Carlo Maria card. Martini
DALLE MEMORIE
DI PIETRO L’ANZIANO
ESERCIZI SPIRITUALI
alla comunità del Seminario Romano Maggiore
Sacrofano, 17-22 settembre 2006
(dalla registrazione - trascrizione non rivista dall’autore)
INDICE
Gli attori
La fede ebraica di Pietro
La fede cristiana di Pietro
Come, Pietro, sei diventato discepolo?
Pietro, cosa ne pensi dei tuoi peccati?
Pietro, parlaci della tua seconda chiamata
Pietro, come vivevi tu i miracoli di Gesù?
Pietro, dicci il tuo segreto
Pietro, come vedi tu il prete oggi?
Pietro, e Giovanni?
Cosa pensi, Pietro, del tempo?
Appendice – Omelie alle Sante Messe
17/09/2006
Incontro introduttivo
GLI ATTORI
Abbiamo invocato lo Spirito Santo. Nello Spirito Santo rendo grazie a Dio per potere ancora
una volta trovarmi davanti ai chierici del Seminario Romano, come mi era già successo negli
anni „70, credo, quando venivo a predicare alcuni ritiri con quello che oggi è il card. Vanhoye
(venivamo in due, significa che predicare al Seminario Romano porta fortuna per diventare
cardinali). Ricordo molto bene quei tempi. Certamente tante cose sono cambiate da allora ma
ringrazio Dio di essere ancora qui a rendere questo servizio.
Abbiamo invocato lo Spirito Santo e vorrei appunto cominciare dallo Spirito Santo, ed elencare
brevemente gli attori di questi giorni di ritiro. Voi sapete benissimo cosa è un ritiro spirituale,
l‟avete fatto molte volte. Vorrei soltanto menzionare gli attori di questo ritiro, e il primo attore
è proprio lo Spirito Santo, è lui che tocca i cuori; come dice S. Ignazio nell‟annotazione 15
(citerò naturalmente più volte il libro di S. Ignazio di Loyola degli esercizi, non solo perché
quest‟anno è il 450° anniversario della sua morte, ma perché lo ritengo un libro valido, che
molti di voi conoscono, perché hanno fatto il mese ignaziano o lo faranno): “Quando si ricerca
la volontà di Dio è più opportuno che sia lo stesso Creatore e Signore a comunicarsi all‟anima
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devota attraendola al suo amore e alla sua lode [qui si potrebbe anche tradurre, dall‟originale
spagnolo, “bruciandola” nel suo amore e nella sua lode, e disponendola alla via nella quale
potrà meno meglio seguirlo in futuro]. Perciò chi propone gli esercizi non si avvicini né
propenda dall‟una o dall‟altra parte, ma resti in equilibrio come il peso sul braccio di una
stadera, e lasci che il Creatore agisca direttamente con la creatura e la creatura con il suo
Creatore e Signore”.
Il testo spagnolo usa proprio il verbo latino immediate, immediatamente: Dio opera senza
mediazioni. Questo è tipico del NT, perché se noi vediamo l‟AT c‟era sì un‟azione di Dio con i
singoli, ma perlopiù Dio si rivelava attraverso i profeti, e il popolo riceveva “mediatamente” la
rivelazione attraverso figure profetiche, istituzioni sacerdotali. Tipico del NT è questa
“immediata” locuzione, questo immediato toccare da parte di Dio il cuore dell‟uomo, che non
rende inutili tutte le altre mediazioni, ma si colloca nel cuore di esse. Quindi è qualcosa a cui
niente può supplire, qualcosa che spetta allo Spirito Santo operare, mentre a noi spetta
mettere le condizioni perché lo Spirito Santo possa operare. Voi sapete che la condizione prima
degli esercizi è appunto il ritiro, il silenzio, come dice ancora S. Ignazio nella annotazione 20:
“Quanto più un‟anima si trova sola e appartata, tanto più diventa capace di avvicinarsi e di
unirsi al suo Creatore e Signore, e quanto più gli si unisce tanto più si dispone a ricevere grazia
e doni dalla somma e divina bontà”. Quindi il silenzio, e il compiere gli esercizi, stando
veramente soli davanti a Dio – il che comporta una qualche artificialità, perché di per sé
sarebbe meglio andare in una baita di montagna per stare in silenzio e non vedere nessuno,
ma dato che le condizioni esigono che ci sia la possibilità di farlo insieme, lo si fa insieme ma
ciascuno pensa a sé –, quindi il silenzio è condizione non solo di questo dialogo con Dio, ma è
anche aiuto e rispetto al dialogo altrui. Quindi il primo attore è lo Spirito Santo e io sono molto
contento di questo anche perché, appunto, con l‟andare degli anni le mie forze vengono meno,
sia la mia voce sia il mio modo di esprimermi, quindi sono sempre contento nel sapere che è lo
Spirito che opera, che è il primo ad operare, e noi siamo sotto lo Spirito e tanto facciamo gli
esercizi quanto ascoltiamo questa voce dello Spirito.
Secondo attore siete voi, proprio perché lo Spirito tocca il cuore di ciascuno. Questo è tipico del
NT è perché lo Spirito è Dio, è divino e quindi può raggiungere come Cristo risorto ogni
persona umana e quindi gli esercizi sono vostri, siete voi che li compite e perciò sta a ciascuno
di voi mettere a fuoco il suo cammino, io vi do solo due suggerimenti che sono solito dare
all‟inizio gli esercizi, sarebbe bello dedicare stasera o domani mattina un po‟ di tempo a
rispondere per iscritto a due domande:
(1) come entro in questi esercizi, perché ogni anno vi entriamo in maniera diversa: un anno
siamo entusiasti, un anno siamo contenti, un anno siamo un po‟ stanchi, un anno siamo un po‟
amareggiati, un anno siamo magari turbati, con poca fede, un anno abbiamo poca voglia, un
altro ne abbiamo molta, sarebbe bello che ciascuno si mettesse davanti a sé così come è,
proprio perché Dio ci viene incontro così come siamo;
(2) poi, in un secondo foglietto, sarebbe bello scrivere non solo come entro in questi esercizi,
ma come vorrei uscirne, perché allora questo dà già una certa idea del cammino, almeno ciò
che noi ci proponiamo.
-2-
Terzo attore di questi esercizi sono io, anzitutto pregando per voi; e lo faccio da tempo, vi
tengo presenti nelle mie preghiere, soprattutto da Gerusalemme, io mi sono definito presso i
miei antichi diocesani a Milano in Duomo come una “sentinella di preghiera sulle mura della
città di Sion”, dove ricordo tutte le intenzioni di ciascuno, anzitutto quelle dei preti e dei laici
che ho conosciuto a Milano, e poi di tutti gli altri, quindi anche di ciascuno di voi in particolare.
Quindi il mio aiuto è quello della preghiera; ma il mio aiuto è anche quello di esporvi qualche
riflessione, darvi qualche materiale di riflessione.
Ho pensato molto a quello che potrebbe essere il tema di questo materiale di riflessione. Alla
fine mi sono deciso per questo titolo: “Dalle memorie di Pietro l‟anziano”. Spiego un po‟ perché
questo titolo: Pietro “l‟anziano”, perché lui stesso si chiama così in 1Pt 5,1, “compresbitero”;
anche Paolo non ha timore di chiamarsi “vecchio” nella lettera a Filemone, al v. 9. Che età
poteva avere? Forse solo 65 anni, ma a quella età si consideravano vecchi, e data la vita che
facevano ne avevano ben donde, e del resto erano abbastanza alle soglie della morte. Quindi
“l‟anziano”, e con questo anziano Pietro io mi sento abbastanza in sintonia, proprio per la mia
età, per avere di gran lunga superato l‟età sua, e quindi desideroso come lui di un flashback, di
uno sguardo indietro, di uno sguardo retrospettivo sulla nostra esperienza, sulla nostra vita. E
poi ho scelto Pietro l‟anziano dalle sue memorie, perché nel prossimo convegno di Verona mi
pare che la prima Lettera di Pietro sia la lettera che verrà proposta come testo di partenza,
quindi avrete l‟occasione, se volete, di rileggerla; anche se io non la citerò molto, e mi limiterò
ad alcune citazioni, è un‟occasione opportuna per rileggersela. Ho detto “dalle memorie”,
perché le memorie di Pietro sono molto numerose. Pietro è citato 154 volte nel NT, è il primo
più citato dopo Gesù, quindi la sua figura è molto presente. Lui potrebbe raccontare molto
di sé. Noi ci limiteremo a fargli qualche domanda.
Io immagino un po‟ la scena così: siamo in una casa di Roma, un po‟ simile a quella in cui
Paolo aveva ottenuto di rimanere in custodia cautelare. Pietro, anche lui in custodia cautelare
in una casa di Roma, però può ricevere gente. È già anziano, sa che il suo processo sta per
concludersi, ha speranza che si concluda bene, ma anche il presentimento che forse si
concluderà con la condanna a morte; e in ogni caso è desideroso di parlare, di passare il tempo
rispondendo alle nostre domande. E quindi sta a noi fargli le domande giuste: non potremo
domandargli troppe cose, ma io suggerirò alcune domande che potremo fare e cercherò di
capire quali risposte ci darebbe a queste domande. E così vivremo questi giorni di esercizi in
ascolto di alcune delle memorie di Pietro: come lui ha vissuto il suo incontro con Gesù, come
ne è uscito, come lui guarda la sua vita, come lui guarda la sua morte, come lui guarda ciò che
verrà.
Ecco, questo è un po‟ il tema, come vedete ancora un po‟ abbozzato, perché lo Spirito Santo ci
aiuterà a precisarlo giorno dopo giorno, e io cercherò nelle meditazioni di dire qualcosa a
partire da questo tema, immaginandoci appunto seduti attorno a Pietro col soldato che lo tiene
legato a catena, ma che gli dà libertà di parlare, di esprimersi con noi.
C‟è anche un alcun altro modo con cui posso aiutarvi, ma siete tanti e poi avete tra voi
espertissimi padri spirituali, ma, se qualcuno desidera, io sono anche disponibile per qualche
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colloquio. Credo che la cosa più opportuna, dato che siete molti, e quindi bisogna lasciare la
precedenza a quelli che veramente desiderano, sarebbe mettere in qualche luogo palese una
scatoletta dove ciascuno possa scrivere domande, suggerimenti, proposte, e anche magari
richieste di udienza, e allora io, nel tempo che ho disponibile, cercherei di chiamare secondo
l‟ordine delle domande per quanto mi è possibile dare tempo. Ma raccomando però di scrivere
anche altre cose; cioè, siccome non abbiamo la possibilità di vederci tutti spesso, come
sarebbe bello, sarebbe bello se fossimo in dodici, ci vedessimo ogni giorno facendo un po‟
l‟analisi di quello che è stato e lanciando il giorno seguente, ma datemi qualche feedback
attraverso i vostri scritti. Una cosa vi raccomando: non state a pensare: “Ma adesso con che
carta scrivo al cardinale? Con che intestazione?”: carta a quadretti, carta a righe, carta
strappata, qualunque pezzo di carta, cominciate anche senza intestazione, quindi scrivete
semplicemente, senza dire “carissimo cardinale”, “eminentissimo cardinale”, oppure “padre”,
non scrivete niente, è più facile, l‟importante è scrivere qualcosa. Quindi questo è ciò che io mi
permetterò di fare, di leggere le vostre riflessioni, chiamare qualcuno di voi, quelli che potrò,
se sarà possibile partecipare a qualcuno degli incontri di comunione o di comunicazione nella
fede che farete per gruppi, questo si vedrà se mi è possibile. Questa è dunque la mia parte, e
vorrei in questa parte anch‟io, chiedo questa grazia, di lasciarmi guidare dallo Spirito anch‟io,
così da non dire nessuna parola lo Spirito non vuole che sia detta e da dire tutte le parole che
lo Spirito vuole che siano dette. E ciascuno quindi cerchi di acquistare questa libertà di cuore
perché, come dice Matteo al capitolo 10: “Non siete voi a parlare ma lo Spirito Santo parla in
voi, lo Spirito del Padre vostro”.
Quindi questi attori sono lo Spirito Santo, siete voi, sono io.
C‟è un quarto attore da non dimenticare, è il nemico, l‟avversario, comunque lo si immagini lo
si chiami, lo si intenda, lui è all‟opera, non dorme, è all‟opera negli esercizi e cerca di
disturbarci in tutti i modi, S. Ignazio ne parla spesso, quando dice per esempio (regola
seconda, n. 315 degli esercizi): “In coloro che si impegnano a purificarsi dai loro peccati e che
procedono di bene in meglio (è il caso vostro), è proprio dello Spirito cattivo rimordere,
rattristare, porre difficoltà e turbare con false ragioni per impedire che si vada avanti [per dire
„lascia stare, lascia perdere, tanto non serve a niente‟], mentre invece è proprio dello Spirito
buono dare coraggio, energie, consolazioni, ispirazioni, lacrime, serenità, diminuendo e
rimuovendo ogni difficoltà per andare avanti nella via del bene”. Quindi teniamo presente che
ci sarà l‟avversario, che studierà il modo di impedirci, o distraendoci, o facendoci distrarre, o
turbandoci, o preoccupandoci, o in qualunque altro modo, quindi sappiamo che gli esercizi
sono anche lotta.
C‟è un quinto personaggio, che è la Chiesa, in particolare le vostre parrocchie, quelle realtà
nelle quali operate o che vi attendono in futuro, e in genere la Chiesa, che come madre prega
per noi e ci assiste, quindi ci affidiamo alla preghiera della Chiesa, in particolare alla preghiera
della Beata Vergine Maria, patrona di questi esercizi. Io dico spesso ai miei ex diocesani di
Milano che io sono a Gerusalemme soprattutto per vivere, come vi ho detto, la preghiera di
intercessione, ma la mia preghiera è molto povera, molto distratta, e tuttavia sono certo che
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questa preghiera si unisce, è un piccolo rigagnolo che entra nel grande fiume della preghiera di
intercessione della Chiesa, il quale entra nel grande oceano della preghiera di intercessione di
Cristo, che come dice Eb 7,25, “vive sempre intercedendo per noi”. Quindi anche la Chiesa sta
pregando, il Signore stesso sta pregando per noi, e così cercheremo di compiere questo
cammino nella grazia dello Spirito Santo portati dalla preghiera della Chiesa, affidati
all‟intercessione di Maria.
Giorno 1
Prima Meditazione
18/09/2006
LA FEDE EBRAICA DI PIETRO
Ti abbiamo invocato, Spirito Santo, Spirito del Cristo risorto, perché noi sappiamo che non
sappiamo pregare, sappiamo che tu conosci la nostra debolezza e che non sappiamo neanche
che cosa sia utile chiedere o su che cosa intrattenersi. Per questo tu intercedi per noi, ci stai
vicino, ci sostieni, supplisci con gemiti inesprimibili, che sono – penso – quelli del Cristo risorto
in noi che glorifica il Padre, che Lo loda, che Lo adora, che fa che noi ci mettiamo in sintonia
con questa Tua azione e che la nostra povera preghiera sia accolta, trasformata dalla preghiera
di Gesù in noi insieme alla preghiera di tutta la Chiesa. Poni tu nella nostra mente le cose da
dire, fa‟ che non ci preoccupiamo per ciò che diremo o non diremo nella preghiera o nella
riflessione, perché tu soltanto ci suggerirai le cose del Padre. Tutto questo ti chiediamo, o
Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.
Ave Maria…
Vorrei cominciare citando due frasi di S. Edith Stein. Abbiamo detto ieri che tra coloro che ci
aiutano c‟è tutta la Chiesa che prega per noi, in particolare le vostre comunità. Dobbiamo però
anche ricordare che noi siamo in preghiera per tutta la Chiesa, siamo in rappresentanza di
preghiera per tutta la Chiesa. Come dice giustamente Edith Stein in una sua opera: “Più
un‟epoca è immersa nella notte del peccato e dell‟allontanamento da Dio [certo a guardare il
tasso di violenza, di incomprensione, che c‟è oggi tra i popoli, dobbiamo dire che siamo
immersi nella notte del peccato, dell‟allontanamento da Dio], più grande è il bisogno di anime
unite a Dio, e Dio non le lascia mancare. Dalla notte oscura sorgono le più grandi figure dei
profeti e dei santi”. Quindi, vivendo noi in questo momento di notte oscura, sentiamo la grazia
di Dio che vuol fare di noi dei profeti e dei santi, e in particolare veniamo a meditare su questo
grande profeta e santo che è stato S. Pietro.
Ancora cito Edith Stein: “L‟azione silenziosa dello Spirito Santo nel più intimo dell‟anima dei
patriarchi, ha fatto di loro degli amici da Dio [questo è valido per tutti i patriarchi a cominciare
da Abramo, ma in particolare per Pietro, che è in qualche modo la sintesi, l‟ultimo dei
patriarchi]. Ma quando essi giunsero ad abbandonarsi a Dio come strumenti docili, Egli li
impiegò per un‟opera esteriore la cui efficacia era fortemente visibile, diresse per la loro
intermediazione il corso della storia, e suscitò a partire da essi il suo popolo eletto [e questo
vale certamente per tanti patriarchi e uomini santi davanti a Dio, ma vale in modo particolare
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per Pietro, perché la nostra fede è la fede di Pietro]: Gesù è risorto, ma testimone del Risorto è
principalmente Pietro, con pochi altri (Paolo, Maddalena, i primi apostoli); quindi la nostra fede
nel Risorto è fondata su quella di Pietro (“Su questa pietra edificherò la mia Chiesa”)”. Perciò è
importante per noi conoscere questa figura che è il nostro padre nella fede, così come Abramo.
Allora vi ho proposto di metterci idealmente a sedere per terra attorno a Pietro, anche lui
seduto per terra, nella piccola casetta, nella stanzetta presa in affitto, vicino al Campidoglio,
dove Pietro è legato ad un soldato e attende la soluzione, attende la conclusione del suo
processo, con la speranza che sia una conclusione positiva, ma anche con il timore e la
preoccupazione o, meglio, la previsione che la soluzione sarà negativa. Questo lo amareggia
tanto più in quanto, come sapete, è scritto nei documenti antichi della Chiesa di Roma che
Pietro fu consegnato per invidia, un po‟ come Gesù. C‟era infatti una legge, ma probabilmente i
Romani non avrebbero tanto insistito su questa legge, se non ci fosse stato chi per invidia
aveva segnalato la figura di Pietro. Pietro si sa tradito da amici, e quindi è particolarmente
pensoso per tutto ciò che sta vivendo. Però è anche desideroso di comunicarci qualcosa del suo
segreto, e quindi ci dice: “Guardate, il tempo è breve, fatemi delle domande giuste, fatemi
delle domande pertinenti”. Cercherò di fargli alcune di queste domande, ma vorrei essere
anche aiutato da voi: se voi avete in mente delle domande da fare a Pietro, presentatemele,
perché così ci possiamo riflettere.
Io vorrei partire da una domanda molto semplice, molto ovvia, una domanda che si
potrebbe anche esprimere in una maniera un po’ banale: “Come hai fatto a resistere
fino ad ora, con tante fatiche, tante prove, tante sofferenze, con la prospettiva della
morte?”.
Mi ricordo che questa domanda l‟ho fatta a Nelson Mandela, una volta che lo incontrai in
Svizzera alcuni anni fa. Era appena uscito da 25 anni di prigione, di carcere, e gli chiesi: “Come
ha fatto a resistere 25 anni?”; tanto più che si mostrava così dolce, così amabile, senza
nessuna recriminazione. Mi disse molto semplicemente: “Mah, io non sapevo quando entrai in
carcere che ci restavo 25 anni, quindi ho vissuto giorno per giorno con l‟aiuto di amici”. Quindi
si tratta di una domanda abbastanza banale, ma a Pietro vorrei farla in maniera più profonda;
cioè: “Che cosa ti ha sostenuto? Che cosa ti ha aiutato?”. Credo che Pietro mi
risponderebbe anzitutto: “Mi ha sostenuto la mia profonda fede ebraica, la profonda
tradizione di fede che mi è giunta dalla tradizione del mio popolo”.
Allora noi rilanceremmo la domanda: “Ma spiegaci un po‟, quale è questa tua tradizione di fede
che ti è giunta dal tuo popolo? Che cosa ti ha dato tanta forza prima ancora che conoscessi
Gesù?”. Allora credo che Pietro si metterebbe a fare un ragionamento: “Dovete fare
attenzione, perché voi goyim, voi provenienti dal paganesimo, quando parlate di fede o parlate
di Dio, cercate subito dei grandi sostantivi. Voi dite subito “Essere perfettissimo”, “l‟Assoluto”,
il “Padrone”, il “Signore”, “Colui che non dipende da nessuno”, “Colui che ha il suo essere in sé
stesso”, “il Principio e il Fine ultimo”. Noi non siamo stati abituati così. La nostra grammatica di
Dio ha proceduto secondo un cammino diverso, ed è quello che spiega anche il nostro
attaccamento così forte che dura da millenni ancora oggi (io ne sono testimone): questa fede
fortissima in Dio, in un popolo schiacciato in tutti i modi da tutte le parti del mondo.
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Allora vorremmo dire a Pietro: “Spiegaci un po‟ quale è questa grammatica di Dio che ti è stata
insegnata”. Credo che Pietro allora ci direbbe più o meno così: “La grammatica della fede di
un buon ebreo, al tempo di Gesù, ed anche oggi, quando non conosce Gesù, viene
espressa con le tre parti del discorso: i verbi, gli aggettivi e i sostantivi; in
quest’ordine: prima i verbi, poi gli aggettivi, poi sostantivi. È un ordine un po’ diverso
dal nostro: noi cerchiamo prima il sostantivo che possa qualificare, essi ci arrivano
alla fine. Cerchiamo quindi di vedere quali sono questi verbi, gli aggettivi che ne
derivano, e i sostantivi che cercano di darne una sintesi.
Di solito seguirò questo criterio molto semplice, triplice. Qui come titolo potremmo dire “La
fede ebraica di Pietro”. Faremo una prima parte che è una lectio, cioè cercheremo di leggere
questa fede di Pietro citando alcuni testi. La seconda parte sarebbe una meditatio: ci
domanderemo che significato ha tutto questo per la nostra fede. Una terza parte sarebbe la
contemplatio, quando cercheremo delle linee di preghiera e di azione derivanti da questa
percezione.
Dunque un procedimento molto semplice, molto lineare, che ripeteremo un po‟ sempre: lo
stesso procedimento ho cercato di insegnare nella mia diocesi per 23 anni, ripetendolo sempre
allo stesso modo perché così si imprima un po‟ nella memoria.
Lectio
Anzitutto la lectio, cioè il richiamo di quei testi che formano la grammatica della fede di un
buon ebreo. Ho detto che sono anzitutto dei verbi, dei verbi che indicano non chi è Dio, ma che
cosa Dio fa a favore del popolo, quindi le azioni positive trasformanti di Dio a favore del suo
popolo. Questi verbi sono molteplici, anzi vi invito a leggere la Scrittura proprio con
l‟attenzione a questi verbi, che sono così caratteristici. Ne citerò sette.
1. Dio crea: crea il mondo e quanto in esso abita, e crea con un‟azione, come la definisce
la Lettera ai Romani, che fa sì che siano le cose che non sono; quindi è capace di
trasformare completamente una realtà. Questo era un concetto per il paganesimo quasi
inesistente, e invece fondamentale per l‟ebraismo: Dio ha una tale forza da volere che
una realtà sia ed essa è. Potremmo citare un versetto sintetico, oltre naturalmente a Gn
1,2, e prendere una sintesi che è data da Is 42,5-6a: “Così dice il Signore Dio che crea i
cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alla gente che la
abita e l‟alito a quanti camminano su di essa”. Ecco tutta una sintesi di verbi che
indicano come Dio fa vivere questa terra e come noi, quindi, dobbiamo a lui tutto ciò
che siamo, viviamo, respiriamo. Dunque “Dio crea”.
2. Secondo verbo molto presente: Dio è colui che fa premesse, promette. Questo è
rarissimo per un Dio pagano, a meno che non si vada in un santuario per ottenere una
grazia. Invece Dio promette in generale. Un testo tipico può essere Gn 22,16-18, dove,
dopo il sacrificio di Abramo, dopo che Abramo è stato chiamato a chiamare il sacrificare
il figlio, e all‟ultimo momento il Signore gli ha bloccato la mano, Dio dice: “Giuro per me
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stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il
tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua
discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua
discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua
discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”. Dio è
colui che fa queste promesse, e tutta la storia dell‟AT è giocata su questa promessa
mantenuta, ripetuta, che talora sembra sconfitta dagli eventi e poi viene rilanciata. Dio
è in relazione diretta, tangibile, con l‟uomo e con il suo popolo attraverso la promessa.
3. Terzo verbo fondamentale: Dio libera. Quando il popolo è in schiavitù, Dio, che ha
promesso di essergli vicino, lo libera. Per esempio, potremmo citare Es 6,6: “Per questo
di‟ agli Israeliti: Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò
dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi”. Dio è colui che
libera. Come vedete sono tutti i verbi che indicano azioni che mettono Dio in contatto
con l‟uomo e che quindi creano un rapporto.
4. Un altro verbo molto frequente: Dio riscatta e salva. Dio riscatta e salva quando il suo
amico è caduto prigioniero, è caduto, è stato sconfitto; Dio interviene per ricomprarlo,
per rimetterlo in libertà attraverso il riscatto e per salvarlo dalla morte. Per esempio Is
43,1: “Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o
Israele [quindi il tema della creazione è diretto immediatamente al popolo]: Non
temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni”. Si tratta
di un rapporto di appartenenza, di un rapporto di inerenza uno nell‟altro.
5. Un quinto verbo molto frequente: Dio comanda. Si trova soprattutto nell‟Esodo.
Prendiamo per esempio Es 34,10a.11a: “Il Signore disse: „Ecco io stabilisco un‟alleanza:
osserva dunque ciò che io oggi ti comando‟”. Questa frase viene ripetuta tante volte, in
particolare in quello Shemà Israel che io, quando sono a Gerusalemme, ascolto ogni
mattina, perché la radio nazionale alle 6:00 comincia sempre i suoi programmi con il
canto dello Shemà Israel, Adonai Elohenu Adonai ehad. E poi obbedirai, come in Dt 6,4:
è una espressione tipica del Dio d‟Israele: “Osserva le cose che io ti comando”.
6. Dunque abbiamo detto: crea, promette, libera, riscatta e salva, comanda. Ancora un
verbo frequente è: Dio guida. Per esempio Dt 8,2: “Ricordati di tutto il cammino che il
Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant‟anni nel deserto”. Dio, cioè, è
colui che fa percorrere un cammino, che guida in questi cammini; anzi alcune versioni
hanno appunto: “Come Dio vi ha guidato in questi quarant‟anni nel deserto”. Dio è
guida di un popolo.
7. Un settimo verbo molto frequente lo conosciamo dai salmi soprattutto: Dio perdona. Sal
65,4: “Pesano su di noi le nostre colpe, ma tu perdoni i nostri peccati”. Questo è molto
raro nella spiritualità pagana.
8. Poi – l‟abbiamo già visto in qualche citazione, meglio metterlo a parte – contiamolo
come ottavo verbo: Dio chiama, Dio sceglie. Per esempio, è evidente soprattutto in Es
3,5, quando il Signore vede che Mosè si è avvicinato per vedere il roveto, e lo chiamò
dal roveto e disse: “Mosè, Mosè”. Rispose: “Eccomi”. È una chiamata, è Dio che chiama,
è Dio che sceglie.
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Questi otto verbi e molti altri, come vedete, designano un‟azione specifica positiva di Dio verso
Israele e alcuni rappresentanti del popolo. Dio è visto, quindi, non tanto come lo vede la
religiosità pagana, come uno che sussiste in sé nella sua indipendenza, nella sua beatitudine,
nella sua assolutezza, ma come qualcuno che opera per noi, che agisce e partecipa con intenti
precisi alla storia del popolo. Questa è la fede di Pietro.
Anzitutto questa fede è affidata ai verbi; da questi verbi poi si designano anche alcuni
aggettivi, che sono sempre un po‟ fluidi, ma che pur non essendo definitori dalla persona
derivano
dalla
frequenza
delle
azioni
indicate
dai
verbi.
Quando
un
verbo
indica
frequentemente una certa azione divina, allora diventa anche un aggettivo. Alcuni tra i
principali aggettivi si trovano per esempio radunati in Es 34,6-7: “Il Signore, il Signore, Dio
misericordioso e pietoso, lento all‟ira, ricco di grazia e di fedeltà”. Sono tutti aggettivi che
designano modi di agire di Dio, che hanno come base “Dio perdona”, “Dio guida”, “Dio
rinnova”, “Dio rilancia”. Quindi sono modi di agire costanti, che però, forse è importante
notarlo, non sono mai definizioni accurate e perfette, lasciano sempre una parte di ombra, una
parte di mistero. Dio non si rivela mai per intero, ma agisce, e dalle sue azioni, quando sono
ripetute, noi possiamo cogliere certe consistenze, e quindi usare degli aggettivi; ma questi non
sono mai definitori, perché Dio è al di là di ogni comprensione, è il mistero assoluto.
Dai verbi e dagli aggettivi derivano poi i sostantivi. I verbi indicano le azioni costanti di Dio, gli
aggettivi tentano di sintetizzare questa azione costante per quanto è possibile penetrare nel
mistero di Colui che sfugge ad ogni definizione perché è al di là di ogni nostra comprensione, e
in terzo luogo, grammaticalmente, vengono i nomi che però non sono, come per la filosofia
pagana, definizioni proprie e accurate di Dio, ma sono metafore del Divino derivate dai verbi e
dagli aggettivi. Quindi occorre richiamarsi ai verbi e agli aggettivi per capire il significato di
questi nomi metaforici. Si è proposto di dividere questi nomi metaforici in due categorie:
1. La prima è quella di quei nomi che esprimono una metafora di governo: Dio giudice, Dio
re, Dio guerriero vittorioso, Dio Padre, Dio madre (anche se l‟ultimo “Dio madre” forse
appartiene già alla seconda categoria).
2. Quindi ci sono le metafore di sostegno: Dio è colui che cura, mantiene, sorregge il suo
popolo, e quindi è pastore, è madre, giardiniere, vignaiolo, artista, guaritore.
Ma questo sempre come metafora, non è mai una definizione piena di Dio.
Tutto questo certamente è di una ricchezza immensa, ed è imbevuto nell‟educazione ebraica
fin dalla prima fanciullezza, perché fa parte di tutte le feste ebraiche. Ciò che mi colpisce,
stando in Israele, è che non ci sono né catechisti, né catechesi, né programmi di
catechesi, ma si impara la religione in famiglia, e la si impara attraverso le feste,
perché le feste ricordano queste grandi azioni di Dio; e ogni festa ha poi i suoi dolci, i
suoi cibi, i suoi colori, le sue usanze. Il bambino allora viene introdotto in questa
familiarità con Dio, con il Dio di Israele, attraverso queste cose, senza bisogno di un
insegnamento teorico.
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Meditatio
Se questo è dunque, caro Pietro, il fondamento della tua fede ebraica, io non posso non
esprimere una certa differenza che sento in me (almeno la sento io): confrontandomi con
questa visuale, come pagano battezzato, vivo una spiritualità leggermente diversa, che ha al
fondo appunto qualcosa di pagano (non cattivo, anzi tra le cose pagane ci sono cose pagane
ottime, come ha mostrato anche lo splendido discorso di Benedetto XVI di Ratisbona, che ha
delle cose molto belle appunto sull‟elemento greco nel cristianesimo). C‟è istintivamente in me,
lo sento a contatto con queste espressioni della fede di Pietro, c‟è in me anzitutto il senso della
dipendenza da Dio, quasi di una certa paura di Dio, quasi di un Dio anzitutto lontano, esigente.
Questo è un po‟ il retaggio pagano, che io sento in me; forse non sarà così in voi che siete
post-conciliari, ma per me è rimasto questo dall‟educazione di bambino. Mi sento, per esempio,
molto bene interpretato da queste parole che scrisse Romano Guardini anni fa: “Un atto
religioso fondamentale – dice lui – consiste nel fatto che io sempre, di nuovo, mi accolgo dalle
mani di Dio, ma mi accolgo come creatura dipendente, e che deve anzitutto obbedire. È
l‟esperienza della propria arché, la consapevolezza di provenire da Dio, di possedere le proprie
radici originarie in Lui”. Ma per Pietro questo è perché Dio mi ha creato, mi ha liberato, mi ha
guidato, mi ha condotto per il deserto, mi ha salvato. Per noi invece è più filosofico, più
generale: “Sono da lui dipendente”. E come dice ancora Guardini: “Qui è il caposaldo della mia
esistenza [Pietro non avrebbe detto così, ma “il caposaldo della mia esistenza è la promessa di
Dio”], questo è il caposaldo della mia esistenza – dice ancora Guardini –, il luogo in cui alla fine
mi riporto, l‟intesa più alta alla quale nessun altro e nient‟altro hanno accesso, là dove io sono
assolutamente solo insieme con Dio”. Questo Pietro non lo avrebbe mai detto. Qui Guardini cita
Sant‟Agostino: “Solum Deum et animam scire cupio” (Dio e la mia anima). Ricordiamo anche
Newman: “Dio e il mio io”. Certamente è una linea che viene dal paganesimo, attraverso il
platonismo ecc. Un ebreo non avrebbe mai detto questa cosa.
Quindi il nostro compito è quello non di rinnegare quanto di buono c’è nella nostra
tradizione pagana, originariamente pagana, ma di fondere, di tenere insieme, di
mettere insieme, la realtà, la forza, di questa tradizione pagana, insieme con la
ricchezza, la vivacità, la presenzialità, la creatività della tradizione ebraica. Questo è
ciò che Pietro ci dice, tra le sue ultime parole, interrogato sulla sua fede ebraica.
L’esperienza del pagano onesto non è da disprezzare, come ha notato bene il
cardinale Ratzinger, ma da far convergere con quella del popolo eletto; in maniera
che noi abbiamo, come padri nella fede, Pietro e Abramo, anche se riconosciamo,
nella nostra tradizione, con riconoscenza, Aristotele, Platone e tutta questa linea, che
non ci si toglie dalla pelle, e quindi è legata certamente al modo occidentale. Però
Ratzinger mostra bene che all’inizio del cristianesimo si era già collegata con il
Vangelo, ed è entrata anch’essa nella nostra formazione. Forse a me è mancata una
formazione biblica che insistesse su questi verbi, mentre il compito che dobbiamo
assumerci è quello di vivere l’insieme.
Allora chiediamo un po‟ quasi al termine, come consiglio a S. Pietro, al termine di questo
dialogo che ci ha portato su cose abbastanza elevate, abbastanza profonde, abbastanza
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interiori: “Come dunque vivere la spiritualità pagana senza rinnegare quella ebraica, e
quella ebraica in congiungimento con quanto di buono c’è nella spiritualità pagana?”.
Contemplatio
Suggerisco tre piste di pensiero, tre linee:
1. La linea del rispetto e della riverenza. Sant‟Ignazio stesso curava molto questa linea,
quando dice, nella notazione 3 degli Esercizi: “In tutti gli esercizi spirituali che seguono,
ci serviamo degli atti dell‟intelletto per ragionare e di quelli della volontà per suscitare
gli affetti [è molto occidentale in questo modo di esprimersi]. Perciò teniamo presente
che negli atti della volontà, quando rivolgiamo preghiere vocali o mentali a Dio nostro
Signore o ai santi, si richiede, da parte nostra, maggiore rispetto, rispetto a quando ci
serviamo dell‟intelletto per ragionare”. Ora, io temo che noi dimentichiamo molto
spesso questa regola, ma entriamo nella preghiera con facilità e con banalità, mentre
come presbiteri, o comunque come discepoli del Vangelo, dovremmo essere educatori
alla preghiera. Io purtroppo incontravo molti presbiteri che sono diseducatori alla
preghiera, dicendola così svogliata, veloce, così malamente, così tanto per dirla, che la
gente non impara a pregare; e allora, giustamente, almeno per la propria coscienza, ci
si rivolge al buddismo, ci si rivolge a queste altre forme dove c‟è quel senso del rispetto
del divino, quel silenzio, quella calma, quel ritmo di preghiera che corrisponde al
mistero di Dio. E qui abbiamo, noi preti, una grossa responsabilità, perché da come un
prete prega la gente impara a pregare. Se il prete prega così, entrando in preghiera
in qualunque modo, comportandosi in qualunque modo, la gente dice: “La preghiera
non è importante”, o, meglio: “Il rispetto di Dio nella preghiera non è importante”.
Invece noi dobbiamo interrogarci se nella preghiera personale già compiamo quegli atti
di devozione, di riverenza, di rispetto. Sant‟Ignazio suggerisce di cominciare la
meditazione, quando si è soli, con un atto di adorazione, magari mettendosi in
ginocchio, chiudendo gli occhi, quindi aiutandoci anche con il corpo in questa riverenza
di Dio; ma poi anche nell‟ufficio divino, nella Messa. Qui si vede come noi sappiamo
educare, o no, alla preghiera. E come dico, purtroppo, tante messe a cui ho assistito,
tanti uffici canonicali, sono piuttosto delle preghiere sprecate, delle sbavature, delle
forme di quasi lasciare andare, di lasciar correre, mentre questo rispetto è molto
importante.
2. La seconda pista di preghiera, di esame di coscienza, che valorizza la formazione
originariamente pagana del nostro essere è: come noi ci sottomettiamo ai colpi
della vita? Qui l‟esempio è Giobbe, che era un pagano, Giobbe di cui, a mano a mano
che il Signore permette che entriamo un po‟ nella debolezza fisica, ricordiamo sempre
più le parole mirabili, là dove disse, in Gb 1,21-22, dopo le notizie drammatiche dei
disastri che l‟hanno colpito: “Allora Giobbe si alzò e si stracciò le vesti, si rase il capo,
cadde a terra, si prostrò e disse: „Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò.
Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!‟. In tutto
questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto”. Questa è certamente
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una linea che unisce insieme la religiosità pagana più profonda con la religiosità biblica
di accoglienza del Dio della salvezza. E ancora, quando nel secondo capitolo Giobbe
viene colpito, non solo nei possessi, ma anche nel suo stesso corpo, dice il testo biblico
(Gb 2,7ss): “Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla
pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto
in mezzo alla cenere. Allora sua moglie disse: „Rimani ancor fermo nella tua integrità?
Benedici Dio e muori!‟ [sappiamo che questo è piuttosto un “maledici”, cioè un
“bestemmia questo Dio che ti ha tradito”]. Ma egli le rispose: „Come parlerebbe una
stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il
male?‟. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra”. Qui abbiamo molto da
esaminarci, perché certamente il Signore ci fa passare per quelle che Teilhard de
Chardin chiamava le “passività”: sia le “passività di crescita”, quelle cioè che
sono passive ma ci aiutano a crescere (per esempio lui diceva: “Quando sono
davanti a una parete di montagna, sembra che mi fermi, ma se comincio ad
arrampicarmi mi sento un altro, mi rinnovo, quindi è una passività che mi fa
crescere”); ma c’è anche, diceva Teilhard de Chardin, la “passività di pura
perdita”, in cui bisogna abbandonarsi a Dio con fede e basta, e sapere che Dio
riempirà questa pura perdita. Ecco, come viviamo, come ci sottomettiamo a Dio
rispetto ai colpi della vita? Un santo recente, un gesuita cileno, padre Ortado,
canonizzato due o tre anni fa, aveva questa frase molto semplice: “Contento il Signore,
sono contento”: cioè, quando gli capitava qualcosa che andava male, lui ripeteva:
“Contento”; e da questo deriva tutta una spiritualità.
3. Infine, la terza via: come fondere più profondamente la tradizione pagana, nella quale
siamo
stati
iniziati,
con
la
tradizione
biblica?
Moltiplicando
la
todah,
cioè
il
ringraziamento e la lode. Noi vediamo che tutta la scrittura è piena di questo
ringraziamento e di questa lode, perché appunto ha il senso del Dio che opera a mio
favore qui vicino a me. Il paganesimo è piuttosto reticente a questa lode, ma invece la
Bibbia, e anche il NT, la liturgia (appunto) eucaristica, sono piene di questa todah, che
ancora oggi si usa nella lingua ebraica per dire “grazie”, che indica un complesso di
gioia, gratitudine, ringraziamento e anche confessione di lode religiosa per un‟azione di
Dio che ha cambiato, in maniera buona e positiva, le circostanze della mia vita, o che
comunque è pronto a cambiarle. Gli Ebrei, che sono di una religione molto ascetica,
riempiono la giornata di questi ringraziamenti, fin dal mattino: “Ti ringrazio, Signore”; e
poi gli uomini dicono: “Ti ringrazio di non avermi fatto donna”. Ci sono tutte le
molteplicità di questi ringraziamenti di cui è piena la giornata, ma che sono, appunto,
soprattutto l‟anima dei salmi, con cui iniziano quasi tutte le lettere di Paolo. Prendiamo
qualche esempio dei salmi, per esempio Sal 7,18: “Loderò il Signore per la sua giustizia
e canterò il nome di Dio, l‟Altissimo”; è una lode che viene cantata, una lode che esulta,
una lode che non è semplicemente un grazie a mezza voce, ma è un riconoscimento
gioioso. “Loderò il Signore per la sua giustizia”, cioè perché mi ha amato, mi ha
liberato, mi è stato vicino, “e canterò il nome di Dio l‟Altissimo”. E così via. Il salmo 9,
per esempio, esprime in due versetti tutte le sfumature di questa todah, Sal 9,2-3:
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“loderò il Signore con tutto il cuore e annunzierò tutte le sue meraviglie. Gioisco in te
ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo”. Quindi todah, “loderò”, sippèr,
“racconterò”, simhà, “gioisco in te” ed “esulto”, “mi rallegro quasi danzando”, “canto
inni al tuo nome o Altissimo”. Vedete, qui sono espressi cinque volte questi sinonimi
della todah, sono cinque verbi che parlano di questa gioia estatica e pubblica, in
presenza della comunità. Credo che siano una forte educazione anche per noi, perché
noi siamo troppo abituati, nei nostri discorsi, a cadere nel registro delle lamentazioni,
che è facilissimo. Io dicevo: “Ogni tanto ho nel mio computer un programma L, quello
che si apre il più facilmente: „lamentazioni‟”: sulla Chiesa, sulla comunità, ecc. Invece
c‟è il registro L, “lode”, che dovrebbe essere sempre il primo: ringraziare il Signore per i
doni che dà. Ricordo che quando andavo nelle parrocchie, di solito, incontravo il
consiglio pastorale con il parroco, e aprivano il programma L, “lamentazioni”:
“Siamo pochi”, “Siamo sempre gli stessi”, “Non ce la facciamo”, “Mancano i
giovani”. E io dicevo loro: “Ma non avete niente di cui ringraziare Dio? Non
capite che la sola vostra fede, il vostro credere in Gesù, in un mondo così
chiuso alla fede è un miracolo, è un dono straordinario? Quindi cominciate a
ringraziare Dio per i doni che avete, e avrete occhi per vedere altri doni”.
Perché dalle lamentazioni soltanto non nasce un programma, ma dalla lode di
Dio gli occhi si aprono, ed è possibile vedere anche ciò che il Signore ci
prepara.
Chiediamo dunque a S. Pietro che ci aiuti a entrare nella sua spiritualità ebraica senza
dimenticare la spiritualità che è più, quasi, congeniale alla nostra natura, così da farne una
unità e da presentarla a Dio come un sacrificio di soave profumo di fronte all‟Altissimo.
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Giorno 1
Seconda Meditazione
18/09/2006
LA FEDE CRISTIANA DI PIETRO
Donaci, o Signore, la bocca, la mente, il cuore per cantare le tue lodi, fa che possiamo
riconoscere la grandezza dei tuoi benefici in noi; e che, come i primi cristiani, come i cristiani
del NT possiamo lodarti e benedirti in ogni tempo per quanto tu operi in noi. Fa che sentiamo
sempre la tua presenza come una presenza benefica, rinnovatrice, aperta al futuro, che
prepara grandi cose per noi e per l‟umanità. Fa che partecipiamo della speranza piena,
definitiva, certa, che il Cristo tuo figlio ha della vittoria e del trionfo della verità, della giustizia,
dell‟amore. Aprici il cuore e la mente a questi grandi orizzonti perché vediamo la nostra piccola
vita come parte di questo grande cammino verso la vittoria piena della grazia, dell‟amore, della
misericordia, della verità, in una umanità rinnovata Te lo chiediamo Padre per Cristo nostro
Signore. Amen.
Questa mattina abbiamo interrogato Pietro sulla sua fede ebraica, quella fede ebraica che è
anche la nostra fede, che ha come caratteristica la percezione viva del coinvolgimento di Dio
per noi e con noi, e quindi il nostro essere collegati a Lui, il nostro appartenergli, come Egli a
noi appartiene; tanto è vero che parola chiave di questa situazione viva tra l‟uomo e Dio è
l‟alleanza, cioè questo rapporto che continuamente coinvolge l‟uno e l‟altro. Abbiamo dunque
interrogato Pietro sulla sua fede ebraica, e oggi vogliamo interrogarlo sulla sua fede
“battesimale”, ma potremmo dire meglio “cristiana”. In altre parole vorrei fare a Pietro questa
domanda: “Quale è ora la tua fede dopo l’incontro con Gesù e la formidabile
esperienza che hai avuto di Lui?”. E lo domandiamo con interesse, perché la nostra fede è
collegata strettamente a quella di Pietro, è fondata anche sulla fede di Pietro, su cui è fondata
la Chiesa.
“Quale è dunque, Pietro, il tuo vissuto di discepolo rinnovato, rigenerato, dalla morte
e risurrezione di Gesù?”. E credo che Pietro, alla domanda: “Che cosa è cambiato nella tua
fede dopo l‟incontro con Gesù e la formidabile esperienza che hai avuto di lui?”, ci direbbe
probabilmente: “Non è cambiato niente ed è cambiato tutto: non è cambiato niente perché mi
sono sentito in piena continuità con il coinvolgimento di Dio con noi e con il mio coinvolgimento
in Lui – come ha detto Gesù in Mt 5,17: “Non sono venuto per sciogliere ma per portare a
compimento” –, e quindi non è cambiato nulla; ed è cambiato tutto, perché tutto è stato
illuminato da una luce nuova, tutto ha avuto come una nuova vivacità, ho sentito come un
nuovo modo di essere. E – ci direbbe Pietro – dovendo parlare di queste cose, non riesco a
esprimerle in maniera teorica, ma mi esprimo piuttosto con la preghiera. Credo che Pietro ci
rimanderebbe,
per
esempio,
alla
preghiera,
alla
berakah,
alla
todah,
alla
lode,
al
ringraziamento con cui si apre la prima lettera di Pietro in 1Pt 1,1-9.
Quindi la prima parte, la lectio, di questa proposta di riflessione, sarà una lectio di questa
pagina della 1Pt, dove Pietro esprime la sua esultanza, la sua esperienza di Gesù. Poi in un
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secondo momento, come meditatio, ci domanderemo dunque “quali sono i valori che Pietro ci
comunica”, fermandoci soprattutto su alcuni di essi: il valore della fede, il valore della gioia,
della speranza; quindi quali sono le caratteristiche di questa fede in Gesù che Pietro ha vissuto.
Infine, in un terzo momento, come contemplatio, come avvio alla preghiera, all‟esame di
coscienza, all‟interrogazione su noi stessi in vista di un cambiamento di vita, ci interrogheremo
su alcune conseguenze che questa nuova visione dell‟esistenza ha avuto per Pietro e può avere
per noi.
Lectio
Dunque leggiamo anzitutto questi versetti dal 3 al 9 del primo capitolo della 1Pt. Gli storici
dubitano se veramente sia Pietro l‟apostolo l‟autore di questa lettera. In ogni caso sono
certamente parole che corrispondono all‟animo di colui che, sentito che c‟è Gesù sulla riva del
lago, si butta in acqua, perché entusiasta di Gesù, perché Lo vuole raggiungere, perché lo
ama. Dunque dicono così queste parole che prima leggiamo, poi cerchiamo di rileggere con
attenzione alla struttura e alle parole chiave, e poi cercheremo di meditare; dicono dunque
queste parole:
“Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande
misericordia egli ci ha rigenerati [cioè fatti rinascere], mediante la risurrezione di Gesù
Cristo dai morti [ci ha fatti entrare in una vita nuova, una vita che guarda al futuro e
non solo al presente], per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non
si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio
siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi
tempi. [Poi alcune conseguenze di questo evento che ha modificato totalmente la vita di
Pietro, e modifica la vita di ciascuno di noi:] Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora
dovete essere un po‟ afflitti da varie prove [quindi la gioia malgrado la prova, anzi la
gioia nella prova], perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell‟oro, che,
pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco [quindi non vi spaventi il fuoco che
prova la vostra fede], torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù
Cristo [quindi noi vediamo che qui si guarda al futuro, a questa manifestazione di Gesù
che avverrà, però questo futuro ha già influsso sul presente perché appunto riempie di
gioia; poi ci sono alcune parole che dovremo commentare perché, appunto, ci
provocano] voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui.
Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa [come è possibile che si colleghi la gioia al
non averlo visto, al non vederlo] mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la
salvezza delle anime”.
Questo brano così denso che esprime certamente una grande ricchezza di sentimento, e anche
una grande potenza di pensiero, è difficile esaminarlo rigorosamente. Comprende sette parti:
1. inizia con una berakàh, con una benedizione, con una lode;
2. in una seconda parte porta la ragione di questa lode: la resurrezione di Gesù dai morti;
3. in una terza parte enuncia le conseguenze di questa risurrezione, cioè la speranza viva
nel futuro, il termine di questo cambiamento globale dell‟esistenza (“speranza viva”,
“eredità che non si corrompe”);
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4. questa eredità in una quarta parte viene assicurata come certa: “è conservata nei cieli
per voi che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede”, dunque è certa, è
vostra;
5. e allora ne seguono le conseguenze: “voi siete ricolmi di gioia pur nella sofferenza”,
6. e anche nella sofferenza purificante, anzi questa sofferenza mi colma di gioia perché è
purificante;
7. e dunque la vostra condizione presente è quella di amare e credere Gesù, anche senza
vederlo, e di godere di gioia indicibile e gloriosa.
Ecco, come vedete è un passo molto ricco, difficile da analizzare, perché si accumulano molti
vocaboli, molti concetti. Notiamo, per esempio, la moltiplicazione degli aggettivi: grande
misericordia, speranza viva, eredità che non si corrompe, non si macchia, non marcisce.
Notiamo la ricchezza di parole chiave: la resurrezione, la misericordia, la rigenerazione cioè
una vita nuova, e poi è ricordata più volte la speranza, una speranza viva, e quindi capace di
rigenerarsi, che non si affloscia, che non viene meno, e poi la fede. Speranza, fede e gioia,
amore: ecco le parole chiave di questo testo, che come vedete esprime una grande, profonda,
ricchissima esperienza spirituale. Dovremo meditarlo, leggerlo, chiedere al Signore che ce lo
faccia entrare dentro, chiedere per intercessione di Pietro che esso divenga parte della nostra
esperienza.
Meditatio
Vogliamo ora
esprimere qualche riflessione su questo testo, su qualche punto che
particolarmente ci provoca. Io ho notato qui alcune parole di carattere particolarmente
significativo, come resurrezione, speranza, vita eterna, ma vorrei cominciare dall‟ultima, dalla
fede. Perché m‟intrigano, per così dire queste, parole del versetto ottavo: “Voi lo amate pur
senza averlo visto, e ora senza vederlo credete in Lui”. Sembra quasi una provocazione,
perché l‟amore noi lo intendiamo soprattutto come trasporto affettivo di cuore, di anima, di
corpo, quindi che esige una presenza, in qualche modo. Come si può amare colui che non si è
mai visto? Anche il credere in Lui senza vederlo è una provocazione, che ricorda quella
provocazione con cui termina il Vangelo di Giovanni (che io personalmente non avrei mai
scritto, avrei scritto al contrario): Gesù dice, rivolgendosi a Tommaso: “Perché hai veduto me,
hai creduto; beati quelli che non vedendo saranno credenti”. Quando io mi trovo di fronte a
questa frase, io avrei voglia di dire: “Beati quelli che vedono e credono”; invece sono beati
quelli che, non vedendo, saranno credenti. Siccome questa frase tocca direttamente la nostra
esperienza, perché appunto noi siamo, come questi primi cristiani, quelli che non
vediamo eppure crediamo in Lui, non Lo vediamo eppure Lo amiamo, ci domandiamo
che cos’è questa condizione della fede, che senso ha, e perché non è una condizione,
diciamo, misera, di seconda categoria (mentre la prima categoria sarebbe il vedere, il
credere), perché invece è meglio credere senza vedere.
Mi sono interrogato a lungo su questa domanda. Non so se ho una risposta giusta, ma poco a
poco sono venuto a spiegarmi le cose così: anzitutto è chiaro che la divinità di Cristo si può
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solo credere. Gli apostoli hanno visto Gesù, ma hanno creduto che fosse il Figlio di Dio, il
Messia. Questo l‟ha già detto Gesù a Pietro nel capitolo 16 di Matteo: “Beato sei, Simone figlio
di Giona, perché non la carne e il sangue te l‟hanno rivelato ma il Padre mio che è nei cieli”:
dunque la conoscenza di Gesù come Messia, come Salvatore assoluto, come centro della
storia, come Figlio di Dio è frutto di fede, è dono di Dio. Certamente noi possiamo
raggranellare dei motivi di credibilità, cioè (io l’ho anche insegnato, il mio primo
insegnamento per cinque anni è stato quello della teologia fondamentale, dove
appunto cercavo di mettere in ordine dei motivi di credibilità rispetto a Gesù e al
cristianesimo) dei motivi da cui si ricava che è onesto culturalmente credere in Dio,
che possiamo credere, che possiamo credere nella resurrezione, credere a Gesù; ma
detto questo non c’è ancora la fede, detto questo non siamo ancora entrati nella
conoscenza di fede, occorre quel salto di fede che è l’unico che ci permette di entrare
in vera intimità con Gesù. Quindi: “Beati coloro che non avendo visto crederanno”, perché
questa salto di fede è un abbandonarsi a Dio, e quindi un sintonizzarsi con l‟essere di Dio, così
cerco di esprimermi: se l‟essere di Dio, come sempre più cerchiamo di comprendere
soprattutto attraverso la teologia contemporanea degli ultimi decenni, non è un essere statico,
immobile, assoluto, centrato su di sé, ma è soprattutto dono, dono di sé, abbandono di sé
all‟altro, dedizione totale di sé; allora, se noi non entriamo in questa condizione di abbandono,
di dedizione, non possiamo capire Dio, e tanto meno Gesù Cristo figlio di Dio, perché non è un
oggetto al di fuori di noi, statico, che possiamo, per così dire, fotografare, ma è Qualcuno con
cui entriamo in sintonia attraverso questa dedizione, questo abbandono, questa gratuità,
questo dono di sé, che mette in grado di capire qualcosa del mistero di Dio, che è quindi
l‟esercizio della fede. Per questo soltanto alla fede è dato di conoscere qualcosa di Dio, di
percepire qualcosa del mistero di Dio e del mistero di Cristo. Finché lo contempliamo dal di
fuori, lo guardiamo come se fosse una delle cose di questo mondo, non abbiamo una vera
conoscenza di Lui, non abbiamo una fede veramente esercitata, siamo alle soglie della fede,
siamo ai motivi di credibilità, ma non abbiamo fatto il passo, il salto, l‟abbandono nelle Sue
braccia.
Quindi quello che qui esalta Pietro è questa condizione di abbandono della fede che mette in
sintonia profonda col mistero ultimo di tutte le cose, che è appunto un mistero di amore di
donazione, dono di sé, dedizione gratuita, il solo che ci permette di capire qualcosa dei misteri
di questo mondo. Così io cerco di spiegarmi, di capire questo primato della fede, questa
necessità della via della fede, che poi è di tutta la Scrittura che comincia con Abramo: Abramo
è invitato a fidarsi, a partire senza sapere dove andava, e quindi a mettersi in cammino per
così dire cogli occhi chiusi; anzi, se stiamo attenti, nello stesso Adamo è richiesto qualcosa di
questa fede: l‟accettare il precetto di non mangiare dell‟albero della conoscenza del bene e del
male è un fidarsi di Dio, è un atto di abbandono a Lui, senza il quale l‟uomo, credendo di
ritrovare se stesso, trova la propria miseria e la propria solitudine.
Quindi mi pare che qui Pietro esprima molto bene questo aspetto, lo esprime con parole,
diciamo, provocatorie: “Voi lo amate pur senza averlo visto”. Si può davvero amare Gesù ed
esiste un amore che è più grande di tutti gli amori umani, di tutti gli affetti che pure sono gran
parte della nostra esistenza, perché tocca Colui che è sommamente amabile e Colui che è alla
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radice di tutti gli amori, di tutto il dono che l‟uomo può fare di sé ad un altro, e possiamo
credere in lui senza vederlo, anzi è proprio senza vederlo che crediamo in Lui perché ci
affidiamo alla sua parola, ci abbandoniamo alla sua promessa. Questo credo sia uno degli
aspetti molto importanti di questo testo, che non è solitario nel NT, ma ci richiama quella
conclusione del vangelo di Giovanni che già ho ricordato (“Beati quelli che non vedendo
saranno credenti”), che ci richiama lo stesso elogio dato da Elisabetta a Maria (“Beata te che
hai creduto”, quindi non: “Beata te perché sei diventata madre di Gesù”, ma “perché hai
creduto alle parole che ti sono state dette”).
E qui tocchiamo un qualche cosa che è già tipico della fede ebraica, perché è la fede di
Abramo, ma raggiunge con Gesù, soprattutto in quanto è fede nel valore salvifico della sua
morte, è fede nella sua risurrezione, raggiunge il culmine e domina tutta l‟esistenza umana, fa
della nostra esistenza qualcosa che esce da sé, dalle proprie comodità, dai propri limiti, dalle
proprie frontiere, e si butta al di là, e raggiunge l‟invisibile. Ecco questa è la fede che salva. Per
questo dicevo stamattina che, quando mi trovavo di fronte a consigli pastorali lamentosi,
dicevo innanzitutto: “Ringraziate per la vostra fede, è un miracolo di Dio, è un qualche cosa di
stupendo, di splendido, se è vissuta veramente così, se non è semplicemente appartenenza
sociologica, o identità da affermare, ma è davvero abbandono a Dio, radice e madre di tutti
quegli abbandoni, di tutte quelle dedizioni di cui è fatta la vita di una persona, perché una
persona tanto si realizza quanto si dona”. “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, chi
perderà la propria vita la salverà”, “Se il grano di frumento caduto in terra non muore, non
produce frutto”, oppure, come dicono i rabbini: “Ci sono due laghi nella Terra Santa: uno
riceve e dà, ed è il lago di Genesaret; uno soltanto riceve e tiene per sé, ed è il Mar
Morto”. Ecco credo che qui si esprima veramente bene questa legge fondamentale del dono,
quella che riempie di gioia perché appunto è più bello dare che ricevere, e quindi la vera gioia
si trova soltanto quando, uscendo da noi stessi, ci dedichiamo a Dio e agli altri, con amore
incondizionato. Ecco, questo mi pare uno dei punti nodali di questo brano, che mi pare bello
sottolineare perché è caratteristico della fede di Pietro, ed è quella fede con la quale egli si
lascia poi portare là dove non vorrebbe, affronta il martirio fidandosi totalmente della parola di
Gesù.
Un secondo aspetto che vorrei notare in questo testo è l‟aspetto della speranza. “Dio nella sua
grande misericordia ci ha rigenerati per una speranza viva, per un‟eredità che non si corrompe
e la certezza di quest‟eredità, prossima a rivelarsi, vi riempie di gioia e vi permette anche di
compiere con gioia il sacrificio della fede”. Dunque la vita dell‟uomo, la vita del cristiano, la vita
di Pietro nella sua adesione a Gesù, nel suo discepolato, è una vita che ha una prospettiva di
avvenire, una prospettiva di futuro, che naturalmente è nascosta nel volere di Dio, ma che noi,
sempre più e meglio, cerchiamo di intuire e di comprendere. Probabilmente per la prima
generazione cristiana questo futuro era un futuro abbastanza immediato, e infatti, dice qui
Pietro: “La vostra salvezza è prossima a rivelarsi negli ultimi tempi”; avevano un‟idea piuttosto
ristretta sia del passato che del futuro dell‟umanità: il passato veniva calcolato, come ancora
oggi nella tradizione ebraica, con 5000 anni dalla creazione di Adamo, e il futuro veniva
calcolato come qualcosa che sta per concludersi. Noi abbia imparato attraverso le scienze
moderne a far andare indietro di miliardi di anni l‟origine di tutto ciò che, trasformato poi in
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materia, è il nostro mondo, e quindi abbiamo allargato all‟indietro enormemente le dimensioni
della storia umana; e probabilmente siamo invitati anche ad allargarle in avanti, forse per
miliardi di anni. Quindi, sempre più risalta la potenza di Cristo che, nella sua umiltà e nella sua
modestia, si pone al centro di questo grande cammino storico.
Forse è stato Teilhard de Chardin quello che meglio ha compreso il termine di questo cammino
storico, che egli vede come qualcosa di destinato a prolungarsi assai a lungo nel tempo, ma
per segnalare, per proclamare la vittoria definitiva di Gesù su ogni ingiustizia, sul peccato e
sulla morte, e quindi per suscitare una umanità pienamente riconciliata, una umanità
trasparente, fatta una in Dio, come ce la presenta S. Paolo in 1Cor 15 o all‟inizio della lettera
agli Efesini o ai Colossesi.
Pietro intuiva queste cose, però non poteva dire molto di più. Noi oggi attraverso il tempo che
è trascorso, attraverso la riflessione sull‟allungarsi dei tempi del passato dell‟umanità e della
materia e sul loro a prolungarsi nel tempo, possiamo cogliere meglio il valore di questa fede in
Cristo che è il senso unico possibile di tutto questo agitarsi di atomi, di molecole, di energia,
quasi senza senso, quasi a caso, e che trova in Gesù soltanto, nel suo disegno di salvezza che
ha come centro la morte e resurrezione, il suo significato completo e definitivo. Questo intuisce
Pietro, e forse non riesce a esprimerlo ancora pienamente: come ho detto oggi, ci sono autori
che hanno cercato di esprimerlo con maggiore chiarezza, con maggiore incisività, ma
dobbiamo ancora camminare nella fede e nella speranza, per poter cogliere il valore di questa
prospettiva. E quindi rimane importante l‟insistenza di questo brano di Pietro sulla speranza,
perché ci obbliga a giocare sul futuro.
Noi spesso, perché viviamo in un mondo mondano, e quindi chiuso su sé stesso, non aperto al
futuro oltre la morte, ci siamo a poco a poco abituati a restringere i nostri desideri e le nostre
speranze, e tutt‟al più le valutiamo secondo criteri di giustizia, di socialità, ma sempre
nell‟ambito del tempo che scorre. Invece la resurrezione di Gesù, la rigenerazione, la vita
nuova che essa porta, ci invita a guardare al futuro dell‟umanità come a qualcosa che non si
chiude nella storia. In altre parole la storia umana non è giudicata all’interno di se
stessa, ma da qualcosa che sta al di sopra e dopo di essa, e noi quindi dobbiamo
camminare nella storia, ma con la speranza viva, con la certezza, con la fiducia che
c’è qualcosa che giudicherà la storia e ne darà il senso definitivo. Ecco, Pietro ha
capito tutte queste cose, e sono state per lui una novità immensa, perché l’AT non
aveva queste prospettive, non ne parlava se non in maniera molto confusa ed
embrionale, mentre invece la morte e la risurrezione di Gesù ci hanno obbligato a
guardare oltre. Pietro ci invita a questo guardare oltre, a questa apertura di orizzonti che non
è ordinaria nel nostro vivere laico, civile, perché ci limitiamo a orizzonti intramondani,
temporali, possibili a contarsi nel futuro immediato, ma noi sappiamo che il disegno di Dio ha,
invece, una ampiezza e una lunghezza immensa, che permetterà di valutare, di comprendere e
di giustificare tutto il senso di questa storia.
È quindi una vera novità di vita, un nuovo modo di pensare. A me viene in mente
quell‟episodio raccontato da Edith Stein, la quale aveva cercato, prima, di trovare pace e
ordine nella osservanza ebraica, nell‟osservanza religiosa, poi aveva sperato di trovare pace e
ordine in un agnosticismo senza regole, ma quando le capitò, una notte, in un viaggio, di
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leggere per intero, durante tutta la notte, la vita di S. Teresa d‟Avila, l‟autobiografia, capì:
“Questo è un mondo diverso, qui c‟è una gioia, una speranza, una possibilità di futuro che non
ho mai sperimentato nella mia vita”; ed è lì che prese poi la decisione di farsi cristiana. Dunque
questo è ciò che Pietro cerca di dirci riguardo alla sua esperienza da quando ha conosciuto
Gesù.
Contemplatio
Potremo concludere con alcune domande che possono guidare la nostra preghiera. Vi proporrei
le domande seguenti che servono un po‟ a verificare quanto questa visuale che Pietro qui ci
richiama è, in qualche maniera, viva in noi:
1. Potremo domandarci, in primo luogo: qual è l‟oggetto abituale della nostra lode? Perché
lodiamo Dio? Certo, per ciò che ha fatto per noi, per le cose che sono venute; ma siamo
capaci di lodarlo per la sua immensa grandezza, e per il futuro senza limiti che Egli
ripropone all‟umanità, per il suo disegno di pienezza, di pleroma, che Egli propone alla
storia, al di là della storia?
2. Seconda domanda, analoga a questa: siamo capaci, ci capita qualche volta di
ringraziare per la resurrezione di Gesù e per ciò che essa ha portato di novità assoluta
nella storia e nel mondo? Dovremmo saperci fermare a contemplare la resurrezione di
Gesù e tutto ciò che essa ha portato di novità nel modo di concepire l‟uomo, e quindi
ringraziarlo profondamente e con gioia.
3. Terza domanda che risponde un po‟ ai versetti 6-7 del testo: trovo qualche gioia e
letizia nelle difficoltà? Cioè, mi pare che mi sia dato, qualche volta, di intendere che
nelle difficoltà, nelle prove, si sta purificando la mia fede, e quindi che il Signore mi sta
portando verso quella verità di me stesso che può affrontare la morte e l‟eternità?
4. Quarta domanda, quarta linea di preghiera, potrebbe essere quella che parte dal v. 8:
“Voi lo amate [Gesù] pur senza averlo visto”. Quale forza ha in me l‟amore di Gesù
nella preghiera, nella adorazione, nel dialogo con Lui? Come vivo il discepolato? Non c‟è
discepolato senza amore personale per Gesù, non c‟è soprattutto scelta celibataria per il
regno senza quest‟amore grande per Gesù, e non si mantiene questa scelta del celibato
per il regno, se non con una forte e permanente tensione di amore per Gesù.
5. Come quinta domanda potremmo domandarci: provo gusto in questa economia della
fede – come abbiamo tentato di spiegarla –, oppure mi appare un peso, una catena, un
qualche cosa che mi trascino dietro?
Devo dire che a queste domande, soprattutto a quest‟ultima, spesso io ho risposto, anzitutto,
vedendo in questa economia della fede quasi una costrizione, una diminuzione, una fatica da
portare, fino a quando il Signore non mi ha permesso di comprendere, un pochino meglio,
come questa è l‟unica economia nella quale possiamo intendere qualcosa del mistero senza
limiti che chiamiamo Dio; e quindi è l‟apertura vera alla verità di Dio e di noi.
Ecco, queste sono alcune cose che Pietro ci suggerisce in risposta alla domanda: “Qual era la
tua fede in Gesù? Che cosa ha cambiato in te? Quali prospettive ti ha dato? Come tu ci consigli
e ci inviti a viverla?”. Qui certamente dobbiamo invocare lo Spirito Santo, perché tutto questo
è dono, non è convinzione acquisita con lo studio, non è tradizione facilmente recepita
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attraverso una trasmissione di atteggiamenti e di modi di vivere, ma è rivelazione di Dio nel
cuore, è Dio stesso che, come a Paolo, si rivela a noi e ci fa intendere qualcosa del suo
mistero, e del mistero che siamo noi quando ci comprendiamo come chiamati ad abbandonarci
a Lui totalmente e a mettere il Lui tutta la nostra speranza e la nostra fiducia.
Giorno 2
Prima Meditazione
19/09/2006
COME, PIETRO, SEI DIVENTATO DISCEPOLO?
Vieni, o Signore, effondi abbondantemente su di noi il tuo Spirito Santo che contrasti ogni
avverso potere, ogni tentazione di stanchezza, negligenza, sfiducia, distrazione, che ci faccia
conoscere il cammino della tua volontà, come lo hai fatto conoscere ad Abramo quando ha
lasciato la sua terra, o a Giacobbe quando fuggiva verso la Mesopotamia; così Tu guidaci in
questo cammino, e fa‟ che riconosciamo la tua chiamata, rendici sensibili a questa tua
chiamata, così come hai reso sensibile Pietro. E tu, Maria, Madre di Gesù, che hai ascoltato
subito la voce dell‟Angelo, rendi sensibile il nostro cuore alla voce dello Spirito.
Ave o Maria…
Tra le vostre riflessioni che arrivano in quello scatolone, ce ne sono alcune che chiedono
udienza, e a poco a poco le metto in lista; altre fanno domande alle quali è utile rispondere
brevemente in pubblico, perché sono domande per tutti. In particolare vedo che ha colpito
l‟elenco dei verbi, delle azioni di Dio, perché alcuni giustamente hanno detto: “Perché non c‟è
questo verbo, perché non c‟è quest‟altro?”. Debbo dire che quell‟elenco non l‟ho fatto io, cioè
l‟ho aggiustato, ma l‟ho preso da un autore molto recente che ha scritto una grossa teologia
del Vecchio Testamento: ha fatto lui per primo, conoscendo molto bene le Scritture, una
scelta, però ci sono tanti altri verbi che potrebbero essere scritti. Per esempio uno mi dice
giustamente: “Perché tra i verbi di Dio non ha messo Dio punisce?”. Sì, si potrebbe
mettere anche questo verbo, io però ho messo il verbo, mi pare, Dio redime, Dio
restaura, Dio perdona, dove è implicita, appunto, la punizione di Dio. E se forse non
abbiamo messo questo verbo come azione caratteristica è perché, di solito, il punire
di Dio è sempre collegato ad un’azione di rifacimento, di rinnovamento, tende al
perdono, tende al rilancio. Ecco, a lasciarlo forse così in astratto si rischierebbe di non
capirlo bene, però certamente è un verbo che potrebbe benissimo stare in questo elenco.
Così pure un altro di voi dice: “Come mai lei, tra gli otto verbi che identificano le grandi
opere mirabili di Dio, non ha messo l’amare?”. Sì, certamente, si potrebbe mettere
anche questo verbo, anche
se
amare
non
occorre molto spesso nell’Antico
Testamento come riferito a Dio; occorre sì, ma rimane un verbo un po’ generico,
mentre invece i verbi preferiti sono verbi concreti, di azioni storiche: amare creando,
amare rinnovando, amare perdonando, amare scegliendo. Questo verbo sottostà un po‟
ad altri verbi, ma deve poi essere, nella visione antico-testamentaria, concretato. Certamente
esiste, esiste per Dio, esiste per l‟uomo, anzi lo Shemà dice: “Amerai il Signore Dio tuo con
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tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze”. Però poi questo vuol dire
osservare
i
comandamenti,
quindi
viene
specificato
nei
comandamenti
concreti.
Ma
giustamente questo verbo potrebbe essere preso in considerazione.
Ancora questa domanda mi pare interessante: “Come mai Pietro, riferendosi alla Resurrezione,
come fonte della gioia, non fa riferimento alla Passione del Signore?”. Certamente Pietro sente
molto fortemente la Passione del Signore e, se avremo tempo, potremo leggere dalla prima
Lettera di Pietro i lunghi riferimenti alla Passione di Gesù. E anzi Pietro si chiama, come avrete
visto in 1Pt 5,1, “testimone della Passione di Cristo”. Testimone un po‟ da lontano,
ovviamente, non come Giovanni, però sente la forza di questa testimonianza. Nella frase in cui
esalta le grandezze del battesimo, la morte è presente nell‟espressione: “Resurrezione dai
morti”. Quindi ogni volta che si parla di Resurrezione si parla di morte di Gesù, perché è
resurrezione dalla morte: è Colui che è morto in croce che è Risorto, quindi credo che Pietro
intendesse riferirsi, senz‟altro si riferiva, alla Risurrezione, ma del Crocifisso, quindi comprende
anche il Crocifisso quando si esprime così.
E c‟è ancora un‟ultima domanda che voglio leggere ma che rimando alla meditazione che
faremo oggi pomeriggio: “In quest‟ultima meditazione ha parlato dell‟amore. La domanda
che rivolgo a Pietro è questa: per tre volte Lo hai rinnegato, ma per tre volte hai
dichiarato il tuo amore per Lui. Come hai potuto vincere l’amaro pianto dopo il canto
del gallo? [Una bella domanda!] Come hai potuto alimentare il tuo amore per Lui
dopo che ti aveva affidato la Chiesa Universale?”. Ecco, questo lo lascerei piuttosto per la
meditazione che faremo nel pomeriggio, in seguito, ma rimane una domanda giusta.
Al momento mi pare che sia venuto il tempo di domandare a Pietro, dopo avergli chiesto sulla
sua fede ebraica e sulla sua esperienza con Gesù (quindi dopo avere trattato quello che negli
esercizi di S. Ignazio è il “principio e fondamento”, su cui poggia tutto il cammino di Pietro), mi
pare che sia venuto il tempo di chiedergli un po‟ conto del suo cammino, e la domanda io l‟ho
espressa così: “Come, Pietro, sei diventato discepolo? Qual è stato il tuo cammino di
discepolato?”. Perché non si diventa discepoli in un minuto, tutto ad un tratto, ma c’è
un cammino lungo da percorrere. Forse fu più breve per Paolo, ma per Pietro certamente è
stato lungo, ed è lungo per ciascuno di noi.
E Pietro, lo vediamo che, a questa domanda, si sente coinvolto, è contento, anzi si commuove
perché gli ricorda tanti eventi, tante vicende, tanti momenti facili e difficili. Vediamo che cerca
una risposta sintetica, e la risposta sintetica la immagino così: “Come Pietro sei diventato
discepolo?”; rispondo brevemente: “Mediante una duplice chiamata, composta
ciascuna di quattro tempi”. Quindi questa è una sintesi che Pietro ci fa, che poi tocca a noi
esaminare. “Duplice chiamata”, quindi duplice vocazione, e ciascuna in quattro tempi. Per cui
ci fa vedere tutta la progressione di questo diventare discepolo. E vorrei esaminare in questa
meditazione la prima chiamata nei suoi quattro tempi, e poi in una seconda meditazione,
domani mattina, esamineremo la seconda chiamata con i suoi quattro tempi. Come
intermezzo, nel pomeriggio, vorrei proporre, perché viene giusta a questo punto, una
meditazione sui peccati, che anche può servire per preparare alla confessione che di solito si fa
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in questo tempo di esercizi, sulla domanda a Pietro: “Come hai superato i tuoi peccati? Come
hai vinto i tuoi peccati che ti impedivano di rispondere alla chiamata?”.
Quindi, in questa meditazione, vorrei nella lectio far passare queste quattro chiamate, questi
quattro tempi della prima chiamata; per poi dopo, in una meditatio, domandarci che cosa ci
insegnano questi quattro tempi; e per suggerire poi alla vostra preghiera alcune piste di
domanda personale e di colloquio con il Signore e con Pietro sulla vostra chiamata.
Lectio
Dunque a Pietro chiediamo: “Che cosa ha significato per te l‟essere chiamato da Gesù?”. Lui ci
risponde indicando dei fatti, ed io ho indicato quattro fatti o quattro momenti che mi pare
corrispondano a diverse sfumature della chiamata. Non che per tutti sia così allo stesso modo,
ma certamente qualcosa di tipico c‟è in questa chiamata di Pietro.
Il primo momento, il primo appello, il primo tocco potremmo dire, è quello che è descritto in
Gv 1,40-42. Sta parlando il Battista, ha presentato Colui che viene, che battezza nello Spirito
Santo, ha visto passare Gesù e ha detto: “Ecco l‟Agnello di Dio”; due lo hanno seguito, gli
hanno detto: “dove abiti Signore?”; era l‟ora decima. Quindi questi due, dopo aver incontrato
così Gesù, se ne ritornano, e dice il verso 40: “Uno dei due che avevano udito le parole di
Giovanni e l‟avevano seguito era Andrea, fratello di Simone Pietro. Egli incontrò per primo suo
fratello Simone e gli disse: abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo, e lo condusse da
Gesù”. Ecco la prima presentazione in assoluto di Pietro, che quindi ci appare qui, come
potremmo chiamarlo oggi, un ebreo messianico. Sapete che esistono oggi gli ebrei messianici,
i quali sono ebrei, non cristiani quindi, ma credono in Gesù, leggono i Vangeli, leggono il NT.
Certamente non era di questi Pietro, ma possiamo dirlo ebreo messianico in quanto attendeva
seriamente il Messia come persona concreta: il suo messianismo non era un messianismo
generico, vago. Allora, con questa parola, Andrea lo scuote, perché va incontro ad una sua
profonda attesa: è uno che aveva dentro di sé delle attese grandi. Di solito la vocazione coglie
persone non mediocri, non tali da accontentarsi di poche cose, ma che hanno in sé delle
attese, magari non ancora ben precisate. Sappiamo che Simone, tra l‟altro, era un uomo già
maturo, adulto, sposato, e che faceva il pescatore, ma che aveva dentro di sé questa attesa
profonda. E il fratello Andrea gioca su quest‟attesa per dire: “Abbiamo trovato il Messia”, e lui
subito si lascia condurre. E poi qui c‟è il tocco del primo incontro: “Gesù, fissando lo sguardo
su di lui, disse…”. Ecco, questo emblépsas è molto importante, perché è lo stesso che usa
Marco in 10,11 quando parla dello sguardo sul giovane ricco: “Guardandolo lo amò”, “Fissando
lo sguardo su di lui”. Ed è lo stesso che occorre in Luca 22,61, mi pare, quando dopo la
negazione di Pietro, Gesù passa e lo guarda. Quindi è un tocco di sguardo che qui è per la
prima volta; e Pietro si sente, per la prima volta in vita sua, guardato con amore, con
interesse, con attenzione, da uno che non solo vuole fare affari con lui, comprargli dei pesci,
ordinargli una pesca, ma lo tocca dentro; quindi Pietro si sente toccato da Gesù. È oggetto di
attenzione da parte di questo uomo Gesù, e questa attenzione lo commuove profondamente.
Attenzione che poi si esprime anche con una parola profetica: “Tu sei Simone, figlio di
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Giovanni”. È sempre importante e bello venire chiamati per nome, perché si vede che la
persona si conosce: difatti succede, nelle grandi diocesi, che qualche volta qualche prete
rimane molto amareggiato perché viene chiamato con un altro nome, perché il vescovo magari
non ricorda bene tutti i nomi, e allora c‟è un momento di smarrimento: “No, guardi, io sono
quest‟altro”. Grazie a Dio il Signore mi ha sempre risparmiato questo momento imbarazzante,
perché certamente non è piacevole. Invece: “„Tu sei Simone, il figlio di Giovanni: ti chiamerai
Cefa, che vuol dire Pietro”. Ecco, qui non c‟è altro, c‟è questa parola misteriosa, oracolare, in
cui Pietro legge soprattutto l‟interesse di Gesù per lui. E la promessa: tu puoi essermi utile,
tu hai una missione, tu sei importante. Ecco, questo è il primo tocco, che non c’è
bisogno che sia molto specificato, ma certamente lascia un’impressione grande, ci si
accorge di non essere un numero, di non essere qualcuno della folla, ma di essere
voluto, ben voluto, amato, capito, desiderato personalmente.
Secondo momento. Potremmo dire che questo è il primo tocco; il secondo, lo direi, è la
chiamata impegnativa in cui bisogna fare qualcosa, troncare qualcosa. Mc 1,16-17:
“Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre
gettavano le reti in mare (erano infatti pescatori). Gesù disse loro: seguitemi, vi farò diventare
pescatori di uomini”. Ecco, questa è una seconda chiamata, impegnativa perché occorre
fare un gesto pubblico. È un po’ come la decisione di entrare in seminario o in
noviziato: bisogna compromettersi, bisogna lasciare qualcosa, bisogna scegliere; e,
come sapete, molti giovani d’oggi hanno paura di scegliere, vorrebbero tutto, tutto il
bene. Io ho seguito per molti anni quello che chiamavo il gruppo Samuele, cioè giovani e
ragazze che io chiamavo pubblicamente, a cui davo un appello nel mese di settembre, a cui
dicevo: “Chi di voi si sente di compiere la volontà di Dio a 360°, cioè è disponibile totalmente
al disegno di Dio e vuole conoscere questa volontà di Dio, mi scriva e faremo un cammino di
un anno per approfondire questa chiamata”; che naturalmente non era determinata, quindi
poteva essere missionario, vita consacrata, matrimonio, servizio civile, ecc… E, di solito, fin dal
primo anno, ricevevo molte risposte, diverse centinaia. Tra esse ne sceglievo un 150-200 che
mi parevano più serie, e poi le seguivo con un incontro mensile di un pomeriggio intero, che
poi veniva prolungato da loro con dei compiti da svolgere. Ho seguito così circa 1000-1500
giovani e ragazze, a cui poi chiedevo, al termine di questo tempo, di scrivermi una lettera di
fortificazione, dicendo, non com‟era andato l‟anno, le vicende dell‟anno, ma che cosa ne
avevano ricavato, quali scelte. Ebbene, mi trovavo di fronte a giovani, ragazze
generosissimi (non era in dubbio la loro disponibilità di compiere la volontà di Dio a
360°), ma timorosi di una scelta concreta: “Perché vorrei fare questo, ma se poi
sbaglio…”. Dicevo a loro con insistenza: “Nello scegliere, bisogna lasciare qualche
cosa, bisogna buttare da parte certe cose per farne altre”, e di questo avevano paura,
per cui li vedevo tergiversare magari per 2, 3, 4 anni facendo servizio civile, addirittura in
Africa o in America latina, con molta generosità, ma purché non sia una scelta per la vita,
perché quella richiede una decisione e un lasciare certe cose. E credo che questo oggi è più
difficile di un tempo, perché al mio tempo, quando ancora ero ragazzo, io sono entrato nella
Compagnia di Gesù a 17 anni, quindi ho fatto questa scelta totale di vita, e mi pareva
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abbastanza logica. Ma oggi le famiglie assicurano un retroterra di comodità fino ai 20, 25, 30
anni, e allora non c‟è quella spinta a scegliere; ed anche quei giovani e quelle ragazze ottime
rimangono con la paura della scelta. Invece Gesù chiede una scelta, è chiaro, chiede. C‟è stato
un periodo di preparazione, che qui rimane implicito, che Giovanni accenna brevemente, però
Gesù dice: “Seguitemi, lasciate le vostre reti, lasciate il vostro mestiere, vi farò pescatori di
uomini”; cioè userò di voi al meglio, userò delle vostre qualità e capacità di cui voi vi private
nell‟immediato per realizzarvi al meglio di voi stessi. Quindi questa è la seconda parola, il
secondo momento della prima chiamata, il momento impegnativo nel quale bisogna decidersi a
lasciare qualche cosa. E mi viene in mente qui questa parola che Elia dice ad Eliseo quando lo
chiama, 1Re 19,19-20 quando Elia, dopo l‟apparizione nel monte, dopo aver visto il Signore,
torna indietro ed incontra Eliseo figlio di Safat: “Costui arava con 12 paia di buoi davanti a sé
[quindi è un uomo ricco, ben sistemato, con delle grosse possibilità terriere]. Elia passandogli
vicino gli gettò addosso il suo mantello. Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia dicendogli:
andrò a baciare mio padre e mia madre e poi ti seguirò. Elia disse: va e torna perché sai bene
che cosa ho fatto di te”. E quindi lo ammonisce sulla serietà, determinatezza, definitività della
scelta: “Sai bene che cosa ho fatto di te”. Ecco, questo ci racconta Pietro, questo è il mio
secondo momento di chiamata, quando ho sentito che dovevo lasciare, farmi criticare anche, e
affrontare delle diversità di parere nella famiglia, nell‟ambito dei servitori, per seguire Gesù.
“Subito lasciate le reti lo seguirono”.
Terzo tempo: Mc 3,13-16. “Il terzo tempo – ci dice Pietro – è quando mi sono sentito
chiamato, a preferenza di molti altri, per costituire il gruppo dei Dodici”. Qui c‟è un momento
ulteriore della chiamata: non è soltanto un momento impegnativo, ma è una chiamata a
coinvolgerci pubblicamente in rappresentanza di tutto un popolo perché si è parte dei Dodici; i
dodici rappresentano l‟intero popolo di Dio, quindi è una chiamata che, per così dire, coinvolge
la responsabilità verso la comunità. Non è più soltanto il mio cammino, ma io rappresento una
comunità. Dice Marco:
“Gesù salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle, ed essi andarono da lui
[“quelli che egli volle”: ce n‟erano molti altri]. Ne costituì Dodici che stessero con lui [li
chiama ad essere veramente discepoli nella quotidianità, a partecipare alla sua vita
giorno e notte: a pregare con lui, a mangiare con lui, a digiunare con lui, ad affrontare
con lui le difficoltà], ed anche per mandargli a predicare e perché avessero il potere per
scacciare i demoni” [è un vero e proprio discepolato di comunione, di vita e di
apprendimento, fatto non in privato ma a nome di un popolo intero, perché i Dodici
rappresentano le dodici tribù di Israele]. Costituì dunque i Dodici ed il primo è Simone
al quale impose il nome di Pietro”.
E certamente io immagino che Pietro, raccontandoci questo fatto, si senta commuovere
profondamente, perché diceva: “Io non avrei mai pensato di poter essere individuato da Gesù
come persona, e neppure a fare qualcosa per Lui; ma mi sono sentito addirittura chiamato ad
essere ufficialmente rappresentante dell‟intero popolo”. E credo che questo è il momento in cui
siamo chiamati al diaconato, al presbiterato o all‟episcopato, perché è il momento nel quale
siamo, per così dire, messi da parte a nome di tutto un popolo e per tutto un popolo. E questo
è certamente un tempo decisivo per la nostra esistenza, un tempo che rimarrà sempre
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impresso: infatti la data per ciascuno di noi del diaconato, del presbiterato o anche
dell‟episcopato sono le date più significative della nostra vita dopo il battesimo, si collegano
immediatamente con il battesimo e lo rendono vivente e storico operante nella Chiesa.
C‟è però ancora un quarto tempo, dice Pietro, nel quale siamo stati messi alla prova nella
missione, perché è bello essere chiamati sul monte dopo una notte di preghiera, ma poi
bisogna provarsi nella vita. Ed allora ecco Mc 6,6ss: “Gesù andava intorno per i villaggi
insegnando, allora chiamò i Dodici ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere
sugli spiriti immondi e ordinò loro che oltre al bastone non prendessero nulla per il viaggio”.
Dunque è un apprendimento missionario, nel quale i Dodici devono imparare la povertà,
l‟abbandono alla provvidenza, la fiducia nel Padre che è in Gesù. E questo è anche parte della
nostra vocazione, è un momento significativo del nostro cammino di discepolato: imparare a
confidare nel Padre come Gesù, e a confidare nel Padre nelle circostanze quotidiane nelle quali
si è accolti e respinti, si trova udienza e si trova la porta chiusa o sbattuta in faccia.
Meditatio
Ecco, Pietro ha finito il suo racconto per sintesi, perché certamente ce lo farebbe molto lungo,
commuovendosi nei particolari, ma a noi interessa coglierne l‟essenza per interrogarci ora
brevemente, cioè cerchiamo di riflettere su questo racconto con qualche accenno di meditatio.
Qualche riflessione che ci provenga da questa considerazione dei quattro tempi successivi della
prima chiamata di Pietro.
1. Intanto ho notato che non c‟è una sola chiamata, ma sono almeno due, e su questo
ritorneremo, perché ora parliamo solo della prima; però ci sono più chiamate, forse non
in tutti, non allo stesso modo, ma non pochi autori spirituali, anche moderni e
contemporanei, hanno teorizzato una seconda chiamata, che viene ad un certo punto
della vita. Quindi la prima chiamata non esaurisce tutto: le sorprese di Dio sono sempre
sorprendenti (io sono solito dirlo quando si ha una certa età: si fanno poi tanti
anniversari, il 50° di messa, il 60° di messa, ecc., e io dico sempre questa frase: “Il
bello viene dopo”). Quindi bisogna sempre guardare oltre, e la prima vocazione fa
guardare alla seconda. Quindi non c‟è una sola chiamata.
2. Questi tempi della chiamata, questi momenti, questi quattro momenti, sono successivi,
cioè vanno di profondità in profondità, e sono collegati, quindi l‟uno richiama l‟altro e
approfondisce l‟altro. C’è come un crescendo di coinvolgimento con Gesù, c’è un
crescendo che ci rende sempre più familiari con Lui, sempre più capaci di
comprenderlo e di servirlo. E c’è appunto un crescendo di familiarità e di
appartenenza: non esiste solo il sì e il no, ma c’è una lunga strada di
appartenenza sempre più intima e sempre più profonda a cui siamo chiamati; e
probabilmente c’è ancora molta strada da fare per tutti noi prima di arrivare
alla pienezza della familiarità, della appartenenza a Gesù.
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3. Ultima osservazione: cosa avviene se si blocca il processo? Perché questo processo può
essere bloccato. Si può dire di sì al primo e al secondo momento, ma non al
terzo. Che cosa avviene? Ne viene, diciamo, toccata la nostra identità. Un
tempo si ragionava in termini di peccato mortale: si diceva: “È peccato respingere la
vocazione”; oggi non si fa più questo ragionamento, ma è un ragionamento di identità,
di corrispondenza al mio essere più profondo, che può svilupparsi, crescere, oppure
essere bloccato o distratto nella sua crescita. Certo, il Signore è buono, e tra i verbi che
riguardano l‟agire di Dio c‟è anche il guarire, il medicare, c‟è il famoso concetto di
tiqqun olam per gli ebrei, che vuol dire “medicare il mondo, riparare” – possiamo dire
che è raro trovare delle situazioni irreparabili –; però certamente la personalità rimane
limitata, impedita nel suo sviluppo, e quindi questa chiamata è seria. È seria anche se
non deve essere vissuta sotto pena di peccato, ma è come una chiamata ad uno
sviluppo in cui la nostra identità deve diventare ciò che il Signore ha proposto per noi. E
quindi dobbiamo esaminarci attentamente sulla verità della nostra rispondenza a questa
chiamata.
Ecco queste sono alcune riflessioni che mi vengono suggerite da questa considerazione che ci
fa Pietro.
Contemplatio
Potrebbe essere bello, rispondendo alle sollecitazioni di Pietro, che io mi domandassi:
1. Quando e come le mie chiamate? Quali i momenti della mia chiamata? Quasi un
riandarci con gratitudine, con umiltà, chiedendo perdono, ringraziando, e un rifare
brevemente la storia delle mie chiamate, dal primo tocco, che è diversissimo per
ciascuno. Può essere qualcosa di estremamente ricco, si potrebbe fare un romanzo di
ogni chiamata. Come e quando i momenti delle mie chiamate?
2. E allora potremmo allora anche interrogarci, in un secondo momento: quando ho
trascurato di rispondere, ho tergiversato, ho temporeggiato? E, ancora di più, quali
ostacoli maggiori ho trovato nel rispondere di sì a questa chiamata? Sappiamo che il
giovane ricco ha risposto di no perché aveva troppi beni e non si sentiva di lasciarli. C‟è
qualcosa in me che ostacola la mia risposta?
3. E soprattutto, come tengo a bada quello che si potrebbe chiamare senso di
inadeguatezza, che spesso emerge (“Ma io non sono fatto per questo, è troppo
per me, sono inadeguato”), che emerge fin dalla risposta di Mosè a Dio: “Non
sono capace a parlare, perché mandi proprio me?”, che emerge da Geremia:
“Sono giovane, non sono capace”? Come vivo questo senso di inadeguatezza?
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Mi lascio imbrogliare, spaventare, oppure è motivo di fiducia, di abbandono, e quindi
fonte di sicurezza, proprio perché siamo inadeguati, è vero, siamo inadeguati. Io ricordo
che ho sentito questo senso di inadeguatezza in tutte le diverse chiamate ed impegni ai
quali il Signore mi ha chiesto di rispondere di sì. Ed in particolare nell‟ultimo, come
arcivescovo di una grande diocesi. E ricordo che, ad un certo punto, mi ha molto aiutato
il mio padre spirituale, perché gli esprimevo questo senso di inadeguatezza, e lui mi
disse: “Va bene, siamo inadeguati e basta! Adesso non pensiamoci più”. Quindi
accettato questo bisogna poi buttarsi. Ecco questo credo che sia ciò che ci può
suggerire Pietro, con la sua esperienza, in modo da nutrire la nostra preghiera.
Giorno 2
Seconda Meditazione
19/09/2006
PIETRO, COSA NE PENSI DEI TUOI PECCATI?
Ti abbiamo invocato, Signore, perché stiamo per affrontare un argomento piuttosto difficile,
piuttosto ostico al mondo d‟oggi, sul quale non sempre riusciamo ad usare la terminologia
giusta, e sul quale forse non abbiamo anche lo spirito ben preparato ed autenticamente
disposto. Ti chiediamo di aprire ed illuminare, spolverare il nostro cuore, il nostro spirito da
tutto ciò che lo tiene confuso e disordinato, per ottenere nell‟ordine e nella pace la conoscenza
della tua volontà. Te lo chiediamo, o Padre, per intercessione di Maria e per il nome di Cristo
nostro Signore. Amen.
Dalle vostre domande, dalle vostre richieste, vedo che c‟è interesse per la figura di Pietro e
soprattutto per i drammi di Pietro, i suoi peccati, le sue sofferenze, la sua capacità di perdono.
Quindi ho pensato opportuno interporre, tra le due meditazioni sulle due chiamate di Pietro,
questa domanda a Pietro: “Pietro, che cosa ne pensi dei tuoi peccati?”. È utile farci questa
domanda in questo momento degli esercizi spirituali in cui siamo soliti prepararci a fare una
buona confessione, magari anche una confessione generale di tutto l‟anno trascorso, e
comunque a cercare di conoscerci di fronte al disegno di Dio, a vedere che cosa il Signore
vuole che cambiamo dentro di noi, o cosa gli chiediamo di cambiare in noi.
Faremo questa domanda a Pietro, e Pietro ci risponderà, ma prima vorrei dire forse qualcosa
sul concetto generale di peccato. Facciamo questa domanda come se fosse ovvia: «che cosa
pensi Pietro dei tuoi peccati?», ma come concetto generale non è molto utile il concetto di
peccato, perché la gente non coglie che cos‟è. Il concetto di peccato suppone una fede ebraica,
molto forte, cioè suppone una percezione viva del fatto che Dio è coinvolto con il
comportamento dell‟uomo, ed il comportamento dell‟uomo coinvolge il cuore di Dio, suppone
una fede radicata nelle sue radici ebraiche. Per conseguenza, a Dio importa molto come si
comporta l‟uomo e, nel suo modo di comportarsi verso Dio o i figli di Dio, l‟uomo tocca Dio, lo
loda, oppure lo offende e, quindi, ogni comportamento sbagliato che nuoce al prossimo, o
deviante, è risentito da Dio, che è partner, che è compagno, che è alleato, che è
continuamente presente allo Spirito.
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È chiaro che quando c‟è questo concetto di fondo si capisce anche il concetto generale di
peccato. Altrimenti forse non vale la pena usare questo termine, oppure lasciarlo per un
riferimento che può aiutare qualcuno, ma è meglio usare molti altri sostantivi, che ci sono e
che indicano comportamenti nocivi o sbagliati, e che la gente forse capisce di più. E quindi
credo che è bene usare, soprattutto con la gente, nelle omelie, nelle prediche, con i giovani,
una molteplicità di termini che loro possono intendere, perché questo peccato rimane qualcosa
di molto vago, e magari identificano con il peccato due o tre cosette e tutto il resto viene
lasciato cadere. Io direi che, come nella lingua scritta o in una lingua parlata ci sono
degli errori di grafia, errori di pronuncia, errori di sintassi, imprecisioni di
vocabolario, ci sono quindi molti modi di sbagliare, nel parlare, nello scrivere una
lingua; così nella vita ci sono molti comportamenti sbagliati, nocivi, devianti,
inautentici. E la gente allora capisce questo, che ci sono comportamenti che ledono la nostra
autenticità, che in qualche maniera diminuiscono la nostra personalità. Ci sono poi
atteggiamenti che possono avere un nome ancora più preciso: ingiustizie sociali, ingratitudini,
frodi, soperchierie, cioè approfittare della propria superiorità per umiliare un altro, per
schiacciare un altro (quando questa soperchieria diventa, per esempio, il modo di fare in un
certo ambiente schiacciando qualcuno, c‟è anche un nome che la gente capisce: mobbing, il
prendere una persona in un ufficio e metterla sotto torchio, sotto umiliazione). La gente
capisce tutte queste cose, capisce che ci sono atteggiamenti pomposi, vanitosi, ridicoli, che c‟è
voglia di fare figura, che porta ad atteggiamenti che in qualche maniera sono nocivi alla
persona. Ci sono poi atteggiamenti devianti più gravi che portano delle conseguenze molto
negative. Così, quando parliamo di peccato con Pietro, sappiamo che Lui ci intende, e noi
cerchiamo di capire che cosa lui intende; ma quando dobbiamo parlarne con la gente, bisogna
poi che cerchiamo di ampliare ed articolare il discorso per essere capiti. Probabilmente una
categoria unica oggi la gente non riesce a coglierla, ma tante categorie singole, probabilmente,
sì.
Lectio
In ogni caso noi parliamo con Pietro – ho voluto fare questa premessa perché appunto non
abbondiamo troppo facilmente su questa parola peccato, ma pensiamo a tutto ciò che ci sta
dietro –, e quando facciamo la domanda a Pietro: «Che cosa pensi dei tuoi peccati, come li hai
superati?», credo che lui ci risponderebbe che all‟inizio non ci pensava molto ai suoi peccati: si
sentiva un buon ebreo osservante, con qualche difettuccio, sapeva di essere un po‟ emotivo, di
scaldarsi facilmente, di arrabbiarsi anche senza ragione, e poi sapeva che, pur mostrandosi
forte, crollava facilmente quando le circostanze avverse si accanivano contro di lui, sapeva di
essere un po‟ prepotente, un po‟ impulsivo e molto debole, ma non calcolava tutto questo nella
lista dei peccati, quindi si sentiva abbastanza tranquillo. Un buon ebreo messianico, cioè che
attende il messia, e quindi a posto. Però credo che lui ci direbbe semplicemente cosi: «Quando
mi trovai quella volta, in cui ci fu la prima chiamata, la chiamata che abbiamo detto del
secondo tempo, cioè a lasciare tutto, e quando vidi che in questa chiamata Gesù mi dava
fiducia, chiedeva di salire sulla mia barca, di parlare alla gente dalla mia barca, quindi mi
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sceglieva al posto di molti altri, e poi mi comandava di buttare le reti, e quando io obbedivo mi
concedeva una pesca straordinaria, inattesa; allora ho sentito quanto quest‟uomo che già
vedevo rappresentante di Dio, mi voleva bene, ed allora improvvisamente è scattato il senso
della distanza: quanto mi vuole bene, quanto è attento, quanto è gentile, quanto è
preveniente; e quanto io sono rude, grossolano, avaro, preoccupato di me; e così mi sono
venute in mente – dice Pietro – tante mancanze, modi di agire prepotenti in famiglia, forse
anche qualche tentativo di infedeltà, qualche imbroglio nel negozio, nel modo di commerciare,
sul peso, sul denaro».
Tutte queste cose gli sono venute a galla perché si è visto confrontato con una persona che gli
ha letto dentro. Ecco, così noi arriviamo a conoscere i nostri peccati confrontandoci, e
per questo allora vale la nozione teologica di peccato, confrontandoci con l’agire
divino verso di noi. Pietro direbbe: «Mi sono sentito carente di fronte alla bontà di
Gesù, ed ho capito tutta la mia inadeguatezza, tutta la mia povertà, ed allora mi sono
istintivamente buttato in ginocchio ed ho detto “allontanati da me che sono
peccatore”». Pietro ci direbbe: “Prima di tutto, ho cominciato a capire qualcosa dei
miei peccati quando mi sono trovato di fronte alla bontà, alla cortesia, alla
gentilezza, preveggenza, delicatezza, amore di Gesù”.
E poi ci darebbe due consigli, credo. In primo consiglio è questo: Pietro ci direbbe: “Guardate
che io, per l‟aiuto dei catecumeni delle nostre prime comunità, ho fatto una lista senza
menzionare
mai
il
peccato,
ma
menzionando
dodici
atteggiamenti
sbagliati,
dodici
comportamenti nocivi, in maniera che i catecumeni capissero che cosa erano chiamati ad
evitare, da che cosa erano chiamati ad uscire. Se avessi detto semplicemente: „evitate il
peccato, pentitevi dei peccati‟, non avrebbero capito, invece ho fatto una lista molto precisa”.
La lista la riporta S. Marco in Mc 7,22, ed era probabilmente una specie di catechismo per
coloro che si preparavano al Battesimo, indicando dodici atteggiamenti che bisogna imparare a
riconoscere in sé e a non assumere più se si vuole essere discepoli di Gesù. Leggiamo questi
12 atteggiamenti (i manoscritti hanno naturalmente diverse varianti, alcuni ne riportano solo
sette come fa il parallelo di Matteo, ma mi pare che l‟elenco di Marco sia più completo e forse,
in qualche maniera, più originario; nelle varianti dei manoscritti ci sono anche varianti
nell‟ordine con cui sono presentati questi peccati: noi qui seguiamo la nostra traduzione che
segue l‟ordine del codice Vaticano, Sinaitico, dei grandi onciali antichi). Leggiamo dunque il
testo. Si trova nel contesto del puro e dell‟impuro, cioè quando Gesù deve discutere su che
cosa macchia l‟uomo, che cosa lo inquina, che cosa lo sporca: non, come si pensava allora, e
come si pensa anche oggi, qualcosa che viene dal di fuori, il toccare questo o quest‟altro,
mangiare questo, ma è dentro – dice Gesù –, è dal cuore che vengono le realtà veramente
inquinanti; e quindi dice:
“Ciò che esce dall‟uomo, questo sì contamina l‟uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal
cuore degli uomini [quindi è una morale del cuore, una spiritualità del cuore], escono le
intenzioni cattive [qui c‟è la parola greca dialoghismoi kakoi che, devo dire, non ho mai
capito fino in fondo, perché noi diremmo “escono le azioni cattive”; invece sono
chiamate “pensieri”, perché vengono pensati nel cuore prima di essere eseguiti,
vengono affettivamente segnati prima di passare all‟azione; in ogni caso l‟elenco è
questo]: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia,
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invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di
dentro e contaminano l‟uomo”.
E Pietro ci dice: “Considerate attentamente quest‟elenco, non leggetelo superficialmente
dicendo „queste cose non mi toccano, io non sono in questo mondo di azioni‟, perché, di fatto,
ci toccano”. Ci toccano almeno per due motivi:
1. Primo, perché se noi esaminiamo attentamente questa lista, vediamo che non c‟è
nessuno di questi peccati, di questi atteggiamenti nocivi, sbagliati, devianti, che non sia
stato commesso nel corso della storia della Chiesa, non solo da laici, ma anche da frati,
suore, preti, vescovi, papi. Questo è un elenco in cui tutti ci cascano, o l‟uno o l‟altro.
Quindi la storia ci insegna che questi atteggiamenti sono stati, in realtà, atteggiamenti
che si sono espressi anche all‟interno della Chiesa.
2. Un secolo motivo per non guardare a questo elenco con superficialità è che tutte
queste cose, anche se noi non le abbiamo commesse, sono nel nostro cuore,
hanno le radici dentro; e qui dice molto bene un antico scrittore ascetico egiziano,
che è riportato nel breviario ambrosiano, nella lettura di qualche giorno fa (non so se
anche il breviario romano ce l‟abbia nella lettura di lunedì, di ieri), dice così: “Noi
siamo simili alla segale chiara e splendente, che rivela le sue scorie solo
quando viene macinata. Così colui che siede tranquillo e placido, pacifico,
almeno così egli pensa, possiede all’interno una passione che non vede;
sopraggiunge il fratello, dice qualche parola pungente, e subito tutto il fondo
deteriore, che si nasconde dentro, è vomitato fuori”. Dunque, noi sappiamo bene
che ci sono dentro di noi queste cose, e quando c‟è un‟occasione, una provocazione
leggera, e talora anche grave, vengono fuori da noi, viene fuori anche la voglia di
vendicarsi, e, se stiamo attenti, anche la voglia di uccidere, anche la voglia di
sopprimere l‟altro, quando siamo veramente coinvolti, offesi, trattati ingiustamente.
Quindi tutte queste cose sono dentro di noi.
Meditatio
Perciò S. Pietro ci invita a considerare, con una certa attenzione, questa lista. Almeno,
soprattutto, alcune parole di questa lista, che è fatta con un certo ordine: sono dodici
atteggiamenti, vanno a tre a tre. Cominciano con gli atteggiamenti più esteriori (fornicazioni,
furti e omicidi), quelle cose che possono apparire chiaramente all‟esterno.
Poi vanno a cose più nascoste (adulteri, cupidigie, malvagità), e qui la parola “cupidigie” ci
deve toccare da vicino, perché, appunto, sono i nostri desideri sbagliati, impropri, che talora ci
tormentano, ci seducono, cui magari cominciamo a dare un primo ascolto, anche se non
abbiamo intenzione di seguirli, ma poi possiamo esserne giocati, quindi ci sono queste
cupidigie che certamente ci toccano.
Poi si parla di “malvagità”. Ecco, io leggo questa malvagità sopratutto in mezzo a noi, nel
campo clericale, diciamo così, là dove ci sono, per esempio, accuse anonime, ci sono certe
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diocesi che sono vessate dalle lettere anonime, o mandate all‟uno contro l‟altro, o mandate a
superiori contro altri, e creano un‟atmosfera di disagio, di malessere, di oscurità, di malvagità,
che circola e non si sa come prenderla. Esistono questi casi: vi auguro di non incontrarne mai,
ma ci sono in questo mondo e nelle diocesi di questo mondo, e nelle istituzioni anche religiose,
e ringrazio Dio che come Vescovo di Milano non ho mai letto lettere anonime, perché
avevo dato l’ordine ai miei segretari, appena si accorgevano che una lettera era
anonima, di strapparla e di non passarmela, perché dicevo: “Chi non ha il coraggio di
firmarsi, non ha neanche il diritto di essere ascoltato”; e, se qualche volta mi arrivava
qualche lettera, perché apparentemente firmata, quando leggendo mi accorgevo dal tono che
era una denuncia anonima, la strappavo io stesso; ma occorrerebbe fare proprio sempre così,
quindi chiudere con questa abitudine che in certe situazioni ha portato a sospetti, paure,
vendette, ipotesi, che hanno turbato gravemente la pace di certe comunità, di certe comunità
parrocchiali, diocesane o di istituzioni ecclesiastiche: ecco le malvagità.
E poi si parla di “inganni”: certo ci sono gli inganni voluti, nel commercio, le frodi; ci sono
anche gli inganni più sottili, più capziosi, quando noi vediamo un po‟ nell‟ipocrisia, e quindi
facciamo vedere una faccia, un volto, un‟attenzione, uno sdegno che in realtà non c‟è in noi,
per piacere alla gente, per non essere giudicati, e questo è inganno.
E poi c‟è tutto il mondo che va sotto questa parola greca aselghèia, l‟impudicizia, cioè tutto ciò
che solletica, stimola, richiama la nostra sessualità nel suo senso deviante; e tutto questo oggi
è moltiplicato perché è possibile viverlo, non solo nella realtà, ma anche nell‟immaginazione,
nelle forme mediatiche di certi spettacoli o propagande, o modi, o rappresentazioni della
televisione, attraverso internet, e quindi questo pericolo è grande. Ci sono stati dei collegi di
questo mondo, collegi ecclesiastici, dove il superiore ha scoperto che qualcuno passava tre,
quattro, cinque, sei ore della notte con Internet aperto, certamente non solo per studiare o per
cercare delle indicazioni bibliografiche.
E poi c’è la calunnia, la calunnia che è certamente qualche cosa che affligge anche il
mondo ecclesiastico, quando si dice: “Sì, quella persona è molto brava, molto buona,
sì, ma…”; e allora si getta un po’ di fango, un po’ d’inchiostro, magari anche molto,
perché la persona non venga considerata, perché venga messa da parte, e di queste
cose ce ne sono non poche.
Superbia è quell‟atteggiamento, che non è così raro, quando uno comincia ad avere un certo
potere anche sulle anime, un certo potere ecclesiastico, quindi a farla da padrone. Dà sempre
molto gusto il potere, ma il potere spirituale dà un gusto enorme: ci sono persone che ne
dominano altre, o parroci che sono padroni delle parrocchie, che la fanno da padrone sulle
coscienze, e quindi questa superbia è qualche cosa che non è lontano da noi.
E, infine, la stoltezza, che si potrebbe definire “un agire come se Dio non ci fosse”, ma un agire
anche religioso, per cui si fanno tutte le funzioni, tutte le celebrazioni, magari anche in maniera
accurata e impeccabile, ma dentro non c‟è lo spirito, non c‟è il cuore, non c‟è l‟anima, anzi c‟è
magari una certa duplicità di vita.
Ecco, non dobbiamo spaventarci di queste cose, perché esistevano all‟inizio del cristianesimo, e
quindi alcune sono rimaste anche oggi. Pietro ci invita a riconoscerle, anzitutto per evitarle in
noi stessi, per guardarne le radici dentro di noi, perché anche se non abbiamo mancato in
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nessuna di queste cose, tuttavia la radice di queste cose è dentro di noi; quindi dobbiamo
guardarcene attentamente. E poi, per guardare anche agli altri senza stupirci troppo, proprio
con l‟occhio di Gesù che conosce, comprende e vuole guarire, non vuole condannare, non vuole
semplicemente lamentarsi, ma vuole portare guarigione e miglioramento spirituale. Ecco,
credo che S. Pietro ci darebbe il consiglio di meditare questa sua lista, probabilmente composta
da lui, perché il Vangelo di Marco sembra dipendere dalla predicazione di Pietro, per l‟uso dei
catecumeni, e quindi certamente comprendente cose un po‟ grosse, un po‟ grossolane, ma che
in realtà hanno delle radici anche nel cuore di chi cerca di seguire il Signore.
E poi S. Pietro ci darebbe un secondo consiglio: “Al mio tempo non erano ancora tanto
sviluppate le realtà della vita spirituale, ma poi sono venute tante indicazioni preziose”. E, in
particolare, S. Pietro ci indicherebbe una pagina che a me pare molto illuminante degli esercizi
di S. Ignazio di Loyola, che dice semplicemente così, nella prima settimana cioè nella
settimana purificazione, nel terzo esercizio del primo, giorno che è un esercizio di ripetizione:
dopo questa ripetizione su delle meditazioni sul peccato, S. Ignazio suggerisce un primo
colloquio con Nostra Signora, perché mi ottenga da suo Figlio tre grazie, che mi sembrano
molto importanti: la prima è quella di cui abbiamo parlato finora: “Che io acquisti un‟intima
conoscenza dei miei peccati e li detesti” (questo è importante ed è il punto di partenza); la
seconda, che non è così ovvia: “Che io senta il disordine delle mie azioni e, così, detestandole,
possa emendarmi e mettere ordine in me stesso” (io ricordo che scrissi una volta, diedi un
corso di esercizi, a cui posi come titolo “Mettere ordine nella mia vita”, e tenevo, di solito, sul
tavolo della camera, del salotto dove ricevevo in udienza, diversi miei libri e invitavo, dopo
l‟udienza, a scegliere un libro, e molti dicevano “Mettere ordine nella mia vita, questo sì che ci
vuole per me”; e allora sceglievano questo titolo perché di fatto è molto importante); terzo:
“Che io prenda coscienza del mondo e così, detestandolo, possa tenermi lontano dalle vanità
terrene”.
Perché sono importanti queste due ultime grazie? Perché non riguardano peccati, situazioni
che noi consideriamo peccaminose o nocive, ma riguardano atteggiamenti e modi di fare che ci
guastano, ci turbano, ci rendono inautentici, ci rallentano il cammino, e quindi dobbiamo
esaminarci su di essi. Ciascuno credo che debba riuscire a fare un elenco di quelle cose che
sono in lui disordinate o vane, cioè senza ragione profonda, unicamente per gusto di apparire,
o di fare bella figura, o di avere una bella riuscita, o di mostrare un volto che sia accolto,
mentre in realtà dietro non c‟è la sostanza.
Contemplatio
Ma io ho pensato un po‟, così tra me, quali cose si potrebbero suggerire come disordini per il
vostro cammino, per la vostra realtà di seminaristi:
1. Naturalmente credo che un primo disordine è quello che si chiama disordine, nella
camera e nell‟orario. Noi sappiamo tutti come certe camere sono un esempio di lindore,
di pulizia, anche di bellezza, e certe altre sono sempre scompaginate, e qui certo non si
può essere tutti allo stesso modo, però un po‟ di ordine esteriore aiuta. Quindi dovremo
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sforzarci, anche se non siamo dei tipi molto ordinati, di avere un certo ordine nelle
cose. E poi, soprattutto, aiuta un ordine e nella giornata: certamente voi avete
il vantaggio di un orario, ma quest’orario è ad tempus, è provvisorio; bisogna
imparare a darsi un orario nella vita, almeno in alcune poche cose. Ricordo un
predicatore che diceva: “Beati coloro che fanno gli esercizi, quando restano con un solo
proposito: andare a letto la sera sempre alla stessa ora”; è già un piccolo proposito ma
che dispone di tutta la giornata perché dalla sera dipende il mattino… Quindi anzitutto
l‟ordine che si vede nella casa, nelle cose, nella giornata, negli appuntamenti, la
puntualità negli appuntamenti, la fedeltà agli appuntamenti, tutto quello che si chiama
ordine della giornata.
2. Ma poi ci sono anche altre cose che, credo, fanno parte del disordine: per me fa parte
del disordine, per esempio, pensare di essere a posto con lo studio quando uno studia
per l‟esame solo nell‟ultimo mese o negli ultimi due mesi. Certo, esteriormente uno può
essere a posto perché riesce, magari, anche bene, però c‟è un qualche disordine, cioè
non c‟è un‟applicazione regolare e costante. Credo che su questo dobbiamo esaminarci:
queste scadenze di studio hanno un significato; non sono da canonizzare, però hanno
un qualche significato.
3. Un altro disordine che io potrei vedere nel vostro modo di vivere, è quando ci
si fa scrupolo di leggere qualunque cosa di scientifico, di serio, che sia al di là
delle cose comandate: “Mi hanno detto di leggere questo, il resto non mi
interessa”. Occorre, per avere un certo ordine nella vita, anche una certa
curiosità, un certo desiderio di vedere, di informarsi, di leggere articoli, libri,
naturalmente secondo la capacità, le possibilità di ciascuno.
4. Così pure, non so come siano le cose tra voi, ma mi pare un po‟ un disordine quello di
alcuni che dicono: “Io non vado mai in biblioteca a lavorare, perché ho quelle cose in
camera...”, e quindi non si servono di tutti i sussidi che una biblioteca propone. Facendo
attenzione, anche, che esiste il pericolo contrario: cioè la curiosità vaga e generica, per
cui ora io ritengo disordine anche quello di andare in biblioteca senza delle domande
precise. Mi ricordo che una volta, nella biblioteca dell‟istituto biblico, venne un tale che
disse: “Cerco un libro di cui non ricordo più né l‟autore né il titolo”: certo, non aveva
molta possibilità di arrivare; ma qualche volta facciamo così: andiamo con una vaga
idea, poi ci dimentichiamo ciò che eravamo venuti cercando, spulciamo qua e là, poi ci
accorgiamo di aver perso un sacco di tempo. Invece occorre avere delle domande: è
chiaro che queste domande possono anche far passare ad altre cose, e quindi fare
incontrare con altri interessi, ma dovrebbero essere sempre tenute entro certi limiti.
5. Ecco, questi sono esempi concreti di ordine. Più in generale, un disordine è il non
considerare importante lo studio, dire: “Beh, basta loro che sia finito, che sia
fatto, per poi dimenticare un po’ tutto”; mentre invece, soprattutto oggi, lo
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studio ha un suo significato, una sua serietà, perché la gente è colta, fa
domande, vuole sapere, ci pone delle domande difficili, e noi non possiamo
essere oracoli ed avere la risposta a tutte le domande, però dobbiamo capire le
domande e aiutare a rispondere.
6. E poi c‟è anche quel disordine che riguarda la sfera dei pensieri, dei desideri, quella che
abbiamo chiamato l‟impudicizia, che talora ci può portare – forse voi non avrete
l‟occasione, durante la vita in seminario, ma nelle vacanze o soprattutto dopo il tempo
del seminario… – ci può portare alla sera, stanchi, di fronte al televisore a fare lo
zapping senza nessuna regola, dicendo: “So io quando fermarmi, so io quando devo
cambiare canale”, ma poi mi incuriosisce vedere ciò che vedono i miei giovani: “Forse
posso capire qualcosa di più”, e allora vado avanti e a un certo punto vengo coinvolto;
oppure, cercando in Internet, si passa da una curiosità all‟altra perché crediamo di
essere padroni di noi stessi, mentre invece non lo siamo così come pensiamo, e
dobbiamo appunto avere l‟umiltà di riconoscere che abbiamo bisogno di un certo ordine,
di una certa regolarità.
7. Si potrebbe fare un lungo elenco di questi disordini. Io ne aggiungo uno: è quello di
avere dei pregiudizi contro qualcuno, o persona, o categoria, o gruppo, e questo è
molto frequente. Sono pregiudizi che non vengono mai portati ad un esame, quindi uno
non se ne confessa mai, però regolano le nostre scelte, escludono istintivamente
persone e gruppi, preferiscono altri.
E, quindi, per tutto questo io consiglio di fare la confessione, non breve ma lunga, non rara ma
frequente, perché una confessione breve spesso risulta un po‟ formale, cioè elenchiamo quei
peccati formali in cui ci pare di essere caduti, mentre una confessione un po‟ più lunga
potrebbe essere anzitutto l‟occasione per cominciare con un atto di lode e di ringraziamento:
“Ti ringrazio Signore perché, in questo tempo dall‟ultima confessione, mi avete aiutato in
questo, in quest‟altro”, quindi esprimere anzitutto la gratitudine.
E poi, in secondo luogo: non soltanto fare la lista dei peccati, ma dire ciò che in me mi
disturba, mi disturba questa antipatia, mi disturba questo desiderio, questa
cupidigia, mi disturba questa tentazione, mi disturba questo modo di pensare, perché
così conosciamo molto meglio noi stessi, ci facciamo conoscere e possiamo mettere
sul tavolo la nostra vera realtà. Quindi non soltanto attraverso un elenco di peccati formali,
ma attraverso la manifestazione di ciò che, anche come sentimenti, passioni, desideri,
antipatie, ripugnanze, inimicizie, non vorrei che ci fosse in me, per sottometterlo – ed ecco
allora la confessione come sacramento –, per sottometterlo alla potenza del perdono di Gesù,
alla sua grazia, alla sua misericordia, alla sua potenza di Salvatore.
E così anche la confessione risulta un appuntamento desiderato, perché non è una ripetizione
monotona un po‟ sempre della stessa cosa, ma è un conoscerci, a poco a poco, per ciò che
veramente siamo, ed è quindi, come vedremo domani mattina, un crescere nella vocazione e
un prepararsi, anche, ad una seconda chiamata del Signore, la quale passa ordinariamente
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anche attraverso le nostre debolezze, le nostre fragilità.
Giorno 3
Prima Meditazione
20/09/2006
PIETRO, PARLACI DELLA TUA SECONDA CHIAMATA
Signore Gesù, quanto più entriamo nel vivo dei tuoi misteri, e nel mistero dei tuoi servitori,
tanto più sentiamo che le nostre parole sono inadeguate, che i nostri concetti non sono
pertinenti, non sanno esprimere il mistero di Te. Donaci in abbondanza il tuo Spirito perché,
almeno col cuore, possiamo comprendere la tua verità, il tuo cammino, la tua croce, il segreto
della tua vittoria. Tutto questo ti chiediamo, Padre, per intercessione di Maria nel nome di
Cristo nostro Signore. Amen.
Cerchiamo di dire qualcosa sulla seconda chiamata; ci domandiamo anche: “C‟è una seconda
chiamata?”. Ma vedremo, dobbiamo prima capire di cosa si tratta almeno per Pietro.
Noi qui cerchiamo di vedere l‟insieme di alcuni episodi che si riferiscono a Pietro, senza però
ora volerli determinare: non ne facciamo un‟esegesi accurata (probabilmente potremo leggere
più tardi qualche episodio più da vicino), ma cerchiamo di vederli nella loro totalità. E quindi la
domanda che facciamo a Pietro è appunto questa: “Parlaci della tua seconda chiamata, parlaci
della tua seconda vocazione o, meglio, di quell‟approfondimento della prima chiamata, che tu
hai vissuto a tue spese, con molte lacrime, con molte sofferenze, e che pure è quello che ti ha
permesso di essere quello che sei, cioè responsabile, capace di comprensione, di compassione
e di perdono perché a tua volta perdonato.”
C‟è una seconda chiamata, esiste, è per tutti i discepoli di Gesù, è in modo speciale per coloro
che hanno delle responsabilità nella Chiesa, che hanno qualche missione, è in maniera
particolare per coloro che portano maggiormente il peso della collaborazione con Gesù, sono
tutte domande che lasciamo per ora aperte. Certamente in Pietro c‟è qualcosa di simile, anche
se la teoria della seconda vocazione e della seconda chiamata è piuttosto recente come
vocabolario (mi pare che vi accennino alcuni autori del secolo XVIII, credo, prima non mi pare
che si trovi molto l‟espressione): ha contribuito assai padre R. Voillaume (è il fondatore dei
Piccoli Fratelli di Gesù), col suo libro, che ha un lungo capitolo sulla seconda vocazione, molto
utilizzato.
Dividiamo questa nostra esposizione nelle solite tre parti: nella prima, la lectio, ricorderemo
alcuni episodi, li ricorderemo proprio rapidissimamente, alcuni episodi che hanno a che fare
con questa ipotesi della seconda chiamata di Pietro; poi ci domanderemo brevemente che cosa
è questa seconda chiamata; e infine, come invito alla preghiera, daremo qualche traccia di
orazione, qualche domanda per noi.
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Lectio
Dunque chiediamo a Pietro: “Facci capire quali sono gli episodi che dobbiamo tenere presenti
per capire qualcosa di una tua eventuale seconda chiamata, o, comunque, di un nuovo grado
di comprensione tua del mistero di Cristo, che tu credevi di conoscere, ma che poi ti sei
accorto che non conoscevi”.
Pietro allora ci ricorderà due preavvisi, due episodi e una conclusione. Credo che possiamo
richiamare questi temi per lectio: due preavvisi, due episodi e una conclusione che ci dà la
chiave di tutto.
Cominciamo col primo preavviso, che è quello di Pietro che si trova sulle acque del lago di
Genesaret: c‟è una tempesta, Gesù sta pregando sulla montagna, gli apostoli si sentono soli e
smarriti; improvvisamente vedono qualcuno che cammina sul mare verso di loro, sono ancora
più turbati, gridano: “È un fantasma”, gridano pieni di paura, e Gesù dice: “Coraggio, sono io,
non abbiate paura”. E qui comincia il primo preavviso del cammino nuovo di Pietro. Pietro ha
l‟audacia, l‟entusiasmo e anche la sconsideratezza di dire a Gesù: “Signore, se sei tu, comanda
che io venga a Te sulle acque”, e Gesù dice: “Vieni”, e Pietro scende dalla barca e si mette a
camminare sulle acque e va verso Gesù. Ma poi, a un certo punto, invece di guardare Gesù, si
mette a guardare la tempesta intorno a sé, il vento violento, si impaurisce, comincia ad
affondare, grida: “Signore, salvami”; Gesù stende la mano, lo afferra e gli dice: “Uomo di poca
fede, perché hai dubitato?”. Dunque qui ci appare già un preavviso che c‟è bisogno, per Pietro,
di un nuovo cammino, perché è un uomo di poca fede, malgrado tutto, un uomo che dubita, un
uomo che ha paura, e, insieme, presuntuoso e molto fiducioso di sé. Ci sono quindi questi due
contrasti non ben equilibrati in lui.
E questo è un preludio che ci introduce all‟episodio che possiamo dire è costitutivo della
seconda chiamata, l‟episodio che ben conosciamo (basta richiamarlo: Mc 8, 27-33 e par.), cioè
la confessione che Pietro fa di Gesù, e poi l‟incapacità di Pietro di capire ciò che Gesù dice di
sé, sulla sua sofferenza, rifiuto, passione e morte, e quindi la negazione di Pietro. Potremmo
dire: “Pietro confessa e Pietro viene rinnegato da Gesù”. È un momento certamente molto
difficile per Pietro. Da una parte egli verifica che, senza accorgersi, può mettersi contro la
volontà di Dio: crede di avere capito Gesù, anzi si sente esaltato perché ha dato voce a tutti gli
altri dicendo: “Tu sei il Cristo, Tu sei il Figlio di Dio”; ma comincia a capire qui come egli in
realtà non conosce il Cristo, il Figlio di Dio nelle sue vere intenzioni, e quindi capisce che deve
essere disposto ad accettare un Gesù diverso da quello immaginato finora, non “diverso” nel
senso di “contrario”, ma più profondo, più vero. È un momento di grande solitudine per Pietro,
come ha scritto bene qualcuno di voi; cito qualcuno dei vostri bigliettini: “Pietro, tu che vivevi
con l‟attesa del Messia nel cuore, cosa ti ha fatto restare insieme a Gesù anche quando hai
compreso, in maniera così brusca, che Gesù aveva tutt‟altro progetto dal tuo?”. Certo, è stato
un momento per Pietro di grande smarrimento e di grande solitudine. E, se Pietro ha resistito,
è perché, malgrado tutto, era attaccato alla persona di Gesù, amava la persona di Gesù, si
fidava di Lui; quindi accetta anche l‟insulto che Gesù gli fa: “Va via Satana”. E si possono
accettare queste cose solo quando si ama molto, si ha molta fiducia, si è gettato
tutto se stessi per il Signore; e allora si accetta anche un rimprovero che non si
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comprende al momento, perché Pietro non comprende, se non in maniera molto
vaga: capisce che la sua volontà può essere diversa da quella di Gesù, che Gesù ha
un altro progetto, ma non riesce ad approfondire molto di più. Quindi questo episodio,
questo primo episodio, è un‟introduzione alla seconda chiamata, ma non è ancora chiaro come
seconda chiamata.
C‟è un secondo preavviso di come Pietro abbia bisogno di essere scosso perché, malgrado ciò
che è avvenuto sul lago, Pietro, di fronte alla prospettiva delle sofferenze e della morte di
Gesù, si dichiara disposto a morire per Lui. Qui possiamo leggere Gv 13,37 “Pietro disse:
«Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la
tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m‟abbia
rinnegato tre volte»”. Pietro non capisce bene questo linguaggio, capisce che c‟è qualcosa di
grave che sta davanti a lui, ma comincia a essere smarrito di quello smarrimento che poi
vedremo scoppiare nella negazione. È interessante leggere questo brano anche nei paralleli,
perché appunto anche i paralleli sono istruttivi sulla presunzione di Pietro, sulla sua voglia di
essere comunque con Gesù in carcere fino alla morte. Lc 22,31ss: “Satana vi ha cercato per
vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te”, e Pietro risponde, quasi senza capire la
gravità della situazione, “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”;
quindi Pietro è pieno di presunzione, crede di conoscere bene il cammino di Gesù, e di essere
pronto. Ancora in parallelo Mt 26,30-35: “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore
del gregge”, e Pietro afferma con forza: “Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi
scandalizzerò mai. Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”, e qualcosa di simile è
anche nel parallelo di Mc 14,26ss.
Dunque questo secondo preavviso ci fa vedere che Pietro, malgrado ciò che era avvenuto, non
conosce né la sua debolezza né qual è il vero cammino di Gesù, ed è quindi necessario quel
secondo episodio drammatico, che è quello della caduta e della negazione di Pietro, che è in
tutti e quattro i vangeli: Mc 14, 66-72; Mt 26, 63-75, dove costituisce un racconto a parte, un
blocco a parte; come ugualmente Lc 23,54-61, anche qui un blocco a parte, un racconto che
sta a sé, che però ha quella famosa parola emblepsas, cioè Gesù lo guarda negli occhi e, da
qui, il pianto amaro di Pietro, ma non semplicemente un pianto di disperazione, di rabbia, ma
un pianto di pentimento perché ha tradito il suo maestro; Giovanni è più articolato, Giovanni
inserisce questa negazione di Pietro, Gv 18,18-27, nel cosiddetto “processo religioso”. Leggete
per conto vostro questi brani.
Domandiamoci un po‟: come è potuto avvenire ciò? Perché è avvenuto? Perché Pietro è
arrivato a questo punto dopo le promesse, dopo i giuramenti, dopo le dichiarazioni di
fedeltà assoluta? L’impressione che si ha è che Pietro entra in questa prova senza
preparazione, si lascia portare dagli eventi, un po’ alla deriva, senza capire bene cosa
sta facendo. Entra nel cortile del sommo sacerdote al seguito del discepolo che Gesù
amava, ma non sa bene cosa va a fare, e là si scalda al fuoco, prende una situazione
quasi di comodo, in attesa di ciò che capiterà, è già molto confuso per ciò che è
avvenuto: il suo maestro è stato per la prima volta legato, reso impotente, gli hanno
messo le mani addosso. Che cosa vuol dire? Che cosa significa? Quindi Pietro è smarrito
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dentro di sé e, mentre vive questo suo smarrimento, viene colpito da queste domande molto
semplici: “Ma non è anche lui uno dei suoi?”. Domande che, in altri tempi, avrebbero trovato
Pietro pronto a rispondere: “Sì, io sono convinto che è innocente, che lo state accusando
ingiustamente”, ma qui, in questo momento di smarrimento, di confusione, Pietro dice
una profonda verità, che gli sta dentro e che non aveva mai osato dire a se stesso,
cioè: “Non so e non conosco quello che dici, non conosco quell’uomo di cui mi
parlate”, cioè: “Io, quel Gesù che conoscevo, era un altro, un Gesù forte, un Gesù che
sapeva difendersi, un Gesù che era vincente; in questo perdente io mi confondo, non
riesco più a raccapezzarmi, sono confuso e stravolto”. Quindi non è solo la paura di
essere anche lui imprigionato, ma è proprio la confusione di chi non capisce più, gli
pare di non capire più chi è Gesù.
E questa confusione avviene anche in noi quando, di fronte a certi eventi, diciamo: “Ma qui Dio
cosa fa? Qui non riesco che a capire il mio Dio, qui non riesco più a vedere il senso di ciò che
sta avvenendo, sono confuso, sono smarrito”. Questo succede ancora oggi, anche a persone
preparate e colte, che di fronte a certi eventi che li toccano da vicino sospirano e dicono: “Qui
non capisco più niente”. Pietro si trova di fronte al dilemma: o riconoscere a occhi chiusi,
stringendo i denti, che quello è il Messia e che il Signore si sta rivelando il Lui, oppure
andarsene; Giuda ha scelto una terza via ancora più sottile, cioè provocare Gesù perché
manifesti la sua potenza, che finora non si era manifestata; Pietro invece è tentato di fuggire
anche lui. In ogni caso è stato travolto dalla profondità, dalla sorpresa, del mistero di Gesù
umile, povero, sconfitto. Ecco come Pietro è entrato in questa nuova dimensione della
conoscenza di Gesù: conoscere Gesù come sconfitto, nella sua forma – come si dice oggi –
kenotica, che è poi anche la kenosi di Dio, perché Dio si mostra in Gesù come debole e quasi
non capace di salvare, di tirare fuori dal male.
Qui ci sono tante delle domande che voi avete proposto. Ne leggo qualcuna: “Per tre volte,
Pietro, hai rinnegato il tuo maestro, per tre volte hai poi dichiarato il tuo amore per Lui. Come
hai potuto vincere l‟amaro pianto dopo il canto del gallo?”. Certo, è una giusta domanda, e
credo che la risposta è tutta in quello sguardo di Gesù: “Gesù mi ha guardato con uno sguardo
di compassione e di bontà, e allora ho capito che dovevo comunque fidarmi di Lui”.
Ancora un altro vostro intervento: “Spesso, Pietro, non hai capito ciò che Gesù diceva o
faceva, questo soprattutto nel vangelo di Giovanni. In queste occasioni ti sei sentito solo, e in
qualche modo sei entrato in una profonda solitudine. Come hai fatto a superare questi
momenti, e soprattutto quel momento in ci ti sei sentito più solo, che è stato proprio il
momento della negazione, mentre Gesù veniva portato al tribunale, al supplizio?”. E qui, la
risposta che noi possiamo darci è quella di Gesù: “Ho pregato per te, perché non venga meno
la tua fede”. Pietro da solo non ce l‟avrebbe fatta. E poi lo sguardo di Gesù: Pietro è stato
portato come dagli artigli di un‟aquila, che è Gesù stesso, dalle pianure della vita ordinaria, al
mistero del terzo cielo, della conoscenza, della misericordia e della debolezza di Dio. E non
avrebbe resistito se non ci fosse stata la forza chiesta da Gesù per lui, l‟amicizia con Gesù e la
grazia della bontà misericordiosa di Gesù stesso.
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Infine, l‟ultimo, terzo episodio. Abbiamo visto due momenti previ, di preavviso, due episodi:
Pietro rinnegato e Pietro che rinnega Gesù durante la passione. Il terzo episodio, la
conclusione, è quello del capitolo 21 di Giovanni. Gesù non rimprovera Pietro, non gli
rinfaccia il suo tradimento, il suo rinnegamento, ma lo rilancia nell’amore. È qui che
Pietro arriva ad una comprensione ancora più profonda della misericordia di Dio per noi, lo
rilancia nell‟amore e gli propone una nuova, rinnovata, responsabilità, dicendo: “Ho fiducia in
te, puoi pascere il mio gregge, puoi essere ancora una volta guida e responsabile”. Quindi,
possiamo dire che è una successione di sorprese, di colpi di scena: Pietro che, da una
parte, sembra del tutto impreparato; Gesù che lo scuote, fino in fondo, facendogli
sentire la sua fragilità e mostrandogli la debolezza del Messia; e Pietro, che è passato
per tutto questo, si sente riportato alla verità dell’amore di Gesù.
Meditatio
Vi invito a leggere questi brani, a leggerli con attenzione, cercando ciò che il Signore ci dice in
essi. Io vi suggerisco semplicemente qualche momento di meditazione, di riflessione.
Anzitutto cerchiamo di farci la domanda da cui siamo partiti: c’è dunque una seconda
chiamata o vocazione? Certamente per Pietro c’è stata, perché Pietro aveva accettato
di seguire Gesù come lui lo capiva, e ha dovuto accettare altre due cose: che lui era
molto, molto, molto fragile; che Gesù lo portava molto, molto, molto più in alto di
quanto lui non pensava. Quindi Pietro ha dovuto accettare una seconda volta il mistero di
Gesù, un mistero sorprendente e imprevisto, un mistero che Pietro non avrebbe mai
immaginato. Dunque è esistita per Pietro una seconda vocazione, una seconda chiamata, che
parte dalla coscienza della fragilità di Pietro e prende coscienza della fragilità di Gesù che
vince, perdendo, e vince accettando su di sé il male del mondo, non scagliandosi contro o
eliminandolo. Questa seconda vocazione è molto ardua: non so se tante persone ci arrivano,
anche noi ci arriviamo magari un po‟ mentalmente, ma poi siamo sempre affaticati e smarriti
quando dobbiamo, essere di fronte a questo modo di presentarsi di Dio.
In ogni caso se c‟è una seconda vocazione essa consiste nella coscienza più viva della propria
fragilità e dalla propria non-conoscenza del mistero di Dio; consiste nell‟aprirsi alle sorprese di
Dio, alla sua misericordia, e lasciarsi da lui rilanciare nella missione, nel servizio pastorale,
nell‟evangelizzazione, nella testimonianza. Tutto questo richiede tempo e dura, in qualche
modo, una vita: noi abbiamo ancora davanti a noi delle sorprese, anche se crediamo di
conoscere il Signore, di averlo capito, di conoscere noi stessi, in realtà c‟è ancora qualcosa che
dobbiamo approfondire o vedere.
Questo dunque per Pietro, questo certamente per tutte le persone che hanno, o avranno, una
responsabilità nella comunità cristiana, per i discepoli, quelli che vivono di discepolato, ma di
per sé per ogni cristiano. Quindi viene, prima o poi, il momento in cui Dio va accettato nella
sua verità e nella sua pienezza, è quel momento di cui Gesù parla quando dice: “Chi non odia
la propria vita non può essere mio discepolo”, “Se il grano di frumento caduto in terra non
muore non produce frutto”, “Chi vuol essere con me mi segua, e sarà là dove sarò io”. Quindi
Gesù continuamente chiama, è un dinamismo che si instaura in noi, non è l’entrare in
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una strada pianeggiante di cui si intravedono i confini, ma è l’ingresso in una terra
misteriosa e sconosciuta nella quale ci attendono sorprese. E queste sorprese, noi lo
possiamo intuire, sono quelle che ci fanno andare al di là di noi stessi, che
corrispondono alla nostra natura di esseri fatti per superarsi, la famosa frase di
Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”; cioè siamo chiamati per andare oltre,
ci realizziamo quando oltrepassiamo la nostra misura, ma questo oltrepassarci è una
cosa che la nostra pigrizia non farebbe mai, se non ci fosse qualcuno che ci chiama,
qualcuno che sappiamo dalla fede ebraica essere profondamente coinvolto nel nostro
cammino, ma che qui, nella fede cristiana, ci chiama ad un superamento che ha il suo
modello, l’esemplare, la figura, in Cristo.
Ecco, questa seconda chiamata, o seconda vocazione, che poi può configurarsi in tanti di modi,
può anche essere poco percepita, però in qualche modo deve avvenire, perché è il nostro
cammino sia autentico e perché questo cammino sia autentico, lo ripeto, ci vuole, non solo una
maggiore comprensione di Gesù, ma una maggiore comprensione della nostra fragilità, e
questo, in alcuni casi, non avviene se non attraverso il peccato, la caduta, il battere la testa, il
battere il naso, il dire: “Signore, davvero non ce la faccio, sei solo tu”. Ecco come opera il
mistero del discepolato, il cammino del discepolo.
Contemplatio
Vi propongo ora come contemplatio qualche pista di preghiera su questo complesso di testi che
voi potrete rileggere con calma.
Io direi che la prima preghiera è il grazie per la prima chiamata, grazie perché la prima
chiamata è premessa di tutte le altre.
Ma poi non basta un grazie per la prima chiamata, ma anche occorre sapere che
dobbiamo vivere in umiltà e vigilanza, perché ci attende qualcosa di più, e non
sappiamo dove, né come, né quando; non sappiamo a che ora verrà il ladro per
scassinare la nostra casa, e per metterci il subbuglio e quindi dobbiamo vigilare,
perché non siamo trovati come Pietro, nel cortile del sommo sacerdote, smarriti,
confusi e quindi preda, poi, delle piccole punzecchiature dell’ambiente. Pietro in fondo
cade per pochissimo, ma per lui è tremenda questa caduta.
Terza via di preghiera: perché il Signore permette questo cammino per Pietro? Non soltanto
perché vuole avvicinarci al mistero suo, che è il mistero trinitario, che è il mistero di un Dio che
si dona, ma vuole anche farci partecipi della sua misericordia. Per questo Pietro è un peccatore
perdonato che perdona; e tanto più può perdonare in quanto ha gustato la dolcezza del
perdono, tanto più può usare compassione e misericordia in quanto si è sentito oggetto di
compassione e di misericordia.
Tutte queste ricchezze sono presenti nel cammino di Pietro verso questa seconda chiamata,
che abbiamo cercato qui di delineare per sommi capi molto brevemente.
Vorrei concludere con un detto che amo ripetere, come già ho ricordato qualche altra volta,
quando viene festeggiato qualche anniversario di messa ecc., cioè “il bello viene dopo”: noi
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non abbiamo ancora conosciuto quanto grande è il Signore e, come dice S. Paolo, non ci sono
ancora state rivelate le cose che Dio prepara per coloro che ama. E questo avviene lungo tutta
la nostra vita, e avviene in modo particolare nella nostra morte. Non ci è ancora stato rivelato
quanto Dio ci ama e tutto ciò che il Signore ha preparato per coloro che lo amano. Quindi qui
possiamo lasciare effondere il nostro cuore nella preghiera, nella gratitudine e anche nella
confessione della nostra debolezza e della nostra fragilità.
Concludo leggendo uno dei vostri scritti: “Pietro, con la resurrezione di Gesù, tu sei stato fatto
capo della Chiesa. Come ti rapportavi con la tua povertà, con i tuoi peccati, qual è la differenza
tra prima del pianto e dopo?”. Quello che abbiamo cercato di rispondere, cioè la conoscenza
della propria fragilità e della misericordia di Dio, e quindi la capacità di assumere responsabilità
di altri, non con progetti grandiosi, ma con l‟attenzione profonda al vissuto delle persone, alla
loro debolezza, alla loro fragilità, perché anche noi siamo passati o stiamo passando per questa
stessa strada.
Giorno 3
Seconda Meditazione
20/09/2006
PIETRO, COME VIVEVI TU I MIRACOLI DI GESÙ?
Vedo dai vostri numerosi fogli che avete imparato voi stessi benissimo a parlare con Pietro,
quindi non ho quasi più nulla da suggerire, anzi mi sento sempre più dietro al vostro discorso,
che è quello che giustamente deve a poco a poco maturare nell‟autenticità.
Prima di entrare più da vicino nella preghiera, leggiamo una domanda che dice così: “Il ruolo
del canto, e relative forme, nella tradizione ebraica”. Non si sa molto sul ruolo del canto nella
tradizione ebraica, però è certo che la Scrittura veniva cantata (ci sono i segni, gli accenti di
questo canto), cantata o piuttosto, come si dice, cantillata, cioè con un canto ritmico,
leggermente melodioso; quindi la Scrittura è certamente molto legata al canto, anche gli ebrei
oggi cantano molto, e anche nella sinagoga, per esempio, si vede che sono molto liberi:
incominciano una preghiera magari in prosa, e poi si mettono a cantare. È abbastanza naturale
questa esperienza del canto. Questo per cercare di rispondere alla domanda, che naturalmente
ha un sottofondo: “In quale misura, nel nostro povero e distratto modo di entrare e fare
orazione, si possa conciliare il canto con la meditazione e il silenzio”. È una buona domanda.
Secondo S. Agostino, chi canta prega due volte; però anche il silenzio ha la sua parte e il suo
fascino. Continuo a leggere: “Io infatti, pur apprezzando il primo, cioè il canto, prediligo il
secondo, cioè il silenzio, rimanendo talvolta infastidito da esasperati parossismi in taluni modi
di cantare”. Sono d‟accordo che ci sono dei parossismi: io stesso, fino a qualche anno fa,
essendo stonato, non cantavo mai, per non disturbare il coro; adesso invece ho
bisogno di cantare per darmi la voce, e quindi canterò anche da stonato, ma
certamente il canto deve avere una sua misura. E se voi vedete e partecipate alle
assemblee delle comunità benedettine, dove è il canto è veramente curato, si vede che è un
canto né troppo forte né troppo leggero, piuttosto leggero, proprio per accompagnare la
preghiera. In ogni caso la Scrittura ci invita a cantare e molti salmi parlano del canto: “Canterò
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al Signore un canto nuovo”. Il canto è certamente strettamente collegato con la meditazione
biblica ed è anche, diciamo così, un‟espressione di quella corporeità, di quella affettività, che
abbiamo visto essere propria di ogni esperienza profonda. Quindi io, pur non sapendo cantare,
ho sempre stimato molto il canto, e ascolto volentieri e favorisco il canto. Questo per quanto
riguarda questa domanda a cui si può dare una risposta pubblica.
Torniamo a Pietro, e torniamo anche un po‟ indietro perché, partendo da ciò che Pietro ci ha
detto sulla sua prima chiamata, siamo andati alla seconda, e abbiamo quasi concluso il ciclo di
Pietro, ma ci rimangono indietro molte altre cose interessanti che egli ci può dire, a partire
dalle sue memorie. Quindi dopo aver riflettuto sulla vocazione di Pietro, dopo esserci chiesti se,
e in che modo, Pietro ha avuto una seconda chiamata, abbiamo risposto per Pietro: “Sì”.
Questo non vuol dire che sia la stessa cosa per noi, ma è certamente un riferimento
importante.
Rimane ora, tra tante domande, una domanda che mi sono fatto più volte, ed è la seguente:
“Pietro, come vivevi tu i miracoli di Gesù? Che cosa ti suscitavano? Quali pensieri? Quali
reazioni? Quali entusiasmi? Quali domande? Quali perplessità?”. Certamente Gesù è stato un
grande taumaturgo, qualunque sia il grado di storicità che si può attribuire a questo o quel
miracolo; certamente Gesù ha compiuto molti segni di potenza, a partire dal momento in cui,
dopo il Battesimo, è tornato in Galilea pieno di Spirito Santo e Pietro è stato testimone di
questi inizi. Quindi la domanda che faccio a Pietro è proprio questa: “Come hai sentito, hai
giudicato, hai vissuto, l‟emergere delle forze guaritrici e risanatrici di Gesù?”. Quindi lo
interroghiamo su questo punto, perché credo che ci possa insegnare qualche cosa.
Di fatto io non ricordo, ma forse voi lo troverete, che ci sia nei Vangeli qualche accenno ai
sentimenti di Pietro riguardo ai miracoli di Gesù, quindi non credo che possiamo avere una
testimonianza diretta. Mi è venuta in mente soltanto un‟esclamazione, che però è sulla bocca
di Gesù, in Gv 1,50, quando, allo stupore di Natanaele perché è stato visto sotto il fico (quindi
qualcosa che ha del miracoloso, che ha potuto vederlo così, che cosa faceva da lontano): “Gli
rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di
queste!»”. Questo è certamente un atteggiamento di Gesù, il Signore fa cose grandi. Poi una
seconda espressione che si riferisce al sentimento dei discepoli l‟ho trovata in Gv 2,11, al
termine del miracolo di Cana, quando si dice: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di
Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Quindi c‟è una reazione
forte dei discepoli ai miracoli di Gesù.
Però dobbiamo anche affidarci un po‟ alla riflessione orante, e quindi metterci ad ascoltare
Pietro, proprio ponendogli la domanda: “Pietro, come hai sentito questo emergere delle forze
guaritrici di Gesù? Che cosa ti ha detto? Che cosa ti ha fatto vibrare dentro? Che cosa ti ha
insegnato?”.
Lectio
Mi sono proposto, molto semplicemente, di leggere con voi una pagina di Marco, cercando di
notare via via quelle cose che mi sembra che Pietro avrebbe notato, e che ci colpiscono, per
poi trarne le conclusioni che Pietro ne avrebbe tratto, e dare qualche indicazione della
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preghiera. Dunque leggo Mc 1,21-39, cioè i miracoli a Cafarnao, che è la città di Pietro, dove
Pietro abita, e quindi i miracoli di cui Pietro è stato testimone. Leggiamo dunque insieme con
Pietro, anzi lasciamoci raccontare da Pietro, il quale ci dice:
“Siamo andati a Cafarnao, proprio la mia città, quella in cui io avevo il mio banco di vendita, la
mia attività, ed era sabato [ora sappiamo che il sabato è un giorno santissimo per gli ebrei,
anche oggi, e quindi è un giorno nel quale ci si dedica la preghiera]. Sono entrato nella
sinagoga con Gesù, per andare a pregare. Ad un certo tempo, come succedeva, a Gesù viene
chiesto di dire qualche parola, e io lo guardavo pieno di ammirazione, perché ogni parola
potente che usciva dalla sua bocca era anche una lode per me che l‟avevo invitato a Cafarnao.
Quindi mi sentivo gongolare vedendo il suo insegnamento apprezzato: difatti la gente si
stupiva di questo insegnamento, perché parlava finalmente come uno che ha autorità [Pietro
ci spiegherà come erano abituati gli uditori a sentire sempre prediche di questo tipo:
c’è questo precetto, e un rabbino dice così, un altro dice in questo modo, è quindi una
casistica; Gesù ha un altro modo di parlare, parla di cose molto più attinenti alla vita,
alla speranza della gente, e ne parla con autorità]. E quindi io, Pietro, gongolavo di
questo, sentivo che finalmente avevo messo la mia fiducia in una persona che la meritava, che
col suo modo di parlare sapeva chiarire i dubbi della gente, venire loro incontro, nutrirli:
quante prediche poco nutritive avevo ascoltato, prediche che lasciavano il tempo che
trovavano! Qui invece era una parola forte, autoritativa, rinnovatrice.
Ma ecco che, come al solito [o meglio, come capita qualche volta nelle nostre chiese], c‟è un
disturbatore, qualcuno che comincia a disturbare, che comincia a bofonchiare, magari si muove
anche scomposto tra i banchi, la gente lo guarda, e poi si mette a gridare: „Che c‟entri con noi,
Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci‟. [In altre parole sta disturbando la predica, la gente
non ascolta più ciò che Gesù dice, si mette a guardare questa persona, aspetta ciò che essa
dirà. E, in questi casi, che cosa succede? Ci dice Pietro, ci dice ciò che succede anche oggi]. Noi
avevamo un servizio d‟ordine nella sinagoga: si fa un segnale al servizio d‟ordine, e prima si
avvicinano a questa persona, la pregano di uscire, quando non obbedisce la prendono per le
braccia e la portano via gridando [qualche scena di questo tipo l‟avrete vista anche voi: io ne
ho vista più d‟una anche nel Duomo di Milano, di persone portate via di forza perché stavano
disturbando un‟omelia, una celebrazione, e si sentivano le urla di questa persona quando era
già ormai lontana dal Duomo]. Mi aspettavo qualcosa del genere, che Gesù dicesse: „Adesso
per favore basta, bisogna ascoltare la predica, ci hai disturbato abbastanza, o taci o ti
rimandiamo fuori‟. Quale è stata la mia sorpresa quando vedo che invece Gesù si rivolge a
quest‟uomo, lo prende in considerazione, non lo manda via, non lo fa espellere a calci dalla
sinagoga, lo prende in considerazione con forza, con un esorcismo potente: „Esci da
quell‟uomo‟: quindi non parla a lui, ma parla a quello spirito maligno che lo stava così
muovendo. Ma ciò che mi colpì è che Gesù si sia interessato di questo caso, che l‟abbia preso a
cuore e che l‟abbia voluto guarire; e difatti lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte,
uscì da lui”.
Quindi Gesù si occupa di un caso singolo, se ne occupa con amore, anche se con forza,
con energia, non lo mette da parte, non lo estranea, non lo emargina, lo prende di
petto, ed è capace anche di lasciare tutto il resto e occuparsi di una sola persona.
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Questo è nuovo per Pietro, è nuovo un po’ anche per la nostra esperienza. In ogni caso
Pietro dice: “Mi sentivo pieno di gioia perché vedevo che la gente apprezzava questo modo di
fare, esaltava la potenza di questo nuovo predicatore, e si aspettava grandi cose da Lui, la sua
fama si diffondeva immediatamente nei dintorni della Galilea”. Quindi Pietro si sente esaltato,
confermato, sicuro di aver messo la sua fiducia nella persona che lo merita, ed è proprio
questo processo vittorioso che dovrà svilupparsi fino al momento in cui Pietro dovrà capire che
la vittoria è più profonda, però comincia con una vittoria facilmente percepibile.
“Dopo questo io mi sarei aspettato – dice Pietro – che i capi dalla sinagoga, le autorità,
avrebbero invitato Gesù ad andar a casa loro, sarebbe stato normale; mentre invece, uscito
dalla sinagoga, Gesù dice: „Vengo a casa tua‟. E questo mi colpì molto – dice Pietro –, perché,
pur essendo stato coinvolto in un episodio pubblico, pur essendo stato probabilmente
invitato dal capo sinagoga, dalle autorità, mantiene fede all’amicizia, e quindi entra
nella mia casa, mentre tutti guardano con invidia: come mai entra in questa casa?
come mai ha scelto di essere fedele a questo amico e entra in compagnia di Giacomo
e Giovanni?
In questa casa c‟era una malata [la suocera di Simone era a letto con la febbre]. Di solito cosa
avremmo fatto? Avremmo cercato di ignorare questa malata, dicendo: „La suocera è occupata,
non sta tanto bene‟. Ecco, avremmo cercato quasi di nascondere, di mettere un velo su questo
fatto. E invece abbiamo avuto il coraggio di parlargli di lei, e anche qui un‟altra sorpresa: Gesù
si accosta, la solleva, la prende per mano, la febbre la lascia, ed essa si mette a servirli”.
Dunque Gesù fa attenzione alle singole persone una per una, anche se sono persone
umili, semplici, anche se la malattia potrebbe passare anche da sola. Gesù mostra
grande comprensione, delicatezza, educazione, tenerezza. Ecco come Pietro a poco a
poco si entusiasma di Gesù. E questa donna si mette a servirli, quindi si crea un‟atmosfera di
gioia nella casa, e Pietro si accorge che Gesù è colui che porta gioia, che porta serenità, che
porta guarigione, che porta a speranza, e quindi sempre più le sue intuizioni sul messianismo
di Gesù si chiariscono: questo è veramente il Messia buono, potente, che ci vuole salvare
davvero, che non ci vuole salvare solo come popolo, o in massa, ma uno per uno con
l‟attenzione alla singole persone.
Era sabato, quindi quella cena è molto tranquilla, con le preghiere ordinarie del sabato, senza
altra interruzione, ma venuta la sera, cioè concluso il sabato, dopo il tramonto del sole, ecco
che la notizia della guarigione della suocera di Simone si è diffusa, e vengono, a poco a poco,
uno dopo l‟altro, malati, indemoniati, persone estranee, e Gesù li accoglie uno per uno.
Avrebbe potuto affacciarsi alla porta, dare una benedizione, invece Gesù si mette a ascoltarli
uno per uno: che malattia hanno, qual è il loro problema, e a ciascuno dà una parola di
guarigione, di forza e di speranza. “Ecco, quella sera è veramente la sera in cui – dice Pietro –
io ero al colmo del mio entusiasmo, perché è la mia casa era diventata il centro della cittadina,
tutti guardavano a me, mi ringraziavano per avere portato questo profeta, quest‟uomo così
umile, così attento a ciascuno, così vicino alla gente, così accessibile, così capace di rendersi
conto delle difficoltà di ciascuno. Quindi ero pieno di entusiasmo, dicendo: „Finalmente ho
trovato qualcuno che mi mette nel giusto posto in questo paese, che mi dà la giusta fama, da
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cui da tanto tempo aspettavo un riconoscimento, perché io sono un lavoratore onesto, bravo,
capace di fare‟”.
Ed ecco che, al mattino, c‟è una grande delusione: quando Pietro si alza presto per andare a
svegliare Gesù e per dire: “Ci sono ancora tante persone che vorrebbero vederti”, Gesù è
scomparso. Si era alzato al mattino quando era ancora buio, quindi senza dirlo a nessuno, era
uscito di casa e si era ritirato in un luogo deserto e pregava. “Dunque qui – ci dice Pietro – io
ho avuto un‟ulteriore conoscenza di quest‟uomo: è un uomo che ama gli uomini, ma è
uomo di Dio; è uomo che serve, ma che non cerca il successo; è uomo che vuole
rendersi utile, ma che non vuole essere glorificato, vuole stare con il suo Signore. E ci
siamo messi a cercarlo – dice Pietro –, chi di qua, chi di là; prima in casa di amici, poi andando
fuori dal paese, lungo il lago, su per la collina”. E finalmente lo trovano, probabilmente dietro
una siepe, perché è in un luogo deserto, in ginocchio, forse prostrato con la faccia terra, tanto
che non osano per un momento neanche disturbarlo. Ma poi si fanno coraggio e si avvicinano e
gli dicono: “Come mai sei qui? Tutti ti cercano! Abbiamo ancora molto bisogno di te!”. E qui c‟è
una nuova comprensione di Gesù. Quando noi sentiamo dire: “Tutti ti cercano”, ci sentiamo
importanti e sentiamo il bisogno di mostrarci, di essere presenti. Gesù a questa parola non si
scompone, ma dice: “Bene, mi cercano, ma io devo andare anche altrove. Andiamocene
altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là. Per questo infatti sono venuto”.
Quindi Pietro va di sorpresa in sorpresa, prima nel senso di apprezzare quest‟uomo, poi di
vederne la distanza, poi di vederne il rapporto privilegiato con Dio nella preghiera, e poi di
vederne il disegno più alto, che non ha confini: “Devo predicare anche altrove”; e andò per
tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni. Dunque ecco il primo
vissuto di Pietro, quello mediante il quale ha cominciato a conoscere un po‟ di più Gesù nei i
suoi aspetti positivi, nei suoi aspetti misteriosi, nei suoi aspetti che si sarebbero poi sviluppati
in seguito e che lo avrebbero portato a comprendere molte più cose di lui, anzi quasi a
rovesciare la sua comprensione sul modo con cui Gesù si presentava vittorioso e pieno di
successo.
Meditatio
Ecco, vi invito quindi a leggere questo brano, a meditarlo, a ruminarlo; e insieme con voi ora
vorrei domandarmi, a modo di meditatio: che cosa ha detto Gesù a Pietro, e che cosa dice a
noi con questo brano?
Ascoltiamo anzitutto Pietro. Pietro ci dice: “Ero contento, entusiasta al massimo, per la potenza
di questo maestro; ero gongolante, pieno di fiducia, e mi pareva che finalmente avessi trovato
la persona che avevo sempre aspettato, che avevo sempre desiderato”. Quindi Pietro coglie in
Gesù colui che risponde alle attese, alle speranze della gente. “Ma soprattutto - ci dice Pietro ho imparato la sua attenzione alle singole persone. Non eravamo abituati a questo in Israele,
eravamo sempre trattati come gruppo, venivano ogni tanto da Gerusalemme per darci delle
istruzioni, ma le davano a tutta la sinagoga; qui quest‟uomo prende uno per uno, ne soppesa il
problema, ne ascolta le difficoltà, quindi è un nuovo modo con cui l‟amore di Dio si mostra in
mezzo a noi. E ancora – ci dice Pietro – mi colpì molto il suo fare attenzione a colui che
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disturbava nella sinagoga, senza arrabbiarsi, senza cacciarlo via, senza lamentarsi per il
disturbo, ma cercando positivamente di fare attenzione al suo problema, curarlo e guarirlo.
Insomma mi ha colpito profondamente il suo interesse per ogni vicenda umana, e la sua
attenzione ad ogni diversità e ad ogni problema, sia per questi uomini, sia per la mia suocera
guarita, sia per i malati visti alla sera senza stancarsi, senza distinguere, senza mandare a
casa affrettatamente, e soprattutto mi ha colpito questa potenza di guarigione a cui non
eravamo abituati in Israele. Nella storia d‟Israele si raccontano alcuni fatti di guarigione, ma
pochi: anche dei grandi profeti c‟è qualche fatto, ma questa potenza guaritrice di Gesù ci
faceva intravedere un nuovo modo, ci faceva intravedere un mondo nel quale Dio voleva
veramente esprimere il meglio per ogni persona umana, il bene completo di ciascuno di noi.
Avremmo capito in seguito come questo bene era più profondo, come tutto questo era un
primo simbolo, un primo segno, un primo tocco di attenzione: ma già questo ci riempiva il
cuore di gioia e di speranza. Così abbiamo imparato a capire il Vangelo come bene per l‟uomo,
come benessere per tutte le persone umane, come attenzione a tutte le necessità. Certamente
con questo Gesù non voleva istituire un Ministero della Salute, non voleva istituire un grande
ospedale dove le persone malate fossero guarite, ma voleva dare un‟indicazione del senso in
cui il mistero di Dio Padre si muove, cioè per il vero bene della persona umana. E quel vero
bene lo avremmo capito poi, a poco a poco, sempre di più, sempre più profondamente, anche
attraverso la morte e la risurrezione di Gesù”.
Quindi Pietro ha vissuto con molta intensità questo suo discepolato e, fin dai primi giorni, si è
indirizzato nella maniera giusta, anche se, nel momento in cui questo rischiava di essere
l‟unico suo orizzonte, il Signore glielo ha rovesciato, come abbiamo visto, ma sempre per un
più profondo e autentico bene della persona umana.
Contemplatio
Ecco, possiamo pregare con Pietro per poter capire il senso di questo agire di Gesù.
Anzitutto ringraziarlo per i miracoli che ha compiuto, e che compie ancora oggi perché, io non
ne ho visti, però mi dicono che in luoghi come Lourdes, o altrove, ci sono miracoli; e, in ogni
caso, ci sono tante persone malate che, attraverso la preghiera di intercessione, vengono
consolate e confortate. Quindi dobbiamo avere fiducia anche in questa preghiera di
intercessione: forse non faremo miracoli, però possiamo confortare e consolare molti;
mettiamoci, quindi, volentieri in questa linea di preghiera di intercessione. Io vedo quante
persone malate chiedono la mia preghiera: qualcuna chiede di essere raggiunta per telefono,
chiede di essere raggiunta magari con una firma, per avere conforto, per avere sollievo, per
avere speranza; e questo non è da trascurare, non è da disprezzare, non sarà magari un
miracolo, però è un segno di attenzione che noi dobbiamo a tante persone singole. Il prete,
soprattutto, si distingue anzitutto per la sua attenzione ai malati: è una delle caratteristiche del
servizio della Chiesa l‟attenzione al malati, e l‟attenzione ai malati non generica, ma uno per
uno, ascoltandoli ed entrando dentro al loro problema. Ci sono, certe volte, cappellanie di
ospedali dove si suona il campanello, passa un laico a dire: “Chi vuole la comunione alzi la
mano”, e poi dopo si procede e tutto avviene in forma quasi meccanica, con una specie di
- 47 -
tappeto dove si portano davanti le varie cose necessarie; ma ci sono invece ospedali in cui i
preti hanno un contatto vero, profondo, autentico, in cui le persone che passano ricordano per
tutta
la
vita
quei
contatti,
quelle
parole,
quell‟attenzione,
quella
tenerezza,
quella
partecipazione. Certamente anche per il prete in parrocchia una grande parte del tempo è
dedicata ai malati. Questo credo che non debba essere mai lasciato cadere: ogni prete deve, in
parrocchia, anzitutto preoccuparsi dei malati, e non soltanto genericamente con un bollettino,
con delle forme di ciclostilato che vengono distribuite, ma con le visite personali, perché questo
continua l‟azione di Gesù. Io non potevo fare molte visite a malati nelle visite pastorali per
problemi di tempo, però cercavo sempre di fare in modo che ci fosse qualche malato da
visitare. Credo che due tipi di persone caratterizzano la figura del prete nel suo
apostolato: i malati e i carcerati. Posso dire che, quando mi trovavo nel carcere di S.
Vittore a Milano, non mi sentivo mai tanto vescovo come allora, perché è allora che si tocca
con mano la sofferenza fisica nel malato e psicologica, morale, umana nel carcerato. E ho visto
cammini di conversione, di rinnovamento, in carcerati anche, diciamo così, molto lontani dalla
fede, semplicemente per un avvicinamento modesto, magari anche un po‟ impacciato, ma che
voleva mostrare attenzione per la persona.
Questo è certamente un grande insegnamento di Gesù, e quindi della nostra preghiera
possiamo rendere grazie per ciò che il Signore ci permette di fare con la nostra azione
confortatrice, e poi domandarci: “Qual è la mia attenzione al singolo? E quale la mia misura di
compassione e di misericordia?”. Abbiamo visto questa mattina nella meditazione sulla
seconda chiamata di Pietro che, in fondo, lo scopo di tutto era quello di creare un ministro più
compassionevole e più attento alle sofferenze altrui, partendo dalle proprie debolezze e quindi
con un cuore più misericordioso; e questo è l‟insegnamento costante di Gesù. Guardando a
Pietro, dunque, chiediamogli di crescere nell‟attenzione alle singole persone, nell‟attenzione ai
singoli casi, nell‟attenzione ai malati, ai carcerati, ai sofferenti, e di crescere nella misericordia
e nella bontà. E preghiamo anche perché la Chiesa nella sua costituzione, nel suo modo di
avvicinare la gente, esprima anzitutto questa misericordia; perché, per molta gente, la
Chiesa vuol dire la legge, l’istituzione, l’ufficio, stare dietro un banco, ecc., ma non
colgono che la Chiesa deve essere il riflesso del cuore misericordioso e attento di
Cristo. E questo noi possiamo sempre esserlo. Credo che la pastorale, l’azione pastorale
di un prete si gioca sui rapporti umani. Certamente si gioca anche soprattutto
nell’omelia, nell’Eucarestia, nei sacramenti, però si gioca in gran parte nei rapporti
umani, che approfittano delle occasioni di incontro, magari occasioni anche
burocratiche, ma per mostrare un’attenzione, una delicatezza, un ascolto che la
gente non trova di solito mai nelle persone che sono rappresentanti delle istituzioni;
mentre invece trovandole in un prete dice: “Questa istituzione è diversa, è
veramente qualcosa fatta per il bene dell’uomo, anzi qualcosa fatta per me”. E
preghiamo perché ci sia dato di esprimere così anche il modo di essere della Chiesa in mezzo
alla gente.
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Giorno 4
Prima Meditazione
21/09/2006
PIETRO, DICCI IL TUO SEGRETO
Ti ringraziamo, Signore, perché mandi su di noi con abbondanza il Tuo Spirito: ci rende capaci
di parlare con Pietro, di esprimergli tanti nostri sentimenti, pensieri, desideri. Fa‟ che sappiamo
anche ascoltare ciò che lui ci vuol dire, che magari non siamo capaci di domandargli,
soprattutto quelli che sono i suoi segreti. Apri il nostro cuore, soprattutto il nostro agire,
perché possiamo credere che così è possibile vivere, operare, sia nella società cristiana, sia
anche nella società civile. Fa‟ che, quindi, queste cose non rimangano per noi soltanto cose
astratte o lontane, ma ci aiutino a valutare la nostra quotidianità nella Chiesa e nella società.
Ave Maria…
Vedo dai risultati di quella cassa di legno, da cui estraggo dozzine di comunicazioni, che siete
diventati esperti nel parlare con Pietro. Quindi vi ringrazio per le vostre comunicazioni, vi
ringrazia Pietro perché parlate familiarmente con lui. Qui, in queste comunicazioni, che leggo
con attenzione, con interesse, ci sono invocazioni a Pietro che hanno un valore in sé, che
quindi non richiedono una risposta particolare, servono piuttosto forse a me per cogliere quali
sono le cose che risuonano nei vostri cuori. Quindi ad alcune non ho niente da aggiungere, se
non da recepirle; altre richiedono invece talora una risposta o una trattazione, e quindi mi
illuminano nello scegliere gli argomenti e nel cercare di rispondere; poi ci sono quelle che
chiedono udienza: mi pare che abbiamo cercato di rispondere entro stasera.
Prima di entrare nell‟argomento, leggo ancora dai fogli ricevuti, qualcosa che non tratterò
direttamente
ma
forse
può
richiedere
una
risposta
sull‟immediato:
“Caro
Pietro,
vi
riconosceranno da come vi amerete [chiaro, questa è la parola anche di Gesù], nella assiduità
dell‟unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere: questo è ciò che caratterizza la
comunità cristiana [e questa è la sostanza, ahinoi!, e vuol dire che facciamo fatica a essere
veramente così; e poi viene la domanda]. Ma noi seminaristi e il clero abbiamo anche una
„forma‟ che ci deve contraddistinguere: il vestire, il modo di parlare, il modo di essere… È una
necessità o si può anche evitare? L‟abito non fa il monaco, ma forse il monaco è aiutato a
essere se stesso anche dall‟abito”. Cosa dire? Anche qui ci sono stati tempi. Io ho passato tanti
tempi: c‟era il tempo della mia prima formazione, in cui rigorosamente tutti portavano l‟abito
clericale lungo, e si giocava anche a pallone con l‟abito lungo, si andava in montagna con
l‟abito clericale che toccava i piedi, e c‟era il permesso dopo i 2000 m. di tirarlo un po‟ su, e si
era contenti anche così, si giocava, si rideva, si scherzava, si facevano passeggiate lunghe, con
quest‟abito sempre sudato al massimo. Poi è venuto il tempo del Concilio, in cui è sembrato
che si dovesse abolire ogni abito, anzi è sembrato che ogni distinzione fosse negativa e che
bisognasse andare come laici in maniera da non essere riconosciuti, non avere nessun
privilegio. Credo che fosse una esagerazione del nostro tempo, certamente, quella di portare
l‟abito talare anche in cima al Monte Bianco, ma mi pare che fosse un‟esagerazione quella di
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dire: “Non ci deve essere nessun segno di riconoscimento”, perché tante volte è importante
sapere che si viaggia con un prete, che si incontra un prete, ecc. Quindi credo ci sia una via di
mezzo: l’abito non fa il monaco, ma il monaco è aiutato ad essere se stesso anche
dall’abito, purché non si dia troppa importanza a queste cose. Per esempio, nella mia
comunità, quando sto a Galloro o a Gerusalemme, vesto, di solito, senza un abito
particolare,
eccetto
le
situazioni
di
incontro
formale.
Dove
c’è
invece
una
celebrazione, allora cerco di mettere qualche segno distintivo; ma credo che
l’importante è non dare eccessiva importanza a queste cose, né nel senso di dire:
“Non ci vuole nessuna distinzione”, né nel senso di dire: “L’abito, rigorosamente, i
modi di fare, di parlare, devono essere speciali”. Sono un po’ speciali perché
l’abitudine è questa: infatti quando si va al mercato nelle vie di Gerusalemme, anche
quando uno è vestito da laico, il mercante dice: “Padre” – “Come fa a saperlo?” – “Si
vede subito, dal modo di camminare ecc.”. C’è questa abitudine che viene senza che
noi ci pensiamo, ma non dobbiamo darle troppa importanza; almeno questa è la mia
opinione, visto che chi scrive la chiedeva.
Veniamo invece, a interrogare Pietro, e la domanda è: “Dicci il tuo segreto”, perché Pietro è
contento di essere interrogato da noi, ma avrebbe qualcosa anche lui da dirci che forse non gli
chiediamo. È quello che io chiamo il “segreto di Pietro”. Su questo ho dato anche un corso
intero di esercizi sulla prima Lettera di Pietro, che poi è uscito sotto il titolo Il segreto della
prima Lettera di Pietro, quindi potete trovare là, più ampiamente, quanto cercherò di dirvi in
questa meditazione.
Qui vorrei però non trascurare del tutto questo argomento, che è difficile. Pietro stesso ci dice:
“È stato difficile per me”. E alla domanda: “Pietro, quale è il tuo segreto”, lui ci risponderebbe,
in sintesi, così: “È l‟applicazione pastorale di quanto ho capito nella mia seconda conversione,
l‟applicazione pastorale. È stato duro – ci dice Pietro –, è stato duro arrivarci, perché è stata
molto dura per me la seconda conversione, la seconda chiamata, è stato duro trarne le
conseguenze, è stato duro farle capire, e ancora oggi, mi pare – ci dice Pietro –, voi non avete
capito molto di queste conseguenze, però io mi sento in dovere di dirvele ugualmente”. E,
quindi, cercando di ascoltare Pietro, faremo un po‟ di lectio. I brani sono tutti della prima
Lettera di Pietro, e poi qualche riflessione e qualche suggerimento per la preghiera, meditatio e
contemplatio.
Lectio
Pietro ci dice: “Guardate che, se leggete bene la lettera che ho scritto ai fedeli dispersi nel
Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell‟Asia e nella Bitinia [sembrano disposti secondo un
circolo, più lontano è il Ponto, poi si scende nella Galazia, nella Cappadocia, nell‟Asia e si risale
nella Bitinia, per trovarsi quasi là dove si era partiti: probabilmente è il percorso che Silvano
fa, consegnando la lettera alle comunità], e ho scritto – dice Pietro – a queste comunità,
perché erano comunità travagliate, comunità piuttosto ridotte, e quindi anche molto umili e
addirittura umiliate, forse anche perseguitate, in ogni caso non godevano di peso, di rilievo
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politico, sociale, culturale, erano un po‟ dei paria della società. E allora ho pensato di scrivere
loro, e il messaggio lo condenso nelle parole finali della mia lettera, là dove dico al capitolo 5
versetto 12: „Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente per mezzo di Silvano, fratello fedele,
per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio‟, cioè che voi, comunità povera,
disprezzata, poco significativa, tuttavia vivete la grazia di Dio, vivete l‟esperienza cristiana
autentica: questo è tutto il senso della mia lettera. E ancora, nel versetto precedente: „Il Dio di
ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà,
dopo una breve sofferenza [quindi suppone che siano in sofferenza], vi confermerà e vi
renderà forti e saldi. A lui la potenza nei secoli. Amen!‟. Questo è dunque il mio messaggio –
dice Pietro –, e, se notate bene, vi alludo fin dall‟inizio quando, nel capitolo primo, parlando
della speranza del cristiano, del berashà „Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo‟, insinuo: „Siate ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere per un po‟ di tempo afflitti
da varie prove – quindi metto subito avanti il tema delle prove, e metto subito una ragione che
è una ragione filosofica, generale –, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa
dell‟oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e
onore nella manifestazione di Gesù Cristo‟. Quindi, fin dall‟inizio, metto le mani avanti per
indicare che le prove che voi soffrite hanno un valore.
Ma il segreto non è ancora detto: perché hanno valore? Come mai? Quale gloria rivestono
queste sofferenze e ingiustizie accettate per amore di Cristo? L‟argomento lo svolgo – ci dice
Pietro – soprattutto a partire dall‟elenco dei doveri verso le diverse classi sociali, quando arrivo
agli schiavi, cioè alla situazione più drammatica, più dolorosa, più umiliante. E dico loro:
„Domestici – cioè schiavi che vivete in una casa, a servizio di una casa –, state soggetti, con
profondo rispetto, ai vostri padroni‟; fin cui può essere una regola generale di prudenza, di non
turbare troppo l‟ordine costituito, però ho il coraggio di aggiungere: „Non solo a quelli buoni e
miti, ma anche a quelli difficili [sappiamo che quelli difficili avevano potere di vita e di morte
sullo schiavo, quindi non era certamente una situazione bella]‟. E qui ho il coraggio – ci dice
Pietro – di continuare entrando nel mistero di Cristo: „È una grazia, per chi conosce Dio
[questo dirà poi anche in conclusione: “siete nella grazia”], è una grazia, per chi conosce Dio,
subire afflizioni soffrendo ingiustamente. Che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se
avete mancato? Ma se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà
gradito davanti a Dio‟. Ecco qui c‟è una scelta già molto grande, molto difficile, molto penosa,
perché di fronte a questa situazione degli schiavi trattati ingiustamente, io avevo – ci dice
Pietro – diverse scelte: potevo, ad esempio, esortare alla ribellione, perché avevate il diritto di
essere uomini liberi; potevo esortarvi a una sorta di obbedienza civile con delle regole più
umane, e quindi con una riforma graduale che desse delle leggi per il rispetto della persona;
potevo dire: „Scappate, andatevene‟; potevo fare ciascuna di queste cose. E invece mi sono
sentito spinto a dire: „Questa è una grazia‟, e non solo, ma: „È una grazia che vi assimila a
Gesù, perché Gesù ci ha salvato soffrendo ingiustamente‟. E, difatti [continua nel v. 21]: „A
questo infatti siete stati chiamati [cioè a fare il bene sopportando con pazienza la sofferenza],
poiché [e qui comincia come un inno] anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché
ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca;
oltraggiato, non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la
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sua causa a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno
della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe
siete stati guariti‟”.
Quindi è Gesù il segreto profondo di questo modo di agire così strano, così nuovo, così difficile,
così arduo che Pietro stesso ha fatto fatica prima ad interiorizzarlo e poi a dirlo. Ha fatto fatica
a interiorizzarlo, perché appunto gli è costato il riconoscere che lui era debole, ma che Gesù
dalla croce, nella sua umiliazione, nella sua sofferenza sofferta ingiustamente lo salvava; e poi
è stato faticoso l‟applicarlo ad altri. “Però – dice Pietro – io ho sentito di doverlo fare, e l‟ho
fatto in questo caso degli schiavi, che è il più drammatico, quello più difficile. Ma poi l‟ho
applicato a tutta la comunità: difatti dico nel capitolo terzo: „E chi vi potrà fare del male, se
sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi
sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia
questo sia fatto con dolcezza e rispetto‟, e poi, al v. 17: „È meglio infatti, se così vuole Dio,
soffrire operando il bene che facendo il male – e, ancora, ritorna l‟esempio di Cristo –: anche
Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio‟”.
Quindi è anche la comunità a imitare così Gesù, e questo viene detto nel capitolo terzo, ma poi
Pietro riprende questa applicazione a tutti all‟inizio del capitolo quarto: “Poiché dunque Cristo
soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto nel suo corpo ha
rotto definitivamente col peccato, per non servire più alle passioni umane ma alla volontà di
Dio, nel tempo che gli rimane in questa vita mortale”. E, ancora, prima della fine della lettera
riprende il discorso, applicandolo alle comunità:
“Carissimi, non siate sorpresi per l‟incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a
voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui
partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della
sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare [e poi, come se non bastasse, rincara la
dose]. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e
lo Spirito di Dio riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o
malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi
Dio per questo nome”.
Ecco, queste parole, tolgono il fiato, certamente, perché noi diciamo: “Ma allora, cosa ne
segue? Ma allora non possiamo più difenderci! Ma allora siamo schiacciati da tutti! Ma allora
non abbiamo più nessun diritto! Ma allora ci mettiamo dalla parte dei perdenti! Allora diamo
ragione a chi ha forza, potenza, a chi piega il diritto alla sua volontà!”. Certo, sono domande
che sorgono in noi, ma Pietro guarda soprattutto a Cristo crocifisso, e quindi si sente di
proclamare a queste comunità in difficoltà questa loro esperienza come esperienza di grazia.
Ecco questa è la lectio, a questo non dobbiamo aggiungere altro nella nostra lettura, perché è
certamente il pensiero chiarissimo di Pietro. Possiamo dire che la prima Lettera di Pietro è
quella in cui questo soffrire ingiustamente come Cristo ha sofferto per amore, viene espresso
con maggiore efficacia, con maggiore forza, con maggiore insistenza, quindi è certamente una
lettera di grande rilievo, di grande significato.
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Meditatio
Cerchiamo un po‟ di riflettere adesso su questo messaggio. Anzitutto è chiaro che è un
messaggio difficile, non è un messaggio facile. Tuttavia, se Pietro lo fa, è perché è un
messaggio necessario, cioè perché noi non siamo solo salvati da Cristo per la sua morte, per il
suo sangue, per la sua passione, ma siamo anche invitati a condividere qualcosa della sua
passione. Quindi il il cristiano è colui che, non solo si lascia salvare da Gesù, ma cammina alla
sequela di Gesù, diventa discepolo, lo imita, e quindi lo imita anche nella sofferenza ingiusta. E
questa è, appunto, la difficoltà del messaggio, ma anche la profondità del messaggio, perché
soltanto quando arriviamo a questo punto capiamo veramente che cosa Cristo è stato per noi e
quanto noi ci impegniamo per Lui.
Però vorrei aggiungere un altro pensiero: che questo messaggio ha anche un valore,
diciamo, politico: cioè non vuol dire che dobbiamo, in ogni caso, sempre cedere,
sempre sottostare, perché ci sono anche dei diritti da esigere, e quindi non possiamo
prendere queste pagine come l’unica regola del cristiano. Ci sono dei diritti da esigere,
ci sono delle prerogative su cui possiamo insistere; però, alla lunga, la saggezza politica deve
passare anche di qui. Io ricordo spesso, quando vengo interrogato dai gruppi di
pellegrini, le due parole di Giovanni XXIII che danno il titolo a due grandi messaggi
per la pace: primo, “Non c’è pace senza giustizia”, quindi bisogna obbedire alla
giustizia, dare a ciascuno il suo, ciascuno può esigere il suo; però ha aggiunto in un
altro messaggio, molto più bello, forse uno dei più belli: “Non c’è giustizia senza
perdono”, cioè se ciascuno esige, sempre e soltanto, ciò che gli compete, senza badare
all‟altro, arriviamo a uno stato di guerra permanente. Quindi, in fondo, è anche saggezza
politica, non solo imitazione di Cristo, ma saggezza politica, saper anche cedere su qualche
proprio diritto, accettare un‟umiliazione, perché, non solo così imitiamo di più Cristo, ma così
anche contribuiamo alla pace, all‟armonia, alla costituzione di una comunità ordinata. Quindi
questo va tenuto presente: fino a che non si arriva qui c‟è soltanto vendetta contro vendetta,
rappresaglia contro rappresaglia, colpo contro colpo, forza contro forza, e cercando sempre di
aumentare così da prevalere; ma quando si imbocca questa strada allora si aprono delle
possibilità. E, come dico, questa saggezza politica non è senza esempi. Per esempio mi diceva
una persona che è stata recentemente in Sudafrica che là ci sono problemi, certamente, anche
dal punto di vista economico, ma tutti gli odi, le violenze, sono stati superati, attraverso
questa politica, attraverso questi gruppi di riconciliazione e di verità, in cui ciascuno è stato
chiamato a dire la propria verità su di sé e sull‟altro, e ad accettare la riconciliazione. E in
questo, certamente, un uomo come Nelson Mandela ha fatto molto, perché lui stesso ha
sofferto molto e, come vi dicevo, dopo 25 anni di carcere, non aveva un accenno di
rivendicazione o di amarezza. Quindi qualcosa di straordinario, che ha contribuito alla pace
sociale. E so che anche altri paesi hanno cercato, cercano, dopo momenti difficili, di mettersi
per questa strada, ma non è facile. Certamente la possibilità di superare il giustizialismo puro
con la riconciliazione, con una riparazione offerta volentieri, è qualche cosa che anche
politicamente ha una sua importanza. Tra le realtà che più mi attraggono, mi commuovono, in
Israele c‟è proprio questa chiamata del Family Parent‟s Circle, nata da una persona,
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un‟israeliana, una mamma che aveva una bambina che già a 12 anni faceva propaganda
contro la guerra e andava a esporre i cartelloni di fronte alla presidenza del primo ministro per
la pace. Questa ragazza viene uccisa a 16 anni da un terrorista. E la mamma, invece di
crogiolarsi nel gusto della vendetta, ha avuto l‟idea di dire: “Io soffro tanto, chissà cosa soffre
chi dall‟altra parte ha avuto una perdita simile”; e allora si sono incontrate a poco a poco
famiglie di israeliani e di palestinesi che hanno avuto un figlio, un fratello ucciso dalla violenza
o dalla guerra, per parlarsi, per riconciliarsi, per offrirsi mutuo perdono, per trovare vie di
dialogo, e hanno lanciato iniziative straordinarie: hanno, per esempio, costituito una centrale
telefonica per far parlare tra loro appartenenti ai due gruppi; chi vuole, chi desidera, entrare in
dialogo si rivolge a loro, loro telefonicamente mettono in contatto, e hanno così ottenuto
migliaia di dialoghi che parlano, appunto, di riconciliazione, di pace. La stessa dottrina legale
della giustizia penale si orienta verso pene non vendicative, ma verso tentativi di
riconciliazione, offerte di ricompensa, cioè di compensazioni, ma date con buona volontà, non
obbligate con un puro carcere; e quale progresso si fa, perché si è capito che la sola vendetta,
che pure rende una giustizia astratta, non basta. Quindi c’è una saggezza, ed è chiaro che
questa saggezza comporta un sacrificio, comporta un superamento di sé, un’uscita
da sé; e probabilmente, quando noi ci troviamo in questa situazione, la prima
reazione è quella di vendicarci, quella di volere giustizia. Ricordo che c’erano due
preti che avevano litigato tra loro tutta la vita. Poi era intervenuto il mio
predecessore per chiedere a tutte e due un passo indietro nella parrocchia. Uno
l’aveva fatto e l’altro no; quello che l’aveva fatto è poi morto, l’altro viveva ancora
ma sempre con questo astio nel cuore. E allora mi hanno suggerito di andare a
celebrare una Messa con questo prete anziano, di regalargli un calice, e ricordo che
al momento dello scambio di pace gli dico: “La pace sia con te”, e lui risponde: “Nella
giustizia”. Quindi, pure a quell’età, non aveva ancora smesso qualche desiderio,
qualche rivendicazione. Questo vuol dire che è difficile anche per noi, forse è più difficile
ancora per noi nell‟ambito ecclesiale, perché, giustamente, siamo preoccupati di dare a
ciascuno il suo, di esprimere i diritti delle persone, però non è l‟unica via con la quale si ottiene
il riconoscimento dei diritti. “Non c’è pace senza giustizia”, “Non c’è giustizia senza
perdono”: questo credo che sia un messaggio non solo cristiano, ma saggio.
Contemplatio
Pietro ha avuto il coraggio di aprire questo dialogo, di farci questa proposta, per cui ora siamo
invitati a pregare un po‟ su di questo. Io credo che possiamo pregare secondo tre linee:
1. La prima è quella di lasciar emergere le difficoltà teoriche che abbiamo con questo
atteggiamento, perché ci fa molte difficoltà. Lasciarle emergere, in maniera da poter
discutere, da poterle capire, da parlarne col Signore, con S. Pietro: “Che cosa vuol dire
dunque? Che conseguenze ha?”.
2. La seconda linea è più interiore, è la domanda: “Ho mai provato qualcosa di simile?”:
“Ho provato il desiderio e il gusto della vendetta?”, ma anche: “Ho provato il desiderio e
- 54 -
il gusto del perdono?”; per vedere quali sono state le conseguenze dei due diversi casi,
perché soltanto provando e vivendo questa realtà possiamo entrare nel mistero, nel
segreto di Pietro. E penso che i martiri abbiano vissuto questa realtà come Gesù sulla
croce: così Stefano, così Pietro stesso nella sua morte, così fino agli ultimi martiri di
questo tempo, fino alle persone uccise, probabilmente anche a quelle uccise in questi
giorni, che sembra che abbiano offerto il loro perdono. Certo questo non è per
debolezza o per resa facile, non è una scusa per altri per prevaricare, ma è un
atteggiamento soprannaturale, nuovo, che solo Gesù Cristo, come Dio-uomo,
poteva instaurare, perché noi non ci saremmo arrivati se non appena
confusamente. Quindi la preghiera può partire da proprie difficoltà vissute.
3. Alla terza domanda abbiamo già dato parzialmente una risposta: “È applicabile alla vita
civile?”. Certo non tale e quale, credo: non pretende la lettera di essere una norma per
la società; però anche una società deve considerare seriamente quando è il caso di
punire o di intervenire, e quando è il caso di far emergere istituzioni, forme alternative,
che ristabiliscano la giustizia ma attraverso la riabilitazione delle persone e la
possibilità, per le persone, di compiere dei gesti di riparazione. Questo l‟ho imparato
anche nelle carceri, dove persone che erano state incarcerate, magari per delitti gravi,
di terrorismo, mi dicevano: “Io sarei disposto a dare tutta la vita per il servizio dei
poveri nell‟Africa, nell‟America Latina, piuttosto che stare qui in questa cella a guardare
la televisione, giorno e notte. Vorrei dare la mia vita per riparare al male che ho fatto”.
Credo che questo abbia una sua serietà, quindi dobbiamo riflettere, approfondire questo
pensiero se il Signore ce ne darà la grazia.
Naturalmente tutto questo Pietro può farlo perché ha una visione dell‟uomo ampia, che non si
ferma alla morte, e quindi qui leggo uno degli ultimi interventi vostri, che vorrei riprendere
domani: “Perché, Pietro, insisti tanto sulla speranza nella tua lettera? Cos‟è questa speranza
viva, questa eredità incorruttibile? Di che speranza ci chiedi di rendere ragione, persino nella
prova? E che cosa vuol dire rendere ragione della speranza?”. Ecco, lasciamoci con questa
domanda, perché probabilmente domani la riprenderò, ma certamente è parte di questo
insegnamento di Pietro. Gli esempi che ho portato sono di persone che non sono partite da
considerazioni religiose e, tanto meno, da considerazioni di eternità, ma anche soltanto da
considerazioni di valori umani, però certamente in un quadro di eternità, di destino eterno, di
chiamata ad essere sempre nel cuore di Dio, tutto questo assume il suo valore più concreto e
più determinante.
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Giorno 4
Seconda Meditazione
21/09/2006
PIETRO, COME VEDI TU IL PRETE OGGI?
Continuano ad arrivare messaggi a Pietro. Quella cassetta ne fornisce a iosa, su tanti temi
importanti. Vedo che alcuni giustamente riflettono sul significato politico o no del segreto di
Pietro. “Si può paragonare alla non violenza?”: certamente Pietro non aveva in mente di
dare un messaggio sociale, ma un messaggio spiccatamente religioso; tuttavia è
importante vedere come anche a partire da un messaggio religioso, si può fondare
una società che abbia una sua ragion d’essere, che sia migliore di un’altra. Ma
comunque i messaggi sono tanti. Io volevo fermarmi su una domanda che mi pare importante
e che, vedo, affiora in alcuni dei vostri scritti: “Come vedi tu, Pietro, il prete oggi?”. Per
esempio leggo: “Quale tipo di cuore, di umanità, di personalità prediligi, affinché la Chiesa sia
edificata su salde fondamenta e possa crescere secondo il volere di Gesù? Cosa dobbiamo
imparare da te affinché iniziamo anche noi a costruire la Chiesa?”. Un‟altra preghiera: “Caro
Pietro, la chiamata di cui ci hai parlato certamente è un fatto personale; però non sei da solo,
non sei stato chiamato da solo: tanti infatti erano i discepoli. Come hai costruito, come hai
chiarito le tue relazioni con gli altri chiamati? Tutto questo mi interessa perché anche noi, se
un giorno saremo preti, non potremmo mai esserlo da soli”. Ecco, sono cose molto belle,
cerchiamo di chiederle a Pietro. E Pietro mi pare che ci suggerisca di meditare l‟esempio che
egli ci dà nell‟ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni, nel capitolo 21: l‟apparizione sul lago.
Ti chiediamo, Signore, di potere capire i misteri di questo capitolo, misterioso in sé, perché
aggiunto, non si sa come, al Vangelo del tuo discepolo prediletto, ma ricco di insegnamenti per
la Chiesa, quindi un capitolo tipicamente ecclesiale.
È un capitolo che conoscete molto bene, io mi limito a segnalare le parti di cui si compone: 1)
Gv 21,1-8: la pesca miracolosa; 2) Gv 21,9-14: la colazione: anche questo è importante; 3)
Gv 21,15-17: il dialogo con Simon Pietro; 4) Gv 21,18-19: la profezia sul futuro di Pietro; 5)
Gv 21,20-24: il rapporto con Giovanni; poi segue la conclusione del Vangelo. Noi ci limitiamo
soprattutto alle prime parti, e incominciamo a domandarci quali esempi concreti ci dà Pietro di
esercizio del suo ministero. Ho notato qui sei caratteristiche che risultano da questo brano.
1. Anzitutto la leadership, perché Pietro prende l‟iniziativa di invitare a pescare i suoi
compagni, e i suoi compagni lo seguono. Vuol dire che già prima del perdono pubblico
di Gesù era ancora considerato una persona autorevole, comunque capace di
leadership, capace di muovere altri.
2. Secondo, la concretezza. Certo c‟era da costruire la Chiesa, ma c‟era da far mangiare i
discepoli e le donne. Quindi Pietro dice: “Diamoci da fare, peschiamo un po‟,
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guadagniamo un po‟ di denaro e cominciamo così”. Credo che così inizi l‟avventura della
Chiesa, in maniera molto concreta. Concretezza di Pietro, che io leggo all‟inizio, nel suo
darsi da fare per pescare, per trovare un po‟ di denaro per mantenere la comunità; e
poi anche al v. 11, quando Pietro si è buttato in acqua per incontrare Gesù, ma poi
torna indietro per contare i pesci (153), e quindi non sta soltanto come Maria ai piedi di
Gesù, ma concretamente vuole sapere quanto la pesca ha prodotto.
3. Quindi noto la sua leadership, noto la sua concretezza, noto anche la sua fiducia perché
si fida di questo straniero, di questo uomo sconosciuto che dice: “Gettate la rete sulla
parte destra”, e quindi è un uomo disponibile ad ascoltare.
4. Inoltre un‟altra caratteristica che leggo qui in Pietro è una certa familiarità, timida e
rispettosa, con Gesù. Quando si parla della colazione si dice che Gesù prende il pane, il
pesce, dà loro qualcosa, ma nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”,
perché sapevano bene che era il Signore. Quindi c‟è un po‟ di silenzio, mangiano in
silenzio, in silenzio, con rispetto. Pietro, quindi, ha questa familiarità con Gesù, ma
anche questa timidezza, questo rispetto.
5. Poi vedo ancora in Pietro emergere la sua lealtà verso Gesù: quando Gesù dice:
“Seguimi, non interessarti di Giovanni, lascia stare”, non vuole più andare oltre.
6. Infine, in Pietro lo abbiamo già notato, risalta soprattutto la figura di colui che è
perdonato e perdona: si sa perdonato, perdonato ampiamente, e per questo potrà
perdonare.
Ecco queste sono alcune caratteristiche che mi sembra di cogliere in Pietro, e mi domando:
“come ci aiutano queste caratteristiche a vedere le caratteristiche di un prete?” Credo che
alcune di esse siano caratteristiche di bella umanità e altre sono caratteristiche tipicamente
evangeliche, sono buone le une e le altre. Quelle di bella umanità sono quelle che abbiamo
notato: la leadership, la concretezza, aggiungerei anche la lealtà con Gesù, la sua disponibilità,
quindi sono caratteristiche certamente positive di umanità ben vissuta, ben maturata. Poi
alcune caratteristiche sono tipicamente evangeliche, soprattutto la fiducia, perché la fiducia
umana, di cui Pietro dà esempio buttando la rete dalla parte destra per il consiglio di qualcuno
la cui voce giunge dalla terra, è un inizio di fiducia nel mistero. Dicono giustamente i teologi
oggi che la fede non è qualcosa di strano, o che cade come dal cielo, ma è la continuità
soprannaturale di quella fiducia di cui abbiamo bisogno per vivere, di quella fiducia che
comincia con il fatto che quel bambino si fida ciecamente dei genitori e che poi continua in
tutta la nostra vita. Noi possiamo verificare l’uno per mille delle cose che noi facciamo,
il resto lo riceviamo per tradizione e per fiducia. Questa tradizione e fiducia umana,
quando è umanamente bella cioè aperta, non timorosa, non sospettosa, è quella che
sa tradursi in una fede profonda, fiduciosa, che si butta nel cuore di Gesù e accetta
da lui anche ciò che non capisce subito. Quindi possiamo mettere questo elemento tra gli
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elementi evangelici. E poi tra gli elementi evangelici vogliamo mettere soprattutto quello di
Pietro che si sa perdonato e si perdona, non si “lecca le ferite”, non è un disfattista,
non è uno che continua a rimuginare (ma perché? ma come? ma che cosa è
avvenuto?), ma guarda avanti. Il Signore gli ha detto di pascere il gregge, ed egli pensa a
farlo senza preoccuparsi di ciò che è avvenuto, una volta che è stato perdonato. E poi
soprattutto è bello ed è evangelico in Pietro il suo entusiasmo per Gesù, quello per cui si butta
dalla barca: Giovanni riconosce il Signore, ma è Pietro che si butta. Questo entusiasmo, questa
gioia, questo affetto, certamente è un dono straordinario.
In che modo allora Pietro è figura del presbitero? Credo che potremmo rifletterci su, ma lascio
a voi alcuni aspetti: l‟umanità del presbitero. Il presbitero è certamente uomo, fragile, debole,
con alti e bassi, però leale, concreto, capace di leadership: queste sono caratteristiche che
sono tipiche di un presbitero. E poi ci sono caratteristiche soprannaturali: fede, fuoco interiore
che consuma gli ostacoli, che purifica le scorie, dedizione sincera e amicizia con Gesù, fiducia
totale in ciò che il Signore dispone. Concretamente tutte queste cose vengono a formare la
figura del presbitero maturo e adulto. Quando noi conosciamo uno di questi presbiteri che dopo
quarant‟anni, cinquant‟anni di sacerdozio appaiono come persone affidabili, leali, concrete,
capaci di leadership, diciamo: “Qui il Signore ha lavorato, questa persona si è lasciata
modellare da Gesù”.
Quindi per concludere vi offro qualche spunto di contemplazione domandandoci: “Che cosa c‟è
in me di queste qualità positive e che cosa si contrappone in me di queste qualità? Che cosa
chiedo, che cosa domando nella preghiera a Gesù, per intercessione di Maria, per diventare un
prete sull‟esempio di Pietro come quei preti che ho conosciuto e che ho stimato e che vorrei
imitare nella mia vita?”. Vi lascio questi pensieri, vi potete rifletterci su un poco e fare
un‟attività più grande e migliore di quella che avrei potuto fare io per voi.
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Giorno 5
Prima Meditazione
22/09/2006
PIETRO, E GIOVANNI?
Rinnova, o Spirito Santo, la faccia della terra. Questi Vangeli sono stati scritti duemila anni fa
per il loro tempo, ma sono vivi per la Chiesa oggi, la Chiesa legge in essi le sue tentazioni, le
sue grazie, le sue speranze. Donaci di leggere così questi capitoli del Vangelo, in particolare
l‟ultimo capitolo, l‟appendice, di Giovanni, che è appunto tipicamente ecclesiale, è stata scritta
per la Chiesa e pensando alla Chiesa. E quindi ci fermiamo ancora un po‟ su questo capitolo,
chiedendo la grazia dello Spirito Santo, per intercessione di S. Pietro e di Maria santissima,
perché possiamo conoscere la Chiesa nella quale siamo chiamati a servire e vivere in essa in
umiltà, pace, serenità, contribuendo alla sua azione di santificazione, di preparazione del
mondo nuovo. Tutto questo ti chiediamo, Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.
Dunque abbiamo detto che mi fermerò ancora un po‟ sul capitolo 21 anche perché ieri abbiamo
accennato ad alcune cose. Prima vorrei ricordarvi – già ve l‟hanno detto certamente i direttori
spirituali – di utilizzare questo giorno ultimo – forse lo avete già cominciato a fare, ma
soprattutto oggi – per scrivere alcune cose, portare con sé qualche memoria scritta delle
conclusioni di questi giorni. Mi pare soprattutto che ci sono due cose da scrivere: principi e
propositi.
Principi, cioè qualche parola evangelica, qualche asserto generale che ci abbia maggiormente
colpito, in maniera che rimanga come ricordo, possiamo riprenderlo, possiamo, alla luce di
questo, richiamare questi esercizi. Certo sono tanti questi principi che si possono esprimere.
Quello che mi colpisce molto è la parola di Pietro nella sua prima Lettera, al capitolo quinto,
quando dice: “Gettate in lui (in Dio) ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi”.
Parola molto bella, che significa che Dio vi ritiene importanti, vi ha scelto, vi vuole bene, vuole
il vostro bene: quindi gettate in Lui davvero ogni vostra preoccupazione. Questo può essere un
principio fra gli altri che ci ha colpito.
Quindi scrivere alcuni di questi principi, e poi alcuni propositi, cioè qualche cosa che uno si
propone di fare perché il Signore glielo ha fatto capire in questi giorni. È bene che questi
propositi siano pochi, perché se no diventano una massa ingestibile: vogliamo piuttosto farne
pochi per metterli in pratica, perché ci saranno anche altri anni, altri esercizi per fare altri
propositi, ma conviene partire dalle cose più pratiche, più immediate, più semplici. Come
dicevo, per alcuni, quello di andare a letto alla sera sempre più o meno alla stessa ora può
essere già un proposito che giustifica, se messo in pratica, una buona settimana di esercizi; e
in ogni caso tutto ciò che riguarda l‟ordine della vita.
Vorrei in questa penultima riflessione rispondere al messaggio di uno di voi, che dice così:
“Domanda per Pietro: E Giovanni?”. È il titolo che ho dato a questa riflessione: “E Giovanni?
Non ti sei mai sentito inferiore a lui, lui che era il discepolo amato, lui che anziché rinnegarlo lo
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ha seguito fin sotto alla croce e ne ha ricevuto la custodia della Vergine, lui che sul lago di
Tiberiade dopo la risurrezione, lo ha riconosciuto per primo? Non ti sei chiesto: „perché a me e
non a lui?‟; lui che ti era così vicino nell‟ultima cena, non sarà migliore di me anche in questo?
Non ti sei chiesto: „Come potrò guidare chi sembra essere migliore di me?‟, mentre Gesù ti
confermava capo della Chiesa e Giovanni ti seguiva poco distante? Guardandolo non hai
pensato che forse gli si stava facendo un torto? E se un giorno te lo avesse rinfacciato?”. Sono
tutte domande giuste, a cui risponde il Vangelo, quindi credo importante rileggere queste
ultime frasi, perché ci mettono nell‟atmosfera concreta della Chiesa, delle comunità a cui
stiamo per ritornare dopo gli esercizi; e quindi leggo prima di tutto il testo:
“Pietro allora, voltatosi [dopo che ha avuto la parola di Gesù: „Seguimi‟], vide che li
seguiva quel discepolo che Gesù amava [quindi si accorge che c‟è un altro, un po‟ un
intruso, però che c‟entra molto perché dice:], quello che nella cena si era chinato sul
suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?» [quindi c‟è una
sintesi di tutti i capitoli precedenti]. “Pietro dunque, vedutolo [non si trattiene ma] dice
a Gesù: «Signore, e lui?» [quindi esistono questi sentimenti]. Gesù gli rispose: «Se
voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi». Si diffuse
pertanto tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli
aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che
importa a te?»”.
Ecco, rileggiamo questi brani. Ancora sempre nell‟ambito della lectio possiamo ricordare che
qui, giustamente, chi ha scritto questo biglietto ritiene la sentenza che era comune, cioè che
Giovanni è questo discepolo; però in realtà il quarto Vangelo non lo dice mai. Il quarto Vangelo
parla di questo discepolo che Gesù amava a partire dal capitolo 13 (prima non ne parla),
appare nella scena, e appare per cinque volte fino al capitolo 21, sempre sotto la dizione “Il
discepolo che Gesù amava”, senza altra precisazione. L‟antichità cristiana ha ovviamente
detto: “Questo è Giovanni, questo è l‟autore del Vangelo”, anche basandosi sul fatto che uno
dei due discepoli che vanno da Gesù non viene menzionato quando li manda il Battista, e forse
è lo stesso. Però oggi gli esegeti, molti esegeti, ritengono che si tratti di un‟altra persona. Io
non saprei rispondere, non ho una risposta precisa, però devo rendere noto che di fatto molti
esegeti dicono che uno è Giovanni l‟apostolo, un altro è il discepolo che Gesù amava, che è una
persona diversa, che è testimone di questi fatti e quindi è una delle fonti del Vangelo: non è
l‟autore del Vangelo, è però testimone di questi fatti, come viene detto (poi lo vedremo). In
ogni caso questo discepolo che Gesù amava, non ha altra precisazione se non quello che tutti
sapevano che c‟era un rapporto particolare tra lui e Gesù. Difatti Pietro si rivolge a lui per
sapere il nome, per capire qualcosa sul traditore. Poi dice ancora il Vangelo che era noto al
sommo sacerdote, e quindi introduce Pietro in casa del sommo sacerdote (questo è detto nel
capitolo 18); e a noi spiegavano, quando ci spiegavano questo Vangelo, che appunto, essendo
Giovanni produttore di pesce, forniva il pesce al sommo sacerdote, quindi era noto. Ci sembra
che il testo supponga qualcosa di più: questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote,
non era quindi un semplice garzone che portava il pesce dalla Galilea, ma una persona di un
certo rilievo, e perciò entrò nel cortile del sommo sacerdote, mentre Pietro stava fuori. Allora
questo discepolo, liberamente come uno di casa, va, esce e chiama Pietro. Sono dette cose di
lui senza che mai si capisca bene chi è. Lo troviamo sotto la croce, a lui viene affidata Maria, e
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riappare appunto, in questa finale del Vangelo, come un possibile, diciamo, “concorrente” di
Pietro; però non sappiamo altro di lui. Credo che ciò che ci dice questo discepolo, che non ci
risulta che abbia fatto nulla di speciale, che abbia compiuto opere particolari, è il fatto che è
amato da Gesù, un po‟ come Lazzaro. Lazzaro appare nel capitolo 11 del Vangelo, come amico
di Gesù, ma non si racconta nulla di sue imprese. È quindi certamente un‟immagine, un tipo,
una rappresentazione che dice qualcosa su ciascuno di noi: ciò che importa a noi, ciò che ci
rende qualcuno, è il fatto che siamo amati da Gesù; non è ciò che abbiamo fatto, la nostra
storia, ma questo amore di Gesù è ciò che ci qualifica e che qualifica questa persona. Dunque
una persona che nella sua misteriosità ha questo compito di richiamare il fatto che è
importante per l‟uomo che Gesù lo ami, e tutto resto deriva da qui, e con questo è detto tutto.
Dunque questa persona era il discepolo che Gesù amava, non si dice appunto altro di lui, e
vediamo nella pagina evangelica che appunto suscita – è difficile dire la parola, mi verrebbe di
dire l‟invidia di Pietro o la stizza, un po‟ un certo malessere: “Ma lui cosa c‟entra?”. Gesù gli
risponde nel modo che abbiamo detto, e di conseguenza si diffonde la voce nella Chiesa che
non sarebbe morto, ma qui si precisa che invece non è così.
Meditatio
Ecco, questo è il brano. Adesso cerchiamo di passare ad una meditatio, cioè di riflettere su ciò
che il brano ci dice, vedendo le persone che appaiono in questo brano e quali caratteristiche le
qualificano.
E prima di tutto io vedo al centro del brano Gesù; e qui torniamo un po‟ indietro sul resto del
capitolo 21, dicendo cose che ieri abbiamo omesso.
Gesù appare innanzitutto come uno che ha grande attenzione per i singoli, e grande tenerezza
e cura per i singoli. Questo lo vediamo lungo tutto il capitolo 21. Per esempio, fin dal versetto
4, quando all‟alba si presenta, come se avesse passato la notte in bianco, per essere lì, per
dare una mano ai discepoli, per incoraggiarli: quindi l‟attenzione di Gesù alla situazione di
queste persone che cercano di guadagnarsi la vita. Poi vediamo, ancora nei versetti seguenti,
al versetto 5 la domanda in fondo umile: “Figlioli non avete nulla da mangiare?” – quindi non:
“Cosa avete pescato?”, la domanda che si fa quando si vuole mettere in imbarazzo una
persona: quando c‟è un cacciatore: “Cosa hai cacciato?”, quando c‟è un raccoglitore di funghi:
“Quanti funghi hai raccolto?”, e allora metti in imbarazzo la persona che magari ha raccolto
poco –; invece Gesù dice: “Avete qualcosa? Potrei servirmi di voi, potrete aiutarmi”, e gli
rispondono no”; e allora Gesù, ancora attendendo alla loro necessità, dà quel consiglio
misterioso che essi fidandosi mettono in opera. Però qui non si ferma l‟attenzione di Gesù, ma
quando scendono a terra vedono che ha preparato un fuoco di brace con del pesce sopra. Son
piccolissimi particolari, ma che indicano un‟attenzione grande, come una persona di cui siamo
ospiti, che ci fa trovare in camera quelle cose che sa che ci piacciono, che ci sono utili. Quindi
Gesù ha pensato al fuoco, ha pensato al pesce, e poi nella sua delicatezza vuole che anch‟essi
contribuiscano con la loro pesca: “Portate un po‟ del pesce che avete preso”. Avrebbe potuto
offrire solo il suo pesce, invece vuole che essi si sentano coinvolti; quindi è pieno di cura, di
tenerezza, di educazione, di delicatezza, e poi vedendoli un po‟ timidi li invita a mangiare:
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“Venite a mangiare”, e prende il pane, lo dà a loro, e così pure il pesce. Gesù si mostra
grandemente attento, pieno di cura, educato, delicato con loro. Così anche per Giovanni. Che
cosa appare qui, in questa attenzione di Gesù per Giovanni? Abbiamo detto che in tutto il
brano appare la tenerezza e la cura di Gesù per i suoi.
Qui invece, in questo versetto 22: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a
te?”, appare la sua libertà di agire con ciascuno come vuole. Questa parola di Gesù ci ricorda
molto quella della parabola degli operai della vigna in Mt 20, 1-16: ci sono quasi le stesse
parole, soprattutto al versetto 14 e 15: “Io voglio dare anche a quest‟ultimo come a te [questa
libertà di Gesù, questa volontà è sovrana], non posso fare delle mie cose quello che voglio?”.
Quindi Gesù è delicato e attento, cordiale, umile, educato, ma ha la sua volontà ferma, e
questa sua volontà si esprime con estrema decisione, e Pietro non ha che da accettarla: Gesù
appare come educato, delicato e tenero, ma insieme forte, deciso, capace di prendere
in mano la situazione e di portarla avanti come lui vuole. Perciò traspare da questo
brano, in conclusione del vangelo che Gesù è colui che tiene in mano la sua Chiesa,
che la guida come vuole e noi non abbiamo che da obbedirgli, non possiamo
prescrivergli come deve guidare la Chiesa, come deve condurla, ma Lui lo sa.
Infine, una terza caratteristica che appare da questa figura di Gesù così come viene presentata
in questo capitolo, è la parola, che molto mi colpisce sulla quale ritornerò nell‟ultima
meditazione, quando Gesù dice: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a
te?”. Quindi Gesù ha in mente questa sua venuta, e questo “finché io venga” è importante per
Lui, ed è importante per il NT. Abbiamo visto già nella prima Lettera di Pietro i richiami a
questo momento finale, per esempio al Capitolo 5 della prima Lettera di Pietro, versetti 1 e 4:
“Esorto gli anziani che sono tra voi [siamo partiti anche da questo versetto] quale
anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve
manifestarsi [dunque Pietro ha forte coscienza di questa manifestazione futura, e poi
ancora al versetto 4], e quando apparirà il Pastore supremo riceverete la corona della
gloria che non appassisce”.
Quindi c‟è questa apparizione di Gesù, questa apparizione di cui Paolo ha quella bellissima
parola che mi piace di ricordare qui (2Tim 4, 6-8), là dove dice:
“Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento
di sciogliere le vele [Paolo guarda con serenità alla sua fine prossima, così come
guardava certamente Pietro nel momento in cui lo interroghiamo]. Ho combattuto la
buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta la
corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, e non
solo a me ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”.
Ecco, queste parole mi fanno molto pensare, perché mi domando: quanti di noi attendono con
amore questa manifestazione? Quale idea abbiamo del futuro della Chiesa? E per questo vorrei
approfondire questo pomeriggio la tematica del tempo della Chiesa, perché mi pare molto
importante: vediamo che Gesù stesso nelle sue ultime parole la ricorda. Dunque di Gesù
abbiamo visto tre cose: 1) la tenerezza e la cura con cui sta vicino ai suoi; 2) la sua libertà
forte di agire come vuole con ciascuno; 3) la sua attesa del giorno del suo ritorno.
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Secondo personaggio che appare da queste righe è la Chiesa, la Chiesa antica e la Chiesa di
sempre. Due sono le caratteristiche che vorrei sottolineare.
Primo, è che la Chiesa è un‟opera di collaborazione. Lo avete detto in qualcuna delle vostre
comunicazioni che ho lette ieri: “la Chiesa è opera di collaborazione”, non sono né io né voi,
siamo tutti insieme. Questo appare benissimo nel capitolo 21, quando Pietro chiama gli altri:
c‟è una leadership, ma c‟è una sinodalità, c‟è una partecipazione. Quindi ciascuno deve
accettare di essere parte di quest‟opera di collaborazione, e sapere che ha la sua parte, che
non è il tutto e che quindi deve amare ciò che fa e amare ciò che fanno gli altri. Questo sembra
semplice, ma non lo è così tanto, non dico tanto per le persone, quanto per i gruppi, perché ci
sono gruppi nella Chiesa che una volta acquistata una forte identità pensano di essere loro a
determinare ciò che la Chiesa deve fare. Ho visto qualche volta, di questi gruppi, prevedere,
magari programmare il futuro di una Diocesi, di una Regione, pensando solo a sé, non a tutti
gli altri collaboratori, e in qualche maniera o ignorandoli o sottomettendoli al loro giudizio;
mentre la Chiesa è opera di collaborazione, di sinodalità, di comunione. E questo ci va sempre
ricordato, perché facciamo presto a dimenticarcelo, non tanto come singoli, ma soprattutto
quando siamo parte di un gruppo che ha una forte identità, e che quindi immagina la Chiesa a
sua immagine e somiglianza, mentre al Chiesa appunto è ricca di diversità che vanno tenute
insieme. Questo è molto più difficile che avere un modello solo. Per questo è molto importante
la figura del vescovo, che è quello che deve sapere tenere insieme tante realtà diverse senza
preferire soltanto l‟una o l‟altra, senza ipotecare o assegnare dei compiti quasi esclusivi, ma
cercare la collaborazione, la comunione fra tutti. È la parte forse più difficile dell‟opera del
vescovo. E anche poi il parroco, nella parrocchia, deve cercare di non essere soltanto l‟uomo di
un gruppo, di una certa identità, e quindi portare tutti a collaborazione e a comunione. Ecco
questo appare dietro le righe di questo capitolo, ed è un insegnamento molto importante per la
Chiesa di tutti i tempi.
Un secondo insegnamento che appare, che sembra banale e che però ha la sua importanza, è
che fin dalla Chiesa primitiva c’erano voci e miti. Quelli che si stupiscono perché ci
sono voci nella Chiesa infondate e che poi bisogna smentire: qui abbiamo un primo
esempio di una voce infondata che viene smentita. Difatti dicevano: “Si diffuse perciò
tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto”: è il primo caso di
pettegolezzo ecclesiastico. “Però Gesù non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: se
voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?”. Quindi c‟è la precisazione. Io credo
che se questo è avvenuto all‟inizio avverrà anche dopo, quindi non dobbiamo spaventarci
troppo delle voci, e soprattutto non credere subito. Ci sono alcuni che appena sentito una voce
si infiammano e dicono: “Ma come? Questo non va!”. Bisogna capire se questa voce è fondata,
che cosa è stato detto veramente, quali sono le circostanze precise, che sono state accennate.
Sembrano regole semplici ma sono molto importanti per la pace di una comunità e una buona
intesa tra persone che hanno tante diversità, tanti carismi complementari e talora anche un po‟
contrastanti. La Chiesa appare opera di collaborazione, e anche luogo in cui
necessariamente si creano queste forme di comunicazione errate e che vanno
continuamente corrette, perché è cosi lo vediamo fino ai nostri giorni questa
imprecisione, semplificazione, riduzionismo della comunicazione pubblica, anche
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nella Chiesa. Allora bisogna avere pazienza, andare a fondo, andare alle radici,
domandarsi esattamente quali sono le parole dette, il significato che avevano.
Questo capitolo è già molto ricco di stimoli pratici. Abbiamo visto come agisce Gesù, abbiamo
visto come agisce la Chiesa, ed ora contempliamo ancora Giovanni, “il discepolo che Gesù
amava”, come ho spiegato. Che cosa ci dice questa figura, in quest‟ultima menzione che parte
dal cap. 13 e qui si conclude?
Intanto ci dice per prima cosa, la grande forza delle intuizioni di fede, perché questo “discepolo
che Gesù amava” ha le grandi intuizioni, quella del traditore e poi quella di Gesù sulla riva: “È
il Signore!”. “Allora quel discepolo che Gesù amava disse: è il Signore!”. È la forza
dell‟intuizione di fede, di colui che viene descritto soprattutto come amato da Gesù, e quindi ha
con lui questa intimità, questa percezione che altri non hanno, neppure Pietro, che di per sé
era il leader, ma è un altro: bisogna accettare che sia così. Quindi c‟è questa forza
dell‟intuizione di fede che va rispettata, va accolta, anche quando non viene dalle autorità
massime, ma viene da altre persone. Certamente noi sappiamo quanto abbia giovato alla
Chiesa l‟intuizione di fede di S. Teresa di Gesù Bambino, le intuizioni di fede di madre Teresa di
Calcutta, le intuizioni di fede di Charles de Foucauld. Sono persone che hanno questa capacità
di cogliere la presenza del Signore là anche dove gli altri non la colgono. Quindi questa è la
prima cosa che ci presenta questo discepolo.
Una seconda cosa che è invece piuttosto negativa, ma che va accettata, è la
possibilità che nella Chiesa ci siano invidie, perché appunto questo è un caso di
piccola invidia. Pietro è preoccupato, seccato e un po’ disturbato che ci sia un altro
che in quel momento segue Gesù. Questo succede perché la Chiesa è appunto un
organismo di persone, con diversi compiti, diverse mansioni, diverse capacità, e
allora nasce spontaneamente il sentimento anche di dispetto perché un altro ha fatto
meglio o perché viene preferito. E credo quindi che dobbiamo accettare, non
dobbiamo spaventarci: Pietro stesso è stato vittima di questa tentazione, e quindi
dobbiamo vivere nella Chiesa sapendo che queste cose avvengono e che Gesù poi le
corregge. Quindi: non scandalizzarsi perché queste cose non dovrebbero esserci,
perché la Chiesa dovrebbe essere l’organismo trasparente, perfetto, la sposa di
Cristo senza macchia, senza ruga, ma questo è ciò che deve divenire; bisogna
accettare un po’ queste cose, non esserne troppo turbati. Questo succede appunto nelle
comunità, succede nelle parrocchie: quanti pettegolezzi e invidie nelle parrocchie, per l‟uno o
per l‟altro, e quanta fatica nel parroco per cercare di mediare, di tenere un po‟ a bada queste
diverse sensazioni, questi diversi atteggiamenti; però fa parte del nostro lavoro, non dobbiamo
spaventarcene, e dobbiamo sapere che il Signore per primo ha affrontato questa situazione e
aiuterà anche noi, quando entreremo in queste difficoltà.
Terza cosa che vedo nella figura di Giovanni, del “discepolo che Gesù amava” – io sono
appunto ancora uno che lo chiama Giovanni, ma non tutti lo fanno –, è che Gesù è libero nella
Chiesa di agire coi singoli come vuole. Non possiamo programmare tutto, prevedere tutto.
Spesso al vescovo come al parroco farebbe comodo avere tutto programmato e non avere
certe forme e certe insorgenze, certe presenze, perché disturbano la programmazione
generale. Però la Chiesa è sotto il Signore, e quando Pietro si sentiva rivolgere l‟invito di Gesù
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a pascere: “Pasci i miei agnelli, le mie pecore”: non sono di Pietro, sono di Gesù, quindi Gesù
fa quello che vuole. Perciò bisogna accettare anche questa libertà di azione di Dio. Questo è un
problema storico non facile, perché da una parte nella Chiesa ci vuole un certo ordine e una
certa capacità di programmare, dall‟altra ci sono questi imprevisti, ma la storia è più
complessa della ragione. Il Concilio Lateranense IV aveva stabilito: “D‟ora in poi non ci saranno
che quattro ordini religiosi”. La Chiesa è vasta, non c‟è mai stata tanta fioritura come da allora.
Quindi vuol dire che l‟autorità stessa nella Chiesa sarebbe più portata a dire: “Cerchiamo di
metter un po‟ di ordine”, poi dopo bisogna accettare che ci sono carismi, ci sono doni. Questo
non vuol dire che ogni attività che si chiama carisma o dono lo è. Bisogna provare,
sperimentare, vagliare, e quindi questo è un compito anche difficile, però non per questo
bisogna respingere a priori qualunque cosa che non entri in una programmazione geometrica.
Ecco, vedete quante cose ci dice questo capitolo sulla Chiesa così come la viviamo oggi.
E come ultima cosa che ricavo nel contemplare questa figura, del “discepolo che Gesù amava”,
che l‟istituzione non deve preoccuparsi di tutto. L‟istituzione è certamente importante, deve
cercare di lanciare ideali comuni, ma non può prevedere tutto e preoccuparsi di tutto, perché il
vero padrone è il Signore, è lui il “pastore sommo”. Ricordo che questo pensiero mi dava anche
molta pace nel mio servizio episcopale, perché dicevo: “In fondo questa Diocesi è sua, queste
pecore sono sue, è Lui che ci deve pensare. Se mi fa venire in mente, qualcosa cerco di
attuarlo, sapendo che Lui ha uno sguardo più ampio. Affidiamo a lui completamente ciò che
sarà il presente e l‟avvenire della Chiesa, cercando di compiere la nostra parte con umiltà e
verità”.
Ecco, queste sono le cose che mi suggeriscono le persone che vediamo in questo ultimo
capitolo, e soprattutto in questo ultimo scorcio del capitolo, cioè Gesù, anzitutto, la Chiesa, il
“discepolo che Gesù amava”, mentre ieri abbiamo visto ciò che appare in Pietro come
qualifiche, caratteristiche di buona conduzione della Chiesa.
E leggiamo ora le parole conclusive, versetto 24: “Questo è il discepolo che rende
testimonianza su questi fatti e li ha scritti e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”.
Ecco di qui molti esegeti del passato concludevano che Giovanni era l‟autore del Vangelo, e qui
si conferma questa autorevolezza. Oggi gli esegeti che non identificano il “discepolo che Gesù
amava” con Giovanni: dicono che sia il testimone di alcuni di questi fatti. Non è l‟intero vangelo
l‟opera del “discepolo che Gesù amava”, ma le parti più autentiche, più antiche, più vicine alla
memoria di Gesù sono sue, e poi il resto è opera di un altro redattore. L‟esegeta Raymond
Brown, che morì improvvisamente qualche anno fa, pubblicò prima di morire, anzi uscì
postumo, un libretto molto bello: esercizi spirituali dati dal “discepolo che Gesù amava”: fa
parlare questo discepolo, e poi, nell‟ultima pagina, dice: “Che cosa penso io sull‟autore del
vangelo?”. E mi pare che lui pone almeno tre autori del vangelo: “il discepolo che Gesù
amava”, poi un primo evangelista che ha raccolto alcune memorie, poi un redattore finale che
ha completato e che ha aggiunto anche il capitolo 21. Questo per dire che non abbiamo delle
certezze assolute, ma abbiamo la sicurezza che questo vangelo nella sua interezza ci viene
dalla tradizione antichissima della Chiesa, la quale ha creduto a partire da questo vangelo, ha
amato questo Gesù e ha vissuto cercando di imitarlo e ispirarsi anche alle figure come Pietro o
“il discepolo che Gesù amava”, che riempiono le pagine di questo vangelo come dei vangeli
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sinottici. Dunque qualunque sia l‟autore del vangelo questa è la testimonianza autentica “del
discepolo che Gesù amava”.
A questa testimonianza segue un‟osservazione importante, anche se un po‟ banale come
conclusione, che dice così : “Vi sono ancora molte cose compiute da Gesù che se fossero
scritte una per una, penso [chi dice questo penso è probabilmente il redattore ultimo] che il
mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”. Questa
probabilmente è un‟esagerazione, che però sta per dire “ho dovuto scegliere”; e se ha dovuto
scegliere un evangelista che aveva un compito così importante, il redattore finale, tanto più
noi, e noi abbiamo fatto una scelta in questi giorni, abbiamo trascurato molte cose di Pietro.
Abbiamo cercato di sceglierne alcune attraverso le quali Pietro ci parlasse e ci aiutasse ad
interpretare anche le altre.
In molti dei vostri interventi ho visto l‟invito a trattare anche altri argomenti che sarebbero
importanti: per esempio più volte parecchi interventi hanno parlato dell‟Eucaristia, l‟Eucaristia
e Pietro, soprattutto parlando sia del cap. 6, sia del cap. 13, quando Pietro rifiuta la lavanda
dei piedi, e anche citando – è un altro intervento – il capitolo in cui Gesù entra nella casa di
Pietro: si domanda, chi scrive questo intervento, se potrebbe indicare che l‟Eucaristia entra
nelle nostre case, nelle nostre famiglie. Sarebbero tutti elementi interessanti da approfondire,
ma dobbiamo anche noi come l‟autore del Vangelo fare una scelta, il resto lo approfondiremo
in seguito.
C‟è ancora un‟ultima domanda che è emersa un poco dalle cose che ho detto poco fa. “Visto
che Pietro era insieme con tutti gli apostoli il giorno di Pentecoste, cosa pensa lei
personalmente dei movimenti carismatici? Lei ha avuto mai un contatto diretto con il loro
modo di pregare?”. Ecco, concludo rispondendo anche a questa lettera, perché io ho
conosciuto i movimenti carismatici fin dalla loro origine. Mi trovavo negli Stati Uniti nel 1970,
quando appena nascevano, e quindi ho partecipato alle primissime loro preghiere, e poi in
qualche maniera sono stato anche un po‟ corresponsabile del loro primo trasferimento a Roma.
Il Signore mi ha permesso di conoscere anche questo modo di pregare, e certamente l‟ho
apprezzato, perché è nato in un ambito, fine anni sessanta, negli Stati Uniti, in cui prevaleva
uno psicologismo piatto che toglieva appunto ogni afflato soprannaturale e tutto interpretava
secondo una rigida comprensione psicologica dei fatti. Invece qui si ridava spazio alla libertà
della preghiera, alla libertà dello spirito: mi piaceva molto la sottolineatura data alla preghiera
di lode, che era rimasta un pochino dimenticata nella Chiesa, e anche il fatto che si
promuovesse la preghiera spontanea, cosa che nella Chiesa protestante era rimasta, ma nella
Chiesa cattolica era stata molto limitata per cui mai nessuno osava proporre una preghiera
spontanea in Chiesa. Quindi ho potuto conoscere abbastanza da vicino e partecipare a queste
origini. Ma poi ho pensato che queste cose vanno bene in certi tempi, in certe circostanze, per
certe persone: non possono diventare un metodo generale di conduzione della Chiesa; e quindi
credo, e l‟ho detto anche più volte in qualche mio intervento negli anni in cui ero vescovo, che
bisogna recepire con gratitudine questo contributo, soprattutto il primato della preghiera di
lode, l‟utilità di una certa preghiera spontanea, ma inserirli in un cammino di approfondimento
personale della parola di Dio e in un cammino di avvicinamento a Gesù che sappia anche
prescindere da forme esteriori. Certamente da molti anni non partecipo più a questo
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movimento. Ritengo che siano movimenti – forse esagero, la parola che dico è così –,
sono movimenti fatti per morire, cioè per inserire nella Chiesa certi valori, ma poi
quando questi valori sono diventati un po’ generali, non hanno più quella importanza
che avevano all’inizio. E questo vale per parecchie realtà di Chiesa, che vengono
quando c’è una lacuna, una carenza, e esprimono la necessità di guardare ad alcuni
aspetti, ma poi a poco a poco diventano più comuni. Così è stato per esempio del
movimento ecumenico, che prima era quasi il pallino di alcuni pochi, perché nessuno pensava
all‟ecumenismo, ma poi è diventato una dimensione della Chiesa. Lo stesso il movimento
liturgico, che prima era la passione di alcuni entusiasti, quasi scalmanati, che poi avevano
anche delle espressioni eccessive, ma poi a poco a poco è diventato patrimonio della Chiesa e
il Vaticano II a pensato a rinnovare la liturgia secondo le linee che avevano cominciato e
pensate nel movimento liturgico.
Credo che questo è da tenere presente sempre nel nostro cammino di Chiesa. Il Signore
suscita nella storia tante realtà nuove, ma non perché diventino realtà dominanti o siano il
riferimento unico, ma per arricchire la nostra esperienza di Chiesa, e questo vale in particolare
per i preti diocesani, perché la diocesi, a mio avviso, è proprio quella realtà che deve
rappresentare la capacità della Chiesa di accogliere molte cose diverse e cercarle di portarle ad
unità. Quindi è una vocazione specifica del prete diocesano quella di riconoscere la diversità di
spiriti e di condurla verso un qualche cammino di unità rispettando le singole varietà. Ci sono
invece Ordini religiosi o gruppi che coltivano una realtà particolare, ma io non mi auguro mai
che diventino dominanti nella Chiesa locale: in una Chiesa locale ci deve essere questa
apertura, che tuttavia, questo va anche aggiunto, permette e promuove una vera spiritualità
della Chiesa locale. La Chiesa locale non deve rinunciare ad una sua spiritualità, non deve
soltanto, diciamo, modellarsi secondo una spiritualità carmelitana o benedettina. Il mio
predecessore a Milano, il cardinale Schuster, beato cardinale Schuster, diceva che non esistono
le spiritualità, ma che esiste soltanto la spiritualità della Chiesa che si esprime nella liturgia. Mi
pare questo, forse, un‟esagerazione perché esistono delle differenze spirituali; però la diocesi
deve non identificarsi con una soltanto, e nello stesso tempo deve trarre vantaggio da tutte le
esperienze spirituali storiche che nella diocesi vengono fatte. Questo vale soprattutto per le
diocesi grandi, ovviamente. È molto importante promuovere lo studio di figure sacerdotali e
laicali diocesane che hanno una ricchezza spirituale, perché il loro insieme costituisce la
spiritualità storica di questa diocesi, e quindi non è qualcosa che è contenuto semplicemente
nella spiritualità benedettina o carmelitana, ma che fa parte della storia. Questo è anche il
compito del prete diocesano: di custodire, di promuovere questa spiritualità diocesana, non in
forme astratte o per un dover essere generico, ma a partire dalle figure storiche che nella
realtà diocesana hanno rappresentato una forma di vangelo vissuto eroicamente. Io ho
presente nella Chiesa di Milano figure come Gianna Beretta Molla, madre di famiglia: ecco una
vera spiritualità parrocchiale, di Azione Cattolica, però inserita nella santità della Chiesa. Penso
sempre all‟esperienza di Milano, a Marcello Candia, quello che ha creato tante opere di carità in
Brasile lasciando tutti i suoi averi, anche lui nato in questa realtà. Penso ai tanti sacerdoti che
sono stati beatificati in questi anni, e qualcuno l‟ho anche conosciuto, che appunto pur
restando nell‟ambito della diocesi hanno portato una ricchezza spirituale loro. Ecco, questo
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andrebbe coltivato con attenzione e preferito ad una scelta particolare, ma tenuto presente
come dono di Dio per questa Chiesa locale; e soprattutto mi pare che il prete diocesano è
promotore, custode di questa spiritualità intesa in senso largo che il Signore non lascia mai
mancare alle sue chiese.
Giorno 5
Seconda Meditazione
22/09/2006
COSA PENSI, PIETRO, DEL TEMPO?
Ti ringraziamo, Signore, perché ci hai dato in questi giorni di vivere quanto è cantato da questo
salmo delle ascensioni, e cioè: “Com‟è bello vivere insieme come fratelli”: pregare insieme,
meditare insieme, contemplare insieme il tuo volto. Fa‟ che le esperienze di questi giorni
restino vive in noi e crescano dentro di noi e aiutaci a guardare al tempo futuro con speranza e
fiducia, tu Signore ci hai il nascosto il segreto il mistero del tempo, noi non siamo profeti, il
tempo ci riserva molte sorprese, dacci la grazia di conoscere di questo svolgere del tempo, che
poi sfocia nell‟eternità, ciò che è necessario conoscere sapere e invece ignorare ciò che non
possiamo conoscere e vivere con pace ciò che ci è dato di vivere. Illumina la nostra mente e il
nostro cuore perché possiamo accogliere il mistero del tempo e dell‟eternità così come ce lo
presenti nella tua bontà e nella tua misericordia, e lo chiediamo per intercessione di S. Pietro,
che ha guardato al suo tempo come tempo ultimo, come tempo decisivo, tempo finale. Aiutaci
a conversare con lui per capire che cosa intendeva, cosa vuole che noi intendiamo del mistero
del tempo. Te lo chiediamo, o Padr,e per intercessione di Maria, di S. Pietro, te lo chiediamo
nel tuo Figlio e nostro Signore.
Dunque, ho dato a quest‟ultima meditazione il titolo di “Cosa pensi, Pietro, del tempo?”. E qui,
naturalmente, ho condensato molte cose che sono emerse anche nelle vostre preghiere che mi
avete comunicato, perché in questo concetto ci sono tantissime cose: c‟è il tempo passato, il
rapporto tra il passato e il presente, c‟è il futuro, c‟è la speranza, c‟è ciò che aspettiamo, ciò
che possiamo sperare, ciò che non possiamo sperare. Ecco, tra le vostre domande pertinenti
un po‟ a questo tema ne leggo alcune: “Come vedi tu, Pietro, il futuro della Chiesa?”; certo né
io né Pietro possiamo rispondere come profeti, ma almeno possiamo domandarci come
collocare questa domanda nel quadro giusto, così che non sia semplicemente una curiosità di
futuro immediato, ma guardi all‟intero disegno di Dio. Un altro biglietto dice: “Perché, Pietro,
insisti tanto sulla speranza nella tua lettera? Cos‟è questa speranza viva, questa eredità
incorruttibile? Di che speranza ci chiedi di rendere ragione, persino nella prova? E che cosa
vuol dire rendere ragione della speranza?”: si parla di una speranza concreta, soprattutto per
persone che sono in difficoltà: a un ragazzo che esce dal carcere, che cosa vuol dire dargli
speranza? come aiutare le persone che si trovano in questa situazione? Sono tante domande, e
certamente non pretendo di rispondere a tutte queste domande, anzi ho le idee molto confuse,
a questo proposito del tempo, della speranza, del futuro. Credo che il mio dire sarà
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semplicemente mettere davanti a Pietro questa confusione, queste domande, queste
incertezze, perché almeno esprimendole possiamo chiedere al Signore di illuminarci su di esse.
Dunque a Pietro ho domandato: “Che cosa pensi del tempo? Che cosa pensi della speranza?
Con un parolone, qual è la tua escatologia? Che cosa pensi del tempo passato? Del presente?
Del futuro?”. E comincio con una domanda molto terra terra, ma che spesso sento fare dalla
gente: “I tempi che oggi noi viviamo nella Chiesa, secondo te, sono migliori o peggiori dei
primi tempi, quando eravate ancora un gruppo di pochi apostoli entusiasti attorno a Gesù, con
Gesù in mezzo a voi, pieni di fuoco?”. E credo che Pietro ci risponderà, che ogni tempo tende a
pensare che il precedente fosse stato migliore. Un po‟ succede come del vino vecchio e del vino
nuovo: il vino vecchio sembra migliore, perché ci si è in qualche modo abituati; eppure il libro
del Qoelet ci ammonisce, al capitolo 7 versetto 10: “Non domandare come mai i tempi antichi
erano migliori del presente, perché tale domanda non è ispirata da saggezza”. Con questo
vuole anche indicare che non dobbiamo essere laudatores temporis acti, ma vivere con gioia il
tempo che abbiamo, e pensare piuttosto al futuro.
E anzi Pietro ci direbbe: “Io penso che il vostro tempo è bello, e che ogni giorno, in qualche
modo, è più bello del precedente. Certo all‟inizio non eravamo molto entusiasti: ci avvolgeva,
ci coinvolgeva la familiarità con Gesù, a cui ci stavamo sempre di più abituando; però non è
che mancassero anche tra noi freddezze, invidie, distanze, resistenze. Alla fine queste cose
emergono in tutti i tempi. Ma soprattutto Gesù ci ha insegnato a guardare oltre, a guardare più
lontano nel tempo e nello spazio, e soprattutto ci ha esortato con parole molto forti, là nella
finale del vangelo di Matteo, dove dice: „Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo‟. Quindi ci ha aperto orizzonti senza limiti
e tempi lunghi. E lo stesso alla finale del vangelo di Marco: „Evangelizzate ogni creatura”; e lo
stesso all‟inizio degli Atti degli apostoli: pensate alla testimonianza, siate miei testimoni
sempre oltre, a Gerusalemme, in Giudea, in Samaria, fino agli estremi confini della terra. Gesù
ci ha allargato i luoghi, e perciò ci ha allargato anche i tempi. A poco a poco, tra noi è venuta
l‟abitudine di guardare a tempi più lontani, di guardare anche all‟insieme del disegno stesso di
Dio. La parola forse più completa, più forte, è quella dei cap. 15 della prima Lettera ai Corinzi,
che leggevamo anche stamattina nella liturgia, là dove dice, ai versetti 22 e seguenti:
„Ciascuno risorgerà nel suo ordine, prima Cristo, che è la primizia, poi, alla sua venuta, quelli
che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver
ridotto a nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. E quando tutto gli sarà sottomesso,
anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa perché Dio sia tutto
in tutti‟. Ecco, a questi orizzonti noi siamo stati abituati. E invece – ci dice Pietro –, ho
l‟impressione che questi orizzonti, in voi, siano molto trascurati, emarginati. Voi vivete in tempi
brevi; forse anche le democrazie, con i governi che passano, spesso abituano a pensare al
tempo prossimo dei due, tre, cinque anni o poco più. Noi pensavamo alla lunga, alla lontana”.
E allora una seconda domanda faccio a Pietro: “Quanto lontano vedevate questo tempo della
fine?”. E Pietro ci risponderà: “Noi ci ritenevamo più o meno abbastanza vicini alla fine del
tempo, e avevamo un modo di calcolare piuttosto familiare, quasi un calcolo fatto sulle dita:
erano i famosi 3000-4000 anni dalla creazione del mondo, da Adamo, che si sarebbero presto
conclusi. E quindi nella mia prima Lettera al capitolo 5, versetto 7: „Umiliatevi dunque sotto la
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potente mano di Dio, perché vi esalti nel tempo opportuno‟; e noi pensavamo appunto che
questo „tempo opportuno‟ era abbastanza vicino, che eravamo un po‟ negli ultimi tempi. Voi
invece avete perso questo senso degli „ultimi tempi‟ come prossimi, voi vi sentite non solo con
una lunghissima storia alle spalle, che non parte da Adamo, dai conti biblici, ma parte da anniluce precedenti. Vi sentite anche con una indefinita storia davanti a voi, e quindi non vi viene
più in mente di essere verso la fine del tempo, anche se vi rimane la coscienza di essere negli
„ultimi tempi‟, nel tempo decisivo della storia, ma quanto durerà non lo sappiamo. Noi
sappiamo che il nostro tempo storico, quello che possiamo misurare, è equiparabile, riguardo a
tutto il passato, all‟ultimo minuto delle 24 ore dell‟orologio del tempo, e quindi è una parte
minima del tempo trascorso, e pensiamo di avere davanti a noi sette miliardi di anni di vita
umana sulla terra (almeno si calcola così la possibilità del sole di continuare a realizzare le
condizioni della vita qui). Quindi il vostro modo di pensare è molto diverso dal nostro – come
dice Pietro –: voi avete un orizzonte nuovo nel quale dovete abituarvi ad entrare portando
quello spirito di fede che noi avevamo.
C‟è anche un‟altra grande differenza tra noi e voi. Noi vivevamo in una concezione fissista: le
cose sono create così da Dio e resteranno sempre così, gli stati di vita sono quelli e non
mutano. Voi siete entrati in una concezione evolutiva dello sviluppo del mondo, in una
concezione di continua evoluzione, che toccherà tutte le realtà. Anche se non vi accorgete del
passaggio, ma questo passaggio avviene, e alcuni vostri scienziati o filosofi credenti hanno
anche cercato di scoprire le regole di questa evoluzione verso la complessità, verso
l‟unificazione. Io in particolare leggo molto Teilhard de Chardin, soprattutto nel cinquantesimo
della sua morte (è morto nella Pasqua del 1955, quindi l‟anno scorso erano cinquant‟anni): le
sue opere ci ispirano ancora, sono ancora molto ispiratrici, è stato come un precursore. Egli ha
cercato di cogliere, al di là della sua conoscenza di scienziato, quali sono le regole secondo cui
avviene questo sviluppo evolutivo nel tempo, verso la complessità e l‟unificazione. Altri filosofi,
come Lonergan, che ho citato ieri sera, hanno approfondito il tema della finalità verticale; cioè,
non solo una finalità orizzontale, che spinge avanti, ma anche una finalità verticale che spinge
a passare da un piano inferiore a un piano superiore, quindi dal piano fisico a quello morale, da
quello morale a quello spirituale. Così certamente molte cose si spiegano, risultano più chiare”.
Questo non c‟era al tempo di Pietro, ed è quindi un crescendo di complessità; però ci è
necessario per situarci in maniera ragionevole nel nostro tempo.
Ancora pongo a Pietro un‟ulteriore domanda, una terza domanda: “Come prevedevate voi la
fine del tempo?”. La seconda Lettera di Pietro ha qualche indicazione a proposito, nel capitolo
3, versetti 8ss., quando dice:
“Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi, che davanti al Signore un giorno è
come mille anni e mille anni come un giorno. Il Signore non ritarda ad adempiere la sua
promessa, il giorno del Signore verrà come un ladro. Allora i cieli con fragore
passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c‟è
in essa sarà distrutta. Secondo la promessa di Dio aspettiamo nuovi cieli e una terra
nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia”.
“Questi erano i concetti con i quali noi sapevamo operare in quel momento, e quindi vedevamo
le catastrofi, le cose che avrebbero in qualche maniera distrutto l‟abitazione dell‟uomo; ma
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vedevamo anche lo sviluppo, la parte positiva, l‟anello della fine, la pienezza. Voi non siete più
obbligati a pensare identicamente a questa maniera, così come abbiamo cercato di esprimerci,
ma dovete certamente rinnovare in voi la coscienza che il mondo non è chiuso in se stesso, ma
è aperto ad una speranza e ad un futuro che non terminerà più. Qui vorrei lasciare la parola,
proprio a questo proposito, a Teilhard de Chardin, che nel suo famoso libro Le Milieu Divin
(1957), dopo aver esaminato questa tensione verso il futuro della Chiesa primitiva, dice con
una certa brutalità: „In realtà, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo riconoscere che loro
aspettavano qualcosa e noi non aspettiamo più nulla‟, cioè non abbiamo più nessuna attesa
della venuta del Signore, della fine del tempo. Qui appunto, Teilhard insiste: „Dobbiamo a tutti
i costi ravvivare la fiamma, dobbiamo rinnovare in tutti noi il desiderio e la speranza del
grande avvenimento‟. Un po‟ simbolicamente ha operato così papa Giovanni Paolo II, quando
ha preso il 2000 come punto simbolico di arrivo, e ci ha voluto preparare. Adesso abbiamo
quasi dimenticato queste cose, però abbiamo vissuto parecchi anni di preparazione; poi questo
tempo è passato, e vediamo che esso era solo un simbolo, il simbolo però di un‟attesa. Come
ritroveremo noi quest‟attesa senza andare nelle fantasie, senza uscire, appunto, dal mondo,
ma vedendola nella sua realtà e nel suo realismo? Dice Teilhard de Chardin: „Noi ritroveremo
questo in un‟attenzione sempre più grande all‟attrazione esercitata direttamente dal Cristo
sugli elementi del mondo‟; quindi, ritenendo che l‟evoluzione ha il suo termine, il suo punto
omega nel Cristo, e che quindi non è un fatto, diciamo, puramente profano, ma è qualche cosa
che segnala la direzione del mondo della storia. Quindi dobbiamo sempre più renderci sensibili
dell‟intima connessione tra il trionfo di Cristo e la riuscita dell‟opera della divinizzazione
dell‟umanità”.
Ecco, così risponde Pietro alla mia domanda, e allora io insisto: “Come avere dunque il giusto
senso del tempo nella relazione tra il tempo e l‟eternità, tra la quotidianità e la venuta di Cristo
che chiude la storia? Con quale sguardo guardare dunque a questo traguardo finale?”. “Qui
credo che noi dobbiamo avere il coraggio di fare quel salto che è l‟unico che permette di
cogliere il senso di questo cammino della storia, ed è il salto che viene descritto in maniera
molto audace, molto viva, da Pascal, quando dice che c‟è un ordine della quantità che ci
appare oggi immensamente grande, perché non soltanto si parla di universo, ma anche di
multiverso, e non si vede una fine al cosmo, e quindi il cosmo sembra allargarsi a dimensioni
senza limiti; c‟è un ordine della quantità che sembra schiacciarci, ma già Pascal al suo tempo
diceva: „Per lo spazio l‟universo mi comprende, mi inghiotte come un punto, ma per il pensiero
io lo comprendo‟; e quindi pone, sull‟ordine della quantità, l‟ordine del pensiero, della
riflessione, e sopra l‟ordine del pensiero e della riflessione, l‟ordine della carità e della santità.
Per cui anche un piccolo atto di amore può superare tutta la massa delle qualità umane, e tutte
le misure senza limiti delle quantità cosmiche. Certamente, con le scoperte moderne e
contemporanee, il quadro si è fatto vasto e complesso: come abbiamo detto, abbiamo dietro di
noi un tempo incommensurabile, una serie indefinita di anni-luce, che ci distanziano
dall‟origine misteriosa del nostro cosmo, e davanti a noi abbiamo una serie ugualmente
indefinita di anni-luce con tutti i possibili sviluppi del nostro cosmo, abbiamo una regola che
attraversa tutta questa indefinita quantità e durata, la regola dell‟evoluzione, per cui tutto è
continuamente in divenire, e non riusciamo prevedere fin dove e verso dove questo divenire ci
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porterà. Sappiamo di essere un certo punto del divenire storico del mondo e dell‟umanità, ma
non sappiamo dove arriveremo tra un qualche miliardo di anni. Certamente ci saranno grandi
cambiamenti, anche nella Chiesa, nella società. In tutto questo spazio immenso, in un universo
che si è dilatato, senza limiti, nel quale nasce dunque la domanda: in questo universo senza
limiti di spazio e di tempo che cosa può significare la piccola voce di un profeta di Galilea che
muore su un patibolo 2000 anni fa? Non è forse una quantità trascurabile, un grido perduto
nell‟immensità dello spazio incapace di essere paragonata alle misure senza limiti del cosmo
prima di noi e attorno a noi? Ed è qui che ci è chiesto l‟atto di fede e di audacia, proclamando,
affermando, che un atto di carità, un atto di santità, un atto di verità nel campo morale, vale
immensamente più di tutte le quantità e le misure possibile e immaginabili; anzi noi
sappiamo che tutta questa evoluzione progrediente, tutto questo processo evolutivo,
è comandato da una cosa sola, il suo progredire verso il Cristo totale, come diceva ieri
la Lettera agli Efesini, verso il Cristo universale, verso la pienezza del Regno di Dio. Tutte le
altre quantità possono dispiegarsi a dismisura, allargarsi nello spazio e nel tempo, superare
ogni orizzonte pensabile, ma esse hanno un termine, un limite, una regola, e questa è quella
del manifestarsi del Figlio di Dio, della pienezza di Cristo, della misura piena dell‟età di Cristo.
Certamente l‟allargarsi senza limiti delle dimensioni del tempo dello spazio, il profilarsi di un
universo in continua crescita evolutiva, senza che se ne sappia bene né l‟origine né il termine,
di fatto potrebbe portare molte persone a considerare il mistero e la persona di Cristo e il
movimento cristiano come piccoli vagiti nell‟immenso mare della storia e dell‟infinità degli
spazi. Invece sono proprio questi vagiti del Cristo bambino, e il suo grido sulla croce, e la sua
vittoria sulla morte, che danno senso e significato a tutto questo movimento del cosmo, delle
cellule, della natura, dei viventi, che altrimenti non risulterebbe se non, appunto il frutto del
caso e della necessità, del quale si potrebbe dire che non sappiamo che senso abbia. Il tutto,
invece – la nostra fede lo proclama –, è chiamato a diventare unità nel Cristo: solo situando la
passione e la morte di Gesù in questa visione complessiva, è possibile coglierne il suo
significato decisivo; e cioè, la passione e la morte di Gesù, il trionfo dell‟amore, il trionfo della
dedizione, rappresentano ciò che significa tutto questo sviluppo, ciò che dà la regola e la
ragione di essere, ciò che definisce il fine e il valore. Quando abbiamo questa chiave di lettura,
del Cristo crocifisso risorto, allora possiamo capire tante cose, anche sapere chinare il capo
davanti a tanti misteri della storia, di fronte a tante sofferenze del cosmo e dell‟umanità.
Pensiamo a quante sofferenze per lo tsunami, per i terremoti… Non abbiamo una
ragione di queste cose, non possiamo neanche facilmente trovarla, però possiamo
comprendere che tutto il mistero di questo sviluppo del cosmo e dell’umanità, con le
sue sofferenze, con le sue passività, è nelle mani di Dio, è già nel Cristo crocifisso e
risorto la chiave di riferimento e la certezza che tutto questo ha un senso e avrà un
fine giusto e vero. Quindi anche tutta la storia umana con tutte le sue assurdità, tutte
le sue crudeltà, dovrà alla fine far trionfare l’amore di Cristo, la verità di Cristo,
l’unità del genere umano, la capacità degli uomini di ritrovarsi in un’armonia che sia
il riflesso dell’armonia della Trinità.
E la nostra grandezza, la nostra nobiltà, è di essere chiamati a partecipare a questo divenire
dell‟universo, cioè a contribuire con le nostre attività, e anche con le nostre passività, a questo
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divenire del Cristo totale, perché tutto è nelle mani di Dio, noi non comprendiamo sempre tutti
i momenti di passaggio, ma abbiamo nel Cristo crocifisso e risorto, la certezza che tutto questo
ha un senso e avrà un fine giusto e vero. Ed è qui che ciascuno di noi è chiamato a trovare la
propria vocazione e la propria missione, giorno dopo giorno, senza pretendere di dominare gli
spazi senza limiti che ci ha stanno davanti, ma sapendo che noi ci affidiamo a Dio e che Dio
conduce tutto questo verso la piena vittoria di Cristo, verso il Cristo totale, che consegna
questo mondo al Padre, per l‟unità e per la trasparenza piena di tutte le creature nell‟unità del
Creatore quando Dio, come dice Paolo: “Dio sarà tutto in tutti”. Qui ciascuno di noi è chiamato
a trovare, a capire la propria vocazione, la propria missione, magari molto piccola, però certa,
giorno dopo giorno, lasciando al mistero di Dio ciò che riguarda il futuro dell‟umanità, della
Chiesa, ma con la certezza che tutto si volgerà al bene per coloro che Dio ama, cioè per
l‟umanità, e che quindi alla fine il Cristo sarà pienamente vittorioso”.
Ecco, questa concezione del tempo è certamente qualcosa che è molto più complesso nella
nostra civiltà e cultura che al tempo di S. Pietro, proprio perché la nostra visione del mondo si
è complicata e si è allargata; ma rimangono – e concludo con queste parole –, le affermazioni
con cui Pietro conclude la sua prima Lettera, là dove dice: “Umiliatevi sotto la potente mano di
Dio perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione perché egli
ha cura di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamato alla sua gloria eterna in Cristo,
egli stesso vi ristabilirà dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi, a lui
la potenza nei secoli. Amen”. E così concludiamo la nostra riflessione mettendo queste nostre
certezze e incertezze, queste nostre sicurezze e insicurezze, nelle mani di Dio, perché così
siamo chiamati a camminare e così siamo chiamati a servirci gli uni e gli altri nelle necessità di
ogni giorno, con la certezza però che il disegno di Dio è infinitamente più grande ed è
infinitamente più bello di quello che possiamo immaginare, e che un giorno avrà la sua piena
manifestazione gloriosa. E quindi concludo ringraziandovi ancora una volta per la vostra
attenzione e pazienza. Preghiamo ora il Vespro per concludere con la preghiera della Chiesa.
APPENDICE
Omelie alle Sante Messe
Giorno 1
18/09/2006
Lunedì della XXIV settimana T.O. II
Letture: 1Cor 11,17-26; Sal 39/40; Lc 7,1-10
Dicevamo che questa Eucarestia è il centro della nostra giornata e il punto nodale, l‟origine di
tutto ciò che facciamo di bene. Tuttavia dobbiamo tenere presente il fatto che la prima lettura
ci ricorda che l‟eucarestia non è automatica, non ottiene automaticamente il risultato di guarire
una comunità. Anzi una comunità imperfetta e divisa, praticamente, costruisce una eucarestia
a sua immagine. Così la comunità di Corinto, con le proprie divisioni, con le sue piccole
ambizioni, pretese, rovinava l‟eucarestia: l‟eucarestia non era capace di costruirsi una
comunità. Dunque non è l‟eucarestia che conta come tale, cioè il ripetere formalmente le
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parole e i gesti di Gesù, ma è assimilarli profondamente, cioè, come lui ci ha detto, “fare in
memoria di lui”, cioè imparare a donarci, a preoccuparci degli altri, a dimenticare noi stessi.
Allora in questo senso l‟eucarestia forma una comunità. E quando voi sarete responsabili di
una comunità, dovrete sempre ricordare che è possibile che l’eucarestia formi una
comunità in senso positivo, ma è anche possibile che una comunità riduca
l’eucarestia alle proprie misure e la “sporchi”, per così dire, la inquini con la sua
iniquità. Perciò non basta l‟eucarestia per assicurarci della verità del nostro cammino, ma
deve essere un‟eucarestia vissuta nella verità: mangiando e bevendo veramente il corpo del
Signore, assimilando dentro di noi la sua vita, la sua dottrina, diventando, in altre parole –
come cerchiamo di vedere in questi giorni –, veri discepoli di Gesù come Pietro, quindi vivendo
seriamente il nostro discepolato del Signore, allora anche l‟eucarestia produrrà i suoi frutti e
susciterà una comunità a immagine del dono stesso di Gesù.
La parola evangelica ci colpisce, perché Gesù riconosce, ammirato, che neanche in Israele ha
trovato una fede così grande. Che cosa ha visto Gesù, che lo ha colpito in questo modo? Gesù
ha colto nel centurione qualcosa della bellezza di quella religiosità che abbiamo chiamato
“pagana”, ma che forse meglio chiameremmo “religiosità naturale”, che, appunto, porta ad un
grande rispetto di Dio, ad una grande riverenza verso di Lui, ad un abbandono totale a Lui.
Invece, da parte degli ebrei, qui Gesù verifica come la loro religiosità, che pure doveva portare
a una familiarità semplice e umile con il Signore, li portava invece quasi al senso di possesso
del Signore e dei suoi doni, e quindi a poterne usare, a potersene servire a loro piacimento.
Chiediamo perciò al Signore di penetrare il senso di queste due religiosità che abbiamo cercato
di cogliere questa mattina con l‟aiuto di Pietro: la religiosità che sente profondamente quanto
Dio si impegna con l‟uomo, quanto Dio si mette dalla nostra parte, quanto Dio fa per noi,
quanto Dio desidera entrare in comunione con noi, ma riceve questa come dono, con umiltà,
non come possesso, come diritto o come privilegio; e dall‟altra la religiosità che vive la
riverenza, il timore, il rispetto per la maestà di Dio, e quindi non interviene a turbare la
preghiera con forme di banalità, con forme di quasi corruzione della preghiera stessa, che le
tolgono il sapore, il gusto, la bellezza, la libertà e la trascendenza.
O Signore che hai ammirato la fede del centurione, che l‟hai ammirata così da poter dire che
neanche in Israele hai trovato una fede così grande, insegnaci Tu questa fede che, da una
parte, riconosce il tuo desiderio di amicizia profonda, e insieme mantiene un rispetto e una
venerazione grandi: così anche la nostra eucarestia sarà vissuta nella verità.
Giorno 2
19/09/2006
Martedì della XXIV settimana T.O. II
Letture: 1Cor 12, 12-14. 27-31a; Sal 99/100; Lc 7, 11-17
Da quando mi trovo a Gerusalemme, cioè dal 2002, tutti gli anni sono solito fare i miei esercizi
spirituali recandomi al monte Tabor, e di là, dalla parte che guarda verso sud, si vede a pochi
chilometri di distanza il luogo dove c‟è la piccola città di Nain; che è appunto questa cittadina,
ricordata una volta sola nel NT in questo passo di Luca, dove si ricorda questo atto di
misericordia di Gesù.
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Ma prima di andare a questa narrazione diciamo qualcosa sulla prima lettura, che è un po‟ una
sintesi, l‟inizio e la fine del capitolo XII della prima Lettera ai Corinzi: il tema dei carismi, la
molteplicità dei carismi, che però non deve creare né invidia né volontà di possesso di tutti i
carismi, perché ciascuno ha il suo. E quindi è importante che ciascuno eserciti il suo e sia
contento che l‟altro eserciti l‟altro, e allora c‟è questa fusione, questa unità nel corpo molteplice
del Signore. E dopo aver, appunto, spiegato questo bisogno di rispetto e riverenza attraverso
le scelte di Dio, e accettazione di quelle scelte che Egli ha fatto per noi e per gli altri; S. Paolo,
nell’ultimo versetto, dove dice: “Aspirate ai carismi più grandi”, sta per passare allo
svelamento del segreto del carisma dei carismi, cioè di quello che veramente
comprende la totalità, è alla radice di tutto, cioè la carità. Ricordiamo, certamente,
tutti la pagina in cui S. Teresa di Gesù Bambino racconta come scoprì questa sua
vocazione nella Chiesa, pretendendo di essere tutte le vocazioni.
In questa vocazione c‟è la radice di tutte le altre, e che cosa sia questa carità, come essa sia
concreta, ce lo dice la pagina evangelica, che ha al suo centro la parola: “Ne ebbe
compassione”. Questo esplanchniste greco, che certamente tutti avete presente, che si trova
altre due volte nel Vangelo di Luca (si trova nel capitolo 10, là dove esprime ciò che muove il
samaritano a scendere da cavallo e a fermarsi presso il ferito: ne ebbe compassione, ciò che
non ebbero i sacerdoti, i leviti; e poi si trova un‟altra volta al capitolo 15, là dove dice il motivo
per cui questo padre, che aveva ragioni per sgridare, rimproverare, fare il broncio verso il figlio
fuggito di casa, uscito da casa, che aveva sprecato tutto, il padre si muove a compassione, gli
va incontro). E qui Gesù rivela se stesso, rivela il motivo della vocazione, cioè la compassione
profonda che Gesù ha, anzitutto, verso la sua Chiesa, come per questa madre vedova. Non è
detto il perché, non viene detto se questa madre vedova avesse saputo educare bene questo
ragazzo, e se quindi fosse morto per malattia oppure perché maleducato, lasciatosi andare,
forse perché si era, lui stesso, causato la morte con i suoi disordini, non lo sappiamo. Il fatto è
che Gesù ha compassione di questa madre che piange, come ha compassione della Chiesa,
perché la Chiesa ha bisogno di servitori, di ministri, di persone che gratuitamente si assumano
il compito del Vangelo. La Chiesa, senza la gratuità del ministero, è finita, non c‟è più. La
Chiesa ha bisogno che continuamente si rinnovi questa scelta gratuita, questa offerta di sé per
il ministero, e potrebbe anche avvenire che, appunto, la Chiesa non fosse abbastanza sollecita
e attenda a creare le condizioni, a portare avanti le persone giuste per il ministero. E forse si
potrebbe fare di più. C‟è una grandissima crisi, come voi sapete bene, in tutto il mondo
occidentale. Il magistero della Chiesa forse non ha ancora elaborato le aperture necessarie per
supplire a questa tremenda difficoltà, che in Italia sentiamo meno, ma che in alcune nazioni è
veramente drammatica, che mette i vescovi in situazione di knock-out, di non sapere più come
fare: una diocesi grande come Bruxelles, dove il vescovo ha due-tre seminaristi in tutto, che
cosa farà? Ma così sono molte diocesi del Nord Europa. Ma Gesù ha compassione della vedova
e quindi suscita vocazioni; e voi siete, in quanto siete chiamati, coscienti di essere chiamati,
siete frutto di questo amore misericordioso di Gesù, ed è Lui che vi ha suscitato, e che quindi
vi confermerà, vi seguirà, vi proteggerà.
E c‟è qui anche una regola in generale. È questa centralità della compassione, dell‟affetto, la
regola generale, che vorrei esprimere così: l‟ho letto poco tempo fa in un libro tedesco, di cui
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ricordo bene in tedesco il titolo, è abbastanza espressivo: fühlen – denken - handeln, cioè
“sentire, pensare, agire”. E l‟autore scrive, molto opportunamente, nella prefazione: “Ho dato
questo titolo a tre termini, ma in realtà avrei potuto usare quatto termini: fühlen – denken fühlen - handeln, cioè „sentire, pensare, sentire, agire‟”. Cioè il nostro agire decisivo è
sempre prodotto da un’emozione, da un affetto, non è mai soltanto lo sviluppo di un
pensiero logico. Per muoverci ad agire occorre che ci sia una pulsione affettiva, interiore; e le
azioni più decisive hanno bisogno proprio per questo di maggiore emozione affettiva capace di
scuotere il cuore, di penetrare fin nel fondo delle viscere, come appunto dice la parola
esplanchniste, “ci si mossero le viscere”. E quindi anche il nostro cammino vocazionale, fin
tanto sarà perseverante, fin quanto nascerà da un cuore pieno d‟amore, desideroso di dono, di
gratuità. Non è appunto una scelta puramente logica; anzi, come sapete, ci sono delle
malattie celebrali in cui c’è la perfetta logicità dell’azione da eseguire, ma non si fa
nulla perché non c’è l’affettività, c’è un ostacolo tra l’affettività e l’intelligenza.
Quindi tutte le nostre azioni, soprattutto quelle decisive, nascono dal cuore mosso,
dal cuore coinvolto. E per questo dobbiamo invocare la grazia dello Spirito Santo perché ci
dia sempre, ci riversi questo fervore, questa forza, questa attività, questa emotività, questa
ricchezza di doni, questo desiderio di buttarci, dal quale soltanto nascono le azioni, soprattutto
quelle importanti della storia della Chiesa e anche della storia della civiltà.
Giorno 3
20/09/2006
S. Andrea Kim, Paolo Chong e compagni martiri (m.)
Letture: 1Cor 12,31-13,13; Sal 32/33; Lc 7, 31-35
Colpisce, in questa esaltazione che Paolo fa della carità, una certa disuguaglianza tra
un linguaggio introduttivo e finale molto alto (“Se parlassi le lingue degli uomini, se
avessi il dono della profezia…”, all’inizio, e poi alla fine: “Queste le tre cose che
rimangono”: questo è linguaggio alto), e poi la descrizione della carità molto
modesta, un po’ quasi banale, terra terra (molto meglio ha descritto la carità papa
Benedetto nella sua enciclica Deus Caritas Est; con parole più ispirate ha parlato
della carità, ad esempio, S. Bernardo). Qui S. Paolo sembra ci voglia dire: “La carità è
qualcosa di immenso, però poi concretamente bisogna imparare a vivere in comunità
un po’ difficili, e quindi bisogna sopportarsi, bisogna accettarsi, bisogna essere
pazienti, bisogna non tener conto del male ricevuto”; cioè non è certamente una
descrizione piena della carità ma una descrizione di ciò che deve avvenire in una
comunità ordinaria, in una parrocchia, in una diocesi, in un gruppo: bisogna sapersi
sopportare con pazienza, senza invidia, ascoltare l‟altro, non compiacersi del danno dell‟altro.
Ciò vuole che questa carità, che è così alta, che è così sublime, che è la definizione di
Dio, Deus est caritas, si deve poi esprimere in circostanze quotidiane sempre un po’
difficili.
In qualunque comunità, in qualunque luogo voi vi troverete, troverete gelosie, piccole invidie,
dissensi, diversità di pareri, diffidenze; ebbene, passare attraverso queste cose con animo
sereno, disponibile e cercando di portare il vero: questa è la carità semplice, pratica. Si può
parlare della carità in termini molto alti ma poi, quando si va al dunque, bisogna
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accettare che è nella vita quotidiana e nel fare giorno dopo giorno, ora dopo ora,
contatto dopo contatto, che si esprime concretamente questa carità così alta, così
grande, così immensa, così elevata nella sua origine. E quindi chiediamo al Signore di
esprimerla così: che, in qualunque comunità noi ci troviamo, non mettiamo l‟accento sulle cose
che non vanno, sui lamenti, sulle persone che hanno sbagliato, ma cerchiamo di portare un
aspetto positivo, un giudizio che aiuti a crescere, anche quel poco ogni giorno, ma a crescere.
Questo atteggiamento è simile a quello che il Signore suggerisce nel Vangelo dove parla degli
incontentabili. Sono tanti questi incontentabili: ci sono incontentabili del mondo laico, e per
quanto faccia la Chiesa non va mai bene, e quindi la Chiesa dice: “Se facessimo così avremmo
l‟approvazione…”, ma di fatto c‟è qualcosa più sotto, che fa sì che non si vuol approvare ciò che
fa la Chiesa. Poi ci sono gli incontentabili anche nelle comunità che, comunque vada la
comunità (se si apre, se dà delle possibilità, è troppo aperta; se si chiude impedisce l‟arrivo di
nuove persone), ci sono comunità che si logorano nelle autoaccuse, dicendo: “Voi sbagliate
perché fate così”, “No, siete voi che sbagliate perché fate nell‟altro modo”. Tutto questo però
denota che l‟inquietudine è dentro. E poi c’è l’incontentabilità personale, di chi non trova
mai il posto che gli va bene, la parrocchia giusta, il superiore giusto, il vescovo che
gli conviene, i compagni che gli sono necessari. Allora si cerca di cambiare, ma
l’incontentabilità rimane, perché è qui il dono che il Signore ci deve fare: la
contentezza è dentro, sta dentro di noi, e quindi sta a noi accettare il Signore nelle
forme con le quali ci si presenta quotidianamente e valorizzare tutto ciò che di bene
(ed è molto) c’è nella quotidianità, correggere certamente gli errori, ma non
diventare quegli incontentabili che sognano sempre un’altra situazione un altro
luogo, un altro modo, un’altra pastorale, nella quale allora sì che si farebbe, e si
otterrebbe; e intanto non si fa quello che è possibile davanti a noi. E soltanto chi fa ciò
che è possibile, può allora mutare certe cose, e avere certi programmi, e arrivare a certi
risultati; ma perché parte da una serenità di fondo, da una contentezza sostanziale.
Alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli, coloro che veramente amano la sapienza
sanno che Dio, in ogni cosa, dispone le realtà per il nostro bene, e ci permette di approfittarne,
di trarne frutto e di trarne frutto per altri. Così noi potremo vivere la prima e la seconda
vocazione, se c‟è, vivremo, in ogni caso, comunque, come dice Paolo nel discorso di Mileto,
testimoniando, rendendo testimonianza alla grazia e alla misericordia di Dio, questo è ciò che
ci viene chiesto in qualunque circostanza e che è possibile in qualunque circostanza.
Giorno 4
21/09/2006
S. Matteo Apostolo ed Evangelista (f.)
Letture: Ef 4,1-7.11-13; Sal 18/19; Mt 9,9-13
Questa è una buona occasione, quella della festa di S. Matteo Apostolo ed Evangelista, per
ringraziare il Signore, anzitutto per il dono del vangelo di Matteo, qualunque sia la connessione
tra questo Vangelo e la figura dell‟Apostolo, perché è certamente un Vangelo straordinario: è
quello più commentato nella Chiesa antica, quello – in qualche maniera – più completo, che ci
dà il discorso della montagna, il discorso in parabole, quello da cui abbiamo attinto e
attingiamo per la nostra formazione. Saremmo molto più poveri se non ci fosse questo Vangelo
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secondo Matteo. Quindi ringraziamo Dio di questo dono, dato alla sua Chiesa, alle nostre
generazioni, questo dono che ancora ci fa vibrare di emozione sentendo, quasi, risuonare in noi
le parole stesse di Gesù.
E poi ringraziamo anche il Signore per la chiamata di Matteo, perché il Signore ha certamente
superato dei pregiudizi chiamando un pubblicano, chiamando qualcuno seduto al banco delle
imposte, e qui viene a taglio uno dei pensieri espressi nelle vostri dialoghi con Pietro, che
appunto gli domanda: “Pietro, che cosa hai sentito quando ti sei visto messo insieme con il
pubblicano Matteo? Che cosa hai provato, dato che apparteneva a una categoria poco stimata,
poco apprezzata, anzi tenuta da parte?”. Ma credo che la risposta la dia Gesù stesso, Gesù
stesso che, non solo chiama Matteo, ma siede a mensa a casa sua con molti pubblicani e
peccatori. Gesù mostra la sua volontà di essere il misericordioso e rende presente nella storia
la misericordia del Padre, non solo come abbiamo visto ieri con i miracoli di misericordia, di
guarigione, ma anche con i banchetti: quante volte, soprattutto nel Vangelo di Luca, ma anche
negli altri Vangeli, si vede seduto a tavola; e questa convivialità è un segno dell‟essere tutti
invitati da Dio, a prescindere dai nostri meriti, a mangiare il suo pane, a vivere della sua vita.
Gesù stesso qui si spiega, con questo gesto clamoroso, che crea la critica dei farisei, e che
però permette a Gesù di precisare il senso della sua missione: “Non sono venuto a chiamare i
giusti ma i peccatori”. Anche quando Pietro si trova peccatore, trova che Gesù è venuto per lui,
e anzi conosce ancora meglio quel Gesù che è venuto per i peccatori. Ogni volta che noi
verifichiamo in noi stessi disordini, mancanze, peccati, cogliamo che Gesù, per così dire, trova
gusto nell‟essere medico, nell‟aiutare le nostre ferite, nel cucire e nel mettere a posto le ossa
rotte. Dobbiamo guardare a Gesù come a Colui che viene per medicare, confortare, mettere in
ordine un‟umanità disordinata e selvaggia. E questo gli dà gloria, in questo egli compie la sua
missione, si sente a posto, e perciò noi siamo i primi beneficiari di questa azione e, di
conseguenza, come Pietro, una volta perdonati, possiamo più facilmente perdonare e
comprendere gli altri. Quindi questo episodio è veramente molto importante per designare chi
è Gesù, che cosa vuol fare, qual è il suo rapporto con noi.
La prima lettura è stata messa probabilmente qui per ringraziare Dio del ministero degli
evangelisti, quindi per riconoscere che Dio ha fatto tanti doni alla sua Chiesa, tra cui anche il
dono di coloro che ci hanno tramandato i Vangeli, che li hanno scritti, li hanno trasmessi. Ma
vorrei, di questa prima pagina, soprattutto sottolineare una parola finale, misteriosa, che io
non ho ancora capito bene ma che ci orienta, ci dice l‟autore della lettera, a capire che c‟è tutta
questa attività nella Chiesa per edificare il corpo di Cristo. Il corpo di Cristo è ancora da
edificare, finché arriviamo tutti all‟unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio: quindi
non ci siamo ancora a questa unità della fede e unità della conoscenza. Probabilmente si pensa
qui a quella che è la vittoria finale di Gesù, in cui tutti saranno uniti nella fede e nella
conoscenza: tutti quindi si conosceranno, si accoglieranno, si ameranno, si avrà una nuova
umanità trasparente, unita, fraterna, e quello sarà lo stato di uomo perfetto di Gesù. Gesù non
è ancora al suo stato di uomo perfetto: noi siamo suoi collaboratori perché questo stato venga
raggiunto. “Nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo”, qui non è reso, mi pare,
probabilmente bene il termine greco pléroma, questa parola misteriosa, che appare soprattutto
nelle lettere pastorali, e significa “quella pienezza definitiva in cui Cristo riassume in sé ogni
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cosa e Dio è tutto in tutti”. Questa è la vittoria finale, alla quale noi ovviamente collaboriamo, e
quindi dobbiamo sapere che siamo incamminati verso questa vittoria, verso questa pienezza,
questa è la nostra speranza, che tocca tutti gli uomini. Possiamo e dobbiamo sperare per tutti,
come diceva Von Balthasar, perché Cristo deve regnare incondizionatamente su tutti, su tutta
l‟umanità, su tutti i tempi. E, perciò, insieme con S. Matteo, offriamo ora il nostro servizio,
perché si compia questa grande speranza di una umanità perfettamente unificata in Cristo, una
umanità nella quale il regno di giustizia, di amore, di pace, si manifesti in tutta la sua pienezza.
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Giorno 5
Venerdì della XXIV settimana T.O. II
22/09/2006
Letture: 1Cor 15,12-20; Sal 16/17; Lc 8,1-3
Ogni Messa, ogni Eucaristia, è un rendimento di grazie, ma questa messa in particolare è un
rendimento di grazie per le grazie ricevute in questi giorni, e quindi conclude questo cammino
degli esercizi, anche se avremo poi una riflessione oggi sul tempo, soprattutto sul futuro.
Ringraziamo Dio anzitutto perché ha fatto di noi un numero mitico, il 120: sono coloro su cui è
disceso per la prima volta lo Spirito Santo, e quindi siamo stati anche in questo in qualche
maniera inseriti nel mistero di grazia del Signore dalla quale è nata da Chiesa.
Poi lo ringraziamo per tutto ciò che ci ha dato in tutti questi giorni. Io l‟ho molto ringraziato
perché sono stato molto contento di essere stato in mezzo a voi, mi ha molto commosso,
edificato, aiutato la vostra fedeltà nella preghiera, il vostro silenzio e anche le storie che ho
ascoltato di tanti di voi, ricche di grazia di Dio, ricche di avventure, ricche di sorprese, di
entusiasmo; e quindi sono stato confortato e riconfermato, aiutato anche dal vostro
entusiasmo, dalla vostra generosità nel servire Dio, nel fare per lui gratuitamente dei passi
decisivi e gravi, che non si fanno se non c‟è dentro un grande fuoco.
Ringrazio Dio per l‟amore dimostrato verso il Signore. Lo ringraziamo anche per tutti i superiori
che sono stati con noi: per il Rettore, per tutti coloro che vi hanno assistito in questi giorni. Lo
ringraziamo per questa casa che ci ha ospitato, per questo luogo bello, silenzioso, solitario. Gli
siamo dunque riconoscenti per tutto ciò che Egli ha fatto per noi, e anch‟io vi ringrazio per i
ringraziamenti che mi avete fatto pervenire attraverso i vostri colloqui con Pietro.
Siamo ora in questa eucaristia di fronte a due testi importanti del NT: anzitutto quello della
prima Lettera di S. Paolo apostolo ai Corinzi dove, in un capitolo di grande rilievo, che citeremo
anche oggi pomeriggio, insiste con forza sulla centralità della risurrezione di Gesù, sulla
connessione di questa risurrezione con la nostra risurrezione, e quindi ci invita a guardare al
futuro, alla pienezza dei tempi. C‟è qui una frase che mi ha sempre fatto una qualche difficoltà,
sulla quale ho riflettuto molto, là dove dice, nella descrizione di questa risurrezione dei morti:
“Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere
più di tutti gli uomini”. Io avevo qualche difficoltà per questa frase perché, anche se avessimo
avuto speranza solo per questa vita, avremmo vissuto secondo valori, secondo ideali molto
alti, e quindi sarebbe stato un grande dono di Dio: perciò non capisco. Senz‟altro qui Paolo
paragona alla pienezza della verità, ma, in realtà, se guardiamo tante persone che vivono alla
deriva, che vivono con la vita lacerata interiormente tra desideri contrastanti, noi siamo
fortunati, perché possiamo vivere per motivazioni alte.
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Questo però non è soltanto che l‟inizio della pienezza di vita nella quale queste motivazioni alte
ci introducono, e quindi ciò che non vediamo, ma che tocchiamo e viviamo è molto più grande.
Questa speranza in Cristo è qualcosa che non è immaginabile, ma che riempirà la nostra
esistenza e riempirà l‟esistenza del mondo, dell‟umanità intera. Quindi chiediamo la grazia, con
S. Paolo, di saper guardare a questi orizzonti e a questi ideali, di non fermarsi soltanto ai
momenti passeggeri della Chiesa, ma di guardare ad essa come la guarda Gesù, come ha
guardato gli apostoli, in un momento in cui l‟umanità va verso la sua pienezza, il suo pléroma,
e a cui noi siamo chiamati a dare il nostro contributo, perché allora nessuna azione per quanto
piccola che noi compiamo viene ad essere senza valore, ma tutto è preso da Dio e tramutato in
quella pienezza che soltanto possiamo immaginare, appena, diciamo, averne una qualche
intuizione, ma che supererà ogni nostra attesa, ogni nostra speranza. Per questo, appunto,
rinnoviamo la nostra adesione, la nostra fiducia piena in Dio, e voi che recitate spesso la
giaculatoria tanto cara al beato Giovanni XXIII, “Madre mia fiducia mia”, ecco, sappiate
chiedere ed ottenere dalla Madonna questa fiducia totale del Signore, che porta l‟universo alla
sua pienezza. Quindi questa prima lettura ci apre grandi orizzonti.
La seconda lettura discende poi al concreto, all‟immediato, e ci fa capire intanto che Gesù
facevano una vita itinerante, cioè non era mai schiavo di nessuna abitudine, e la sua vita era
molto precaria, molto soggetta a sorprese, come appunto per chi viaggia molto; allora viene
accolto bene o viene accolto meno bene. La vita di Gesù è stata appunto una vita che ci ha
indicato come l‟avventura è bella: il non legame ad abitudini, a possessi predeterminati, ci
libera il cuore e ci apre verso grandi orizzonti. Quindi dobbiamo, con Gesù, amare l‟avventura,
amare le sorprese, e lasciarci guidare da Dio là dove egli ci porterà.
In questa visuale della vita itinerante di Gesù, sono ricordati i Dodici, che hanno accettato di
partecipare a questa vita incerta e avventurosa, e sono ricordate per l’unica volta nei
Sinottici queste donne che seguivano anch’esse Gesù, e quindi facevano anche vita
itinerante, alcune molto importanti per la Chiesa primitiva: certamente Maria di
Magdala, e sarebbe interessante alcune volte meditare su questa figura che ha avuto
grande importanza per la Chiesa e anche per la tradizione, non solo per le ultime
opere dedicate a lei, un po’ diciamo fuori “della grazia di Dio”, ma perché la Chiesa
ha questo di potenzialità e di dono, di uscire da se stessi, di superamento
dell’ordinario. Maria Maddalena è proprio l’immagine di questa uscita di se stessi per
dedicarsi totalmente al Signore. Oltre a lei ci sono tante altre figure che ci mostrano come
Gesù aveva questo contatto con le donne e si faceva servire anche da loro, e probabilmente
non viveva una vita di estrema povertà, perché queste persone erano abbastanza facoltose
(alcune di loro), e quindi lo aiutavano e facevano sì che potesse sopravvivere con il gruppo dei
Dodici, anche se era esposto sempre ad imprevisti: poteva trovarsi appunto senza casa, senza
luogo in cui abitare, senza cibo sufficiente, come gli apostoli nel giorno di sabato in cui ci
parlano i Sinottici; altre volte disponevano di possibilità reali, quindi non era una vita, quella di
Gesù, puramente, diciamo, da idealizzare nella povertà assoluta: Gesù viveva l‟una e l‟altra
possibilità, viveva con l‟incertezza di chi si è affidato a Dio solo, con la fiducia che il Signore, il
Padre, lo aiutasse e lo sostenesse, e anche gli fosse dato il sostegno.
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Questa è anche un po‟ la vita del prete diocesano: non è appunto una vita, diciamo, puramente
legata alla povertà assoluta – ci sono state nella Chiesa, credo, delle esagerazioni intorno al
valore della povertà in sé quasi fosse una specie di valore assoluto –; no, è un segno di libertà,
però permette anche di potere godere delle cose di questo mondo e di condurre una certa
austerità e ordine secondo una certa misura, ma non ci rende degli asceti, staccati dal mondo.
Non siamo come Giovanni Battista, dobbiamo anche recepire, saperci muovere tra le cose di
questo mondo.
È importante, anche molto importante, e qui ce lo fa capire questa pagina evangelica, il
rapporto del prete con le donne. È un rapporto che tocca tanti aspetti della nostra esperienza,
perché le donne sono quelle più numerose nella Chiesa, spesso quelle più generose, quelle che
servono con tanta disponibilità, con tanta gratuità. Un tempo evidentemente si pensava
soprattutto al pericolo che costituiscono per il prete celibatario, oggi forse si è passato al senso
opposto dicendo che, tutto sommato, non c‟è nessuna precauzione da avere. Credo che anche
qui il giusto mezzo sia importante. Bisogna stimare molto le donne come collaboratrici,
ringraziare Dio per quelle che generosamente ci aiutano, e sapere dare loro quella giusta
riconoscenza che si attendono, e sapere anche capire la loro eccessività nell‟espressione dei
sentimenti, della gratitudine, del legame, e appunto però sapendo come dare queste cose non
è facile. Credo che qui stia appunto una delle maggiori difficoltà della vita del prete diocesano
– il religioso è in qualche modo in una situazione un po‟ diversa –, di sapere accettare,
apprezzare, favorire la collaborazione, mantenendo la libertà di cuore e di spirito. E con questo
possiamo e dobbiamo ringraziare tutte le donne che il Signore ha messo sul nostro
cammino, per l’aiuto che abbiamo ricevuto da loro, la loro generosità, la loro
gratuità, la loro capacità di esprimere appunto quel fiore del Vangelo e appunto il
dono di sé senza risparmio e senza calcolo. Gli uomini, i maschi, sono più calcolatori,
subdoli; la donna in genere è più facile a donarsi e per questo va capita, va rispettata, e anche
alimentata a stare nella giusta linea del Signore che ci ha voluto dare questo richiamo
attraverso questo Vangelo perché nella nostra vita quotidiana, soprattutto come preti
diocesani, noi avremo molti di questi contatti. Quindi dobbiamo davvero lasciarci aiutare dallo
Spirito perché siano secondo il disegno di servizio della Chiesa e di servizio nell‟autenticità di
cuori liberi e dedicati al mistero di Dio, quel mistero appunto, che, nella prima lettura, ci è
stato ricordato nelle sue dimensioni senza limiti, nelle sue aperture eterne, alle quali chiediamo
al Signore di prepararci giorno per giorno.
Hanno collaborato:
Andrea Busia, Matteo Vinti, Enzo Sarracino, Andrea Simone Sr., Nicola Cavallaro, Pino
Pulcinelli.
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