IL METODO DEL CONSENSO
Un contributo alla comprensione e alla gestione dei processi decisionali partecipativi.
di Roberto Tecchio
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INTRODUZIONE
"Il metodo del consenso, come processo decisionale di gruppo, si è sviluppato nei secoli. Molte persone, in
diverse comunità, hanno contribuito a tale sviluppo. Da loro abbiamo attinto generosamente e adattato
liberamente." (nota 1)
Mi riconosco pienamente in queste parole, nello spirito e nella pratica. Esse corrispondono precisamente
all'esperienza mia e di altre persone che negli ultimi venti anni, da quando il metodo è stato introdotto in
Italia, lo hanno applicato e sperimentato. Questa è anche la ragione per cui il metodo del consenso non è un
metodo registrato e non esiste al mondo una forma codificata ufficiale.
Esistono invece nei vari paesi diverse forme abbastanza elaborate e definite che si chiamano o richiamano
al metodo del consenso, legate ai particolari contesti socioculturali e al carattere dei gruppi e delle persone
che lo applicano e lo studiano, alle quali chiunque può liberamente e responsabilmente riferirsi. Alla base di
tale varietà c'è tuttavia un insieme di valori e premesse comuni, che qui cerco di evidenziare. È un metodo in
continua evoluzione, patrimonio dell'umanità.
Il presente testo è una raccolta parziale di miei scritti editi e inediti sull'argomento, che per l'occasione ho
ampiamente rivisitato e messo in ordine per avere una bozza coerente sufficientemente chiara. L'opera a cui
sto lavorando, al ritmo autodeterminato ispirato al più lenti, più dolci e più profondi, è molto più estesa.
Anche chi conosce i miei scritti - ormai vecchiotti - troverà qui parecchie novità e importanti sviluppi.
Mi rivolgo primariamente a coloro che hanno già scelto di utilizzare il metodo del consenso (o pratiche
affini) e che, inevitabilmente, incontrano difficoltà di varia natura e intensità nel suo impiego, e a coloro che
per necessità o intuizione sono orientati verso questa scelta.
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Questo testo può essere usato liberamente da chiunque, salvo che a fini commerciali. A chi se ne serve
chiedo solo l'impegno morale di citare la fonte e la gentilezza di informarmi dell'uso che ne viene fatto.
Commenti, domande, impressioni, critiche, suggerimenti e saluti sono graditi e utilissimi.
Per contatti :
Roberto Tecchio [email protected]
Tel 320.8539664
Buona lettura!... (ma perché leggere?)
Il nostro corpo funziona seguendo certe regole: per esempio possiamo assumere solo certe sostanze
alimentari e solo sotto certe forme (alcuni funghi crudi o cotti uccidono, le patate se non si cuociono sono
indigeribili e fanno male). Non conoscere quelle regole non impedisce loro di esistere - e infatti tale
ignoranza può avere effetti letali.
Certo possiamo nutrirci abbastanza bene pur rimanendo inconsapevoli di quelle regole, ma ciò non
significherebbe "non seguire delle regole", bensì "seguire regole che non conosciamo". Infatti non si tratta di
non avere conoscenza (cosa impossibile, a meno di non possedere un sistema nervoso), bensì di non avere
consapevolezza di tale conoscenza.
Analogamente, da una parte risulta umanamente impossibile non comunicare; risulta impossibile non
decidere (dietro ogni azione c'è una decisione, e la decisione è una forma di azione); risulta impossibile non
avere un modus operandi, cioè un metodo di lavoro per individuare e discutere i problemi e le relative
soluzioni, a sua volta legato (come vedremo) a un metodo decisionale. Eppure, d'altra parte, può esserci una
totale inconsapevolezza della presenza e del governo di tali "leggi", per cui un gruppo, di fatto, attua forme di
comunicazione, e metodi di lavoro e decisionali, senza saperlo. Perciò è così frequente ascoltare risposte
confuse e superficiali alla domanda "che metodo di lavoro e decisionale adoperate nel vostro gruppo?"
Per usare un metodo, bisogna conoscerlo - e per usarlo bene, bisogna conoscerlo bene.
E se è vero che la conoscenza che conta viene solo con l'esperienza e con un'adeguata (consapevole)
riflessione sull'esperienza; e se è vero quello che dicono Butler e Rothstein nell'introduzione alla loro citata
opera, che "Non è ragionevole aspettarsi che le persone abbiano familiarità con questo processo.", come
peraltro ben dimostra la ultraventennale storia del mc in Italia, allora la lettura di queste pagine dovrebbe
risultare veramente di aiuto - e non perché siano oro colato, ma perché la riflessione si sviluppa solo dal
confronto, e il con-fronto ha bisogno di fronti (teste e testi) diversi.
Ultimo avviso. Considerate le mie scarse capacità di scrittura, e la mia passione per i contorni netti (ma non
rigidi), fermarsi alla prima lettura potrebbe essere rovinoso ai fini della comprensione. Confido nella
benevolente pazienza e nell'intelligenza di chi legge.
Buona lettura (e rilettura)!
Roberto Tecchio
Ottobre 2005
1. Il METODO DEL CONSENSO: un'idea da approfondire.
Nelle seguenti due paginette presento la mia definizione e idea del metodo del consenso (mc): sono
probabilmente le più difficili perché tentano di inquadrare il metodo in una visione complessa - dal momento
che la comunicazione in generale e i processi decisionali in particolare sono fenomeni complessi.
Il mc è una procedura di lavoro di gruppo che si articola in diverse fasi e che si attua mediante un insieme
assai vario di pratiche (tecniche), volta all'individuazione e all'analisi di problemi e soluzioni fino al
conseguimento di decisioni senza ricorrere al voto.
Tale metodo si fonda su un insieme di premesse che tendono a orientare tutta l'attività di un sistema
verso forme organizzative che portano a decisioni - e più in generale ad azioni - efficaci in rapporto agli
obiettivi perseguiti e coerenti con i principi e le finalità (e le premesse) dichiarati dal sistema stesso
(nota 2).
Entriamo in questa definizione attraverso le sue parole chiave (in neretto).
Le fasi sono sia quelle temporali del prima, durante e dopo le riunioni (nota 3) (il prima consiste nella
preparazione della riunione, il dopo corrisponde al periodo che intercorre con la successiva riunione nel
quale le decisioni vengono attuate), sia quelle del processo decisionale che si svolge durante l'incontro, in
cui, come i passi di una danza, si susseguono una serie di "passaggi obbligatori" che vanno
dall'individuazione dei problemi alla scelta delle soluzioni (sono obbligatori nel senso che per quanto sia
rapida la scelta essa ha alle spalle una fase in cui prima si è messo a fuoco il problema, e poi si sono
prodotte e valutate le soluzioni). Le fasi sono illustrate e riassunte nel capitolo "il mc: una visione d'insieme".
Le pratiche sono rappresentate dalle particolari modalità (strumenti e tecniche) tramite le quali il gruppo
comunica al suo interno, prima, durante e dopo le riunioni (dunque non solo durante l'incontro, come in
genere si tende a pensare) al fine di individuare, analizzare e risolvere i problemi, gestire i conflitti e le
tensioni emotive, formalizzare le decisioni. Tali modalità costituiscono il cosiddetto "metodo di lavoro", cioè
qualcosa che un gruppo attua sempre e comunque anche a prescindere dalla sua consapevolezza di avere
un metodo - di cui si parlerà abbondantemente.
Decisioni senza ricorrere al voto. Questa è la caratteristica distintiva del mc, che però rappresenta solo la
punta dell'iceberg, poiché la diversità di tale metodo rispetto a quelli basati sul voto a maggioranza è davvero
grande - e l'intero scritto si propone di mostrarlo.
Un insieme di premesse. In genere si pensa al metodo come un insieme di tecniche speciali che, quasi per
magia, risolveranno annose difficoltà. Tale pensiero (spesso una "premessa inconsapevole", cioè un
pensiero-regola che si segue senza sapere di seguire) costituisce un ostacolo che rende impossibile
l'attuazione delle pratiche orientate al consenso. Le tecniche sono semplicemente indispensabili, ma restano
secondarie rispetto alle premesse, dalle quali in definitiva discendono e dipendono.
Le premesse hanno a che vedere con la mentalità delle persone che formano un gruppo, e con la cultura
dell'ambiente di cui le persone e il gruppo sono parte. Le premesse dichiarate (di un individuo, di un gruppo,
di un sistema) sono sempre valoriali (ciò in cui si crede). Nel caso del mc i valori fondanti (che per questo
chiamiamo principi) sono quelli della nonviolenza, della giustizia, della pace, della democrazia, e il metodo
serve a realizzare, partendo dal qui e ora, tanto verso se stessi quanto verso gli altri, nelle riunioni come nel
mondo, i valori stessi su cui esso si fonda e che un domani si vorrebbero vedere più pienamente realizzati
(che per questo chiamiamo fini/finalità) (nota 4).
Tendenza a orientare tutta l'attività di un sistema verso forme organizzative che portano a decisioni - e
più in generale ad azioni - efficaci in rapporto agli obiettivi perseguiti e coerenti con i principi e le
finalità (e le premesse) dichiarati dal sistema stesso.
L'attività di un sistema in termini di efficacia (la capacità di realizzare gli obiettivi perseguiti), dipende dalla
sua organizzazione interna, cioè dal particolare rapporto tra le parti che compongono il sistema stesso.
Sembra esserci uno stretto rapporto tra la qualità (forma) dell'organizzazione interna di un sistema e la
qualità della sua azione verso l'esterno. Pertanto un sistema che voglia realizzare e promuovere la
democrazia verso l'esterno potrà farlo (in modo efficace) solo nella misura in cui attuerà la democrazia al
suo interno. Questa legge della coerenza nel rapporto tra mezzi e fini (i mezzi stanno ai fini come il seme sta
alla pianta) può essere a mio parere considerato il fondamento scientifico e morale del mc (nota 5).)
Ecco perché incidere significativamente sul processo decisionale comporta inevitabilmente, prima o poi, una
trasformazione altrettanto significativa sul piano dell'organizzazione del sistema, il che a sua volta influisce
sulla qualità dell'azione verso l'esterno. La dinamica è circolare e ricorsiva.
Ma che qualità dovrebbero avere le nostre decisioni e azioni per poter dire che sono di "qualità"? Più o meno
consapevolmente, che qualità ricerchiamo (delle nostre azioni e relazioni)? In base a cosa (criteri, valori,
premesse) valutiamo le nostre decisioni e azioni?
Decisioni (e azioni) di qualità.
Anzitutto va riconosciuto che non si tratta di scegliere se investire o no del tempo per valutare: poiché noi
valutiamo letteralmente in continuazione tutto quello che facciamo e che fanno gli altri (ovviamente per la
gran parte in modo inconsapevole), il primo passo è divenire più consapevoli di come già valutiamo le nostre
e le altrui azioni e decisioni. Solo tale consapevolezza permette di trasformare in senso migliorativo i nostri
sistemi interni di valutazione, e dunque le nostre azioni (nota 6).
Riflettere sulla qualità delle decisioni è un modo concreto per capire di che pasta è fatto il metodo
decisionale che si usa e, al di là dei buoni propositi, affinarlo. Infatti una decisione è partecipativa e creativa
se il processo messo in atto è partecipativo e favorisce la creatività.
Scegliere certi parametri (o criteri, o "valori"), implica che questi rappresentino (e consentano in qualche
modo la misura di) elementi ritenuti più importanti rispetto ad altri - perciò di valore, e perciò attinenti alle
premesse. I parametri che in rapporto al mc io trovo più appropriati per riflettere sulla qualità complessiva di
una decisione, sono:
la partecipazione efficace (qual è stato il grado di coinvolgimento effettivo, nelle varie fasi del processo
decisionale, dagli aventi diritto e/o da coloro che sono toccati direttamente dalle conseguenze delle
decisioni? È stata intenzionalmente favorita, e in che modo, la partecipazione alle varie fasi del processo
decisionale? La facilitazione della comunicazione e del processo è stata esercitata in modo consapevole?);
la gestione costruttiva dei conflitti (quanto spazio è stato dato all'espressione e ascolto delle differenze di
pensiero e delle tensioni emotive, e come è stato gestito? Il grado di fiducia reciproco, e verso il progetto
comune, è complessivamente aumentato o diminuito alla fine della riunione?);
la creatività (quanto le idee/proposte di soluzione contenute nelle decisioni finali sono nuove e originali
rispetto alle idee/percezioni/valutazioni di partenza?);
la sostenibilità globale o responsabilità sociale (le soluzioni scelte scaricano su terzi - la società e
l'ambiente - eventuali oneri e costi? In che misura sono stati previsti e valutati gli effetti collaterali sul
contesto sociale e sulla natura - le cosiddette esternalità?) (nota 7);
l'efficacia sul piano pratico (quanto le decisioni prese sono fattibili? in che misura rispondono ai bisogni e
agli interessi individuati?).
Per quanto concerne la qualità delle decisioni e azioni a cui si punta col mc, in questa sede mi sembra
importante sottolineare due voci: la creatività, che in genere viene assai trascurata a favore di una
grossolana efficacia (si è sempre molto centrati sul compito, c'è poco tempo, e dunque si tende a ricorrere a
vecchi mezzi e schemi che per loro natura non possono essere creativi); la sostenibilità globale, che a mio
parere costituisce l'elemento chiave che differenzia nettamente il mc all'interno dei cosiddetti approcci
vinci/vinci (o quantomeno da certe concezioni di tali approcci) (nota 8).
Condizioni necessarie all'adozione e all'applicazione del mc.
Da quanto sinora detto sono propenso a trarre certe conclusioni:
- l'adozione formale del mc può avvenire solo mediante una buona decisione consensuale. Il mc, una volta
scelto, non esclude in via di principio il ricorso a forme di votazione a maggioranza per prendere decisioni,
ma tale ricorso deve necessariamente fondarsi su una buona decisione consensuale (altrimenti si hanno
effetti distruttivi - vedi capitolo "consenso e votazione a maggioranza") (nota 9);
- il mc può essere formalmente adottato solo da gruppi che dichiarano esplicitamente di ispirarsi a valori,
principi e fini compatibili con la nonviolenza (pace, democrazia, solidarietà, libertà, equità, ecc) (nota 10);)
- il mc può essere formalmente praticato solo da gruppi che, ben oltre le belle parole dei loro statuti e
proclami, sono costituite in prevalenza da persone con una mentalità tendente alla nonviolenza. (Uno dei
tratti fondamentali che manifesta tale mentalità riguarda il "mantenimento della parola" - degli impegni, degli
accordi, delle promesse - cosa che implica un attenzione speciale verso il proprio mondo interiore, da cui la
parola origina con tutta la sua chiarezza o ambiguità. Insomma, servono anzitutto "persone di parola"). (nota 11)
Scendendo più nel concreto, per quella che è la mia esperienza, direi che il mc può essere adottato e avere
buone possibilità di funzionamento nella misura in cui i membri di un gruppo che si apprestano a tale scelta:
- sono in prevalenza dichiaratamente insoddisfatti del loro modo di gestire le riunioni;
- conoscono a sufficienza (almeno in teoria) il mc;
- ci credono, o quantomeno sono veramente interessati a sperimentarlo;
- si impegnano ad attuarlo (sperimentarlo) con continuità e, quindi, a valutare con attenzione l'esperienza
che ne fanno.
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NOTE
Nota 2: In questa sede uso il termine gruppo per indicare l’unità elementare data da un insieme qualsiasi di
persone che si riunisce per discutere e prendere decisioni (gruppi di lavoro permanenti o commissioni
temporanee all’interno di un’assemblea, l’assemblea stessa, il comitato scientifico o il consiglio direttivo di
un’azienda o di un’associazione, una famiglia, una comunità, una classe di studenti o il collegio docenti di
una scuola, ecc), mentre uso il termine sistema quando voglio evidenziare l’insieme più complesso di
organizzazione umana entro cui il gruppo s’inserisce (per esempio il gruppo consiglio direttivo, o l’assemblea
dei soci, s’inserisce all’interno di un’associazione culturale o politica, di una bottega del mondo o di una
federazione di botteghe, di un ente pubblico o di un partito politico). In pratica la parola gruppo dovrebbe
evocare nelle mente di chi legge l’immagine tipica e semplice della riunione, mentre la parola sistema
dovrebbe evocare l’immagine della struttura formale e dell’organizzazione di cui quel gruppo è parte e a cui
dà vita.
Nota 3: Uso come sinonimi riunione, incontro e assemblea. [ torna_su ]
Nota 4: Principi e fini indicano in sostanza la stessa cosa: i principi ispirano, fondano, e per questo stanno in
principio; ma rappresentano anche ciò a cui alla fine si tende, quindi il fine o finalità. In tal senso gli obiettivi
rappresentano le forme concrete più immediate che, una volta conseguite, realizzano e prefigurano
coerentemente in qualche misura i fini. I mezzi sono ciò che viene usato per raggiungere gli obiettivi e, in
ultima analisi, i fini; perciò gli obiettivi, una volta raggiunti, diventano un mezzo (la pace è il fine, il mezzo, e il
principio ispiratore). Principi e fini, data la loro importanza, fanno parte di ciò che chiamiamo valori; ma in
senso lato è un valore tutto ciò in cui si crede profondamente e di cui si ha (o si crede di avere) bisogno. I
valori affondano dunque le radici nei bisogni, e i bisogni, come si sa, si radicano nel corpo (è tramite il
sistema nervoso e il corpo nel suo insieme che posso sentire, percepire, riconoscere i miei diversi bisogni):
ecco perché emozioni, sentimenti e sensazioni hanno un’importanza tanto fondamentale (anche) nella
politica. Di tutto ciò è necessario tenere conto quando si vogliono gestire in modo nonviolento (o creativo, o
costruttivo) i processi decisionali. [ torna_su ]
Nota 5: Ciò non significa che un individuo o un gruppo che operino in maniera perfettamente coerente a
questa legge (ammesso che sia possibile) abbiano il potere assoluto di realizzare la democrazia, la pace e la
giustizia a livello sociale. Anche in un sistema elementare come una coppia di persone, obiettivi come la
pace, la giustizia, il rispetto, lo “stare bene insieme”, non sono mai alla portata del singolo quand’anche il
singolo fosse capace di agire come un Buddha o Gesù Cristo - come la storia dimostra senza ombra di
dubbio.
Nota 6: La valutazione è talmente connaturata all’attività mentale che alcuni autori parlano di sistemi
percettivo-valutativi: percepire è già valutare. Non siamo una tabula rasa, nemmeno alla nascita. [ torna_su ]
Nota 7: Galtung, nella sua importante e consistente opera “Pace con mezzi pacifici” (ed. Esperia), dedica un
intero capitolo al problema delle esternalità in rapporto alla gestione creativa dei conflitti e ai modelli di
sviluppo. Per inciso, l’autore insiste sulla rilevanza della dimensione valoriale (premesse esplicite e implicite)
negli studi sulla pace, oltre che ovviamente nell’azione per la pace. [ torna_su ]
Nota 8: Negli ultimi decenni si è assistito a un forte incremento delle politiche partecipative all’interno di
organizzazioni di lavoro (così i lavoratori sono più soddisfatti e producono meglio), soprattutto multinazionali,
che però al contempo praticano verso l’esterno (ambiente, persone e società) politiche predatorie di feroce
sfruttamento. Al contrario nella sfera pubblica si sta assistendo, anche qui da decenni, ma soprattutto
nell’ultimo periodo, alla promozione di politiche partecipative verso l’esterno (i cittadini, la società) da parte di
istituzioni (pubblica amministrazione, partiti, scuole, etc) che mantengono al loro interno pratiche decisionali
e di gestione del potere di stampo militare. Questi esempi servono a mostrare come le medesime tecniche
(da questo punto di vista il mc rientra certamente negli approcci cosiddetti win/win alla negoziazione e
mediazione dei conflitti) possano essere inserite dentro premesse (visioni del mondo, valori, principi e
finalità) completamente diverse. Poiché il mc si fonda su premesse di nonviolenza (che io considero
profondamente spirituali ed ecologiche), non può essere adottato da organizzazioni che perseguono fini
solidali e democratici al proprio interno e fini predatori verso l’esterno, o che al contrario pensano di favorire
la democratizzazione dell’esterno mantenendo pratiche antidemocratiche verso l’interno. L’idea di
democrazia a cui mi ispiro potrebbe essere meglio resa col concetto di omnicrazia, coniato da Aldo Capitini,
cioè una gestione del potere politico trasparente, decentrata e diffusa – cosa che per molti continua ad
essere un’insanabile contraddizione in termini.
[ torna_su ]
Nota 9: L’adozione del mc, in quanto decisione esplicita e consapevole, implica che ciò sia un passaggio
formale. Perciò quando uso mc sottintendo sempre mc formale, cosa ben diversa dal cosiddetto mc
informale, cioè l’uso di pratiche vagamente ispirate e informalmente orientate al consenso. Su questo vedi
anche Butler e Rothstein, op. cit.. [ torna_su ]
Nota 10: Io uso il concetto di nonviolenza (scritto tutto attaccato, in pieno accordo col pensiero di Aldo
Capitini) per racchiudere un’insieme coerente di valori. In proposito un’opera per me fondamentale è “Teoria
e pratica della nonviolenza”, di Giuliano Pontara, ed. Einaudi. [ torna_su ]
Nota 11: È assai frequente e “normale” osservare gruppi dichiaratamente ispirati alla nonviolenza (o a valori
affini) che usano metodi tutt’altro che orientati al consenso. Del resto tale fenomeno sembra naturalissimo
perché più o meno eclatanti abbiamo tutti le nostre umane contraddizioni. [ torna_su ]
2. PROBLEMI DI LINGUA, PROBLEMI D'INTESA
"Un padre, chirurgo molto impegnato, finalmente trova il tempo per un'escursione in montagna col figlio.
Durante il viaggio di ritorno accade purtroppo un incidente d'auto gravissimo: il padre muore sul colpo, e il
figlio, gravemente ferito, viene portato in ospedale per essere operato d'urgenza. Quando il chirurgo entra in
sala operatoria e vede il giovane, esclama: "mio Dio, è mio figlio!".
Chi ascolta questa tragica storiella prova alla fine un senso di disorientamento, come se ci fosse qualcosa
che non quadra. In genere si crea un momentaneo blocco mentale: si rilegge o si riascolta la storiella, la si
ripassa mentalmente alla ricerca di dettagli che spieghino lo strano e impossibile finale, intuendo (soprattutto
dal tono di chi racconta la storiella) che ci deve essere una soluzione logica, col forte sospetto che da
qualche parte ci sia il solito trucco. Col passar del tempo si producono risposte fantasiose, che però
incontrano puntualmente il convincente no del narratore. No, nessun trucco. È una storia che potrebbe
benissimo essere vera.
Se si ha la sufficiente capacità e motivazione a restare nel lieve disagio che la situazione procura, in genere
dopo poco emerge la risposta giusta, la quale, nel momento in cui come una piccola illuminazione si
presenta alla mente del pensatore, schiarisce con lieta sorpresa ogni dubbio. La risposta era così ovvia,
semplice, naturale: al mondo c'era un solo altro essere umano che, oltre al padre, poteva in quella situazione
dire "è mio figlio"… la madre!
Ci si potrebbe ora domandare: perché una soluzione così ovvia e tanto naturale non viene subito in mente?
Dove sta il blocco, seppur momentaneo, che a volte provoca addirittura un lieve disagio? Quali sono le
cause di quel blocco, e quali sono i suoi effetti? Se fossimo in un laboratorio di apprendimento si potrebbe
aprire una riflessione attorno a quelle domande, ma non è questa la sede. D'altra parte credo sia un esempio
efficace per richiamare l'importanza fondamentale che il linguaggio riveste nella formazione delle nostre
mappe mentali, mappe che ci guidano nella gestione quotidiana delle relazioni interpersonali e dei problemi
e conflitti che con gli altri ci troviamo ad affrontare. In particolare quelle mappe sono responsabili della
formazione dei nostri problemi, i quali sono letteralmente prodotti dal nostro modo di vedere le cose, gli altri,
noi stessi. Come dicono Fisher e Ury "il punto di vista dell'altro è il problema" - e ovviamente gli altri siamo
noi.
Tutto questo discorso serve ad avvisare e ricordare che capire il mc non è affatto facile. Come dicono Butler
e Rothstein nella loro citata premessa: "Non è ragionevole aspettarsi che le persone abbiano familiarità con
questo processo (il mc). In generale, la soluzione cooperativa nonviolenta dei conflitti non esiste nella
società dell'America del Nord. Queste capacità devono essere quindi sviluppate in un ambiente la cui
caratteristica principale è la competitività."
Del resto tale difficoltà è secondo me assolutamente naturale e la sfida del tutto simile a quella insita nelle
nuove forme organizzative a rete (alle quali peraltro il mc sembra calzare perfettamente): s'incontrano
parecchi problemi e, nel cercare di risolverli, si corre il rischio di ricorrere a vecchi modelli organizzativi di
decisione e azione che pure si desidera sinceramente superare. Gli automatismi mentali e culturali sono
sempre là, ben radicati nelle nostre mentalità e culture (e perciò nascosti alla consapevolezza), pronti a
entrare in gioco quando si perde l'attenzione e soprattutto quando gli eventi mettono sotto pressione. Inoltre
il linguaggio elementare normalmente adoperato in rapporto alla descrizione e gestione del processo
decisionale, e i contesti abituali che caratterizzano il modo d'incontrarsi e comunicare sono dei potenti
attivatori di quegli automatismi.(nota12)
Nel nostro caso alcuni problemi si possono certamente ridurre raffinando il linguaggio (le mappe) che
adoperiamo, cioè spiegando meglio cosa vogliamo intendere con certe parole. L'operazione è quanto mai
necessaria visto l'uso assai differenziato che si fa di termini come consenso e dissenso, accordo,
disaccordo, unanimità, veto, blocco decisionale, obiezione, ecc.
Un gruppo che intende applicare in maniera efficace il mc ha la necessità di costruirsi un bagaglio di
conoscenze condivise e un linguaggio comune di base (ma questo vale per qualsiasi metodo). È importante
notare che ogni gruppo ha già un simile bagaglio, a volte assai ricco e sviluppato, legato alla specificità della
materia che tratta (per esempio il commercio equo e solidale, o la finanza etica, il disarmo, i diritti umani,
ecc); quello di cui invece è generalmente carente è il linguaggio (e la conoscenza) del funzionamento delle
relazioni umane e dei relativi processi.
Quanto segue è una riflessione che mira ad allargare e approfondire il bagaglio terminologico che si adopera
quando si vuole applicare il mc - che per altro torna utile in qualsiasi contesto di lavoro di gruppo e a
prescindere dal tipo di metodo decisionale. Tutto sommato si tratta di poche parole, una sorta di glossario
minimo, che possono essere delle "chiavi" per entrare bene in (o uscire da) situazioni difficili. Un gruppo-
sistema che intende praticare il mc dovrebbe dedicare di tanto in tanto (io lo ritengo essenziale) uno spazio
adeguato a tale riflessione, soprattutto quando entrano persone nuove al suo interno.
Glossario minimo.
Accordo e Disaccordo. Questi termini di norma si riferiscono al piano dei contenuti di una decisione, cioè le
proposte e le relative argomentazioni che le sostengono o le criticano. Se tracciamo una linea su un foglio e
poniamo agli estremi i due termini suddetti, avremmo un continuum che va dall'Accordo Pieno al Disaccordo
Pieno.
Piano dei contenuti
/-----------------------------/------------------------------------/------------------------------/
Accordo pieno
parziale accordo
parziale disaccordo
Disaccordo pieno
Lungo il continuum di questa linea abbiamo una gradazione dell'accordo/disaccordo che ci permette di fare
alcune importanti distinzioni di significato:
Accordo pieno: è il massimo dell'accettazione di un'opinione o di una proposta, e quando tutti i partecipanti
lo esprimono ci troviamo in pratica di fronte all'Unanimità;
Accordo parziale: vuol dire che si accettano pienamente solo alcune parti di un'opinione o di una proposta,
e meno o per nulla altre parti; oppure può voler dire che non si è pienamente convinti di una proposta nel
suo insieme;
Disaccordo parziale: è come l'accordo parziale, ma più spostato verso il polo del disaccordo, quindi
esprime una posizione di maggiore dubbio e critica;
Disaccordo pieno: è esattamente l'opposto dell'accordo pieno: i dubbi sono forti, anzi si può essere convinti
del contrario.
Quando si raggiunge presto e facilmente un buon accordo, va tutto bene. I problemi sorgono quando il
tempo passa e le divergenze non si sciolgono, anzi, si rafforzano. E ciò accade normalmente,
inevitabilmente, in tutti i gruppi, anche i più solidi e con forti affinità. È qui che il mc, se ben conosciuto e
applicato, dà quella marcia in più per andare avanti costruttivamente, creativamente, efficacemente. E allora,
come essere in disaccordo e al tempo stesso trovare un buon accordo? Questa apparente contraddizione è
risolvibile solo se si mantiene il disaccordo sul piano dei contenuti e si sposta l'accordo sul piano relazionale
e processuale, come vedremo tra breve.
A questo punto introduciamo il nostro concetto chiave: il consenso. Se non usiamo questo termine come
sinonimo di accordo - cosa che avviene nel linguaggio corrente e che qui invece è assolutamente da evitare,
altrimenti non si capisce più nulla - possiamo cogliere col linguaggio (e dunque con la consapevolezza)
fondamentali aspetti della comunicazione umana, che stanno alla base dei processi decisionali e della
gestione nonviolenta dei conflitti. Si tratta della distinzione tra i contenuti, cioè le idee, opinioni, punti di vista
che alla fine si aggregano in forma di proposte, e la relazione, cioè il particolare rapporto tra i membri di un
gruppo, specialmente per quanto concerne il grado di fiducia e di rispetto tra questi, e di ciascuno verso il
progetto comune.
Il grado di fiducia (o sfiducia) possiamo rappresentarlo su un foglio tracciando la solita linea e ponendo agli
estremi i due termini: abbiamo così un continuum che va dalla fiducia piena alla sfiducia piena.
Piano della relazione in termini di fiducia
/-----------------------------/------------------------------------/------------------------------/
Fiducia piena
parziale fiducia
parziale sfiducia
Sfiducia piena
Se ora incrociamo la linea dell'accordo/disaccordo con quella della fiducia/sfiducia otteniamo un interessante
diagramma che forse aiuta a capire meglio tutto il discorso.
DIAGRAMMA ACCORDO/FIDUCIA
fiducia
AIB
I
I
I
I
I
I
I
disaccordo ------------------------- -------------------------- accordo
I
I
I
I
I
I
I
DIC
sfiducia
Nel quadrante A abbiamo un grado crescente di disaccordo che si associa a un grado crescente di fiducia:
siamo propriamente nell'area del consenso, che appunto implica sempre un certo grado di non accordo,
altrimenti sarebbe accordo pieno. In quest'area entrano con le maggiori possibilità di successo tutte le
pratiche di facilitazione dei processi decisionali e di mediazione dei conflitti.
Nel quadrante B abbiamo un grado crescente di accordo che si associa a un grado crescente di fiducia:
siamo nell'area dell'accordo pieno, dell'unanimità perfetta - qualcosa che dipende molto più dalla fortuna che
dalla bravura, ma che pure viene guardato con sospetto dalla psicologia. (nota14)
Nel quadrante C abbiamo un grado crescente di accordo che però si associa a un grado crescente di
sfiducia: siamo qui nell'area degli "accordi tecnici" (la politica offre una miriade di esempi con i vari accordi di
corrente, di coalizione, di governo, che sovente finiscono presto e male). Va però osservato che ripetuti
"accordi tecnici" che funzionano (cioè vengono rispettati fino in fondo) tendono col tempo a sviluppare fiducia
tra le parti e quindi a trasformare il terreno arido della relazione in uno più fertile. Anche in quest'area vi sono
buone possibilità di successo per la facilitazione e la mediazione dei conflitti, pratiche qui quasi
indispensabili date le condizioni di elevata e pervicace sfiducia. (nota15)
Nel quadrante D abbiamo un grado crescente di disaccordo che si associa a un grado crescente di sfiducia:
siamo nell'area del dissenso distruttivo, del conflitto cronico che ad ogni buona occasione esplode in modo
acuto, dove nessun accordo è possibile e dove in genere la violenza imperversa visibilmente. In questi casi
per ridurre la violenza e trasformare costruttivamente il conflitto, servono strumenti speciali (la mediazione è
tra questi, ma da sola non basta, è necessario associare forme di lotta nonviolenta, di riconciliazione, di
sostegno psicologico).
Le varie forme di accordo/disaccordo si giocano dunque tutte sul piano dei contenuti, mentre il
consenso/dissenso include la relazione tra le persone che formano il gruppo. Più precisamente il consenso
esprime il grado di fiducia contestuale (cioè in qualche misura sempre dipendente dal contesto) esistente tra
i membri e verso il cammino comune che si è scelto di prendere e di continuare a percorrere nonostante le
difficoltà interne/esterne del momento. Si tratta di una fiducia nel processo che va necessariamente oltre le
singole persone con le quali si condivide il cammino. Ecco perché è possibile, come del resto l'esperienza
quotidiana ci mostra in tante occasioni di gestione amichevole di problemi e conflitti, essere "d'accordo nel
disaccordo": si è contestualmente d'accordo sul piano relazionale (fiducia in se stessi e negli altri) e
processuale (fiducia nel progetto o cammino comune, e più in generale nella senso che si dà alla vita e alla
propria esistenza ) pur restando in disaccordo sul piano del contenuto inerente la particolare questione.
Il consenso dunque implica che vi sia una diversità di opinioni riguardo la decisione che si sta prendendo,
ovvero il consenso implica sempre una qualche misura di non accordo o disaccordo, altrimenti sarebbe
unanimità perfetta, cioè accordo pieno di tutti (evento non raro rispetto a situazioni semplici, ma assai
improbabile rispetto a questioni complesse e molto articolate).
In effetti l'applicazione di metodi di lavoro orientati al consenso, partendo da posizioni diverse e spesso
conflittuali, possono condurre alla fine del processo a un alto grado di accordo, o addirittura all'unanimità.
Però non sempre è cosi, e porsi un simile obiettivo (più o meno consapevolmente) rende le cose più difficili e
spesso anzi ostacola il raggiungimento di valide forme di consenso. Riuscire a costruire un buon consenso,
laddove persistono forme di disaccordo, è un risultato molto più prezioso dell'ideale unanimità. D'altra parte
se l'unanimità è potenzialmente possibile, il mc sembra essere il metodo migliore per favorire il suo
emergere. (nota16)
Da tutto ciò emerge la seguente definizione di consenso.
In definitiva possiamo dire che il Consenso si ha quando tra maggioranze e minoranze si sviluppa una
comunicazione che alla fine, pur permanendo forme di disaccordo sui contenuti di una decisione, porta il
gruppo nel suo insieme ad accettare liberamente, responsabilmente, creativamente quella decisione.
Sono quei tre avverbi a caratterizzare secondo me la superiorità (e difficoltà) del mc, perché l'accettazione
(tanto da parte della minoranza, quanto da parte della maggioranza), nei metodi informali orientati al
consenso, così come in quelli basati sul voto, tende ad essere di bassa qualità - il che corrisponde a un
consenso di bassa qualità. Infatti qui non chiamiamo consenso quello che si ottiene mediante forme più o
meno subdole di coercizione fisica o psicologica (dalla persuasione occulta al ricatto esplicito) e quindi
fondate sulla paura e sul dominio (potere "su", invece che potere "con"); non chiamiamo consenso quello
che viene ammiccato o frettolosamente sancito sapendo che poi, al dunque, ognuno fa come gli pare senza
assunzione di impegno e di responsabilità verso gli altri (mancanza di lealtà); e non possiamo chiamare
consenso maturo quello che non ha tentato le vie appassionanti e impervie della creatività.
L'accettazione del disaccordo (che spesso implica una certa frustrazione) è favorita dall'ascolto reciproco e
dalla ricerca partecipata di soluzioni creative. Una soluzione è partecipata e creativa se il modo impiegato
per cercarla è partecipato e creativo. E se alla fine di un'incontro le soluzioni non si trovano, cosa che capita
non di rado (e che potrebbe capitare anche se si fosse proceduto alla perfezione, poiché il risultato finale
dipende da tutte le parti in gioco), il fatto di averci provato in modo leale e creativo, appassionato e
partecipato, lascia comunque le persone soddisfatte e ottimiste verso se stesse e il futuro: un vero e proprio
capitale sociale. (nota17)
Vediamo ora gli altri termini importanti, che assieme ai precedenti saranno ripresi ed esemplificati nei capitoli
successivi.
Unanimità: come abbiamo visto, per unanimità qui intendiamo l'accordo pieno, senza la presenza di forme
anche lievi di disaccordo. Anche quando c'è solo una punta di perplessità e tuttavia, come si suol dire, si è
d'accordissimo, io tendo a preferire la definizione di consenso piuttosto che quella di accordo o unanimità,
perché consente di evidenziare la grande ricchezza di colori del processo decisionale e delle decisioni, che
altrimenti tendono a sfumare nel bianco e nero (sì-no, pro e contro, maggioranza e opposizione), con al
massimo il grigio del compromesso spartitorio. (nota18)
Accettazione: in sostanza, come abbiamo appena visto, è il modo di esprimere il consenso: non sono
d'accordo, ma a un certo punto accetto (liberamente, responsabilmente, creativamente) che come "gruppo"
si prenda questa decisione. Ho evidenziato la parola gruppo perché quando si parla di accettazione si tende
ad immaginare la classica situazione della minoranza che alla fine capitola (è "classica" proprio perché
appartiene a vecchi modelli di pensiero e azione), mentre invece nel processo decisionale orientato al
consenso non è affatto raro che sia la maggioranza ad accettare l'appello (orientamento) della minoranza,
come nel caso del "blocco della decisione". Non a caso la definizione sopra riportata "il Consenso si ha
quando tra maggioranze e minoranze si sviluppa una comunicazione che alla fine, pur permanendo forme di
disaccordo sui contenuti di una decisione, porta il gruppo nel suo insieme ad accettare liberamente,
responsabilmente, creativamente quella decisione" parla di gruppo nel suo insieme, e non di minoranza.
Obiezione: indica la presenza di un disaccordo sul piano dei contenuti. È quanto di più naturale nel corso
del processo decisionale, ma bisogna prestare molta attenzione al modo in cui viene espresso perché ciò
incide notevolmente sul piano della relazione. L'obiezione può essere a volte talmente forte da chiedere il
blocco o sospensione di una decisione. In ogni caso, di fronte a un'obiezione, il gruppo deve sempre
fermarsi per ascoltarsi meglio e trovare una risposta soddisfacente. Ciò può richiedere un attimo, o un intera
riunione, dipende da molti fattori. E se alla fine i tentativi di risolvere l'obiezione non riescono, ci sono due
modi per uscirne col consenso: "Stare da parte" o "Bloccare la decisione".
Blocco: vuol dire che la maggioranza alla fine accetta le obiezioni della minoranza e contestualmente
acconsente a non prendere una determinata decisione. Qui è importante notare che il blocco non riguarda
affatto il processo decisionale - il quale è semplicemente impossibile da bloccare - bensì la particolare
decisione. Di fatto il gruppo, nel suo insieme, alla fine decide consensualmente di non prendere quella
decisione, che in pratica significa sospenderla o rimandarla (quindi comunque ha deciso: e come conta il
modo in cui si arriva a questo tipo di decisioni!).
Dunque il blocco di una proposta, per essere parte di una decisione consensuale, deve ottenere il
riconoscimento da parte di coloro che inizialmente erano contrari all'obiezione. In questo modo non è mai la
minoranza a bloccare una proposta, ma il gruppo nel suo insieme. Il singolo o la minoranza possono solo
obiettare in rapporto al contenuto di una proposta e quindi, in pratica, chiedere il blocco della relativa
decisione; ma l'accoglimento dell'obiezione, e di conseguenza il blocco della decisione, spetta alla
maggioranza. (nota19)
Questo problema ovviamente non si pone nella misura in cui l'obiezione è largamente condivisa: più sono le
persone che obiettano e maggiore è la necessità di bloccare e rivedere una decisione. È un fatto di
saggezza: pure il mc tiene conto dei numeri delle maggioranze e delle minoranze. In definitiva il mc è un
metodo per gestire in modo nonviolento il rapporto di potere naturalmente conflittuale tra minoranze e
maggioranze (rapporto di cui parleremo approfonditamente più avanti).
Stare da parte. Questa particolare formulazione, di derivazione statunitense (mi riferisco ancora all'opera di
Butler e Rothstein), vuol dire che alla fine la minoranza accetta che il gruppo prenda una determinata
decisione, ma non offrirà in fase esecutiva il suo supporto ad essa.
La minoranza, in questo caso, mantiene il suo convinto disaccordo in rapporto alla decisione che ormai si sta
per prendere, tuttavia sceglie liberamente e responsabilmente di acconsentire all'orientamento della
maggioranza, dichiarando le forme del suo non sostegno alla decisione (per esempio con dichiarazioni del
tipo "non mi oppongo alla decisione, ma farò/non farò…."), cosa che in sostanza ri-fonda il patto di lealtà tra
le parti. Naturalmente, come nel caso del blocco della decisione, si arriva a questo punto solo dopo un
attento e possibilmente approfondito confronto. Lo "stare da parte" rappresenta dunque una situazione limite
in cui, nel contesto dato, tutti i tentativi di negoziazione creativa sono falliti. Così lo "stare da parte"
rappresenta un modo saggio ed efficace per dare tempo al tempo e uscire bene da situazioni defatiganti e a
rischio di alta tensione. Ci torneremo in modo approfondito nella parte dedicata alla gestione del rapporto tra
maggioranze e minoranze.
Veto: secondo me questa parola è legata a vecchissimi modelli di pensiero (e azione), dunque non ha alcun
senso all'interno di un processo partecipativo orientato al consenso e per questo dovrebbe essere
abbandonata del tutto - abbiamo visto che forza può avere il linguaggio che adoperiamo. (nota20)
Ancora due parole…
Partecipazione. Oggi si parla tanto e in misura crescente di partecipazione; ma cosa intendiamo con questa
parola? Anche chi in assemblea ascolta e basta partecipa; anche chi parla per mezzora di fila alla platea,
senza che del suo resti alla fine minima traccia, partecipa. I più navigati conoscono bene i limiti e gravi
pericoli dell'assemblearismo spontaneo e autogestito, dove, col tempo (molto rapidamente), gli automatismi
inconsapevolmente acquisiti (premesse vinci/perdi) prendono inesorabilmente il posto delle migliori
aspirazioni democratiche. Chi non illumina di consapevolezza la propria storia (che per ciascuno è al
contempo personale e sociale), è destinato a ripeterla. Allora diventa d'obbligo chiarire, e concordare almeno
un po', cosa intendiamo con questo termine, specie quando si dice di considerarlo un "valore" o un obiettivo
strategico. Per me, in rapporto al mc, partecipare vuol dire:
a) essere messo nelle condizioni (tempi e modi giusti) di poter sapere ciò che conta sapere (quanto meno
quello che sanno tutti gli altri) per poter influire in modo creativo e responsabile sul processo decisionale
(fase preparatoria);
b) poter influire in modo creativo e responsabile sul processo decisionale in sede di riunione (fase
assembleare);
c) poter prendere coerentemente parte alla conseguente realizzazione delle decisioni e/o poter verificare in
seguito l'attuazione e la ricaduta di tali decisioni (fase esecutiva). (nota21)
L'insieme di queste caratteristiche configura una partecipazione che io chiamo "efficace".
Da notare però che il mc crea le condizioni favorevoli alla partecipazione efficace, ma non potrà mai
garantirla, poiché questa in ultima analisi dipende sempre in qualche misura dalla mentalità (carattere,
esperienza, personalità) del soggetto che partecipa.
Impegno. Prendere una decisione non ha molto senso in sé: il senso ce l'ha se poi la decisione può essere
realizzata. E qui viene appunto l'impegno: in gruppo si prendono decisioni che per essere poi concretizzate
richiedono sempre un certo impegno, a volte di pochi, a volte di tanti o di tutti; a volte un impegno intenso e
duraturo, altre volte breve. Il mc ha come fine quello di condurre un gruppo verso la produzione di decisioni
con la migliore garanzia di essere portate a termine. La qualità di una decisione non è data solo dal suo
contenuto (che potrebbe essere pure geniale), ma anche, e forse soprattutto, dalla possibilità di essere ben
eseguita e realizzata nonostante le difficoltà che tante volte sorgono nella fase di attuazione. Una decisione
veramente consensuale porta con sé la massima garanzia di essere concretizzata, perché le persone sono
legate da una sorta di promessa reciproca alla quale hanno aderito liberamente, responsabilmente,
appassionatamente. (nota22)
___________________________________________________
NOTE
Nota 12: A proposito degli automatismi che ci governano, invito a leggere la scheda “La discussione è una
guerra”, in appendice, nella quale studiosi di fama mondiale illuminano cosa accade quando (noi occidentali)
discutiamo. [ torna_su ]
Nota 13: Di tutto questo, che non c’entra nulla con i temi e problemi specifici che interessano un gruppo e
che portano i suoi membri a investire tempo energie e denaro per riunirsi e agire, è necessario tenere ben
conto se si desidera raggiungere veramente gli obiettivi e i fini dichiarati. Purtroppo non basta essere degli
esperti nel proprio campo (e naturalmente ognuno ha il suo), è indispensabile avere anche sufficienti
competenze nell’area delle relazioni umane, poiché siamo tutti costretti a comunicare, a gestire problemi e
conflitti assieme ad altri, a prendere decisioni. [ torna_su ]
Nota 14:Negli anni settanta lo psicologo sociale Irving Janus coniò il termine groupthink (pensiero di gruppo)
per indicare un fenomeno osservabile nei gruppi. In sostanza per ridurre il disagio psicologico che il
disaccordo provoca, i membri di un gruppo possono cercare il consenso tendendo all’adattamento con
l’opinione della maggioranza anche quando tale opinione è ai loro occhi palesemente errata. Coloro che la
pensano diversamente rinunciano a portare la loro diversità per timore di rompere la coesione, la pace,
l’armonia. Infatti la diversità è la base della ricchezza, ma (per questo) è anche la base del conflitto. Questa
è la ragione per cui il conflitto e la sua creativa gestione è così importante nel mc. Il consenso viene dopo il
conflitto, non prima, poiché esso è esattamente il risultato della trasformazione costruttiva del conflitto.
Naturalmente non sempre la diversità di opinioni (disaccordo) genera conflitto, e quindi non sempre è
necessario attraversare il conflitto per arrivare al consenso; ma se il conflitto arriva (sono le tensioni emotive
che ne segnalano la presenza certa) il puntare all’evitamento del conflitto impedisce di sicuro l’emersione
(concepimento) del consenso. [ torna_su ]
Nota 15:La differenza tra mediazione e facilitazione sta nell’intensità del conflitto da gestire: quando tra le
parti la relazione è fortemente degradata (alta sfiducia) e il conflitto quindi raggiunge livelli di forte intensità, è
necessario un tipo d’intervento che configura la mediazione; quando il conflitto si mantiene a livelli fisiologici
e la relazione tra le parti è ancora abbastanza sana (c’è ancora una base di fiducia), il tipo d’intervento si
configura come facilitazione. Inoltre la mediazione ha a che fare con un numero molto limitato di parti in
causa (coppie, piccoli gruppi), mentre la facilitazione interviene anche in situazioni assembleari con grandi
numeri (centinaia di persone). Mediatori e facilitatori hanno competenze molto simili. [ torna_su ]
Nota 16: Nei gruppi è normale osservare la presenza di due estremi: ci sono persone che puntano sempre
all’unanimità, e dunque ricercano con accanimento l’accordo pieno più che il consenso, a volte addirittura se
dipendesse da loro sospenderebbero la decisione pur di non avere anche una sola persona in disaccordo;
altri caratteri invece sono propensi ad andare avanti non appena si forma una maggioranza (di cui
ovviamente fanno parte) mostrando poca sensibilità per le minoranze. Entrambe le tendenze, che sono
frequenti e sfuggono alla consapevolezza dei soggetti portatori, sono un ostacolo insidioso al consenso,
soprattutto quando sono incarnate da figure leaderistiche. In questi casi la facilitazione formale è un grande
aiuto per tutti. [ torna_su ]
Nota 17: A proposito degli automatismi che ci governano, invito a leggere la scheda “La discussione è una
guerra”, in appendice, nella quale studiosi di fama mondiale illuminano cosa accade quando (noi occidentali)
discutiamo. [ torna_su ]
Nota 18: Gli statuti o atti costitutivi, anche nel caso di associazioni di volontariato, non profit e simili, che
operano richiamandosi esplicitamente a valori a mio giudizio pienamente in sintonia con la nonviolenza
(valori che vengono appunto dichiarati negli statuti), sono di norma costruiti su modelli “democratici” fondati
sulla “forza della maggioranza”. Tali modelli, di fatto imposti per legge (poiché la legge richiede per gli atti
formali la decisione a maggioranza, o all’unanimità), non consentono lo sviluppo di pratiche decisionali
orientate al consenso, e anzi, personalmente li considero modelli fortemente ostacolanti lo sviluppo
democratico, poiché in realtà favoriscono modelli vinci/perdi, e, in definitiva, la guerra (che come Galtung
dimostra, caso mai ce ne fosse bisogno, è pienamente compatibile con una certa dominante concezione di
democrazia – vedi op. citata). Il punto è che la visione del processo decisionale sottesa a simili modelli è
quasi primitiva – e perciò la “democrazia” in cui viviamo non può essere di qualità diversa. In particolare, per
il nostro discorso, è importante tener conto che per la legge italiana il concetto di consenso equivale a quello
di unanimità (come ben sa chiunque abbia partecipato a un assemblea legittimamente costituita), e questa
apre possibilità interessanti per i gruppi che desiderano inserire il mc nel loro statuto (anche senza farlo
contraddittoriamente convivere col metodo della maggioranza). Negli ultimi anni in Italia un crescendo di
organizzazioni, anche pubbliche, hanno comunque introdotto il mc esplicitamente nei loro statuti e/o
regolamenti (basta navigare un po’ in internet per scoprirlo). [ torna_su ]
Nota 19: Per quanto ne so, il principale aspetto che caratterizza la diversità degli approcci al mc (al di là
degli stili di facilitazione), riguarda il potere consentito al singolo o alla minoranza di bloccare una decisione.
Va notato bene che però non si tratta del potere di veto classicamente inteso, anche se gli assomiglia tanto.
Infatti, ed è fondamentale tenerlo ben presente, in quei casi in cui è previsto che il singolo possa bloccare la
larghissima maggioranza, tale maggioranza, avendo accettato il metodo in quei termini sin dall’inizio, di fatto
acconsente a farsi bloccare, e dunque la decisione finale di blocco è di tutto il gruppo e perciò consensuale.
Bisogna riconoscere però che questa particolare dinamica richiede una notevole maturità delle persone e
un’elevata fiducia tra i membri, dal momento che situazioni del genere tendono di norma ad alimentare
parecchio risentimento nel gruppo (la maggioranza si sente oppressa dalla minoranza e tende a vivere la
decisione come imposizione: è l’assurdo del mc – chiaro indicatore che viene applicato male – dove la
minoranza opprime la maggioranza). Per questo ritengo che la gran parte dei contesti politici, economici e
sociali in cui il mc potrebbe essere oggi praticato con successo siano poco compatibili con siffatte modalità,
adatte solo a gruppi relativamente piccoli e fortemente coesi. . [ torna_su ]
Nota 20: Il concetto di veto a me pare comunque un non senso, perché i metodi decisionali che lo
prevedono, se sono metodi fondati su una libera scelta del gruppo e non sull’imposizione da parte di
qualcuno, nel momento in cui il veto viene esercitato non può che trovare il precostituito consenso del
gruppo. [ torna_su ]
Nota 21: Il riferimento alle fasi menzionate è reso più comprensibile nel breve capitolo “il mc: una visione
d’insieme”. [ torna_su ]
Nota 22: Passione è una parola speciale poiché racchiude gli opposti: piacere e dolore. Certe
decisioni/azioni, come certe relazioni, richiedono a volte molta fatica e pure sofferenza; però dentro di sé si
sente che, al di là di ogni calcolo, ne “vale la pena”. Quel “al di là di ogni calcolo” è esattamente ciò che
viene chiamato fiducia - e in alcuni casi fede. [ torna_su ]
3. IL METODO DEL CONSENSO: UNA VISIONE D'INSIEME
Il momento formale della decisione (per esempio il momento del voto, o quello della verifica del consenso) è
solo "un" momento all'interno di un ampio e articolato processo. Da questa prospettiva la decisione
assomiglia più a qualcosa che "emerge" da un processo (a cui si partecipa più o meno consapevolmente,
ma inevitabilmente), piuttosto che a qualcosa che, a un certo punto, viene "preso". Le decisioni non vengono
prese, emergono.
La qualità di una decisione (cioè se è più o meno partecipata, creativa, fattibile, ecc) dipende dal metodo di
lavoro usato in sede assembleare (metodo per discutere, produrre idee, confrontarsi, gestire le differenze e i
conflitti, ecc), che a sua volta è fortemente legato al metodo decisionale che si adotta (per esempio il metodo
del voto a maggioranza porta ad attuare certe procedure di discussione e confronto, mentre col mc si è
indotti verso altre forme procedurali - ciò viene approfondito nel capitolo successivo "consenso e voto").
Pertanto, se vogliamo valutare un metodo decisionale (di qualsiasi tipo), dobbiamo prendere in
considerazione tutto il processo che esso, di fatto, mette in moto.
Qualunque sia il metodo usato, il processo si svolge sempre in 3 distinte fasi spazio-temporali, la cui
dinamica è sequenziale e circolare.
I) fase preparatoria: tutto quello che avviene prima dell'incontro - riunione ordinaria, assemblea annuale,
ecc - e che serve a prepararlo;
II) fase assembleare: tutto quello che avviene durante l'incontro;
III) fase esecutiva: tutto quello che avviene dopo l'incontro e che ha a che vedere con la realizzazione delle
decisioni prese.
Per quanto concerne i processi decisionali partecipativi orientati al consenso ( (nota23) ), in rapporto alle fasi
suddette si tendono a curare/soddisfare almeno i seguenti elementi:
FASE PREPARATORIA
Tutti i partecipanti devono essere messi in condizioni di conoscere con adeguato anticipo:
a) l'Agenda, ovvero l'ordine del giorno con la eventuale precisazione degli obiettivi generali e particolari
dell'incontro, e i tempi di lavoro;
b) il metodo decisionale adottato e le caratteristiche principali del relativo metodo di lavoro che viene
usato nello specifico incontro (col mc il metodo di lavoro varia moltissimo da situazione a situazione - oltre
che dallo stile di chi facilita) (nota24) ;
c) la documentazione e/o altri materiali necessari alla "partecipazione efficace".
FASE ASSEMBLEARE
Curare l'ambiente/contesto ove avviene l'incontro, dunque gli ambienti di lavoro, la disposizione spaziale
dei partecipanti (che a volte partecipano a vario titolo), eventualmente adeguabile alla formazione di
sottogruppi di lavoro, o di altri setting.
Ri-condividere, cioè spiegare, compartecipare al momento dell'apertura dei lavori l'agenda, il metodo
decisionale e il metodo di lavoro, al fine di contestualizzare e rafforzare il patto di lavoro valido in quella
occasione d'incontro. (nota25)
Per quanto concerne il metodo di lavoro, particolare attenzione va data alla presentazione della
facilitazione e di altri eventuali ruoli/funzioni di servizio (per esempio la presidenza di un'assemblea, il
coordinatore di gruppi di lavoro, portavoce, segretari, ecc).
Attuare il metodo di lavoro tramite la facilitazione (la scansione delle fasi relative alla discussione che
porterà alle decisioni la vedremo in dettaglio nei capitoli "La gestione del processo decisionale" e "La
facilitazione").
Valutare il processo: al termine dell'incontro tutti i partecipanti si esprimono a caldo sul metodo di lavoro
usato - a freddo e con più tempo, in apposite riunioni organizzate periodicamente, riflettono sui punti di forza
e di debolezza del metodo decisionale.
FASE ESECUTIVA
Usare strumenti di monitoraggio adeguati per rilevare i dati che servono a valutare, alla prova dei fatti, la
qualità delle decisioni prese.
Prevedere sedi extradecisionali adeguate alla discussione partecipata di tali dati e, più in generale, al
confronto permanente su questioni complesse o particolarmente conflittuali. Infatti, senza l'organizzazione di
seri momenti di elaborazione e di confronto, e magari anche di mediazione dei conflitti, sganciati dalla
pressione decisionale che agisce in fase assembleare, le riunioni e in particolare le assemblee periodiche,
diventano per forza luoghi di confusione e tensione che portano alla produzione di decisioni di bassa qualità.
Da notare come queste diverse tipologie d'incontro, staccate dall'esigenza decisionale, entrino a far parte sia
della fase esecutiva (riguardo all'assemblea precedente), sia della fase preparatoria (riguardo i successivi
incontri decisionali): la sequenzialità delle tre fasi del processo è circolare e non ha soluzioni di continuità.
___________________________________________________
NOTE
Nota 23: Partecipativo vuol dire che favorisce la “partecipazione efficace” di tutti coloro che hanno diritto e/o
sono toccati dalle conseguenze dirette delle decisioni che un gruppo/sistema prende. Orientato al consenso
vuol dire che la decisione finale non è il risultato di un voto, che spesso vede una maggioranza “contro” una
minoranza, bensì il risultato di un processo di comunicazione che porta i partecipanti a convergere verso una
determinata decisione. [ torna_su ]
Nota 24:In un gruppo che ha consolidato una certa pratica, tali elementi possono essere ordinariamente dati
per acquisiti. Il metodo di lavoro, che non può mai essere interamente previsto nelle tecniche particolari
poiché la loro scelta dipende dal contesto che si viene a creare, va presentato in anticipo solo nella misura in
cui necessita di una buona comprensione da parte dei partecipanti che dovranno attuarlo (per esempio è il
caso tipico del lavoro in sottogruppi tematici, con delega decisionale o meno), poiché anche scelte di questo
tipo è bene che siano condivise. In alcune occasioni (per esempio assemblee periodiche con tanti
partecipanti, o gruppi che sono agli inizi) un passaggio formale che presenti in modo accurato quegli
elementi è a mio parere utilissimo, anzi, direi indispensabile. [ torna_su ]
Nota 25:Il nostro sistema democratico (penso a quello parlamentare di tutte le cosiddette democrazie
avanzate) continua a fondarsi sul modello vinci/perdi, dove la maggioranza cerca di imporre (come può) il
suo progetto e la minoranza di opporre (come può) la sua forza. Tale sistema, chiamato democrazia, che
continua ingiustamente a favorire e preservare i privilegi di chi per una ragione o per l’altra si trova nella
classe dominante dei ricchi, e che perciò implica la guerra nelle sue tante forme (una è il terrorismo),
qualcuno lo ha definito “un modo per metterlo nel culo alla gente col suo consenso” (Massimo Fini, “Sudditi.
Manifesto contro la democrazia”, ed. Marsilio, pag. 31). Una definizione brutale, per altro approssimata per
difetto, che purtroppo mostra quanto sia delicato e rischioso parlare di consenso. E va pure ricordato che
tale negativa concezione (e prassi) di democrazia risale agli albori (vedi per esempio Luciano Canfora “La
democrazia. Storia di un’ideologia” ed. Laterza). [ torna_su ]
4. CONSENSO E VOTO: compatibilità limitata.
Il metodo della maggioranza, nelle sue varie forme, funziona benissimo se a monte c'è un chiaro ed esplicito
patto tra i soggetti che lo usano riguardo alle conseguenze di tale scelta. Tale patto configura esattamente
ciò che qui chiamiamo consenso (per inciso: la parola pace sembra derivare etimologicamente da una radice
indoeuropea che significa patto, accordo). In assenza di quel patto, o se il consenso è debole, il metodo
della maggioranza semplicemente non funziona o funziona male, cioè le decisioni assunte non sono
adeguatamente sostenute, realizzate, rispettate.
Ma quale sarebbe la conseguenza inerente alla scelta del metodo della maggioranza su cui ci si dovrebbe
trovare preventivamente d'accordo? Forse che, con tale metodo, la minoranza dovrebbe alla fine accettare e
rispettare lealmente l'orientamento della maggioranza? Sembrerebbe questo un aspetto ovvio, poiché se le
minoranze (che di volta in volta si formano) non rispettassero il volere delle maggioranze (che di volta in
volta si formano), non si capisce che valore pratico avrebbero le decisioni prese.
Eppure, osservando cosa accade nei gruppi, piccoli e grandi, nel settore pubblico come in quello privato, che
ordinariamente dicono di adoperare (e spesso sono tenuti ad applicare per legge) il metodo della
maggioranza, i conti proprio non tornano. Io vedo ovunque maggioranze che tentano d'imporre come
possono la loro volontà, e minoranze che tentano come possono di opporsi e che, alla peggio, quando
possono boicottano le decisioni della maggioranza, finché non giungono a separarsi per formare nuove
aggregazioni.
Il sistema democratico fondato sul volere della maggioranza funzionerebbe certamente mille volte meglio di
come funziona ora (dal Parlamento fino all'assemblea di condominio, dal collegio docenti di una scuola al
consiglio direttivo di una cooperativa) se a monte vi fosse il suddetto patto; ma non c'è, e pare non esserci
mai stato, perché nella storia si è creduto che bastasse la forza della legge per poter costruire (imporre?) la
democrazia.(nota26)
Dunque il metodo della maggioranza ha in qualche misura la necessità del consenso per poter funzionare
bene, cioè ha come premessa il consenso. Però, una volta adottato il metodo della maggioranza, tramite il
suo sistema di premesse (riconducibili al modello vinci/perdi) sospinge il gruppo verso procedure che
alimentano un processo assai diverso da quello attivato col mc. Infatti il sistema di premesse (soprattutto
quelle inconsapevoli, perché quelle declamate possono essere addirittura identiche, come ben dimostrano le
svariate dichiarazioni di diritti umani, delle donne, dei bambini, ecc) è sostanzialmente diverso tra i due
metodi. Per esempio col mc assistiamo a forme di facilitazione anche molto articolate al fine di gestire il
rapporto tra maggioranze e minoranze che di volta in volta si formano in un'assemblea (cosa che verrà
esemplificata nell'apposito capitolo), mentre col metodo della maggioranza è facile arrivare alla serie di
interventi pro e contro una data proposta. Queste differenze di premesse, che rimandano a differenze di
procedura, non sono roba da poco dal momento che si riflettono interamente sulla qualità delle decisioni e
azioni finali.
Dal canto suo il mc, che a maggior ragione si fonda obbligatoriamente sul consenso, una volta che lo si è
scelto può accogliere al suo interno momenti di voto per giungere alle decisioni, ma a una serie di condizioni,
che qualora non siano rispettate insinuano nel gruppo pericolosi effetti negativi. La condizione principale
consiste nel modo in cui, in taluni casi, si decide di usare la votazione a maggioranza: deve essere questa
una decisione con un consenso chiaro e forte, per il semplice fatto che altrimenti i rischi di inefficacia
nell'azione conseguente le decisioni, e la perdita di fiducia (il capitale sociale) sono elevatissimi.
Tuttavia sembra assai improbabile che dopo un lavoro improntato al consenso, permanendo il disaccordo di
una minoranza, un gruppo possa decidere col consenso di passare alla tecnica del voto che, quasi
certamente, vedrebbe la conferma delle proposte portate dalla maggioranza: se la minoranza è sveglia, è
quasi impossibile che dia il consenso a una votazione che la azzittirebbe di brutto. In tali casi, quando ci si
avvicina all'esasperazione (che è dovuta alla cattiva gestione del rapporto tra maggioranze e minoranze, e
non all'esistenza delle minoranze in quanto tali), qualcuno potrebbe essere tentato di proporre di "decidere di
votare a maggioranza tramite una votazione a maggioranza", invece che col consenso: ma questa stridente
contraddizione sarebbe possibile solo se i partecipanti fossero tutti sotto l'influsso ottenebrante delle
premesse inconsapevoli tipiche del metodo della maggioranza (anche i partecipanti apparentemente svegli
che "vedono" cosa sta succedendo e però più o meno allegramente lasciano fare, sono sotto quell'influsso).
Infatti, una volta mosso quel passo, si costituisce un precedente che resta impresso nella memoria dei
singoli e nel corpo del gruppo, come una sostanza intossicante dagli effetti potenzialmente letali. Come
minimo il mc perde di efficacia e coerenza, e il gruppo regredisce a forme ibride - forse più efficaci per
raggiungere gli obiettivi da parte delle maggioranze, ma con ciò rinunciando ad altri fondamentali obiettivi (la
pace? La giustizia?)(nota27) .
In quali casi allora avrebbe senso impiegare la tecnica del voto all'interno di metodi di lavoro orientati al
consenso? Personalmente conosco diverse situazioni in cui ciò è stato e viene fatto con discreto successo.
La situazione più comune riguarda l'elezione dei candidati alle cariche prestabilite. In tali casi sembra vigere
tra i presenti un patto silenzioso (per quel che ho visto quasi mai esplicitato) di accettazione del volere della
maggioranza. Un consenso implicito dunque, ma pur sempre un consenso. Dico sembra perché i problemi
non di rado si palesano a posteriori (e qui torna tutto il discorso fatto all'inizio sul fondamento del consenso
nel metodo della maggioranza). In effetti questo modo di eleggere i propri rappresentanti, che deriva da
pratiche antiche, mostra spesso le sue contraddizioni e andrebbe coerentemente innovato. Resiste ancora
perché tutto sommato, specie negli ambiti e nei gruppi in cui circola una certa fiducia di fondo, dà risultati
soddisfacenti in rapporto al tempo che viene impiegato - la tecnica del voto, come in genere l'uso della forza
bruta, attrae per questo: è molto rapida ed efficace in rapporto agli obiettivi perseguiti (ingenuamente
circoscritti e ultrasemplificati)(nota28) .
Un'altra tipologia riguarda quelle situazioni in cui il gruppo è consapevole della necessità, per ragioni da tutti
riconosciute, di dover prendere rapidamente o urgentemente una decisione, e di non poter protrarre la
discussione più di tanto. In questi casi la proposta di decidere tramite votazioni a maggioranza, qualora vi sia
disaccordo dopo una più o meno breve fase di presentazione e discussione delle opinioni, viene posta con
chiarezza all'inizio e prima di ogni intervento che entri nel merito delle questioni (lo strumento che illustro al
termine del capitolo serve a gestire casi come questi). Tale scelta, ben oculata, è a mio parere molto saggia
e pienamente in sintonia col mc(nota29) .
Due metodi, due strade.
"Il successo non è dato dal raggiungimento degli obiettivi perseguiti, ma da cosa si diventa raggiungendo o
meno quegli obiettivi." (Saggio pensiero di cui non sono riuscito a recuperare la fonte).
In definitiva i due metodi si differenziano sia per il sistema di premesse, sia per il metodo di lavoro (e le
relative tecniche) che da quelle premesse deriva e viene informato (nel senso di "prendere forma"). Entrambi
i metodi partono dallo stesso luogo (si fondano cioè sul patto-consenso, preventivo e informato, inerente le
modalità e le conseguenze del loro impiego), come fosse una grande piazza da cui partono due strade che
subito divaricano con un angolo superiore a novanta gradi: le direzioni, il senso, il paesaggio e il tipo di
cammino sono assai differenti. Eppure entrambe le vie siano segnate da una freccia che indica lo stesso
paese cui si dovrebbe giungere: democrazia. Com'è possibile? Forse un errore (intenzionale?) da parte degli
addetti alla segnaletica? O forse davvero le strade portano allo stesso luogo? Ma se pure portassero allo
stesso luogo, non è forse vero che il successo è determinato non tanto dal raggiungimento delle mete
perseguite, quanto da ciò che si diventa una volta raggiunte tali mete?
Fuor di metafora, mi sembra che le tecniche del mc siano poco compatibili con quelle del metodo della
maggioranza, così come le tecniche del metodo della maggioranza sono poco compatibili con quelle del mc.
Se si sceglie il metodo della maggioranza e però si ricorre all'uso, esteso e frequente, di tecniche e
procedure tipiche del mc (per esempio la facilitazione, con la sua ricchezza di strumenti e di sensibilità per i
contesti e le forme del comunicare, al posto della banale "moderazione"), col tempo il metodo della
maggioranza si trasforma in una sorta di metodo ibrido: questa è a mio modo di vedere esattamente la
situazione vissuta dai gruppi che non hanno adottato formalmente il mc (e forse nemmeno quello a
maggioranza) eppure nei loro incontri tendono a ricercare il consenso, restando però ancorati alle premesse
(vinci/perdi) tipiche del metodo della maggioranza.
Analogamente, se adottato il mc si ricorre all'uso esteso e frequente di tecniche e procedure tipiche del
metodo della maggioranza (per esempio il voto per arrivare a decidere, e soprattutto le forme di confronto
elementare basate su interventi liberi pro e contro), col tempo il mc si trasforma in un ibrido: questa è a mio
modo di vedere esattamente la situazione dei gruppi che, pur avendo fatto la scelta del mc, continuano a
risentire fortemente delle premesse (inconsapevoli) tipiche del metodo della maggioranza - e ciò è tanto più
probabile quanto più i gruppi sono grandi e/o caratterizzati da un ricambio interno dei membri, e non si
fermano regolarmente a valutare la loro esperienza decisionale.
Quando il mc viene applicato con sufficiente competenza, non c'è proprio alcuna ragione, e soprattutto
nessun desiderio, di tornare al metodo della maggioranza.
Il voto consapevole: uno strumento per usare meglio il metodo della maggioranza - e il metodo del
consenso.
Il testo che segue può essere sperimentato come strumento abbastanza rapido ed efficace per migliorare il
metodo di lavoro e decisionale di gruppi che:
a) non hanno mai deciso in modo formale il metodo decisionale e di lavoro che usano, non sono tanto
interessati a investire tempo a tal riguardo, e però non sono nemmeno soddisfatti dei risultati che ottengono
(sul piano della qualità delle decisioni, o dell'efficacia del metodo, o dei risultati nella fase esecutiva
conseguente alle decisioni, o del clima emotivo e relazionale che caratterizza il gruppo);
b) hanno scelto di impiegare il metodo della maggioranza, e però vivono un'insoddisfazione simile a quella
sopra descritta;
c) hanno scelto di adoperare metodi di lavoro orientati al consenso, riservandosi però di decidere a
maggioranza in particolari situazioni;
L'uso di tale strumento è fortemente sconsigliato solamente ai gruppi che tendono a gestire internamente il
potere in modo occulto (ciò costituisce incompatibilità di fondo con la democrazia, e quindi, almeno
formalmente, anche col metodo della maggioranza). Tutti gli altri gruppi possono ben sperare in un salto di
qualità generale, senza troppa fatica e, probabilmente, senza dover abbandonare le modalità d'incontro cui
sono abituati.
In pratica il testo va letto all'inizio di una qualsiasi riunione, al termine della quale viene verificata
l'approvazione per alzata di mano individuale. Se vi sono mani abbassate è necessario avviare un breve
momento di chiarimento e confronto che porti, anche tramite modifiche al testo, a un consenso chiaro.
<< Noi presenti ci impegnano a prendere le decisioni col metodo della maggioranza. Cercheremo per quanto
possibile di discutere per trovare un accordo o il consenso, ma se non riusciremo a raggiungerli useremo la
votazione (nelle sue diverse forme). Pertanto ciascuno di noi (gli aventi diritto al voto) si impegna, sin da ora,
a rispettare le decisioni della maggioranza, anche se singolarmente non le condividesse; e di conseguenza
si impegna lealmente a offrire il sostegno necessario alla loro attuazione in fase esecutiva.
Nei casi in cui le proposte della maggioranza incontrassero un significativo disaccordo nella minoranza,
quest'ultima potrebbe dichiarare prima del voto le condizioni in base alle quali ritiene di poter assumere gli
impegni relativi a quelle proposte. Però, qualora la maggioranza valuti le suddette condizioni in parte o del
tutto inaccettabili, e dunque in parte o del tutto le respingesse, la minoranza s'impegna, sin da ora, ad
accettare senza ulteriori riserve e lealmente l'orientamento espresso dal voto della maggioranza, con tutte le
conseguenze pratiche che ne derivano.
Le decisioni prese secondo questo metodo impegnano anche i membri del gruppo assenti alla riunione, i
quali, salvo diversa indicazione (secondo le particolari regole stabilite in proposito dal gruppo) si impegnano
a rispettare e sostenere le decisioni assunte nel modo suddetto. >>
NB: In assenza di un chiaro e abbastanza rapido consenso sul testo (eventualmente modificato dopo
discussione), sarebbe assai controproducente andare al voto (anche con maggioranza qualificata), mentre
avrebbe più senso domandarsi quale validità o efficacia sul piano pratico avrebbero (e hanno) le decisioni
prese a maggioranza in questo gruppo - dal momento che, evidentemente, esiste la libertà delle minoranze
(cioè di tutti) di fare alla fine come gli pare.
In casi simili, estremi, potrebbe essere di grande giovamento anche una riflessione sulla natura del
gruppo/organizzazione (in che senso si definisce democratica?), e sulle ragioni che portano i singoli a farne
parte (libertà, o dipendenza? interessi comuni, o privati e occulti?). Ma avverto che è estremamente difficile
arrivare a un tale punto critico, che comporterebbe un confronto diretto trasparente: stanti le premesse che
porterebbero a questa incresciosa situazione, quasi sicuramente il tutto verrà rimosso e insabbiato sin
dall'inizio (cioè non verrà nemmeno accennata la proposta di lettura pubblica del testo, e chi oserà farlo
scoprirà a sue spese chi comanda).
___________________________________________________
NOTE
Nota 26: Il nostro sistema democratico (penso a quello parlamentare di tutte le cosiddette democrazie
avanzate) continua a fondarsi sul modello vinci/perdi, dove la maggioranza cerca di imporre (come può) il
suo progetto e la minoranza di opporre (come può) la sua forza. Tale sistema, chiamato democrazia, che
continua ingiustamente a favorire e preservare i privilegi di chi per una ragione o per l’altra si trova nella
classe dominante dei ricchi, e che perciò implica la guerra nelle sue tante forme (una è il terrorismo),
qualcuno lo ha definito “un modo per metterlo nel culo alla gente col suo consenso” (Massimo Fini, “Sudditi.
Manifesto contro la democrazia”, ed. Marsilio, pag. 31). Una definizione brutale, per altro approssimata per
difetto, che purtroppo mostra quanto sia delicato e rischioso parlare di consenso. E va pure ricordato che
tale negativa concezione (e prassi) di democrazia risale agli albori (vedi per esempio Luciano Canfora “La
democrazia. Storia di un’ideologia” ed. Laterza). [ torna_su ]
Nota 27:Da notare che questi e altri “errori” sono abbastanza comuni e naturali nei gruppi che sperimentano
il mc. La cosa fondamentale non sta nel non commetterli, ma nel saperli riconoscere puntualmente e, quindi,
trasformare in occasioni di crescita, esattamente come accade nell’individuo (ognuno sa quanto nella sua
vita è stato difficile eppure importante apprendere dagli errori fatti, e, al contempo, quanto pesano sul
presente quegli errori a cui non si è saputo ancora porre un sano rimedio). [ torna_su ]
Nota 28:Una procedura assai interessante ed efficace che ho sperimentato nella mia breve esperienza con
la peacemaker community, pienamente coerente con le premesse del mc, è quella attuata col metodo
sociocratico: la scelta (elezione) emerge da un processo altamente partecipato e consapevole. Vedi sito
www.champlainvalleycohousing.org/sociocracy.html (io ho anche un testo in lingua inglese). [ torna_su ]
Nota 29:In contesti molto particolari il mc prevede l’uso della maggioranza e addirittura la delega a un
responsabile che, quando si configurano determinate situazioni, possono decidere per un gruppo intero e
ampio: è il caso delle azioni dirette nonviolente messe in atto da un numero elevato di persone (centinaia),
che per l’occasione si coordinano tramite gruppi di affinità (dell’ordine di una decina di persone), i quali sulla
scena di un conflitto sociale devono essere in grado di agire (e quindi decidere) con molta rapidità. Alcune di
queste esperienze sono riportate in “Addestramento alla nonviolenza”, interessante libretto curato da Alberto
L’Abate (ed. Satyagraha, Torino, 1985), purtroppo ormai introvabile, in cui per la prima volta in Italia si parla
in maniera diffusa ed approfondita del mc. La parte dedicata al mc è stata in seguito interamente ripresa e
inserita nel testo “Viaggi in training: percorsi di formazione alla nonviolenza”, di E. Euli, S. Puddu, P. Sechi,
A. Soriga, (ed Satyagraha, 1992), che pur avendo avuto una seconda ristampa nel 1996 oggi è praticamente
reperibile solo nelle biblioteche di alcune associazioni (però si può richiedere agli autori: Enrico Euli
[email protected]). [ torna_su ]
5. LA GESTIONE DEL PROCESSO DECISIONALE
Passaggi obbligatori.
Proviamo a calarci nello scenario - antico forse quanto l'homo sapiens - di una riunione di un gruppo
costituito da una quindicina di persone. Tenendo presente la mappa "il mc: una visione d'insieme",
immaginiamo che la nostra riunione sia stata preparata con cura: tutti hanno ricevuto per tempo la
convocazione, dove ci sono l'ordine del giorno e le altre informazioni del caso, nonché i documenti che
presentano le diverse opinioni in merito a una questione divenuta urgente con le relative proposte di
soluzione (l'hanno ricevuta la documentazione, è vero, ma chissà se l'hanno letta?). Immaginiamo pure che il
gruppo conosca il mc poiché lo ha formalmente adottato da tempo (e quindi non ha bisogno di decidere ogni
volta su un punto tanto fondamentale: la decisione sul metodo è implicitamente ogni volta riconfermata).
Eccoci dunque al momento della riunione.
Immaginiamo che la sede sia stata ben allestita, che il gruppo abbia a suo tempo deciso (consapevolmente)
di lavorare in cerchio, senza mobili al centro, usando di norma la facilitazione, che a seconda dei casi viene
affidata ai membri che sono disponibili e hanno un minimo di capacità. (nota30) .
Ora, per semplificare il nostro caso, immaginiamo lo scenario classico dove ci si concentra sulle questioni
all'ordine del giorno (odg). Poniamo che l'odg sia stato accettato (altro "passaggio obbligatorio" e decisione
fondamentale), e che sia stata individuata la voce da trattare per prima (ancora un passaggio obbligatorio
che richiede una decisione, a volte delicata). Ebbene, prima di entrare nel merito del punto scelto, c'è ancora
un'importante decisione da prendere: come affrontiamo la questione che abbiamo scelto di affrontare? Con
quali strumenti e tecniche (metodo di lavoro) pensiamo di applicare per trattare la particolare tematica?
Ancora una volta è necessario rendersi conto che con tali domande non aggiungiamo nulla al processo
decisionale, non lo complichiamo per pignoleria, o perché ci piace essere precisi, o perché adoperiamo un
metodo speciale: semplicemente rendiamo esplicito un altro "passaggio obbligatorio" del processo che è
sempre presente, sempre, e che, pur nella sua grande rilevanza per gli effetti che ha sulla dinamica di
gruppo e sulla qualità delle decisioni finali, tende a restare invisibile. Vediamo in proposito un errore tipico
legato a questo passaggio.
Un errore tipico.
Il gruppo ha appena deciso il punto all'odg da cui iniziare; immaginiamo che uno dei membri (Mario) prenda
la parola e dica: "su questo problema penso sarebbe utile partire dalle riflessioni che Elena la settimana
scorsa ha mandato per email a tutti e sentire cosa ognuno di noi ne pensa; personalmente io credo che lei
abbia ragione quando dice che…".
Ecco, questo modo di procedere presenta un errore grave, frequente, specie in gruppi dove a chi presiede, o
al responsabile/coordinatore di turno, viene affidata (magari in modo implicito) la gestione sia del processo
decisionale (cioè il dare la parola e in taluni casi l'interrompere chi parla, il fare domande per approfondire, il
sintetizzare e riformulare le proposte per chiarire, ecc), sia del merito dei contenuti (il dare informazioni, lo
spiegare e argomentare pro o contro le opinioni degli altri). Dunque fermiamoci e osserviamo bene cosa
accade: cosa (non) fa Mario?
Con le prime parole del suo intervento propone un "metodo di lavoro" per affrontare il problema (avviare il
confronto a partire dalle riflessioni contenute nella mail di Elena), e con le sue successive parole, nel giro di
pochi secondi, senza fermarsi un attimo per verificare se la sua proposta di metodo sia condivisa dal gruppo,
comincia a esprimere la sua opinione: ma ciò "implica" che il gruppo in quel frangente abbia accettato/scelto
(deciso!) che quello è il modo giusto di procedere.
Di fatto Mario sta imponendo al gruppo (probabilmente senza rendersene conto) di imboccare un "sentiero"
su cui procedere nel cammino, sentiero che secondo lui porterà alla soluzione del problema. Ma prendere
quella via vuol dire non prenderne delle altre (decidere, etimologicamente, vuol dire "tagliare", cioè ogni
decisione apre, taglia e toglie certe possibilità); e magari c'è qualcuno nel gruppo che ha idee diverse e forse
migliori su come procedere; e magari c'è qualcuno che la lettera di Elena non l'ha ricevuta, o non l'ha letta, e
vorrebbe prima di discutere avere certe informazioni; e magari c'è qualcuno che è infastidito dal fatto che
nelle riunioni Mario sia spesso il primo a parlare e a imprimere così una certa direzione alla discussione…
Interventi come quelli di Mario hanno forti probabilità di produrre effetti negativi, specialmente se vengono
ripetuti nel tempo - e siccome in genere si tratta di modelli di comunicazione personale, è sicuro che
verranno ripetuti. Certo, gli altri membri del gruppo potrebbero benissimo bloccare Mario e presentare altre
proposte procedurali; ma "interrompere" una persona è sempre una faccenda delicata: magari c'è chi vede
che qualcosa non va, però tra sé e sé pensa "ormai si è lanciato, lasciamolo finire, non ci metterà molto…";
chi si dice "uffa, ci risiamo, però non posso essere sempre io a bloccare Mario…"; chi vorrebbe fermarlo, ma
teme la reazione del gruppo, o di Mario, o di qualcuno che in genere sostiene Mario; c'è poi chi nemmeno si
accorge di quanto sta avvenendo e invece ascolta attentamente preparando il suo intervento pro o contro il
ragionamento di Mario, (andando così a rafforzare la scelta implicita del metodo di lavoro intrapreso). No,
come tutti sanno non è affatto semplice "interrompere" interventi di questo genere, specialmente quando si
ripetono e diventano una sorta di abitudine nel gruppo (una vera e propria regola implicita). E così però il
tempo della riunione passa, si aggiungono interventi simili, aumenta il disordine, e forse andando avanti
cresce pure la tensione.
Però, nel nostro caso fantastico, abbiamo un gruppo che impiega la facilitazione. E alla facilitatrice di turno
(Luisa) non sfugge l'accaduto: interrompe Mario e fa presente (a lui e al gruppo intero) il salto di livello che
stava avvenendo. Dopodiché Luisa non fa altro che esplicitare al gruppo la proposta procedurale di Mario
(avviare la discussione a partire dalla mail di Elena) verificando su ciò l'accordo o il consenso degli altri
membri: questo passaggio viene chiamato "verifica del consenso", ed è, evidentemente, un passaggio
chiave.
Il processo decisionale è come…
Il processo decisionale è come una scala fatta di gradini di pietra: mentre saliamo possiamo anche saltare
uno o più scalini, però il fatto di saltarli non significa che quei gradini non esistano, anzi, senza quei gradini
non ci sarebbero i gradini successivi e non ci sarebbe nemmeno la scala.
Si potrebbe dire, stando alla metafora, che il saltare certi gradini comunque non incide affatto sull'arrivare in
cima alla scala (obiettivo), anzi, permette di arrivarci prima. Il fatto è che quando siamo in gruppo non siamo
soli: in cima alla scala ci interessa (davvero) arrivare tutti insieme? Ha senso arrivare da soli o in pochi, se
poi, una volta arrivati, il lavoro da fare necessita dell'impegno motivato e del rispetto maturo di tutti? Come e
quanto entrano in queste scelte procedurali (di metodo) i principi e le finalità (valori) che dichiariamo di
perseguire e che, in virtù di tali scelte, si avvicineranno o allontaneranno?
M.L. King diceva che "alla pace o ci arriviamo insieme o non ci arriveremo!" (e per "insieme" intendeva neri e
bianchi). Ebbene, se crediamo che abbia senso (valore?) arrivare insieme, allora dobbiamo fare attenzione a
che, quando saltiamo un gradino, tutti lo saltino e tutti vadano a poggiare il piede nello stesso successivo
gradino.
Non solo. Ci sono gradini nella scala che hanno un valore speciale: sono come dei pianerottoli che aprono
verso direzioni diverse. Il processo decisionale non è una scala semplice, lineare, ma una sorta di iperscala,
dove ogni gradino porta ad altri gradini che stanno sì sullo stesso piano, ma aprono verso direzioni diverse.
Ci sono bivi, trivi, quadrivi. E se è vero che, come dice la saggezza popolare brasiliana, "il cammino si apre
camminando", è pure vero che il cammino si può "chiudere" camminando: la scelta a un bivio condiziona la
direzione del cammino che, via via, limita le scelte future e finisce col rendere obbligatorie certe direzioni (è
quello a cui drammaticamente assistiamo oggi per quanto concerne le scelte/decisioni politiche ed
economiche che caratterizzano quel fenomeno chiamato progresso, o sviluppo).
Se vogliamo arrivare in un posto tutti assieme, dobbiamo fare attenzione a prendere la strada giusta tutti
assieme, e i bivi sono i "passaggi obbligatori" (che qui chiamo anche "passaggi chiave"). Ecco perché è
tanto importante la facilitazione: la sua funzione - centrata sul processo - è di aiutare ogni partecipante a
capire dove si trova il gruppo in un dato momento e quindi a imboccare tutti assieme la strada che sembra
migliore (scelta dal gruppo, non da chi facilita). Alla fine (che poi non è mai la fine, bensì l'inizio di altro)
raggiunto il luogo ambito, cosa saremo diventati? Se è vero che il successo non è tanto legato al
raggiungimento degli obiettivi che ci si prefigge, ma a ciò che si diventa una volta raggiunti (o meno) quegli
obiettivi, il "cosa diventiamo" sembra essere essenzialmente legato al modo in cui abbiamo camminato, più
che alla strada che abbiamo intrapreso e percorso (sulla cui scelta incidono per altro così tanti fattori, e
sempre ciò che chiamiamo fortuna, sorte, destino…).
Verifica (e costruzione) del consenso.
Durante una riunione, qualunque sia la procedura attuata (tecnicamente il mc si può attuare in tanti modi, in
continua evoluzione), arriva sempre un momento in cui serve verificare il consenso (su una proposta, o su
opinioni ritenute importanti dal gruppo).
Tale verifica precede sempre, di un tempo più o meno lungo, quella che alla fine, inevitabilmente, sarà una
decisione; decisione che potrà assumere in toto o in parte quella proposta, oppure che ne assumerà una
completamente diversa, o che non assumerà nel merito alcuna proposta decidendo di rimandare la
decisione su quella particolare questione.
Il tempo che verrà impiegato per arrivare alla decisione dipende ovviamente da diversi fattori, e alla fine, su
ogni decisione, potremo avere solo l'accordo o il consenso. Rimarco questa importante differenza di
linguaggio che corrisponde a situazioni sostanzialmente diverse: un conto è l'accordo pieno di tutti su una
determinata proposta (quella che qui chiamo unanimità), un conto è il consenso, che abbiamo visto implica
sempre una misura di non accordo/disaccordo. Fare finta di essere tutti (pienamente) d'accordo quando
invece si tratta di consenso, a mio avviso sminuisce il potenziale di fiducia e creatività che il consenso
implica e promuove per il fatto stesso di puntare a far convivere dinamicamente le differenze. L'accordo
(nella nostra cultura) tende purtroppo ad appiattire le differenze al fine di spegnere il conflitto che
l'incontro/scontro delle differenze naturalmente comporta. Peccato che così si spenga anche quel processo
vitale che anima l'esistenza, col conseguente aumento di violenza e sofferenza. (nota31)
Inoltre credo sia necessario rendersi conto (sviluppando la relativa sensibilità riunione dopo riunione) che in
un qualsiasi incontro, anche il più banale, i "passaggi obbligatori" che implicano delle decisioni avvengono un
gran numero di volte per una gran varietà di questioni (il momento in cui iniziare e terminare le riunioni, fare
una pausa, stabilire certe funzioni e incarichi e poi affidarli, usare o meno certi strumenti, stabilire quando e
dove rivedersi, ecc). Il fatto che spesso e volentieri (specialmente in alcune circostanze e rispetto a certe
questioni, che vedremo meglio in seguito) la verifica non venga effettuata, sta a indicare semplicemente che
il gruppo assume decisioni in modo inconsapevole - con tutte le conseguenze e i rischi che ciò comporta.
Anche aspetti apparentemente banali come il sedersi attorno a un tavolo, oppure sedersi a schiera di fronte
al tavolo della presidenza, oppure sedersi in cerchio senza nulla al centro, o il riunirsi nella solita
stanza/ambiente, implicano per forza di cose una decisione del gruppo. (nota32)
In definitiva la verifica del consenso (o dell'accordo) va effettuata ogni volta che c'è un passaggio
decisionale. In una serie di casi la verifica sarà necessariamente rapida e servirà al gruppo soprattutto per
rafforzare la consapevolezza di "essere un gruppo che dà vita e un processo" (in pratica basta che qualcuno
dica "dunque stiamo decidendo questo?…"). In altre occasioni richiederà più tempo e dovrà essere ripetuta
tante volte finché non si arriva a una formulazione delle idee o delle proposte accettata (liberamente,
creativamente, responsabilmente) da tutti i partecipanti. Questa è precisamente la sostanza del processo
decisionale, il quale dipende molto dal metodo di lavoro che in sede di riunione il gruppo attua.(nota33)
La verifica del consenso rappresenta dunque un momento cruciale nel processo di co-costruzione del
consenso, e pertanto deve essere gestita accuratamente (un po' alla volta vedremo gli errori più frequenti).
Tecnicamente trovo utile ricordare tre punti: quando si sta per decidere qualcosa, chi facilita (ma può essere
chiunque del gruppo in quel momento sia "sveglio")(nota34) deve:
a) mettere a fuoco il contenuto della decisione con una formulazione sufficientemente chiara (se necessario
scrivendo su apposito supporto in modo che tutti possano leggere) (nota35) ;
b) quindi chiedere se la formulazione della proposta è accettabile, oppure se ci sono perplessità,
miglioramenti, problemi, obiezioni;
c) infine osservare e ascoltare in vigile e fiducioso silenzio la risposta del gruppo, e poi procedere a seconda
dei casi (tra breve entreremo nel dettaglio dei diversi casi).
Durante la verifica vanno evitate espressioni del tipo "c'è consenso?", oppure "siete tutti d'accordo?", perché
non incoraggiano l'emersione dei dubbi e di opinioni divergenti (se è vero che la diversità è ricchezza…),
specie se ci sono persone intimidite dal forte supporto del grosso dei partecipanti (o di qualcuno in
particolare) alla proposta.
In realtà questo dare la parola, questo "provocare", spaventa parecchio. Non di rado nei canonici attimi di
silenzio che formalizzano e danno spessore alla verifica del consenso, i membri del gruppo (e chi facilita)
tremano, e mentalmente pregano che nessuno parli. Questo però prima o poi porta a verifiche deboli, se non
addirittura a pseudoverifiche, che vuol dire un consenso debole o addirittura falso.
Questo tipico atteggiamento è causato dalla paura del conflitto e del disagio emotivo che esso implica; paura
che, se si dà spazio, si parli e straparli senza arrivare da nessuna parte. Tali preoccupazioni, certamente
giustificate poiché fondate su un gran numero di esperienze negative (ci si passa e ripassa tutti e
probabilmente nessuno è senza peccato), credo siano molto legate al non sapere cosa fare nei casi di
esistenza e persistenza del disaccordo e delle tensioni emotive che spesso ne derivano.
Certo, dare la parola a chi non la sa usare, a chi non si rende conto del suo enorme potere, è davvero
rischioso. Ma gestire questo rischio ammutolendo gli altri (e se stessi) è come impedire a un bambino di
imparare a camminare da solo per il timore che cadendo si faccia male. Se si prende un minimo di
dimestichezza con certi fenomeni e s'impara a maneggiarli un po', si possono sciogliere frequenti situazioni
difficili e defatiganti. Del resto ogni riunione è sempre, implicitamente (in positivo o in negativo) una potente
esperienza formativa - e scoprirlo può cambiare il modo di stare nei gruppi.
In pratica la verifica del consenso, anche se articolata in pochissime domande chiave, può essere (e va)
gestita con modalità assai diverse da caso a caso (principalmente in rapporto alla tipologia del gruppo, alla
fase del processo decisionale in cui si è, e al tipo di decisione). Queste modalità sono parte integrante del
metodo di lavoro: vediamo di che si tratta (e)semplificando tramite scenari e problemi verosimili.
Il metodo di lavoro: c'è, ma non si vede!
Quando si attua la verifica del consenso possono manifestarsi una serie di situazioni che, in linea di
massima, si possono raggruppare in tre categorie (cosa che può agevolarne la gestione):
a) c'è il consenso, o addirittura l'accordo pieno;
b) ci sono perplessità che richiedono il dare o ricevere altre informazioni, oppure si vogliono presentare altre
idee e proposte per una più ampia valutazione;
c) ci sono obiezioni, cioè forme significative di disaccordo.
Tutte queste situazioni sono assolutamente naturali, e, in qualche "modo", ogni gruppo per forza di cose le
attraversa, sempre e ogni volta, ad ogni incontro. Quel "modo" conviene a mio avviso chiamarlo metodo,
anche (e soprattutto) quando il gruppo non sa che modo/metodo usa. Abbiamo infatti visto che è impossibile
non avere un metodo di lavoro, esattamente così come è impossibile non comunicare: si tratta di vedere
(consapevolezza) quello che già si fa seguendo regole che non si sa di seguire.
Il metodo di lavoro più diffuso, nella sua forma più banale e purtroppo meno efficace, è conosciuto col nome
di "sedersi attorno a un tavolo e discutere" (nota36) . Il metodo dei professionisti si chiama invece "problem
solving", che non è altro che la codificazione della serie di passaggi obbligatori (diversamente definiti a
seconda degli approcci), durante il processo (che accade sia che ci si assetti attorno a un tavolo oppure no)
che va dall'individuazione del problema alla sua trasformazione/risoluzione, nei quali vengono impiegate
particolari tecniche di analisi, confronto e decisione (diverse a seconda degli approcci). A titolo di esempio,
nella scheda 2 in appendice, riporto in sintesi l'approccio a cui io principalmente mi ispiro, ma solo per
mostrare quanto il problem solving sia in realtà universalmente, implicitamente attuato da gruppi (e individui)
di ogni genere quando hanno a che fare con una delle cose più naturali a questo mondo: problemi. Chi vuole
approfondire trova lì le opportune note bibliografiche.
La gestione del rapporto tra maggioranze e minoranze. (nota37)
Durante il processo decisionale è naturale giungere, prima o poi, alla formazione di maggioranze (M.) e
minoranze (m.) attorno a delle opinioni che, prima o poi, prenderanno la forma di proposte. Tali proposte
rappresentano la preziosa materia prima da cui partire, o meglio, proseguire, nel processo di costruzione del
consenso.(nota38)
Se c'è una M. c'è sicuramente una m., e, prima o poi, verrà il momento in cui il confronto tra queste parti
dovrà chiudersi e risolversi in una decisione. Perciò, quando le parti durante la discussione cominciano a
definire abbastanza chiaramente le rispettive idee, è necessario sapere cosa fare per gestire questa delicata
dinamica che tende ad essere naturalmente conflittuale (almeno nella nostra cultura).(nota39) Il "cosa fare"
corrisponde precisamente al metodo di lavoro, e la sua conoscenza, in quanto parte fondamentale del mc
(come di qualsiasi altro metodo), dovrebbe essere abbastanza condivisa (cioè conosciuta e ri-conosciuta)
almeno dalla gran parte dei membri di un gruppo.
Vediamo nel dettaglio la dinamica di questo rapporto e cosa si potrebbe fare per gestirlo in modo coerente
alle premesse che fondano il mc. Ricaliamoci nello scenario costruito nelle pagine precedenti e proseguiamo
l'immaginaria riunione (si tratta di un gruppo stabile di una quindicina di persone - per un assemblea a
cadenza annuale, con cinquanta o cento persone che tra loro si conoscono poco o per nulla e/o solo in
parte, il discorso sarebbe simile e al tempo stesso assai diverso). Ora, sotto i nostri occhi (scritta per
esempio su cartellone, o meglio ancora su di una parete tramite l'uso del video proiettore) abbiamo la
formulazione di una proposta che sembra aggregare il consenso di una buona parte del gruppo. Siamo
ancora nelle fasi iniziali del confronto e dunque la formulazione dovrà essere sì sufficientemente precisa, ma
senza pretese di perfezione: il suo aggiustamento verrà appunto con i prossimi passi.
A questo punto, tramite adeguati strumenti (potrebbe essere uno schieramento, o l'uso di cartellini colorati, o
altro), chi facilita sonda in modo più esplicito e visibile l'orientamento di tutti i partecipanti. Emerge così che,
dei quindici presenti, dodici sono nell'area del consenso, mentre tre ne restano fuori (cioè, con la loro
posizione, dicono al gruppo che il loro disaccordo richiede un ulteriore confronto). (nota40)
A questo punto si potrebbe allora chiedere alla m. (per m. intendo sia una persona sia un insieme di persone
più o meno in disaccordo con la proposta della M.), di "assumersi la responsabilità" di far cambiare opinione
alla M. che si è formata. Per esempio si potrebbe invitare la m. a precisare quali effetti concretamente
dannosi (per loro, come m. e/o per il gruppo nel suo insieme) vengono rilevati, o si prevedono, qualora
venisse presa quella decisione, o, in altri termini, quali bisogni resterebbero insoddisfatti, e di chi.
Prima di rispondere a questa domanda però, si potrebbe chiedere alla m. di riassumere la sostanza della
proposta della M. Questo serve a verificare l'effettiva comprensione della proposta della M., nonché a
rafforzare il processo in termini di ascolto, riconoscimento reciproco e fiducia. Dopo che la m. ha mostrato di
aver ascoltato e capito (ed è la M che dovrà confermare ciò), potrà portare le sue ragioni. (nota41)
Dopo che la m. ha portato le sue ragioni, bisogna verificare cosa è accaduto nella M., per esempio
chiedendo se qualcuno ora vede le cose diversamente da prima, e/o riconosce in qualche misura le ragioni,
interessi, bisogni della m.. (Prima che la M risponda andrebbe applicata la tecnica del rispecchiamento, e ciò
è indispensabile se prima è stato richiesto alla m.). L'intervento della m. può avere avuto diversi effetti sulla
M.: si potrebbero registrare alcuni cambiamenti di opinione e quindi posizioni meno allineate, ovvero più
stratificate - e dunque la m., aumentando la sua forza, sarebbe meno minoranza. Le M. infatti non vanno
viste come dei monoliti, ma piuttosto come masse fluide in movimento che possono al loro interno avere
posizioni differenziate, vicine e al contempo lontane a quelle delle m.. Naturalmente potrebbero non esserci
cambiamenti significativi nella M., e anzi addirittura un rafforzamento/allontanamento dei punti di vista.
Qualora invece vi fossero dei cambiamenti di opinione della M., questi devono subito tradursi in una modifica
della formulazione originaria della proposta, che mostri nel concreto il cambiamento avvenuto. La nuova
proposta, allora, ben leggibile sotto gli occhi di tutti, diventa ancora una volta la materia prima per verificare e
costruire il consenso.
In queste situazioni, che sono la norma, il gruppo (e soprattutto il facilitatore quando c'è) deve capire di volta
in volta come andare avanti (il cammino si apre camminando). Potrebbe essere necessario investire altro
tempo alla ricerca di una soluzione migliore e più condivisa, altrimenti il consenso che si andrebbe a formare
potrebbe essere troppo debole - ma questo ovviamente non sempre è possibile. In genere da qui si esce o
trovando una formulazione sovraordinata (che riesce cioè a tenere insieme le diverse esigenze, o comunque
in qualche modo a soddisfare le diverse parti), oppure lasciando in sospeso la decisione (in questi casi è
molto importante definire il percorso che porterà ad affrontare di nuovo quel problema). In quest'ultimo caso,
se il processo è stato ben gestito, alla frustrazione del "decidere di non decidere" si affianca un sentimento di
unità e fiducia dovuto alla maggiore comprensione della situazione generale e del problema particolare, il
che rappresenta una forza positiva che inevitabilmente si riverserà negli incontri futuri. (nota42)
Ma proseguiamo con la nostra riunione e vediamo quali verosimili scenari ci attendono. Immaginiamo che
dopo l'intervento della m. non siano avvenuti cambiamenti significativi nella M.: in questo caso la parola deve
necessariamente tornare alla m., andando a verificare gli effetti su di essa degli interventi della M. (la quale,
dopo aver mostrato di aver ascoltato e capito le ragioni della m, avrà motivato con altre e più approfondite
argomentazioni - in questo aiutata da chi facilita con opportune domande - il perché della sua
determinazione). Infatti potrebbero esservi stati cambiamenti nella m. (anche le minoranze al loro interno
non sono monolitiche), che ora potrebbe essere più convinta delle ragioni della M, o più rassicurata; oppure
no e restare ancorata alle sue convinzioni. Le situazioni, come sopra, possono essere diverse e bisogna
capire come procedere.
Nei casi in cui, dopo aver discusso il tempo prestabilito con modalità adeguate alle circostanze (cioè con un
metodo di lavoro che abbia aiutato ad approfondire in un clima di rispetto e ascolto le diversità di pensiero e
di sentimento, e abbia favorito la ricerca di soluzioni creative), il disaccordo persiste e però la M. è
intenzionata a dare forma di decisione alla proposta discussa, si aprono tre possibilità (col presente
approccio al mc):
a) la m. conferma le ragioni del suo disaccordo verso la proposta su cui insiste la M., però, considerato
lo specifico contesto spazio-temporale e sociale (che si è venuto a creare anche e soprattutto grazie al
metodo di lavoro utilizzato), accetta senza riserve la decisione finale (e questo, va ricordato bene, significa
assumersi lealmente tutti gli oneri della decisione e gli impegni che ne derivano);
b) la m. conferma le ragioni del suo disaccordo verso la proposta su cui insiste la M., però, considerato
lo specifico contesto, accetta a determinate condizioni la decisione finale (per esempio dichiarando il non
sostegno, o non partecipazione, o non collaborazione riguardo gli impegni che tale decisione comporta - il
che configurerebbe lo "stare da parte" -, oppure chiedendo la decadenza automatica della decisione dopo un
certo periodo, al fine di poterci ritornare, ecc);
c) la m. conferma le ragioni del suo disaccordo, e, nello specifico contesto, avvertita la gravità della
situazione, nonché il venir meno della fiducia nel gruppo e nel progetto comune, prende le distanze dal
gruppo riservandosi di decidere autonomamente cosa fare.
Nel caso 'a', il consenso è stato evidentemente costruito.
Nel caso 'b', la M. deve ancora dire se accetta le condizioni poste dalla m.: solo allora il consenso è
fattivamente costruito. Qualora ciò non avvenisse si prosegue brevemente nel confronto fino ad approdare al
caso 'a', oppure 'b' in positivo (la M. alla fine accetta le condizioni poste dalla m.), oppure 'c'.
Nel caso 'c', la situazione potrebbe facilmente evolvere verso una separazione o scissione del gruppo. Da
notare che questo caso è altamente improbabile che si verifichi se il metodo di lavoro attuato è stato
veramente informato a criteri di lealtà, rispetto e creatività, poiché "la fiducia" è alimentata soprattutto dalle
forme contestuali della comunicazione, e come si sa, quando la fiducia è alta, anche disaccordi profondi
possono essere inclusi nel consenso finale.
La dinamica sin qui descritta non è nella realtà così nitida e lineare nel suo sviluppo. Il processo decisionale
è un sentiero sempre sconosciuto e dal percorso aggrovigliato, dove sarà spesso necessario tornare sui
propri passi e tentare ai bivi altre strade, peraltro divenute visibili solo ora proprio in virtù del cammino svolto.
L'adozione del mc implica, impone e sostiene lo sviluppo della sensibilità ai cosiddetti passaggi chiave
(decisioni implicite su cui verificare il consenso) e alle fasi del processo (come sono riportate nel capitolo "il
mc: una visione d'insieme" e nella scheda "il problem solving"), nonché della capacità di innescare quei
passaggi quando durante la discussione ci si avvicina alle loro soglie. Infatti, come abbiamo visto, tali
passaggi vengono normalmente saltati, oppure avvengono in modo disordinato e incomprensibile, e si tratta
dunque, più che altro, di agevolarli aiutando il gruppo ad essere consapevole di dove si trova, catalizzando
così il processo verso il consenso (catalizzare non significa forzare), che in sostanza vuol dire favorire
l'emersione della decisione migliore per quel gruppo in quel contesto.
___________________________________________________
NOTE
Nota 30: In pratica il nostro gruppo ha preso consapevolmente una serie di decisioni, più importanti di
quanto comunemente si pensa, e non deve ogni volta tornarci. Da notare che una determinata disposizione
spaziale dei membri durante le riunioni, così come l’allestimento dell’ambiente che li ospita, l’uso (o il non
uso!) di strumenti di lavoro di gruppo (lavagna, video proiettore, ecc), l’impiego (o meno) di certe funzioni
come il segretario, il presidente o coordinatore della riunione, il facilitatore, ecc, sono di fatto sempre presenti
in un gruppo orientato all’azione, sempre, e ciò significa che sono “in qualche modo” oggetto di decisione. In
quale modo? Con quale consapevolezza? L’importanza di tali decisioni ai fini della gestione del potere,
apparentemente scontate e banali, si manifesta a volte in maniera eclatante solo quando qualcuno le mette
in discussione. [ torna_su ]
Nota 31: Col mc si punta a contrastare il fenomeno del groupthink (vedi note precedenti), ma bisogna
ricordarselo bene perché purtroppo, nella nostra cultura, le premesse del mc vengono facilmente travisate e
va a finire che invece si alimenta quel fenomeno. Per questa ragione ho recentemente iniziato a porre
particolare attenzione a queste sfumature di linguaggio: in pratica quando verifico il consenso chiedo al
gruppo se si tratta di consenso o accordo (nel senso di accordo pieno). Questo può prendere un po’ di
tempo, ma ha effetti positivi poiché accresce la comprensione del processo decisionale e la competenza dei
membri del gruppo..
[ torna_su ]
Nota 32: L’importanza di questi elementi “strutturanti” il contesto, o setting, dati normalmente per scontati,
emerge quando qualcuno li mette in discussione proponendo delle alternative: lì si possono capire alcune
cose importanti sul modo di gestire il potere in quel gruppo e forse anche sulle ragioni di annosi problemi. .
[ torna_su ]
Nota 33: Il metodo decisionale, dunque, non coincide col metodo di lavoro usato durante la riunione (come
abbiamo visto il metodo decisionale si estende al prima e al dopo riunione). Nel mc il metodo di lavoro, che
rappresenta certamente la parte principale e più difficile da gestire, è costituito da un ampio repertorio di
pratiche, peraltro in continua evoluzione, che rappresentano e caratterizzano ciò che si chiama facilitazione.
[ torna_su ]
Nota 34: È responsabilità di ciascun membro. Se chi facilita non interviene, ha diritto (potere) di farlo
qualsiasi altro membro del gruppo, magari richiamando opportunamente l’attenzione del facilitatore. Chi
facilita è naturalmente soggetto ad errori e disattenzioni – soprattutto se è interno al gruppo - e perciò deve
essere aiutato dal gruppo stesso per poter aiutare il gruppo.
[ torna_su ]
Nota 35: La formulazione della decisione deve essere a tutti ben chiara, visibile, tangibile: in mancanza di
ciò i rischi di confusione e successive complicazioni e conflitti sono alti. Vedremo che lo scrivere seduta
stante le formulazioni e i passaggi chiave è uno strumento assolutamente indispensabile nei processi
decisionali partecipativi, tanto che la sua assenza è a mio giudizio un indicatore sicuro della non
applicazione del metodo da parte di chi pensa di usarlo.
[ torna_su ]
Nota 36: Personalmente sono arrivato a considerarlo così negativo (nel nostro contesto culturale) da aver
coniato la seguente regola: se vuoi prendere buone decisioni, non sederti a discutere (soprattutto attorno a
un tavolo)!
[ torna_su ]
Nota 37: Per capire meglio questo paragrafo suggerisco di leggere mettendosi nei panni di chi facilita una
riunione (ciò costituisce per altro un ottimo esercizio). Inoltre si tenga presente che quando compare il verbo
“dovere” esso va inteso sempre in senso pragmatico, cioè rispetto agli effetti – che possiamo ipotizzare e/o
osservare - sul processo decisionale, e mai in senso moralistico o dogmatico. Infine ricordo che le modalità e
le tecniche presentate, tratte dalla mia concreta esperienza, sono necessariamente semplificate e hanno
intento essenzialmente esplicativo.
[ torna_su ]
Nota 38: Con “proposta” intendo qualsiasi tipo di formulazione su cui un gruppo si confronta per decidere:
può essere la definizione dei termini di un problema (qual è il problema?), o di una serie di premesse su cui
fondare determinate scelte di percorso o di contenuto, l’affidamento di incarichi e ruoli, ecc.
[ torna_su ]
Nota 39: Per conflitto intendo uno stato della relazione tra le parti coinvolte caratterizzato dalla presenza di
questioni o problemi (qualcosa su cui le parti si trovano in disaccordo a causa di opinioni, interessi, bisogni
differenti) cui si associa un certo disagio o tensione emotiva (emozioni, sentimenti, sensazioni spiacevoli).
L’aspetto veramente difficile - e cruciale - nella gestione creativa dei conflitti è dato secondo me dalla
gestione costruttiva del disagio.
[ torna_su ]
Nota 40: Già solo questo passaggio richiederebbe ben altro spazio per illustrare l’insieme di variabili da
tenere in considerazione per la scelta e la gestione degli strumenti. Non può essere questa la sede per tale
presentazione e perciò rimando ai testi segnalati.
[ torna_su ]
Nota 41: La tecnica è chiamata “rispecchiamento” ed è indispensabile nei momenti di tensione. Quando si
dice che la minoranza dovrebbe riassumere il pensiero della maggioranza, in pratica si intende che qualcuno
della minoranza (se quest’ultima non è costituita da una sola persona), prima di esprimere la sua opinione
dovrebbe mostrare di aver capito per lo meno il pensiero (della maggioranza) col quale ritiene di trovarsi in
disaccordo (non è raro vedere litigare due persone che sono sostanzialmente d’accordo), indicando la
persona o le persone (della maggioranza) a cui attribuisce quel pensiero, poiché saranno queste ultime a
dover confermare la effettiva comprensione del loro pensiero da parte di chi lo vuole in qualche misura
confutare. Per esempio se tu non sei d’accordo con me, conviene, prima di esprimere le sacre ragioni del
tuo disaccordo, verificare almeno un po’ con “cosa” non sei d’accordo, poiché quello che hai capito potrebbe
essere un’invenzione della tua mente. La psicologia, e un po’ di onesta autoosservazione, dimostra che tale
fenomeno è la regola e non l’eccezione: noi parliamo ma di norma non ci capiamo (in prima battuta),
crediamo di capirci o di non capirci, ma appunto è solo una credenza. Perciò questa particolare procedura
(che tecnicamente può essere attuata in tanti modi) rappresenta il cuore della facilitazione.
[ torna_su ]
Nota 42: Il processo sin qui descritto è conosciuto col nome di negoziazione. Di fatto ogni processo
decisionale è un processo negoziale. Come dicono Fisher e Ury nell’introduzione al loro famoso testo “L’arte
del negoziato” (ed. Mondadori), “Vi piaccia o no, siete un negoziatore. Il negoziato è un fatto della vita. … la
gente negozia anche quando non ci pensa.” Per migliorare le capacità di comprendere (e quindi gestire) i
processi decisionali partecipativi raccomando spesso la lettura di testi sulla negoziazione. Oltre a quello
citato, a mio parere estremamente interessante per le premesse su cui si fonda, suggerisco quello di Rumiati
e Pietroni, “Il negoziato” (ed. Cortina), che definirebbero il mc un “approccio integrativo alla negoziazione”.
[ torna_su ]
6. LA FACILITAZIONE
Io direi che la facilitazione è l'insieme delle azioni che consentono a un gruppo di realizzare il metodo di
lavoro, e, con ciò, di gestire il processo decisionale in sede assembleare (dalla riunione ordinaria di un'ora,
all'assemblea annuale di più giorni). In altri termini la facilitazione coincide con le forme della comunicazione
che un gruppo attua quando s'incontra.
Anche nel gruppo più elementare si praticano forme di facilitazione (ovviamente in modo informale e del tutto
inconsapevole), per esempio darsi il turno nella parola e la tendenza a non interrompere chi parla; il disporsi
nello spazio in cerchio o in altri modi - che si presume possano appunto facilitare un certo tipo di
comunicazione -; prendere appunti per se stessi e/o per il gruppo; verificare tramite delle domande la propria
e l'altrui comprensione di quanto detto; produrre delle idee e valutarle prima di assumere una decisione;
ecc).
Facilitazione senza facilitatori.
Credo sia importante notare che l'assenza di facilitatori non comporta l'assenza di facilitazione. Se la
facilitazione è quella cosa sopra definita, allora essa è, di fatto, sempre presente nella dinamica di gruppo, il
che vuol dire che tutti i membri in qualche misura vi partecipano corresponsabilmente - seppur in modo
inconsapevole.
Sembra logico ipotizzare che durante lo svolgimento di una riunione ogni singolo atto comunicativo (una
frase, uno sguardo, un gesto) abbia effetti facilitanti o ostacolanti in rapporto alla costruzione del consenso
(e della sua qualità in termini di creatività, partecipazione, efficacia, ecc), sebbene ovviamente alcuni atti
siano più determinanti di altri nel produrre certi effetti. Potrebbe suonare strano chiamare facilitazione anche
quei comportamenti che agiti inconsapevolmente hanno effetti ostacolanti e distruttivi sulla dinamica di
gruppo e sul processo decisionale, però a me pare che vedere le cose in questo modo illumini aspetti
basilari: nel gruppo ogni singolo partecipante si comporta (comunica) in modo da favorire il raggiungimento
di quelli che ritiene essere gli obiettivi migliori per il gruppo (che spesso e volentieri fa inconsciamente
coincidere in tutto e per tutto con i propri).
Quel favorire corrisponde esattamente alla sostanza della facilitazione: favorire è facilitare, e la facilitazione
spesso produce effetti contrari a quelli auspicati, soprattutto quando è inconsapevole -anche quella formale
ed esperta può produrli. Credo sia fondamentale prendere coscienza di tale evidente potere/responsabilità
individuale.
Una panoramica.
La facilitazione può essere formale o informale: è formale quando nel gruppo viene usata in modo
consapevole ed esplicito, altrimenti risulta informale.
La facilitazione formale (F.) è di norma associata ai processi decisionali orientati al consenso, che essendo
altamente partecipativi richiedono una speciale cura per realizzare la partecipazione efficace. La qualità
della facilitazione influisce in maniera determinante sulla qualità del processo decisionale, e dunque sulla
qualità delle decisioni. Insomma, il mc si fonda sulla facilitazione formale.
Per funzionare bene la F. (esattamente come la mediazione, che è sempre formale altrimenti non è
mediazione) non può essere imposta, bensì deve essere richiesta dal gruppo ed esplicitamente accettata da
tutti i suoi membri (ci vuole il consenso per impiegare efficacemente un certo metodo di lavoro e la relativa
facilitazione). Pertanto la F. è un intervento che va sempre chiaramente presentato (e compreso) nelle sue
regole e funzioni.
La facilitazione informale, attuata cioè spontaneamente e implicitamente da alcuni membri di un gruppo,
tende a produrre effetti negativi e controproducenti, soprattutto a lungo andare: perciò andrebbe resa
esplicita e valorizzata (si tratta cioè di render esplicito - e quindi oggetto di decisione consensuale - ciò che
già avviene).
La F. è di norma attuata da una precisa figura, il facilitatore. In tal senso può essere "interna" o "esterna" al
gruppo: è interna quando chi facilita è un membro del gruppo; è esterna quando chi facilita non fa parte del
gruppo. Quando la F. è interna è in genere raccomandabile che sia alternata (cioè condotta nella stessa
riunione da almeno un paio di persone - ciò dipende dal tipo di gruppo e di riunione). A volte, nei gruppi che
hanno un po' di esperienza, la F. può essere attuata contestualmente da diversi membri interni al gruppo, o
anche da tutti i membri quando il gruppo è piccolo - in quest'ultimo caso io la chiamo facilitazione diffusa.
A chi facilita in modo formale viene affidata una responsabilità (potere) che è contestuale, situazionale; è un
potere assai importante e delicato, fondato sulla fiducia e sugli stessi valori e premesse che ispirano il
metodo decisionale.
Nel caso del mc chi facilita è focalizzato sui bisogni del gruppo: aiuta il gruppo a trovare le sue soluzioni ai
suoi problemi, senza forzare il gruppo verso soluzioni che (chi facilita) riterrebbe più valide. Nella F. esterna
questo fondamentale orientamento ha le migliori possibilità di realizzazione. Nella F. interna, che è il tipo di
F. più frequente, è praticamente impossibile avere le suddette condizioni ideali, ma ciò non impedisce di
ottenere ottimi risultati. Nel caso poi che chi facilita volesse o dovesse entrare nel confronto diretto con gli
altri membri del gruppo sul merito delle questioni trattate (il che è la regola nella F. interna) dovrebbe
esplicitare tale passaggio e farsi temporaneamente sostituire nella sua funzione (che potrebbe essere
assunta da un altro membro, oppure dall'intero gruppo).
Ogni volta che in un gruppo si decide di usare la F. diffusa, cioè affidata non a qualcuno, ma a tutti membri,
è necessario esplicitare le regole minime che la strutturano (per esempio la regola che chiunque può
intervenire per interrompere un altro membro qualora ritenesse che si stia ripetendo, ovvero per riformulare
e sintetizzare le idee espresse; chiunque può chiedere la verifica del consenso su un passaggio ritenuto
significativo; ecc). Insomma, F. diffusa non vuol dire che ognuno può fare quello che gli pare senza tener
conto degli effetti sul processo decisionale della propria comunicazione, ma vuol dire che ogni membro si
assume la responsabilità dell'andamento della riunione e si comporta di conseguenza - meglio se all'interno
di regole minime prestabilite e concordate.
In pratica.
In sede di riunione chi facilita si occupa in genere di una serie di compiti (qui torna utile avere sotto mano la
scheda "il mc: una visione d'insieme" e la scheda "il problem solving"):
¢ cura il contesto dell'incontro e agevola l'inizio dei lavori
¢ presenta (o fa presentare a chi compete) l'agenda nel dettaglio
¢ verifica che tutti abbiano (avuto) le informazioni necessarie alla partecipazione efficace;
¢ gestisce il metodo di lavoro nei tempi concordati e usa in proposito gli strumenti ritenuti più adatti;
¢ esplicita i passaggi chiave del processo e verifica il consenso (e la sua qualità);
¢ verifica che i passaggi formali siano adeguatamente formalizzati (stesura del verbale) da chi ne ha il
compito;
¢ verifica l'implementazione delle decisioni
¢ gestisce la valutazione finale dell'incontro
Quelli elencati sono gli aspetti che personalmente tendo a curare. Naturalmente il modo in cui ciò viene
svolto attiene alle forme della comunicazione, e quindi, nella sostanza, riguarda gli approcci e gli stili della
facilitazione formale (un capitolo da approfondire a parte - vedi scheda sul problem solving).
Scheda 1 - LA DISCUSSIONE È UNA GUERRA!
"L'essenza della metafora è comprendere e vivere un tipo di cosa in termini di un altro." (nota43)
La metafora è da molti considerata come uno strumento dell'immaginazione poetica, un artificio retorico….
Per questa ragione molti pensano di poter fare benissimo a meno della metafora. Noi abbiamo invece
trovato che la metafora è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano, e non solo nel linguaggio, ma anche nel
pensiero e nell'azione: il nostro comune sistema concettuale, in base al quale pensiamo e agiamo, è
essenzialmente di natura metaforica.
I concetti che regolano il nostro pensiero non riguardano solo il nostro intelletto, ma regolano anche le nostre
attività quotidiane, fino nei minimi particolari; essi strutturano ciò che noi percepiamo, il modo in cui ci
muoviamo nel mondo e in cui ci rapportiamo agli altri.
Per dare un'idea di che cosa significa dire che un concetto è metaforico, e che esso struttura una nostra
attività quotidiana, consideriamo l'esempio del concetto "discussione" e della metafora concettuale LA
DISCUSSIONE E' UNA GUERRA. Questa metafora è riflessa in una grande varietà di espressioni presenti
nel nostro linguaggio quotidiano:
o le tue richieste sono indifendibili
o egli ha attaccato ogni punto debole della mia argomentazione
o le sue critiche hanno colpito nel segno
o se usi questa strategia, lui ti fa fuori in un minuto
o ha distrutto tutti i miei argomenti
o ……..
Ciò che è importante sottolineare è che noi non soltanto parliamo delle discussioni in termini di guerra, ma
effettivamente vinciamo o perdiamo nelle discussioni: noi vediamo la persona con cui stiamo discutendo
come un nemico, attacchiamo le sue posizioni e difendiamo le nostre, guadagnamo o perdiamo terreno,
facciamo piani e usiamo strategie… In questo senso la metafora "la discussione è una guerra" è una di
quelle metafore con cui viviamo in questa cultura: essa struttura le azioni che noi compiamo quando
discutiamo.
L'essenza della metafora è comprendere e vivere un tipo di cosa in termini di un altro. Le discussioni non
sono sottospecie di guerre. Le discussioni e le guerre sono cose diverse… Ma una discussione è
parzialmente strutturata, compresa, eseguita e definita in termini di guerra.
Inoltre questo è il modo consueto di avere una discussione e di parlarne: normalmente, se parliamo di
attaccare la posizione di un altro usiamo precisamente le parole "attaccare la posizione". Il nostro modo
convenzionale di parlare delle discussioni presuppone una metafora di cui non siamo quasi mai
consapevoli; tale metafora non è soltanto nelle parole che usiamo, ma nel concetto stesso di discussione. Il
linguaggio con cui definiamo la discussione non è né poetico, né fantasioso, né retorico; è letterale: ne
parliamo in quel modo perché la concepiamo in quel modo, e ci comportiamo secondo le concezioni che
abbiamo delle cose.
Provate a immaginare una cultura in cui le discussioni non siano viste in termini di guerra, dove nessuno
vinca o perda, dove non ci sia il senso di attaccare o difendere… Una cultura in cui una discussione è vista
come una danza, i partecipanti come attori, e lo scopo è una rappresentazione equilibrata ed esteticamente
piacevole. In una tale cultura la gente vedrà le discussioni in modo diverso, le vivrà in modo diverso, le
condurrà in modo diverso e ne parlerà in modo diverso… Forse il modo più neutro per descrivere questa
differenza fra la nostra cultura e la loro, sarebbe il dire che noi abbiamo una forma di discorso strutturata in
termini di combattimento mentre loro ne hanno una strutturata in termini di danza.
Scheda 2 - IL PROBLEM SOLVING
(secondo l'approccio Gordon : "metodo senza perdenti") (nota44)
Fase 1 : identificare e definire il problema.
Qual è il problema? Messa a fuoco del problema in termini di bisogni e sentimenti in gioco.
Fase 2 : lasciare emergere ogni soluzione possibile.
Produzione creativa di idee volte a trasformare la situazione presente e/o prevedibile (il problema) in una
situazione ottimale, o quantomeno accettabile, per tutte le parti interessate (risoluzione del problema).
Fase 3 : valutazione delle soluzioni alternative
Valutazione accurata, in rapporto a criteri oggettivi e condivisi, delle idee prodotte.
Fase 4 : scelta della soluzione migliore (decisione)
Formulazione delle scelte emerse dall'analisi in forma di proposizioni che aggregano il consenso (o
l'accordo) delle parti interessate.
Fase 5 : implementare le decisioni.
Decisioni inerenti il "cosa fare e chi deve farlo, in quali tempi e modi" per rendere fattibili le decisioni prese.
Fase 6 : valutazione delle ricadute.
Stabilire le sedi e le modalità dove poter verificare l'attuazione delle decisioni e valutare i loro effetti reali in
rapporto alle previsioni.
Oltre a queste sei fasi, abbiamo una sorta di fase 0, che potremmo chiamare "creare le condizioni
favorevoli". Infatti il problem solving può avviarsi proficuamente solo se esistono condizioni minime relative
all'interesse delle parti a partecipare attivamente all'incontro, e alla loro fiducia nel riuscire a trovare soluzioni
soddisfacenti ai problemi personali e comuni. Tali condizioni vanno quindi sempre verificate e in qualche
misura rafforzate e costruite.
Naturalmente durante ogni fase, e sempre, è necessaria una comunicazione nonviolenta (per esempio i
messaggi in prima persona, l'ascolto attivo o empatico, il confronto efficace, ecc), nonché adoperare
strumenti e tecniche appropriati (le varie forme di brainstorm, i sottogruppi tematici - in serie o paralleli, a
scambio, ecc - i pannelli mobili con post it, gli schieramenti a più dimensioni, ecc).(nota45)
___________________________________________________
NOTA:
Nota 44: La denominazione delle fasi qui riportate (in grassetto) è presa da Thomas Gordon “Leader
efficaci”, ed. La meridiana, pagg. 106 e seguenti. Gordon è stato allievo e collaboratore di Carl Rogers, e il
suo approccio è quello “centrato sulla persona” (che ha rappresentato una parte fondamentale della mia
formazione in campo psicopedagogico).
[ torna_su ]
Nota 45: Agli interessati suggerisco la lettura del suddetto testo, per altro breve e molto agile, dove, tra
l’altro, vengono spiegate le cose importanti cui prestare attenzione quando si segue questo modello di
Problem Solving. Per quanto concerne le basi della comunicazione nonviolenta, consiglio lo specifico testo
di Marshall Rosenberg “Le parole sono finestre”, ed. Esserci. Sulla facilitazione e il mc, oltre al testo citato di
Butler, segnalo il buon manualetto di Beatrice Briggs “Introduction of consensus”, acquistabile sul sito
dell’IIFAC (istituto internazionale per la facilitazione e il consenso), purtroppo solo in lingua spagnola o
inglese, che però tratta proprio in modo specifico tale argomento (esiste una traduzione italiana a cura di
Lucilla Borio, che però è riservata ai partecipanti ai corsi di formazione che Lucilla guida in Italia come
membro affiliato dell’IIFAC - per info vedi sito www.torri-superiore.org), mentre in italiano segnalo Jerome
Liss “La comunicazione ecologica”, ed . La meridiana, e infine, sulle tecniche di mediazione dei conflitti (e
quindi di facilitazione dei processi decisionali) Christian Besemer, “Gestione e mediazione dei conflitti”, ed.
EGA.
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