Appunti del corso del prof. Renzo Rati, nell’ambito del ciclo di
incontri formativi “Educare al sociale. Maieutica reciproca,
mediazione e gestione nonviolenta dei conflitti”. – Foggia, 2009.
EDUCARE AL SOCIALE
0. PRESENTAZIONE: DI COSA CI OCCUPEREMO
……………………………….
1. INTRODUZIONE: Danilo Dolci e la necessità sociale dell’educazione
Cosa mi porta ad affrontare un tale argomento, non privo di difficoltà?
Formalmente: l’invito ad un ciclo di incontri.
Ma la forma, per come la vedo io, è spesso prerogativa di paradosso,
paradosso che entra nel vivo quando essa tende – una tendenza
davvero pericolosa e preoccupante -, per suo stesso statuto
epistemologico, a pregiudicare e chiudere, spesso a nascondere.
Forse non sempre la forma è paradosso, non lo è probabilmente
quando è forma-azione, ovvero capacità di passare da una forma ad
un’altra senza irretirsi, ma anzi rinnovandosi – qui possiamo discutere
-… Quando mantiene la sua potenzialità dinamica… ovvero la sua
base di realismo secondo il principio del “tutto diviene”, scartando,
perché inesistente, la staticità.
Dire questo significa sospettare ogni atteggiamento conservatore, ogni
tendenza definitoria nel dire e nell’agire, privilegiare il pensiero
acqueo, resistere alla mineralizzazione, alla stereotipia… e chi più ne
ha più ne metta.
Esiste un paradosso della forma: ciò accade, per esempio, quando la
scuola, chiamata ad educare, diseduca, rallenta o addirittura danneggia
il processo educativo, o quando il partito, chiamato alla sintesi
collettiva delle voci, alla partecipazione democratica, le disperde e le
disorienta, oppure le unisce impersonalmente e anti-dialetticamente
nell’unicum ideologico, quando l’ospedale o le agenzie di cura (anche
psicologica o psichiatrica, per esempio) avvelenano o ammalano,
quando il sindacato compromette quel diritto al lavoro che dovrebbe
difendere…
Quando ciò accade significa che la scuola, il partito, l’ospedale, il
sindacato, o chi più ne ha più ne metta, diventano edicole della forza,
radicandosi in forme consolidate nei comportamenti e nelle gestioni,
nelle mediazioni e nelle stesse strategie di intervento… in fuga verso
atteggiamenti di autoritarismo camuffato.
Scrivono gli psichiatri Miguel Benesayag e Gerard Schmit in
“L’epoca delle passioni tristi”:
“L’evoluzione nel senso di una medicina della classificazione si
inscrive in una tendenza più generale delle culture occidentali,
sempre più caratterizzate dalla problematica della costruzione dei
modelli, ovvero della rappresentazione in forma matematica e
sistematica del reale, allo scopo di comprenderlo e modificarlo.
L’aspetto perverso di questa tendenza consiste nel fatto che le nostre
società finiscono per credere, nel senso profondamente
antropologico del termine, che il reale debba disciplinarsi e disporsi
secondo griglie, modelli e concetti.
Si direbbe che, una volta fissate, etichette e classificazioni prendano
il posto del mondo. La nostra relazione con il mondo diventa una
relazione con i modelli, che ci appaiono come il mondo stesso. E
oltre questa tassonomia, tutto ciò che deborda, ogni paradosso e
incertezza è percepito come l’elemento di “disturbo” del reale.
Deploriamo il fatto che il reale, il mondo, gli animali e le cose in
generale abbiano l’irritante tendenza a eccedere i limiti del nostro
bel modello epistemologico, della gabbia classificatoria. Ma noi
questa gabbia l’abbiamo costruita perché, nel peggiore dei casi, la
abitino, o, nel migliore, scompaiano dietro al modello che li
rappresenta.”
In questo caso la forma è paradosso per un’esigenza di rigidità,
quando cioè, per aderire ad una realtà cui non sa più coincidere, si
arrabatta a coincidere con delle definizioni che ancora ne sappiano
garantire il manere: scripta manent, verba volant… può essere inteso
come il grande inganno!!! O il grande rifiuto di disperdersi… per
ritrovarsi… anestesia di un dolore che è più facile non affrontare.
Per dirla con Sartre: “La metropolitana di Budapest era reale nella
mente di Rakosy. Se la metropolitana di Budapest non poteva essere
costruita, era il suolo a dover essere contro-rivoluzionario.”
Sartre parla dell’Ungheria Sovietica… di altre ideologie, di altre
forme chiuse del sapere.
Eppure… la fine delle ideologie tradizionali ha prodotto la
proliferazione di punti di vista non meno ideologici: nelle vecchie e
nelle nuove ideologie il rischio è quello della crisi del pensiero
operativo e critico… dell’azione che esso implica.
I due psichiatri concludono: “E’ in questa onnipotenza virtuale che
le nostre società sembrano abbandonare la sfera del pensiero”.
Una delle parole correnti, soprattutto televisive, davvero entrata
nell’uso e nel nostro vocabolario sintetico, è la parola format. È una
delle tante parole in cui viene giocata al rialzo l’ipotesi di una nostra
spersonalizzazione, che è causa preponderante della nostra
disgregazione.
Dolci criticherebbe, in questo caso, il concetto di comunicazione di
massa…
In una delle sue opere principali, “Il concetto di massa non esiste”,
egli prende le distanze dalle modalità d’uso della parola massa… vera
e propria forma paradossale delle genti ridotte ad un minimo comun
denominatore (la pasta… vedi brano).
Per Dolci, la massa non esiste, né può esistere concettualmente,
primariamente per il fatto che non esiste in natura… In Dolci la realtà
viene prima di tutto… la sua condotta nei confronti dell’umile è una
condotta nei confronti dell’humus, la terra.
Il fatto che oggi siamo portati a credere nella comunicazione di massa,
è perché questo concetto domina le nostre vite e le nostre coscienze,
in maniera potenziata e potenziale… Dolci, dal canto suo, ci chiama
ad una rivoluzione che ribalti il pre-fatto attraverso il fattuale.
Potrei raccontare, solo e semplicemente a titolo esplicativo, per
ulteriormente chiarire, uno dei miliardi di aneddoti che
contraddistinguono ogni giorno, proprio quotidianamente, le nostre
esistenze, in questo caso un aneddoto relativo alla mia esistenza:
“Mi trovo seduto al tavolino di un bar sottocasa. È l’ora di
chiusura, ma i clienti consumano tranquillamente la loro portata,
seduti. Consumano un aperitivo.
Parlo con un amico, faccio con lui un discorso sull’amicizia,
cercando di focalizzare i contenuti su quell’amicizia che è la nostra,
relativamente recente, e perciò in via di definizione… circolante in
una sorta di meta-cognizione emotiva. Chi serve ai tavoli è una
donna dalla faccia stanca. Sta per finire la propria giornata
lavorativa, ed è evidentemente soggetta a diverse condizioni: ad
esempio la fatica della giornata, che ne vincola la lucidità (rompe
un bicchiere!), o il tempo che scorre, che la induce a far di fretta, e
potremmo aggiungere altre cose… lo stipendio per esempio… e
altro. Ma soprattutto possiamo considerarne una: il potere implicito
del cliente, di chi paga. Il meccanismo sociale, una sorta di format
standardizzato, contamina la relazione, si trasmette quasi
inconsciamente, e disturba la messa in atto di una reale
comunicazione. Formalmente… i ruoli sono chiari.. sono i ruoli del
subalterno e di chi subordina…. I ruoli del cameriere e del cliente.
Per fortuna… la comunicazione avviene… i ruoli si sciolgono… la
forma si consuma in un battito di ciglia… lascia spazio non tanto
all’essere, ma all’essere in divenire… ovvero… alla materia
educativa per eccellenza.
“Assicuriamo la donna che ci stiamo alzando… che faremo noi in
fretta a consumare… che abbiamo approfittato anche troppo della
sua cortesia. La risposta: <<state pure… il fatto è che devo andare
in ospedale>>.”
È una situazione sintetizzata… dei fenomeni. Oltre la sintesi
concettuale, molte cose accadono, e le nostre vite sono inserite in una
moltitudine costante di essi, che solo in parte percepiamo… e che
troppo rapidamente definiamo… voltando velocemente pagina e
chiudendo in fretta la partita. O che nemmeno definiamo… regolati da
automatismi solo apparentemente naturali… essendo essi
squisitamente sociali.
Semplicemente… la persona in questione ha un problema… deve
andare in ospedale… non sappiamo se per sé o per altri… non
abbiamo il tempo di chiedere, e il pudore ci impone di non portare
troppo avanti il discorso… che nasce comunque da una confidenza,
una confidenza davvero comunicativa… prerogativa di una possibile
apertura umana in itinere e nel suo profilarsi… la forma un poco si
spezza per lasciare spazio al fenomeno della relazione.
Penso che l’educatore, di ogni ordine e grado (?), debba in qualche
modo costantemente provarsi con questo tipo di ricerca della
relazione, che implica attenzione, ascolto, e coinvolgimento. Il vero
educatore abbandona la profilassi, accettando il rischio che tutto
questo comporta, continuamente de-strutturandosi, a favore di un
principio di realtà, prima di tutto la realtà di se stesso in quanto essere
umano.
Ora leggerò altri aneddoti… tratti dallo stesso Danilo Dolci, cercando
di commentare, anche attraverso il suo stesso commento… [In… Dal
trasmettere al comunicare… pagina 13 e 14]
- In una cittadina del Nord (è un incontro senza incrocio… sul
fenomeno predomina la forma)
- Il gelsomino (è un incontro con incrocio comunicazionale… la
forma non regge al fenomeno)
Bastino queste suggestioni per intuire un poco ciò che mi arrovella:
della forma… non ci si può fidare… almeno… questo va tenuto
presente oggi.
Ci troviamo di fronte ad una delle tante risultanze della storia, e
vogliamo considerarne la questione in educazione. La necessità
sociale di essa un poco dipende da questa volontà. A sua volta, la
nostra volontà di interagire sul suolo sociale dipende dalla nostra
capacità di non lasciar cadere le ipotesi strategiche che ci vengono dal
passato.
Con Danilo Dolci (il quale, a sua volta recupera dal passato molti fili
del suo discorso) ci troviamo di fronte ad alcune di queste ipotesi, che,
riscoperte, non solo ci impegnano a riconsiderare luoghi sepolti dalla
scarsa memoria civile e politica del nostro paese, ma anche a
ripensarle sull’oggi, restituendovi vita e dinamicità.
Legare la trama ad un’aspirazione formale, o formalizzante, significa
farne fabula, e la fabula è ambigua: ogni favola, si dice, ha un fondo
di verità, che dovrebbe poi bacchettare nel segno di un improrogabile
finale moralistico… ebbene questa è una verità che viaggia sull’onda
dell’illusione e della messa in piedi immaginaria.
A ben altro si collega la trama, che è essenzialmente legame e
relazione di fatto, senza un reale bisogno di formalismi impliciti o
espliciti.
Faccio mia la strana metafora di Flora Dolci (figlia di Amico Dolci,
10 anni o giù di lì), nipote di Danilo: è una strana metafora perché
trattasi di una metafora materiale.
“Ebbene… lei mi racconta della sua nuova attività… Sono giornate
estive… giornate di mare, mare magno greco della Sicilia. Il lento
passare del tempo non rende asfittica la situazione di Flora,
bambina creativa per eccellenza, per adozione, se vogliamo per
ereditarietà. Le piace andare al mare, qui ha trovato una nuova
occupazione e dei veri maestri… Qualcuno le sta insegnando ad
intrecciare i nodi. Mi spiega che i nodi non sono tutti uguali, e sono
tutti diversamente utili alle diverse situazioni… Il nodo mette in
relazione col mondo in maniera non forzata (???), ma libera… di
spaziare verso un’avventura che pian piano si fa tessuto e trama
appunto… dove tutto si deve un po’ tenere, ma anche restare in un
equilibrio rispettoso della bellezza… per esempio dei colori, delle
immagini che man a mano si creano. L’esperienza del nodo è
l’esperienza artigianale del nesso. Non c’è un disegno
preconfezionato… solo il sorgere continuo della scoperta e del
tentativo… nodo su nodo… volta a volta da fare e disfare, rifare…
fare continuamente di nuovo… dopo aver vissuto e capito altre
ipotesi e possibilità. La mano che si abitua al mondo è educata dal
mondo stesso… porta con sé il pensiero dell’agire… ed ogni gesto
rischia di essere una rivoluzione non industriale ma industriosa,
una rivoluzione di sé nel sé.”
La pedagogia sperimentale, forte dei suoi tecnicismi, pare aver
dimenticato il suo luogo di nascita: l’esperienza.
L’analisi dei dati (faccio notare che viviamo in uno strano dominio dei
numeri… nel paradosso della forma “numero”), quarta fase del
metodo sperimentale, sembra davvero imporre il proprio imprimatur
sulla prima e sulla seconda fase: l’osservazione e la formulazione
delle ipotesi.
In un certo senso, l’intera opera di Dolci è un confronto con
l’esperienza. Uno dei suoi principali testi teorici si intitola “Nessi fra
esperienza etica e politica”, ed uno degli scopi qui è quello di stabilire
il rapporto tra la modernità e l’esperienza, considerata nella sua
decadenza atrofica. L’esperienza di Flora e i suoi nodi può essere
pensata come l’esperienza artigianale del “nesso” teoretico.
In “La struttura maieutica e l’evolverci” tutta la prima parte
[L’esperienza: maieutico preludio] può essere considerata come il
tentativo di dare risposta a come il concetto di esperienza si è
maturato, da Socrate a San Francesco… a Galileo… a Dewey… a
Gandhi… Su questo non mi dilungo qui… ma sarebbe interessante
analizzarne l’excursus storico… Torneremo comunque sul concetto di
esperienza.
Fin da subito, si traccia una netta distinzione tra esperienza ed empiria
(in quanto pratica formalizzata, il rudimentale sapere come si fa, che
deriva dal ripetere e dal memorizzare attraverso il ripetere).
Esperienza è, di contro, “un continuo attingere le valide fonti”. Dolci
cita il Platone delle “Leggi”:
“Se un medico di quelli che si basano solo sull’empiria si imbattesse
in un altro medico che, da uomo libero a uomo libero, parlasse al
sofferente, usando termini quasi filosofici per illustrare fin dalle
origini il decorso della sua malattia, forse non saprebbe evitare una
risata dai sedicenti medici” (in Platone spesso sono gli sciocchi a
ridere). Così essi risponderebbero: “tu non stai curando il
sofferente, lo stai educando.”
Conoscere l’empiria significa conoscere il fatto che accade
ripetutamente, ma non la ragione per cui accade.
“Experimentare” significa “far pratica, cercare, tentare, provare.”…
Ed è in questo senso che compartecipa di questa ragione (la ragione
per cui un fenomeno accade).
“Sono in macchina con Flora e suo padre, Amico Dolci… che mi
sta accompagnando verso i luoghi più simbolici della vita di Danilo
Dolci: la scuola di Mirto, la diga sul fiume Jato e Trappeto. Flora,
terminato il suo discorso, ritorna al suo pentagramma, agli esercizi
di solfeggio… è violoncellista… non oso chiederle di spiegarmi
Bach.
Suo padre mi racconta di come ha iniziato a parlare… mettendo
assieme parole, proprio come ora, nodo su nodo, ad esempio lunaluce… parole che associa dopo essersi accorta dello stupore di chi
l’ascolta… parole che rende vive nella relazione, all’<<atto>> di
organizzare la sequenza. Suo padre mi racconta che ne è uscito uno
stupendo libercolo di poesie. Ma il discorso lo chiudiamo subito:
Flora afferma chiaramente… “papà mi scoccia quando mi fai la
pubblicità”. Altra insofferente alle definizioni!!!”
Questo discorso sull’esperienza è essenziale in Dolci… la posta in
gioco è alta: la forza del cambiamento è, come direbbe Gandhi, “la
forza della verità”.
Siamo chiamati ad una forte esigenza di realismo, che è la vera forza
di una democrazia partecipativa, in contrasto con la democrazia
apparente… foriera di sogni, di visioni, dal presente al futuro, senza la
possibilità di una riprova (molteplice prova) sui fatti, di una vera
profondità umana.
Al di qua della forma, nell’intricato circolo operante delle opinioni, la
troppo spesso mal considerata doxa occidentale… il vociare indistinto
e stigmatizzato della gente.
La gente si incontra solo formalmente per parlare di calcio o di
politica… o per aderire all’urlato. Questo è semplicemente cliché,
inganno che controlla il nostro essere attraverso operazioni
linguistiche ripetute e costanti, che solo nella ripetizione assomigliano
al vero, formalizzandolo. Danilo Dolci parla, a questo proposito, di
trasmissione… cui contrappone la comunicazione. Entreremo nel
dettaglio di questi due termini, e li metteremo a confronto.
È grave, oltre che gravoso, dover considerare che l’agire metallico
della trasmissione si insinui ormai nella stessa elaborazione
pedagogica, attraverso parole come standard, efficacia, efficienza… e
via dicendo.
Quello che rincara la dose è che queste definizioni-camiciediforza non
sono quasi mai delle autodefinizioni (non si tratta del detto dalìniano
“Il surrealismo sono io”)… ma extra-definizioni di meccanismi extradefinitori, per certi versi sovra-strutturali.
Il pedagogista Canevaro afferma che la vita si trasmette nel nome… il
problema è che, a nome dato, può avvenire il paradosso: nessun’altra
vita è possibile. Nel suo studio storico sulla nascita della pedagogia
speciale l’enfant sauvage viene chiamato, dal rousseauiano Itard,
Victor. Su di lui si impone l’opera di una socializzazione che possa
tranquillizzare tutti, tranne lo stesso soggetto dell’educazione…
chiamato ad aderire al nome Victor, ad essere semplicemente Victor.
Una lotta cultura-natura, questa, che può ben essere rintracciata nel
famoso “enfant sauvage”, mirabile film di Trouffaut.
“Le definizioni”, scrive ancora Sartre, “sono come le marche di
sapone”.
Danilo Dolci era molto attento a questo tipo di discorso. In “Dal
trasmettere al comunicare” leggiamo:
“Prendo un vocabolario. Alla parola pace trovo: “Stato d’animo di
serenità, di perfetta tranquillità non turbata da passioni o ansie;
sinonimo di quiete; assenza di fastidio, di preoccupazioni materiali;
di dolore fisico; tregua; condizione di uno Stato che non si trova in
guerra con altri; Riposare in pace = essere morto.”
Dolci ha sicuramente dovuto scavalcare la definizione di “pace”
intesa come “quiete”. Come Gandhi… la sua è, viceversa, una
promozione del conflitto, in senso non violento.
Lo stesso Dolci passa con difficoltà all’interno di definizioni che mai
si è dato, biechi tentativi di <<formattamento>> personale attraverso
l’etichetta del poeta, del filosofo, dell’architetto, dell’educatore, del
sociologo. Facile dire e facile chiusura del significato, negazione della
complessità e del potere espansivo dell’esistere.
Una singolare esperienza di quest’estate:
“Mi trovo a Palermo, nell’ufficio provinciale, chiedendo indicazioni
su come trovare “Il centro di sviluppo creativo Danilo Dolci”…
Faccia smarrita da parte dell’impiegato… in anni ed anni di servizio
mai gli è stata rivolta simile domanda… Inizia il girotondo delle
telefonate… viene fatta accurata ricerca su Internet… il sito, in
restauro, non risponde – come se già non lo sapessimo -. Dall’altra
parte della cornetta un’altra impiegata comincia ad inveire… Ma
chi è questo Danilo Dolci? Risposta: un sociologo… Ma è un
contemporaneo? Si… un contemporaneo… Vivo? No… morto.”
Eppure all’estero resta grande considerazione nei suoi confronti: le
commemorazioni incorse nel 2007 per i dieci anni dalla sua morte…
sono state promosse, nell’iniziativa centrale, in Svizzera, patria
educativa per eccellenza.
Sorta di strano esilio… questo sembra essere l’amaro destino di Dolci,
spudoratamente richiamato per il bisogno, che ha l’ignoranza, di
questa o di quella definizione … per ripescare attraverso le categorie
dall’oblio del dimenticatoio.
Attorno a Dolci sentiamo la pecca della dimenticanza, il rimorso del
rimosso. Possiamo rintracciarne alcuni motivi… Anzitutto la
scomodità… Dolci ha dimostrato il vuoto dello Stato e la vacuità della
sua forma: il processo da lui subito, chiamato in ambito intellettuale
“Processo all’articolo 4 (della Costituzione)” è un buon esempio di
paradosso della forma… di uno Stato, appunto, che fondandosi sul
diritto al lavoro, deve poi contrapporsi alla libera iniziativa di chi il
lavoro se lo cerca e lo <<provoca>> in maniera del tutto costruttiva.
Qui lo Stato ha dimostrato di patire tutto il peso delle proprie
mancanze… e anche della propria malafede, se esiste una malafede di
Stato.
L’idea pericolosa di Dolci sta nel suo aspetto propositivo, nella sua
tenace ricerca della soluzione dei problemi, che è poi la
<<conflittualità>> implicita nella non violenza… che è la base per la
formulazione di un concetto come quello di “sciopero alla rovescia”…
ribaltamento dello sciopero: chi lavora per dimostrare il proprio
dissenso smette di lavorare… chi è disoccupato… per dimostrare il
proprio dissenso… inizia a fare. Non è soltanto una doppia strategia
rivendicativa, è una contrapposizione fra due modelli rivoluzionari,
due diversi modi di considerare gli ultimi, i quali non sono soltanto gli
sfruttati… - lo sfruttamento è un passaggio successivo del malessere
sociale - ma coloro che sono lasciati nell’indifferenza… i morti di
fame… gli emarginati… gli <<scannati>>.
In “Banditi a Partitico” Dolci scrive:
“Alcuni giudicano opportuna la nostra attività di informazione ma
deleteria la cura intima per il nostro prossimo più ferito in quanto
“ritarda con palliativi il rinnovamento della struttura”. Rivoluzione:
d’accordo. Non si può rimandare a domani il disoccupato che cerca
lavoro perché ha figli alla fame. Rivoluzione e subito. Ma il modo
della rivoluzione è essenziale. Se seminiamo morte e insensatezze
non nasce vita.”
In questo caso siamo all’interno di quel grande dibattito che va sotto il
nome di “Questione meridionale”… attraverso un filo immaginario
che possiamo rintracciare, se vogliamo, tra Gramsci e Carlo Levi.
E aggiungiamo, fra le cause di dimenticanza storica di Danilo Dolci,
la sua chiara presa di posizione nei confronti di una politica (sia essa
relativa alla prima o alla seconda Repubblica – Dolci muore nel 1997)
collusa con la Mafia. Ciò vale anche nei confronti della Chiesa.
E possiamo anche tirare in causa il ’68, come fenomeno che ha
certamente spostato l’interesse pubblico e nazionale… su altro, e che
ha mosso lo stesso Dolci a dover ricercare un equilibrio tra le sue e le
nuove proposte di cambiamento… primariamente nel contesto della
situazione giovanile. Trappeto, pur perdendo il suo primato di faro
educativo sperimentale, pian piano si costituisce come centro
internazionale di sviluppo creativo, su un diverso piano di immanenza
per il giovane stesso… spesso attirato, più che richiesto o richiamato,
da esigenze creative di rinnovamento, messo di fronte all’esigenza
della continuità.
Il rapporto con Dolci non è facile soprattutto per chi, come d’altra
parte egli stesso, viene “da fuori”, e deve integrarsi, armonizzandosi
con il reale… a partire da se stesso più che da un curriculum vitae.
Tanto più che i tempi richiesti da Danilo sono lunghi e per certi versi
indeterminati.
“Mi racconta Amico Dolci di chi, giovane, arrivava a Tappeto, con
lo scopo di fare un’esperienza, di tracciare qualche appunto di
apprendistato. Come sottolinea lo stesso Danilo, mai un giovane è
stato respinto nel suo approdo significazionale e nella sua ricerca di
senso educativo, a carattere soprattutto sperimentale – siamo in un
periodo in cui forte è il richiamo a sperimentare la propria stessa
vita -. Non molto viene richiesto a questo mal o ben capitato, ma
grande è l’esigenza di non indebolire il progetto di emancipazione
popolare, a partire dalle stesse condizioni precarie, ma anche dallo
stesso pudore che occorre riservare nei confronti dell’offeso.
Soprattutto… forte è la necessità di sapersi traslare su tempi ampi…
forte è l’esigenza di capacità dinamica e di elasticità elaborativa,
creativa… di de-strutturazione e ri-strutturazione del sé, un sé
essenziale che sopravvive solo ritrovandosi… viceversa inaridisce e
muore, come accade al seme nella parabola dei talenti.
A dettare una condotta quasi vocazionale, a partire
dall’elaborazione coscienziale, che implica una gratuità liberatoria
o preclusa per sempre.
Una sorta di rivisitazione laica della parabola del giovane ricco.
Religiosità di Dolci… pragmaticamente diversa da quella che negli
stessi anni andava affermandosi nelle idee di Capitini, altro
campione della non-violenza italiana… se vogliamo più schierata
nella sua componente cattolica ed intellettualizzata.”
L’eredità di Dolci non è un’eredità di facile gestione… è l’eredità di
una figura carismatica, per certi versi accentratrice. Non sono sempre
state chiare le sue gestioni dei gruppi… c’è chi afferma una forte
condizionamento indotto nel progredire maieutico di Danilo Dolci…
quasi si arrivasse dove egli stesso voleva arrivare.
È stata detta la stessa cosa di Don Milani, nel suo dirigere il gruppo di
bambini di Barbiana.
Pasolini farà sentire il suo forte dissenso nei confronti dei gruppi
maieutici danilodolciani sulle pagine dei quotidiani… un dissenso che
merita una riflessione profonda… facendoci tremare i polsi di fronte a
paralleli che non sono affatto scontati: la co-esistenza con gli umili, la
ricerca di un linguaggio nell’arcaico, il ritorno alla natura, la missione
di salvazione antropologica, la ripresa (biografica, letteraria, per certi
versi filmica) dell’uomo da parte dell’uomo, il procedere per
domande, senza commento sulle risposte. Anche se il confronto
dell’uno nei confronti dell’altro non si stacca dal panorama in cui
l’uno tenderà a vedere nell’altro la propria brutta copia.
Ci resta comunque il profilo di esperienze esemplari, esperienze
purtroppo dimenticate e pertanto da ricostruire nelle loro fitte trame,
se vogliamo dare una semantica ampia alle nostre esigenze di
democrazia partecipativa.
Ancora mi chiedo cosa mi porta qui… oggi. Cerco di darmi una
risposta. Non è una posizione formale la mia… non faccio parte di
associazioni, sebbene le possa senz’altro rintracciare nel mio passato;
e comunque mi rifiuto di trarre da esse una sintesi definitoria…
preferisco ripercorrerle in quanto percorso di un’auto-formazione
attiva, occasione di incontro con i diversi soggetti sociali
dell’educazione e i diversi interlocutori sull’educazione.
Sono più attratto dall’idea di uno spontaneismo sociale piuttosto che
dall’associazionismo.
Basta tutto questo ad accreditarmi a trattare le “cose” pedagogiche?
Lascio alla libera interpretazione decidere sulla debolezza o sulla
forza di queste ragioni.
La marginalità, in fondo, non è poca cosa… essa può addirittura
costituirsi come strutturale al discorso e alla pratica. Anche quella di
Danillo Dolci è, per certi versi, una pedagogia del margine: ai margini
delle definizioni, sul margine della gente al margine.
2. DANILO DOLCI: CHI ERA COSTUI
È in fondo a partire dalla vita di Danilo Dolci – egli è giustappunto
attraverso la propria vita che risponde e corrisponde ad un’etica della
necessità… significativo, in tal senso, il suo primo sciopero della fame
- che possiamo rintracciarne le incidenze educative.
Esiste invero una biografia ufficiale di Dolci, ed è “La forza della
nonviolenza”, a cura di Giuseppe Barone. Si tratta di una biografia
essenziale, redatta a grandi linee, che lascia molti vuoti. Il motivo di
una tale scelta non mi è noto… forse si intende lasciare il posto a
corali più ampie, si antepone la semantica, l’orizzonte dei significati
possibili all’interpretazione, ai fatti; e si può forse scorgere una certa
volontà di privatezza… su aspetti magari più intimi, familiari; forse
ancora si dà una lezione di diverso stile, rispetto al tanto roboante
vociare che si è fatto attorno alla figura di Dolci mentre era in vita;
forse ancora vige in lui un certo socratismo teorico, tale da far perdere
significato ad una vita scritta sulla pagina, che ha invece il suo valore
implicito nel corso degli eventi reali e nell’intrecciarsi delle relazioni.
Cercherò di integrare questa biografia con quelle notizie
autobiografiche che lo stesso Dolci ci ha lasciato forse con lo scopo di
evidenziare l’esigenza sociale non tanto della sua vita, quanto di ciò
che una vita può, in generale, dimostrare.
Egli ci parla un po’ di sé ovunque, spesso invitandoci a cogliere un
NESSO tra la vita e l’estemporaneità, ma c’è un punto in cui ritorna a
vestire i panni dell’intellettuale, e cerca di intrattenersi in un tentativo
di mediazione tra sé e sé, il sé presente e già passato e il sé passato e
già presente. Questo punto segna una pagina ben precisa… quella del
famoso brano: “Ciò che ho imparato”… “vita magistra vitae”…
significato pedagogico per eccellenza di una vita quando la vita educa
davvero. Scrive Dolci:
“Sentivo forte il rischio, dovendo sintetizzare in poche pagine
l’esperienza di una vita, di ripetere quanto ho già scritto meglio
altrove o di rimanere in superficie”
due righe… dicono niente… e dicono tutto.
La sintesi è un’esigenza, una necessità, un dovere. Essa stringe in
poche pagine l’esperienza… è esperienza della condizione costretta
(di una vita). Tutto ciò ha due rischi:
- ripetere quanto di meglio è scritto altrove… altrove dove?
Altrove quasi nell’attimo, nell’immanente (che non è il
contingente… nel contingente la vita è <<soltanto>> vita).
L’esigenza di adesione ai fatti è un’esigenza di necessario
realismo… l’onestà intellettuale si dimostra nell’adesione alla
realtà (polemica – giusto un po’ platonica – nei confronti della
fabula letteraria)
- rimanere in superficie: la verità ha il respiro della profondità…
è ben radicata… o comunque deve esserlo, altrimenti si spegne
e muore.
E continua:
“Poi ho pensato che il tentativo di una meditazione unificatrice
poteva riuscire certo utile a me, e forse a qualche altro”
la meditazione unificatrice è una sorta di esercizio spirituale, ma
corrisponde anche ad una necessità superiore rispetto alla descrizione
dell’attimo… è l’esistenza che si rivolge all’essenza chiamandola per
nome e per mano… è epokizzazione del sé, autoriflessione della
coscienza. E non solo… è l’operazione intellettuale per eccellenza…
rintracciare il proprio filo rosso… per meglio organizzarsi nei
confronti del domani… è un giungere al dunque con se stessi (e il
difficile sta nel cercare di seguire tutto il filo dei ragionamenti che
questo “dunque”sta a rappresentare, e, rappresentando, a significare)
per chiarire ciò che è necessario per la propria vita (per quello che la
propria vita ha saputo essere, dare e dimostrare), e ciò che necessario
non è.
Quella di Dolci è, dopotutto, un’etica – dicevamo e ci ritorneremo della necessità. Non a caso, nel famoso “processo all’articolo 4”
Calamandrei lo ricorderà come una reincarnazione di Antigone.
Danilo Dolci nasce nel 1924 a Sesana, in provincia di Trieste. A causa
del lavoro del padre, ferroviere, si sposta in vari luoghi. Il primo
viaggio in Sicilia, a Trappeto (prima esperienza siciliana), si svolge
proprio in compagnia del padre.
Intanto la famiglia si è trasferita in Lombardia, dove Danilo compie i
primi studi… di matrice essenzialmente classica: legge Platone e i
poeti del Romanticismo tedesco… si appassiona alla musica… da essa
inizierà a capire il “nomos” della ricerca, del “nomos”, appunto, come
germe musicale.
Pian piano matura un senso di avversione al fascismo… e il regime
comincia a tenerlo sotto controllo. Nel 1943 rifiuta di vestire la divisa
repubblichina, ed è arrestato a Genova. Riesce a fuggire in Abruzzo,
in un villaggio di pastori, a Poggio Cancelli.
Terminato il conflitto inizia gli studi di architettura a Roma, per poi
riprenderli a Milano, dove conosce Bruno Zevi, il quale scriverà di lui,
negli “Editoriali di architettura”:
“Evitiamo il pericolo di creare un mito di comodo, per liquidarlo.
Basta dire: << è un essere superiore, un apostolo, un eroe>> per
sottintendere: <<noi, con lui, non c’entriamo>>. Si tratta invece di
un architetto, come noi, che ha optato per una via alternativa senza
la quale l’architettura scade nel mestierantismo avaro, perde ogni
forza di <<profezia>>, ogni ruolo di promozione civile, diviene un
mezzo sconsolato per campare magari agiatamente, ma privi di
felicità.”
“Di fronte alla scuola di Mirto, nata da una vera e propria
partecipazione popolare che ha messo giù mattone su mattone,dove
l’autoanalisi collettiva ha stabilito esigenze e principi, ha messo a
dialogo persino la scelta del luogo di fondazione, parlo con Amico
Dolci. Una domanda, maturata sin dalla sera prima, mi resta da
fare… trovo qui il coraggio: << Come mai Danilo Dolci è così
legato ad un concetto come quello di STRUTTURA, per molti versi
imputabile di artificiosità occludente, di rigidità di sistema?
Risposta: non dimentichiamo che papà era un architetto, la
struttura architettonica diventa l’anima di un luogo. Osservo la
scuola di Mirto… Gli stessi bambini che poi vi studiarono hanno
aiutato a costruirla… la scuola doveva apparire la loro scuola sotto
tutti gli aspetti.
Etica della necessità… significa anche necessità di non lasciar
cadere la domanda, quindi necessità di dare una risposta.
La scuola fu pronta per l’uso in meno di un anno… molto di più ci
volle per asfaltare la strada di collegamento, costruzione, questa,
delegata ad impresa nazionale. Oggi la scuola è statale: è diventata
Scuola elementare “Danilo Dolci”. Sono passati anni, e ancora si
aspetta affinché vengano affissi nuovi lucchetti ai tombini.”
Danilo Dolci aveva studiato architettura, e aveva pubblicato due
manuali di scienze delle costruzioni per gli studenti della facoltà:
1) Studio tecnico delle strutture isostatiche. Vincoli, reazioni
esterne, azioni interne, esempi.
2) Compendio della teoria del cemento armato.
Per non gravare sulle modeste finanze familiari, insegna presso la
scuola serale a Sesto San Giovanni: tra gli operai che siedono dietro ai
banchi c’è anche Franco Alasia, col quale inizia un importante e
fecondo rapporto di amicizia e collaborazione.
[ Franco Alasia è stato uno scrittore italiano ed esponente della nonviolenza. È
stato allievo e braccio destro di Danilo Dolci sin dal 1950. Per più di vent'anni ha
partecipato con lui e gli altri collaboratori del "Centro studi e iniziative" di
Partitico a tutte le lotte contro il sottosviluppo e la mafia nella Sicilia occidentale.
Partecipa al digiuno del 1957 a Palermo, per denunciare l’orrenda situazione dei
bassifondi della capitale siciliana. Ha condotto assieme a Danilo Dolci, nel 1966,
un’approfondita inchiesta sui rapporti tra la politica e la mafia, che portò al
processo contro l’allora ministro del commercio Bernardo Mattarella e il
sottosegretario Calogero Volpe. Gli stessi Dolci e Alasia furono processati per
diffamazione e, dopo 7 anni di procedura, condannati a due anni l’uno e a una
anno e sette mesi l’altro, pena successivamente condonata. Mattarella non fu
riconfermato nel successivo governo Moro. Alasia partecipò nel 1970 alla
creazione della prima Radio Libera della storia d’Italia, che aveva lo scopo di
denunciare le gravi condizioni dei terremotati del Belice: le trasmissioni furono
presto interrotte per intervento della polizia.]
Dolci elabora all’occasione un’Antologia di massime commentate
(“L’ascesa della felicità”) ordinate per argomento, che spaziano dalla
Bibbia ai classici del pensiero orientale, dai filosofi greco-romani ai
pensatori moderni, da Voltaire a Tolstoj, a Bertrand Russell. Il libretto
nasce dalla collaborazione con gli studenti stessi, come conseguenza
delle meditazioni emerse a seguito delle letture di Lorca, Rilke,
Pound, Eliot.
Tolstoj… “La struttura meieutica e l’evolverci” pag. 94-95
______________________________________________
Alla fine degli anni ’40 Dolci è già affermato poeta: nel 1947 è nella
rosa di finalisti per il Premio Libera Stampa di Lugano, assieme ad
Andrea Camilleri, Maria Corti, Pier Paolo Pisolini, David Maria
Turoldo, Andrea Zanzotto.
Nel 1950 abbandona l’Università e va a vivere a Nomadelfia presso la
comunità di Don Zeno, una comunità di accoglienza per bambini
sbandati. Sono anni di fondamentale formazione… in cui matura, oltre
ad un’improrogabile idea di solidarietà basata sulla fratellanza e
comunanza dei beni, anche un decisivo rapporto con la terra e l’idea
della natura come luogo educativo per eccellenza. Dolci resterà qui
solo due anni. Possiamo immaginarne le ragioni:
- il fatto di aver consolidato un apprendistato attraverso una
scelta che doveva comunque portarlo altrove;
- il sentirsi limitato nella ricerca;
- una più ampia considerazione degli ultimi, su più ampio raggio;
- Probabilmente Dolci ha maturato una certa distanza da una
situazione comunque autarchica, simbolica solo di per sé,
chiusa nella sua nicchia.
Di contro, in lui possiamo estrapolare una diversa concezione della
comunità, un diverso iter per la maturazione del consenso, una diversa
esigenza di incidere sulla società.
4
Dolci si trasferisce in Sicilia, in un villaggio di pescatori, a Trappeto,
luogo già visitato nel ’40 e nel ’41.
APPUNTI SUL VALLONE DI TRAPPETO pag. 33-34 di “Ciò
che ho imparato”
“Amico Dolci mi racconta di aver trascorso qui la sua infanzia. Era
solito uscire a giocare con i bambini del Vallone, tra i liquami
marcescenti e l’aria fetida della fogna che decorreva viva lungo la
strada, spaccata, in discesa. Dietro le case… il mare e sul mare i
pescatori.”
Quella di Dolci è una scelta di povertà, che egli stesso vive. Ancora
nel 1952 Dolci inizia il suo primo sciopero della fame, sul letto di un
bambino morto per agonia e stenti… chiede e ottiene alcune urgenti
misure da parte delle autorità, a favore delle poverissime popolazioni
siciliane.
5
Comincia ad essere definito il Gandhi siciliano, ed ad appartenere
corresponsabilmente al movimento nonviolento italiano, richiamando
voci da più parti, prima fra tutti quella di Aldo Capitini, con cui
intratterrà un’intensa attività epistolare. Del 1954 è il libro: “Fare
presto (e bene) perché si muore”. Il volume raccoglie le storie di
pescatori, braccianti, vedove, disoccupati, dà voce ad una Sicilia poco
o per nulla conosciuta… appuntata… così come si parla.
Per far fronte ai casi di povertà più estrema viene costruita una casaasilo per i bambini. L’esperienza si conclude dopo alcuni mesi con
un’operazione di polizia, che pone i sigilli alla struttura e strappa i
bambini agli educatori per trasferirli in istituti pubblici.
Nell’introduzione leggiamo:
“Penso che sia utile pubblicare alcune pagine nate dalla pena per
questa terra abbandonata. Quando scriviamo per esempio
“lenzuola” (e in voi questo può suscitare candide immagini),
bisogna pensare per lo più a grandi stracci lisi e rattoppati sui
rattoppi dei rattoppi, e così in genere, per tutto il resto: abbiamo
usato i termini del comune linguaggio per poter essere intesi, ma
solo in chi venisse a vivere in questi tuguri potrebbe sapere fino in
fondo. È bastato che noi ripetessimo di queste controllabilissime
notizie, perché qualcuno ci definisse “eretici”, “idealisti”,
“comunisti”. Basta che ci si muova da fratelli, da padri tra i più
miseri – perché chi potrebbe e dovrebbe aiutare, per lo più ci sbatta
fuori dalla porta. Ci hanno sputato addosso. Proprio sputo vero,
saliva, oltre le calunnie”
Nel ’56 esce “Banditi a Partitico”, introdotto da Norberto Bobbio, che
ci mostra le fotografie di due Italie, una tanto decantata nella retorica
e nella morale, una ai margini dell’esistenza e della conoscenza
effettiva, una ideale, un’altra reale.
Scrive Dolci:
“Vorrei che queste pagine fossero lette da tutti coloro che, in Italia,
hanno una cattedra o un pulpito, e se ne servono per esaltare glorie
nazionali magari remote o per flagellare terribilmente i vizi dei
cattivi cristiani. Sono pagine che scuotono sia la pigra sicurezza dei
ripetitori compiaciuti di formule patriottiche, sia il sussiego
moralistico degli accusatori secondo le leggi stabilite. Sarebbe pure
da augurarsi che le leggessero gli ideologi che pretendono di
conoscere, essi soli, i segreti dell’ottima Repubblica. Sono pagine
che costringono a rivedere i principi troppo alti, le sintesi troppo
ambiziose, le dichiarazioni troppo solenni.”
Nello stesso anno accadono due fenomeni fondamentali nella vicenda
di Dolci:
- Oltre mille persone danno vita ad uno sciopero della fame per
denunciare la pesca di frodo, che priva i pescatori di ogni
mezzo di sussistenza… la manifestazione è vietata con la
singolare motivazione che <<un digiuno pubblico è illegale>>.
- Inizia lo sciopero alla rovescia: centinaia di disoccupati si
impegnano a riattivare una strada comunale resa intransitabile
dall’incuria delle amministrazioni locali. La reazione dello
Stato è, ancora una volta, repressiva: una carica delle forze
dell’ordine disperde i manifestanti, mentre gli organizzatori
vengono rinchiusi all’Ucciardone.
6
Scoppia il <<caso Dolci>>, che infiamma il Paese, occupa le prime
pagine dei giornali, accende un vivace dibattito al Senato e alla
Camera: decine di deputati (tra cui Alicata, De Martino, La Malfa, Li
Causi, Mancini, Pajetta) chiedono al Governo di chiarire i motivi
dell’arresto e di assumere provvedimenti contro i funzionari di polizia
che hanno creato una tale situazione. Dolci viene scarcerato al termine
di uno storico processo, al quale depongono come testimoni Carlo
Levi ed Elio Vittoriani… e alla difesa… Pietro Calamandrei.
Dolci non è più isolato: ha il sostegno di tutto il mondo intellettuale
nazionale e internazionale: aderiscono alle sue battaglie Norberto
Bobbio, Ignazio Silone, Cesare Zavattini, Alberto Moravia, Enzo
Sellerio, Lucio Lombardo Radice, Erich Fromm, Bertrand Russell,
Jean Piaget, Aldous Huxley, Jean Paul Sartre ed Ernst Bloch.
Centinaia di giovani si trasferiscono in Sicilia da tutto il mondo per
contribuire a un’imponente opera di riscatto civile, democratico,
economico. Non mancano interventi di segno opposto: le calunnie, il
tentativo di ridicolizzare e ridimensionare i risultati ottenuti, le
campagne denigratorie.
Nel 1958 gli viene conferito il Premio Lenin per la pace. Dolci, pur
accettandolo, dichiara la sua distanza dal comunismo. I fondi del
premio sono comunque indispensabili per lo sviluppo futuro del suo
progetto. Nasce a Trappeto il “Centro Studi per la Piena
Occupazione”, dislocato poi in numerose sedi siciliane, con altrettante
tavole rotonde. È un momento di confronto, che si struttura
sull’esigenza di risolvere praticamente il problema della
disoccupazione, dove, assieme a rappresentanti locali, si collocano
esponenti della cultura e della politica. Nascono convegni a Palermo,
ad Agrigento, a Palmi di Montechiaro.
7
Intanto Dolci viene accusato di aver diffuso notizie diffamatorie
sull’Italia nel corso dei suoi viaggi all’estero: il Ministro degli Interni
(sotto il governo presieduto da Tambroni) gli ritira per alcuni mesi il
passaporto. Si scatena una nuova ondata di polemiche e di reazioni
indignate.
Attraverso l’autoanalisi popolare il lavoro si fa più propriamente
maieutico… l’azione nasce dalla proposta dei gruppi, in maniera tale
che ciascuno possa sentire l’impresa come sua.
Proprio sviluppando l’intuizione di un contadino, nel corso delle
riunioni dedicate ad analizzare l’arretratezza economica della regione
e all’individuazione di possibili soluzioni, prende corpo il progetto per
la costruzione della diga sul fiume Jato. Tecnici esperti, consultati,
confermano che l’idea di edificare un grande bacile per raccogliere la
copiosa acqua invernale e utilizzarla nei mesi estivi è tutt’altro che
insensata. La realizzazione richiederà quasi dieci anni di lotte e
mobilitazioni popolari. Questa diga, che ha sottratto alla mafia il
monopolio delle scarse risorse idriche precedentemente disponibili, ha
rivoluzionato la vita di migliaia e migliaia di contadini, consentendo
alla zona la nascita di numerose cooperative e una crescita economica
e paesaggistica assolutamente impensabile prima.
“Percorro la strada verso la diga con Amico Dolci, in macchina,
mentre Flora continua a fare e rifare i suoi esercizi di solfeggio,
seduta dietro. Amico mi descrive il paesaggio: dove un tempo era
secco e brullo, ora è ricco di alberi e rigoglioso. Nei giorni di
costruzione della diga lui era lì… e come molti bambini talvolta gli
capitava di dormire all’aperto. Il cantiere non veniva mai
abbandonato… la solidarietà fra i lavoratori era rafforzata dalla
speranza di un futuro migliore per loro e le loro famiglie, e resa più
energica dal condividere un progetto comune che era nato da quegli
stessi dialoghi maieutici che li avevano visti protagonisti.
La forza della verità si trasportava dalle parole alla pratica. Non fu
certo il lavoro a spaventarli… lo scoglio più grande fu quello di
esprimersi, di sciogliere le proprie lingue per parlare assieme e a
turno, ragionando passo passo sul ragionamento precedente.”
Nessi… pag. 226-227-228
Tra il potere dell’acqua e il potere dell’uomo si stabilisce un nesso
creativo.
“Raggiungiamo la diga… è impressionante.. una grande opera di
un collettivo di uomini… Amico mi descrive quasi pietra su pietra…
ci tiene a farmi notare la correttezza ecologica della costruzione,
perfettamente inserita nel paesaggio e rispettosa della natura
circostante. Poi mi parla dell’acqua, che diventa metafora e simbolo
di riscatto, di prosperità e salute. La battaglia del padre non è stata
ideologica, è stata materiale. Ci soffermiamo un poco in silenzio,
circondati dal verde. Poi un’amara conclusione: Amico mi spiega
che l’acqua dello Jato è tornata alla mafia… e oggi serve Palermo,
non più Partitico, come dovrebbe.”
8
Sin dal suo arrivo in Sicilia, Dolci individua nella criminalità
organizzata un forte ostacolo allo sviluppo. Grazie ad un lavoro
attento, continuo, capillare, cresce un solidissimo fronte antimafia…
fino ad arrivare ad accusare pubblicamente l’allora potentissimo
ministro Bernardo Mattarella, il sottosegretario Calogero Volpe e
numerosi notabili siciliani: oltre cento persone, e tra loro contadini,
firmano la sottoscrizione all’accusa. Prende posizione intanto nei
confronti della letteratura, che si camufferebbe dietro a finzioni
verosimili ma non vere. Il riferimento, non esplicito, è a Leonardo
Sciascia.
9
Il 15 gennaio 1968 è una data drammatica: un violentissimo terremoto
sconvolge la Valle del Belice e le sue case di tufo crollano una ad una.
Il Centro sospende le sue attività per contribuire all’opera di soccorso
delle popolazioni colpite. Risultano tragicamente evidenti i ritardi,
l’improvvisazione e le omissioni degli interventi ufficiali. Il 15
settembre viene reso pubblico un accurato piano di sviluppo per le
zone terremotate, frutto del lavoro di decine di esperti. Per sostenere il
progetto di Città-territorio e denunciare la lentezza degli organi dello
Stato, si avviano cinquanta giorni di pressione: il plastico del piano, le
cartine, la documentazione raccolta sono presentati nei Comuni colpiti
dal sisma e discussi con i cittadini.
Nel 1970 la prima emittente privata <<illegale>>, Radio Libera
Partitico, lancia un appello disperato: la gente vive ancora nelle
baracche, neppure un edificio è stato ricostruito. Le forze di polizia
fanno irruzione nei locali del Centro, interrompono le trasmissioni,
arrestano i responsabili. Da tutto il mondo arrivano centinaia di
messaggi di solidarietà e di adesione all’appello di Dolci.
Scrive Italo Calvino:
“Ogni volta che una catastrofe colpisce il Sud ci si dice: <<ancora
altre popolazioni dovranno vivere nelle baracche, quanti anni ci
resteranno? È possibile che un paese come l’Italia, che vanta i suoi
miracoli economici, lasci senza tetto popolazioni intere? Le
catastrofi naturali sono fatalità? Non sempre. In molti casi sono
prevedibili ed è grave colpa non prevenirle. Ma anche quando
l’uomo non può nulla contro di esse, le loro conseguenze sono ben
diverse da una situazione statica e gretta, con un’economia che non
pensa che al proprio ristretto guadagno immediato, e in una
situazione in cui tutte le risorse –economiche, umane, naturali –
vengono impegnate per il bene comune. Per questo a vegliare a
Partitico stanotte è la coscienza dell’Italia, una coscienza che è per
così poca parte rappresentata dalla classe dirigente, e che è amaro
privilegio dei poveri”
Il Centro Studi, intanto, si è dotato di un nuovo strumento: il “Centro
di formazione per la pianificazione organica”, edificato in pochi mesi
presso il borgo di Tappeto.
Continuano anche i riconoscimenti al lavoro di Dolci, candidato per
nove volte al Nobel per la pace. Gli viene conferita la Laurea honoris
causa in Pedagogia presso l’Università di Berna. Vince il premio
Socrate di Stoccolma e il premio Sonning dell’Università di
Copenaghen.
A partire dal 1970 escono numerose opere di poesia, successivamente
raccolte in “Se gli occhi fioriscono” (1997).
Si approfondisce, nel contempo, la ricerca sulla struttura maieutica e
sulle sue possibili applicazioni, intensificando i rapporti con gli
educatori mondiali e con l’UNESCO.
Si fa viva l’idea di costruire una scuola: Dolci è dell’idea che una
scuola per bambini deve essere fatta a misura di bambino… che viene
pensato come punto di osservazione del mondo, perché tutto deve
adeguarsi ai suoi bisogni.
Il nuovo Centro educativo di Mirto, del quale persino la posizione
geografica era stata discussa nel corso delle usuali riunioni con la
gente del luogo, viene inaugurato nel gennaio del 1975 e può contare
su un gruppo di collaboratori davvero straordinario: Paulo Freire e
Johan Galtung, Ernesto Treccani e Paolo Sylos Labini, Gianni Rodari
e Gastone Canziani, Mario Lodi e Mario Visalberghi.
Viene messo a punto un nuovo metodo educativo nel corso di
numerosi seminari, che Dolci tiene presso scuole, Università, gruppi,
associazioni.
Gli anni successivi sono anni di importanti incontri presso svariate
Università estere. Nel 1988 esce l’opera “Dal trasmettere al
comunicare”, in cui vengono denunciati i danni derivanti in ogni
ambito da rapporti continuativamente unidirezionali, trasmissivi,
violenti, e si propone l’alternativa della comunicazione, della
maieutica reciproca, della nonviolenza. È un lavoro intenso, a stretto
contatto con la comunità scientifica.
Tra il ’96 e il ’97 Dolci comincia a raccogliere documenti sulla base
NATO de La Maddalena, sede di sommergibili nucleari statunitensi,
costruita senza nessuna autorizzazione parlamentare e operante al di
fuori di qualsiasi controllo da parte del Governo italiano e degli enti
locali interessati: sono impedite persino le verifiche sul livello di
radioattività delle acque circostanti.
Muore il 30 Dicembre del 1997, stroncato da un infarto.
[Da Radio Libera…. Interviste
Ascolto Cd … durata complessiva di
44 minuti……. Selezione di stralci]
BRANI:
1) La radio viene definita… della “nuova resistenza”…
la resistenza ad uno Stato che ancora affossa…
resistenza richiesta a tutti… ad ampio raggio… Sicilia,
Nazione, Mondo. È la segnalazione di uno scandalo…
di morti che si consumano nell’indifferenza generale.
Di fronte ad una burocrazia che rallenta i tempi, viene
contrapposta la necessità, attraverso l’esigenza dello
stare al mondo con dignità. Si rivendica il diritto di
parola… di dare voce a chi voce non ne ha. Si sta
morendo… a causa della mafia… che fa mancare
l’acqua, nonostante la possibilità della terra. La gente
è costretta a sfarsi o a lasciare i propri luoghi…
Muore, oltre alla gente, la propria cultura, che invece
andrebbe sviluppata, e il rischio è che venga sostituita.
Viene fatto appello ai meccanismi internazionali e sul
governo italiano, perché possa agire subito e bene. E
si richiama alla pace, impossibile in tali condizioni.
2) Dolci legge l’articolo 21 della Costituzione italiana…
tutti hanno il diritto di manifestare liberamente… il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione. Fra questi tutti non è escluso chi
più soffre… che ha diritto alla comunicazione e
all’informazione… Ciò è visto come determinante allo
sviluppo di una società democratica. Viene citata
anche la carta dell’uomo, lo stadio più avanzato del
diritto internazionale e non. Dolci critica il metodo
trasmissivo della televisione monopolio di Stato che
non facilita, bensì confonde e mistifica il pluralismo
delle idee. Rivendica la comunicazione al basso
attraverso altri canali. Questa possibilità è l’occasione
per far nascere il circolo virtuoso di reazioni a catena.
Chiama ad organizzare gruppi di ascolto… e
discussione dell’iniziativa… facendo appello aglio
organi di stampa.
3) Appello in lingua inglese: la resistenza non è ristretta
ai confini dello stato… essa riguarda tutti: concezione
organica del bene.
4) Lettera al Capo dello Stato, con traduzione. Dopo più
di due anni dal terremoto la situazione non è risolta, e
la gente resta ancora baraccata. Le condizioni sono
precarie… lo scorrere delle stagioni rivela problemi di
freddo o soffocamento. Viene affermato che la
popolazione è consapevole dell’enorme ritardo delle
istituzioni… e che l’emigrazione provvisoria non è
una soluzione… lasciare significa lasciar morire e
passare il potere alla mafia. La situazione è tragica ma
non persa del tutto… è quindi il momento di agire… e
di agire subito. Lo Stato viene accusato di non essere
riuscito a ricostruire una sola casa in due anni, e i
progetti di sviluppo sono fermi… quindi il lavoro
viene a mancare. L’appello è diffuso in tutto il mondo.
Impedire la voce è delittuoso e crudele… tale da
suscitare lo scandalo ovunque. L’appelllo è firmato
dallo stesso Danilo Dolci… Segue il messaggio
tradotto in inglese.
5) Parla la popolazione:
- un’ostetrica denuncia le gravi condizioni igieniche e
situazionali di chi deve partorire…
- una bambina parla della scuola.
- Un pensionato parla delle condizioni di salute
precaria, del lavoro e dell’assistenza che mancano.
6) - una donna parla della desolazione che si vive nella
miseria, oltre al dolore che essa provoca.
- un prete spera nei giovani, che possano garantire un
mondo diverso, più critico e libero. Denuncia
l’indifferenza religiosa.
7) Un impiegato parla di omertà… della difficoltà che
può attraversare chi parla. Denuncia la mafia e
l’ingerenza politica, economica e sociale. Parla di
sistema clientelare, di uso di raccomandazioni, dalla
periferia ai vertici. Ricorda le cooperative fantasma…
che chiudevano dopo poco tempo, appena acquisiti i
contributi. Un problema gravissimo, afferma, è quello
dell’acqua, che serve per la vita e per le campagne.
Tuttora i politici se ne disinteressano. È un problema
assillante e secolare. Manca inoltre un porto… proprio
dove anticamente c’era uno sbocco commerciale
importantissimo. Denuncia regresso… in un paese che
vegeta senza sviluppo
8) – Una donna parla del problema del freddo, con voce
disperata… preoccupata per la sorte delle sue figlie,
che rischiano di ammalarsi.
- Un pastore parla anche del freddo
9) Un esperto di agricoltura parla di Menfi… del sistema
delle acque. Dice che le cantine sociali sono del tutto
insufficienti per lo sviluppo del frutteto. Denuncia la
lentezza degli interventi. Ravvisa la necessità di
rendere la popolazione cosciente dei propri diritti. Un
contadino parla del disinteresse del governo per lo
sviluppo dell’agricoltura. La gente è invitata ad
emigrare… per favorire le fabbriche del Nord.
10)
Lettura di una poesia… da Il limone lunare.
11) Johan Galtung invia il suo messaggio di solidarietà
dalla Norvegia…. La più importante sfida del nostro
tempo è la creazione di una democrazia partecipativa.
Condanna il sistema dei pochi che dominano i molti,
anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
Invita all’utilizzo della tecnologia dal basso, come
espressione genuina e non manipolata
12) Ernesto Treccani è solidale nei confronti di chi
riconosce come fratelli. Ricorda l’ideale di una radio
non più di propaganda.
3. DIRE L’EDUCAZIONE SOCIALE
Secondo il pedagogista Fornaca, in “Analisi critica dei fondamenti e
delle culture pedagogiche”, anche il più minuto e quotidiano rapporto
educativo contiene la vita personale, familiare e comunitaria,
coinvolgendo costumi, mentalità, riti, comportamenti, linguaggi,
sentimenti, attività.
In questo senso si parla di educazione sociale: essa si coglie
all’interno del tessuto dei gruppi, delle classi, delle comunità, delle
istituzioni.
Il tessuto educativo ha una trama molto complessa; può risultare
resistente o fragile, perché in ogni momento può essere messo in
discussione: si tratta di un gioco nel quale contano la messa a punto
delle regole, lo studio vicendevole, le mosse, i coinvolgimenti, gli
spazi di libertà, le tattiche, le strategie. Contano i sentimenti, i
linguaggi, i simboli, i silenzi, il dialogo, la resistenza, i cedimenti, gli
incontri, i gesti, i comportamenti, le conoscenze; elementi tutti che
giustificano l’insorgere della cultura pedagogica. Non si può prendere
parte al confronto, al gioco educativo, se non si conosce la trama dei
rapporti, se si ha difficoltà a muoversi. Per questo motivo è
fondamentale che crescita umana, crescita educativa e crescita
culturale procedano di pari passo.
C’è da constatare una forte carenza di cultura educativa all’interno
della nostra società; le esemplificazioni potrebbero essere moltissime:
lo scarso rispetto, l’aggressività, la violenza, la strumentalizzazione,
l’uso distorto dell’informazione, l’atonia artistica ed estetica, il
ripiegamento sugli interessi egoistici immediati, la mancanza di
stimoli. L’introduzione di modelli educativi civili è resa difficile da
tutta una serie di resistenze, a fronte di organizzazioni, forze,
movimenti impegnati a proporre modelli formativi positivi. La tragica
debolezza di queste iniziative sta nel doversi misurare con posizioni di
potere, e più ancora di dominio, che si esprime in una gestione della
società adusa ai compromessi, ai cedimenti, alla popolarità, alla
demagogia, all’astuzia. L’introduzione di modelli educativi civili
richiede la presenza più che di forze e iniziative spontanee, di gruppi
sociali in grado di elaborare e vivere comportamenti educativi nuovi,
di tradurli in costumi, in leggi, in istituzioni.
Quello di Dolci è esempio eclatante di questo necessario bisogno di
novità critica, che ha saputo a suo modo ribaltare la zolla. La storia
dell’educazione sociale, in questo senso, sopravvive in lui come eco
del pionierismo smascherante… che ci riporta al terreno dove i
tentativi educativi nascono, a fronte della ricerca e dell’intuizione.
Potremmo fare mille accostamenti: ci limitiamo a 3… cercando
qualche nesso tra la pedagogia di Dolci e quella di Pestalozzi,
Montessori, Freire.
A) DOLCI E L’EREDITA’ “INQUIETA” DI PESTALOZZI
Secondo Danilo Dolci, l’uomo può diventare uomo solo attraverso
l’educazione: egli è come l’educazione (ma non necessariamente
l’educatore) lo fa. L’educazione è il problema più grande e più
difficile che possa essere proposto agli uomini: ciò che noi sappiamo
dipende dall’educazione, ma l’educazione, a sua volta, dipende da ciò
che noi sappiamo. Da questo punto di vista, sentiamo sopravvivere in
lui l’eco di Pestalozzi.
Pestalozzi (Zurigo, 1746
dell’educazione sociale
–
Brugg,
1827)
e
la
nascita
- CONTESTO
Pestalozzi si inserisce all’interno della cultura Romantica, e vive il
profondo cambiamento che attraversa la Svizzera nel corso della
Rivoluzione industriale, che segna la trasformazione della vecchia
economia agricola, con forte rimbalzo sulle campagne. Il dominio
economico della borghesia è tutelato da leggi severe, secondo un
rigido sistema corporativo, quasi di casta. Queste leggi riservavano in
pratica gli studi ai borghesi residenti nelle città, mentre gli altri
devono accontentarsi dei rudimenti appresi nelle scuole di Paese, mal
gestite dalle Chiese e poco frequentate. Pestalozzi appartiene a circoli
culturali illuminati (dai principi della Rivoluzione Francese) che si
pongono concretamente il proposito di un riscatto del popolo, ridotto
alla proletarizzazione e allo sfruttamento attraverso la manovalanza:
in lui è forte l’idea che ogni uomo, per sua stessa natura, è chiamato al
compito della realizzazione di sé attraverso l’esercizio della ragione,
che è insita nel suo essere. La sua sfida di educare il popolo
corrisponde a questa fiducia, che fa di Pestalozzi un vero e proprio
campione dell’insistere… su quelle che Dolci chiamerebbe,
blochianamente, utopie concrete.
-
LINEE BIOGRAFICHE
Figlio di un chirurgo famoso di origine italiana, dopo un'infanzia
segnata dalla morte del padre e dal ruolo fondamentale della madre,
dopo gli studi superiori si orientò a diventare pastore. La
frequentazione della "società patriottica", la setta degli "Illuminati" di
ispirazione massonica, lo indusse a interessarsi di politica leggendo
Montesqueu e Rousseau. Lo scioglimento della società e il breve
arresto, lo convinsero ad abbandonare la fede nella rivolta politica e a
sostituirla con un ideale di miglioramento delle condizioni dei
lavoratori attraverso una riforma dell'agricoltura. Nella propria fattoria
di Neuhof iniziò nel 1768 un esperimento per realizzare le proprie
idee, salvo trasformarla successivamente in una colonia per orfani e
trovatelli da addestrare al lavoro e alla vita onesta. Fallita questa
esperienza, egli si dedicherà alla riflessione scrivendo nel 1780 "Le
veglie di un solitario" (raccolta di aforismi di ispirazione morale e
religiosa), l'anno successivo il romanzo pedagogico "Leonardo e
Gertrude", e nel 1797, frutto delle letture di Kant e Fichte, le "Mie
indagini sopra il corso della natura umana nello svolgimento del
genere umano". L'incalzare degli avvenimenti politici segnò ancora
una svolta nella sua vita: il suo interesse per la Rivoluzione francese e
la proclamazione della Repubblica elvetica lo videro impegnato in
prima persona, così che le autorità lo chiamarono alla direzione
dell'orfanotrofio di Stans, che però dovette chiudere nel 1799 per
l'arrivo della guerra. Poco dopo aprì un'altra scuola a Burgdorf: qui
elaborerà il suo metodo ottenendo vasta fama in tutta Europa e qui
scriverà opere fondamentali come "Il metodo", "L'ABC
dell'istruzione", "Il libro delle madri", "Come Gertrude istruisce i
propri figli". A causa del mutamento di clima politico la scuola chiuse
nel 1803; due anni dopo Pestalozzi fondò un altro istituto a Yverdon,
dando inizio alla sua esperienza più famosa e durevole (fino al 1827).
Qui continuò ed approfondì il proprio pensiero pedagogico e
metodologico, componendo opere fondamentali quali "Idee,
esperienze e mezzi per promuovere un'educazione conforme alla
natura umana" e "Educazione del popolo e industria". La fama della
scuola non fu esente tuttavia da critiche e polemiche, in parte
innescate dal rapporto non del tutto favorevole fatto da padre Girard
nel 1809. Seguiranno contrasti e gelosie tra gli stessi collaboratori di
Pestalozzi che si uniranno in modo negativo al clima politico della
Restaurazione. Amareggiato e deluso, Pestalozzi si ritirò a Neuhof
dove scrisse "Il canto del cigno", consuntivo e difesa della propria
opera educativa, e dove si spense.
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LA PEDAGOGIA SOCIALE DI PESTALOZZI
Definito "apostolo dell'educazione popolare", Pestalozzi fu sempre
animato da finalità umanitarie e da motivazioni politiche, che lo
porteranno, nell'elaborazione della sua strategia educativa, ad
assumere posizioni fortemente critiche nei confronti dei regimi
antiliberali. La stessa Rivoluzione francese venne da lui intesa
soprattutto come riforma morale capace di accelerare il miglioramento
delle condizioni di lavoro attraverso uno spazio maggiore dato
all'azione educativa. Il suo atteggiamento tuttavia non fu mai vicino
alle posizioni socialiste (nemmeno a quelle utopiste di Owen), ma
ebbe un'impronta di tipo populista. Egli infatti tenne sempre ben
fermo il presupposto dell'immutabilità dell'ordine sociale e della
gerarchia delle classi. Il popolo doveva essere aiutato a uscire dalla
condizione di sfruttamento e di degenerazione, ma non avrebbe mai
potuto divenire possidente. In definitiva Pestalozzi auspicava una
specie di patto sociale in cui la classe dominante si impegnasse a
riconoscere i diritti basilari del popolo, che a sua volta avrebbe dovuto
ricambiare con pacifica laboriosità e serena accettazione del proprio
stato. Da Rousseau (e dall'etica calvinista) egli concepì la giustizia
sociale come coincidente con il possesso da parte di ogni cittadino del
necessario per vivere in rapporto al suo stato. L'ideale di Pestalozzi
sarebbe stato di educare i futuri lavoratori a usare bene il denaro, a
risparmiarlo per prevenire i momenti di miseria, ad evitare i mali della
vita oziosa. Per questo egli pensava di trasformare i tradizionali premi
scolastici in concessioni gratuite di terreno o di sementi, che potevano
essere revocate in caso di indegnità. Lo stesso apprendimento
dell'aritmetica, particolarmente sviluppato da Pestalozzi rispetto alla
precedente tradizione didattica, era giustificato dalla necessità di
prendere confidenza con il valore del denaro nelle diverse operazioni
rientranti nell'esperienza contadina.
La prima esperienza di educatore Pestalozzi la svolse in campagna, in
una grande casa che chiamerà Neuhof (nuova residenza): qui,
entusiasmato dai discorsi naturalistici e populisti, sognò di realizzarvi
il suo progetto di rivalorizzazione della vita dei campi (coltivazione
della terra e artigianato: a Neuhof venne aperta anche una filanda) e di
applicarvi il metodo di Rousseau. Ragazzi e ragazze apprendevano il
lavoro al telaio, coltivavano i campi, e imparavano anche i rudimenti
del leggere-scrivere-far di conto. Tuttavia l'esperienza fallì per
l'imperizia con cui era stata condotta. Ciò portò anche Pestalozzi a
prendere una certa distanza critica da Rousseau: se del pensatore
ginevrino resta il principio che considera l'educazione come autonomo
sviluppo dell'uomo e la pedagogia come studio delle condizioni che
garantiscono questo sviluppo, l'idea di una educazione popolare è del
tutto nuova e fanno cadere i paradossi della contrapposizione fra
individuo e società, della separazione tra le varie età, del ritardo
dell'educazione morale e religiosa. Resta tuttavia di stampo
rousseauiano la convinzione che l'educazione debba essere naturale,
cioè fondata sulla conoscenza delle leggi della natura dell'animo
umano e sull'offerta di condizioni adatte al suo sviluppo. L'educazione
può dunque essere realizzata solo attraverso il riconoscimento delle
sfere di vita interiore ed esteriore in cui l'individuo è inserito. La sfera
interiore è rappresentata da Dio: da essa e verso di essa muove
l'educazione come formazione armonica e perfezionamento integrale
della personalità nelle tre dimensioni del cuore, della mente e della
mano. Ma il compimento è possibile solo nelle sfere esteriori dei
rapporti famigliari, del lavoro, del ceto, dello Stato e della nazione.
Diversamente da Rousseau, Pestalozzi evidenziò con sempre
maggiore chiarezza che l'educazione non poteva essere staccata
dall'ambiente di vita e di lavoro, assegnando comunque un ruolo
centrale alla famiglia e alla figura materna. Dunque un'educazione
nuova sarà possibile solo in un ordine sociale nuovo. Infatti è nello
stato sociale che nell'individuo può svilupparsi la moralità, che lo
spinge ad armonizzare la propria vita con quella degli altri, e porta a
compimento il suo cammino formativo. Pertanto la società auspicata
da Pestalozzi dovrà essere orientata allo sviluppo dei rapporti morali
tra gli uomini, fondati in primo luogo sulla fede e sull'amore
individuali, nonché sull'iniziativa educativa dei singoli e delle
istituzioni. Lo svolgimento della visione socio-pedagogica di
Pestalozzi si trova fondamentalmente nel romanzo in quattro libri
"Leonardo e Gertrude" pubblicato tra il 1780 e il 1787 e più volte
rielaborato. La trama è la seguente: nel villaggio di Bonnal,
dipendente dal feudatario Arner a sua volta vassallo di un principe,
spadroneggia il corrotto podestà Hummel che vessa la popolazione
coadiuvato da un gruppo di ricchi agricoltori. Tra le vittime c'è anche
il muratore Leonardo, la cui coraggiosa moglie Gertrude va a
denunciare la situazione ad Arner, il quale assegna a Leonardo il
compito di costruire la nuova chiesa. Con l'aiuto del pastore
protestante Ernst, l'impresa va a buon fine, Hummel, che aveva
tramato per sabotarla, viene smascherato e sostituito, e il feudatario
decide anche di donare il campo comunale ai poveri. La pace e
l'armonia tornano così a regnare nel villaggio. Nel terzo libro Arner ed
Ernst convincono il cotoniere Meyer che il miglioramento del
villaggio è possibile solo educando il popolo a migliorare la sua vita
materiale, ad industriarsi di più nel lavoro manifatturiero. Ricevutone
l'assenso, Arner chiama Gluephi, un ex- ufficiale in congedo, a
realizzare nel villaggio la riforma dell'educazione. Quest' ultimo si
propone di coordinare lavoro ed istruzione, accogliendo il
suggerimento di Gertrude di organizzare la scuola a tempo pieno, di
incentrarla sulla tessitura mentre i bambini impareranno a contare
durante il lavoro al telaio e apprenderanno attivamente i rudimenti
della lettura e della scrittura mediante sussidi inventati da Gluephi.
L'ordine viene richiesto dentro e fuori la scuola, mentre quello sociale
viene instaurato attraverso l'intervento coordinato di Arner ed Ernst
che prendono iniziative di carità e stimolano forma di autogoverno e
decentramento popolare. Nel quarto libro si vuole dimostrare che il
nuovo ordine di Bonnal può essere esteso a tutto il paese: Arner
informa il Principe della sua iniziativa e lo induce ad estenderla prima
ai paesi vicini e poi a tutto lo Stato. La prima parte del romanzo è
destinata al popolo: essa intende mostrare che gli uomini sono buoni e
che per far emergere le loro qualità positive hanno bisogno di
condizioni idonee. Ad iniziare questo processo è Gertrude, simbolo
della dimensione familiare e materna, mentre Arner ed Ernst indicano
l'impegno delle istituzioni, dell'aristocrazia e delle Chiese. La seconda
parte è invece destinata alle classi colte e intende dimostrare che il
nuovo ordine non può essere frutto solo di una rifondazione morale,
ma necessita dell'intervento illuminato e delle iniziative degli
intellettuali e delle classi superiori. Se Arner incarna l'ideale di uno
Stato educatore, Gluephi costituisce la figura di maestro quale
Pestalozzi stesso avrebbe voluto essere: totalmente dedito al suo
compito, disincantato circa la natura umana, attento e severo custode
di ogni particolare dell'attività educativa, pronto ad intervenire verso
ogni forma di trascuratezza nella consapevolezza del significato
sociale dell'educazione popolare, poiché la scuola rappresenta l'unica
forza in grado di offrire ai contadino il necessario per una dignitosa
vita sociale. Nel romanzo dunque la scuola nasce anzitutto per offrire
un'educazione di base ed una valida formazione professionale ai figli
del popolo, ma dovrà essere modellata sull'esempio della casa e
dell'attività educativa famigliare. Il lavoro di fabbrica costringe le
donne a lasciare la loro funzione di educatrici domestiche, e ciò
richiede l'intervento della scuola per assicurare la custodia e la
formazione dei bambini precedentemente affidata alla famiglia. Essa
però non potrà mai assumere l'aspetto di mero addestramento
professionale, ma dovrà comunque essere integrale, organica
formazione collegata con tutte le altra dimensioni educative. Poiché la
vita della scuola è legata a quella della famiglia e della società,
l'educazione non può non iscriversi nella dimensione sociale e politica
per la quale è indispensabile l'apertura alla partecipazione come
requisito essenziale per la società giusta.
Si è già accennato al fatto come dopo il fallimento di Neuhof,
Pestalozzi si fosse dedicato principalmente alla riflessione sulla natura
umana e sui fondamenti dell'educazione. Nelle "Indagini" troviamo
così la teoria delle tre facoltà che diverranno in seguito i tre ambiti in
cui il metodo si potrà dispiegare. Vi sono nell'uomo tre forze: il cuore
che rappresenta la facoltà morale; l'intelletto che rappresenta quella
conoscitiva; e l'arte che corrisponde all'attività tecnico pratica.
L'educazione della persona deve essere integrale e non può trascurare
nessuna di esse così come non può prescindere dall'analisi delle
modalità con cui il bambino fa esperienza del mondo. La ricerca
sull'arte pedagogica condusse Pestalozzi a delineare il suo metodo
elementare fondato prevalentemente sull'intuizione. Il maestro
propriamente non insegna ma suscita le "scintille divine già presenti
nella natura umana. Essa deve essere protetta (e questo è il compito
specifico dell'educatore) dalle influenze negative che ne ostacolano il
giusto sviluppo verso la socialità e la moralità. Pestalozzi usa a questo
proposito la nota immagine del giardiniere che impiega tutte la cure
perché la pianta possa crescere rigogliosa e forte. Ma come il
giardiniere deve conoscere la natura delle piante e i modi di crescita di
ciascuna, analogamente il maestro deve conoscere le capacità interiori
dell'allievo (dette anche elementi primi, dai cui la denominazione di
metodo elementare dato al sistema didattico) e le leggi mediante le
quali queste capacità si sviluppano. Ciò è possibile solo attraverso una
intuizione, nozione che Pestalozzi desume, pur con alcune incertezze
e approssimazioni, da Kant e Fichte. Essa è la capacità di vedere
dentro le cose, oltre gli aspetti sensibili; in particolare di cogliere il
mondo interiore del fanciullo; muove dai cinque sensi per giungere
successivamente a rappresentazioni chiare e definite. Certamente
Pestalozzi giungerà all'elaborazione del metodo elementare dopo un
lungo e tormentato itinerario. A Stans egli colse nell'amore la
premessa indispensabile di ogni educazione efficace, così come
avvertì la necessità dell'attivizzazione dell'alunno e dell'elementarietà
del metodo che consenta ai genitori di sostituirsi al maestro e agli
alunni stessi di apprendere con le proprie forze. A Burgdorf il metodo
venne messo a punto e opportunamente formulato in "Come Gertrude
istruisce i propri figli". Qui non c'erano classi, ma i gruppi si
modificavano a seconda delle esigenze intellettuali di ciascuna area
didattica, cui ciascun insegnante doveva dedicarsi per specializzarsi e
giungere ad approfondimenti metodologici specifici e corrispondenti
strumenti didattici. Rimase in ogni caso chiara la tendenza a
uniformare il più possibile i contenuti e i metodi dell'insegnamento
scolastico all'educazione e ai processi di apprendimento della vita
domestica infantile e più in generale dell'ambiente in cui vive l'allievo.
Con Rousseau, anche Pestalozzi insistette sul fatto che "la vita educa",
nel senso che l'esperienza vissuta e guidata fermamente e
amorosamente dall'educatore è il solo processo valido per formare le
nuove generazioni. Per questo il metodo è semplice, mentre
l'educatore-giardiniere deve solo lasciarsi portare dallo sviluppo del
metodo stesso, diventarne docile strumento. Pestalozzi pose al centro
dell'educazione sia l'attenzione per i meccanismi dell'apprendimento
sia la preoccupazione di garantire uno sviluppo armonico della
personalità. Il metodo elementare si pone di conseguenza come
trasversale rispetto alle tre aree educative legate rispettivamente alle
facoltà del cuore, della mente e della mano. Questo ordine deve essere
rispettato: l'educazione morale è il fine ultimo e ha priorità assoluta,
perché il bambino prima di tutto ama. Di qui l'importanza e
l'insostituibilità della figura materna, che provvederà ad allargare
l'educazione del cuore alla fede in Dio e all'amore per gli uomini.
Dicevamo come la didattica formulata a Burgdorf si basasse
sull'intuizione quale fondamento naturale dell'esperienza del bambino.
L'educatore dovrà quindi sollecitare il bambino a riconoscere i fattori
essenziali della sua osservazione della realtà, secondo quello che verrà
chiamato metodo intuitivo o oggettivo. Gli elementi fondamentali
dell'intuizione sono individuati nel numero, nella forma e nel nome:
pertanto il procedimento didattico inquadrerà ogni intuizione
innanzitutto nelle sue relazioni numeriche e formali, per passare
successivamente alla lingua e agli apprendimenti geometricomatematici. Così l'insegnamento verrà organizzato a partire dalle
discipline che si collegano alle tre modalità dell'intuizione: aritmetica
e calcolo derivano dal numero; geometria, disegno e scrittura dalla
forma, mentre la lingua, collegata al nome, verrà imparata a partire
dall'intuizione sonora del canto. I maestri metteranno poi a punto una
serie di esercizi fondati sul passaggio graduale dall'elemento semplice
al tutto (per la lingua dal suono alla sillaba alla parola e alla frase; per
il disegno dalla linea alle figure geometriche ecc.). L'educazione della
mano viene inserita nel curriculum per il suo valore formativo (e non
per necessità pratiche come era accaduto a Neuhof), dato che il fare è
una necessità spontanea della natura infantile. Anche in questo caso si
parte da elementi di base (il battere, il gettare, il tirare, lo storcere, lo
spingere, l'agitare ecc.) per passare successivamente alle forme
complesse dell'arte adulta. In ogni caso il lavoro manuale sarà inteso
come una vera e propria ginnastica intellettuale, che comprenderà il
lavoro di pialla e di tornio, il giardinaggio, la tipografia, la visita a
botteghe artigiane.
A Yverdon Pestalozzi conobbe il successo del suo metodo e il
riconoscimento unanime da parte di tutta l'Europa colta; la sua scuolaconvitto giunse ad avere fino a centocinquanta alunni e venne
considerata l'esperimento educativo più avanzato dell'epoca. I suoi
collaboratori provvidero alla sistemazione filosofica e pratica del
metodo, e misero a punto metodi didattici particolarmente efficienti in
al cune aree disciplinari (particolarmente in matematica) che
destarono l'ammirazione dei visitatori per i loro risultati nelle
competenze esibite dagli alunni. Eppure proprio in questi anni
Pestalozzi conobbe anche la crisi sia della sua istituzione sia della sua
impostazione metodologica. Sotto il primo aspetto egli avvertì il
distacco dall'educazione popolare, mentre sotto il secondo finì per
lamentare un eccessivo irrigidimento. Così nell'ultima sua opera,
significativamente intitolata "Canto del cigno", egli sottopose a critica
severa il didatticismo presente nella sua opera precedente. In
particolare concluse nel rifiuto di ogni schematizzazione metodica e
nel richiamo alla necessità di raccordare l'intervento educativo con le
disposizioni naturali del fanciullo e le sue condizioni ambientali; e
senza trascurare il motivo fondamentale della sua pedagogia:
l'armonizzazione tra cuore, mente e mano nella prospettiva di
un'educazione integrale. Ma la novità più importante presente nello
scritto è costituita dall'importanza che ora Pestalozzi riconobbe alla
lingua, modificandone il rapporto con le relazioni formali e
numeriche: come viva espressione personale, essa doveva fondarsi sul
terreno concreto dell'esperienza e della vita. Per questo la relativa
didattica dovrà evitare ogni impostazione mnemonoco-grammaticale
per essere centrata sulla ricchezza del lessico e l'uso del discorso.
-
CONCLUSIONI
È singolare notare come la nascita dell’educazione sociale in età
moderna si incarni in una personalità come quella di Pestalozzi, uomo
assolutamente pieno di contrasti e figura tormentata, dalla personalità
straordinariamente ricca e problematica.
A Pestalozzi interessa giustificare il compito positivo dell’educazione,
perché è questa che permette all’uomo il passaggio dall’animalità alla
spiritualità, attraverso il medio dell’ordinamento sociale. L’uomo è un
ideale non dato, un punto di arrivo che sempre si sposta in un punto di
partenza. Perciò è necessaria l’educazione che, prendendo atto della
insufficienza delle posizioni iniziali e native, dispone i mezzi affinché
la formazione umana possa compiersi non secondo schemi arbitrari o
in vista di una astratta idea di perfezione, ma conforme alle concrete
necessità. Queste, è vero, non si possono determinare a priori, ma
neppure sfuggono a certe esigenze, che possiamo indicare col nome
complessivo di “natura”. Per Pestalozzi, la libertà del processo
formativo non significa che lo spirito può fare di se stesso ciò che
vuole, senza riguardo a ciò che deve essere: lo spirito umano si eleva
dalle intuizioni confuse ai concetti chiari: il rapporto tra innato e
acquisito indica qui che l’uomo è libero di tutto, tranne che di non
essere uomo. Rispetto a ciò, niente può dire quale impronta particolare
assumerà la sua immancabile umanità: la libertà si lega con mille fili,
visibili o no, a una situazione originaria che ha il suo peso sullo
svolgimento stesso della libertà. L’educatore, in questo senso, non
introduce nessun potere sull’educando. Sua cura è solo quella di
evitare che potenze estranee ostacolino o turbino lo svolgimento
naturale delle singole facoltà, al fine di allargare il campo delle
esperienze, di aiutare sugli elementi essenziali della vita, di esercitare
al controllo dei propri pensieri e delle proprie azioni, perché impari a
distinguere il bene dal male, il bello dal brutto. Si disconosce alla
cultura ogni pretesa di valere come mondo separato dalla vita e sciolto
dalla responsabilità morale: l’unico fine degno di essere perseguito
incondizionatamente è l’autonomia della persona.
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NESSI TRA LA PEDAGOGIA DI PESTALOZZI E QUELLA DI
DANILO DOLCI
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AIUTARE IL POPOLO AD USCIRE DA UNA LOGICA DI
SFRUTTAMENTO E DEGENERAZIONE
INDURRE
LE
CLASSI
DIRIGENTI
AL
RICONOSCIMENTO DEI DIRITTI
LA GIUSTIZIA SOCIALE
DEVE GARANTIRE IL
NECESSARIO PER VIVERE
RICONOSCIMENTO
DELL’IMPORTANZA
DELLA
NATURA IN EDUCAZIONE
EDUCAZIONE INTESA COME AUTONOMO SVILUPPO
DELL’UOMO, E LA PEDAGOGIA COME STUDIO DELLE
CONDIZIONI CHE GARANTISCONO QUESTO SVILUPPO
IL RICONOSCIMENTO DELLE SFERE DI VITA
INTERIORE ED ESTERIORE IN CUI L’INDIVIDUO SI
TROVA INSERITO
IDEA
DELL’EDUCAZIONE
COME
FORMAZIONE
ARMONICA E PERFEZIONAMENTO INTEGRALE
LA SCUOLA DIVENTA IL REQUISITO ESSENZIALE DI
UNA SOCIETA’ GIUSTA
L’INSISTENZA SUL FATTO CHE LA VITA EDUCA
B) LA SCUOLA SECONDO DANILO DOLCI, GUARDANDO A
MONTESSORI
Dolci ha un’idea estremamente violenta della scuola.
[
Nessi pag. 73
Al di là di questo caso estremo… dove la violenza si manifesta in
maniera del tutto evidente… Secondo Danilo Dolci… la violenza
resta comunque una regola dell’istituzione scolastica così come si
preserva nella tradizione… La violenza della scuola, che viene
denunciata come vero e proprio crimine di Stato, si riscontra nella
pretesa di inquadrare e aggiogare in modo sistematico, persuadendo e
dissuadendo. In altre parole, la scuola spegnerebbe nell’inerzia la
naturale curiosità dei bambini e di giovani, invece di potenziarla,
coorganizzandola.
Scrive Dolci: “Criminale è progettare lo spegnimento sistematico
della creatività individuale e collettiva, alimentando la paura e
l’odio per lo studio; criminale è insistere nel mantenere in situazioni
insane miliardi di creature, malgrado le denunce rigorose ormai
secolari, anche di medici (basti pensare alla Montessori).”
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LINEE BIOGRAFICHE
Maria Montessori nasce a Chiaravalle (Ancona) il 31 agosto 1870.
Trascorse la sua infanzia e la sua giovinezza a Roma, dove decise di
intraprendere studi scientifici per diventare ingegnere. Ma tale strada
era preclusa alle donne. Le fu però concesso di iscriversi alla facoltà
di medicina e chirurgia, dove si laureò nel 1896 con una tesi in
psichiatria.
Intorno al 1900 cominciò un lavoro di ricerca presso il manicomio
romano di S. Maria della Pietà dove, tra i malati di mente, si
trovavano bambini con difficoltà o con turbe del comportamento.
Erano rinchiusi e trattati alla pari degli altri, in stato di grave
abbandono affettivo. La Montessori decise di dedicarsi al loro
recupero e ottenne, con l’aiuto dei materiali adatti, risultati inaspettati.
Si batté per il riconoscimento dei loro diritti in vari congressi, e nel
frattempo cominciò a studiare i bambini normali.
Il 6 gennaio 1907 aprì nel poverissimo quartiere di S.Lorenzo a Roma
la prima Casa dei Bambini, per i piccoli dai 3 ai 6 anni. Era all’interno
di un grande casamento popolare, in Via dei Marsi 58. Qui vide per la
prima volta la realtà del bambino, il quale, non più mortificato e
oppresso, si rivelava con “caratteri psichici insospettati”. Le Case dei
Bambini si moltiplicarono ed ebbero subito enorme risonanza proprio
per quello che rivelavano.
Cominciarono a uscire le prime pubblicazioni: “Il metodo della
pedagogia scientifica” (1909) e, dopo le prime esperienze con i
bambini dai 6 ai 10 anni, “L’autoeducazione nella scuola elementare”
(1916), che ebbero un’enorme diffusione in Europa e in America. Nel
1913 tenne in Umbria il primo corso per insegnanti. Gli altri che
seguirono divennero ben presto internazionali, e contribuirono a
diffonderne le idee.
Ovunque, grazie all’ambiente preparato e agli oggetti interessati, si
ripeté il <<miracolo>> della concentrazione e della quiete individuale.
Maria Montessori venne allora invitata in numerosi paesi, riconosciuta
come colei che aveva “liberato” il bambino: un po’ ovunque si
aprirono scuole e corsi e furono aperte scuole.
Nel corso della dittatura nazista e fascista, sia Hitler sia Mussolini
fanno chiudere le Case dei Bambini. La Montessori si stabilisce ad
Amsterdam e da lì continua la sua azione di ambasciatrice.
Nel 1939 pubblica “Il segreto dell’infanzia”, che descrive il neonato e
i suoi primi anni di vita.
Allo scoppio della guerra la Montessori si trova in India, dove resta
fino alla fine del conflitto. Viene fatta prigioniera con suo figlio
dall’esercito inglese, ma le viene consentito di lavorare e insegnare:
verifica che la realtà del bambino non conosce confini né razze.
Quando la guerra finisce, torna in Europa ed è accolta con onore
ovunque. La sua vita si concluse il 6 Maggio 1952 a Noordwijk in
Olanda, vicino al Mare del Nord.
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FORMAZIONE DEL METODO
La Montessori è stata la prima donna laureata in Italia. Dopo la laurea,
si dedica alla cura dei malati mentali. Ciò la porta ad approfondire i
metodi e le esperienze di Itard e Seguin.
[I cinque capisaldi pedagogici di Itard sono i seguenti:
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necessità di un’educazione globale, che tenga conto di tutti gli aspetti della
persona
rifiuto del pessimismo medico e fondamentale convinzione della
perfettibilità degli esseri, di tutti gli esseri: l’insuccesso sarà sempre più
interpretato come il riflesso della mancanza di abilità del maestro e sempre
meno come il risultato di capacità di apprendimento limitate da parte del
bambino
l’importanza di sviluppare una relazione intensa e stabile con l’allievo
la stesura del piano di intervento e la memorizzazione dell’evento
educativo attraverso rapporti in forma di diario.
Allievo di Itard, Seguin… ne continua l’opera, rinunciando però praticamente
subito ai postulati sensist del Maestro. Fondò una scuola per l’educazione
integrale degli “idioti” in Rue Pialle 6 a Parigi. Per il suo lavoro, che lo impegna
per ben sei ore al giorno, egli fabbrica una grande quantità di giochi educativi,
ancora molto utilizzati ai giorni nostri. La Montessori riconosce esplicitamente di
dovere a Seguin la quasi totalità del suo materiale pedagogico. Tuttavia,
l’utilizzazione che ne farà non corrisponde affatto allo spirito che animava Seguin
mentre lo inventava. Gli allievi della dottoressa Montessori lavoravano nel
silenzio e nella serietà, gli allievi di Segiun devono anzitutto scoprire nozioni e
idee attraverso il gioco. Per Seguin l’approdo alla parola latte… non è espressione
di bisogno, ma di gioia.
I capisaldi pedagogici di Seguin sono:
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Sviluppare la volontà e la socievolezza
- Far dipendere la nozione dalla percezione: il maestro predispone esercizi
graduati introduce la nozione; il passaggio dalla nozione all’idea avviene
invece cercando soprattutto di eliminare gli ostacoli e favorire situazioni
propizie e facilitanti.
- L’educazione ha senso soltanto nel concreto, nel reale, nel ludico: Seguin
preferisce la natura alla classe, la natura ai libri, la natura vivente alla
natura morta. Sogna il giorno in cui i bambini con difficoltà potranno
essere introdotti all’astronomia.
- È consigliabile passare dal semplice al complesso, dal concreto all’astratto
- Seguin prevede tre tempi di intervento educativo:
. la fissazione: grazie alla ripetizione variata, per prove ed errori, l’allievo
assimila un nuovo elemento di apprendimento. In questa fase il maestro cerca
di attivare al massimo le energie dell’attenzione e della concentrazione
. il riconoscimento: si presenta la risposta appena appresa tra altre risposte
possibili, cercando di evitare la similitudine troppo grande. Questa
decodificazione si serve della memoria a breve e lungo termine, del giudizio,
della discriminazione
. l’evocazione: è il momento più difficile del percorso… e richiede di evocare
in sua assenza uno stimolo complesso quale una parola, una frase, un viso, una
melodia.
Questo metodo pedagogico prefigura l’insegnamento moderno delle lingue
straniere.]
La Montessori ritenne che l’opera di Itard e Seguin fosse vittima di un
ambiante scientifico teoricamente poco adeguato, e fu sua intenzione
rileggerla alla luce di un atteggiamento maggiormente positivista.
-
PEDAGOGIA E METODO DI MONTESSORI
Il motivo centrale di tutto il pensiero montessoriano è la concezione
assolutamente originale e particolare del bambino: secondo l’autrice il
bambino è, di per sé, serio, disciplinato, obbediente e con la passione
quasi maniacale per l’ordine.
L’esistenza del disordine è il risultato di uno disconoscimento
dell’infanzia, di una incomprensione profonda e millenaria che
produce bambini deviati. Ma se il bambino è posto in un ambiente
adatto che sia scevro da pregiudizi, ecco che si rivela il bambino
nuovo, o meglio, il vero bambino, altrimenti del tutto sconosciuto.
Tale fenomeno assume il termine tecnico di “normalizzazione”,
attraverso cui spariscono disordine, disobbedienza, svogliatezza,
golosità, litigio, capriccio, paura, immaginazione, gioco,
attaccamento, curiosità.
Il bambino farebbe qualsiasi cosa per compiacere all’adulto, ma
spesso le richieste sono troppo alte: ciò che chiamiamo capriccio è
solo e semplicemente il desiderio di un bambino perfettamente logico
ed equilibrato, che noi non comprendiamo.
Il bambino montessoriano non contende agli altri il possesso e
sviluppa l’autonomia: stupisce per la padronanza di sé, la spigliatezza
e la semplicità, la mancanza di timidezza di fronte a qualunque
visitatore.
La bugia è considerata come una forma di confusione mentale, e a
volte anche come un conformismo imposto ai bambini, che sono
costretti a dire non quello che pensano, ma ciò che vogliamo che
dicano. La paura è distinta dalla naturale percezione del pericolo, è
immotivata e trova la sua origine nelle fantasie imposte dall’adulto, in
genere con lo scopo di farsi ubbidire. Le energie deviate dalla realtà
vagano nel vuoto, nel caos, nella fantasia, nell’immaginazione,
conducono i soggetti alla fuga e all’alienazione. La fantasia staccata
dalla realtà viene considerata la fonte principale di tutti i guasti
dell’intelligenza umana.
Nel materiale montessoriano i giocattoli sono rigorosamente esclusi:
si arriva ad affermare che i bambini sono felici solo se sono privi di
giocattoli. Anche l’imitazione viene considerata negativamente, in
quanto indice dell’incapacità del bambino di essere se stesso, di
insicurezza. Solo l’interesse è duraturo, , mentre la curiosità è la
mancanza a ordinarsi e a concentrarsi. Se noi consideriamo due
bambinie notiamo: il primo tocca tutti gli oggetti in rapida sequenza, il
secondo ne prende uno solo e lo considera a lungo, potremmo pensare
che il più intelligente sia il primo, ma per Montessori sarebbe un
gravissimo errore, perché solo il secondo bambino dimostra un
atteggiamento costruttivo. Nelle Case viene assolutamente vietato che
un bambino prenda tutto il materiale in brevissimo tempo, ma si esige
che un solo oggetto venga usato per un tempo molto lungo.
La scuola viene riportata a tre punti essenziali:
- Ambiente adatto: tutte le suppellettili sono a misura di
bambino, ed ogni bambino viene rispettato nel suo ritmo
diverso. Viene impedito che a dominare sia la tempistica
dell’adulto
- Maestra umile: la maestra non insegna al bambino la sua verità,
ma dirige le attività del bambino, in maniera tale che il suo
spirito si possa sviluppare in modo del tutto libero. Compito
della maestra è quello di rimuovere gli ostacoli
- Materiale scientifico: il materiale delle Case è specifico, e ha lo
scopo di educare i sensi, attraverso di essi di porre le basi del
ragionamento. Il materiale è il frutto di una selezione per
gradienti, derivata dagli stessi bambini. Il materiale è strutturato
in modo tale che l’errore si evidenzi di per sé, in tal modo non
dovrà essere l’adulto a sottolinearlo.
Il silenzio è inteso come un’attività, ed è perseguito, assieme
all’ordine, il rispetto del turno, la pulizia della persona.
Vengono inoltre aboliti:
1) gli esami e i programmi: il bambino si costruisce da solo il suo
programma e il materiale gli permette di autovalutarsi
2) Le lezioni collettive: generalmente ci si rivolge al singolo
bambino.
3) I giocattoli: Montessori sostiene comunque che il bambino
preferisce il materiale al giocattolo.
Le attività sono predisposte in maniera tale che il bambino non venga
confuso dall’eccessiva varietà delle informazioni richieste. Il
materiale è studiato in maniera tale che una qualità possa essere
isolata dalle altre, attraverso:
. esercizi tattili: catinella con acqua fredda e calda, carte lisce e
smerigliate
. impressioni di peso: pezzi di legno di forma e dimensione uguale, ma
di differente peso
. impressioni delle forme: cubetti e mattoncini cui viene fatto toccare
tutto il contorno
. distinzione dei suonasi distinguono diverse classi di sensazioni
sonore: voci umane, rumori, musica
. colori: sono 63 tavolette di colori diversi da conoscere e graduare
. incastri e blocchi
. scrittura: il bambino deve compiere per scrivere due distinti
movimenti, tenere in mano la penna ed eseguire le figure delle lettere.
Vi sono esercizi preparatori per l’uno e per l’eltro. Bisogna imparare
ad usare le tre dita a tenere la penna con mano ferma e leggera. Ai
bambini vengono poi presentate lettere in carta smerigliata ed essi
apprendono poi a seguire i contorni. Si formano quindi dei contenitori
di lettere (alfabetari), attraverso cui i bambini imparano a riconoscerle
e a disegnarle. Spontaneamente i bambini imparano poi il meccanismo
della scrittura. La maestra ha una funzione puramente marginale.
Appena compreso il meccanismo i bambini cominciano poi a scrivere
sempre e in ogni modo sia possibile.
Va notato che il bambino in questa fase non si interessa al significato
e si limita a un puro lavoro sensoriale nel tradurre i suoni in segni
grafici.
. lettura: va distinta nettamente dalla scrittura e dalla lettura
strumentale… accede alla comprensione
. matematica: vengono presentate aste di lunghezza variabile,
corrispondenti ai numeri dall’1 al 10, a cui viene dato il nome
corrispondente. Nel confronto e combinazione del materiale
scaturiscono le quattro operazioni, e in seguito sono possibili ulteriori
sviluppi, fino alla radice quadrata e alcuni concetti generali di algebra.
. disegno: il disegno viene visto come un esercizio psicomotorio,
come preparazione alla scrittura. Esso deve essere sempre
assolutamente preciso come ogni cosa nell’ambito montessoriano.
Solo molto più tardi e solo per alcuni soggetti particolarmente dotati
sarà possibile un disegno libero.
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NESSI TRA LA PEDAGOGIA DI DOLCI E QUELLA DI
MONTESSORI
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VEDERE NELLA SCUOLA STATALE TRADIZIONALE UN
CUMULO DI ERRORI
LA NECESSITA’ DI RIDURRE CIO’ CHE MORTIFICA E
OPPRIME
LA
FONDAMENTALE
CONVINZIONE
DELLA
PERFETTIBILITA’ DEGLI ESSERI.
LA NECESSITA’ DI UN’EDUCAZIONE CONCRETA E
LEGATA ALLA REALTA’
CONCEPIRE IL BAMBINO CON UNA SUA VERITA’
L’ELIMINAZIONE DI ELEMENTI DI DISTURBODOMINIO
L’ACCENTO POSTO SUL NATURALE INTERESSE
IL CONCETTO DI AMBIENTE ADATTO IN CUI IL
BAMBINO POSSA ESSERE PROTAGONISTA
LA
NEGAZIONE
DELLA
TRASMISSIONE
DEI
CONTENUTI IN SENSO VERTICALE
L’UMILTA’ DEL MAESTRO
C) L’EDUCAZIONE TRA ESPERIENZA E REALTÀ (etiche):
ANALOGIE FRA DOLCI E FREIRE
Un verso di Danilo Dolci recita in questo modo:
« Se l'occhio non si esercita, non vede.
Se la pelle non tocca, non sa.
Se l'uomo non immagina, si spegne. »
(Danilo Dolci, da Il limone lunare)
Esperienza e realtà sono per Danilo Dolci sia naturali sia etiche: come
per Aristotele, l’etica è il tentativo di una filosofia del comportamento
umano rispetto alla realtà…
Al termine esperienza Danilo Dolci dedica tutta la prima parte de “La
struttura maieutica e l’evolverci”. Essa è la condizione prima del
rapporto o relazione (che ha sempre valore conoscitivo), e implica
l’atto di raccogliere per ordinare gli oggetti secondo coscienza: la
coscienza è qualcosa di esigente, è qualcosa che, nello slancio
dell’essere, ci consente di cogliere la verità. Ogni esperienza autentica
è una forza propulsiva che cambia in qualche modo le condizioni
obiettive in cui l’esperienza si compie. I ritmi dell’esperienza sono
interiori: nella pausa la qualità dell’ascolto al mondo si fa differente
dalle forme della razionalità pratica, e contemporaneamente a queste
restituisce l’elaborazione di un senso. In questo ritmo l’esperienza ha
modo di rapprendersi
In questo senso, coscienza ed esperienza si correlano. Nell’ambito
della coscienza morale, essa rappresenta il giudizio. Secondo Danilo
Dolci, per procedere verso un’etica a cui si riconosca validità
scientifica occorre considerare, in ogni scelta fra giusto e ingiusto,
quanto avverrebbe a ognuno e all’insieme: ove il categorico “si deve”
possa corrispondere all’etico “è necessario”. L’etica, per essere
riconosciuta, deve poter esprimere le esperienze di ciascuno, di tutti.
Appurare è un problema soprattutto di metodo, ed esso implica la
strada più chiara e ordinata per passare dal temere l’alterità come
impedimento e sfida al concepirla come possibilità maturante di
integrità complesse.
Lo scopo della chiarezza è la semplicità, in quanto conquista continua
che richiede continuo approfondimento, continua verifica, continua
elaborazione
Questo metodo è la maieutica, che concreta le condizioni e le leggi
intrinseche alla vita L’autentica esperienza sa connettersi e verificarsi
con le esperienze altrui.
Per risultare convincente, occorre una legge che maturi con la
coscienza di ciascuno del mondo, radicata nella necessità: e si concreti
come una conquista nei conflitti di ognuno...
Il laboratorio dell’esperienza è la vita di ogni giorno… il piano su cui
l’esperienza agisce è l’inter-esse… che è sentimento di
partecipazione. L’interesse, a sua volta, è la ricerca, che nasce dalla
necessità di scoprire per costruire delle risposte. Scrive Dolci: “ Né
Cimabue impone a Giotto il proprio modello. Né Andrea del
Verrocchio a Leonardo. Cambia il modo secondo l’interesse e la
maturità dei meno esperti.”
Il reale è il risultato di un processo: non esistono rappresentazioni
innate, ma possibilità innate di rappresentazioni, di cui l’esistenza non
è dimostrabile senza l’esperienza. Scienza non è il possesso del
sapere, ma la ricerca della verità. Gli organismi migliori sono quelli
che possono riprogettare se stessi per fronteggiare le condizioni che
incontrano. La coscienza si forma esercitandosi nella ricerca e nel
verificarsi meditativo, intima e corale. È un agire che prova a
riconnettere, un agire che matura. Ogni certezza è provvisoria sempre.
Dolci non afferma (a questo punto, per quello che mi riguarda,
semplicemente) che il fondamento è senza fondamento, ma che le
fondazioni sono interminabili sempre: il rapporto di esperienza e
coscienza è sempre provvisorio. Ipotesi ed esperienza si rincorrono
anticipandosi continuamente. E non in modi unidirezionali, ma
sterminatamente interconnessi.
Necessario è lo sperimentare:
l’esperienza insegna che ai nostri tentativi seguono spesso risultati del
tutto diversi a quello che ci aspettavamo.
Per intendere l’esigenza di una realtà e dei suoi autentici effetti,
conviene identificarla.
[Identificazione dell’acqua: Nessi: pag. 207-208
L’esperienza trasforma in esperienza stessa: ad esempio, secondo
Danilo Dolci, San Francesco non fa esperienza di preghiera, ma è
trasformato in preghiera vivente. L’esperienza, in questo senso, è la
coscienza raggiunta dalla vita: “se la coscienza si identifica in me, io
sono me stesso”
Paulo Freire
- LINEE BIOGRAFICHE
Nacque a Recife, da una famiglia della classe media. Conobbe la
povertà e la fame durante la Grande Depressione del 1929,
un'esperienza che sarà determinante per le sue teorie e lo aiuterà a
costruire la sua particolare visione educativa.
Freire entrò nell'Università di Recife nel 1943, iscrivendosi alla
facoltà di Legge, ma studiando nello stesso tempo filosofia e
psicologia del linguaggio. Pur avendo proseguito gli studi fino al suo
ingresso nell'ordine degli avvocati, egli non ha mai esercitato davvero
la professione; invece iniziò a lavorare come docente in una scuola
secondaria, insegnando portoghese. Nel 1944, sposò Elza Maia Costa
de Oliveira, sua collega di insegnamento: la coppia avrebbe lavorato
insieme per il resto della vita di lei, allevando nello stesso tempo
cinque figli.
Nel 1946, Freire venne nominato direttore del Dipartimento di
Educazione e Cultura del Servizio Sociale nello Stato del Pernambuco
(di cui Recife è la capitale). Durante questo periodo lavorativo,
impegnandosi soprattutto in mezzo ai poveri analfabeti, Freire iniziò
ad abbracciare una forma non ortodossa di ciò che sarà considerata
teologia della liberazione (nel suo caso, un incrocio di marxismo e
cristianesimo). Comunque, è particolarmente importante notare che,
nel Brasile di quel periodo, l'istruzione era richiesta per poter votare
alle elezioni presidenziali.
Nel 1961 fu nominato direttore del Dipartimento per l'Espansione
Culturale dell'Università di Recife, e nel 1962 ebbe la prima
opportunità di un'applicazione diffusa delle sue teorie, quando 300
lavoratori di canna da zucchero impararono a leggere e a scrivere in
45 giorni. In risposta a questo esperimento, il governo brasiliano
approvò la creazione di migliaia di circoli culturali nel paese.
Nel 1964, un colpo di stato militare pose fine a questo sforzo, che si
concluse con l'arresto e l'imprigionamento di Freire, come traditore,
per settanta giorni. Dopo un breve esilio in Bolivia, Freire lavorò in
Cile per cinque anni all’interno del Movimento Cristiano Democratico
di Riforma Agraria. Nel 1967 Freire pubblicò il suo primo libro,
L'educazione come pratica di libertà.
Il libro fu accolto bene, e gli fu offerto un posto come visiting
professor all'Università di Harvard nel 1969. L'anno prima, aveva
scritto il suo libro più famoso, La pedagogia degli oppressi, che era
stato pubblicato anche in spagnolo ed inglese nel 1970. Non fu
pubblicato in Brasile fino al 1974 (a causa dell'ostilità politica tra le
dittature militari successive al golpe e il "socialista cristiano" Freire)
quando il generale Ernesto Geisel prese il controllo del Brasile e
iniziò il suo processo di liberalizzazione culturale.
Dopo un anno a Cambridge, Freire si trasferisce a Ginevra, in
Svizzera, per lavorare come consigliere educativo speciale per il
Consiglio Ecumenico delle Chiese. In questo periodo, Freire esercitò
la funzione di consigliere per la riforma educativa dei formatori nelle
colonie portoghesi in Africa, in particolare in Guinea Bissau e
Mozambico.
Nel 1979, poté finalmente fare ritorno in Brasile, e rientrarvi
stabilmente nel 1980. Freire si unì al Partido dos Trabalhadores
(Partito dei Lavoratori, PT), nella città di São Paulo, e fece da
supervisore per il suo progetto di alfabetizzazione degli adulti dal
1980 al 1986. Quando il PT vinse le elezioni municipali del 1986,
Freire fu nominato Segretario dell'Educazione per São Paulo.
Nel 1986, sua moglie Elza morì; Freire sposò allora Maria Araújo
Freire, e continuò con lei il suo lavoro pedagogico alternativo.
Nel 1991 fu fondato a São Paulo l'Instituto Paulo Freire, per
estendere ed elaborare le sue teorie sull'educazione popolare. L'istituto
accoglie gli archivi personali dello stesso Freire.
Paulo Freire morì il 2 maggio del 1997, a causa di un attacco cardiaco.
-
PEDAGOGIA DI PAULO FREIRE
Secondo Freire un'educazione che non tiene conto delle condizioni del
contesto in cui viene applicata è nulla, per il fatto stesso di essere
isolata dalla realtà. Egli afferma che la massima aspirazione
dell'educazione "depositaria" (termine che sottintende l'insegnamento
nozionistico) è "parlare della realtà come qualcosa di fermo, statico,
suddiviso e disciplinato, o addirittura dissertare su argomenti
completamente estranei all'esperienza esistenziale degli educandi.
Essa non svela le ragioni che fanno dell'uomo un essere in divenire nel
mondo, per cui ne inibisce la creatività, preparandolo ad adattarsi,
compromettendone lo sviluppo. Nelle lezioni verbose, nei metodi in
cui si giudicano le"coscienze", nella cosiddetta "verifica", nella
distanza tra educatori ed educandi, nei criteri di promozione, c'è
sempre la proibizione di pensare veramente. In questi casi:
a) l'educatore educa, gli educandi sono educati;
b) l'educatore sa, gli educandi non sanno
c) l'educatore pensa, gli educandi sono pensati
d) l'educatore parla, gli educandi ascoltano docilmente
L’educazione "problematizzante" è il superamento della
contraddizione educatore/educando: nessuno educa nessuno - nessuno
educa se stesso - gli
uomini si educano tra loro. Attraverso il dialogo si verifica il
superamento, da cui emerge un dato nuovo: non più educatore
dell'educando non più educando dell'educatore: l'educatore non è solo
colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo
con l'educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa.
Essendo al servizio della liberazione, l'educazione problematizzante
stimola la riflessione e l'azione dell'uomo sulla realtà.
Essa è profetica e dunque capace di speranza: tale pratica educativa,
ponendo le condizioni affinché gli educandi passino dalla conoscenza
basata sulle opinioni alla conoscenza razionale, consente loro di
andare verso l’emancipazione. Secondo Freire, il vero aiuto da dare
all'uomo consiste nell'aiutarlo ad aiutare se stesso, nel farlo agente del
suo stesso recupero, nel collocarlo in una posizione critica di fronte ai
suoi problemi.
- IL PARADIGMA OPPRESSO-OPPRESSORE
Questa proposta pedagogica viene affermata constatando che troppo
diffusa è l'oppressione tra gli uomini. Essa quindi risponde ad una
precisa scelta sul piano sociale: si qualifica come pedagogia degli
oppressi. A sua volta la pedagogia degli oppressi mira a redimere
l’oppressore, configurandosi in tutto e per tutto come pedagogia
dell’uomo: ciò avviene quando l’oppresso riconosce in se stesso
l’oppressore, e l’oppressore riconosce in sé l’oppresso: l’educazione è
un superamento dialettico.
* L’oppressore pretende di addomesticare il tempo degli uomini:
pretende di addomesticare il presente affinché il futuro ripeta il
presente addomesticato. L’oppresso, caduto nel gioco dell’oppressore,
per contrapporsi a lui, è fatalista: trasforma il futuro in qualcosa di
prestabilito, una sorta di fato irrevocabile. Entrambi sono reazionari
perché sviluppano forme di azione negatrici della libertà.
Impossessandosi del tempo, del cui sapere si sentono proprietari,
finiscono con il trovarsi fuori dal popolo (il che è una maniera di stare
contro di lui).
Gli oppressi 'ospitano' dentro sé l'oppressore: per loro essere uomini
realizzati è essere oppressori. Non aspirano a liberarsi ma ad
identificarsi con il complementare nel gioco dell'oppressione.
Aderendo all'oppressore, l'oppresso non può acquisire coscienza di sé
come persona e tanto meno come classe oppressa.
Sono fatalisti, trovano nella sofferenza l'espressione della volontà di
Dio come se lui fosse l'autore dell'organizzazione sociale, coltivano
una fede superstiziosa nell'invulnerabilità dell'oppressore. Questo
potrebbe dare l'impressione di docilità.
L'oppresso soffre la proibizione di agire ma rifiuta la sua impotenza,
allora tenta di ristabilire la sua capacità di amare: si sottomette ad una
persona o ad un gruppo, per partecipare, simbolicamente, alla vita
dell'altro e poter illudersi di agire.
Si auto svaluta, introietta la visione che l'oppressore ha di lui
(ignorante, incapace, indolente, ingrato, malato). La conquista
implicita del dialogo è quella del mondo che i due soggetti realizzano
insieme. Nessuno si salva da solo, ma insieme agli altri.
* L'oppressore cerca di ottenere l'aspettativa (spettatrice, passiva,
alienata) degli oppressi, mitizzando il mondo attraverso una serie di
mistificazioni:
- l'ordine oppressivo è liberatore;
- lo status quo è rassicurante e l'oppressore lo difende per il bene
dell'oppresso;
- il mito della proprietà privata come fondamento dello sviluppo
della persona umana;
- la possibilità di ascesa delle masse è assomigliare alla
borghesia;
- gioco del gruppo dirigente chiamato 'realismo'.
- Divide per dominare:(es: favorire alcuni rappresentanti, dare
'aiuti' solo ad alcuni, promuovere qualcuno alla leadership, falsa
generosità)
- focalizzazione dei problemi in modo che non li si possa
cogliere come globali
- dimostrare che le parti promuovono il tutto e non viceversa.
- LA LIBERAZIONE E SUO SIGNIFICATO NELLA STORIA
L'uomo tende alla propria liberazione perché è un essere in divenire,
cioè un essere incompleto, incompiuto che, avendo coscienza di
questa sua condizione, aspira a superarla. Ma, per questa sua natura, è
aperto alla realtà e quindi è soggetto ai rapporti, facendone parte
responsabilmente.
In fondo, sostiene Freire, è connaturato all'uomo aspirare ad "essere di
più". Inconcluso come è e unico tra tutte le creature, consapevole di
questo suo stato, si sforza di liberarsene. Con il suo tendere, non perde
la propria identità personale ma la realizza, non la disperde ma la
recupera e la riunifica.Voler essere di più equivale a cercare di
conseguire la piena umanizzazione, la completa realizzazione di sé
come soggetto irripetibile e come persona. In questa proposta
pedagogica può"essere di più "solo colui che ha coscienza del proprio
destino e perciò scopre al suo interno la propria vocazione e ne fa un
progetto esistenziale, un itinerario di vita.
L'uomo, per sé, è chiamato a realizzare la propria umanità: non lo fa
perché non riesce a svincolarsi dalla "paura della libertà", che lo
spinge a farsi oppressore, oppure a restare legato alla propria
situazione di oppresso. Da questo punto di vista, l'emancipazione è
una conquista e non un’elargizione, e si impone come ricerca
permanente. Solo mediante l'atto responsabile con cui l'uomo si
decide per essa e si impegna a realizzarla, egli intraprende il cammino
della propria liberazione. L'intero processo, per svilupparsi, richiede
che egli prenda coscienza della propria condizione di oppresso, che la
sottoponga ad analisi di critica ed infine che individui la possibilità
concreta del suo superamento.
"La liberazione – scrive Freire – è un parto.Un parto doloroso.
L'uomo che nasce da questo parto è un uomo nuovo che diviene tale
attraverso il superamento della contraddizione oppressori-oppressi,
che è poi l'umanizzazione di tutti"(La pedagogia degli oppressi,
p.54).
La liberazione, comunque, non può essere ottenuta dall'uomo singolo
con le sue sole forze, come pure non è liberazione di alcuni fatta da
altri. Essa è il risultato di un processo che si realizza nel rapporto
dialettico fra gli uomini tra loro, con la mediazione del mondo, cioè
"dentro la storia”.
Questi uomini, con la loro azione trasformatrice, costruiscono la storia
e si fanno esseri storico-sociali. La storia a cui danno vita, pur
articolandosi secondo il passato, il presente e il futuro, si svolgerebbe
in un divenire permanente e perciò secondo una continuità
ininterrotta, una legge: ciascuna epoca ha la sua unità, la quale è
caratterizzata "da un insieme di idee, di concezioni, speranze, dubbi,
valori, sfide, in interazioni dialettica con i loro contrari, alla ricerca di
una pienezza. Affrontare tale dialettica “è un impegno storico. Ed è
anche coscienza storica; è inserimento critico nella storia: implica che
gli uomini assumano il ruolo di soggetti che fanno e rifanno il mondo,
esige che gli uomini creino la loro esistenza con il materiale che la
vita offre loro"(Teoria e pratica della liberazione, p.39). Scrive Freire:
"Creatore di mille nomi, costruttore di sensi, trasformatore del
mondo… i tuoi padri e i padri dei tuoi padri continuano in te. Non
sei una meteora che cade ma una freccia luminosa che vola verso i
cieli. Sei il senso del mondo e quando chiarisci il tuo senso illumini
la terra. Ti dirò ora qual è il senso della tua vita qui:Umanizzare la
Terra. Cos'è Umanizzare la Terra? E' superare il dolore e la
sofferenza, è imparare senza limiti, è amare la realtà che
costruisci!".
-
SIGNIFICATO DEL DIALOGO
L'io anti-dialogico, dominatore, trasforma il tu in dominato, in una
mera cosa. L'io dialogico, al contrario, sa che è esattamente il tu che lo
costituisce. Sa pure di essere costituito da un tu (un non-io) che si
costituisce a sua volta come un io, avendo nel suo io un tu. Il dialogo,
che è sempre comunicazione, crea le premesse della collaborazione. Il
dialogo non si impone, non manovra, non addomestica, non fa slogan.
NESSI TRA LA PEDAGOGIA DI DOLCI E QUELLA DI FREIRE
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IL LEGAME CON LA REALTA’
LA FEDELTA’ ALLA NATURA DELL’UOMO
LA CRITICA ALLA TRASMISSIONE DEL SAPERE
LA FORZA DEL DIALOGO E DELLA COMUNICAZIONE
4. ALTRI CONCETTI
TRASMISSIONE E COMUNICAZIONE
Di tutte le facoltà umane, la comunicazione è quella che suscita più
meraviglia: quando avviene, tutti gli eventi diventano soggetti a
revisione e riconsiderazione.
Fenomenologia della trasmissione
Unidirezionale
Chiusa
Cancella le differenze, trascura le sfumature
Rischio di autoritarismo
Impersonalità
Egoismo
Rischio di rapporto di tipo cosale
Fissità dei ruoli
Strumento di dominio nelle società dispotiche
Conduce all’isolamento e all’alienazione
Produce rischi di omologazione
Crea gerarchia
Produce rischi di dogmatismo
Crea automatismo
Può essere violenta
Può non essere utile
Può essere dannosa
Rischia di spegnere
Crea scelte predefinite
Crea staticità
Prescinde dal ricevente
Facilita la propaganda
È rigida
Fenomenologia della comunicazione
Bidirezionale o pluridirezionale
Aperta, circolare
Rispetta e valorizza le differenze
Arricchisce reciprocamente
Crea atteggiamenti produttivi
È creativa
È empatica
Crea silenzi vigili e attivi
Porta a socialità, solidarietà, sincerità
Richiede ascolto e umiltà
Consente l’intercambiabilità dei ruoli
È elemento essenziale della democrazia
È attenta ai linguaggi non verbali
Implica rispetto per se stessi e gli altri
Crea rapporti di pari dignità
Implica la disponibilità a mettersi in discussione
Mantiene un senso critico
Favorisce il dialogo
Richiede coraggio
Richiede attenzione all’alterità
Ricerca
Scopre
Progetta
È asettica
È facile
È nozionistica
È sterile
Indottrina
Prescinde dai tempi del ricevente
Confronta
È un bisogno dell’uomo
È espressione libera
Produce crescita
Porta alla scoperta del sé
Impegna reciprocamente
Crea fiducia negli altri
È premessa comunitaria
Coinvolge
Mette in condivisione
Valorizza le capacità di ciascuno
Richiede flessibilità
Evolve
Si inserisce nel contesto vitale
Richiede pazienza
Esercita alla difficoltà
Soddisfa il desiderio di comprendere e di farsi
comprendere
È feconda
È accogliente
Favorisce la conoscenza
È apprendimento concreto
Rispetta i propri tempi e quelli altrui
STRUTTURA
Il termine “Struttura” nasce in area architettonica, ed è un concetto
chiaro già nel pensiero di Vitruvio: la casa non è la somma dei
mattoni e delle travi, in quanto ne è parte integrante il progetto di chi
la realizza.
La struttura mira ad esprimere l’essenza del costruire, a individuare la
natura dei rapporti di ogni singola parte con l’insieme, la natura
dell’interdipendere delle diverse parti. L’insieme si sviluppa con le
sue parti, e le parti con l’insieme; anche se ogni singola parte, quando
viene messa alla luce attraverso l’impiego di un nuovo metodo, può
dare al suo scopritore l’impressione di essere la causa e l’inizio di
tutte le altre parti. Mentre ciascuna fase precedente influisce su tutte le
successive, ciascuna fase successiva può rappresentare una
reintegrazione a livello più alto di tutte le precedenti.
Alla strutturazione fa da contraltare la destrutturazione: qui lo
sperimentare e i pensieri risultano per lo più monchi, tronchi e isolati,
clonati.
Nella struttura, così intesa, necessità e possibilità creano un rapporto
in noi radicato da millenni. La prospettiva della rivoluzione
esistenziale è soprattutto la prospettiva di una ricostituzione etica della
società, una nuova esperienza dell’essere, il ritrovato rapporto con
l’altro uomo e con la comunità, nascita di strutture aperte, dinamiche,
dal basso, in un dialogo vivo con i bisogni autentici.
NON-VIOLENZA
La non violenza è la forza più grande di cui dispone l’umanità, è la
legge degli uomini.
Fenomenologia della non violanza
Eleva l’uomo
Elogia
Crea un’unità di ordine superiore
Coglie le sfumature
Si fida
Spiega
Ricerca
Fenomenologia della violenza
Brutalizza l’uomo
Offende
Crea barriere
Confonde
Diffida
Nasconde
Frena
Attraverso l’azione non violenta, secondo Gandhi, riusciamo ad
identificarci in ogni essere vivente. Il metodo di lotta non violenta
viene chiamato “forza della verità”. La ricerca della verità non
ammette l’uso della violenza… “I barlumi di verità che sono stato in
grado di cogliere possono difficilmente dare l’idea dello splendore
della verità che può crescere in noi nella misura in cui riusciamo ad
adempierla imparando ad amare… L’identificazione con ogni
essere vivente è impossibile senza auto-purificazione… in tutti i
campi della vita… Questa è una strada difficile… richiede il
culmine dell’umiltà, uno sforzo incessante,… sofferenza,
pazienza… la verità è una naturale conseguenza del vero coraggio:
quando un uomo abbandona la verità, lo fa perché cede in qualche
modo alla paura”.
La vita nella verità ha una dimensione esistenziale (restituisce l’uomo
a se stesso), poetica (rivela la realtà come è), etica (consuetudine di sé
ad agire secondo giustizia) e politica (ribellione di sé alla
manipolazione del sé).
VIRUS
La metafora biologica è costante in Dolci… in questo senso, sue sono
una concezione organica della realtà e una visione ecologica del
mondo e dell’ambiente…
[Nessi… pag. 306- 307
]
L’essere sano e l’essere malato è un’opposizione dialettica costante nel lavoro di
Dolci. Laddove il virus è propriamente ciò che ammala lo sviluppo, la maieutica ne è
la cura e la possibilità.
Possiamo ad esempio distinguere tra una politica parassitaria e una politica maieutica:
[Nessi… pag. 109
Come la zecca pensa delinquente il cane che la gratta e vuol
difendersi, così il falso politico che ruba, protesta contro chi gli vuole
impedire la frode. In “Il Dio delle zecche” leggiamo:
“Il virus sceglie
anche per gli altri
anche negli altri –
penetra la natura dei più deboli
per costringerli ad un comportamento
suicida”
La strategia del virus è quella di spegnere o abitare. Il virus è parassita
e criminale, autonomo, talvolta complice e talvolta avversario,
violenza segreta, va arrestato in tempo, si diffonde, si confonde e
confonde (è opera del virus delle coscienze confondere
comunicazione con trasmissione, potere con dominio), diventa
cronico, non concede tregua, pretende di insegnare la salute.
Sono da Dolci intesi come virus sociali la mafia e il suo il sistema
clientelare,virus finanziari, come quello delle tangenti, virus
ambientali, come l’inquinamento….
Vedi pagine 103, 104, 105, 106, 107, 108
L’esigenza di debellare il virus… è continua, urgente e immensa.
5. CONCLUSIONI: RICOSTRUZIONE DEL PERCORSO
6. DIBATTITO
Scarica

Educare al sociale. Maieutica reciproca