Benvenuti a tutti,
siamo arrivati a Milano, nel cuore della nostra Lombardia,
nella sua capitale, dopo aver attraversato tutta la regione dai
monti ai laghi alle valli e alla sua pianura, in un percorso di
quattordici congressi territoriali e diciannove di categoria che
ha visto la grande e convinta partecipazione di un gran numero di attivisti, delegati e operatori sindacali.
È con viva gratitudine che mi rivolgo a quanti hanno partecipato a questo nostro percorso, a partire dai delegati, dagli
attivisti, e sino alle associazioni e ai rappresentanti istituzionali,
la cui presenza a tutti i nostri congressi ha reso evidente il forte
insediamento sociale della nostra CISL.
Anche limitandoci ai soli congressi delle unioni territoriali e
delle federazioni regionali di categoria, senza cioè contare gli
altri numerosissimi appuntamenti preparatori nei luoghi di lavoro e nelle leghe dei pensionati, in questi ultimi tre mesi abbiamo incontrato quasi diecimila persone.
Devo dirvi che avendo partecipato personalmente e con
la segreteria a tutti questi appuntamenti, abbiamo avuto conferma dell’alto livello della partecipazione alla vita democratica della nostra organizzazione per il numero di partecipanti ai
nostri appuntamenti, e sopratutto per la qualità del dibattito;
vista la situazione precaria di molte realtà aziendali e lavorative da noi rappresentate, i congressi avrebbero potuto prendere una deriva rivendicativa, e invece abbiamo trovato un clima diverso, quasi che le difficoltà abbiano stimolato a fondo
la nostra capacità riformatrice, la nostra attitudine alla ricerca
di soluzioni articolate ai problemi complessi del nostro tempo.
Senza fretta, poiché le emergenze dell’attualità sono oggi
davvero pressanti, crediamo che si dovrà seguitare a ragionare su questa stagione congressuale lombarda che oggi si
completa con il congresso regionale.
La prima veloce lettura che possiamo dare a questa voglia di partecipare è che in Lombardia, nelle Cisl della Lombardia, emerge un gruppo dirigente attento e determinato; attento ad ogni dettaglio delle trasformazioni in atto, al riflesso
che la crisi proietta su ogni settore e su ogni lavoratore, e determinato a ritornare protagonista nella costruzione condivisa,
nella elaborazione.
Perché, anche se talune decisioni dovranno essere prese
a livello internazionale, la via d’uscita dalle difficoltà presenti
non potrà essere calata dall’alto, e molto dovrà crescere dal
basso, a cominciare dalla ricostruzione della fiducia.
È emersa insomma la natura profonda del nostro sindacato, di una Cisl della partecipazione che prima di pretendere
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dall’impresa o dalla società, vuole praticare la partecipazione
al suo interno, a partire dai suoi organismi.
È chiaro che attraverso una partecipazione così attiva,
concreta in tutte le sue forme - compresa quella, non secondaria, del voto segreto di tutti i nostri organismi - non solo ci
sentiamo molto distanti da tante rappresentanze virtuali, ma
anche gelosamente diversi da quelle plebiscitarie e sentiamo il
dovere e la responsabilità di esercitare il mandato affidatoci
non a colpi di referendum ma attraverso scelte che assumano
e rispondano agli interessi che siamo chiamati a rappresentare
facendo la nostra parte e mettendoci la faccia, non solo la
voce.
I demagoghi vecchi e nuovi dei referendum sanno quanto le scelte che hanno dato futuro nella nostra regione e in
ogni singola comunità abbiano dovuto superare tante quotidiane resistenze che offuscavano la prospettiva.
Noi siamo quelli della partecipazione, non dei veti.
Vogliamo attrezzarci per il domani, vogliamo conquistare
parti di rappresentanza nei consigli di sorveglianza - a partire
dai servizi essenziali ma non solo - perché pensiamo sia
nell’interesse comune far sentire anche lì la voce e le proposte
di chi nel sociale ci sta davvero.
Oggi il sistema duale è stato ridotto a un problema di pesi
e contrappesi tra azionisti, ed è stata snaturata una duplicità di
ruoli che dovrebbero invece assolvere a funzioni assolutamente differenti: al consiglio di gestione la responsabilità della gestione economico-industriale, e ai consigli di sorveglianza la
rappresentanza di tutti gli interessi eccedenti il business, tra i
quali la pubblica utilità.
Quello è il nostro approdo naturale, più che nei “comitati
del no”; la nostra è una disponibilità attenta a tutti i sentire, disponibile al confronto con tutti, e mai assecondante “a prescindere”.
In questi mesi è difficile essere ottimisti, e semplicemente
trasporre il sentire che emerge dalle difficoltà rischia di allontanare da quel sano realismo che permette di non cedere al
pessimismo.
Sfogliando un giorno a caso le prime pagine dei quotidiani si raccolgono titoli impegnativi, temi drammatici:
La sfiducia della “Generazione 700 euro” che talvolta sfocia nell’ “Ho perso il lavoro. Mi uccido”; le “Famiglie in fuga
dalla scuola pubblica e a caccia di certezze sul tempo pieno
negli istituti privati”, e i commenti di chi imputa quasi ogni male
a noi… “Il guaio dei sindacati, in tutta Europa, è che ormai da
tempo non si curano più dei poveri, di chi ha veramente bisogno, ma della loro base: pensionati, lavoratori occupati con
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contratti a tempo indeterminato. Per troppo tempo hanno dimenticato giovani, disoccupati, lavoratori precari”.
Ognuno di noi può dire quanto c’è di vero nelle cronache
dei giornali, quanto i titoli ad effetto riflettano la situazione reale.
Volendo esercitarci in una sintesi complessiva dello “spirito
del tempo”, non possiamo non dare ragione a chi ne individua
un tratto distintivo nella paura.
Questa non è certo una novità della modernità, poiché la
paura dell’ignoto e dei cambiamenti è il fenomeno più antico
e diffuso nella storia, e sulla paura sono state costruite fortune
politiche.
Ma vi è un elemento inedito, il fatto che la nostra società
pare abbia liberato la paura dal senso di colpa per trasformarla in un sentimento positivo, in un segno di prudenza o addirittura di saggezza.
Da bambini ci insegnarono che la paura era un sentimento di cui vergognarsi e che diventare adulti significava superare le proprie paure.
Oggi invece non ci si vergogna più della propria angoscia, la si esibisce, la si trasforma in una potente forza aggregante a fondamento di scelte politiche complessive.
Quante volte ad un incontro istituzionale, ad una trattativa, anche noi esordiamo dicendo “… siamo molto preoccupati”. Quasi che l’apprensione fosse il primo gradino per una
effettiva comprensione
Crediamo che oggi, oggi che siamo qui per inaugurare e
progettare la nostra azione per i prossimi quattro anni, ci corra
l’obbligo di riflettere anche su un tema così alto, quasi lontano.
Possiamo permetterci di fondare la nostra azione soltanto
sulla paura? La paura di perdere il posto di lavoro o la casa, la
minaccia dello sfruttamento e del precariato.
Forse ci serve altro.
Noi che conosciamo le paure di tante persone non per
sentito dire, non attraverso i sondaggi, ma per tramite della loro viva testimonianza, proprio noi abbiamo l'obbligo civico di
indicare sentieri percorribili, di suggerire alla mente ed al cuore
dei nostri concittadini le ragioni per cui vale la pena spendersi
e le conquiste a portata di mano.
Perché se molti ripetono che da questa crisi usciremo tutti
trasformati, la natura del cambiamento cui saremo anche noi
soggetti non è frutto del caso o del destino, e non basterà una
generica speranza a fugare la paura.
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L’evoluzione o il regresso della economia e della società
italiana sarà determinato anche dalle nostre scelte, dalla nostra capacità di proiettarci nel futuro, verso ciò che ancora resta da fare e da conquistare.
Dobbiamo alzare la voce, per svegliare le élite economiche ed istituzionali che solo ora stanno prendendo consapevolezza dell’entità della crisi e della profondità delle conseguenze del lavoro instabile ed insicuro.
Crediamo che oggi il valore forte, ciò che può rafforzare
gli elementi di bene comune e la società intera, sia la dignità
del fare quotidiano di ognuno di noi, di ogni lavoratore e pensionato, il cardine della nostra azione è una rinnovata centralità del lavoro per la persona e per le comunità.
La natura di questa crisi è mutevole, le difficoltà sono talmente ampie e generalizzate che rapidamente superano i
confini dei luoghi dove nascono e generano nuove difficoltà in
settori e paesi anche distanti.
Il sistema economico mondiale, oramai compiutamente
globalizzato, è a tal punto intrecciato e interconnesso che la
difficoltà di pagare il mutuo della casa da parte di una ristretta
quota di statunitensi - la crisi dei subprime, così si diceva solo
sei mesi fa, ricordate? – ha generato un problema finanziario di
dimensioni nazionali, poi trasferito a tutta comunità finanziaria
mondiale con il fallimento di Lehman Brothers e di lì – velocemente - all’economia reale, con una contrazione degli indicatori della produzione davvero allarmante.
Gli ultimi dati macro-economici evidenziano la gravità e
profondità della recessione in atto a livello globale, causata
dalla crisi finanziaria e aggravata dal collasso del commercio
mondiale (-13% per il 2009): l’OCSE stima una contrazione media del PIL globale del 2,7% nel 2009, alla quale potrebbe far
seguito, nel 2010, una ripresa dell’1,2%. Più negative ancora
sono le previsioni per i paesi avanzati, dove il calo medio del
PIL risulterà del 4,3%.
Pur pensando che il PIL non sia più l’unico metro per misurare lo stato di salute di un paese, non c’è da stare allegri.
Ai dati resi pubblici da uffici studi e istituti di ricerca si aggiungono poi, a completamento del quadro, anche altri segnali preoccupanti: la CES ha stimato che nei paesi balcanici
candidati ad entrare nell’Unione Europea (Croazia, Serbia,
Montenegro, Albania e Macedonia) nei soli ultimi 3 mesi c’è
stato un incremento del lavoro nero pari al 44%.
Questo significa una cosa precisa: che dove il tessuto sociale è più debole, a causa della crisi saltano le regole, viene
spezzata la catena del valore e soprattutto quella delle tutele.
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La crisi del ‘09
Avviene cioè esattamente il contrario di ciò che tutti dicono in
ogni dibattito, che “dalla crisi usciremo migliori”, che “servono
più e nuove regole”
È infine notizia di queste settimane la criticità della tenuta
sociale nella zona Euro, secondo il parere di organismi internazionali solitamente cauti.
È preoccupante dover assistere alla stima dell’OCSE che
prevede la disoccupazione in crescita sino al livello del 12% in
Europa! È un completo stravolgimento di scenario, rispetto agli
obiettivi immaginati soltanto pochi anni fa dall’Unione Europea
con la strategia di Lisbona.
Allora si immaginava non solo la piena occupazione, almeno in Lombardia, ma anche che la storica penalizzazione
tipica del nostro paese rispetto all’occupazione femminile e
giovanile potesse tendere ad allinearsi agli standard europei.
Ora cosa resta di quegli impegni?
Tutto verrà rimesso in discussione poiché, come qualcuno
già comincia a dire, siamo alla fine dell’epoca liberista; come
ha affermato Joseph Stiglitz “Per il liberismo fondamentalista la
caduta di Wall Street equivale a ciò che è stata la caduta del
muro di Berlino per il comunismo: dice al mondo che questo tipo di organizzazione economica si è rivelata non sostenibile”.
Chi avrebbe potuto e dovuto vigilare si è accorto, forse
un po’ tardi, che l’economia di mercato non ha funzionato
come i suoi sostenitori annunciavano e non ha fatto quello che
avrebbe dovuto fare: non ha gestito il rischio naturalmente insito nei mercati ma lo ha invece creato, moltiplicato e, ed è la
cosa più grave, lo ha nascosto nelle pieghe di prodotti finanziari che avrebbero dovuto invece esserne esenti.
Il risultato è che ora ci troviamo in una situazione quasi
post-bellica: se si pensa che il solo “Piano Paulson”, elaborato
a fine 2008 dall’amministrazione statunitense per contrastare la
tempesta finanziaria, vale - se attualizzato ad oggi - dieci volte
il “Piano Marshall”, si può capire le dimensioni del fenomeno
con cui dobbiamo confrontarci.
In questa fase, prima di apprestarsi a progettare come
uscire dalla crisi, è importante avere le idee chiare sulle sue
cause.
L’analisi condotta dall’amico Alberto Berrini è il nostro
punto di partenza: la crisi ha una natura endogena, nasce
cioè all’interno del sistema e non è originata da scandali o da
shock esterni. Il primo elemento è il già citato trasferimento improprio del rischio.
Ma c’è anche un elemento più scomodo alla base del
crollo, e pochi tendono a ricordarlo perché è il più impegnati-
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vo ed affrontarlo significa davvero cambiare paradigma, accedere ad un modello economico differente.
È l’indebitamento delle famiglie, provocato da una iniqua
distribuzione del reddito a livello mondiale, che negli ultimi anni
ha premiato profitti e rendite a discapito del lavoro.
Salari al ribasso e riduzioni fiscali generalizzate, e dunque
favorevoli ai più ricchi e con conseguenti riduzioni delle prestazioni dello Stato sociale, sono la causa che è alla base della
tempesta che stiamo vivendo.
Non è certo un caso che questa grande crisi finanziaria
sia scoppiata quando la distribuzione del reddito negli Stati Uniti è tornata a coincidere con quella degli anni ’20 del secolo
scorso, prima del New Deal. È questo il vero dato di somiglianza tra il grande crollo del ’29 e la crisi del ‘09.
Ma se, conclude Berrini, la crisi è sostanzialmente una crisi
di domanda e la sua causa è dovuta ad una cattiva redistribuzione della ricchezza prodotta, allora la politica economica
che serve è un maggior equilibrio nella distribuzione di tutti i
redditi. In USA Barack Obama ha chiamato questo principio
spread the wealth, diffondere la ricchezza.
Nel nostro Paese troveremo un altro nome, meno “socialista”, ma è certo che sarà fondamentale il ruolo dell’iniziativa
sindacale, perché essa ha una duplice valenza: da un lato è
legittimata dalle giuste aspirazioni del mondo del lavoro, troppo a lungo compresso e penalizzato, e dall’altro assume un
ruolo economico e sociale fondamentale nel determinare il
riequilibrio tra domanda e offerta che è interesse generale
dell’intera società.
Oltre e più in profondità rispetto alla radicale crisi economico-finanziaria, va gettato uno sguardo anche alle dinamiche demografiche del nostro paese.
Su questo versante si è infatti giunti ad un punto di consolidamento dello scenario, i veloci cambiamenti degli ultimi decenni lasciano trasparire un quadro decisamente mutato e,
purtroppo, in via di assestamento.
Dobbiamo dire purtroppo perché la struttura della società
italiana, per come si sta evolvendo, presenta fragilità profonde
già oggi e in prospettiva, a maggior ragione, nei decenni a
venire.
Si sta verificando quello che gli studiosi hanno chiamato
“effetto clessidra”, per la forma che prende la curva che descrive la stratificazione demografica:
•
la durata media della vita è aumentata, assieme al
grado di salute;
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La variabile
demografica
•
le strutture familiari sono profondamente cambiate,
con un indebolimento ed una abbreviazione dei legami di coppia, una sensibile diminuzione dei figli che
peraltro restano inoccupati per un tempo molto più
lungo;
E a ciò si sommano i ritardi e le rigidità ormai da tempo
strutturali nel nostro paese:
•
la mobilità, soprattutto quella per motivi lavorativi, è
molto più alta rispetto a quella della generazione precedente, ma ad essa non corrisponde una adeguata
mobilità residenziale, a causa di un mercato degli affitti
decisamente rigido, ingessato e penalizzante;
•
né viene previsto il costo vivo della mobilità, che non
trova adeguato corrispettivo in redditi e salari;
Il risultato dell’intrecciarsi di questi fattori è, appunto, la
“clessidra”: molti giovani in età pre-lavoratoriva, molti anziani e
un numero stabilmente decrescente di attivi, di lavoratori
chiamati a sostenere con il proprio contributo un patto tra generazioni ormai sbilanciato, figlio di una società demograficamente piuttosto differente.
Ci sono poi segnali che dobbiamo cogliere e interpretare,
al fine di poter individuare per tempo delle risposte adeguate.
Dobbiamo evitare l’ideologia, ma non possiamo evitare di
dire ciò che sta succedendo: i Centri di Aiuto alla Vita affermano che già «nel 1990 il 23 per cento le donne motivavano
con ragioni economiche la scelta di abortire, e nel 2007 la
quota è salita al 44 per cento».
Provate a immaginare come potrebbe evolvere la tendenza in questi mesi; già arrivano i primi segnali, come l'allungamento delle liste d'attesa: dai sette giorni previsti dalla legge
194 alla Clinica Mangiagalli di Milano si arriva anche a dieci/dodici giorni.
Chi lavora in queste realtà afferma "C'è un'ondata allarmante di richieste che facciamo fatica a soddisfare e la prima
ipotesi che ci viene in mente per giustificarla è la recessione.
Chi fa fatica ad arrivare a fine mese spesso rinuncia a un figlio.
È una triste realtà"
Un altro segnale è la sensibile diversità nelle scelte di orientamento scolastico dei giovani e delle loro famiglie: per la
prima volta in tanti anni, in questi mesi gli operatori registrano
una decisa virata verso corsi di studio “professionalizzanti”.
Meno licei, meno studi universitari e più istituti tecnici.
Sotto la pressione della crisi, si adeguano le ambizioni al
soddisfacimento delle esigenze immediate del nostro sistema
economico ma, nel contempo, si rischia di accentuare una
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stratificazione sociale già decisamente rigida, di rafforzare
un’idea di società di ceti, tendenzialmente immobile.
Il contesto
politico-economico
lombardo
Il sistema economico e sociale italiano, e in primo luogo
quello lombardo, ha però bisogno di aumentare il suo dinamismo, deve assecondare la sua storica capacità di competere
se vuole stare al passo con le aree più dinamiche e innovative
dell’Europa.
Nelle politiche di sviluppo si deve tornare a mettere il sociale accanto all’economico, perché questa è la condizione
fondamentale per costruire un vero patto di tenuta sociale
che permetta di reggere oggi e di proiettarsi in avanti nel futuro prossimo.
La nostra Cisl sa che una parte non irrilevante della competitività delle aziende lombarde coinvolge direttamente i lavoratori, non è solo un problema aziendale e può anzi avere
ricadute positive per tutti gli attori economici.
È però un tema che necessita di una presa di posizione
chiara quanto al metodo: la competitività può essere perseguita sul piano della concertazione o va gestita al livello contrattuale?
La risposta più importante è quella fornita implicitamente
dal DPEF Regionale: com’è detto in premessa al capitolo dedicato alla competitività, “La risposta alla crisi non può essere
reattiva e di contenimento [e] la vera frontiera è porre le condizioni perché il sistema produttivo possa reggere l’impatto del
presente e presentarsi nel medio termine adeguatamente
preparato rispetto ai cambiamenti che stanno avvenendo”,
data questa premessa, ci stupisce il fatto che laddove si tratta
di competitività delle imprese, di innovazione e trasferimento
tecnologico, di industria e Piccole e Medie Imprese, manca
qualsiasi riferimento ad un ruolo di concertazione e partecipazione quale strumento per condividere, costruire e gestire gli
obiettivi.
La scelta di una partecipazione reale e approfondita delle rappresentanze sociali può e deve segnare una svolta metodologica nell’azione regionale, ed è per noi un elemento
fondamentale per creare le condizioni di una rinnovata tenuta
sociale.
Le sfide di domani sono diverse da quelle di ieri; non si
può presumere che aver consultato le parti sociali nel passato,
sia sufficiente a restare aggiornati su ciò che in esse va maturando, soprattutto in tempi di grandi cambiamenti.
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La frontiera del nostro sistema produttivo passa attraverso
degli snodi fondamentali:
•
la mobilità internazionale e intercontinentale, attraverso il sistema aeroportuale lombardo
•
la mobilità interna, con la “guerra” a tre fronti tra
Compagnia Aerea Italiana (CAI), Trenitalia e trasporto
locale;
•
il mesto avvio dell’Esposizione Universale, nel quale il
nostro paese sta dando un’immagine plastica e purtroppo estremamente precisa del grado di confusione
in cui sta sprofondando (e il “modello lombardo” non
sta certo diventando un esempio trainante);
Si è parlato poco di questi temi nelle relazioni ai nostri
congressi, solo nei territori direttamente coinvolti sono stati affrontati con determinazione.
Crediamo sia un sintomo del fatto che anche noi dobbiamo uscire da un po’ di provincialismo, e che possiamo allargare il nostro orizzonte per provare a volare più in alto.
Le ricadute di queste opportunità – se ben utilizzate – potranno essere positive per l’intero Paese, non solo per Milano o
per la sola Lombardia che, però, hanno indubbiamente
un’occasione in più.
La Regione sta infatti muovendo passi importanti sul
versante delle infrastrutture, passi che coinvolgono tante nostre
unioni; la raggiunta possibilità della cantierizzazione di tre opere quali la Pedemontana, la Brebemi e la Tangenziale Est Esterna Milano (TEEM) è giudicata particolarmente positiva in quanto, oltre a dare una risposta ad annosi problemi viabilistici che
da tempo sono alla nostra attenzione, determina un processo
anticiclico importante in questo momento particolarmente critico.
A questi processi dovremo essere fortemente interessati,
attenti ad approfondire i procedimenti di decisione sulle singole opere e sulla cantierizzazione. Garantire un percorso di contrattazione d’anticipo per la definizione dei capitolati di gara
che tuteli dai rischi infortunistici ed eviti fenomeni di lavoro nero
– come l’accordo raggiunto con Pedemontana - ha rilevanti
conseguenze sulla stessa qualità dell’opera.
Anche relativamente al trasporto pubblico regionale, valutiamo positivamente sia i contenuti che il metodo adottato
per raggiungere l’accordo.
Ora bisogna proseguire speditamente in tre direzioni:
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Malpensa e Linate,
CAI e TrenItalia,
EXPO 2015
•
Verso una trasformazione legislativa dell’accordo, e la
sua integrazione con tutte le leggi in atto (un testo unico);
•
Verso maggiori investimenti in strutture e mezzi, per un
netto miglioramento dei servizi, la cui efficienza ed efficacia deve decisamente migliorare se si vuole soddisfare la crescente domanda di mobilità;
•
Verso una reale integrazione ferro-gomma, sia sul versante dell’offerta dei servizi sia in ordine alla tariffazione
integrata, allineando il servizio alle migliori pratiche europee.
Sulle vicende aeroportuali la nostra valutazione non può
che essere più severa: oltre al fatto di non vedere uno sbocco
positivo alla vicenda di Malpensa, constatiamo un preoccupante rallentamento della premura delle istituzioni, sia della
Regione che del Comune di Milano e delle Province di Milano
e Varese.
È un grosso problema occupazionale, ed è anche una evidente possibilità mancata di generare - attorno all’area aeroportuale di Malpensa - un volano economico con indubbi riflessi sulla competitività e internazionalizzazione di una vasta
area imprenditoriale e economica.
Al di là della presenza mediatica sul tema, le istituzioni non
devono fare da sole; il confronto con il sindacato, lo ribadiamo, è necessario sia per concertare nuove scelte che riportino
sviluppo, sia per gestire al meglio i delicati aspetti occupazionali.
Quanto all’EXPO, crediamo non servano molte parole.
Qualcuno di voi è stato coinvolto, o ha anche solo sentito
parlare di qualcosa che assomigli al merito del tema “Nutrire il
pianeta, energia per la vita”? Qualcuno ha letto cronache
che non fossero sui litigi per il CDA o sui grattacieli di Citylife?
Temiamo che il nostro “no” sia davvero corale, e suggelli il giudizio sulla gestione – sinora davvero deludente - di questo evento potenzialmente davvero importante per tutta la regione.
Vorremmo svolgere un ruolo che vada oltre alla pur importantissima tutela della sicurezza cantieristica.
Come testimoniano le recenti inchieste della nostra categoria di settore, siamo pronti ad affrontare i temi della legalità
connessa alle grandi opere in progetto; abbiamo da spendere
l’esperienza maturata assieme agli amici della Alleanza per la
Locride e la Calabria, la cui sensibilità alle infiltrazioni della malavita e dell’economia grigia è una ricchezza e un insegnamento che dovremo imparare se, come dicono gli osservatori
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più attenti, le nostre terre non sono ormai più esenti da quei rischi.
E faremo tutto il possibile per traghettare nel contesto
dell’Expo anche i bisogni sociali, per permettere risposte, per
far entrare nella “Milano che cambia” i tanti attori sociali interessati a farlo, come rimarcato anche ultimamente in occasione del documento “Sicurezza ed integrazione nel territorio” elaborato dalla Cisl e dalle organizzazioni sociali milanesi.
Fino al precipitare della crisi attuale, l’emergenza condivisa da tutti era la questione retributiva.
A partire dai primi anni ’80 infatti in Italia la quota di valore
aggiunto ridistribuito come reddito al lavoro dipendente è in
continuo calo.
In sovrappiù a questa dinamica, dalla indagine sulle retribuzioni svolta dalla Cisl Lombardia (presentata nella sua forma
più completa nei materiali digitali) risulta che gli aumenti percentuali sono stati direttamente proporzionali alla retribuzione;
ciò significa che chi guadagnava di più ha visto aumentare la
propria retribuzione in misura superiore a coloro che guadagnavano di meno, con un evidente effetto di polarizzazione
della società.
La ricerca non si limita ad evidenziare delle tendenze e
presenta un calcolo puntuale delle retribuzioni dei lavoratori in
Lombardia, confrontate con le medie nazionali ed articolate in
modo dettagliato a secondo dei settori economici di attività,
della qualifica, del titolo di studio, dell'età, della tipologia di
rapporto di lavoro e della dimensione dell’impresa.
Le indicazioni che questa indagine ci fornisce evidenziano
una fatica nel rapporto tra retribuzioni e difesa del potere
d'acquisto, e sono molto importanti per il nostro modo di fare
sindacato:
• la dimensione ristretta della forbice tra i livelli salariali
nella nostra regione rispetto alla media del paese;
• la difficoltà a remunerare meglio i lavoratori a fronte
dei miglioramenti della produttività;
• la crescente presenza di elementi di retribuzione variabili;
• la compressione salariale che si registra in particolare in
alcuni settori;
Sono conoscenze che confermano e meglio definiscono
la questione salariale.
È un lavoro che andrà strutturato e reso stabile, con un nostro Osservatorio che ogni anno metta tempestivamente sotto
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Le retribuzioni
in Lombardia
la lente l'andamento della struttura e delle dinamiche salariali,
e offra innovativi spunti di riflessione per le rivendicazioni sindacali. E analogamente pensiamo che con gli amici della FNP
si possa ideare un corrispondente osservatorio sulle pensioni e
il loro potere d’acquisto.
Ma non possiamo limitarci a studiare, a tracciare il disegno preciso di ciò che sa avvenendo; la “questione economica” dei lavoratori e dei pensionati colpiti dalla mancata rivalutazione va affrontata da subito con una operazione fiscale.
I dati riportati dal documento della Cisl confederale “Per
la riforma del sistema fiscale” dovrebbero interrogare a fondo,
e non soltanto chi rappresenta i lavoratori:
•
il 24% dei dipendenti dichiara un reddito annuo inferiore a 10mila euro, e ben il 31% degli imprenditori si posiziona sotto a questa soglia;
•
entro il limite dei 20mila euro si fermano il 54% dei lavoratori dipendenti e il 67% degli imprenditori;
•
il reddito medio risultante alla Agenzia delle Entrate per
l’anno 2006 è pari a 21.200 euro per i lavoratori dipendenti e a 20.900 euro per imprese e professioni (al netto
dei soggetti in perdita);
A fronte di questi numeri, non servono uscite eclatanti, ma
poche proposte precise, tanta tenacia a sostenerle e a cercare la più ampia condivisione possibile, sia presso i rappresentanti politici e istituzionali che nelle comunità e nei luoghi di lavoro.
Perché se c’è una questione di aliquote, di giustizia distributiva, ancora prima c’è una enorme questione culturale: il fisco deve tornare ad essere percepito da tutti, da tutti, come
un dovere irrinunciabile di impegno civico.
Quando le questioni sono tanto complesse, può un sindacato stare fermo? Può attendere che altri si facciano carico
dello sforzo di avvicinare le posizioni distanti, di esercitarsi nella
mediazione degli interessi?
Se qualcuno è già avviato verso l’Aventino, noi di certo
non possiamo! La Cisl ha deciso diversamente, ha scelto di assumersi delle responsabilità precise.
A partire dalla Lombardia, quando questa crisi era soltanto nella penna di qualche economista lungimirante, abbiamo
sperimentato le nuove forme di tutela degli ammortizzatori sociali in deroga nel settore tessile.
Poi abbiamo condotto una battaglia determinata per
confermare ed estendere quella sperimentazione anche ai lavoratori dei settori scoperti; ora siamo tutti concordi nel difen14
Gli ammortizzatori
sociali
dere quegli strumenti di contrasto alla contrazione del lavoro,
ma tutti ricordiamo quanto altri – sino a pochi mesi fa – nutrissero dubbi forse un poco ideologici e prontamente superati ora
che la situazione occupazionale precipita.
Allo stesso modo speriamo che l’urgenza della crisi porti a
pari risultati sulla bilateralità e sul nuovo modello di relazioni,
perché è il tempo non solo delle intese aziendali particolari,
ma anche del ridisegno complessivo delle relazioni industriali.
Se non ora – ora che lo stesso sistema turbocapitalista non riesce a immaginarsi un futuro, ora che le certezze liberiste degli
ultimi decenni si sono sgretolate – se non ora, quando?
Dobbiamo proseguire la estenuante battaglia che abbiamo condotto per ottenere gli ammortizzatori; non abbiamo
mai mollato, abbiamo coinvolto tutti e si è fatto un pressing a
tutto campo, al centro e sui territori.
Mentre a Roma tentavano tutto per non delegare, noi
abbiamo fatto di tutto per decentrare, perché gli strumenti per
intervenire rapidamente sono indispensabili laddove la crisi si
vede e si contrasta.
La nostra battaglia è stata coerente con quella del modello contrattuale. Per quanti ostacoli dovremo ancora affrontare, non cederemo, e se servirà superare ancora un po’ di
“stato borbonico”, ci muoveremo con decisione.
La contrattazione
e la bilateralità
Quanto alla contrattazione, il sindacato italiano ha oggi
l'occasione di imboccare una nuova strada.
Il recente accordo per la riforma del modello contrattuale
chiude una ricerca durata anni. Manca a questa intesa la diretta adesione della Cgil, che si è auto-esclusa, ma tutti in questo paese sanno che il sindacalismo italiano non aveva tra le
mani una intesa migliore.
Finalmente nella mozione finale del congresso non dovremo scrivere, come già fatto troppe volte, che occorre una
riforma della azione contrattuale e un suo maggiore decentramento.
Questo risultato è stato condiviso e ottenuto, ora occorre
praticarlo.
Abbiamo bisogno che i prossimi rinnovi contrattuali nazionali confermino la possibilità di rinnovare i contratti diminuendo
la fatica negoziale e migliorando i risultati salariali e normativi.
Sarà la miglior risposta a chi ci ha voluto sfidare con solitari referendum.
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Siamo soddisfatti del risultato raggiunto, ma dobbiamo
anche riconoscere che in questi anni ci siamo occupati tanto
delle regole sulla contrattazione ma poco dei suoi contenuti.
Un nuovo slancio alla contrattazione arriverà non solo da migliori regole, ma anche dall'azione delle categorie.
È venuto il momento della dissolvenza, del cambio di scena. Le confederazioni devono fare un passo indietro e le categorie tre in avanti.
Il futuro della contrattazione è legato alla possibilità di dare nuovi contenuti ai temi del salario, dell'orario, delle tutele.
Il futuro della contrattazione è nel suo decentramento: riconoscere ai lavoratori i risultati della produttività e dell'efficienza laddove questa si genera è l'unico modo per dare
gambe solide alla contrattazione.
Vogliamo in Lombardia categorie meno concentrate nel
fare l'analisi grammaticale degli accordi romani e più spinte e
libere nel dare gambe alla rappresentanza e alla contrattazione che le realtà produttive e lavorative lombarde possono esprimere. Vogliamo sostenere una ripresa di confronto e di riflessione. Sogniamo una moltiplicazione di direttivi di categoria
chiamati ad elaborare nuovi contenuti contrattuali, in
particolare verso la contrattazione decentrata.
Orario di lavoro, organizzazione del lavoro, sicurezza, retribuzioni legate a risultati, nuovi sistemi di valutazione delle prestazioni, di remunerazione delle flessibilità, delle disponibilità e
delle professionalità, questi sono i nuovi campi su cui si gioca il
futuro di una contrattazione innovativa e appetibile ai lavoratori.
Oltre a distribuire meglio la ricchezza prodotta ai lavoratori, dobbiamo affrontare il tema della sua creazione che passa
necessariamente dalla sfida della produttività, che non abbiamo paura di affrontare.
Lo sviluppo della contrattazione nel suo insieme non fa
bene solo agli interessi dei lavoratori, ma contribuisce al
miglioramento della competitività delle imprese: più
contrattazione genera più innovazione.
Le Rsu non sono nate solo per curare le bacheche sindacali; esse vivono se contrattano, se confezionano le tutele che
il lavoro moderno chiede. Ottenere, in ogni azienda, il controllo
sui risultati per determinare gli aumenti salariali o la definizione
di nuove regole per la professionalità ha sempre di più un valore decisivo per il ruolo del sindacato.
La dura crisi economica non segnerà la fine della contrattazione. Occorre provare da subito a negoziare gli adattamenti del lavoro per contribuire alla ripresa.
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Quello che la Cisl Lombardia può fare è valorizzare le esperienze e sostenere le innovazioni. Ci proponiamo di intervenire in due direzioni:
•
investire in una vasta campagna di formazione a sostegno dei nuovi contrattualisti, creando una nuova
generazione di sindacalisti abili e innovativi nella contrattazione delle condizioni di lavoro
•
favorire il confronto e il reciproco stimolo tra categorie
delle migliori esperienze di contrattazione e di gestione
partecipativa in atto. In Lombardia possiamo creare
un progetto intercategoriale che permetta di esprimere il meglio della contrattazione sindacale e permeare
tutte le strutture di novità concrete.
Non dimentichiamo che innovazione, partecipazione e bilateralità sono gli assi attorno a cui la contrattazione può crescere e tornare ad essere appetibile per lavoratori che la hanno vissuta in questi anni come un vincolo piuttosto che come
un risultato.
Se il sindacato del terzo millennio deve superare l'esame
di come continuare a contrattare collettivamente in rappresentanza di lavoratori che si sentono sempre più individui, solo
una stagione di contrattazione innovativa potrà dare stimolo e
risposte.
Dobbiamo avere il coraggio di dirlo. La stagione degli
aumenti uguali per tutti non rende più e non ha futuro. Un sindacato che sa articolare le tutele valorizzando e remunerando
il lavoro per quello che è, ha maggiori chance.
Ora che abbiamo dato compiutezza allo slogan che in
tanti facemmo nostro al Centro Studi di Firenze, “Contrattare
sempre, contrattare tutto e, possibilmente, contrattare bene”,
ora che le regole contrattuali sono state riscritte, ora non dobbiamo desistere sulla strada delle riforme utili al lavoro.
Non basta avere un nuovo modello contrattuale se tutti i
giovani che entrano nel mercato del lavoro non ne sono pienamente inclusi, anche a causa dello spezzettamento delle tipologie dei rapporti di lavoro.
Se la precarietà lavorativa genera instabilità relazionale e,
al limite, sociale, allora dobbiamo avere il coraggio e la responsabilità di ricominciare a tessere tutele, incominciando a
ragionare anche su proposte quali il “contratto unico”.
Anche la bilateralità è una sfida che vogliamo assumere
fino in fondo, da capo a piedi.
Ma serve anche un chiarimento, perché negli ultimi mesi
viene servita ovunque e pare risolva ogni problema, anche il
raffreddore. Proprio perché l’opzione bilaterale è una scelta
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meditata e non ideologica, dobbiamo avere la saggezza di
discernere dove essa possa essere veramente opportuna.
Perché è una forma gestionale con caratteri suoi specifici,
esalta la sua efficacia e la sua forza propulsiva nel decentramento e nella prossimità.
La bilateralità nasce e si rafforza all’interno di una cultura
di mutualità e, soprattutto, è figlia legittima della contrattazione, di quella contrattazione diffusa e specifica che estende le
tutele e i servizi a tutti i lavoratori.
Quella sul modello di Fondimpresa, per intenderci, non va
nella giusta direzione e va cambiata. Chi sta negli organismi bilaterali, a tutti i livelli compresi quelli in cui è riconosciuto il lavoro con contributi economici, deve sempre differenziare i suoi
comportamenti da quelli dei consigli di amministrazione del
capitalismo del secolo scorso.
Il lavoro è frontiera
di cittadinanza
Gli strumenti operativi che abbiamo conquistato e conquisteremo, le azioni di tutela e innovazione, il nostro ordinario
bagaglio sindacale va però accompagnato e sostenuto da
una consapevolezza più profonda: la coscienza del valore del
lavoro.
Qui dovremo fare lo sforzo più alto di elaborazione, perché il vero cambio di paradigma potrà realizzarsi solo se noi saremo portatori di queste istanze davvero fondamentali per il futuro non soltanto dei nostri rappresentati, ma dell’intero sistema paese.
Oggi il lavoro parla poco dell’uomo, quasi per niente
all’uomo, per nulla risponde ai suoi bisogni. Non più collegato
ad un destino umano, il lavoro pare una casa svuotata per un
imminente trasloco: è ancora riparo, ma non è più dimora in
cui abitare.
È finalmente emersa in tutta la sua drammaticità una tendenza di lunghissimo periodo, databile quantomeno alla prima
rivoluzione industriale, che ha visto il lavoro fondato non
sull’uomo, che ha indotto l’uomo a percepire sé stesso come
una funzione, le sue realizzazioni come fossero semplici cose, il
mondo lavorativo come strutturato su rapporti impersonali,
meccanici e strumentali, mediati dal denaro.
Ma il lavoro, l’atto di produrre, è fatto di tre elementi costitutivi: il prodotto o servizio realizzato, il gesto compiuto nel processo di produzione e, infine, l’esistenza della persona che lo
porta a termine.
Questo terzo elemento, la cornice complessiva in cui anche l’economia deve essere inserita e contestualizzata, la dimensione di senso individuale e collettivo che permea la vita
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di ognuno di noi, è la dimensione cui riportare le scelte di politica del lavoro.
Il valore di ogni proposta di cittadinanza, di civiltà, si misurerà da quanto saprà mettere il lavoro al proprio centro.
Dare centralità al lavoro, dare speranza al lavoro, vuole
dire attribuire una funzione di riscatto sociale, significa pensarlo
e progettarlo affinché sia in grado di risvegliare in chi lavora il
gusto di crescere, la volontà di mettere a frutto tutte le proprie
capacità.
Il lavoro non è soltanto una occupazione, il lavoro deve
tornare ad essere relazione e realizzazione. Le conquiste del lavoro, parafrasando il nostro quotidiano sindacale, non sono
soltanto quelle contrattuali, interne ai confini specifici del
“mondo del lavoro”, ma sono anche - e sopratutto - quelle
che ogni persona e la società italiana nel suo complesso è stata in grado di raggiungere grazie al proprio lavoro.
Pensate a quante volte nei nostri congressi abbiamo parlato di “mercato del lavoro”. Ma che cosa è un mercato? È un
luogo dove si scambiano semplicemente abilità e cose… oppure è, al pari di tante altre forme di socialità , un luogo di crescita, di appropriazione e sviluppo della propria esistenza?
Rispondere a questo interrogativo è dare una risposta alla
domanda che ci sorge spontanea sempre più spesso, incontrando i lavoratori: “che cosa è oggi il lavoro per le persone?”
E anche alla successiva, indispensabile, domanda, che
nasce dal nostro ruolo, dal lavoro di sindacalista, “a che dimensione possiamo portarlo”?
Siamo rimasti piacevolmente stupiti dall’insistenza con cui
nei congressi si è parlato di sfida educativa del sociale. Una
sfida che non va attribuita ad altri, che riguarda in primo luogo
il sindacato, in virtù della sua capillare presenza nella società.
È davvero importante che ci spendiamo in questa opera
educativa e sono orgoglioso di ribadire qui al congresso regionale che il sindacato dovrà farsi nuovamente educatore ai valori di solidarietà e sobrietà che lo generarono; è una sfida che
possiamo e dobbiamo assumerci.
Perché dobbiamo essere consapevoli che se questi temi
di cultura del lavoro sono di lungo periodo e richiederanno un
investimento continuo, costante negli anni, non possiamo non
vedere come essi abbiano anche una ricaduta immediata sulla nostra azione quotidiana, sulle scelte che siamo chiamati a
compiere nell’attualità del nostro fare sindacale.
Perché in questi anni abbiamo puntato tutto sugli strumenti e, per nostra disattenzione, abbiamo un po’ perso il loro
senso.
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Oggi quando in assemblea si propone l’adozione di un
contratto di solidarietà, i dubbi e le domande di chi interviene
riguardano le ricadute pratiche sul proprio orario di lavoro e
sulla propria retribuzione. È un po’ venuto a mancare il senso
dello strumento: perché è importante ridistribuire il lavoro spesso anche a costo di rimetterci tutti qualcosa - in modo che
nessuno ne venga espulso? È solo solidarietà tra pari?
Se assumiamo davvero come prospettiva la centralità del
lavoro, allora questi contratti sono un ottimo esempio della
presa in carico delle ragioni profonde del lavoro da parte del
tessuto sociale sottostante al fatto economico, al fatto imprenditoriale.
Il contratto di solidarietà è dunque non soltanto un ammortizzatore sociale, poiché attenua le conseguenze nefaste
della crisi, ma è propriamente un motore pro-sociale, perché
mantenendo al lavoro permette di non spezzare il vincolo che
crea riconoscimento, appartenenza e piena cittadinanza.
Quando proponiamo questa soluzione in una assemblea
dobbiamo farci carico anche di questa sfida all’educazione
sociale, perché ci fa bene e perché gli altri “attori pubblici” a
partire dalla politica non lo fanno ormai più. E francamente se
ne sente la mancanza.
E lo stesso discorso vale per le politiche di inclusione di
donne e giovani, per le iniziative di sviluppo della loro occupabilità; questi non sono temi “a parte”, questioni da rimandare quando gli altri problemi “più importanti” saranno risolti, ma
devono diventare parte fondamentale della nostra strategia.
Se il mondo del lavoro sarà più abitabile per i giovani e le
donne, e per i nuovi cittadini lombardi, sarà un vantaggio per
tutti.
Ma siamo ancora in ritardo sul versante delle politiche
generazionali, anche se qualcosa si sta movendo, almeno nei
quadri della nostra organizzazione.
I dati con cui il Gruppo Giovani ha inteso contribuire al dibattito congressuale non lasciano spazio a repliche: troppi sono quanti devono ogni volta ricominciare dalla base della piramide, rimanendo di fatto esclusi dalla condizione di tutela
che ha caratterizzato il lavoro e la cittadinanza della generazione precedente; siamo insomma in un paese che non si cura
se non marginalmente delle generazioni future.
Vedo però una difficoltà non solo nella società nel suo
complesso, nelle rigidità e tempistiche non sempre conformi ai
problemi che anche la nostra organizzazione ha, ma anche
nell’atteggiamento complessivo degli stessi giovani.
Cari giovani, un po’ mi preoccupa che il vostro immaginario sia ancora quello di De André e degli anni ’70; certo la
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generazione più rappresentata negli organismi dirigenti della
Cisl direbbe il falso se non ammettesse che quelle canzoni le
ha cantate tutte, ma ora siamo in una stagione diversa.
“Cosa sei disposto a perdere?” dice provocatoriamente
un artista di questi tempi.
Sarò ingeneroso ma sono sincero, è questo ritornello ciò
che mi evoca la lista dei “diritti dei giovani lavoratori” con cui
interpretate lo slogan congressuale.
È evidente che la Cisl debba assumere la sfida di rispondere anche ai bisogni delle nuove e future generazioni, ma essendo la Cisl un fenomeno associativo, oltre a tanti diritti i giovani, e i giovani della Cisl in primo luogo, hanno anche un dovere irrinunciabile: il dovere di alzare la voce! Alzare la voce
con i propri coetanei: è possibile che la passione civile dei ventenni sia soddisfatta dai social media, dai vari Facebook e
Youtube?
E poiché è indubbio che la condizione giovanile, peraltro
ormai drammaticamente dilatata fino alla soglia dei quarant’anni, è quella più direttamente coinvolta dalla separazione tra lavoro e cittadinanza, e proprio perché vogliamo dare
questo alto valore al lavoro e far crescere la coscienza della
sua centralità, proprio dai giovani ci aspettiamo proposte determinate, per tradurre in concreto questo sentire.
Qualcosa dai congressi territoriali è già emerso. L’Unione
Regionale con convinzione raccoglie e fa propria la proposta
di tenere in azienda i lavoratori impiegando risorse di sostegno
al reddito attraverso la formazione.
Agli imprenditori lombardi, che al sistema chiedono molte
cose che condividiamo (credito, infrastrutture, sistema formativo), chiediamo a nostra volta una condivisione impegnativa:
una moratoria sui licenziamenti.
Nessuno deve uscire dal mercato del lavoro.
I dati che abbiamo raccolto nella Nota congiunturale elaborata dal Dipartimento regionale (nei materiali) testimoniano una situazione seria, ma - per fortuna - non ancora drammatica.
Predisponiamo perciò tutti gli strumenti necessari e facciamo un “Patto per il lavoro” con risorse regionali aggiuntive e
con la disponibilità del mondo dell’impresa al mantenimento
dell’occupazione.
Si sostenga oggi il lavoratore e domani si avrà un capitale
umano più preparato, più motivato e più pronto, lavoratori arricchiti da uno spirito rinnovato, perché nel bisogno hanno potuto toccare con mano una risposta studiata per loro, una attenzione peculiare non di solo interesse economico ma anche
sociale.
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È una sfida alta, poiché richiede la condivisione della dimensione extra-economica del lavoro che abbiamo in questa
relazione cercato di argomentare; è un invito a ripensare gli
stessi modelli di imprenditorialità, concedendo ai lavoratori oltre che un pezzo del rischio imprenditoriale, come è già avvenuto a partire dall’accordo del 1993, anche una porzione di
partecipazione e responsabilità effettiva, com’è ora possibile
con l’accordo formalizzato il 15 aprile.
Tra tutte le misure e gli strumenti, una cosa nuova spetta
anche a noi: se assumiamo la consapevolezza della importanza della continuità lavorativa, occorre anche garantire al nostro interno la continuità dell’assistenza lavorativa, in ogni momento del percorso dei lavoratori.
È una coerenza al nostro principio di non lasciare sole le
persone nel bisogno; se noi siamo e vogliamo essere quelli che
tutelano il lavoro, questo presidio è di fondamentale importanza.
La nostra Cisl si sta attrezzando per stare in campo in prima persona, per stare nell’agorà del lavoro con Agilavoro, il
nostro gazebo sulla piazza del mercato del lavoro.
crisi:
E se analizziamo gli accordi con cui stiamo affrontando la
•
con le banche per l’anticipo della cassa integrazione;
•
con i comuni per le prestazioni per chi è in cassa;
•
con le Camere di Commercio in merito agli interventi
su credito e lavoro;
•
con gli enti locali rispetto allo sviluppo territoriale;
•
con le diocesi per i fondi per il lavoro e le famiglie;
…tutto questo ci fa dire che dobbiamo andare oltre, anzi
che per certi aspetti siamo già oltre, e che da queste relazioni
sta nascendo - dal basso – l’embrione di una nuova socialità.
Dobbiamo far crescere e portare questa progettualità nei
luoghi concreti dove lo sviluppo promosso dalle agenzie possa
mutarsi da “locale” in “economico-sociale”.
Il primo tema in cui esercitasi dovrà essere quello della sicurezza nei luoghi di lavoro. È questa una materia non soltanto
lavoristica, ma più estesamente sociale: è qualcosa di più della retribuzione, dell’orario di lavoro, e persino della tutela del
posto di lavoro.
A circa quindici anni dall’emanazione del decreto “626”,
accanto ai pur presenti dati positivi, vi è un netto prevalere di
aspetti negativi tra i quali:
•
i ritardi dell'azione amministrativa;
22
Lavoro e sicurezza
•
la scarsa applicazione delle norme di sicurezza in settori importanti quali la Pubblica Amministrazione, le piccole imprese, i servizi, l'agricoltura;
•
la sostanziale esclusione dei lavoratori parasubordinati;
•
il mancato coordinamento istituzionale e l'insufficiente
attività di vigilanza;
In molti casi siamo ancora in presenza del mancato rispetto delle norme, della loro elusione o aggiramento, ma è anche
frequente il caso di un’applicazione della norma limitata agli
adempimenti burocratici o alle procedure formali.
Stenta in particolare a decollare e a diventare davvero
diffuso un comportamento partecipativo che per noi rappresenta l'elemento centrale di una cultura della prevenzione da
più parti invocata e finora scarsamente praticata.
La partecipazione in molti casi è ridotta all'attivazione di
una semplice procedura o all’acquisizione del consenso rispetto a scelte unilaterali dell'impresa.
La crisi economica ed occupazionale rischia di gettare ulteriori ombre, quasi a giustificare una attenuazione delle norme
e delle azioni di prevenzione. La Cisl si ribella a questo rischio e
proprio nella crisi afferma il valore irrinunciabile del “lavoro sicuro per tutti”.
Ha suscitato grandi aspettative l’emanazione del Testo Unico, frutto anche dell’impegno della CISL, di migliaia di RLS,
dei delegati e dei lavoratori. Esso non solo rappresenta il punto
di approdo definitivo di un lungo dibattito dipanatosi nel corso
di questi ultimi anni, ma, soprattutto, è un significativo passo in
avanti sulla strada della sicurezza nei luoghi di lavoro e nella
lotta quotidiana contro gli infortuni e le morti sul lavoro in Italia.
La disciplina della sicurezza in azienda infatti non mira più
solamente ad evitare o a ridurre il rischio di malattia o di infermità, ma anche a realizzare un contesto organizzativo aziendale nel quale vengono tutelate la personalità e il benessere
psicologico del lavoratore.
A meno di un anno dall’entrata in vigore di questo provvedimento articolato e complesso, il Consiglio del Ministri ha
varato recentemente uno “Schema di decreto integrativo e
correttivo” del Testo Unico che, in aggiunta
•
ai positivi interventi correttivi volti all’eliminazione dei
refusi e delle imprecisioni presenti;
•
all’attenzione rivolta alle eventuali maggiori esposizioni
a rischio dei lavoratori con contratto di natura flessibile;
•
alla scelta di percorsi di qualificazione della formazione, di modalità di standardizzazione della documenta-
23
zione, di qualificazione delle imprese, che condividiamo;
apporta ulteriori modifiche sulle quali esprimiamo la nostra
contrarietà, poiché prefigurano un sostanziale abbassamento
delle regole di tutela e delle sanzioni conseguenti.
Come Cisl Lombardia chiediamo che nella fase di consultazione delle parti sociali prevista dal Governo si effettui un vero confronto, che individui e corregga quelle parti dello schema del decreto che prevedendo minori sanzioni, minori obblighi per il Documento unico di valutazione dei rischi interferenti
(DUVRI), minore rappresentanza e ruolo della pariteticità, portano ad un indebolimento del profilo delle norme.
In Lombardia abbiamo negoziato con la Regione il Piano
regionale 2008–2010 per la promozione della sicurezza e salute
negli ambienti di lavoro, che è appena partito.
Il piano prevede azioni concrete (maggiori risorse, aumento dei controlli, coordinamento degli istituti preposti, definizione
di linee di indirizzo) con l’obiettivo ambizioso di ridurre in tre anni del 15% gli infortuni nella nostra regione. È un piano con cui
vogliamo dimostrare che la prevenzione e la sicurezza nulla
hanno a che fare con la fatalità e che è possibile incidere sensibilmente sulla situazione.
È stata istituita inoltre la Cabina di Regia per monitorare
l’andamento del Piano e sono stati attivati contestualmente i
Tavoli tecnici .
Sono strumenti che la Cisl presidia nella convinzione che,
soprattutto in questa fase economica, vada con ogni mezzo
evitato il rischio che siano i lavoratori a pagare sulla propria
pelle una crisi che potrebbe favorire un abbassamento degli
investimenti in sicurezza e in cui potrebbero essere calpestate
le regole e le tutele.
È anche il momento di allargare il nostro orizzonte e dedicare la giusta attenzione ad una questione ormai davvero
centrale: che pianeta consegneremo ai nostri figli?
Numerosi politici e commentatori dicono che “la festa è
finita”, che viviamo al di sopra delle nostre possibilità, che è
necessario cambiare subito e adottare nuovi modelli di sviluppo. Anche il sindacato spesso parla di sviluppo sostenibile.
Ma cosa vuol dire, in concreto?
Se con sviluppo s’intende migliorare le condizioni di vita e
lavoro, lo specificare espressamente la sua sostenibilità indica
la necessità che esso soddisfi i nostri bisogni senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri
bisogni, e che sia estesa al tempo stesso a tutti gli uomini e a
24
Sostenibilità
tutte le donne la possibilità di attuare le proprie aspirazioni ad
una vita migliore.
Sviluppo sostenibile vuol dire quindi considerare l’impatto
economico, sociale e ambientale delle scelte che facciamo.
Dobbiamo cominciare a chiederci come le nostre scelte, anche quelle quotidiane, influiscono sulle generazioni future e su
aree del mondo geograficamente lontane ma ormai nei fatti
molto vicine a noi a causa della globalizzazione.
Affrontare questi argomenti è molto importante per tutti,
perché ci permetterà di capire un po’ di più il mondo che sta
cambiando attorno a noi, immaginare che cosa sarà del nostro lavoro e quali sono le scelte che dovremo fare per noi e
per i nostri figli.
Facciamo qualche esempio concreto.
La produzione e il consumo di petrolio nel mondo sono
pari a 3,5 miliardi di tonnellate l’anno. Secondo stime attendibili le riserve ammontano a soli 148 miliardi di tonnellate e dovrebbero bastare per altri 40 anni. E poi? La ricerca scientifica
e l’innovazione tecnologica studiano già oggi le alternative, le
cosiddette “energie alternative”, e in qualche caso già esiste
la possibilità di sceglierle nella vita quotidiana, pensiamo alle
automobili ibride, o a metano. Non basta però attendere il
progresso. Bisogna che ogni cittadino si assuma la propria responsabilità, a partire da noi. Quante volte il blocco del traffico o le targhe alterne ci fanno dire “ma a che cosa serve?”.
Proviamo invece a pensare che il grande aumento dei casi
d’asma dei nostri figli è causato anche dall’aria che respiriamo
e chiediamoci cosa possiamo fare concretamente, oggi, per
diminuire un po’ l’inquinamento, cioè i nostri consumi.
“Posso, per oggi, andare al lavoro in autobus?”
“Posso regolare il l’aria condizionata in casa e in ufficio a
22° invece che a 19°?”
Se vi sembrano questioni irrilevanti, pensate che il protocollo di Kyoto, l’insieme delle misure che potrebbero fermare la
“febbre” del pianeta, prevede una riduzione dei consumi energetici (o un aumento dell’efficienza) nell’ordine del 6,5%
entro il 2012. Sarebbe un obiettivo facilmente raggiungibile - e
le nostre città e paesi respirerebbero molto meglio - se ognuno
si facesse carico del problema!
Stesso discorso vale per l’acqua, l’altra risorsa scarsa di
questo secolo: con l’innalzamento lento e inesorabile della
temperatura del pianeta, lo scioglimento delle riserve naturali
di acqua potabile renderà sempre più necessario fare economia, evitare gli sprechi. L'acqua serve per molte cose: almeno la metà dell’acqua oggi disponibile viene utilizzata in agri-
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coltura e un ulteriore 20% ha usi industriali; l’uso strettamente
civile, quello di noi consumatori, è circa il 20% del totale.
Risparmiare è però possibile, con un po’ di attenzione e
più consapevolezza: proviamo per esempio a domandarci
quanta acqua serve per produrre un chilogrammo di pomodori (180 litri), carta (325), patate (1.000), frumento (1.790), riso
(2.380), maiale (3.689) e manzo (9.680). Sono numeri impegnativi, vero?
Anche la Cisl con le sue scelte e con la funzione educativa della quale dobbiamo farci carico, può indirizzare
l’economia verso un orientamento più parsimonioso: dobbiamo informarci, trovare soluzioni di consumo responsabile per
essere in grado di orientare anche i nostri soci verso comportamenti maggiormente consapevoli.
La tenuta sociale…
La crisi mette poi in piena luce i limiti di modello di società
e della deriva individualistica che si è sviluppata in questi ultimi
decenni; i rapporti sono diventati più instabili, perché la logica
dello sviluppo di questi anni ha puntato decisamente sugli orientamenti individuali, sulla soddisfazione - considerata senza
limiti - del desiderio, senza tenere conto dell’importanza delle
relazioni, dei rapporti, e di tutti i valori che questo tipo di visione
porta con sé.
Il grande limite di questo modello è stato il suo potere di
dissolvimento dei rapporti e dei legami sociali, che ha favorito
lo sviluppo di quella che è stata chiamata la “deviazione del
capitalismo”.
La crisi costituisce dunque una straordinaria occasione
non solo per riflettere sulla dimensione economica ma anche
per riflettere sul modo in cui i rapporti sociali sono strutturati.
Veniamo da una fase in cui i corpi sociali intermedi - le
famiglie, il sociale organizzato, gli stessi enti locali - sono stati
fatti oggetto di attacchi, sono stati deliberatamente depotenziati.
Ma se la stessa revisione costituzionale prevede che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà”, allora i corpi sociali devono tornare
ad un protagonismo attivo.
Non possono più essere soltanto le “crocerossine” a soccorso dei feriti, quando lo Stato o il mercato falliscono.
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In realtà i corpi sociali intermedi si sono già messi in moto
anche in Italia e in Lombardia, cercando di organizzare delle
prime risposte per contenere gli effetti più negativi della crisi.
A partire delle Chiese e dalle associazioni, sino alle associazioni di categoria e a noi, in tanti si sono attivati con iniziative e risorse a sostegno di coloro che sono più esposti ai costi
sociali della crisi.
Più che per i loro effetti economici queste iniziative sono
importanti dal punto di vista simbolico, perché segnalano il
persistere all’interno della società lombarda di risorse vive di
socialità, di solidarietà e corresponsabilità.
Naturalmente il rischio è che la politica fraintenda queste
iniziative e le consideri semplicemente degli interventi emergenziali, non in grado di risolvere i problemi e senza nessuna rilevanza sistemica.
Sarà anche nostro compito favorire un diverso modo di intendere queste iniziative: nate motu proprio dalla socialità, le
risorse dei corpi intermedi sono l’unico ingrediente indispensabile per affrontare un momento critico come questo.
Dal nostro punto di vista, la crisi costituisce una occasione
per negoziare, per contrattare e così rilanciare il nostro ruolo di
soggetti intermedi tra mondo economico e sociale: senza il
coinvolgimento e il contributo di tutti i soggetti sociali, è estremamente difficile governare i processi economici e sociali.
Solo utilizzando il patrimonio di socialità già presente dentro la vita sociale è possibile rigenerare la responsabilità,
l’impegno e la fiducia reciproca necessarie a mantenere coeso il tessuto sociale, a creare nuovi assetti istituzionali orientati
alla piena valorizzazione della pro-socialità dei soggetti della
rappresentanza.
In questa prospettiva agli stessi corpi sociali si pone una
sfida di responsabilità. Loro dovere è infatti portare presso le istituzioni la voce di chi non ha voce, è sperimentare forme di
accordo e collaborazioni inedite, è favorire la rinascita di quel
senso di fiducia e di lealtà verso le istituzioni e tra di esse di cui
sentiamo enormemente la mancanza.
Il ruolo dei corpi intermedi è propriamente un ruolo istituente, perché contribuisce alla trasformazione istituzionale e
alla ricerca di assetti flessibili e allo stesso tempo integranti, e
perciò più adeguati al mondo in cui viviamo.
Se la Cisl sarà capace di avere fiducia in se stessa, di fare
proposte innovative, di fare da tramite tra i problemi delle persone e dei lavoratori e soluzioni realistiche, allora il suo ruolo
verrà straordinariamente rilanciato dalla crisi in corso.
E ne verrà stimolata anche la nostra capacità di trasformazione: conquistare nuovi iscritti, essere rappresentativi an27
che dei gruppi più piccoli, non essere mai soddisfatti degli interessi che già sono contenuti al nostro interno, mettere in discussione le logiche di potere che inevitabilmente tendono a riformarsi.
Solo coltivando questo senso di inadeguatezza, solo esplorando ogni ombra, potremo comprendere e restare adeguati.
In questi giorni in cui i nostri servizi sono in piena campagna fiscale, c’è una domanda che ci viene rivolta in ogni nostra sede: ogni contribuente legge sui giornali e sente parlare
di social card, di bonus una tantum per fronteggiare il periodo
più difficile della crisi e ci chiede fiducioso “ma per me, per la
mia famiglia non c’è proprio nulla?”.
Troppo spesso siamo costretti a rispondere che “No, purtroppo, Lei non rientra nei parametri previsti per l’assegnazione”.
È una sconfitta non soltanto per la politica, per le scelte
governative, ma anche per il ruolo che noi intendiamo svolgere.
Il sindacato, in virtù della prossimità e della responsabilità
esercitata quotidianamente, è forse il soggetto che più di altri
ha diritto anche a rivendicare i bisogni di stato sociale, i nuovi
e vecchi bisogni che ci rendono oggi un po’ meno Europa.
Va dato più ossigeno a tutta la ricca parte di società che
“sta nel mezzo”, perché questi sono il pilastro della nostra società, anzi essi sono la società stessa.
Si pone quindi per noi la necessità di intessere nuove relazioni e di conquistare nuovi ambiti di contrattazione nel sociale.
Serve cioè costruire un “cartello” del sociale, e la Cisl vuole essere protagonista su questo terreno progettuale.
Se da questa crisi non si sortirà né con più stato né con più
mercato ma con più società, come abbiamo già avuto modo
di discutere ai congressi, allora tocca anche noi fare la nostra
parte.
Ora che i “mercatisti” sono travestiti da cappuccetti rossi,
ma sono ancora lupi, e gli statalisti sono una nostalgia sempre
presente ad ogni convito, noi dobbiamo avere il coraggio, assieme a tanti altri, di affrancarci dalla testimonianza e contribuire a determinare le scelte.
Ecco perché vorremmo qui in Lombardia intensificare e
strutturare un confronto il più ampio possibile, non soltanto con
tutte quelle organizzazioni che si lasciano interrogare dalla dottrina sociale della Chiesa, a partire dai nostri fratelli maggiori
delle Acli e sino al vasto mondo della cooperazione e delle
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nuove organizzazioni d’impresa, ma anche oltre, con tutte
quelle realtà associative impegnate a vario titolo a coltivare
prospettive di lungo periodo.
Singolarmente ognuno ha le proprie attenzioni e qualcuno anche un pezzo di riconoscimento, ma isolati non possiamo
stare tra gli “architetti” che ridisegnano la scena.
Se questa crisi è una crisi di scenario, ci vuole qualcuno
che possa delinearne uno nuovo e diverso, e noi vorremmo
contribuire dando avvio ad un “Politecnico del sociale”. Perché è ora “il tempo di una nuova economia”, come recita il titolo dell’intervento del professor Luigino Bruni previsto nella
giornata di domani.
Un tassello decisivo nella costruzione di un nuovo paradigma economico e sociale è costituito dalla politiche per i
nuclei famigliari.
Se ci fosse correlazione tra la quantità di parole messe in
campo attorno alla famiglia e le risorse destinate ad affrontare
la questione, saremmo forse tra i Paesi europei che spendono
di più e meglio per quella che la Costituzione chiama “società
naturale”.
Purtroppo non è così. E forse anche per questo le politiche
familiari sono tema ormai ricorrente nell’agenda sindacale.
Dobbiamo però anche noi fare uno sforzo per non restare imprigionati nella lista degli auspici.
Se si guarda alla crisi economica attraverso la realtà della
famiglia ci si rende subito conto non solo della gravità della situazione, ma anche del fatto che la famiglia è
l’ammortizzatore sociale principale su cui da sempre si fa conto, senza peraltro accompagnare questo dato di fatto con politiche di sostegno delle famiglie come nuclei di solidarietà sociale.
Bisogna cambiare registro.
E forse cambiare i criteri che stanno alla base delle scelte
politiche, o meglio, della lettura della famiglia e della sua interdipendenza con il resto della società che stanno (o dovrebbero stare) alla base delle scelte politiche.
A questo cambio di criteri di lettura si appella il rapporto
dell’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia, quando pone il problema delle relazioni tra famiglia e lavoro; ed è singolare che
per spiegarne il senso ricorra ad uno dei concetti che stanno
nel titolo del nostro Congresso: “Una costituzione civile delle relazioni tra famiglia e lavoro è la frontiera del futuro, significa
considerare tali relazioni nell’ottica della sussidiarietà orizzonta-
29
…e quella
famigliare
le fra due ambiti che sono sfere di vita che richiedono di bilanciarsi tra loro secondo la norma della reciprocità”.
Pensare al tema della relazione famiglia e lavoro, e pensarla in termini di creazione di un rapporto positivo tra famiglia
e lavoro, significa dunque riflettere sulle modalità attraverso cui
mettere insieme due tra i principali fattori produttivi di benessere nel nostro Paese.
Famiglia e lavoro sono elementi essenziali per la costruzione della persona e il gioco che potrebbe instaurarsi tra essi
tramite una politica lucida è una dinamica virtuosa che chiama ad una esplicita e consapevole responsabilità tutti gli attori
sociali che a vario titolo generano vita sociale.
È questa dinamica che consente di ragionare sulle relazioni e non solamente sulle politiche settoriali
Ne deriva però una prospettiva che ci interroga, che esige da parte nostra una elaborazione ed una risposta. Ragionare al di fuori delle politiche settoriali mette in luce la necessità
di leggere e riorganizzare il nostro sistema di protezione, di garanzia e di distribuzione del benessere, non più e non soltanto a
partire dal lavoro, non più come un workfare, ma come un vero welfare, cioè come un sistema di politiche che non si affida
solamente alla protezione del lavoro per generare benessere,
ma che valorizza anche altri luoghi e dimensioni.
Venti, trent’anni fa, una famiglia con un percettore di
reddito garantito, con lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato, anche se aveva tre figli non era sotto la linea di povertà, riusciva a mantenere la propria famiglia con un tenore
di vita dignitoso.
Oggi i dati dell’ISTAT sulla povertà confermano che questa condizione è spesso sulla soglia della linea di povertà.
Significa che un sistema che si era costruito, a partire dal
secondo dopoguerra, pensando che il lavoro bastasse a garantire dignità e protezione sociale, oggi non è più in grado di
farlo, perché sono cambiate tante cose, perché i carichi familiari diventano più pesanti, perché il lavoro è diventato più “volatile”. Anche per questo la generatività delle famiglie italiane
è “bloccata”. Questo significa che c’è bisogno di un intervento combinato sul lavoro e insieme sulla famiglia, puntando alla
reciproca valorizzazione.
Per l’Osservatorio sulla Famiglia tutto questo passa da un
processo di “conciliazione” che è un bene in sé, “non qualcosa che prima o poi deve essere risolto a favore di uno dei poli.
Il suo scopo è quello di rendere il lavoro sussidiario alla famiglia,
senza che la vita familiare incida negativamente sulla partecipazione al lavoro professionale, ma anzi lo sostenga e lo renda
più sensato”.
30
Questa lettura della famiglia e delle sue relazioni sociali
non cancella alcuna delle rivendicazioni familiari per le quali
anche noi siamo impegnati (dall’equità fiscale, tributaria e tariffaria al fondo per la non autosufficienza e la disabilità; dai
servizi per la famiglia alle politiche della casa a misura di famiglia) ma certo le inserisce in una cornice più consapevole delle
grandi sfide del nostro futuro.
Come dare la cittadinanza alla famiglia, affermazione
che passa da una nuova consapevolezza del proprio ruolo sociale, della propria responsabilità pubblica, della propria autonoma soggettività di fronte all’agire degli altri attori sociali.
Una responsabilità civile che consente di uscire da logiche assistenziali, evitando nel contempo i rischi di una privatizzazione solo mercantile che lasci le singole famiglie sole di fronte al contesto sociale. Diventa però fondamentale, in una prospettiva sussidiaria, un approccio promozionale nei confronti
della famiglia, proposto come criterio essenziale per la progettazione e la realizzazione di politiche sociali realmente sussidiarie.
Secondo questa prospettiva, le risposte che il sistema politico e sociale deve attivare di fronte ai bisogni delle famiglie
non devono porsi nell’ottica di “risolvere i problemi”, ma devono in primo luogo cercare di “rimettere in moto” il sistema famiglia, considerandolo non come destinatario passivo di prestazioni, ma come partner attivo di un percorso di aiuto in cui
la famiglia e i soggetti istituzionali a cui si rivolge progettano e
realizzano insieme percorsi di uscita dalle condizioni di mancanza e di bisogno.
Anche in questo caso, quindi, il problema non è tanto
chiedere maggiori risorse per la famiglia (che pure sono assolutamente necessarie), quanto piuttosto pretendere una diversa
prospettiva, non assistenziale, in cui le risorse messe a disposizione dai servizi (professionisti, strutture, risorse finanziarie, politiche fiscali, prestazioni di varia natura) entrino in sinergia con le
capacità e le potenzialità delle famiglie destinatarie degli interventi.
Se non è così, c’è solo assistenzialismo.
La debolezza delle politiche familiari in Italia, appiattite
come sono sulle politiche sociali, spesso giocate sulla logica
dell’una tantum, non è solo una questione di quantità ma
anche di identità.
Politiche familiari degne di questo nome devono essere
esplicite, dirette, distintive, organiche e promozionali.
Esplicite: cioè concentrate sul nucleo e sulle qualità della famiglia, ossia sulla sua natura di relazione di reciprocità
tra sessi e generazioni (a promozione, tutela e sostegno delle
31
relazioni di coppia e intergenerazionali, sia interne alla famiglia che tra generazioni nel sociale).
Dirette: vale a dire “sulla famiglia in quanto tale”, e non
solo su singoli membri, mentre spesso politiche di protezione
di singoli membri o di condizioni particolari, pur necessarie,
vengono etichettate come familiari.
Distintive: nel senso che devono essere in grado di distinguere tra i contesti di vita che sono famiglia e i contesti
caratterizzati da altri criteri e scelte.
Organiche: cioè capaci di includere le diverse dimensioni della famiglia, di valutare il cosiddetto “impatto familiare” di provvedimenti in settori diversi da quello sociale (ad
esempio lo sviluppo urbanistico, o le regole del mercato del
lavoro).
Promozionali: per uscire da un modello assistenziale e
riparatorio a favore di un approccio che consenta sia di
scoprire e mettere in gioco le risorse dei portatori di bisogno,
sia di prevenire malesseri e fragilità maggiori.
Come si concretizzano questi sostantivi nelle politiche familiari? Con scelte di spesa coraggiose e coerenti. Magari facendo tesoro di qualche esperienza europea.
L’OCSE, nel presentare i dati comparativi sulla spesa
pubblica per il sostegno alla famiglia, indica tre modalità
consolidate di spesa pubblica: i trasferimenti monetari alle
famiglie con bambini; il finanziamento pubblico di servizi alle
famiglie; il sostegno economico diretto alle famiglie tramite il
sistema fiscale.
Valutare le politiche familiari nel nostro Paese significa
quindi domandarsi in primo luogo quanto le tre modalità di
azione siano presenti, in quantità e qualità, e quanto il loro
effetto congiunto costruisca politiche familiari efficaci, consistenti e adeguate ai bisogni e alle aspettative delle famiglie.
Il dato percentuale della spesa pubblica per le famiglie
calcolato sul PIL dice che in Francia la somma delle tre modalità indicate dall’OCSE è pari al 3,8% ed è oltre il 3% anche in Gran Bretagna e Germania; in Italia la spesa pubblica per le famiglie è dell’1,2%.
In dettaglio, per quanto riguarda il nostro Paese, c’è da
rilevare che i trasferimenti monetari, pur leggermente migliorati, sono ancora ridotti in entità, e in più distribuiti in modo
ineguale (assegni familiari, ancora centrati sulle contribuzioni
lavoristiche, e non connessi in modo universalistico ai figli); la
quantità e qualità dei servizi per le famiglie è ancora insod32
disfacente; il nostro sistema fiscale persegue con grande determinazione l’equità verticale però non produce equità orizzontale, anzi penalizza pervicacemente le famiglie con
carichi familiari.
Nel confronto internazionale, l’effetto delle politiche fiscali rispetto alla famiglia è per il nostro Paese assolutamente desolante. Con un reddito imponibile di 50.000 Euro, una
coppia italiana con due figli ha un prelievo fiscale del
26,43%; in Francia è del 5%, in Germania del 16%, in Gran
Bretagna del 18%; solo il prelievo fiscale spagnolo (25,65%) è
vicino al nostro.
Che dire? Impressionante è il dato francese, ma anche
la Germania propone un forte differenziale di equità orizzontale (a parità di reddito si paga molto meno se si è in quattro): due esempi, quello francese e quello tedesco, che evidenziano, se ancora ce ne fosse bisogno, che politiche familiari eque, capaci di riconoscere i carichi familiari, non
generano necessariamente il disastro dei conti pubblici (che
in Francia e in Germania sono certamente più in ordine che
nel nostro Paese).
La fiscalità potrebbe quindi essere strumento fondamentale (anche se non insostituibile) per promuovere
l’equità orizzontale e riconoscere e sostenere i nuclei con
carichi familiari. Tuttavia il nostro sistema fiscale appare impermeabile a questa preoccupazione.
Da tempo c’è una proposta precisa per andare oltre
l’imposizione fiscale personale. In questo modo, infatti, non si
riconosce alla famiglia che ci sono spese minime necessarie
al mantenimento dei figli e degli altri familiari conviventi che
non costituiscono reddito disponibile. Ma una famiglia deve
poter compiere libere scelte in materia di figli, di cura familiare, di anziani da tenere o meno in casa.
La proposta in campo è una riforma della tassazione familiare che prevede la deduzione dall'imponibile del minimo vitale necessario al mantenimento di ogni figlio o di un anziano a
carico. Una misura che potrebbe ridisegnare un sistema fiscale
trasparente, comprensibile, chiaro e finalmente equo nei confronti della famiglia.
È una di quelle cose che potrebbero ridurre la forbice
molto ampia che oggi esiste tra le parole per la famiglia e le
politiche per la famiglia.
Per reggere il peso delle sfide è il tempo di riscoprire i
“tratti distintivi” - come diceva Mario Romani - del nostro “sindacato nuovo”.
33
Un sindacato
sempre nuovo
Non è abitudine delle relazioni congressuali fare lezioni di
storia, ma vogliamo valorizzare un poco il cammino precongressuale che abbiamo percorso assieme all’Università Cattolica e a tanti amici.
È un tratto proprio della Cisl, in primo luogo, la capacità di
non cedere mai alle mode, l’abitudine a cercare le “componenti di fondo”. È un metodo, è un modo di pensare e di essere ancora profondamente nostro. E non riguarda soltanto la
persona e il suo carattere, ma anche le organizzazioni, la nostra organizzazione.
In un mondo schiacciato dalla dittatura del presente, degli aggiornamenti in tempo reale, dalla impetuosità di un flusso
informativo entro cui passa di tutto e tutto si confonde, va conservata con cura la bussola che orienta la nostra lettura della
realtà ad un orizzonte più ampio, ad un tempo più lungo.
Tale impostazione di metodo è un bene prezioso perché
ha conseguenze politiche chiare e decisive: da qui nasce “il
coraggio civile di prendere decisioni impopolari”.
Non so se oggi ancora sentiamo con sufficiente forza la
necessità di assoluta dedizione al merito delle questioni, senza
distrazioni tattiche o opportunismi; a mio avviso questo “rigore
dei fatti” è davvero essenziale al nostro modello di relazioni
sindacali.
E lo è tanto più oggi in presenza di un accodo che spinge
verso la valorizzazione della prossimità, dell’azione sindacale
locale.
Se questo “empirismo sindacale” dovesse mancare, e i
segnali ci sono già tutti in certa parte del sindacato, verrà a
mancare quella “coerenza interna” della nostra società che
Romani stesso indicava come la causa principale dello “scollamento della situazione politica”.
Il secondo tratto distintivo di noi cislini è la confederalità, il
bisogno e l’opportunità di “tenere conto di tutto, in una visione
mai limitata, mai settoriale”.
Oggi che l’espansione globalizzatrice - nella sua accezione più ampia che comprende anche l’estensione dei diritti
(pensiamo soltanto alle 5.808 associazioni presenti al Social Forum di Belém) - ora che la spinta “mondialista” subisce una
battuta di arresto a causa della crisi, dov’è che il sindacato
deve mettere i paletti dell’interesse proprio? Il cambio di clima
implica una nuova definizione della nostra missione?
Badate che non stiamo parlando di problemi astratti: nel
cammino che ci ha condotto a questo congresso il nostro Dipartimento Internazionale ha organizzato un convegno sulla
nuova normativa dei CAE, i comitati aziendali europei, le “Rsu
delle multinazionali”.
34
È un tema che da tempo seguiamo, che in questi mesi è
oggetto di una profonda revisione e che potrà influire molto sul
nostro lavoro. Perché se teniamo conto di tutto, se riusciamo a
sapere e controllare un po’ meglio quello che l’azienda fa, allora le scelte del management, anche l’internazionalizzazione
delle imprese, faranno un po’ meno paura, perché avremo
strumenti nuovi per affrontare le situazioni nuove.
Modelli sindacali
e rappresentanza
Il livello del confronto sarà alto anche all’interno del mondo sindacale. È evidente come oggi si stiano delineando due
modelli di presenza sindacale diversi e, al limite, alternativi.
È stata una scelta coraggiosa e profondamente giusta
decidere di sperimentare per quattro anni a partire da questo
tormentato 2009 un sistema di relazioni industriali nuovo.
È una duplice sfida
•
sulle nuove tutele;
•
sulle regole necessarie a traghettare la rappresentanza
genericamente intesa verso criteri e procedure condivise di rappresentatività;
L’intreccio tra queste materie è complesso, perché in
questo dibattito sta l’intricata vicenda del ripensamento e rinnovamento del ruolo delle parti sociali e delle associazioni di
rappresentanza nel nostro Paese.
“È giunto il momento di affrontare tale questione – diceva
già nel 2004 il prof. Guido Baglioni - di vedere se è possibile avere una regolamentazione della rappresentanza con criteri
che garantiscano una soglia ragionevole di rappresentatività
negli accordi collettivi, pur in situazioni di pluralismo e contrasti
sindacali”.
La nostra preoccupazione si riferisce a come tenere viva
l’attitudine adattiva di un sindacato che è stato capace di interpretare fasi storiche più complesse e persino più pericolose
della attuale.
Il fulcro dei nostri ragionamenti non è qui, come potrebbe
sembrare, sulla forma organizzativa, bensì nella relazione originaria tra i rappresentanti e i rappresentati, tra struttura sindacale e associati o soci, come li vogliamo chiamare in Cisl.
È in gioco il vincolo di rappresentanza, appartenenza e
identità che fonda e permette ogni strategia rivendicativa.
Questo vincolo è stato da noi considerato fino a ieri un
qualcosa di granitico, un “sostegno blindato al ruolo di tutela
di collettività indistinte”. Ma è ancora così?
35
O forse possiamo immaginare un percorso di evoluzione
che ci porti a meglio rappresentare la mutevolezza e variabilità del mondo del lavoro odierno?
La Cisl si è sempre opposta ad una legge sulla rappresentanza perché il riconoscimento del ruolo e della consistenza
del sindacato non può essere determinato alla luce di una valutazione politica e nella proiezione di questa o quella maggioranza. Noi abbiamo sempre sostenuto e sosteniamo che le regole della democrazia interna, che le regole della rappresentanza, devono venire da un accordo tra le parti sociali.
E così è stato anche nella piattaforma unitaria che a
maggio 2008 Cgil Cisl e Uil hanno presentato a Governo, Confindustria e a tutte le altre associazioni datoriali.
Vorremmo proporre ai compagni e amici di Cgil e Uil della
Lombardia di lavorare assieme anche su questo importantissimo tema. Assieme agli impegni che ci vedono spesso concordi circa le priorità di contrasto alla crisi, che sosterremo unitamente il Primo Maggio a Varese, vogliamo tenere aperto il
confronto sulla rappresentanza.
Noi siamo convinti delle scelte di questi mesi, le riteniamo
fondamentali per il nostro modello sindacale di contrattualisti,
per la nostra idea di partecipazione, per il ruolo forte che intendiamo attribuire al sociale. Ma ciò nondimeno cerchiamo e
cercheremo sempre, anche nei nostri prossimi 60 anni, la convergenza e l’unità d’azione con le altre confederazioni.
È stato infatti il sindacato a mettere all’ordine del giorno il
tema della democrazia e della rappresentanza. E in termini
tutt’altro che generici.
Per la prima volta si indicano criteri e modalità per la misurazione della rappresentatività dei diversi soggetti sindacali e si
sono messe nero su bianco le norme e i principi di riferimento
delle decisioni più importanti dell’azione sindacale.
Un capitolo questo che era - e che per quanto ci riguarda
è ancora - parte integrante del documento unitario su cui si è
sviluppato il confronto sulla riforma della contrattazione concluso con l’accordo.
Quali sono le intese a cui siamo arrivati?
Innanzitutto la conferma di quel che in tema di rappresentanza è operativo da oltre dieci anni nel settore pubblico. E poi
la decisione di rifarsi alle deleghe certificate dagli Enti previdenziali nel caso dei pensionati.
Per quanto riguarda il settore privato, si è proposto di tenere conto del numero degli iscritti (numericamente rilevati
dall’INPS attraverso un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali) e del numero di voti ottenuti da ciascuna organizzazione nelle elezioni delle RSU (dati risultanti dai verbali elettora36
li); questi dovrebbero diventare i parametri per la misurazione
della rappresentatività dei sindacati, certificati dal CNEL.
Qualcuno ha scritto che definire criteri e metodi d’azione
in base ai quali ci si rende disponibili a essere valutati, è un indice di maturità e di responsabilità.
È sicuramente una buona alternativa alla esibizioni muscolari attraverso le quali si cercano di stabilire i rapporti di forza, ma, a mio modo di vedere, in questo rilancio sulla rappresentanza c’è qualcosa di più della disponibilità ad essere misurati: c’è il fatto che il sindacato non ha timore a farsi valutare.
Sui meccanismi e le procedure per assumere decisioni
sindacali rilevanti, il documento unitario prevede il ricorso a
momenti di verifica e di coinvolgimento “degli iscritti e di tutti i
lavoratori”, nonché dei pensionati relativamente agli accordi
interconfederali di tipo generale.
Si formalizza una prassi a cui il sindacato ha fatto ricorso
negli ultimi anni, per sancire nella consultazione diretta dei lavoratori alcuni risultati della concertazione. Sono sempre stati
passaggi molto impegnativi dal punto di vista organizzativo,
ma anche occasioni straordinarie di presenza nei luoghi di lavoro e di contatto con i lavoratori.
Tutto questo, lo sottolineo ancora, avviene al di fuori dei rischi di una regolazione per legge della rappresentanza.
La libertà sindacale – quella dei singoli e quella delle associazioni a darsi strutture e regole - la libertà è essenziale alla
efficacia della rappresentanza.
La rappresentanza sindacale è lo strumento attraverso il
quale i lavoratori si costituiscono come soggetto collettivo e
agiscono per la rappresentazione dei loro interessi. La rappresentatività, dunque, è la forza della rappresentanza.
Ovviamente ci aspettiamo che anche le nostre controparti si diano regole certe e una certificazione terza della rappresentanza! Anche noi abbiamo bisogno di sapere chi abbiamo di fronte dall’altra parte del tavolo.
Il sistema del
welfare lombardo
Le tendenze demografiche, i profondi cambiamenti in atto, sia nella coscienza dei bisogni che nell’organizzazione delle
risposte, i crescenti fenomeni migratori, la globalizzazione senza
regole e l’attuale crisi economica mondiale sgretolano progressivamente presunte vecchie sicurezze in merito a tutto ciò
che siamo soliti racchiudere nel termine “welfare”, rendendo
sempre più evidente la necessità di una visione coerente e integrata di tutti i profili che realizzano il benessere delle persone.
37
Il Libro bianco della Commissione Europea sulla salute ha
ribadito e rafforzato lo stretto legame tra salute e prosperità
economica, affermando che promuovere la salute consente
di ridurre la povertà, l’emarginazione e il disagio sociale, aumentando, per contro, l’occupazione e i tassi di produttività.
Il sistema sanitario
Il sistema sanitario lombardo ha raggiunto un livello di efficienza ed efficacia che lo mette al primo posto in Italia e tra i
sistemi più qualificati in Europa.
L’impegno è oggi quello di perseguire l’equilibrio economico in una prospettiva di costante miglioramento della qualità delle prestazioni.
È sempre più necessario assicurare il governo dell’intero sistema attraverso il monitoraggio e la verifica dell’appropriatezza clinica, mentre il processo di programmazione delle attività
e servizi deve comprendere sistemi di controllo non solo formali.
I recenti fatti avvenuti in alcune strutture sanitarie private
accreditate, con tariffe gonfiate per incrementare il fatturato e
le retribuzioni dei dirigenti medici, ha reso evidente la necessità
di rivedere e rafforzare il sistema dei controlli e la programmazione socio-sanitaria.
Le decisioni assunte in proposito dalla Regione sono
senz’altro positive, ma vanno supportare da strumenti che portino a distinguere in modo chiaro il soggetto titolare della funzione di programmazione, organizzazione e gestione, da quello
chiamato ad esercitare l'attività di controllo, attraverso l'individuazione di un “soggetto terzo”, di natura pubblica, che, con il
necessario supporto di esperti negli ambiti scientifico e professionale, assolva pienamente queste funzioni.
Sempre più stringenti vincoli d’equilibrio economico e finanziario hanno inciso sulla modalità e sugli spazi di copertura
assicurativa. Una progressiva riforma della protezione sanitaria
pubblica non può non tener conto di una domanda di salute
che oggi trova molte risposte al di fuori dei Livelli Essenziali di
Assistenza, con oneri gravosi per le famiglie. Occorre dunque
pensare, come già avvenuto in altri settori di protezione sociale, ad introdurre sistemi complementari di assicurazione, su base volontaria e dimensione collettiva, integrativi di quelli pubblici.
L’effetto non potrà che essere una riduzione del costo di
tali prestazioni per i cittadini che acquistano “pacchetti di prestazioni” preventivamente contrattati con le strutture sanitarie,
riducendo lo spazio ad iniziative lucrative e svolgendo una funzione regolatrice dei costi e della qualità erogata.
38
le politiche
socio-assistenziali
Sul versante più generale delle politiche familiari e socioassistenziali, sempre più correlate con quelle socio-sanitarie, la
Regione ha definito principi e basi per un sistema integrato di
welfare che risponda ai nuovi bisogni delle persone e delle
famiglie.
È necessario però dare continuità e concretezza al percorso di attuazione dei principi contenuti nella legge, attraverso una più forte collaborazione - sul piano di una autentica pari dignità e nel vincolo di sussidiarietà verticale e orizzontale tra Regione, Comuni, rappresentanze sociali e organizzazioni
del terzo settore.
Non è perciò né comprensibile, né giustificabile un ulteriore rinvio del confronto, in un apposito tavolo regionale, più volte richiesto dalle categorie dei pensionati, sulla necessità di
adeguare i Centri Diurni Integrati e l’Assistenza Domiciliare Integrata quali strumenti per rendere fattibile il mantenimento
degli anziani nel loro ambito famigliare, ricorrendo alle strutture
protette solo per le situazioni e i casi più gravi.
Perché, allora, non convocarci per aprire su questi temi
un confronto di merito?
Vogliamo discutere anche del sistema delle cure a lungo
termine, che passa necessariamente dall’integrazione
dell’assistenza con la formazione delle decine di migliaia di
badanti, attraverso le quali le famiglie si fanno carico di un
pezzo enorme di welfare supplendo al vuoto del sistema pubblico.
Anche per questo chiediamo, insieme ai nostri pensionati,
che nel quadro degli interventi sociali per fronteggiare la crisi,
sia subito attuata un’azione a sostegno della non autosufficienza, avviando da subito il Fondo Regionale previsto dalla
Legge, fermo restando che si tratta di risorse aggiuntive che
non devono in alcun modo ridurre l’impegno economico del
Fondo Sanitario Regionale e dei bilanci degli enti locali per la
non autosufficienza, rispetto a quanto attualmente assicurato.
Concretamente si tratta di ampliare l’assistenza domiciliare, accompagnandola con più risorse per i titoli sociali, per
l’accoglienza temporanea di sollievo, per il sostegno economico alle famiglie che hanno regolarizzato la posizione delle
badanti, di contenere le rette di ricovero nelle case di riposo,
puntando anche a servizi di sollievo come i centri diurni o la
semi-residenzialità, e per assicurare il graduale passaggio dalle
dimissioni protette ospedaliere al rientro al proprio domicilio o,
quando inevitabile, all’inserimento in strutture residenziali.
39
Tutto ciò può essere fatto con una maggiore efficacia attraverso la creazione di
•
un’unica struttura di riferimento distrettuale, che prenda in carico le necessità delle persone e delle famiglie;
•
un’unità di valutazione che definisca un piano di cure
integrato e personalizzato, con l’apporto diretto delle
famiglie e della sussidiarietà, ed un responsabile che
deve unificare, coordinandole, le azioni dei diversi
soggetti;
•
l’adozione di regole che definiscono la partecipazione
economica da parte dell’assistito alle spese di cura,
secondo principi di equità e riconosca nello stesso
tempo il valore della presa in carico delle cure da parte dei familiari;
Va infine considerata, con un apposito intervento di sostegno economico, la situazione delle famiglie che affrontano
spese per la non autosufficienza e che hanno subito un peggioramento della propria condizione economica, in conseguenza della perdita del lavoro o di messa in mobilità o cassa
integrazione .
In un’epoca di difficoltà crescenti nel reperimento delle risorse per un concreto ed efficiente sistema di protezione sociale, è ancor più necessario affermare logiche di sussidiarietà,
che permettano di realizzare e consolidare una rete fra tutte le
istituzioni territoriali, le associazioni di volontariato e le varie
rappresentanze sociali, e tra di esse il sindacato, che già oggi
contribuiscono, ognuna per la propria parte, a dare risposte ai
bisogni.
La qualità della protezione sociale deve partire da un rinnovato ruolo delle pubbliche amministrazioni sul territorio lombardo, per le quali è necessario realizzare un’azione di ammodernamento, che concretizzi il percorso verso l’autonomia e
renda trasparenti, corretti e compiuti i processi di integrazione
pubblico-privato
Va posta una nuova e diversa attenzione nei confronti dei
lavoratori pubblici della nostra regione, il cui lavoro è spesso
sottovalutato, premiando, attraverso una contrattazione decentrata resa più incisiva e flessibile dalla riforma del modello
contrattuale, la professionalità e lo spirito di autentico servizio
alle persone e alle comunità, che origina l’appassionato lavoro
della stragrande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori
pubblici lombardi.
La contrattazione integrativa, tanto più in attuazione del
nuovo modello contrattuale, deve costituire lo strumento privilegiato per rendere effettivi, a livello di singola amministrazione,
40
La protezione
sociale
i propositi di riorganizzazione e per promuovere l’autonomia e
l’efficienza amministrativa, nel quadro di un possibile, ulteriore
aumento dei già significativi livelli di produttività delle pubbliche amministrazioni lombarde. Il rilancio e il potenziamento
della contrattazione integrativa costituiscono infatti la modalità più efficace di estensione della responsabilità locale rispetto
alla verifica della qualità delle prestazioni erogata e percepita
dai cittadini, oltre a consentire un miglior riconoscimento del
merito. Tutto ciò dovrà vedere accresciuta la disponibilità di risorse da destinare al secondo livello di negoziazione per premiare professionalità e merito.
I processi di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni lombarde dovranno essere necessariamente supportati da una forte azione di semplificazione amministrativa delle
procedure e dei procedimenti, con il preciso obiettivo di eliminare inutili ed incongruenti adempimenti posti a carico dei cittadini e degli operatori economici e, nel contempo, liberare
preziose risorse umane a favore dell’erogazione diretta di servizi per la collettività.
Vanno ripensati e potenziati gli sportelli unici delle imprese
e va concretamente realizzata una rete telematica unica per
tutte le amministrazioni pubbliche, che consenta ai cittadini di
interagire direttamente con gli Uffici Pubblici, attraverso la digitalizzazione della P.A., e di ottenere tutto ciò di cui necessitano
(certificazioni – attestati –autorizzazioni – ecc.) direttamente al
proprio domicilio informatico o anagrafico.
Con il progredire del federalismo fiscale, alla Regione, alle
Province e ai Comuni spetterà sempre di più il potere di costruire un quadro della fiscalità locale che sia rispondente al bisogno e al dovere civico di contrastare davvero l’evasione fiscale, di promuovere l’equità fiscale e l’adozione di misure atte a
difendere il reale potere d’acquisto di pensioni e salari, anche
mediante l’individuazione di aree di esenzione e riduzione su
base ISEE per le famiglie a più basso reddito da lavoro e da
pensione. E occorre da subito agire anche per fronteggiare gli
effetti distorsivi che i vari indicatori del reddito subiscono a
causa della contrazione di molti salari dei lavoratori, che pagando la crisi con mobilità e cassa integrazione.
La contrattazione territoriale dovrà implementare politiche tariffarie che garantiscano livelli minimi di accessibilità,
commisurati ai redditi delle persone e delle famiglie ed alle caratteristiche territoriali di residenza, con particolare attenzione
alle fasce deboli e alle persone che presentano gravi difficoltà
di reddito, alle famiglie numerose, alle donne sole con figli, ai
titolari di pensioni basse.
Il federalismo fiscale e istituzionale era un tempo bandiera
di pochi e oggi è considerato, per sopravvenuta convinzione o
41
per la convenienza tattica tipica della politica italiana, la riforma che tutti giudicano necessaria.
È un percorso che si annuncia ancora lungo, prima che i
conseguenti decreti delegati siano tutti operanti, in attuazione
dei diversi criteri dettati dalla legge delega, tra i quali: il superamento della spesa storica verso la capacità fiscale e il fabbisogno standard, le correlazione tra prelievo e beneficio per favorire la corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa, la semplificazione fiscale, premialità, territorialità,
responsabilità del prelievo e del conseguente utilizzo delle
risorse.
Noi speriamo, e per questo obiettivo dobbiamo impegnarci, che alla fine del percorso nasca un federalismo per unire e non per dividere, per progredire tutti e ovunque, e non per
scavare solchi incolmabili, nella vita economica e sociale, tra
le regioni e i territori di questo nostro paese.
In una parola, un federalismo realmente solidale, che incarni il principio costituzionale della certezza del godimento
dei diritti e delle prestazioni ad essi correlati – salute, assistenza,
istruzione e formazione, lavoro, previdenza, mobilità, casa – rafforzi questi diritti per tutti gli italiani e per tutti gli stranieri che vivono in questo paese per lavorarvi o intraprendervi, nel pieno
rispetto delle nostre leggi.
Ma perché sia davvero questo il federalismo che verrà,
occorre tendere ad alcuni obiettivi di fondo: l’autonomia delle
istituzioni locali deve essere ampliata e ad essa deve corrispondere una maggiore flessibilità e discrezionalità nel reperimento e nell’uso delle risorse.
Il controllo sulle scelte e l’operato degli amministratori da
parte dei cittadini, anche attraverso le forme che essi si danno
di rappresentanza e associazione, deve trovare luoghi e modalità certi e formali per assicurare una costante rendicontazione della relazione tra il prelievo fiscale o impositivo, l’utilizzo
delle risorse e l’accertato incremento dei benefici per la popolazione amministrata.
Le recenti riforme della Costituzione hanno collocato su
un piano di assoluta, pari dignità lo Stato centrale, le Regioni,
le Province e i Comuni. Eppure la nuova incompiuta configurazione istituzionale ha creato confusione, conflitti di competenza e di attribuzioni, piuttosto che benefici verificati dai cittadini;
mancano ancora, infatti, sia una chiara allocazione delle responsabilità che un nuovo impianto di reperimento e gestione
delle risorse necessarie all’esercizio delle nuove e maggiori
competenze assegnate ai livelli di governo sul territorio.
Il federalismo fiscale non può e non deve, in nessun caso,
portare a un aumento della pressione fiscale complessiva, né
alla duplicazione di prelievi e costi per le stesse finalità, bensì a
una sua auspicabile diminuzione, in un trasparente e respon42
sabilizzante sistema integrato, in cui è chiaro chi fa cosa e per
che cosa chiede e utilizza i soldi dei cittadini, secondo un coerente e strutturato principio di sussidiarietà verticale.
È infine necessario che sia istituito un luogo istituzionale,
ove si confrontino le diverse autonomie, ove si stabiliscano criteri uniformi di indirizzo, si individuino e si aggiornino gli standard
dei costi correlati ai diversi servizi, dove si apportino i correttivi,
quando necessari, dove si costituisca e gestisca il fondo nazionale di compensazione tra le aree del paese più e meno svantaggiate.
A tale scopo la Cisl ritiene imprescindibile, nel percorso di
costruzione del federalismo, l’istituzione costituzionale della
Camera delle Regioni e delle Autonomie.
Parlando di welfare, non si può non considerare il crescente disagio abitativo che colpisce una fascia sempre più
grande di popolazione, in Lombardia in modo particolare.
Le domande in lista d’attesa di una casa popolare sono
oltre 35.000 e, con gli attuali livelli d’offerta, si riesce a soddisfarne non più del 3% l’anno. Le domande di contributo del
Fondo Sociale Affitti sono arrivate a quasi 78.000 nel 2008, mentre la copertura del fabbisogno accertato è scesa al 38,8%.
Quanto agli sfratti, dai dati ministeriali risulta che, nel primo semestre 2008, la Lombardia è stata la seconda regione, dopo il
Lazio, per sentenze emesse (quasi 15.000), ma la prima per
sfratti eseguiti (lo scorso anno circa 3.000).
Il disagio abitativo è generalizzato: va dai percettori di
pensione minima ai lavoratori impoveriti dalla crisi, dalle giovani coppie con lavoro precario a una quota crescente di migranti, fino alle famiglie impossibilitate a pagare il mutuo della
prima casa.
In questa difficile prospettiva, va perciò riconosciuto il ruolo svolto dal SICET regionale e dei territori lombardi, con la sua
collaudata capacità, anche a differenza di altre omologhe
organizzazioni di rappresentare il disagio abitativo più grave;
come attestato anche dalla presenza, tra i suoi tesserati, di
una quota di migranti (27%) doppia della media nazionale;
un’attiva collaborazione tra Cisl e Sicet resta perciò fondamentale per un’iniziativa sindacale che cerchi di ottenere più
adeguate risposte alla crisi abitativa.
La CISL Lombardia farà fino in fondo la sua parte affinché
sia ripresa una azione decisa di tutta la Cisl in materia di politica abitativa, con particolare riguardo alla riforma della
L.431/98, per introdurre nell’edilizia privata un unico regime locativo, regolato dalla contrattazione collettiva; all’incremento
ad almeno 500 milioni di Euro del Fondo Sostegno Affitti; alla
43
le politiche
abitative
necessità di una legge quadro sul welfare abitativo che riconosca il diritto all’abitazione come diritto fondamentale della
persona, definisca i livelli essenziali delle prestazioni, onde assicurare livelli di servizio abitativo uniformi su tutto il territorio nazionale, rimuova ogni discriminazioni xenofoba, confermi la
vecchia distinzione tra edilizia sociale ed edilizia agevolata/convenzionata, dando priorità alla prima, istituisca un Fondo nazionale per la casa e un Piano nazionale per il rilancio
dell’offerta di alloggi a canone sociale.
A livello regionale occorre proseguire la contrattazione
già in corso, per la salvaguardia e lo sviluppo della funzione
sociale del servizio abitativo, cercando di operare affinché i
170mila alloggi di edilizia sovvenzionata restino il più possibile
locati a canone sociale.
Rivendichiamo il completamento della parte economica
dell’intesa regionale dello scorso novembre, con più consistenti
riduzioni del canone e un atto d’indirizzo regionale per la costituzione e il funzionamento delle Commissioni sul Fondo di solidarietà; per la provvista finanziaria (evitando di gravare i Comuni di oneri impropri); per la riduzione strutturale dell’onere
per spese di riscaldamento gravante sulle famiglie in area di
protezione; per la definizione di un contratto-tipo di locazione,
unitamente alle modalità di ripartizione dei costi di manutenzione e dei costi amministrativi dei servizi a rimborso; per risolvere il diffuso contenzioso e per assicurare efficaci modalità di
controllo delle spese e dei contratti di fornitura da parte delle
rappresentanze sindacali dell’utenza.
Le politiche
scolastiche
La politica regionale in materia di sistema educativo si è
sviluppata sulle direttrici della centralità della persona/studente, della libertà di scelta di studenti e famiglie, del
miglioramento in qualità, efficacia ed efficienza del sistema di
Istruzione e Formazione Professionale e della promozione di innovazione, competitività e internazionalizzazione.
A concreto supporto degli obiettivi proposti, la Regione
ha adottato uno strumento – la cosiddetta “dote” – per finanziare progetti di contrasto alla dispersione scolastica, di promozione del successo formativo e di formazione per gli allievi disabili.
La “dote” però utilizza quale suo parametro l’indicatore
ISEE (o l’ISR), che non considera il patrimonio e conteggia nel
nucleo familiare solo genitori e figli a carico, e finanzia soltanto
“fino ad esaurimento del fondo” mentre i bisogni sono veri o
presunti a prescindere dalle graduatorie.
44
Dal nostro punto di vista occorre pertanto proseguire nelle
riflessioni sul modello di finanziamento.
Lo stesso vale per il parametro della “quota capitaria”
che, in applicazione della legge regionale, verrebbe utilizzato
per la distribuzione di risorse alle istituzioni scolastiche e formative: tale misuratore tendenzialmente rigido non può diventare
un elemento di sperequazione, con ricadute organizzative sulle
diverse istituzioni collocate in situazioni morfologicamente e
socialmente diversificate.
Dobbiamo invece assumere in pieno l’opportunità offerta
dal decentramento-federalismo come uno scenario in cui entrano in gioco, oltre al rapporto diretto tra regione e singolo cittadino, le responsabilità locali e dei soggetti rappresentativi.
I tempi stringono; la Regione entro il 2010 dovrà definire
una disciplina ed un apparato istituzionale idoneo a svolgere
le funzioni amministrative in materia di istruzione e di istruzione e
formazione professionale, garantendo continuità del servizio,
senza disagi per alunni e personale, e senza carenze nel funzionamento delle istituzioni scolastiche.
La stessa programmazione dell’offerta formativa e della
distribuzione delle risorse professionali e finanziarie deve coinvolgere Regione, Enti Locali, Ufficio Scolastico regionale e forze
sociali, ognuno per la parte di corresponsabilità.
Questa sarà la principale materia di lavoro per i prossimi
mesi: una programmazione funzionale e qualitativamente alta
dell’offerta formativa, che tenga conto delle vocazioni territoriali, delle prospettive di lavoro e del raccordo con le Università
e i percorsi di alta formazione e qualificazione.
In Lombardia la situazione del settore privato della formazione professionale (che nel corrente anno scolastico coinvolge circa 36mila alunni) resta ancora critica, sia per la scarsa disponibilità di risorse sui percorsi triennali, sia per le nuove modalità di finanziamento.
Una situazione di rischio che si innesta sui cambiamenti e
le procedure che già avevano interessato il settore in questi ultimi anni
L’offerta formativa 2009-2010 per il primo anno
dell’obbligo d’istruzione vede complessivamente 648 corsi per
un importo di 37,5 milioni di euro.
Si conferma il trend in costante aumento rispetto alla
quantità di corsi proposti (erano 423 nel 2007 e 575 nel 2008)
così come la prevalenza del settore “Cura della persona, estetica, sport e benessere” che raggruppa il 25,7% dell’offerta
formativa.
Sono conferme che pongono interrogativi, sociali prima
ancora che puramente formativi.
45
Servirà ragionare sui motivi della scelta, ma soprattutto
occorre impegnarsi per proposte ragionate dell’offerta formativa, proposte che devono tenere conto delle possibilità di
successo professionale e di impiego nei diversi territori rispetto
al fabbisogno reale dei settori produttivi e di servizio.
Dobbiamo puntare a realizzare una programmazione che
ipotizzi con la maggiore approssimazione possibile il bisogno ci
si vuol rispondere, quindi stanzi le risorse e definisca i criteri.
Per approdare ad un tale strumento, puntato con precisione agli obiettivi , c’è ancora parecchio da definire:
•
La quantità delle risorse, e modalità distributive sul territorio che prevedano correttivi e deroghe al principio
della “quota capitarla”;
•
La spendibilità in ambito nazionale ed europeo dei titoli conseguiti;
•
L’applicazione del contratto di lavoro della categoria
di riferimento a garanzia dei lavoratori degli enti accreditati;
•
Il riconoscimento della formazione agli apprendisti e
l’istituzione del libretto formativo individuale;
•
Il sistema di governance regionale e territoriali: gli ambiti e le procedure per la lettura dei fabbisogni, la definizione e la distribuzione dell’offerta formativa;
•
I raccordi con i fondi interprofessionali e gli enti bilaterali in materia di formazione continua;
•
Un nuovo sistema di accreditamento delle strutture
formative: i soggetti che si candidano a svolgere
l’obbligo di istruzione dovrebbero dichiarare il “non
scopo di lucro”, dovrebbero avere la formazione come scopo esclusivo, disporre di team stabili, di idonee
strutture, di percorsi completi con terminalità proprie,
dovrebbero applicare il CCNL della Formazione Professionale.
L’azione della Cisl in Lombardia sul piano della formazione
deve rispondere alle sfide del nostro tempo, oggettivamente
diverse dal passato, e partirà quindi da una ridefinizione
dell’alveo culturale in cui collocare bisogni, aspettative e obiettivi dell’organizzazione nel rapporto con tutto il proprio personale politico.
Proprio perché confermiamo la funzione strategica della
formazione per il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione, occorrerà rivisitare quanto fatto e operare un riposizionamento: partendo dalla grande tradizione che ci ha preceduto e ci accompagna, si tratta di rivisitare scopi e obiettivi,
46
La formazione
ruoli e contenuti, per innovare la nostra “scuola” e renderla più
coerente con la sua funzione sostanziale.
Essa è allo stesso tempo originale e specifica: suo obiettivo è una formazione dei dirigenti e dei quadri finalizzata ad
accrescere conoscenze, capacità, competenze, autonomia e
responsabilità, educare cioè una nuova generazione di sindacalisti in grado di realizzare le nuove dimensioni contrattuali,
generate da:
•
una continua e permanente transizione economica,
produttiva, sociale e del lavoro nei territori;
•
una concezione del lavoro che vada oltre il binomio
reddito-occupazione;
•
i nuovi assetti della negoziazione, più focalizzati sul
territorio, in azienda, sulle persone;
•
i nuovi bisogni di welfare, a cui solo la bilateralità
contrattuale potrà rispondere, nella scia di un welfare
to work;
•
una più stretta correlazione tra le retribuzioni e le dinamiche della produttività e di andamento economica delle imprese;
Il riposizionamento culturale e politico non potrà non riflettersi sulle proposte formative, dal “corso Lungo” per i nuovi dirigenti alle proposte monografiche sui temi trasversali e specifici,
dall’azione di supporto-integrazione verso le realtà a cui viene
richiesto l’intervento della funzione regionale fino ai contributi
alla formazione confederale.
Il nostro metodo è quello di fare rete intorno alla “originale
specificità” della formazione sindacale.
Anche se nella nostra organizzazione non c’è spazio per
una direzione del personale unica e centralizzata, è tuttavia
necessario pervenire ad una azione sistemica e integrata, in
una logica sussidiaria, cooperativa ed emulativa nel “far meglio” che attenui dispersioni e inefficienze.
Il dipartimento formazione della Unione Regionale verrà
riorganizzato rafforzando la sua collocazione nel vasto network
della formazione sindacale delle Ust, delle Categorie, della
Confederazione e del Centro Studi di Firenze.
L’azione sussidiaria e complementare con i livelli territoriali
e nazionali sarà garantita dal collegamento organico con la
Segreteria Generale, dall’ausilio di un “comitato scientifico”
che andrà costruito attorno a quei professori che da tempo ci
dedicano attenzione e in sinergia con l’Ufficio Studi, con
l’Associazione Bibliolavoro e con le funzioni omologhe presenti
nei territori e nelle categorie della Lombardia, in una azione
corale e unitaria.
47
La nostra convinzione è che l’accordo del 22 gennaio sia
determinante anche per le nostre scelte formative: con esso infatti si chiude una stagione di conflitto endemico tra capitale e
lavoro e si fissano le condizioni per una fase di relazioni collaborative e di reciproca contaminazione tra conoscenza e capitale, tra partecipazione e nuove frontiere di democrazia economica, tra persone che abitano la comunità-impresa con
interessi diversi ma non divergenti.
Queste sono le coordinate culturali della road map della
formazione sindacale che, partendo dalle diverse discipline,
dovrà innervarsi nei percorsi di crescita e sviluppo dei quadri e
dirigenti lombardi.
Anche sulle questioni dell’immigrazione il tema del congresso ci spinge ad approfondire i nostri pensieri. Uno dei contributi alla riflessione congressuale che abbiamo messo a disposizione del gruppo dirigente nelle scorse settimane, è un testo di Maurizio Ambrosini, professore all’Università degli Studi di
Milano, uno dei maggiori studiosi dei processi migratori. Scrive
Ambrosini: “L’immigrazione è sempre una questione di definizione dei confini tra noi, i nostri amici e gli altri.
Noi, la comunità nazionale insediata su un territorio; i nostri
amici, gli stranieri che accogliamo con favore come residenti
ed eventualmente come futuri cittadini; gli altri, gli estranei,
che siamo disposti ad ammettere provvisoriamente, per esempio come turisti, ma che in linea di principio non vorremo vedere insediati stabilmente nelle nostre città, e tanto meno annoverati tra i cittadini a pieno titolo”.
È su queste definizioni che abbiamo costruito, nella nostra
testa prima ancora che nella norme, la categoria sociale degli
immigrati, o meglio, il confine classificatorio che ha come oggetto gli immigrati, un confine che ci porta a definire stranieri
un francese o un americano e immigrati un africano o un romeno.
Anche per questo, per chi come noi ha l’orgoglio di essere tra quelli che si è occupato prima di immigrati che di immigrazione, di uomini, di donne, di bambini prima che di procedure, un impegno maggiore sulle parole e sul linguaggio non
sarebbe fuori luogo. Per dire che in Lombardia non ci sono
stranieri, immigrati o extracomunitari, ci sono nuovi cittadini.
Più di ogni altra regione italiana, la Lombardia è una realtà multietnica e multiculturale. Il lavoro è stato ed è il motore di
questa rivoluzione. Ed è il lavoro che garantisce dignità e diritti,
in una parola: garantisce cittadinanza.
In tempi di crisi, le difficoltà, le diffidenze, i pregiudizi ad
accettare i nuovi arrivati – cose che fanno parte dell’essere
48
I nuovi cittadini
lombardi
umano (basta ricordare i tempi non molto lontani dell’immigrazione proveniente dal Sud dell’Italia) – si accentuano e rischiano di alimentare l’intolleranza.
Significativo a questo proposito è il richiamo fatto dai
principali organi europei di difesa dei diritti umani, in occasione
della Giornata mondiale per l’eliminazione della discriminazione razziale: “La storia dell’Europa dimostra come la depressione economica può tragicamente portare a un incremento
dell’esclusione sociale e della persecuzione. Noi siamo preoccupati che, in tempo di crisi, i migranti, le minoranze e altri
gruppi vulnerabili diventino capri espiatori per politici populisti
e media”.
Preoccupazione fondata visto quello che sta succedendo
intorno a noi.
Il lavoro svolto da immigrati, da complementare a quello
svolto dagli italiani, diventa sempre più sostitutivo.
Nell’accesso alle prestazioni sociali, dai bonus familiari, alla casa, agli ammortizzatori sociali, l’immigrato viene visto come l’impedimento ad ottenere aiuti indispensabili per far fronte
alle difficoltà determinate dalla crisi.
In questo contesto, l’idea di introdurre il reato di clandestinità, la copertura legislativa alle ronde, l’abolizione del divieto per i medici di segnalare alle autorità competenti gli stranieri
senza permesso di soggiorno, ha favorito la diffusione e la percezione dell’immigrato come causa dell’insicurezza sociale e
individuale.
Per questo è stato importante aver preso posizione, mobilitandoci, contro il pacchetto sicurezza del Governo, così sarà
importante sostenere la campagna di sensibilizzazione “Non
aver paura, apriti agli altri, apriti ai diritti”: nei confronti del razzismo, dello sfruttamento, non possiamo rimanere indifferenti.
È illusorio pensare di fermare la spinta migratoria verso il
nostro paese se non si combattono le cause politiche ed economiche di ingiustizia sociale nei paesi d’origine, se non si contrasta il mercato dei nuovi schiavi, ormai al primo posto degli
interessi delle criminalità organizzate. La disperazione e la volontà di riscatto che muovono i migranti del Ventunesimo secolo è dimostrata dal fatto che tra i rischi che mettono in conto
c’è la loro stessa vita: Non dimentichiamo che nel solo mese di
marzo sono stati 316 i morti nelle acque del Mediterraneo.
Le politiche migratorie dovranno essere decise sempre di
più a livello europeo, con accordi multilaterali, con regole che
sappiano coniugare la solidarietà con la legalità, che tengano
conto non solo del mercato, ma anche dalla capacità
d’inclusione sociale di cui siamo capaci, perché le persone
non possono essere usate quando c’è n’è bisogno e abban49
donate a necessità finita; o peggio, come chiede certa parte
politica, rimandate al loro paese!
In Lombardia lavorano e vivono più di un quarto di tutti gli
stranieri arrivati in Italia in questi anni. L’ultimo rapporto ISMU
dice che gli immigrati in Lombardia sono 1.060.000, rispetto al
2007 sono 121.000 in più e rappresentano il 10% della popolazione. Per la prima volta il numero degli immigrati residenti nel
territorio della provincia di Milano (225.000 persone) è più alto
di quello della città capoluogo (209.000 nuovi cittadini), una
città più popolosa di Brescia.
In ambito regionale i maggiori incrementi di popolazione
straniera si sono registrati nelle province di Pavia, Cremona,
Mantova, Lodi e Bergamo.
Il radicamento del fenomeno è confermato dal dato sui
nuclei familiari che hanno superato quota 200.000. Se da un lato questo favorisce la stabilizzazione e l’integrazione, dall’altro
evidenzia la necessità di politiche socio-sanitarie più adeguate, di interventi continuativi.
Se nel mondo del lavoro il principio che ad uguali diritti
corrispondono uguali doveri è ormai assodato, così non è nella
costruzione delle politiche sociali, dove la spinta a differenziare
o escludere dalle prestazioni gli immigrati si riscontra purtroppo
a tutti i livelli, nazionale e locale. Penso ad esempio alle vicende dei bonus bebè, realizzati in forme e modi diversi, dove i
comuni escludono dal beneficio gli immigrati. Davvero una politica miope visto che la crescita della natalità è un’esigenza
primaria del nostro Paese, e se è giusto sostenerla per i cittadini
italiani lo deve essere altrettanto per i nuovi cittadini che quasi
sempre hanno maggiori difficoltà di reddito e non hanno reti di
sostegno, soprattutto in questo momento di difficoltà.
Ne sono segnali indicativi la diminuzione del volume
complessivo delle rimesse dalla Lombardia ai paesi d’origine e
la caduta, per il secondo anno consecutivo, del reddito medio
mensile dei lavoratori immigrati.
La crisi del comparto industriale grava in misura pesante
anche sulle centinaia di migliaia di lavoratori stranieri arrivati in
questi anni in Lombardia: essendo il loro permesso di soggiorno
legato al contratto di lavoro, in una situazione di crisi con ricorso alla cassa integrazione o alla mobilità, il destino di questi lavoratori è tra emigrare nuovamente o cadere o ricadere nella
clandestinità, andando ad ingrossare le fila del lavoro irregolare.
La Cisl ha degli impegni e delle responsabilità nei loro
confronti, anche per il consistente livello di rappresentanza che
i nuovi cittadini ci hanno affidato.
50
Sono infatti più di 330.000 le lavoratrici e lavoratori immigrati iscritti alla Cisl su tutto il territorio nazionale, con una media del 15% tra gli iscritti alle nostre categorie.
Come rileva il prof. Ambrosini nel suo contributo, oggi i
temi dell’immigrazione sono ancora troppo “specialistici” e
quindi collaterali rispetto al cuore dell’azione sindacale. Occorre dunque passare dalla fase dei servizi e dell’assistenza ad
una fase di inserimento degli immigrati nelle strutture, di coinvolgimento, di partecipazione, di assunzione di responsabilità
diretta con un ruolo di rappresentanza a pieno titolo anche
negli organismi ai diversi livelli.
Solo così riusciremo condurre in porto battaglie non solo
per gli immigrati, ma con i nuovi cittadini.
Coinvolgimento nei luoghi di lavoro ma anche nel territorio, favorendo il dialogo, il confronto e la collaborazione con i
mondi vitali dell’associazionismo.
I protocolli d’intesa tra Inas ed Anolf, tra Anolf e Federazioni di Categoria assegnano un ruolo a ciascuna struttura,
creano sinergie e quindi danno un valore aggiunto alla nostra
azione su un terreno di frontiera. C’è bisogno di sperimentare,
di adottare posizioni anche coraggiose nei confronti delle istituzione e di una mentalità restia ad accettare il nuovo e la diversità. C’è da fare tesoro delle esperienze e dei progetti sviluppati nei Territori e nelle Categorie.
C’è infatti una ricchezza umana e organizzativa diffusa
che è poco valorizzata. Il rilancio dell’Anolf Lombardia è un investimento che la Cisl regionale intende portare avanti per favorire un lavoro di rete tra Territori, Servizi e Categorie. Passa da
questa sinergia la possibilità di essere costruttori di una società
più aperta e più includente, di difendere efficacemente i diritti
degli immigrati e di promuovere il loro accesso alla cittadinanza lavorativa e sociale.
Un impegno che raccorda la nostra iniziativa con quella
delle altre forze vive della società civile, per rimettere a tema,
ad esempio, il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali degli immigrati, come il riconoscimento della cittadinanza ai figli
nati nel territorio italiano ed il diritto al voto amministrativo.
Un ordinamento civile avanzato non può limitarsi a registrare gli immigrati come onesti lavoratori che pagano le tasse
e contribuiscono al benessere generale, deve saperli accogliere non solo come braccia ma come persone, che maturano la
piena acquisizione dei diritti di cittadinanza.
Abbiamo ancora tanta strada da fare, e bisogna incamminarsi. Rimovendo gli ostacoli che il sistema politico italiano
costruisce ad arte per demotivare, vessare e talvolta umiliare i
nuovi cittadini: basti pensare alla via crucis dei permessi di
51
soggiorno, dalle pratiche per il rilascio fino ai rinnovi. Se non
fossimo un paese smemorato della propria storia, storia anche
di povertà e di emigrazione, forse oggi avremmo un sussulto di
dignità e guarderemmo con occhi diversi a queste persone.
“Stiamo nel mondo”
Oltre al mondo che arriva a noi, c’è poi il movimento che
noi facciamo per uscire dal nostro guscio, per andare in quelle
parti di mondo dove c’è da fare qualcosa di diverso, da imparare qualcosa di nuovo.
Stiamo nel mondo con le tante iniziative promosse e diffuse da ISCOS e dal dipartimento regionale perché è indispensabile, perché fa parte del nostro essere.
Che sindacato saremmo se non riuscissimo a guardare oltre i nostri orizzonti locali? Un sindacalista che non provi almeno
curiosità per quel che succede “oltre le colline di casa propria”
non può essere un buon sindacalista.
La stessa crisi ha messo in evidenza quanto sia importante
una visione globale dei fenomeni.
“A crisi globale occorrono risposte globali” è lo slogan di
questi tempi.
Le riunioni dei vertici internazionali, le previsioni e le analisi
si susseguono a ritmi serrati. Un po’ più lenta è l’attuazione delle proposte per far fronte allo sconquasso sociale che ne sta
derivando.
Per parte nostra, la Confederazione Sindacale internazionale ha presentato al recente G20 di Londra un pacchetto di
proposte in cinque punti essenziali:
•
un piano internazionale coordinato per lo sviluppo sostenibile, per creare occupazione e investimenti pubblici;
•
la nazionalizzazione delle banche insolventi e una nuova regolazione dei mercati finanziari;
•
un’azione per combattere la contrazione dei salari e
invertire la tendenza, in atto da anni, di crescita disuguale;
•
azioni a lungo termine sui cambiamenti climatici;
•
un nuovo quadro legale internazionale per regolare
l’economia globale, accompagnato dalla riforma delle istituzioni economiche e finanziarie internazionali.
Quanto è cambiato rispetto agli anni scorsi, se il documento conclusivo del G20 ha ripreso almeno in parte le preoccupazioni sindacali riconoscendo “la dimensione umana”
della crisi, sostenendo la creazione di nuove opportunità di im52
piego e sostegno al reddito, e affermando la necessità di investire nell'istruzione e nella formazione,
Occorre però ricordare che già nel settembre del 2000,
ben 189 paesi si impegnarono a raggiungere gli otto “Obiettivi
del millennio” entro il 2015, dimezzando la povertà, eliminando
la fame, riducendo drasticamente la mortalità infantile e garantendo l’istruzione primaria.
La tabella di marcia non è stata quella immaginata e gli
obiettivi del millennio - e la giustizia sociale ad essi collegata sono ben lungi dall’essere realizzati.
Certo i 1.100 miliardi di dollari previsti dal G20 per fronteggiare la crisi sono risorse che aiuteranno anche a prevenire
nuove ricadute negative dell'economia mondiale sui paesi più
fragili, ma resta ancora da capire come le risorse stanziate saranno usate in modo efficace e mirato, posto che in Italia, per
esempio, gli aiuti allo cooperazione allo sviluppo sono stati tagliati e hanno raggiunto quest’anno il loro minimo storico; è
una premessa non certo confortante.
Come lombardi dobbiamo però anche riconoscere che,
pur nelle medesime coalizioni generali, tale contrazione degli
impegni non è avvenuta per il governo regionale, e ne diamo
volentieri atto alla Regione Lombardia .
Confidiamo che queste attenzioni siano di buon auspicio
per i prossimi impegni, che da qui richiediamo.
La nostra Regione ha recentemente assunto la presidenza
di turno della Conferenza tripartita 4 Motori d’Europa
sull’occupazione, il cui primo ciclo si è aperto a Barcellona nel
1998 e concluso nel 2008 a Stoccarda. Chiediamo che la Regione dia seguito a queste iniziative, uniche nel panorama europeo, che coinvolgono istituzioni e parti sociali. La nostra proposta è che la conferenza sia dedicata agli strumenti che le
Regioni 4 Motori stanno realizzando sulla crisi, con le stesse
modalità di preparazione partecipativa che diedero vita
all’edizione lombarda del 2003, a Milano.
Il secondo impegno che chiediamo riguarda l’Expo 2015:
la cooperazione internazionale non può essere la cenerentola
dell’evento. Oltre alle dichiarazioni di intenti, occorre che le istituzioni lombarde diano seguito al ruolo e agli interventi a sostegno della cooperazione decentrata, proseguendo, per il livello regionale, un dibattito già aperto e riformando gli strumenti legislativi attuali ormai obsoleti. Prendiamo esempio da
una regione compiutamente federalista come la Catalogna,
dove la cooperazione internazionale sindacale è un asse portante degli interventi, riconosciuto quale interlocutore principale sui temi del lavoro e sul dialogo sociale.
E in tutto questo scenario, dove sta l’Europa?
53
Per noi che al lavoro europeo abbiamo dedicato tempo,
energie, e risorse, per noi l’Europa è un grande progetto che
deve avere sempre più connotazione sociale. La Confederazione Europea dei Sindacati, il cui rafforzamento ci sta particolarmente a cuore, già da tempo sostiene che “abbiamo bisogno di più Europa”, perché “L’ Europa siamo noi”.
Solo una società europea solidale e coesa può trainare la
difficile formazione di un’unione politica, fondata su una sovranità condivisa e su una cittadinanza europea sostanziale.
La società europea si è sviluppata in una delle regioni più
ricche del mondo, è una società del benessere. Dobbiamo
averne coscienza soprattutto oggi, in una stagione di crisi come quella che stiamo vivendo.
È europeo il più esteso sistema di welfare state al mondo:
lo si vede anche dai suoi costi, che nell’Unione supera largamente la media del 25 % della ricchezza nazionale;
È europea una cultura dei diritti che, seppure oggi sotto
pressione, ha espresso meglio di altre la salvaguardia dello Stato di diritto;
È europea la cultura del dialogo sociale tra gli attori del
mondo economico, alla ricerca di soluzioni auto-regolate ai
contenziosi;
È europea la più avanzata legislazione in materia di economia sociale di mercato, frutto di una saggia diffidenza nei
confronti della vagheggiata “mano invisibile” del mercato;
È europea infine (anche se si va logorando rapidamente)
una cultura dei servizi pubblici essenziali accessibili a tutte le
persone, a prescindere dal loro reddito.
Ma la positività di questo quadro con molte luci non deve
occultare le pesanti ombre che già lo stanno raggiungendo e
che minacciano di aggravarsi ancor più. Sono ombre che la
stessa Commissione europea ha segnalato in una sua recente
comunicazione, affrontando il tema di “una nuova visione sociale per l’Europa del XXI secolo”.
È sbagliato limitarsi a chiedere alla politica - ad altri - cosa
bisogna fare.
Come Cisl della Lombardia abbiamo cercato di fare in
prima persona, traducendo in azioni sindacali il nostro “stare
nel mondo”; i materiali presenti nella cartelletta virtuale testimoniano delle attività realizzate.
Abbiamo proseguito nel raccordo tra le attività internazionali, di Iscos e Anolf, e l’azione delle categorie e delle unioni
territoriali, con un attenzione specifica all’area del Mediterraneo.
54
Accanto alle tradizionali attività che fanno parte del patrimonio del sindacalismo confederale lombardo, quali Euronote, il lavoro con i Sindacati 4 Motori, la partnership con il sindacato rumeno e bulgaro e il lavoro transfrontaliero, si sono aggiunte negli ultimi anni nuove iniziative e strumenti promossi
dalla Cisl: Infoeuropa, i progetti sui Comitati Aziendali Europei,
le campagne di educazione allo sviluppo e sul lavoro dignitoso
e le iniziative di sostegno alla crescita di nuove esperienze sindacali nel mondo.
La miglior prova della nostra convinzione “mondialista” sta
nel programma di domani pomeriggio: al nostro dibattito congressuale parteciperanno gli amici palestinesi e israeliani e
numerose altre delegazioni estere ci porteranno il loro saluto.
Ma non possiamo certo fermarci alla cortesia istituzionale,
e già da oggi vogliamo rilanciare verso una “nuova frontiera”:
è il momento di proporre con regolarità ai nostri dirigenti momenti dedicati ad ampliare i nostri orizzonti, una “settimana di
studi internazionali” in cui concentrare e approfondire i temi
cui tanti di noi si dedicano singolarmente, per allinearci e condividere le migliori esperienze.
Dall’Europa a Milano il viaggio è breve e spesso, purtroppo, passa per Roma.
Questo per dire che approssimandoci ai nostri temi sindacali lombardi, serve una breve riflessione sui sempre attuali nodi
dell’intreccio tra i diversi livelli della nostra organizzazione.
Lasciatemi fare un esempio “popolare”.
Questa è la stagione in cui tanti di noi hanno messo mano
all’orto. È un lavoro che fa riflettere, il lavoro di accompagnare
il rigoglio primaverile della natura, poiché assomiglia molto alla
cura che dovremmo avere nell’accompagnare la crescita dei
nostri quadri sindacali.
Perché come le insalate messe a dimora crescono rigogliose se il tanto nostro lavoro “dal basso” - vangare, concimare e seminare – è supportato dall’altrui lavoro “dall’alto” - la
pioggia e il sole – così i gruppi dirigenti vivono e si rafforzano
grazie al giusto mix di autonomia locale, supporto regionale e
relazione con la Confederazione.
Quante volte abbiamo parlato di radicamento nella società, nei territori? Il sindacato non cresce nel nulla, c’è un terreno di coltura fatto di fenomeni sociali e politici e ci sono organismi che affondano le radici e che si nutrono del terreno e
danno così sostentamento ad una parte aerea, a una pianta
o – è forse l’esempio più adatto a noi - ad un rizoma.
55
La CISL
della Lombardia
Un organismo nomade, le cui tante piccole radici nutrono
e fanno propagare una pianta policentrica, che resta radicata e allo stesso tempo si muove a coprire tutto il terreno a disposizione e che assume forme diverse a seconda del terreno
in cui è capitato, “metabolizzando” e traducendo i temi generali nelle numerose questioni locali.
Poi ci sono anche i trucchi dell’ortolano: quelli buoni, come bagnare la terra a una certa distanza dai germogli, non
proprio quella adiacente alla piantina, perché così le radici
devono faticare almeno un po’ per trovare l’acqua e così facendo tutta la pianta si rafforza, e quelli meno buoni come
proteggere e coccolare la coltura dentro a una serra, dove il
sole è nascosto e l’acqua razionata.
Certo nessuno in Lombardia si aspetti di essere in serra; i
confronti tra i livelli dell’organizzazione saranno sempre franchi.
La nuova confederalità, il rinnovato patto associativo già
oggetto di mozioni e delibere dei nostri organismi, sono per noi
semplicemente una capacità diversa di stare assieme, un modello di organizzazione sindacale integrata, a partire dal
territorio.
La contrattazione delegata ai livelli territoriali dal nuovo
modello contrattuale è ormai un pezzo molto rilevante della tutela che vogliamo garantire ai lavoratori.
Ora che coraggiosamente abbiamo innovato sul nostro
“perimetro esterno”, quello contrattuale, ogni livello
dell’organizzazione - a partire dalla confederazione – dovrà
con perseveranza e coerenza dare attuazione a quanto già
deciso rispetto ai confini interni dell’organizzazione.
Le sperimentazioni locali sul duplice versante della rappresentanza e della gestione dei servizi ai soci dovranno essere
favorite e stimolate, invece che controllate e talvolta frenate.
L’esigenza di rivedere il sistema contributivo e le modalità
della distribuzione delle risorse tra i diversi livelli dell’organizzazione, privilegiando le categorie territoriali e le UST, dovrà
essere affrontato in modo risoluto e risolutivo. Non vorremmo
fosse considerata, strumentalmente, una questione aperta
all’infinito.
Se per questi obiettivi ci sarà da riformare e adeguare il livello regionale, sia nella sua componente orizzontale che in
quella verticale, diciamo serenamente già oggi che le forme
concrete del coordinamento assegnato a tali livelli dallo statuto della Cisl potranno essere messo in discussione.
Le priorità attuali della USR sono chiare e condivise:
•
lo sviluppo e il sostegno ai progetti di proselitismo;
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Confederalità
e patto associativo
•
le politiche rivolte alla individuazione e alla valorizzazione del capitale umano, con particolare riferimento
ai giovani, alla realtà femminile e ai nuovi cittadini
lombardi;
•
un sistema formativo idoneo a sostenere progetti per
nuovi inserimenti nell’organizzazione e in grado di facilitare la mobilità interna all’organizzazione dei quadri
sindacali;
•
la conferma del ruolo della Commissione Organizzativa
quale ambito di proposta, di confronto e di verifica
delle attività e delle iniziative;
Il sistema dei servizi della Cisl della Lombardia svolge un
ruolo importante del nostro rapporto con gli iscritti e i lavoratori,
è un pezzo importante della nostra organizzazione, poiché è
un pezzo integrativo - non sostitutivo - della nostra missione sindacale.
I servizi sono, prima di tutto, passione e competenza.
In Lombardia non siamo all’“anno zero”; i servizi sono cresciuti e si sono rafforzati interpretando al meglio quel principio
sussidiario di rispondere alla persona e al suo bisogno avvicinandosi con disponibilità e accoglienza, offrendo generosamente ascolto, aiuto e orientamento, senza aver troppa cura
del tornaconto economico, dei punti o dei contributi per pratica.
Stiamo procedendo nelle scelte e negli investimenti che
qui confermiamo
•
la realizzazione del progetto anagrafe degli iscritti integrato al sistema dei servizi, che fornisca e allinei una
unica banca dati degli iscritti capace di dialogare, in
particolare, con i CAAF, l’INAS, gli Uffici Vertenze e il sistema del Turismo.
•
il potenziamento degli Uffici Vertenze, uno strumento
sindacale in senso proprio e peculiare, in grado di dare valore aggiunto e stabilità ad un modello che è stato assunto dalla confederazione e che deve consolidarsi in una logica partecipativa orizzontale, di sistema;
•
la costruzione di una cornice comune, nell’ambito
dell’Etsi, alle tante iniziative in materia di turismo sociale, turismo di sollievo e turismo responsabile che ogni
struttura progetta;
•
la sperimentazione di modelli di reale integrazione tra i
diversi servizi, in particolare a livello di UST, quale la collaborazione avviata tra INAS e CAAF anche a livello
locale;
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I servizi
Siamo perciò davvero contrariati di dover assistere alle
false descrizioni dei nostri servizi, associati da taluni ad un irreale aiuto statale indiretto, e magari improprio, al sindacato; i nostri servizi sono modellati su valori forti e sono incardinati ad un
reale spirito di servizio, che pervade anche i comportamenti
personali dei nostri operatori. Su questo aspetto non temiamo
critiche e saremo noi stessi i controllori più puntigliosi.
E se proprio dobbiamo esercitarci nella contabilità, ogni
segretario qui presente, ogni responsabile di un servizio può testimoniare che la Cisl investe nei servizi molto più di ciò che ricava.
È urgente perciò assumere quale impegno congressuale
la necessità di un momento di promozione, di informazione
limpida per fare conoscere di più cosa e come si fa, cosa si
mette e cosa si riceve nei servizi Cisl.
Al tempo stesso, proprio per le motivazioni che ci muovono, dobbiamo dedicarci a qualche aggiustamento al sistema.
È veramente importante operare con più sinergia, tra i
servizi e tra questi e le categorie, e le unioni territoriali. Va realizzata senza ritardi una integrazione delle funzioni che valorizzi
le autonomie e le coordini efficacemente.
La forza dei servizi è il territorio; la loro capacità di rispondere ai bisogni può essere ampliata e sviluppata con un fare
“localizzato”, con una risoluta valorizzazione della frontiera presidiata dai responsabili locali.
La dieta di cui hanno bisogno i nostri servizi dovrebbe avere molte più porzioni di decentramento e integrazione, e decisamente meno decisioni centralizzate, ma migliori: una visione
politico-strategica più ampia e condivisa, più coordinamento
effettivo, e una progettazione finalmente moderna degli strumenti di marketing e di branding.
Constatiamo purtroppo che accentramento e autoreferenzialità sono ancora ingiustificatamente troppo presenti.
Con assunzioni “alla romana” ed altre astrusità, in alcuni servizi
si assiste ad una umiliazione delle nostre UST che non vogliamo
più accettare.
Non chiediamo una autonomia fine a se stessa, ma un
progetto organico di lungo periodo, che tenga assieme le esigenze di maggior autonomia del territorio, e una definizione
forte e un indirizzo delle funzioni cui gli enti devono assolvere.
Carissimi, circa 800mila lavoratrici e lavoratori, attivi e pensionati, in Lombardia danno a noi fiducia, ci scelgono e pagano per avere un’organizzazione libera ed autonoma.
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Conclusioni
Loro devono essere il nostro riferimento principale.
Tutti noi dobbiamo partire da lì, e da lì cominciare a lavorare insieme con le UST e le categorie, con livelli di responsabilità non sovrapposti ma integrati.
In questa relazione abbiamo più volte rimarcato quello
che vogliamo, chi vogliamo essere: dei sindacalisti contrattualisti, per tutelare meglio il lavoro, ridistribuire meglio la ricchezza,
concorrere più equamente alla fiscalità e contrattare più welfare locale.
Tutti insieme, ognuno con la propria parte, la squadra della Cisl lombarda scenderà in campo così: all’attacco le categorie, a centrocampo le Unioni e in difesa la Cisl regionale.
Vogliamo essere sindacalisti, anzi dovremmo pretendere
dagli uffici anagrafe che sulla carta di identità sia scritto non
“impiegato” ma “sindacalista”.
E quando i nostri figli ci chiedono “ma tu che lavoro fai?”,
dobbiamo dar conto anche a loro della nostra motivazione,
della vocazione che ci spinge a fare accordi …
•
…perché nessuno muoia sul posto di lavoro;
•
…perché il lavoro sia più dignitoso;
•
…perché il lavoratore sia più rispettato;
•
…perché abbia più salario;
•
…perché ogni persona non sia mai sola;
E a chi ci rinfaccia di non lottare più, o a chi ritiene che i
meriti di un sindacato siano proporzionali soltanto al frastuono
della protesta, dobbiamo ricordare di non esagerare; perché
è lotta anche – se non soprattutto - la determinazione e il confronto serrato nelle trattative, ed esasperando la dialettica non
si favorisce soltanto il bipolarismo sindacale, ma si corre anche
il grave rischio di polarizzare l’intero campo del sociale.
Caro segretario generale,
abbiamo attraversato nel nostro recente passato una fase di confronto nel gruppo dirigente; grazie alla nostra forza e
autonomia ne siamo usciti uniti e coesi, persino rafforzando i
rapporti personali.
Per questo voglio ringraziare chi ha guidato la Cisl della
Lombardia fino allo scorso settembre; l’amico Carlo, cui vanno
i nostri migliori auguri e la nostra vicinanza per la sua nuova sfida alla presidenza dell’INPDAP, e agli amici Franco e Tino, per
quello che hanno fatto e per quello che ancora fanno con
tanta passione.
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Con questo congresso termina una stagione congressuale
fatta di tanta coesione, passione e proposte, e con questo spirito verremo a Roma il 20 maggio, a portare il nostro contributo
per costruire una Cisl forte e unita.
Non ti chiediamo niente, se non di usare la coesione e
l’unità della Cisl non per conservare, ma per cambiare.
Non serve elencare cosa va cambiato, perché è evidente dai tanti temi affrontati in questa relazione e anche perché il
nostro valore più alto è la fiducia. E la consapevolezza che la
Cisl non è, ne è mai stata, una organizzazione con un uomo solo al comando.
Tanta partecipazione e confronto ci fa bene, ci permette
di non impigrire, e come ci sembra produttivo il rapporto istituzionale tra Stato e Regioni, così anche noi vorremmo rafforzare
le relazioni tra i livelli della nostra organizzazione.
Concludiamo quindi questa relazione senza retorica, ringraziando tutti, e tutte le strutture di UST e categoriali che in
questi mesi tanto ci hanno aiutato ad entrare in relazione con
l’insieme della nostra organizzazione, facendoci toccare con
mano lo spirito di squadra della Cisl della Lombardia.
La Segreteria ha sempre incontrato in voi disponibilità e
aiuto, e ora si rimette al servizio della Cisl della Lombardia con
passione e umiltà, chiedendo la vostra fiducia per continuare
la sfida.
Ringrazio infine i segretari e amici Fiorella, Osvaldo, Roberto e Ugo, che condividono le fatiche e le soddisfazioni, e ringrazio gli operatori e lo staff che si è prodigato per il buon esito
del nostro appuntamento odierno.
Un abbraccio a tutti e… forza Cisl!
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