma vedrà la luce nel ’90; Smooth Noodle Maps, ad oggi, è l’ultimo album dei Nostri, ormai incapaci di sorprendere o di acquisire nuovo pubblico. Ottimo materiale è disponibile inoltre nelle raccolte di inediti Hardcore Devo vol. 1 e 2 contenenti materiale del periodo 74-77; il resto, raccolte e raccoltine, ‘essential’ e greatest hits bene che vada concedono qualche mezzo inedito o remix buoni per collezionisti. Piccola gemma da ricercare è invece la resurrezione del primo gruppo di Mark, i Wipeouters che, riformatisi estemporaneamente dopo più di venticinque anni, per la prima volta affrontano la prova da studio: P ’ t w a a a n g ! ! ! ( C a s u a l To n a l i ties, 2001) riserverà delle sorprese a più di un ascoltatore (si tratta di un godibilissimo surf-rock in chiave modernista). Indispensabile per occhi ed orecchi il doppio dvd The Complete Truth About De-Evo- 11 4 s e n t i r e a s c o l t a r e lution (tutti i video eccezion f a t t a p e r A r e Yo u E x p e r i e n c e d ? giudicato irrispettoso) e Devo Live (magnifica testimonianza di un concerto californiano d e l ’ 9 6 ) . Te s t i m o n i a n z e a t t e n dibili danno i Devo in forma smagliante durante le tournée celebrative 2005-2006. Per il momento la notizia di un nuovo album della band risulta infondata. Nel 2006 Gerald è tornato in pista a nome Jihad Jerry & The Evildoers, proponendo un rock sintetico che nel video promozionale del singolo Army Girls Gone Wild si fa beffe dell’attuale conflitto tra U.S. e Medioriente. Pare invece seriamente avviata l’iniziativa Dev2.O che vede protagonista una band di cinque ragazzini di età compresa tra i 10 e i 13 anni alle prese con alcune delle più celebri canzoni del gruppo. Già disponibili cd e dvd distribuiti dalla Buena Vista Records (diramaz i o n e d e l l a D i s n e y ) . L’ i n i z i a t i va tenta di avvicinare anche i più piccoli al songbook della band di Akron: le riletture ad opera Devo-seconda-maniera suonano accattivanti e ideali per un lungo viaggio in automobile. Niente più. Difficile se non impossibile cambiare il menù della casa: “We must repeat” è forse un monito a doppio taglio. Intervista Gerald, ho sempre pensato che l’apporto di Eno al vostro album d’esordio sia stato sovrastimato rispetto alla realtà effettiva della vicenda. Come la vedi? Inizialmente mettemmo Eno a dura prova poiché tentava di influenzare il nostro sound. Anche se era uno dei nostri eroi ci eravamo forgiati un estetica industrial, brutale e per niente incline al sentimento. Lui invece voleva imbellettare le canzoni, aggiungere armonizzazioni vocali e melodie suonate al synth. Nel mix finale di Conny Plank non utilizzammo molto di quanto proposto da Brian. C’è da dire però che le sue incredibili storie e le sue carte di Strategie Oblique ci conquistarono al punto da riuscire a stimolare al meglio la nostra vena creativa, e questo fece andare a buon fine le registrazioni. In questi ultimi vent’ anni Akron ha subito dei cambiamenti significativi? Non è più la città avvolta dai fumi delle fabbriche che in molti ricordano; è discretamente ‘civilizzata’ e noiosa come tante altre città. Ora mancano i presupposti perché possa generare altri talentiguida. Un mucchio di gente considera i Devo l’unica cosa buona uscita da Akron… Beh, Chrissie Hynde dei Pretenders è un esempio lampante di un altro grande talento uscito dalla nostra città. Ci sarà pure una formula per invertire il processo di de-evoluzione della razza umana… La de-evoluzione deve compiere per intero il suo corso. Oggi più che mai è un concetto d’attualità, come puoi vedere dai comportamenti irrazionali e dal fondamentalismo anti-democratico generati dagli astuti fautori del controllo globale attraverso i conflitti e le strategie politiche. Stiamo mostrando la parte peggiore della natura umana. Ogni giorno permettiamo che manipolino i nostri cervelli fino a quando non ci saremo sterminati tutti. Il pianeta tornerebbe ad essere meraviglioso solo se si estinguesse la nostra razza. Chi era la mente visiva nei Devo? Mark ed io eravamo i visual artists della situazione. Condividevamo una simile visione estetica della faccenda e si collaborava in piena libertà. Fui io a recuperare i comple- ti industriali gialli e personalizzarli con il logo dei Devo. Mark amò quell’idea. Poi disegnai il classico cappello rosso simil-ziggurat che chiamammo Energy Dome. Dunque io e Mark disegnammo il completo argentato da abbinarci. Abbiamo elaborato inoltre la grafica di tutte le nostre copertine, d e i p o s t e r, g l i s t o r y b o a r d e l e trovate visive per i video. Devo: pionieri del videoclip. Oggi che la tecnologia ha raggiunto vette insperate, per qualche ragione, sembra che la formula del videoclip abbia smarrito la magia che la contraddistingueva ai suoi esordi. Sottoscrivi? Come ben sai una delle cinque regole della de-evoluzione è: “Dobbiamo ripeterci”. Purtroppo è una condizione sostanziale degli esseri umani. La coscienza / conoscenza si acquisisce tempestivamente ma s e n t i r e a s c o l t a r e 11 5 non in forma continuativa: la realtà è che spesso si scordano gli insegnamenti impartiti. Nei tardi anni ’70 il videoclip fornì agli artisti un nuovo mondo entro il quale poter esprimere sé stessi. I Devo, David B o w i e , i Ta l k i n g H e a d s , P e t e r Gabriel e altri abbracciarono questo veicolo espressivo scevri da ogni cinismo dando vita ad opere che avevano qualcosa di importante da dire. Oggi la gente non ha una propria visione da condividere con gli altri. I video sono un prodotto studiato in funzione alle esigenze commerciali dell’artista. I vostri idoli musicali? Amavamo James Brown, gli Ya r d b i r d s , S p i k e J o n e s , E d g a r Va r è s e , M o r t o n S u b o t nick, il Nairobi Trio ed Elvis P r e s l e y. M a c i p i a c e v a n o p u r e quelle sigle terribili di certi programmi televisivi e i jingle delle pubblicità. Questi ultimi influenzarono molto la nostra propensione creativa per il gioco, lo scherzo, l’ironia. Domanda banale: qual è la canzone che avresti sempre voluto scrivere? Ce ne sono anche troppe di canzoni: 1984 di Bowie, Cars d i G a r y N u m a n , T h e Te a r s O f A Clown di Smokey Robinson, Let’s All Make A Bomb degli Heaven 17 e tanti altri pezzi apri-pista. Il miglior verso di una canzone pop che ti viene in mente? “Per essere un fuorilegge / Devi essere onesto”, da Ab- 11 6 s e n t i r e a s c o l t a r e solutely Dylan. Sweet Marie di Bob Il manifesto dei Devo contiene un preciso messaggio politico? La politica è presente, nell’universo Devo. Siamo a questo mondo per soffrire e m o r i r e ; o g n i l e a d e r, o g n i d e tentore del cosiddetto ‘potere’ dovrebbe adoperarsi con ogni mezzo per alleviare a quante più persone questa brutta situazione. Dovrebbe essere la linea ideologica per eccellenza di ogni fazione politica. Distogliere la propria attenzione dalle priorità effettive dovrebbe essere considerata una grave inadempienza nei confronti della gente. Tutti gli attuali leader occidentali andrebbero immediatamente sollevati dal loro incarico. In questi tempi bui non c’è più posto per autorità illegittime che si scontrano con lo spirito comune del popolo. Come lo vedi il mondo dell’Arte con le sue gallerie, i suoi ampollosi vernissage? Non è poi tanto diverso da quello della moda, dell’arredamento ecc… Il 99 percento di ciò che viene definita ‘arte’ è stantio, ‘leccato’ e francamente assai brutto. Ormai dare ad un musicista dell’intellettuale è diventata un’offesa bella e buona, come lo spieghi? I responsabili delle etichette discografiche usano questo termine in senso dispregiativo. I musicisti che ho sempre amato, di per contro, erano tutti ‘intellettuali’: esistono diversi tipi di approcci mentali, si va da Captain Beefheart a Prince, passando attraverso tutti coloro che stanno tra questi due opposti. L’ e s p l i c i t o r i f e r i m e n t o a C h u c k Berry in Come Back Jonee dovrebbe suonare come un tributo o uno sberleffo? Come nella migliore tradizione Devo c’è un po’ di entrambi. La vedo come una sorta di tributo obliquo ed, essendo il chiaro esempio di un approccio post-moderno, esprime naturalmente una sensibilità assai contorta. Nei Devo ci sono ruoli ben definiti o vige una certa libertà compositiva? Salvo qualche eccezione, io e Mark scriviamo musiche e testi. Ma non esistono regole fisse ed ognuno è libero di contribuire come meglio crede. Finora è funzionato così. Comunque è il contributo di ogni singolo membro della band a trasformare una successione di idee e abbozzi in una canzone vera e propria. Un traguardo artistico che ti secca non aver raggiunto? M’infastidisce pensare che non siamo ancora stati nominati per la Rock’n’Roll Hall Of Fame. Mi chiedo quali sono i film che prediligi? Mi piacciono i classici noir come Piombo Rovente (di Alexander Mackendrick con To n y C u r t i s e B u r t L a n c a s t e r ) , Un volto nella folla, Fronte del porto (Elia Kazan) e Criss Cross Robert Siodmak). E pure la scena neo-noir del Martin S c o r s e s e d i To r o S c a t e n a t o , Re Per Una Notte, Quei Bravi Ragazzi, Casinò. Ma il mio f i l m p r e f e r i t o è L u n g o L a Va l l e D e l l e B a m b o l e d i R u s s M e y e r. Anche il vostro secondo album è un classico dalla prima all’ultima canzone… Le canzoni dei primi due album le avevamo già scritte ed eseguite dal vivo più volte prima dell’incontro con Eno. Decidemmo che solo una parte sarebbe finita sul nostro album d’esordio. Nel 1979, col produttore Ken Scott, ri-registrammo a Los Angeles alcuni dei brani rimanenti che finirono per costituire Duty Now For The Future. Ci sarà pure qualche uscita di cui non vai orgoglioso. Ero molto insoddisfatto dell’album Shout!. Sentivo che non corrispondeva particolarmente all’innata irriverenza dei Devo. Mi pareva che Mark avesse attribuito troppo importanza al Fairlight Synthesizer scordando di lavorare a quattro mani con me nel tentativo di conferire a quello strumento il giusto peso. C’è qualcosa che proprio non fa decollare l’album Smooth Noodle Maps… Onestamente penso che sia un prodotto sonoro di scarsa ispirazione. Le canzoni avrebbero dovuto essere valorizzate da un arrangiatore esperto e invece ci ostinammo a volerle produrre e mixare per conto nostro. Simeon Coxe dei Silver Apples sostiene che stiamo vivendo una nuova rivoluzione della musica elettronica. Confermi? Credo che da un certo punto di vista abbia ragione. Scrivere e mixare musica in maniera efficiente dal pc è una realtà effettiva degli ultimi 7-8 anni. Realtà che, tra l’altro, continua a progredire e affinarsi di giorno in giorno. Considero i Chemical Brothers i pionieri di questa nuova forma di elettronica. Dopo aver assistito ad una vostra recente performance live mi sono reso conto che attribuite alla libertà esecutiva più importanza di quanto mi aspettassi. Il nostro processo creativo si fondava sugli insegnamenti derivati dall’arte delle performance e sull’improvvisazione musicale. Estrapolavamo le risultanti elaborando organizzazioni musicali ben definite. Poi eseguivamo il brano dal vivo asciugandolo di ogni sovrappiù in funzione di altre bizzarrie. Manuel Göttsching trova più semplice sperimentare attraverso l’elettronica. Ma se ascoltiamo certi album dei Pere Ubu è indubbio sia possibile creare nuove strutture anche attraverso strumenti tradizionali. Qual è la differenza sostanziale tra questi due approcci nell’ambito del pop di ricerca? Una strumentazione tradizionale di basso, chitarra e batteria consente un approccio alla sperimentazione più diretto e interattivo. I computer e gli effetti digitali sono per natura maggiormente ‘autocratici’, se vuoi, ma suonano tediosi quando cerchi di esprimere un’idea musicale. Siete interessati a quel che la critica musicale ha da dire sul vostro conto? La leggiamo e ce la buttiamo alle spalle. I Devo possono certamente dirsi la band più fraintesa e sottovalutata degli anni ’80. Solo adesso la critica sta rivalutando con cognizione di causa la validità del nostro operato. Ai tempi delle vostre prime dissacranti esibizioni dal vivo quali erano le reazioni della gente? Come puoi immaginare il pubblico era compatto nel deriderci e in alcuni casi si mostrò duramente ostile. Ma ci facevamo forza poiché quelle reazioni sottolineavano la nostra capacità nel saper evocare emozioni contrastanti nella gente. Ricordo una volta, durante un concerto a Cleveland, in cui un pubblico pret- s e n t i r e a s c o l t a r e 117 tamente composto da hippie ci gridò di tutto durante il call & response di Jocko Homo. Dovettero intervenire i nostri roadies per tenerli a bada e alla fine ci toccò abbandonare il palco. Sei ottimista quando si tratta di analizzare l’attuale scena pop degli States? In generale non sono affatto ottimista se si tratta di musica pop. Anche le migliori band in circolazione ripropongono attitudini pescate dagli anni ’70, ’80 e ’90. In questi tempi reazionari vorrei tanto sentire qualcosa di rivoluzionario. Per un musicista è importante ‘farsi le ossa’ con delle cover? In una parola, no. Che mi dici della partecipazion e a l f i l m d i N e i l Yo u n g H u m a n Highway? Un’esperienza veramente bizzarra, preziosa ed entusiasmante che nessuno si sarebbe mai aspettato andasse in porto. Eccezion fatta per Human Hig h w a y, n o n r i c o r d o n e s s u n ’ a l tra collaborazione del gruppo con altri artisti. Si tratta di una scelta premeditata? È andata così, non c’era nessuna premeditazione. Forse influì il fatto che fossimo unici e avanti rispetto ai tempi; magari è per questo che la gente non ci ha proposto nessuna collaborazione interessante. Li spaventiamo. Dei Devo come persone non si sa praticamente nulla; non ti chiedo la tua ‘giornata tipo’, ma di descriverti come meglio credi. Le persone creative non conducono necessariamente una vita privata più interessante di quelle normali. A me piace viaggiare, consumare ottime pietanze, bere vino di qualità e fare un bel po’ di sesso. 118 s e n t i r e a s c o l t a r e Cerco di portare avanti i miei affari standomene quanto più lontano possibile dalle teste di cazzo. Sono uno chef navigato e un esperto conoscitore di vini con una vasta collezione di etichette toscane e dell’Oregon. Mi piace mettere a dura prova il motore della mia Audi S4 e farmi qualche bella partita di tennis. Mi sono sempre chiesto quale sia l’opinione di un musicista di ‘sintesi’ come te in merito al sound ultra elaborato di gruppi tipo King Crimson (nella versione tardo sixties). Presi a piccole dosi sono ottimi… se ti vuoi fumare una canna. Cosa ti fa arrossire? I complimenti. Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista? Come artista devi relazionarti e vivere con intensità il tuo presente, senza aspettarti nessuna risposta e senza chiedere ad alcuno il permesso per agire. a Raffaella Girardi classic Scritti Politti Da quasi trent ’anni deus ex machina degli Scritti Politti, Green Gartside ha da poco siglato il suo ritorno sulle scene, “White Bread Black Beer” (vedi spazio recensioni), all’insegna di una ritrovata v e n a d a s o n g w r i t e r p o p , n u o v a m e n t e s o t t o l ’ e g i d a d e l l a R o u g h Tr a d e . Ripercorriamo le tappe della sua storia, dagli esordi - post - punk m i l i t a n t i a l l e “ S o n g s To R e m e m b e r ” , f i n o a l t u f f o n e l m a i n s t r e a m degli ’80 con l’approvazione di gente come Robert Wyatt, Miles Davis e Madonna, fino alle sparizioni/apparizioni degli ultimi anni. Another GREEN World di Gianni Avella e Antonio Puglia Chi ha avuto modo di vedere la pellicola che omaggia la scena post-punk di Manches t e r, 2 4 H o u r P a r t y P e o p l e ( d i Michael Winterbottom, film del 2002 uscito l’anno dopo in Italia), ricorderà la scena dove dei giovani Sex Pistols suonano, la sera 4 giugno del 1976, al Lesser Free Trade Hall per un pubblico che di lì a poco e invogliato da quello show (tra i pochi presenti c’erano To n y W i l s o n , M a r t i n H a n n e t t , Howard Devoto di Buzzcocks e Magazine, i futuri Joy Division e persino Mick Hucknall dei prossimi Simply Red) avrebbe intuito cosa fare delle proprie vite. In quella stessa tournee, esattamente il 6 dicembre 1976, la banda assemblata dal “bottegaio” Malcom McLaren fece tappa nel nord dell’Inghilterra, destinazione Leeds. La scena che si presentò quella sera fu una fotocopia dei sei mesi precedenti, ossia un pubblico (verosimilmente più numeroso della tappa mancuniana) stregato da quei quattro inetti che padroni (si fa per dire…) di un songbook rubato a Chuck Berry e Stooges, suonavano terribilmente più eccitanti di chicchessia accademico progr o c k e r. L a s t o r i a q u i n d i s i r i pete: infatti, dopo quel concerto un giovane lì presente, Green Gartside, decide che il momento di mettere su una band è arrivato. Green (Paul Strohmeyes all’anagrafe) è di origini gallesi. Una madre poco incline alle passioni artistiche del proprio ragazzo e un padre commesso viaggiatore lo portano da subito, come reazione, a crearsi un proprio metro quadro ed avvicinarsi alla musica (il primo disco ascoltato dal nostro fu Revolver dei Beatles che lo spinse ad abbonarsi, all’età di otto anni, al New Musical Express, mentre il primo concerto assistito fu Rod Stewart al Reading Festival del 1970) e poi alla politica, entrando a far parte del partito comunista locale (con interessi manifesti verso le teorie di Marx, Bakunin, Derrida, Deleuze e Lacan) insieme al suo collega di studi Nial Jinks. Il divorzio dei genitori lo porta ad assumere il cognome del nuovo compagno della madre, Gartside, mentre il nome Green se l’affibbia egli medesimo dopo un viaggio in treno che gli rivela come tutto fuori dal finestrino fosse verde (…). La differenza sostanziale – forse la più sostanziale – tra i musicisti punk e quelli di estrazione post è la costante tendenza agli studi artistici di questi ultimi, tant’è che Green, in compagnia dell’inseparabile Jinks, si trasferisce di stanza a Leeds per studiare nel locale istituto d’arte. Una sosta di appena quattro anni che gli permette, tuttavia, di conoscere il futuro batteri- s e n t i r e a s c o l t a r e 11 9 s t a To m M o r l e y , i n t r a p r e n d e r e saltuari lavori (lavorerà anche in un garage) al fine di acquistare la sua prima chitarra elettrica nonché assistere a quel famoso concerto di fine ’76 che pigia il nervo scoperto di Green e dei suoi colleghi, che armati di do it yourself e qualche ascolto velato – ma non troppo – di Henry Cow (band che attraversò gli anni del prog per puro caso…) e Robert Wyatt decidono di dire la loro sotto la sigla The Against, suonando il primo gig come supporters ai locali Sos. Ma proprio mentre Leeds si appresta a divenire la “città dei Gang Of Four” (altri marxisti dichiarati), nel 1978 i The Against traghettano via a Londra e si accasano nel 120 sentireascoltare colorito quartiere di Camden To w n i n u n o s q u a t i n C a r o l Street per ribattezzarsi Scritti Politti, ovvero moniker che storpia i famosi Scritti Politici dello scrittore, filosofo e politico Antonio Gramsci. Skank Bloc Bologna (palesemente ispirata dalle agitazioni politiche italiane del ’77; quante le assonanze coi Durutti Column…) è la nuova via del gruppo: cinque tortuosi minuti di funk pallido distribuiti Rough Trade ma di pertinenza St. Pancras, label fantasma con tanto di packaging descrivente costi di produzione e dettagli riguardanti la registrazione. Il singolo arriva alle orecchie di John Peel, che non esita un attimo a passarlo in rotazione nel suo influente show per poi invitarli a registrare la prima delle famigerate session, negli studi della BBC: quattro canzoni che poco si discostano dal singolo di debutto e che collocano I SP al crocevia tra il Canterb u r y s o u n d ( H e n r y C o w, R o bert Wyatt) e nascente avantrock (This Heat e in parte Pop Group). Ma è la seconda session – siamo ora nel 1979 – ad esibire i primi cenni del Gartside che verrà, dacché la p r e s e n z a d i H e g e m o n y, s e p pur ostica, esibisce una linea melodica alquanto dissonante al cospetto delle oblique Messthetics e Opec-Immac che con Confidence, dal successivo Ep Four A Sides, delineano uno scenario pop. Un sentore che si tocca con mano non appena Gartside, che intanto è ritornato brevemente nel natio Galles per curarsi da una forma acuta di polmonite nonché dallo stress da concerto, stende le note di The Sweetest Girl, deliziosa ballata in levare à la Wyatt (che qui suona le tastiere) che non solo apre il nuovo corso del nostro, ma anche la compilation in combine tra Rough Trade e New Musical Express C81 che festeggia i cinque anni di vita della label. Ma mentre tutti i debutti eccellenti della new wave sono stati più che consumati, gli Scritti Politti continuano a macinare singoli come Faithless, Asylums in Jerusalem e Jacques Derrida finché, nel 1982, la Rough Trade dà alle stamp e S o n g s t o R e m e m b e r, t i t o l o sufficientemente pleonastico dal momento che ognuna delle nove canzoni si ricordano tra le migliori dell’epoca. Influenzato dal nuovo R&B, soul e proto-dance proveniente da New Yo r k , i l f u l l l e n g h t è l o s p a r tiacque definitivo tra i Politti che furono di fine seventies e quelli che attraverseranno gli anni ’80: rimane lo spauracchio canterburiano, ma alle asprezze simil Henry Cow fa posto definitivamente il verbo più pop della cittadina anglosassone, ossia Hatfield And The North, Caravan e ovviamente Robert Wyatt cosi come si risente il funk, oggi non più spigoloso anzi filtrato secondo i nuovi modelli dance statunitensi. Inaugura Asylums in Jerusalem, reggae dolciastro e meno efficace di Gettin’, Havin’ And Holdin’, laddove il battito in levare nasconde una sottile patina melanconica. Si scopre, poi, come la duttilità vocale di Gartside si espanda sino a lambire inaspettate ascendenze glam al modo di colui che il glam l’inventò, Marc Bolan, rivelatorie nel boogie-folkye di Jacques Derrida (ovvia la dedica per il teorico della Decostruzio- ne…) e bluesy di Rock-A-Boy Blue. Poi il wyattismo puro della bellissima, con tanto di vocoder e cori gospel, Faithless che fa da aperitivo per la su Arif Mardin (già al lavoro con Chaka Khan e Aretha Franklin), uomo che fa intendere come il sound sarà ancor più laccato per le charts. conosciuta The Sweetest Girl con una Sex che farà ballare anche nel terzo millennio. Ma l’argomento lo riprenderemo più avanti; quello che conta è il successo del disco che guadagna il sesto posto nella classifica inglese e il primo in quella indipendente. Con Songs to Remember si chiude però la parentesi indie dei Politti, visto che l’abbandono di To m M o r l e y c o i n c i d e c o n u n contratto Virgin che permette un dispendio economico, viste le casse folte della nuova label, senza freni. La scelta del produttore cade quindi Non illuda la presenza di Robert Quine alla chitarra e Fred Maher alla batteria, Cupid & Psiche (Warner Bros, 1985) possiede quella precisione di plastica che negli anni ’80 significava drum-machine: Maher è plagiato dall’ego di Gartside che lo costringe l’ex Massacre (mica uno qualunque..) a sampler pomposi che all’epoca neanche i Breakfast Club! Wood Girl (Flesh and Blood) è un reggae allegrotto che quasi scimmiotta il lavor o d e i c o e v i U b 4 0 ; S m a l l Ta l k e Perfect Way sonofiumane di stacchi ritmici – rigorosamen- sentireascoltare 121 te generati dall’allora popolare Fairlight Music Computer poveri di verve e ora anche la voce di Green comincia fastidiosamente ad assumere toni artificiali quasi volesse imitare il Michael Jackson più romantico (A Little Knowledge,). In definitiva, un disco che ascoltato oggi non regge il peso degli anni ma che all’epoca stravinse la sfida delle vendite, arrivando quinto nella classifica inglese e cinquantesimo in quella americana. Preceduto da riconoscimenti da parte di Madness (che nel 1986 coverizzano The Sweetest Girl, seguiti di qualche mese addirittura da Miles Davis che risuonerà Perfect Way per il suo Tutu) il signor Gartside, oramai cittadino newyorkese, arriva alla soglia degli eighties per inerzia, inespressivo e partecipe dell’unico tonfo artistico di Madonna, che nel pessimo Who’s That Girl pensa bene di affidare al nostro quattro minuti oltremodo pessimi, quelli di Best T h i n g E v e r, p e r l a s o u n d t r a c k omonima alla pellicola. Provision (Warner Bros, 1988)indi saluta il decennio nel peggiore dei modi, patinando all’eccesso gli arrangiamenti – stavolta in odore di sequencer – e senza lasciare un ricordo di canzone che sia una; e se il meglio proviene dall’ennesimo omaggio al peggio Michael Jackson (Overnite), neanche l’onore di disco posto a tastare l’efficienza degli impianti Hi-Fi (si parla del suono e 122 sentireascoltare non certo del contenuto…) lo salva da un anonimato preoccupante. Un Dark Side Of The Moon degli’80, insomma, che vede tra l’altro uno sfatto (chi vuole capire capisca…) Miles Davis ospite in quella Oh Patti (Don’t Feel Sorry For Loverboy) presente poi nientemeno c h e a l F e s t i v a l b a r. Dopo questo tracollo un silenzio di undici anni, un gap attenuato da una collaborazione con la British Electric Foundation, progetto di Martyn Ware degli Heaven 17, per l’indovinatissima cover di I Don’t K n o w W h y I L o v e Yo u d i S t e v i e Wonder bissata subito dopo dalla singolare rivisitazione di una vecchia b-side dei Beatles, She’s A Woman, che vede come ospite il rapper Shabba Ranks: è l’ ouverture didascalica al nuovo lavoro. Anomie & Bonomie (Virgin, 1999), disco che riverisce il nuovo suono nero con credits a firma Mos Def, Me’Shell Ndegeocello, Wendy Melvoin (già corista con Prince) funziona nello sdoppiarsi tra hip-hop da stad i o ( T i n s e l t o w n To T h e B o o giedown, Die Alone, Smith ‘n’ Slappy) e ritrovato smalto pop (First Goodbye è bella come il sole e la chiusa di Brushed With Oil, Dusted With Powder non è da meno). Certo, il disco è alquanto incerto (fa uno strano effetto il Gardside che si incrocia col parlato di Mos Def…) ma la vena ritrovata (specie in episodi esenti di rhyming hip-hop) lascia ben sperare. Poi il nuovo millennio del ritrovato amore per la new wave d’antan: Rapture, !!! e compagnia a studiare il vecchio catalogo Factory e Rough Trade. Tra i tanti un riccioluto che pare la versione radical s h i c d i G i o r g i o M o r o d e r, Tr e vor Jackson, pesca dal vecchio roster di Geoff Travis Sex degli Scritti Politti, che r i e d i t a t a c o m e To o M u c h s a r à uno dei pezzi forti del debutto dei Playgroup. Un piccolo ma significativo segnale che verrà raccolto anche dalla stessa Rough Trade che nel 2005 raccoglierà – finalmente – i singoli pre-Songs to Rememb e r n e l l ’ a n t o l o g i c o E a r l y. Gianni Avella Il bello di essere “outside” Intervista a Green Gartside Raggiunto via e mail, Green si rivela personaggio affabile e acuto, mosso da un ritrovato entusiasmo verso la sua rinata carriera, il suonare dal vivo e la musica in generale (presente e passata). Anzitutto, com’è stato tornare dopo ventiquattro anni alla R o u g h Tr a d e ? C h e d i f f e r e n z e ci sono con l’etichetta che ricordavi? La Rough Trade di oggi mi ricorda tantissimo quella di fine ’70 / inizio ’80. C’è lo stesso entusiasmo, lo stesso straordinario supporto per gli artisti. Sono fortunatissimo ad essere tornato. Devo tantissimo a Geoff Travis, letteralmente e metaforicamente! Per White Bread, Black Beer hai fatto quasi tutto da solo. C’è qualcuno che ti ha aiutato? L’ u n i c o a i u t o m i è a r r i v a t o dall’ingegnere del suono Andy Houston, che ha registrato le parti vocali e mi ha dato una mano a mixare l’album. Per il meglio o per il peggio, è tutta che se nella tua cultura probabilmente non sono un pasto molto indicato, la birra scura e il pane bianco (insieme alle noccioline) sono alla base della mia dieta! Se in brani come After Six viene fuori il tuo solito stile, l’elemento base di queste nuo- Sul versante opposto, qua e là resta una certa impostazione elettronica, comunque molto leggera ed eterea (come in Boom Boom Bap o Petrococadollar). Usi strumenti analogici o digitali? Sì, infatti le altre cose che ascoltavo al liceo erano Brian mia la responsabilità! Se confrontato con il precedente Anomie & Bonomie, White Bread è un disco molto diverso. Se quello era più vicino al classico stile pop elaborato dagli Scritti Politti negli ’80, questo nuovo album suona molto più intimo, rilassato e, per certi versi, “adulto”. Come lo rapporti all’interno della tua discografia? Penso di essere d’accordo quando dici “intimo e rilassato”, un po’ meno quando dici “adulto”, grazie a Dio il mio sviluppo si è arrestato qualche anno fa! Scherzi a parte, penso che in dischi come Cupid And Psiche e Provision fossi molto più interessato all’aspetto musicale, volevo che fossero incisivi da quel punto di vista. Sono dischi incentrati sul concetto di groove, di musica suonata da più persone; questa volta invece è tutto incentrato sulla voce, sulle parole e sulla melodia. A parte i riferimenti alimentari, a cosa si riferisce il titolo del disco? “White bread” è un termine americano, usato in senso dispregiativo per indicare la parte “senz’anima” della cultura bianca. Per il resto, an- ve canzoni sembra il folk-pop, come se il tuo songwriting si sia orientato decisamente sul versante classico (vedi Snow In The Sun. Cooking, Mrs. Hughes, Dr. Abenathe), un po’ tra i Beach Boys, il pop californiano dei ’60, gli inevitabili Beatles... mi sbaglio? Hai assolutamente ragione. In questo disco ci sono tutti gli ascolti della mia infanzia. Prima del punk, quando ero al liceo adoravo Joni Mitchell, i Fairport Convention.. insomma, tra l’Inghilterra e la West Coast. Eno e Robert Wyatt! Amavo il mood di dischi come Rock B o t t o m e Ta k i n g T i g e r M o u n t a i n B y S t r a t e g y. I n q u e s t o mio nuovo album c’è un mix tra synth analogici - Se1, Nord, Super Jupiter etc - e roba come Virus, Supernova, più alcuni synth più soft come il Pro 53. Come software, preferisco il Logic piuttosto che i l P r o To o l s , l a v o r a n d o s u u n Mac G5. A proposito di Wyatt, sei sempre in contatto con lui? No, ma dovrei… e lo sarò presto! sentireascoltare 123 A quali stili musicali sei interessato oggi? Continuo ad avere una mentalità molto aperta. Ho ascoltato un sacco di hip hop della prima ora, dell’electro e, tra le cose della mia infanzia, Richard Thompson (per esempio). tissimo la mancanza. Non so se qualcuno potrà mai prendere il suo posto. Sono stato anche al suo funerale. E’ stato enormemente importante per la mia vita, gli devo così tanto. Nuove band britanniche? Beh, tutte le “nuove” band britanniche che cercano di suo- Di recente hai compiuto cinquant’anni. Se è vero che chi crede nelle utopie è un sognatore, quali sono i sogni che vuoi realizzare? Come canto in Robin Hood: “I dream of ending these dreams of mine” (“Sogno di porre fine ai miei sogni”). Sono speran- E della scena contemporanea, che ne pensi? Ho letto che adori Sufjan Stevens.. e che mi dici della scena hip hop ed electro attuale? Oh, sì, sapevo ci saresti arrivato.. Sufjan.. brillante, assolutamente brillante! Di recente non ho seguito molto la scena hip hop contemporanea, ho sempre amato l’hip hop della East Coast. E’ arrivata l’ora di scoprire qualcosa di nuovo! Dopo una carriera che ti ha dato le sue soddisfazioni, negli ultimi diciotto anni hai pubblicato soltanto due dischi. Ti definiresti un outsider? Oh, sì.. penso più che altro di essere “outside”! Gartside è assolutamente “outside”. Non tollero l’industria musicale, e in più sono pigro, e disprezzo il successo tanto quanto il fallimento. Come per molte altre band, John Peel ha avuto un ruolo primario nel promuovere la musica degli Scritti Politti ai tempi della vostra comparsa sulle scene. Adesso che non c’è più, cosa pensi della situazione mediatica in UK? Ci sono altri talent scout? E che mi dici delle nuove band britanniche? Eh, di John Peel si sente tan- nare come i Fall o i Gang Of Four o i Jam o i Clash o qualsiasi altra cosa.. mi fanno vomitare. L’ a n n o s c o r s o l a c o m p i l a t i o n Early ha di nuovo messo sotto i riflettori la tua primissima produzione. Da allora la tua musica ha attraversato diverse fasi, ma come vedi oggi quelle canzoni, il tuo modo di suonare di allora, il loro significato in termini sia musicali sia culturali? Non credo sopporterei di ascoltare di nuovo quelle canzoni! Detto ciò, stiamo provando Skank Bloc Bologna per suonarla presto dal vivo! Penso quelli fossero tempi molto interessanti per tantissimi motivi, ma non mi guardo mai alle spalle. Non sono un nostalgico, tanto meno della mia storia. Pensi che il rock o la musica “popolare” oggi possano avere ancora una funzione politica? Funzione politica? Hmm… ho problemi con il concetto di “funzione”. La musica di oggi è politicamente interessante? Sì. Può avere un significato politico? Sì. Può il suo futuro avere una dimensione politica? Da qualche parte.. in qualche modo. zoso. Mi piacerebbe avvicinarmi ad una verità (qualsiasi verità). Mi piacerebbe capire di più. Mi piacerebbe essere apprezzato. E’ noto che non ha mai avuto un grande feeling con il suonare dal vivo. Di recente però hai ripreso. Com’è stato? Chi ti accompagna sul palco? Proporrai vecchio materiale insieme a quello nuovo? Sì, ho ripreso a suonare dal vivo soltanto da poco … Di solito diventavo molto ansioso e soffrivo attacchi di panico! Ho arruolato una nuova band di giovani musicisti senza esperienza dal pub del mio quartiere!! Era quello che volevo fare. Enfatizzare l’amicizia, non tanto il suonare insieme. Sto cercando di rielaborare delle vecchie canzoni; l’altra sera abbiamo suonato The Sweetest Girl! Che ne dici di un tour in Italia? E tu, che ne dici di un invito? Stiamo per fare un po’ di concerti, e mi piacerebbe che presto qualcuno ci ingaggi per uno show in Italia! 124 sentireascoltare Antonio Puglia classic This Heat In occasione della ristampa dell’intero catalogo in un box di sei cd, Out Of Cold Storage, riassumiamo la parabola dei This Heat: un ponte tra passato - kraut - e futuro – post-rock Salute ed efficienza di Giancarlo Turra Come per i Faust a inizio millennio, la ReR di Chris Cutler ha approntato in occasione dei trenta anni dell’esordio dei This Heat Out Of Cold Storage, cofanetto che in sei cd ne raggruppa l’intero catalogo. Per l’occasione ci sforziamo di riassumere pensieri e significato di una delle formazioni più innovative e misconosciute di sempre. Parecchi paragoni possono essere tracciati, analizzando al proprio stile. Da ultimo - e più importante - l’aver narrato ieri molti dei nostri eccellenti domani. Ancora: il trio britannico fu avanguardia al cui centro ha sempre pulsato, anche quando l’oggetto era il grigiore di panorami industriali o l’invettiva contro il buio degli eighties, un cuore umanissimo, capace di avvicinare a musiche d’impatto eppure comunicative come poche. Cosa rara al giorno d’og- la sostanza del suo agire artistico, conservando un alone situazionista – e perciò punk nel senso più pieno - in un look falsamente anonimo e fotografie sottilmente provocatorie. Tutto comincia coi Dolphin Logic, formatisi nei primi ’70 da due Charles (Bullen e Hayward, chitarra, nastri e viola l’uno, batteria, tastiere e ancora manipolazioni magnetiche l’altro) che incrociano nel 1975 Gareth Williams la storia dei This Heat, col già citato ensemble di Wümme: innanzitutto, essere stati emeriti sconosciuti o quasi in attività e, una volta (ri)scoperti, venir additati quali antesignani di una delle stagioni tra le più stimolanti di sempre (il post-rock); l’aver gestito – da provetti non musicisti - la tecnologia a loro disposizione (primitiva se confrontata a quella odierna) e inteso studio e processi di registrazione al pari di strumenti integrati gi, in cui regna lo sfoggio dell’intellettualismo lambiccato a scapito della trasmissione del messaggio, trappola seducente in cui il trio non cadde mai durante la sua breve però fulgida parabola. (basso e ancora tastiere e nastri), iniziando a sperimentare ardite commistioni sonore dapprima a casa Hayward e poi sfruttando uno studio preso in affitto - il Cold Storage, appunto - nel quartiere londinese di Brixton. Ricavato con immane lavoro da una cella frigorifera, fungerà da casa per altri genialoidi dell’epoca come, per non riferire che dei più noti, Art Bears, Raincoats e Robert Wyatt. Se state pensando ai Can e all’Inner Space Nel racconto troverete ben pochi scossoni e la totale assenza di avvenimenti buoni per la “mitologia rock”: precursore anche in questo, il trio non perse mai di vista la concentrazione sulla musica, sentireascoltare 125 siete sulla strada giusta: medesima l’incessante dedizione a lavorare sul tessuto sonoro e la concezione del luogo d i r e g i s t r a z i o n e c o m e a t e l i e r, per non dire dell’impiego di registrazioni per dar vita a sonorità che la strumentazione dell’epoca non consentiva. Come accennato, il debutto col nuovo appellativo si compie nel febbraio del 1976, ma è la lungimiranza di John Peel a premiarli, poiché questi li ospita, sconosciuti privi di contratto discografico, in una session nel marzo del ’77. Assemblata in Made Available diciannove anni dopo, insieme a un’altra trasmissione dell’ottobre dello stesso anno, è uno dei più folgoranti domani avvenne mai ascoltati, una profusione di idee in anticipo e pertanto fuori posto (siamo nel pieno dell’apoteosi punk) amata senza condizioni da chi seppe cogliere. Da qui conviene partire saltando l’ordine cronologico ufficiale, dal momento che questi otto brani precedono l’esordio su disco di ben ventiquattro mesi costituendone in parte l’ossatura. Horizontal Hold riassume il miglior rock “avant”pervenuto dall’asse Chicago-Louisville, centrifuga di matematica Crimsoniana e algido funk che nel frattempo brevetta la Banda dei Quattro. Su di esso una chitarra si snoda serpentina squadrando un blues krauto che muore tra macchie acide d’organo, stasi industriali e strappi ritmici subliminali. 126 sentireascoltare Basterebbe da solo a sancire la grandezza del trio, e non si fatica a immaginare i giovani virgulti della nuova onda a prendere furiosamente nota, la bocca spalancata davanti alla radio. In realtà ci sono elargite ulteriori stupefacenti illuminazioni, come l’ambient malata e sulfurea di Not Waving (Eno sputato fuori dalla t e r z a f a c c i a t a d i Ta g o M a g o ) e la cupa veduta di una Canterbury trafitta d’epici e irosi clangori per l’anticipo di June Of ’44 a nome The Fall Of Saigon. La seconda serie di registrazioni mostra un lato in piccola misura più lineare della f o r m a z i o n e i n B a s e m e n t B o y, Slither e nell’astratto jazz di Sitting. A una più profonda disamina, tuttavia, le carte sono mandate in aria a mescolarsi dall’urto frontale di Rimp Romp Ramp, sospensione tra Shellac e Liars (!) che sconfina in un rabbrividente incubo di percussioni rade, e da Makeshift, efferato presagio della furia incompromissoria d i P. I . L . e P o p G r o u p , i l c u i caracollare ritmico richiama alla mente gli Slint. Devono passare due anni perché cotanto dispiego di idee possa essere digerito: gli unici a dare un’opportunità alla band sono Chris Cunningham dei Flying Lizards, che dopo aver aiutato in studio pubbli- ca quanto prescelto sulla sua neonata Piano, e Anthony Moore, spirito affine negli Slapp Happy che si affianca in fase produttiva. Una vera pietra miliare il risultato, l’omonimo album (Piano Records, 1978) che studia le infinite possibilità di organizzare il suono dopo la sua frammentazione in un apocalittico termometro di tempi a venire. Epocale, in una semplice definizione. Saranno in pochi, nonostante Peel e qualche isolata penna albionica (grande loro fan fu John Lydon: se ne comprendono senza sforzo le ragioni), ad accorgersi di questa musica che si va sempre più ammantando di un vivo senso di umana drammaticità. Nell’album si ripescano i tre brani della prima apparizione alla BBC, ora più affilati e scaltri grazie al magistrale uso dello studio, del quale il brano che apre la seconda facciata costituisce l’epitome suprema. 24 Track Loop consta di dieci secondi di musica incisi su 24 piste, mandati in circolo e filtrati da effetti. Brano molto amato dal gruppo e ripreso più volte, rappresenta una tautologica meditazione sull’ipnosi sonora - L a M o n t e Yo u n g s f i g u r a t o d a plumbei germanismi - che non dimostra le venticinque e più primavere sulle spalle, anzi pare fatto della medesima ma- teria creativa dell’elettronica e del rock non più rock degli ultimi anni. Come del resto è i l f a n t a s m a t i c o Te s t c a r d , l a m i na di drone posta come inizio e chiusura dell’lp, abbaglio dei suoni del nulla di fine secolo. Not Waving partecipa in una versione cantata impregnata di tristezza wyattiana amalgamata perfettamente coi fondali da dopo bomba su cui poggia. Water dispiega trame percussive tra Can e il Bowie di stanza a Berlino, ma i vocalismi sono orrorifici lament i ; Tw i l i g h t F u r n i t u r e c a v a l c a tribale eppure frenata verso la rarefazione mentre la sei corde produce note sparse perciò pesantissime, chiudendo la prima metà di un lavoro che, nel prosieguo, scioglie la trilogia senza soluzione di continuità di Diet Of Worms (follia in dissoluzione), Music Like Escaping Gas (nenia che accentuando la componente tossica del proprio nome) e Rainforest (sfaldarsi acustico estrapolato dal primo concerto della band). Prima di congedarsi avanza tempo per una nuova The Fall Of Saigon, coralità aspersa di livore in cui la chitarra cresce angolare e frenetica. Conosciuto anche come Blue And Ye l l o w p e r i c o l o r i d e l l a r i d u zionista copertina, il disco è un teatro dello smembramento del suono, la scomposizione delle sue parti prima studiate per forma e funzione e in seguito riassemblate con esiti di i m p r e v e d i b i l e m i s u r a . L’ a n n o successivo porta quale dote un tour europeo e il 12” che dà il nome a questo articolo: stampato ancora dalla Piano con l’aiuto di Rough Trade, Health A n d E f f i c i e n c y / G r a p h i c Va rispeed (1980), conduce alle estreme conseguenze nel retro - nomen omen che si suppone sarcastico - le potenzialità di trattamento dei nastri, sfigurandoli da presentimenti isolazionisti. Il lato A media il krautrock con una melodia folk albionica in un gioco di pieni e vuoti, ritmo ed effetti sonori presi sul campo, segnalando un ingegno per la forma canzone che in retrospettiva dice di un ponte gettato sul lavoro successivo. Mossi da assoluta e costante fedeltà a un credo artistico improntato alla sperimentazione, i tre pubblicano nel 1982 Deceit, seconda fatica sulla lunga distanza sotto l’egida Rough Trade, mettendo in mostra sensibili mutazioni nella continuità. Si infiltrano influenze etniche (Williams fu studioso e cultore della materia da laurearsi in religione e lingua dell’India dopo lo scioglimento del gruppo) nella percussività terzomondista di Shrink Wrap, e in una Indipendence dalla quale si levano suadenti aromi da potenziale outtake di Remain In Light. La forma canzone – seppur deviata prevale sovente sulla ricerca, imbrigliata in forme lievemente più contenute per capolavor i c o m e l ’ i n n o d i c a S . p . q . r. c h e inventa o quasi Savage Repu- blic, o la cantilenante Sleep che assesta uno schiaffo a certi damerini sedicenti orientalisti. Permangono elementi di raccordo con l’esordio nel satirico jazz mitteleuropeo da rigattiere Triumph e nella frenetica Paper Hats. Altrove si ascoltano progressioni compatte dominate da vocalità ieratica e nondimeno cantabile (Cenotaph: a Chicago se n’è preso nota), un esperimento collagistico sottotono ma sensato nel complesso (Radio Prague), la ripresa matura di Makeshift accompagnata nel titolo da un fuorviante Swahili, invece travolgente quanto equilibrato carro armato dai cingoli di velluto. New Kind O f Wa t e r, s t r a v o l t o c a n t o s u percussioni slanciate e sottilmente irregolari contrappuntate da minimali ronzii chitarristici, immette sulla conclusiva elegia funebre Suffer Bomb Disease, base di melodica e rumori, falsa field recording da un oriente futuro visto con disfattisti occhi occidentali. Meritevole addio Deceit, le cui liriche puntano l’indice contro l’irrespirabile clima sentireascoltare 127 politico e sociale del globo, immane sforzo espressivo che richiede come contropartita lo scioglimento del gruppo nel maggio del 1982, mentre Williams già da un po’ studia in India. Prendono così il via le carriere soliste di Hayward c o n C a m b e r w e l l N o w, d i B u l len come Lifetones e Circadian Rhythms e infine di Gareth, attivo anche nei circoli dell’improvvisazione inglese, sotto la sigla Mind The Gap. Si risentirà parlare di nuovo di This Heat nel 1993, quando l’etichetta legata al gruppo - la These - immetterà sul mercato Repeat, che ripesca Graphic Va r i s p e e d e l a t i t l e t r a c k , v e r sione lunga di 24 Track Loop più che mai faustiana, cosparsa di frammentazioni rumoristico-ritmiche che fiutano la sperimentazione elettronica oggi popolare. Metal, l’altro inedito, è ipnosi ricomposta in studio, la base di partenza una registrazione effettuata fuori dal Cold Storage con una testina tridimensionale, spettrale gamelan urbano che stratifica bordoni metallici essiccando un sentire post-industriale in trance pura. Tre anni dopo giungono il dispaccio delle Peel Session (il già citato Made Available) e la ristampa sempre su These di Deceit, mentre l’omonimo resta, dopo una fugace stampa del 1991, chimera fuori catalogo; sarà la ReR a rendere g i u s t i z i a a B l u e A n d Ye l l o w r i stampandolo dieci anni dopo, nel 2006. Frattanto, grazie al mutare dei paesaggi sonori e all’assurgere del post rock, vanno chiarendosi influenza e peso della formazione britannica. Nel dicembre del 2001, dopo che i tre si erano ritrovati a suonare assieme, Gareth Williams ci è strappato da un male incurabile; alla sua memoria si organizza un concerto al quale suonano Bullen più Hayward e gli immensi Wire al gran completo. Negli ulti- 128 sentireascoltare mi giorni del 2004 dalla ReR trapela la notizia relativa a Out Of Cold Storage (1. This Heat; 2. Health & Efficiency; 3. Deceit; 4. Repeat; 5. Made Available (BBC); 6. Live - previously unreleased; con un libretto a colori di 44 pagine), e inizia la trepidante attesa concretizzatasi nell’afosa tarda primavera di quest’anno. In tanta abbondanza, fiore all’occhiello un libretto generoso e rivelatore per apparato critico e iconografico, il sesto cd mette ordine tra cassetti e archivi rintracciando due concerti dal biennio ’80-’81, cui s’aggiunge un altro dischetto 3” compreso solo nelle prime milleduecento copie prenotate. Alla luce della filosofia artistica della band, vi starete probabilmente domandando se vi siano ancora inediti provenienti dalle mura del fu Cold Storage. A questo proposito, due anni fa Hayward si è pronunciato così: “Abbiamo vagliato parecchio materiale e ce ne sarebbe per un paio di doppi cd, più un montaggio virtuale di un live. Tuttavia, dopo la morte di Gareth queste cose sono sempre più dure da farsi dal punto di vista emotivo”. Cuore e anima: uno, sicuramente, brucerà. classic album Arthur Russell - First Thought Best Thought (Rough TradeAudika / Self, aprile 2006) “Se Nick Drake fosse vissuto abbastanza a lungo da poter r e g i s t r a r e c o n i N e w O r d e r, i l risultato sarebbe qualcosa di molto simile ad Arthur Russell”. Così un numero del 2004 di Rolling Stone sintetizzò l’operato in vita di Arthur Russell. Definizione seria ma non totale: semplicemente incompleta. Ovvio che il magazine faceva perno sul Russell che tutti conoscono, ovvero quello dance e luminare pop trasversale, trascurando - vuoi per la scarsità di materiale reperibile, vuoi che questo stesso materiale non è mai stato degno di un adeguata visibilità - l’operato di quello della prima ora, compositore d’avanguardia, fautore di piece orchestrali che oggi, in epoca digitale, rivendicano il proprio esistere. Quindi tocca ringraziare per l’ennesima volta l’Audika Records (label che tiene molto a cuore la causa Russell), che, con un encomiabile operazione di ripescaggio, (ri)mette mano a quei nastri dimenticati e sconosciuti appartenenti al primo soggiorno newyorkese del Nostro, quando, poco più che ventitreenne, raggiunse la Grande Mela, lui nativo dello b u ì t e m p o a v a n t i n e i Ta l k i n g Heads), mentre tutt’altro che una voce fu l’interessamento di John Hammond (l’uomo dietro Dylan, Springsteen e Billie Holiday) per l’arte di quell’ensemble, che scelse come proprio teatro le mura del Kitchen Iowa, dopo un apprendistato di musica indiana nella celebre Ali Akbar Khan School di San Francisco. Animo buddista e un violoncello: ecco cos’era il Russell dei primissimi anni ’70. Requisiti minimi che però lo portarono ad inserirsi da subito nella downtown pulsante che e r a a l l ’ e p o c a N e w Yo r k . T r o vò domicilio in una palazzina situata nella 12ma Strada East, dividendo numero civico con Richard Hell (che proprio nel medesimo stabile viveva), marciapiede e qualche performance con Allen Ginsberg (che a pochi isolati da lui abitava) e casa con Rhys Chatham, futuro agitatore sonico della N e w Yo r k p i ù o f f ( n o n q u e l l a d i Te l e v i s i o n e P a t t i S m i t h , tanto per intenderci). Tra una lezione e l’altra presso la Manhattan School Of Music, il musicista sperimenta con Peter Zummo quella che sarà la sua prima bozza di gruppo, i Flying Hearts, compagine aperta che ospiterà molta della scena avant locale, come il citato Chatham, Ernie Brooks, Larry Saltzman e Jesse Chamberlin tra gli altri. Leggende metropolitane mai smentite dicono di un David Byrne anch’egli coinvolto (sicuro è che Russell contri- Club (come a dire, non si vive di solo CBGB’s…), registrandoci in due serate (quelle del 27 aprile 1975 e del 10 maggio 1978 - con un eccezione datata 23 giugno 1977 ed eseguita al Franklyn St. Art Center) buona parte del materiale incluso nella raccolta doppia First Thought Best Thought. Ora, occorre far chiarezza sull’operato dell’Audika: in First… si ascolta, finalmente nella sua totale bellezza, il progetto Instrumentals, lavoro inspiegabilmente mai edito per intero (la sua prima parte appartiene alla nidiata di inediti ivi contenuta) e vittima, nell ’ e d i z i o n e I n s t r u m e n t a l s Vo l 2 (licenziata dalla Les Disques Du Crépuscule nel 1984), di un madornale errore in fase di masterizzazione, nonché nella lista dei credits. Un disastro che meritava giustizia, una magia la musica che ne deriva. Molti rimarranno basiti nello scoprire che il Russell di Instrumentals è il medesimo di The World Of Arthur Russell o di Another Thought: una musica dal sottile impianto rock - ci suonano Ernie Brooks al basso, Arthur Russell al cello, Andy Paley alla batteria, Rhys Chatham, Jon Gibson, Peter Zummo e Garrett List ai fiati, Jon Sholle alla chitarra, Peter sentireascoltare 129 Gordon alle tastiere e David Va n Ti e g h e m a l l e p e r c u s s i o n i - che accarezza la musica da camera più lovely per poi sciogliersi in epiche frasi morriconiane; poi Reach One, inedito intreccio (in tutti i sensi) tra due elegiaci Fender Rhodes c h e p r e l u d o n o To w e r O f M e a ning, ripescaggio di un rarissimo Lp uscito in sole 320 copie per la Chatham Sq di Philip Glass: un onore per i fortunati possessori, un crimine per i t a n t i r i m a s t i f u o r i . L’ a n d a z z o è simile alla seconda parte di Instrumentals ma è la novità, il piacere nell’ascoltare queste arie memori sia di Glass che Charles Ives a trascendere il valore documentaristico e colpire al cuore. Chiude l’inedito Sketch For The Face Of Helen, nove cosmici minuti per tone generator e tugboat suonati dallo stesso Russell in uno sconosciuto giorno dei primi ’80, quando cioè il Nostro cominciava a sdoppiarsi tra piste da ballo e mondi di eco. Altra storia, questa… Gianni Avella Sebadoh – III (Homestead, settembre 1991 / Domino Self, 23 luglio 2006) 1 9 9 1 , T h e Ye a r P u n k B r o k e . Così recitava il titolo di un celebre documentario di Dave M a r k e y s u S o n i c Yo u t h , N i r v a n a e D i n o s a u r J r. , e q u e l l o fu proprio l’anno in cui finalmente, dopo aver covato sot- 13 0 s e n t i r e a s c o l t a r e to la cenere, esplose il fenomeno dell’alternative rock, in buona parte grazie alle band protagoniste di quel film. In settembre usciva l’album che avrebbe sancito l’inizio della nuova era, Nevermind; in contemporanea Lou B a r l o w, il reietto del Dinosauro, dava ufficialmente il via a una nuova avventura che avrebbe a sua volta istituzionalizzato un ulteriore mondo sotterraneo (una sorta di underground dell’underground, se volete). In realtà, già da diverso tempo l’ex bassista aveva trovato un’intesa con il vecchio amico Eric Gaffney – chitarrista, batterista, autore e “terrorista musicale”, nelle parole di Barlow – inaugurando dapprima i Sentridoh (1987), poi appunto i Sebadoh, sigla sotto la quale erano uscite le due cassette The Freed Man (1989) e Weed Forestin’ (1990), raccolte di folk song casalinghe, sound collage amatoriali e giochi con i nastri dei due; ma soltanto con l’inserimento di Jason Loewenstein (a sua volta chitarrista, batterista e autore) e un accordo con la Homestead il progetto prese effettivamente, da esperimento di home recording qual era, la forma che ne consentì partenza ed evoluzione negli anni, fino allo stop del 1999 - interrotto da sporadici tour acustici e relative voci di ripresa. Quello di III è un gruppo rock come probabilmente se ne vedevano pochi nel 1991, un mostro a tre teste basato su un equilibrio quanto mai precario (allergico alla routine, Gaffney abbandonerà nel giro di un paio d’anni, non senza aver lasciato il segno), tanto che in questo caso la diversità e la varietà compositiva sono un’inevitabile conseguenza ancor prima che un difetto. I ventitre brani del disco costituiscono un mosaico schizofrenico e imprevedibile, in cui l’indie-emo, l’hardcore e il folk dolente di Barlow (in T h e F r e e d P i g , G o d To l d M e e To t a l P e a c e c ’ è t u t t a u n a carriera) convivono con i folli esperimenti psych di Gaffney (i quasi sette minuti conclusivi di As The World Dies The E y e s O f G o d G r o w B i g g e r, o le altrettanto stranianti Violet Execution e Supernatural Force), con un Loewenstein non ancora perfettamente inserito (vedi il jazz-noir di Smoke a Bowl, il country “nirvanico” Black Haired Gurl e Hoppin’ Up And Down, in odore del primissimo Lanegan solista - ma il suo apporto diventerà significativo soltanto in seguito); ad intorbidire ancora di più le acque, accanto a questa nuova impostazione “rock” riaffiora in coda all’album l’impronta collagistico-acustica delle prime cassette (Hassle, No Different, Spoiled). Una specie di White Album dell’indie rock, insomma; di lì a poco verrà il Sgt. Pepper ’s del caso - ovvero Slanted & Enchanted dei Pavement - e il resto, come si dice, è storia. Ma il valore di III, più che musicale - per chi scrive, i Sebadoh il meglio lo avrebbero dato nel post-Gaffney con Bakesale (1994), quando non ancora prima con la tripletta Vs Helmet / Rocking The Forest / Bubble And Scrape (1992-93) - è storico-ideologico: con questo discoil lo-fi irrompe nell’alternative in maniera esteticamente fondante, non più – non solo - come una mera necessità legata alla carenza di mezzi; da allora in poi la bassa fedeltà sarà uno stile, ed essere sgangherati e disgraziati diventerà - perversamente - tanto cool quant o , p e r d i r e , i S o n i c Yo u t h . Ma, a sentire un recente Lou B a r l o w, c ’ e r a a n c h e q u a l c o s a in più: “Sentivo che la musica underground era diventata mono-dimensionale, rumorosa, e la mia reazione a ciò fu di prendere in mano una chitarra acustica. Sapevo di percorrere la via giusta, anche se la gente diceva che ero una ‘fighetta’: piano era il nuovo forte” (da un’intervista a Mojo). Parole che, seppur nel tipico stile vittimista e autocommiserativo del Nostro, suonano maledettamente bene. La ristampa expanded targata Domino dell’estate 2006 arriva a suggellare l’attuale momento di rivalsa dell’indie, mentre Barlow continua a girare il mondo coi riformati Dinosaur Jr e annuncia un tour autunnale con Loewenstein, che a sua volta aveva fatto alcuni concerti con Gaffney nel 2005. In attesa di una – a questo punto fin troppo prevedibile – reunion, ecco intanto un cd extra che include lo storico EP Gimmie Indie Rock del 1991 (ça va sans dire, l’inno di una - un’altra – generazione) e qualche imperdibile oddity come Showtape ’91 (umoristico collage di false presentazioni del tipo: “i salvatori dell’alternative rock, i vostri fumatori d’erba preferiti, Jason, Eric e Lou, i Sebadoh!”); ma che in realtà consta per la maggior parte di demo di G a f f n e y, q u a s i a r i b a d i r e c h e Sebadoh non è mai significato s o l t a n t o B a r l o w. D i f r o n t e a l ritrovato riconoscimento del pubblico, siamo sicuri che all’occhialuto Lou non dispiacerà più di tanto. Antonio Puglia The Triffids – Born Sandy Devotional (Hot, 1985 / Domino, giugno 2006) Lode e gloria alla Domino Records che dopo tanti, troppi, anni d’attesa decide di riportare alla luce l’intera discografia di una delle più grandi band australiane di tutti i tempi, i Triffids, attraverso una serie di ristampe che culmineranno con la pubblicazione di un monumentale greatest hits già previsto per i primi mesi del prossimo anno. Formatisi nella prima metà degli anni Ottanta attorno alla figura carismatica del cantante, autore e chitarrista David McComb (scomparso nel 1999), i Triffids hanno rappresentato una delle parabole più sincere e sfortunate dell’intero panorama rock australiano. Più volte sul punto di compiere il definitivo salto di qualità verso lidi commerciali e di pubblico più appropriati alla statura della loro musica, la band originaria di Perth ha sempre dovuto fare i conti con un destino capriccioso e beffardo che ha negato a McComb e compagni quel successo e quella gloria che avrebbero indiscutibilmente meritato, dall’alto di una manciata di dischi assolutamente strepitosi. Album di una semplicità poco meno che disarmante, dove la classica ballata di stampo west coast è la formula ideale per raccontare storie d’ordinaria emarginazione, rese ancora più disperate de quella patina darkeggiante che aleggia su ogni singolo episodio narrato dalla band australiana, come i Doors catapultati in epoca new wave. Originariamente pubblicato nel 1986, Born Sandy Devotional rappresenta il punto più alto mai toccato dal gruppo e uno dei vertici assoluti di tutto il rock australiano. La scrittura cruda e feroce di Mc Comb trova la sua naturale collocazione all’interno di una struttura compositiva che guar- da alla classicità del suono roots americano con invidiabile concretezza, sfociando ora i n b l u e s c a t a c o m b a l i ( Ta r r i l u p Bridge) ora in preziose fughe pop and roll (Chicken Killer) che da lì a qualche anno avrebbero fatto la fortuna di band come i Primal Scream. Imbattersi in Lonely Stretch vuol dire essere scaraventati contro uno spiritato boogie blues che soltanto la penna di Jeffrey Lee Pierce avrebbe potuto partorire: Wide Open Road è la ballata che ogni rocker sogna di scrivere almeno una volta nella vita; Life Of Crime un sanguigno ed insinuante mid tempo mentre Per- sonal Things mostra con orgoglio le ferite sanguinanti del miglior Cave. Il punto di non ritorno dell’album e di tutta la vicenda compositiva di Mc Comb è però quell’infinita e romantica escursione sospesa tra il bene ed il male che risponde al nome di Stolen Property: sei minuti e quaranta di scintillante bellezza dove gli angeli e i demoni, che hanno sempre vigilato sulla vita e la morte di David, sembrano unirsi in un unico magico coro. Riscoprire questo album è un dovere morale. Stefano Renzi Fred Neil - Self Titled (Capitol, 1967; Water, gennaio 2006) Fred attese pazientemente il terzo lp per il titolo omonimo, s e n t i r e a s c o l t a r e 131 esordendo su Capitol nella probabilmente fioca luce del gennaio 1967 dopo aver girovagato gli Stati Uniti, vergato brani per Buddy Holly e Roy Orbison ed esser infine app r o d a t o a N e w Yo r k , e n t r a n do nel giro del folk revival del Greenwich Village. Da lì, prima di un album (più mezzo con Vince Martin, Bleeker & Macdougal) per l’Elektra, avrà ancora tempo e modo di divenire un mito per i Jefferson Airplane, influenzare David Crosby e farsi accompagnare da John Sebastian e Bob Dylan. Fin qui i fatti, nudi e crudi. Dice bene, anzi benissimo Peter Childs, nelle note della recente ristampa (una tantum priva di bonus per non intacc a r n e l a p e r f e z i o n e ) s u Wa t e r, che per conoscere Fred Neil non si deve fare altro che distendersi e ascoltare questo disco. Sta tutta lì, insomma, la magia del suo autore, che sulle ali di una voce che congiunge Buckley e Cash ti abbatte il cuore a colpi di avvolgente malinconia, la medesima che si lascia ghermire per un attimo dagli sguardi della copertina. Dieci composizioni sono il mezzo, allora, per spaziare dal blues all’acidità attraversando il più possibile la gamma di toni intermedi, piegando l’elettricità dentro una buccia jazz, scompigliando le carte di un folk-rock che trapassava in qualcosa di sconosciuto o quasi. Una canzone di questo album l’hanno ascoltata tutti almeno una volta, in molte salse, garantendo a Fred un sereno campare quando si ritirerà dalle scene nel 1977 tornando nella natia Florida per dedicarsi alla biologia marina, ed è E v e r y b o d y ’ s Ta l k i n ’ , r i l e t t a da Harry Nilsson per la colonna sonora del capolavoro di John Schlesinger Un uomo da marciapiede. Dimenticatene la vivacità e datevi in toto alla scarna meditazione del- 13 2 s e n t i r e a s c o l t a r e l’originale, scorgendovi e attraversando la “pioggia che cade” per andare “dove il sole continua a splendere”. Prima, però, sappiate che c’è una facciata intera di meraviglie da ascoltare, dischiusa dal liquido peana ai più intelligenti mammiferi acquatici, venato da lame tristi che ne affollano il finale, The Dolphins, classico ripreso infinite altre volte e che sarà canto di redenzione finale dall’abisso del Tim ormai sprofondato. I’ve got A Secret segue (fischiettante e distesa versione di un brano di Elizabeth Cotton) profonda e calda come un abbraccio di un vecchio amico, campagna appena inurbata da chitarra e melodia di cristallo, laddove That’s The Bag I’m In è il testimone blues che Mark Lanegan raccoglierà, premurandosi di rileggere più di tre decenni dopo l’inquieta asciuttezza serpentina di Badi-Da. Faretheewell (Fred’s Tune) mette il nostro a nudo, confessione dietro quinte di contrabbasso e chitarra in cui Fred si nasconde e ricompare, scavalcando la hit di cui sopra, per buttarsi di slancio, attraverso l’irresistibile swingare di Everything Happens e il brio tutt’altro che narcotico di Sweet Cocaine, sulla chiusura, affidata alla trasfigurazione diddleyana Green Rocky Road e agli otto minuti otto di vorticoso “inalare” etnopsichedelico strumentale di Cynicrustpetefredjohn Raga, lezione da manuale di visionarietà messa a fuoco e a frutto. Non stupisce che in pochi si accorsero di questo album un capolavoro, non mi fossi fin qui spiegato a sufficienza - all’epoca della sua uscita, continuando così il destino inevitabile di parecchie opere di medesima fatta. Nel rendergli giustizia, farete uno smisurato e sempiterno favore a voi stessi. Giancarlo Turra classic note a margine una rubrica di Giulio Pasquali A volte una risata è soltanto una risata, altre volte ridere è una cosa seria, anzi serissima. Un excursus sul rock demenziale italiano, d a g l i S q u a l l o r a E l i o e l e S t o r i e Te s e , p a s s a n d o p e r g l i S k i a n t o s . T’ILLUMINO, DEMENZA. Ovver o g l i e q u i v o c i s u l r o c k d e m e n z i a l e e i s u o i p r o t a g o nisti Ridere sul serio Non dovrebbe esserci bisogno di scomodare filosofi e scrittori veri (Bergson e Pirandello per dirne due) né libri immaginari (il fantomatico secondo libro della Poetica di Aristotele evocato ne Il nome della rosa ) per spiegare che, per quanto possa sembrare strano dirlo, ridere è anche una cosa seria. In teoria basterebbe pensare a Giorgio Gaber (nella sua f a s e d e l “ Te a t r o C a n z o n e ” ) , o a Beppe Grillo, e nessuno dovrebbe avere problemi a riconoscere che attraverso la comicità si possono dire cose serie. In generale non dovrebbe essere un problema riconoscere che esistono risate di tanti tipi diversi, e che una battuta che per esempio coglie il lato divertente di una tragedia non è uguale alla satira su un politico ladro né alla goliardata o alla battuta volgare da osteria. M a i l c a s o d i R A I - O T, c o n a l cuni politici che pretendevano che la satira fosse “bonaria presa in giro del potere al fine di rendere più amabili alla gente i suoi rappresentanti”, dimostra che la questione non è chiara per niente, e che per costoro (guarda caso i bersagli degli strali satirici della Guzzanti ) ridere è una cosa innocua, leggera, pura evasione. Purtroppo non sono i soli: anche a livello di senso comune si pensa che ciò che fa ridere sia per sua stessa natura poco serio. E se la distinzione tra lo stile tragico “alto” e quello comico “basso” esiste fin dall’antica Grecia, è anche vero che la satira, quella che “ridendo castiga i costumi”, non solo all’epoca esisteva già ma era addirittura codificata come genere letterario vero e proprio. E se costumi e bassezze da satireggiare sono sempre esi- stiti, sono però cambiate nei secoli le forme del loro dileggio. Non si vuole certo farne una storia qui, ma tra le commedie di Plauto, quelle di Molière o Goldoni, e la furia iconoclasta con cui le avanguardie di inizio ‘900 attaccavano il conformismo e l’ipocrisia delle nuove classi medie e dominanti c’è una certa differenza. E mentre da una parte vecchie forme e stili permangono, dall’altra lo stesso tipo di risata può cambiare anche nella storia. Tutto questo per dire che non basta che uno spettacolo o una canzone “faccia ridere” per determinarne automaticamente la natura, e che capirla è ancora più difficile se perfino su un genere plurimillenario come la satira spesso manca chiarezza. Ed è da qui che ha origine la confusione sul rock demenziale, che nel sentire comune (ma non solo: perfino Berton- s e n t i r e a s c o l t a r e 133 celli, in un articolo su Cuore dei primi anni ‘90 cadeva in questo equivoco) da una parte è identificato per lo più con gli Squallor e con Elio e le storie tese, dall’altra anche chi associa a questa definizione gli Skiantos spesso fatica a identificare le pur notevoli differenze estetico-stilistiche tra loro e gli altri due gruppi. Pierpaolo a Napoli: gli Squallor Tutto comincia quando un gruppo di discografici di base a Napoli decide che per rilassarsi non c’è niente di meglio che formare un gruppo-fantasma (avranno preso esempio dai Residents ?) dal nome programmatico di S q u a l l o r, nei cui dischi Troia non è solo l’antica città asiatica (nonostante il cavallo di legno in copertina, che però è a dondolo....), bensì uno degli infiniti doppi sensi che intitolano le loro opere (e così Pompa, Cappelle, Scoraggiando hanno in copertina rispettivamente un distributore di benzina, dei funghi e ... vabbè, una donna vista da dietro). All’interno della loro nutrita discografia, se si eccettua qualche puntata nella satira ( USA for Italy , nella quale si chiedevano soldi a Michael Jackson nel periodo in cui faceva il Live Aid) e altre surreali ( Non mi mordere il dito, la cui musica proveniva nientemeno che da The Mosquito, un pezzo dei Doors post-Morrison), il tipo di umorismo non va molto più in là di quello delle copertine, ovvero doppi sensi e bozzetti di costume da avanspettacolo riversati nel formato disco con spirito goliardico. Si gioca anche sullo scarto tra l’apparente normalità della musica che imita i generi in voga (e qui l’esperienza di produttori si sente) e i suddetti testi; ma il successo del gruppo si basa soprattutto sulla loro novità, per quanto discutibile. Nell’Italia bigotta pre-’68, infatti, 13 4 s e n t i r e a s c o l t a r e gli Squallor non sarebbero potuti esistere (come, per dire, non esistevano le riviste porno). “Proibito” ma possibile invece negli anni ‘70, il gruppo costituiva un’oasi di turpiloquio franco, uno sfogo di umorismo crasso equivalente ai film di Pierino; i suoi erano i dischi in cui “si rideva”, se uno ha del ridere un’idea prevalentemente di evasione leggera legata al nominare le funzioni corporali. Niente di male, per carità, ognuno ride come vuole; e poi quest’umorismo aveva anche una sua piccola valenza liberatoria, e nei dischi c’era anche qualche spunto interessante di umorismo surreale o di satira. Ma non era “rock demenziale”: il genere, e il nome, nascono qualche anno dopo con gli Skiantos, che come gruppo sono completamente un’altra cosa. Largo all’avanguardia, pubblico di m... Gli Skiantos nascono negli anni ‘70 a Bologna ad opera di alcuni studenti del DAMS che amavano sia il rock’n’roll e il punk che il teatro d’avanguardia. La loro poetica era figlia del clima bolognese di metà anni ‘70, ossia quella magica fusione tra impegno politico anche duro (non a caso a reprimere il Movimento arrivarono perfino i carri armati) e il felice fermento creativo che vide nascere riviste come Il Male, Cannibale e Frigidaire e fiorire i talenti di fumettisti come Andrea Pazienza (che in Pentothal cantò quegli anni e in Pompeo , in qualche modo, la loro brutta fine) e Ta n i n o L i b e r a t o r e n o n c h é d i romanzieri come Stefano Benni. Un’esplosione di fantasia militante che sperimentava la fusione delle varie discipline artistiche e che spesso dava un elemento creativo anche alla lotta politica. Nel clima generale di un de- cennio che non era strano solo a Bologna, era possibile questo, erano possibili i suddett i S q u a l l o r, e r a p o s s i b i l e c h e accanto a quelli tradizionali fiorisse una genìa di cantautori folli (Rino Gaetano il più illustre, un altro per il quale ridere era una cosa serissima) ma anche che il mainstream fosse popolato da personaggi pazzerelli come Amanda Lear , il primo Renato Zero, le Fig l i e d e l Ve n t o e u n p o ’ a n c h e i Matia Bazar . Gli Skiantos sono figli del luogo e del tempo in cui sono nati, sebbene non fossero strettamente politici come molti artisti loro contemporanei. Il loro mix di sberleffo, programmatica incapacità a suonare e a cantare, e messa alla berlina dei luoghi comuni della canzone (ma non solo), sia a livello musicale che lirico (vabbè...) - un merito questo che Freak Antoni ha riconosciuto in parte anche agli Squallor - era politico in senso lato, nel senso di critica al conformismo e di rivoluzione creativa. La canzone comica esisteva da sempre nella tradizione popolare, e anche nel ‘900 gli esempi erano stati numerosi ( Freak Antoni qualche anno più tardi ne studierà la storia col progetto Beppe Starnazza e i Vo r t i c i ) e a n c h e i n q u e g l i anni c’erano comici attori e cantanti che usavano la canzone in questa direzione. Ma per l’appunto si trattava di comicità, non di demenza. Gli Skiantos aggiungono l’oltraggio punk e il gusto per l’happening ereditato dal Living Theatre, che renderà i primi concerti del gruppo dei veri e propri eventi (il lancio di ortaggi e oggetti dal -prima che sul- palco, le reazioni del pubblico che veniva provocato da versi come “largo all’avanguardia, pubblico di merda”, ma anche il caso famoso del concerto in cui il gruppo invece di suonare cucinò la pasta sul palco). E anche la demisti- ficazione dei luoghi comuni, già arma dei comici e presente in parte anche nel gruppo napoletano, nei bolognesi acquista un colore e un’incisività differenti perché nata da una consapevolezza dei modelli culturali del potere acquisita sugli scritti sociologici dell’epoca. E poi l’elemento propriamente “demente”, nato dagli studi sulle avanguardie storiche (quando Freak Antoni parla del demenziale non manca mai di nominare il Dadaismo) e fatto di nonsense, di poesia casuale, di follia e sberleffo mancava nel punk inglese (anche se i Fall arriveranno di lì a poco) e rende la proposta dei nostri originale e più vicina a certo Zappa che non, per dire, ai Clash. Anche musicalmente il gruppo, mentre derideva gli stilemi più classici del rock d’oltreoceano e oltremanica, creava allo stesso tempo i primi esempi italiani di un certo tipo di questa musica, dando al Belpaese quel rock cui non erano giunti né i suoi gruppi beat dei ‘60 né il suo ricco filone prog dei ‘70 (tra l’altro, dal secondo disco in poi avevano anche imparato a suonare: rock, punk, un po’ di new wave, ma li sapevano suonare). E’ la sintesi di tutti questi elementi, alcuni nuovi altri usati per la prima volta in un certo modo, il punto di originalità degli Skiantos , ciò che li rende diversi non solo dai s u c c i t a t i S q u a l l o r, m a a n c h e da un certo gruppo milanese di grande successo negli anni ‘90... Somari, tonti e mezzo rimbambiti Ma prima gli anni ‘80, il decennio in cui gli Skiantos prima muoiono, poi provano a rinascere, infine ci riescono. E non solo perché dal 1987 in poi la loro attività non ha più conosciuto soste (sia pure senza la rilevanza di fine anni ‘70), ma anche perché era già qualche anno che alcuni gruppi avevano cominciato a raccoglierne il testimone. Nascono infatti tutta una serie di band che, rifiutando i buoni sentimenti, la retorica rassicurante, la razionalità ma anche la versione ormai codificata e innocua della “trasgressione” rock rifiutano anche quegli elementi che garantiscono il successo presso il grande pubblico. Infatti restano per lo più in ambito underground (testimone ne è il fatto che i tentativi di alcuni manager di rendere più commerciale il suono degli Skiantos non abbiano sortito effetti monetariamente apprezzabili), preferendo dedicarsi alla ricerca di formule personali per raccontare le loro storie, declinando a modo loro le intuizioni dei bolognesi. I T r u z z i B r o d e r s d i To r i n o , per esempio, ereditano la sgangheratezza degli esordi Skiantos come programmatica risposta alla New Wave (per loro il nemico n. 1 del rock vero) per un realismo nato dalla metropoli piemontese e filtrato attraverso l’ironia e il gioco, per esempio sul linguaggio pubblicitario (vedi Kasamercato ). Meno stressati i romagnoli Lino e i Mistoterital e i toscani Edipo e il suo complesso : l’amore per il rock in entrambi i gruppi si unisce a un buon talento melodico, che li rende artefici di un demenziale più “gentile” ma comunque efficace nel deridere luoghi comuni di ogni tipo usando o colpendo le icone e il linguaggio dei media, nonché il linguaggio tout court (vedi Tienti le tue trote per i primi e Ma, Sanga Trafanga per i secondi). Tra un gioco metamusicale ( Se sono storie di vent’anni fa , Lino che omaggia i Beatles e M’è morto il gatto di Edipo, cover in pistoiese di With or Without Yo u b l o c c a t a d a l m a n a g e m e n t degli U2), qualche storia sur- reale e una satira sulle vacanze il gioco, svolto con efficacia e talento, è il solito: una musica che rifacendo in burla il passato diventa allo stesso tempo più consapevole, e un linguaggio che mentre ride e scherza col dialetto e con i media fa filtrare storie e sensibilità particolari. Mentre lo zappiano Sandro Oliva unisce - come il suo maestro - elaborazione musicale e attitudine d’avanguardia, con una lingua tagliente e sopra le righe puntata su conformismo e banalità musicali e non; mentre negli anni ‘90 Latte e i suoi derivati bersaglieranno gli stessi obiettivi per mezzo di un’impostazione più da comicità classica -sostenuta da un notevole talento attorialee di un accentuato eclettismo musicale; mentre un cantautore di talento come il livornese Bobo Rondelli (del gruppo Ottavo Padiglione) fonde l’amore per la canzone nobile del filon e Te n c o - C i a m p i c o n l o s p i r i to irriverente della sua città; mentre sempre nei ‘90 il techno-sciamano MGZ mette alla berlina le follie della vita moderna su basi Prodigy; mentre succede tutto questo, intorno al ‘90 è arrivata la quadratura del cerchio. Pierpaolo a Milano: Elio e le storie tese Se ridere non è a senso unico, non lo è nemmeno il turpiloquio. Questo era stato un tratto distintivo degli Squallor , per i quali nasceva più che dalla riproduzione senza filtri del linguaggio parlato, dal gusto goliardico di parlare finalmente di ciò che buona creanza e pruderie impedivano di trattare esplicitamente nelle canzoni. Ma la goliardia, più che essere una dimostrazione di libertà, dimostra che la repressione è innanzitutto nella testa di chi la pratica. Basterebbe leggere i testi di Leonard Cohen per capire come parla di sesso, s e n t i r e a s c o l t a r e 13 5 per esempio, uno che ha fatto pace con l’argomento e ne parla in modo davvero libero. E basterebbe notare che negli Skiantos e negli altri gruppi nominati il turpiloquio, se non assente, è puramente occasionale e dettato dal contesto, capita come capita nel parlato quotidiano invece di essere ostentato come chissà che cosa esaltante. Certo, nei romani Santarita Sakkascia il linguaggio quotidiano è quello di gente non particolarmente fine, ma come nei momenti grezzi dell’ Ottavo Padiglione si sente che è parlata popolare senza filtri, che non stanno ammiccando ma parlano proprio così. Insomma, saranno entrambe “volgarità”, ma ammiccare chiamando un disco Palle non è come dire “largo all’avanguardia, pubblico di merda”. Per cui poi si verifica il curioso fenomeno per il quale, di tutti i gruppi nominati finora, quelli che hanno venduto di più siano stati, contrariamente a quanto si può pensare (e con l’eccezione dei Santarita ), proprio i più sboccati, ovvero gli Squallor e Elio e le S t o r i e Te s e . Nato all’inizio degli anni ‘80, questo gruppo milanese esplode dopo una gavetta decennale nel cabaret verso l’inizio dei ‘90, trovando appunto la quadratura del cerchio, cioè vendere il demenziale, grazie a una formula di rara efficacia -almeno commerciale- riassumibile in pochi punti. 1 - Una tecnica strumentale notevole che li legittima davanti ai critici, attira i cultori del virtuosismo e dà una giustificazione a chi si vergogna di ascoltare un gruppo che “scherza” o “dice le parolacce”. 2 - Citazioni furbe di elementi dell’immaginario trash, che si inseriscono nel revival e fanno “gruppo arguto” solleticando la 13 6 s e n t i r e a s c o l t a r e memoria di un pubblico più o meno coetaneo. 3 - Un’epica dello sfigato sessualmente represso e imbranato con le donne, vagamente maschilista, che n e l p a e s e d e l Va t i c a n o n o n poteva che spopolare. 4 - Analogo quindi il modo in cui parlano di sesso o di funzioni corporali: compiaciuto e allo stesso tempo innocuo, è quello del bimbetto che dice “cacca” per scandalizzare il parroco pensando di aver fatto chissà cosa. Risultato? Il culto di milioni di fans, che premiano perfino un album trainato da un singolo come Shpalmen (quella h odiosa, chissà perché), nel quale si parla di un supereroe che spalma di sterco i suoi nemici: poi dice che Freak Antoni si incazza... e infatti sono anni che li accusa di monetizzare le sue intuizioni con una versione annacquata delle stesse. Va d e t t o c h e q u a n d o l a s c i a n o perdere il turpiloquio gratuito e si abbandonano alla demenza a ruota libera (come nelle notevoli cover Nella vecchia azienda agricola o in Born to be Abramo) in effetti funzionano; e fu ammirevole il gesto di sfruttare una diretta televisiva per leggere la fedina penale di Ciarrapico. Però, perché rovinare il possente jungle-punk de Lo stato A lo stato B col solito testo su un ragazzo e una ragazza che avrebbe potuto scrivere qualsiasi adolescente col terrore delle donne? Perché, quando si è capaci di una satira intelligente come quella della sanremese La terra dei cachi, o di colpi di genio come Mio cuggino (sulle leggende urbane) o I mortacci (sulle star morte che in realtà sarebbero vive) continuare a elencare volgarità da asilo con quel tono di voce infantilmente compiaciuto? E tra chi ti provoca a una reazione chiamandoti “pubblico di merda”, e sfotte i luoghi comuni che sei stato troppo pigro per mettere in discussione da una parte, e chi ti fa fare due risate assolutamente non impegnative facendo un’epica dei tuoi difetti dall’altra, chi era più probabile che avesse seguito e successo? Prossimamente su SA un libro virtuale dedicato al Rock Demenziale italiano, con analisi e testimonianze esclusive dei protagonisti. rubrica la sera della prima a c u r a d i Te r e s a G r e c o Romance & Cigarettes (di John Turturro, USA, 2005) Sorprende venire a conoscenza che come prima scelta per il protagonista del suo terzo film (James Gandolfini, il complessato mafioso della serie tv I Soprano) John Turturro avesse in origine pensato a Bruce Springsteen, omaggiato nella pellicola con Red Headed Woman. Non avrebbe forse sfigurato nel ruolo di un working man neworkese, ma tant’è, è andata meglio così. Gli attori (Gandolfini, Susan Sarandon, Steve Buscemi, Kate Winslet, Cristopher Walken tra gli altri) sono infatti il perno su cui si regge Romance & Cigarettes, film onirico coeniano (producono infatti i fratelli Joel ed Ethan) e bukowskiano, progetto che per una decina d’anni è covato nella mente di Turturro; un omaggio da un lato alla commedia musicale e alle sue origini (la madre cantante, la sua passione per la musica), dall’altro al cinema da cui proviene e alla passione per l’immaginario dell’eccesso di Charles Bukowski. Sulla base di una storia di tradimenti e passioni (un operaio tradisce la moglie con la volgare e provocante Tula, una sboccatissima Kate Winslet), il regista costruisce un musical giocato sull’ironia e sul gusto per l’assurdo, in cui però si rivelano vistose falle nella sceneggiatura e nel finale consolatorio (lui ritorna dalla moglie), e una costruzione troppo meccanica nel passaggio alla parte musicale. I film finisce così per essere un minestrone di generi e citazioni, senza la genialità dissacrante dei Coen. Numerosi infatti sono i riferimenti, da Ballando sotto la pioggia al Titanic (la scena della sirena Winslet sott’acqua) alle atmosfere da Grande Lebowski, in un miscuglio che finisce per essere fumettistico e iperreale. Alcuni attori sembrano fare autoparodia dei loro ruoli più famosi, da Walken (sopra le righe, come in Ferrara) alla Sarandon (la casalinga frustrata di Thelma e Louise). Colonna sonora a tema: l’amore e le sue variazioni, le vittime e i tradimenti, le passioni, da Janis Joplin (Piece Of My Heart) a Springsteen, dalle canzoni italoamericane (ma c’è anche l’italiana Quando m’innamoro), a James B r o w n ( I t ’ s a M a n ’ s W o r l d ) e To m J o n e s ( D e l i l a h ) . In sostanza, un’occasione che poteva essere giocata meglio e un film che rimane in superficie, senza realmente mai graffiare. Peccato. Te r e s a G r e c o s e n t i r e a s c o l t a r e 137 Radio America (di Robert Altman, USA, 2006) Robert Altman (premio alla carriera ai recenti Oscar) dedica la sua ultima fatica a una gloriosa trasmissione musicale radiofonica americana, A Prairie Home Companion (che è anche il titolo originale del film) che nella realtà va in onda in diretta da oltre 30 anni. Film corale, come d’altra parte Nashville e America oggi, non raggiunge i loro livelli, mantenendosi entro il canone del genere, con solide interpretazioni attoriali: su tutti, Meryl Streep, L i l y To m l i n , K e v i n K l i n e , G a r r i s o n K e i l l o r . I l t e m a s u c u i r u o t a la pellicola è la malinconia per un’epoca e un modo di vivere che non esistono più; prendendo a pretesto l’ultima puntata dello show (ambientato nell’America rurale del Midwest) e le e s i b i z i o n i d e i c a n t a n t i ( e s s e n z i a l m e n t e c o u n t r y, m a a n c h e j a z z , gospel, swing), il film mostra le differenze generazionali (madre cantante country/figlia dark), di linguaggio e di costume (le canzoni piene di osceni giochi di parole non esattamente politically correct di due cantanti country), la fine di un’epoca ingenua e non in vendita, a scapito della mercificazione odierna. Il teatro in cui lo show si svolge infatti sarà demolito per far posto a un parcheggio, evento di ordinaria amministrazione nei tempi della società dei consumi e del commercio, a cui quasi non si fa più caso. Ennesima riflessione sui media e sul loro potere sulla vita, la politica e la società, a suo modo un film impegnato del democratico Altman. Se da un lato il regista usa la struttura del film coral-musicale à la Nashville, dall’altro aggiunge qua e là citazioni dal noir anni ’40 (anche nell’ambientazione, con incipit e finale da diner uscito da un quadro di Hopper) e dal film investigativo, attraverso il personaggio autoironico e sopra le righe del custode del teatro, il chandleriano Guy Noire, che fa da narratore (un Kevin Kline a suo agio nel ruolo). Un ex investigatore privato appunto, che sa che sta andando in onda l’ultima puntata e che verrà ad assistervi il futuro proprietario del teatro, sarcasticamente mostrato come tycoon ignorante , il cui predominio sarà inevitabile. A questo status quo, di per sé eloquente, il regista aggiunge un elemento di irrazionalità, di cui forse si poteva fare a meno: una donna misteriosa (un fantasma), si aggira per il teatro, visibile solo ad alcuni, una sorta di fato ineluttabile, una nemesi che alla fine compirà il suo disegno per il bene d e l l o s h o w. M a s a r à d e l t u t t o i n u t i l e . Le leggi spietate dello spettacolo (lo show deve continuare a tutti i costi, anche dopo la morte di un anziano cantante, tenuta nascosta) dominano gli eventi, anche nel finale, in cui si fa capire che la demolizione dell’edificio in cui si trova il teatro avverrà, nonostante tutto. Film a più voci, ben diretto e recitato, non fa eccezione allo schema del film altmaniano, dove ogni scena e frammento celano anche qualcos’altro, in un doppio livello di lettura e di significati. Dove perde è nell’eccessiva freddezza e nel poco coinvolgimento umano: tutto resta come in superficie, una rappresentazione analitica, su più livelli, ma fredda emotivamente e mai empatica. Un film su commissione, quindi, con il tocco del maestro. Te r e s a G r e c o 138 s e n t i r e a s c o l t a r e cultmovie I 400 colpi (di François Truffaut, Francia, 1959) Primo lungometraggio del regista francese, I 400 colpi è un film di formazione che rispecchia in parte, trasfigurandola e universalizzandola, la materia autobiografica di François Truffaut, la cui infanzia e adolescenza furono non poco turbolente. Fece “il diavolo a quattro” (questo è il significato del titolo, un’espressione gergale) anche lui, come d’altra parte il giovane protagonista, Antoine Doinel (Jean Pierre Léaud). Il tema del film è la realtà osservata dal punto di vista di un adolescente, Antoine, le cui aspirazioni alla libertà e alla conoscenza non vengono colte dal mondo indifferente degli adulti, persi nel loro egoismo; da qui deriva la solitudine e l’angoscia, il sentirsi rifiutato e il tentativo di un approccio con l’universo della ragione (e del buon senso) e con sue regole, che non capisce e da cui si sente escluso. Il sentirsi costretto e imprigionato (anche letteralmente, nelle scene del riformatorio), è una costante della pellicola, che si riflette anche nella diversa impostazione delle scene in interni, claustrofobiche e statiche, rispetto a quelle in esterni, dove dominano i movimenti di macchina lunghi e dinamici. Truffaut segue Antoine, che è costantemente in campo, mostrandone a commento i primi piani (permettendo così l’identificazione da parte del pubblico), lasciando al giovane attore libertà di esprimersi (come ricorda il regista: “Ho lasciato a Jean Pierre piena libertà di rispondere, perché volevo le sue parole, le sue esitazioni, la sua spontaneità totale”). Nel famoso finale, con Antoine in fuga, la corsa del ragazzo viene seguita dalla macchina da presa, con lunghe carrellate, attraverso la campagna, fino all’ultima meta, il mare (che non aveva mai visto e su cui fantasticava): qui capisce che c’è un prezzo per la libertà, forse il primo passo verso un inizio di crescita e consapevolezza. Il suo primo piano sconvolto e attonito è indimenticabile, il regista lascia che siano i suoi occhi a esprimere il disagio e la disperazione. Un finale aperto, quindi. Senza risposte. Lo sguardo del regista non scade mai nel patetico e nel pietismo, è antipoetico, memore della lezione di Rossellini (Germania anno zero, Roma citta aperta), Renoir e Vigo ( Zero in condotta), e il tema dell’infanzia a lui caro, tornerà nei film successivi (Il ragazzo selvaggio, 1969 e Gli anni in tasca, 1976). Il personaggio di Antoine Doinel seguirà Truffaut e L é a u d i n a l t r e q u a t t r o p e l l i c o l e , L’ a m o r e a v e n t ’ a n n i ( e p i s o d i o Antoine e Colette, 1962), Baci rubati (1968), Domicile conjugal ( 1 9 7 0 , L’ a m o r e f u g g e ( 1 9 7 9 ) , u n a s a g a D o i n e l , n o n p r i v a d i i r o nia sottile, sull’educazione sentimentale del protagonista. Vincitore della Palma d’Oro a Cannes per la miglior regia nel 1959, il film fu dedicato ad André Bazin, fondatore dei Cahiers du Cinema, scomparso appena un anno prima, maestro e mentore del regista, attraverso il quale Truffaut iniziò il mestiere prima di critico e poi di regista. Figura fondamentale a cui il Nostro deve molto. I 400 colpi segnò un esordio memorabile p e r Tr u f f a u t e p e r l a N o u v e l l e Va g u e t u t t a c h e c o m i n c i a v a a l l o ra la propria affermazione in Francia e all’estero. Te r e s a G r e c o s e n t i r e a s c o l t a r e 13 9 rubrica i cosiddetti contemporanei a cura di Daniele Follero Pierre Schaeffer Considerato da molti uno sperimentatore più che un musicista, un tecnico del suono più che un artista, Pierre Schaeffer ha dovuto lottare contro le reticenze di un’opinione pubblica assolutamente impreparata al suo approccio musicale, che cinquant’anni dopo sarebbe diventata la prassi compositiva più utilizzata: il campionamento. “Sfortunatamente ci ho messo quarant’anni a capire che non è possibile niente al di fuori delle note Do Re Mi. In altre parole…ho perso la mia vita” (Pierre Schaeffer) Il padre d e l c a m p i o n a m e n t o di Se si fa caso alla sproporzione tra il successo (quasi nullo) e l’influenza (capillare) delle sue idee musicali, si può comprendere meglio l’isolamento della figura di Pierre Schaeffer e al contempo, la sua grande importanza storica. Considerato da molti uno sperimentatore più che un musicista, un tecnico del suono più che un artista, il compositore francese ha dovuto lottare contro le reticenze di un’opinione pubblica assolutamente impreparata al suo approccio musicale, che cinquant’anni dopo sarebbe diventata la prassi compositiva più utilizzata: il campionamento. La 140 sentireascoltare Daniele Follero pratica di registrare i suoni dalla natura, modificandoli su nastro o su disco, cioè, quella che lui stesso definì musique concrète, cos’è se non la fase embrionale del campionamento? Sono molti più di quelli che ne sono consapevoli, in realtà, gli artisti che devono a Schaeffer il merito di aver dischiuso un ambito prima di allora inesplorato e di aver aperto un vero e proprio vaso di Pandora, che ha allargato oltremodo i confini della produzione musicale. Gli esperimenti su nastro magnetico di Steve Reich, i procedimenti compositivi della techno e le costruzioni ritmiche dell’hip hop si può dire che abbiano lo stesso padre “spirituale”, che come tale, per il bene dei suoi figli ha sacrificato la sua fama lasciandosi alle spalle un’eredità pronta per essere raccolta. Con questo non si vuole assolutamente dire che senza la musique concrète non sarebbe nata l’house music. Questo determinismo semplicistico non renderebbe giustizia alle sfumature storiche e alle dinamiche socio-culturali che caratterizzano i cambiamenti musicali, né al senso delle differenti funzioni e strutture musicali che i generi assumono con il tempo. Ma dire che il pionierismo (sia a livello tec- nologico che strettamente artistico) del compositore francese abbia dato il “la” ad un modo radicalmente diverso di fare musica mi sembra un dato di fatto ineludibile. Sfortunato pioniere naufrago nel mare magnum della tradizione europea I concetti di “paesaggio sonoro”, di “object trouvé” e di “musica concreta” trovano posto nel linguaggio musicale per la prima volta attorno agli anni Cinquanta. Ma nata in una Parigi che non conosce ancora le frenesie consumistiche della società occidentale, la musica “concreta” non ha lo stesso impatto e la stessa fortuna degli esperimenti aleatori di Cage e delle tecniche seriali della pop art, che negli U.S.A. trovavano un terreno più fertile perché meno legate ad una tradizione artistica “pesante”, a dir poco ingombrante, come quella europea. Nell’epoca dominata dai postweberniani di Darmstadt, impegnati a (pro)seguire il percorso tracciato dalla scuola viennese della triade Schoenberg-Berg-Webern, in un rapporto costante con i linguaggi tradizionali del repertorio storico occidentale, la “musica” di Scheffer appare come un’isoletta perduta nell’oceano, inaccessibile perché incomprensibile. Eppure a suo modo il compositore di Nancy si collega con questa tradizione, se non altro per l’interesse con il quale si concentra sulla dimensione spaziale della musica, già esplorata da Anton Webern con le sue melodie di timbri. Ma la dimensione “oggettuale” della musica, il fulcro delle teorie schaefferiane, cozzava con uno dei principi basilari della musica stessa e cioè l’organizzazione del suono. Nella “musica concreta” l’oggettività con la quale il suono si pone rispetto all’ascoltatore non ha precedenti nella storia musicale europea, ed è soprattutto per questo che il suo tentativo di imporsi ad orecchie abituate a tutt’altri linguaggi risultò fallimentare, almeno in una prima fase. Lo stesso Schaeffer criticherà i suoi primi esperimenti e, in effetti, spesso i primi esempi di questo tipo di composizioni non vanno molto al di là del pastiche umoristico, del “vitalismo macchinistico alla Russolo o alla Honegger” (Andrea Lanza). Tra le prime composizioni, forse solo la Symphonie Pour Un Homme Seul, scritta a quattro mani con il composi- tore Pierre Henry è quella che rappresenta meglio questo primo periodo e allo stesso tempo riesce a fondere intenti artistici e sperimentazione. La “sinfonia” rappresenta sonoramente la giornata di un uomo con respiri, passi, porte sbattute, quasi a fare da colonna sonora dell’Ulisse di Joyce. La svolta del ‘51 E’ evidente che una musica basata unicamente sull’uso delle tecnologie abbia come limite maggiore proprio l’entità di questi strumenti di lavoro. Di fatto, il passaggio dal pic- sentireascoltare 141 colo studio d’ Essai alla fondazione del Group de Recherches de Musique Concrète, nel 1951, finanziato dalla radio francese, rappresenta una svolta epocale per la scuola concreta (a cui si ascrivono, o l t r e a l l o s t e s s o S c h a e ff e r, alcuni suoi colleghi tra cui Henry e il fisico Abraham Moles). La possibilità di utilizzare apparecchiature per la registrazione magnetica su tre piste invece dei rudimentali giradischi dell’epoca d’Essai crea un accelerazione vorticosa nella spinta alla sperimentazione del gruppo, suggellata dal trattato di Schaeffer A La Recherche d’une musique concrète (1952) che, parodiando il tempo perduto di proustiana memoria, prova ad esporre i principi tecnico-estetici della sua filosofia musicale. Si intensificano in questo periodo anche i contatti con la scuola di Darmstadt che daranno vita ad interessanti, anche se isolati, episodi di collaborazione. A rispondere all’appello saranno: Pierre Boulez (Etudes,1952), Iannis Xenakis (Diamorphoses, 1957) e Messiaen (Timbres-Durèes), ma sarà l’arrivo a Parigi di Edg a r d Va r è s e a d a r e l ’ a p p o r t o artisticamente decisivo alla musique concrète con Dèserts e con il famoso Poème Electronique. Da questi anni di grande cambiamento nasce anche il primo tentativo di creare un’”Opera concreta”. Il titolo di questo lavoro teatrale, Orphèe 1953, rimanda ad uno dei soggetti più utilizzati nel teatro d’opera, addirittura il primo in assoluto: la prima opera della storia è considerata infatti l’Euridice di Jacopo Peri (1600), basata proprio sul mito di Orfeo, a cui seguì pochi anni dopo l’Orfeo di Claudio Monteverdi (1607), per non parlare della riforma operistica di Gluck con Orfeo ed Euridice (1762). Un’opera, dunque che si pone in relazione con il passato e con il 142 sentireascoltare futuro contemporaneamente e fa da premessa ad una fase del lavoro di Schaeffer in cui la ricerca si fa sempre più rigorosa, con un controllo sempre più rigido e catalogatorio sui materiali sonori. Frutto di questo periodo saranno alcune brevi composizioni (ed il Traitè des Object Musicaux del 1966) che testimoniano già dai titoli un allontanamento dalla prospettiva “naturalistica” verso un maggiore intimismo (Aux Sons Animes, Aux chiuso il capitolo della musica “concreta”. Se è vero però che la produzione di composizioni dichiaratamente “concrete” quasi si arresta a partire dagli anni ’60, è pur vero che le suo idee prenderanno il largo e invaderanno tutti i generi musicali, camminando sempre di pari passo con il progresso tecnologico. Esiste un filo rosso che unisce agli esperimenti del compositore francese tanto alla musica intenzionalmente “og- Allures). Interrotta la collaborazione c o n i l f e d e l e P i e r r e H e n r y, Schaeffer si avvicinò, verso la fine degli anni Cinquanta, ad una diversa cerchia di collaboratori, tra cui spicca il nome di Luc Ferrari. A questo punto le cronache si interrompono e non perché sia venuto meno il suo protagonis t a p r i n c i p a l e ( S c h a e ff e r, n a t o nel 1910 ci ha lasciati solo di recente, all’età di 85 anni), quanto perché si è ritenuto gettistica” dei Matmos, quanto ai loop ripetitivi e stratificati della minimal techno, almeno dal punto di vista dei processi compositivi. La creazione di un ambiente sonoro e il fascino per gli accostamenti di suoni campionati e la loro elaborazione appartengono sempre di più alla nostra cultura e oggi li percepiamo con una certa naturalezza. Riflettere su chi ha dato il via a questa nuova “mentalità” ci aiuta a comprendere e ad apprezza- re meglio il ruolo del pionierismo, dell’avanguardia, nella nostra società. Quell’affascinante guardare “troppo” in avanti rispetto agli altri che qualcuno chiama “genialità”. The Essential Pierre Schaeffer • Etudes De Bruits (1948) • Symphonie Pour Un Homme Seul (con Pierre Henry - 1949) • Etudes Au Piano I & II (con Pierre Boulez – 1951-52) • Orphèe 1953 (1953) • Continuo (1958) • Etudes (Aux Sons Animes; Aux Allures; Aux Objets 1958-59) Assaggi di Musica Concreta: Pierre Henry • Antiphonie (1952) • Astrologie (music for film) (1953) • Va r i a t i o n s P o u r U n e P o r t e E t U n S o u p i r ( 1 9 6 3 ) Olivier Messiaen • Timbres-Durèes (1952) • Andrè Hodeir • Jazz Et Jazz (Per piano e nastro magnetico) (1952) Ivo Malec • Mavena (1957) Luc Ferrari • Visage V (1959) Iannis Xenakis • Diamorphoses (1957) • Concert PH (1958) sentireascoltare 143 rubrica on Connaït la chanson a cura di Andreas Flevin Joseph D’Anvers Les choses en face è l’esordio del parigino Joseph D’anvers, giovane autore che rientra a pieno titolo nella nuova generazione di chanteurs-compositerus che imperversa di recente in Francia nel completo rispetto della tradizione. Le ch o s e s e n f a c e di Andreas Flevin Spesso, davanti a un lavoro di questo genere, si dice che c’è chi lo ha già fatto prima e meglio. Il che, in effetti, è vero, come nel caso dell’opera prima di Joseph D’Anvers, Les choses en face. Bisogna però distinguere le operazioni musicali che nascono con la pretesa (o presunzione) di aggiungere qualcosa di nuovo alla musica, e quelle che invece nascono con ben altre preoccupazioni. Questo album rientra a pieno titolo nella nuova generazione di chanteurs-compositeurs che imperversa in Francia nel completo rispetto della tradizione; più un’esigenza genetica che un piacere, quindi alle urgenze creative degli autori si associa il dovere patriottico di passarsi la staffetta, ad un certo punto. All’interno di tali meccanismi - da cui ogni tanto emerge un nome che diventa portavoce di un’intera generazione - ac- 144 sentireascoltare cadono tanti piccoli episodi da non sottovalutare, avendo il ruolo di creare l’humus necessario affinché rimanga vivo l’interesse e il feeling per questo modo di intendere l’arte di scrivere canzoni. In definitiva, è grazie a una base di tanti piccoli contributi alla canzone francese che gli autori più grossi riescono tutt’ora ad emergere e diventare rappresentativi. E’ presto per dire se Joseph D’Anvers continuerà ad alimentare l’humus o se in futuro sarà promosso al grado di “pezzo di storia della canzone francese”; fatto sta che l’attenzione di pubblico e critica per il suo lavoro lascia supporre che in lui ci credono e scommettono. Il nome di D’Anvers deriva da un quartiere parigino nei pressi del noto quartiere Pigalle, e ciò denota già da subito il genere di approccio alla città e al modo in cui si sceglie di viverla: la vita in gran parte limitata a un unico quartiere – o arrondissement – è una precisa scelta che si fa per potersi ritagliare uno spazio a propria dimensione, all’interno di una metropoli dispersiva come Parigi. I testi e le sonorità di D’Anvers, al pari della stragrande maggioranza delle produzioni della capitale francese, raramente suggeriscono una dimensione caotica e frenetica, ma piuttosto un quotidiano più a portata di mano e per questo a tutti più comprensibile, come un andare al bar sotto casa, citofonare agli amici che abitano ad un isolato da te, fare la spesa sempre dallo stesso negozio di alimentari, il tutto reso esistenziale in quanto vissuto. Più un racconto è vicino all’autore, più sarà comprensibile per chi lo ascolta. Joseph D’Anvers ha pubblicato il suo primo album solo nel 2006, ma musicalmente è nato già alcuni anni fa quando cercava di conciliare il suo lavoro “ufficiale” di tecnico delle luci per il cinema a quello di autore di canzoni. I primi esperimenti finirono nel dimenticatoio ben presto, in seguito alla totale indifferenza delle etichette alle quali i promo furono inviati. Grazie a un incontro con il produttore Daniel Darc, D’Anvers si convince a rivedere le basi stesse del suo operato, riscrivendo testi e musica e modificando l’organico per dare all’insieme un carattere un po’ meno “solito”; è a questo proposito che si fa rilevan- te l’intervento, per il sound e gli arrangiamenti, di JeanLouis Piérot, già collaboratore di Alain Bashung, Brigitte Fontaine, Etienne Daho, tutte figure chiave (in particolare i primi due) di un modo tutto nuovo di intendere lo standard della canzone d’autore. Forte dei suggerimenti avuti, Joseph D’Anvers invia alcune delle canzoni riscritte o appen a c o m p o s t e a l l a FA I R ( i l f o n do per il sostegno alle iniziative rock: tenetelo in mente e immaginate se potrà mai esserci nulla di simile in Italia). Da questo punto in poi le cose s i a c c e l e r a n o d o p o c h e l a FA I R promuove l’autore nel 2004 e ne consente l’accesso ad una importante selezione pubblicata nel 2005 da Les Inrocks, a cui segue una proposta discografica con l’etichetta Atmospherique. E’ proprio con questa label che un anno dopo esce Les choses en face. Maneggiare del materiale musicale in origine destinato ad essere “canzone d’autore francese” condendolo con elementi che ne deviano il percorso rendendolo qualcos’altro, può essere molto pericoloso. Per certi versi la forza di quest’album è il tentativo di osare, anche se in maniera poco appariscente, nel tentativo di creare commistioni - in parte più prossime alla musica anglosassone – tra rock, folk, un po’ di ritmi jazzy e il cantautorato anni 70, in alcuni momenti lasciando pensare persino ai Tindersticks o Jeff B u c k l e y. D a u n a l t r o p u n t o d i vista, sporcare dei brani che per loro natura sono assolutamente riconoscibili in un contesto tradizionalista con qualcosa che li renda a tutti costi “originali”, è ciò che farà invecchiare precocemente l’album. Nel brano considerato il “faro” del disco, La vie est une putain, D’Anvers si avvale della collaborazione di Miossec, il quale non esita a peggiorare rovinosamente il pezzo sbraitando il titolo in maniera insostenibile. Da qui sorge spontanea la domanda su cosa il pubblico – il grande pubblico –, così come la critica ufficiale, si aspetti da un nuovo autore e cosa di lui davvero percepisca, se la canzone più rappresentativa dell’album va a finire che è la peggiore di tutta la tracklist. Il pezzo più bello e toccante rimane invece –e senza ombra di dubbio - Les Treves per la sua semplicità e poeticità e una marcia in più che potrebbe far sopravvivere il brano persino al proprio autore. La voce di D’Anvers (che ri- sentireascoltare 145 corda talvolta quella di Nicolas, voce dei Superflu) funziona perfettamente nel contesto delle sue composizioni nelle quali si fondono armonicamente archi, chitarre acustiche ed elettriche, ed è bella come lo sono tutte le cose dimesse e poco appariscenti, cosa che non accade con tutti quei cantanti che vogliono dimostrare come hanno speso bene i loro soldi in lezioni private di canto. Nonostante tutto risulta difficile riuscire a svelare un volto, ovvero una personalità precisa, dietro quella voce che resta comunque molto meno improntata di quella di un Delerm ad esempio, che uno può amare o no, ma di cui rimane innegabile la forte personalizzazione. Ascoltare Les choses en face è facile e pulito come descrivere qualcosa avendolo davanti agli occhi, anche perché è proprio di questo che le canzoni raccontano: tutto ciò che l’autore si sente in grado di narrare perché lo conosce, semplicemente, che è molto meglio di cantare di grandi temi senza sapere bene di cosa si stia parlando. Le cose che abbiamo di fronte, dunque, come nella più banale delle ipotesi hanno sempre un loro rovescio della medaglia, che spesso si può tradurre piuttosto in una difficoltà a identificare il reale soggetto di ciò che stiamo guardando. Di queste canzoni appare ugualmente difficile stabilirne l’obiettivo, vale a dire il loro senso reale, proprio perché rimangono confinate in una sorta di equilibrio che non lascia intendere se ci sia e quale sia l’intenzione. Un limbo a metà tra l’esigenza creativa e la tradizione. Possiamo immaginare queste canzoni come un angolo che al contempo separa ed unisce due superfici: avendo uno sguardo obbligato su di esso, nasce spontaneo chiedersi se 146 sentireascoltare possa essere l’angolo stesso il soggetto principale della nostra visione o se non sia invece una delle due superfici – e quale – al centro delle quali esso si colloca. Per descrivere in breve il suo primo album, D’Anvers si è avvalso di un proverbio che in italiano si può tradurre come: “A troppo guardare le cose in faccia, si rischia di rimanere ciechi”. Parafrasando questo proverbio, possiamo avere un’idea piuttosto attendibile di cosa rappresenta questo album, ovvero un lavoro che ad ascoltarlo troppo, si rischia di rimanere sordi; forse perché viene di sforzarsi a trovare spiegazioni, novità, particolarità e sperimentazioni che non ci sono, poiché si tratta in definitiva “solo” di un lavoro sulla canzone e sul mestiere di scriverle, che ha a che fare da un lato con l’universo intimo dell’autore e dall’altro con la storia della canzone francese la quale, a sua volta, per esistere necessita ancora e sempre di nuovi nomi che la mantengano in vita. D’Anvers è uno di questi.