LE CONFRATERNITE RELIGIOSE IN CALABRIA E NEL MEZZOGIORNO
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LE CONFRATERNITE RELIGIOSE IN CALABRIA E NEL MEZZOGIORNO
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LE CONFRATERNITE COME ISTITUTO CULTURALE DI AGGREGAZIONE SOCIALE
LE CONFRATERNITE COME ISTITUTO CULTURALE DI AGGREGAZIONE
SOCIALE
Luigi Maria Lombardi Satriani
Potrebbe essere, ad un esame superficiale, motivo di meraviglia constatare la
diffusione delle confraternite in ogni centro della Calabria. Tanto nei grandi centri
quanto nei piccoli paesi è possibile trovare almeno una o due confraternite che
sviluppano un forte senso di appartenenza. Ma la sorpresa sarebbe frutto di una lettura
superficiale del fenomeno, perché se qualcosa persiste nel tempo e anzi mostra una
particolare saldezza, vuol dire evidentemente che risponde a bisogni culturali
profondi: il problema, allora, consta proprio nel domandarsi quali sono queste
esigenze culturali a cui le confraternite danno risposte.
Anzitutto noterei che una delle esigenze è quella dell’aggregazione, del costituire
gruppo. Si è molto parlato in Calabria di un iper-individualismo, di un’assenza di
senso civico, al punto che l’antropologo inglese Edward Banfield elabora la teoria del
«familismo amorale», in base alla quale gli abitanti della regione tenderebbero tutti i
loro sforzi alla massimizzazione degli utili per la propria famiglia. Anni addietro ho
fortemente criticato le teorie di Banfield, ciononostante occorre notare la presenza di
un forte senso dell’io, a volte una ipertrofia dell’io, che tuttavia non è l’unica presenza
nell’universo culturale dei nostri paesi: per comprendere queste realtà è necessario
tenere conto del senso del gruppo di riferimento che è la famiglia, il gruppo parentale e
anche tutto ciò che consente una percezione di una comunità del «noi». Essere insieme
ad altri e costituire un «noi», tanto più forte quanto più questo si contrappone ai
«loro», ad una comunità dei «loro».
La confraternita, in questa prospettiva, svolge la funzione di comunicare il senso di
appartenenza che consente al singolo di avvertirsi compartecipe di una comunità del
«noi». In questo a volte c’è contemporaneamente l’esplicita delineazione di una
comunità dei «loro» ai quali si viene contrapposti, e non è un caso che a S. Nicola da
Crissa ci siano due confraternite, dei rosarianti e dei crocifissanti, che su base
territoriale costituiscono due blocchi contrapposti a cui si appartiene in genere per
tradizione familiare. Gli uni sono contro gli altri ma questa contrapposizione serve a
rafforzare la loro identità, e noi sappiamo che in qualche maniera una delle concause
dell’identificare l’altro come avversario è l’esigenza di rafforzare il senso di
appartenenza: il senso di appartenenza garantisce al singolo di non restare irretito nella
singolarità della sua persona, e anzi gli consente di uscire dal «sé» senza pericolo di
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smarrimento nella vastità del mondo circostante. La comunità del «noi» è alla base del
campanilismo: l’assunzione del proprio campanile come centro di riferimento
garantisce un saldo ancoraggio nella realtà, mentre la perdita di esso porterebbe ad uno
smarrimento. Vi è una pagina famosa di Ernesto De Martino sul campanile di
Marcellinara, in cui di dice appunto della condizione di smarrimento, di confusione
esistenziale, che coglie un contadino a cui De Martino aveva dato un passaggio in
macchina: man mano che il campanile si allontanava, il contadino precipitava
gradualmente in uno stato di radicale inquietudine, tanto che De Martino fu costretto a
fermare la macchina e a far scendere il contadino, il quale si precipitò a riacquistare,
anche attraverso la riassunzione visiva del campanile, il suo senso di identità.
Per passare più specificamente al problema delle confraternite, si potrebbe analizzare
la collocazione nei cortei funebri degli appartenenti alle confraternite: abbiamo la bara,
e abbiamo subito dopo, assieme al celebrante, disposti in duplice fila, gli appartenenti
alla confraternita; non solo, ma abbiamo molte volte persino nel nome l’esplicita
dizione confraternita della buona morte; negli statuti, inoltre, fra i compiti essenziali
dei confratelli è sempre previsto quello di accompagnare i defunti al cimitero e il
diritto di ogni confratello di essere accompagnato da tutti gli altri. C’è una prossimità
al cadavere, c’è una compartecipazione al rituale della sepoltura. Noi sappiamo che la
morte è un evento cruciale, è un evento così radicale che mette in crisi la vita
fenomenica. È una delle emergenze assolute, un evento traumatico, irripetibile, di tipo
assoluto. In un lavoro di qualche anno fa, insieme a Mariano Meligrana, ho tentato di
delineare la filosofia popolare della morte nelle regioni meridionali, attraverso un
esame delle modalità comportamentali e delle credenze connesse alla morte e alla
necessità del trascendimento dell’evento morte, come il recupero del morto in cara
memoria, in antenato, e così via.
La cultura della morte indica le strategie da mettere in atto in occasione della morte di
una persona cara o di un co-protagonista della vita passata, in nome della
riaffermazione della vita, e si dà come compito quello di far attraversare le ragioni
della morte per riaffermare le ragioni della vita. Ora, chi riflette sull’universo culturale
della morte nella società meridionale, sa anche che per poter rifondare la vita, bisogna
evitare l’eccessiva contiguità col morto e con la morte. Abbiamo un atteggiamento
bivalente: da un lato c’è il cadavere, che rappresenta le spoglie mortali di una persona
che abbiamo amato, con cui abbiamo avuto rapporti e quindi verso cui abbiamo ancora
una serie di tensioni emotive, affettuose, amorevoli; ma nonostante questo dobbiamo
proteggerci, perché il morto veicola morte, e la morte, se entra in contatto con la vita,
la mortifica, nel senso di renderla morta. Tra vita e morte non vi può essere contatto,
perché ogni volta che il contatto si attua è la morte ad annullare la vita, a estendere il
suo potere mortale.
D’altro canto il morto c’è, e bisogna separarlo dalla comunità dei viventi, e da qui
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nasce l’esigenza del vegliarlo. Nella veglia c’è una duplice funzione: un meccanismo
di solidarietà attiva con il defunto, e al contempo una funzione di controllo, molte
volte attuata inconsapevolmente, affinché il morto non superi la barriera della morte
contagiando i vivi, irrompendo nello spazio della vita.
I rituali di sepoltura prevedono la possibilità di una vicinanza pericolosissima tra
morto e comunità dei superstiti, di conseguenza è necessario che tutto l’iter sia
fortemente protetto. Intanto avviene l’attraversamento delle vie del paese, ma i negozi,
le finestre, le porte devono essere socchiuse, sia come gesto di compartecipazione al
dolore, sia per difendersi dal potere di contagio della morte; mentre si svolge un corteo
funebre, se c’è un ammalato in casa, questi deve sedersi in mezzo al letto per non farsi
cogliere dalla dimensione di morte che aleggia nelle strade del paese, e che
introducendosi in casa, potrebbe ancora una volta rendere morto ciò che morto non è.
In questo passaggio dalla zona della vita alla zona dei morti, cioè al cimitero, il morto
deve essere accompagnato e certo lo fanno i familiari, lo fanno gli amici, ma, per
entrare nello specifico del tema che stiamo trattando, devono farlo i confratelli. Tra i
compiti istituzionali delle confraternite rientra, infatti, quella di partecipare con
funzione di guide al trasporto dei cadaveri e al seppellimento delle salme dei
confratelli. A mio parere, la funzione principale delle confraternite sembra costituirsi
come quella di accompagnatori dei morti al cimitero, mostrando umana solidarietà sia
al morto che ai familiari superstiti, e costituendo, al contempo, una sorta di filtro tra
morto e vivente: i congregati, in virtù dell’appartenenza a una famiglia simbolica,
possono assumere una più rischiosa prossimità con la morte. La loro funzione nei
cortei funebri - sia in quelli realistici che in quello paradigmatico di Cristo - è per
molti versi assimilabile a quella dei parenti del defunto. Tale funzione li costituisce, di
fatto, di volta in volta come parenti iniziatici, che condividono e orientano il lavoro
familiare del cordoglio. Attraverso il mascheramento rituale - un saio bianco che copre
tutto il corpo, spesso un cappuccio con due fori per gli occhi, mantelline di colore
diverso e con immagini e distintivi sacri diversi - essi partecipano
contemporaneamente alla condizione di vivo e a quella di morto, ponendosi così come
zona di immunità dal contagio, mediatori con i morti, loro vicari. Il mascheramento
rituale come tecnica di sdoppiamento abilita i congregati a costituirsi come organo
della comunità, cui possono essere demandate le funzioni rischiose
dell’intrattenimento di rapporti con la morte, l’aldilà, il sacro.
Alla luce di queste considerazioni, s’intende che una funzione così rilevante quale
quella di costituire barriera protettiva, schermo, momento mediano tra il morto e la
comunità dei viventi, non può essere oggetto di letture impressionistiche, o comunque
superficiali. La confraternita aggrega, in quanto svolge funzioni essenziali per la vita
simbolica delle nostre comunità.
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LE CONFRATERNITE DI AMANTEA. APPUNTI PER LO STUDIO DEI PROCESSI AGGREGATIVI E DEI RITI DI RIFONDAZIONE
LE CONFRATERNITE DI AMANTEA. APPUNTI PER LO STUDIO DEI
PROCESSI AGGREGATIVI E DEI RITI DI RIFONDAZIONE
Franco Ferlaino
La mia relazione muove da appunti di indagine sul campo raccolti senza un
precostituito ordine formale. Essa intende sottoporre al dibattito alcune riflessioni
intorno al carattere segnico (e ai fondamenti eidetici) dei processi oggettivanti di «sé»,
dei miti fondatori dello spazio e dei riti di rappresentazione della morte.
Le riflessioni si attestano, principalmente, su quattro confraternite operanti ancora
nella città di Amantea 1, ma non mancano rapidi riferimenti ad altri sodalizî laicali
anch’essi annichiliti, nella loro autonomia economica e liturgica, da interventi regi e
diocesani estremamente riduttivi, quando non oppressivi e soppressivi 2.
Le testimonianze orali sono tutte concordi nell’attribuire all’organizzazione delle
confraternite in esame una corrispondenza con categorie e classi dell’ordinamento
sociale tradizionale. Secondo tale corrispondenza la confraternita dell’Immacolata
appartiene ai nobili perché da essi è stata, originariamente, costituita. Così quella della
Madonna del Rosario appartiene ai marinai; quella dell’Addolorata ai contadini e ai
commercianti, quella del Sacro Cuore agli artigiani e agli impiegati 3.
Secondo le ricerche storiche più accreditate esisteva, sin dal XIV secolo, una sorta di
confraternita-madre denominata Congregazione della Beata Vergine. Da questa, che
aveva sede nel Cenobio dei Minori Conventuali, sul finire del XVI secolo ne sorsero
altre. La Congregazione della Beata Vergine si trasformò e assunse il titolo di
Arciconfraternita dell’Immacolata Nostra Signora e dopo poco tempo fu costituita
anche la Confraternita della Madonna del Rosario. La nascita di queste viene fatta
risalire all’epoca delle vittorie cristiane incominciate con la battaglia di Lepanto, a cui
la cittadina marinara di Amantea partecipò con la galea «La Luna» che, posta sull’ala
destra dello schieramento, era pilotata da Matteo Ventura e aveva a bordo 35 valorosi
nepetini (cittadini di Amantea) 4.
Le congreghe dell’Addolorata e del Sacro Cuore sono nate in seguito all’espansione
dell’agricoltura e dall’artigianato che hanno portato all’inesorabile e lento abbandono
della marineria e alla graduale emersione di attività commerciali e industriali.
Attraverso la conquista e l’ostentazione degli ordinamenti simbolici confraternali, le
categorie emergenti intendevano affermare le loro capacità organizzative e ottenere un
riconoscimento sociale perché avevano aperto le strade a un’economia terrestre
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quando quella marittima era caduta in una irrisolvibile crisi. Nel secolo scorso, infatti,
si è verificata una graduale scomparsa della marineria e dell’approdo che V. Padula
annotava come «piccolo porto, buono per le navi di piccola portata, ma di accesso
difficile nelle burrasche» 5.
La Congregazione del Sacro Cuore 6 (saio bianco e mozzetta rossa con relativo
medaglione) ha sede nella chiesa arcipretale di S. Biagio (chiesa Matrice). Essa
svolgeva una processione in pompa magna nel giorno della sua ricorrenza festiva (30
giugno). Ora svolge solo la processione di Quarantore nell’ultimo Martedì di Passione,
detto Quarantore Papale, e si snoda sullo stesso percorso di quello dei marinai, ma il
saio è indossato da un minor numero di confratelli. La congrega del Sacro Cuore si
oppone idealmente alla lotta sociale arrivisticamente ed opportunisticamente condotta
senza esclusione di colpi. Essa promuove, ricerca e indica, nei valori tradizionali del
cristianesimo, percepito come modello fondante e interclassista, una decorosa condotta
civile e morale che plasmi, nella coscienza della comunità, comportamenti edificanti
di solidarietà sociale 7. Per tale strategia mediatrice e per la sua più recente
costituzione ne deriva una simbologia rituale meno incisiva e appariscente; pertanto
rivolgerò l’attenzione soprattutto al complesso liturgico delle altre confraternite.
L’universo simbolico a cui rinvia il complesso dei riti confraternali di Amantea
oscilla, prevalentemente, tra i miti fondatori dello spazio e i riti di rappresentazione
della morte. Rivolgeremo l’attenzione innanzi tutto sulla configurazione segnica dei
percorsi liturgici nello spazio urbano e sulla relativa simbologia da essa assunta.
Avviare, però, l’analisi partendo dalla spazialità urbana introduce alla comprensione
dei rispettivi modelli socio-antropologici, organizzativi dello spazio e del territorio che
possono essere letti come modelli della socialità. I modelli organizzativi dello spazio,
come dice C. Lévi-Strauss, non rispecchiano sempre e a pieno l’organizzazione
sociale. Essi riflettono «un modello presente alla coscienza indigena, benché [a volte]
sia di natura illusoria e contraddica i fatti» 8 che, essendo in perenne trasformazione, lo
riplasmano di continuo.
La figurazione dello spazio urbano di Amantea, nei suoi tratti più salienti e nelle
modalità con cui esso viene fruito da parte delle confraternite, offre un indicativo ma
valido contributo iniziale allo studio della percezione del luogo comunitario, inteso
come centro organizzato della socialità nel quale si identificano i segni e le memorie
che gli individui e i gruppi vi trasmettono.
La territorialità urbana di Amantea presenta due configurazioni paesaggistiche,
identificate, in prima istanza, dall’andamento geografico dei luoghi su cui si sviluppa
la cittadina. Una, in posizione dominante, cinta da ciò che resta delle ampie e
imponenti mura dell’antica città-fortezza, individua il centro storico, dove umili case,
palazzi gentilizi e piccole botteghe si abbarbicano alle ripide rocce su cui troneggiano i
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ruderi del grande castello; l’altra, distesa nella sottostante plaga marina, disseminata
da numerose attività commerciali, costituisce il modesto, decoroso ed esteso abitato
moderno 9.
Sia l’antico centro che il nuovo si configurano rispettivamente come luogo di
convergenza di più realtà spaziali e, di conseguenza, all’interno di ogni aggregazione
esistono ulteriori divisioni, subpartizioni, che diventano fattori particolari del processo
aggregativo e/o di opacizzazione dell’identità collettiva. Ma al momento non ho che il
quadro delle ripartizioni principali, intorno alle quali si può rilevare una diffusa e
marcata conflittualità sociale tra il borgo superiore e quello inferiore.
Questa distinzione non è espressa solo da una terminologia che indica i due centri, ma
è percepita anche sul piano delle diversità culturali e caratteriali dei rispettivi abitanti.
Nel nuovo borgo marinaro - si dice - vi stanno i marinai della Taverna (o ironicamente
detti anche di menziijuærnu avanti) 10 che si distinguono da quelli del vecchio borgo
detti della Piazza.
La conflittualità è espressione della tensione interiore che strugge la comunità per
l’unità perduta. Perdere l’unità è un fenomeno estremamente dirompente
dell’ordinamento simbolico esistente. Quando si verifica una scissione (si perde
l’unità) si teme la disgregazione totale. Ciò, in ultima analisi, prefigura la morte che,
con la scissione dell’anima dal corpo, costituisce processo paradigmatico di
separazione irreversibile.
Il sorgere di una nuova realtà urbana, al di fuori delle mura, nella plaga marina, in un
territorio pervaso dal rischio fisico (mancanza di sistemi difensivi dagli attacchi degli
uomini e dalle forze della natura quale il mare) era già sconcertante di per se stesso.
Ma soprattutto questa nuova realtà si proponeva, all’immaginario collettivo, come
alter ego della socialità e dello spazio cittadino, come formazione di un altro centro. Se
ciò, sul piano della spazialità, metteva in discussione gli originari punti di riferimento,
sul piano psicologico e culturale faceva lievitare in entrambi i centri un senso di colpa
che poteva essere attutito o rimosso attraverso l’espressione del cordoglio per l’unità
perduta e il peregrinare penitente inteso a ricomporre, almeno sul piano simbolico, la
separazione avvenuta.
L’angoscia della separazione e il conseguente timore della morte non nasceva solo per
la sopravvenuta perdita dell’unità, ma anche perché il nuovo insediamento si collocava
in uno spazio soggetto a rischi intrinseci e simbolici: in un’area che, dal preesistente
ordinamento simbolico-territoriale, era designato quale spazio asimmetrico, selvaggio,
del caos, dell’ignoto, dei morti contrapposto allo spazio noto della vecchia città,
considerato spazio dei vivi, addomesticato dalla geometria e dalla simmetria
dell’edilizia, protetto dalle icone e dagli edifici sacri, sacralizzato dai riti e dalle
processioni religiose.
Gli studi di antropologia culturale di rifondazione territoriale, condotti in Calabria,
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hanno ricostruito molti riti religiosi a carattere itinerante e hanno messo in luce come
questo carattere avesse anche il compito di riscattare lo spazio dall’angoscia del
territorio ignoto ritenuto spazio degli spiriti dei morti, vaganti e inquieti 11.
I riti confraternali, in quanto itineranti e simbolicamente noti a entrambi i nuclei
sociali, rinviano a un immaginario unitario che, estendendosi al nuovo centro,
reiterano l’identità culturale originaria.
La confraternita dei nobili 12 di Amantea trasferì subito la sua sede nel convento dei
Minori Osservanti (Zoccolanti), detto comunemente S. Bernardino. La scelta di questa
nuova sede, ubicata all’esterno delle mura cittadine, indica che l’aristocrazia, con i
propri riti particolari, come la processione dell’Immacolata, incominciava a inoltrarsi,
inevitabilmente, anche fuori le mura, dove più tardi si svilupperà il nuovo
insediamento urbano, iniziando, con tale rituale simbolico, la periferia agreste
all’urbanistica.
La congrega del Rosario o dei marinai 13, d’altro canto, rifondando la propria attività
rituale, estese al nuovo sito il percorso processionale delle «Varette» (processione del
Venerdì Santo di cui tratterò dettagliatamente più avanti). Essa riaffermava, in tal
modo, nell’immaginario collettivo, le capacità fondanti delle proprie liturgie, verso le
quali vi era (e vi è ancora) una diffusa attrazione generale. La confraternita dei
marinai, anche se con evidenti segni di decadimento, esprime, tuttora, la più elevata
partecipazione alle attività congregazionali di tipo tradizionale: le sue processioni
continuano a segnare lo spazio vecchio e nuovo e i soci, in abito di confratelli, usano
ancora accompagnare, a volte, il feretro nei funerali dei congregati defunti.
Quanto appena detto sottintende una stretta correlazione tra la spazialità,
l’organizzazione sociale e i riti confraternali, ma soprattutto lascia intuire l’esistenza di
alcuni sistemi aggregativi e relazionali che muovono dall’angoscia della divisione
spaziale.
I cittadini di Amantea, che per secoli avevano vissuto in una realtà urbana e sociale
costretta e protetta da possenti mura di cinta, hanno avversato qualsiasi decisione che
mirasse a istituire, riconoscere e affermare un nuovo centro o ulteriori e rilevanti
subpartizioni di tipo territoriale. Quando sorse la necessità di dividere l’unità
ecclesiale originaria in più giurisdizioni parrocchiali, si preferì operare in base alla
patronimia e i fedeli si ritrovarono ripartiti secondo l’ordine alfabetico dei loro
cognomi 14.
In generale la subpartizione territoriale dei centri calabresi, è stata segnata dalle
giurisdizioni ecclesiastiche, risentendo spesso dei confini parrocchiali.
In molti paesi, dove lo spirito di emulazione tra parrocchie e confraternite era
fortemente sentito, il territorio è stato spesso punteggiato capillarmente da segni, quasi
perenni, quali le icone sacre; sia quelle poste in prossimità di crocicchi, accuratamente
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sistemate sull’angolo di pertinenza territoriale, sia quelle incastonate sui muri delle
case in cui abitavano coloro che appartenevano ai vari sodalizî. Ciò è emerso anche in
alcuni paesi della fascia montana del Lametino nei quali ho appena avviato una
schedatura delle icone votive, con un gruppo di studenti del Liceo Scientifico di
Decollatura.
Il criterio della suddivisione parrocchiale su base patronimica è estremamente
interessante perché rinvia ai sistemi aggregativi della comunità che vede al centro
dell’articolazione sociale la famiglia.
I processi aggregativi si dipartono, come per la territorialità, dai sistemi elementari e
muovono verso quelli più complessi e articolati.
Dapprima l’aggregazione si articola all’interno di gruppi numericamente ridotti nei
quali si sviluppa una interazione basata sui rapporti diretti, come nel rapporto duale o
di coppia, triadico/tetraedico o familiare, di parentela o di clan familiare. Il
soddisfacimento delle istanze aggregative «tradizionali» o semplici, fa nascere nuovi
bisogni relazionali che trovano soddisfacimento in nuovi organismi sociali che
comprendono, in maniera più ampia e articolata (e molte volte anche contrapposta) le
precedenti aggregazioni minori (coppie, famiglie, clan familiari). La presenza di questi
nuovi organismi aggregativi segna la linea di demarcazione tra le aggregazioni
semplici (i cui sistemi relazionali possono risultare anche complicati, come nelle
relazioni di parentela) e le forme aggregative complesse (dove comportamenti e
relazioni sono riconosciuti fondanti in quanto ritualizzati e normati) che rinviano a un
modello convenzionale socialmente riconosciuto, a uno statuto o regola. In una
comunità tradizionale, la presenza delle confraternite è indice di un più complesso
sistema organizzativo che tende a superare i centri spaziali e le articolazioni
aggregative minori.
Nel sistema aggregativo confraternale l’individualismo è aborrito: le persone
tendenzialmente sole sono percepite come deviate, asociali che non hanno capacità di
adattamento nella struttura aggregativa dei gruppi. Esse non sono prese in
considerazione neanche nei casi di periodica apertura delle iscrizioni congregazionali,
nonostante queste si configurano come strategie straordinarie per l’accaparramento
delle adesioni, nelle aree dove esiste la concorrenza tra più confraternite 15
L’attenzione congregazionale si attesta su coloro che hanno almeno un’esperienza
probante di rapporto duale che, per la comunità tradizionale, si fonda sul rapporto di
coppia conclamato. Nei colloqui di indagine svolti sul campo traspare sempre, se non
una prelazione, in quanto non è costituito come diritto, almeno un inconscio desiderio
prelatizio verso la coppia, sia di giovani che di anziani; gli uni in previsione della
futura famiglia, gli altri per riconoscenza all’idea e allo sforzo di aver cresciuto già
una famiglia. Il rapporto di coppia, infatti, nelle classi popolari è concepito,
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contemporaneamente, sia come conclusione che come preludio di un rapporto
familiare: la costituzione di una nuova coppia mette in discussione l’assetto familiare
precedente e ne prefigura uno nuovo che dispiega anche un’ulteriore crescita per la
confraternita: «Quando un confratello celibe si sposa - spiega il cassiere della
confraternita dell’Addolorata - gli viene fatto un libretto di famiglia e può iscrivere la
moglie e i figli; ma la moglie deve cancellarsi, eventualmente, da altra confraternita e
deve sottoscrivere una dichiarazione, tipo atto di notorietà, per accettare la nuova
iscrizione» 16.
Il nucleo aggregativo più rilevante della struttura confraternale è, dunque, quello
familiare. La famiglia, infatti, è il fulcro intorno al quale ruota l’organizzazione delle
confraternite. La registrazione alla congrega avviene soprattutto attraverso i libretti
familiari; la famiglia iscrive i neonati quali nuovi soci della confraternita ed essi
permangono sul libretto sino a che non costituiscano un nuovo nucleo familiare. «La
confraternita è aperta a tutti - continua il cassiere dell’Addolorata -, ma certamente
quello che dà la spinta più forte sono le iscrizioni dei familiari; vi sono circa 1.000
libretti di iscrizione familiare e un totale di oltre 2.700 iscritti e questo significa che le
iscrizioni principali sono basate sui libretti di famiglia che comprendono in media tre
persone»17.
La centralità della famiglia richiama elementi giuridici del passato che si fondavano
sui fuochi o focatici e rinvia a un sistema sociale rigidamente diviso in categorie
sociali che si riflette in relazioni confraternali egualmente chiuse: Nobili - Marinai Artigiani - Contadini. La presenza del patriziato (anche se non ufficialmente, ha
continuato a influire in maniera determinante nella vita cittadina sino alla seconda
guerra mondiale), il primitivo arroccamento della cittadina all’interno della cinta
muraria fortificata, l’indicazione delle antiche confraternite con appellativi di casta o
di classe, rinviano a una comunità con relazioni sociali rigidamente codificate.
I sistemi aggregativi, dunque, si intrecciano, con interazioni reciproche, anche con
l’assetto spaziale e territoriale risentendo della più o meno chiusura o apertura di
questo e viceversa. Riprendendo la questione parrocchiale già accennata, si ha modo di
constatare in maniera più esplicita le interconnessioni tra spazialità, sistemi e forme
aggregative.
La costituzione di parrocchie su base alfabetica dei cognomi denota che negli intenti
della cittadinanza la ripartizione parrocchiale era percepita esclusivamente come una
distinzione burocratica interna all’ordinamento ecclesiastico: un disegno
amministrativo che definiva le rendite degli ecclesiastici preposti alle diverse
parrocchie che, come in molti altri centri della Calabria, erano istituite sub eodem
tecto. Questa formula canonica definiva un ordinamento secondo cui le parrocchie
dello stesso centro erano gerarchicamente sottoposte alla parrocchia-madre curata da
un decano. I riti e le cerimonie religiose generali dovevano essere celebrati
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unitariamente nel duomo o chiesa matrice (arcipretale) e ciò contribuiva a ricomporre
le conflittualità in tema di competenze liturgiche tra i parroci.
In Amantea, oltre alla formula giuridica unificatrice del sub eodem tecto, era stata
individuata quest’ altra formula della ripartizione parrocchiale in ordine alfabetico, che
mirava a riconciliare l’unità territoriale insidiata dall’espansione urbana nella
sottostante pianura marina.
Quantunque, in origine, il criterio alfabetico possa essere stato dettato dalla vicinanza
di determinate famiglie alle rispettive chiese parrocchiali, esso appare assai singolare,
soprattutto perché ciò contrasta con il criterio generale in uso nei centri della stessa
diocesi (Tropea)18. Il distinguo effettuato su criterio alfabetico, pur tendendo verso
una ripartizione del tessuto sociale, finiva con l’attivare un sistema unificativo sul
piano territoriale: famiglie con lo stesso cognome potevano, infatti, appartenere
contemporaneamente a territori e a confraternite differenti e partecipare ai riti della
propria chiesa parrocchiale, a quelli della chiesa vicina alla loro abitazione e anche a
quelli della chiesa nella quale aveva sede la propria confraternita. Ciò dava vita a una
ampia serie di variabili nella fruizione individuale e collettiva dello spazio che
intessevano una fitta rete di scambio segnico e simbolico dei riti: se da una parte
riaffermavano l’unità della comunità sotto la preminenza del centro storico e della
parrocchia arcipretale, dall’altra si opponevano alla divisione territoriale che - si
temeva - potesse generare due universi realmente distinti e simbolicamente differenti.
Nonostante il cambiamento socio-economico abbia prodotto un decadimento del
mondo confraternale, questo conserva ancora una microritualità che rinvia alla sfera
familiare come elemento centrale dell’aggregazione confraternale.
Le confraternite di Amantea, ma soprattutto quella del Rosario, per affrontare la crisi
associativa provocata dalla rottura dei sistemi su cui si fondavano i precedenti criteri
aggregativi, hanno rinnegato da tempo gli antichi e rigidi vincoli di adesione a ogni
sodalizio. I figli degli appartenenti alla confraternita dei marinai, quando diventano
maggiorenni o si sposano, scelgono spesso di aderire a una delle due congreghe più
recenti, magari a quella della moglie o, al limite, di qualche amico divenuto influente.
Ma alcuni di questi trasmigrati, sia che esercitino la pesca o nuove attività lavorative,
senza nessun preavviso formale, la mattina del Venerdì Santo si ritrovano in chiesa
prima dell’uscita della processione delle Varette e compiono, spontaneamente, una
serie di minuscoli riti che denotano il bisogno di una ricomposizione generazionale e
confraternale perduta. Essi cercano la compagnia di qualche confratello marinaio
anziano col quale dialogare e poi, insieme, davanti a ogni gruppo scultoreo dei
santarielli che saranno portati in processione, intonano i rispettivi e antichi canti in
dialetto e in latino. Il desiderio di partecipare a questa unità corale traspare anche negli
atteggiamenti di quei trasmigrati che hanno effettuato una crescita economica
considerevole. Gli insistenti inviti che vengono loro rivolti perché si associno al canto
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li mette in evidente imbarazzo, ma, a volte, accettano. È difficile per loro intravedere
nella congrega del Rosario e nell’attività marinara formule positive e propositive di un
riscatto sul piano economico e del prestigio sociale; ma coloro che vi restano, sono
orgogliosi di esprimere la loro appartenenza alla marineria attraverso le tradizionali
ritualità congregazionali.
I riti del Venerdì Santo, anche se svolti dalla confraternita dei marinai, sono
considerati con speciale attenzione da tutti i cittadini di Amantea; intorno a essi, che
rappresentano metaforicamente la vita e la morte, tende a ricomporsi l’identità
culturale e religiosa dei cittadini. In tale prospettiva i riti sono divenuti momento
unitario di rievocazione controllata e simbolica dei lutti e dei morti della comunità;
strumenti culturali atti a edificare il sentimento del dolore, la manifestazione del
cordoglio, la partecipazione al lutto, la rappresentazione della morte.
I riti Quaresimali e della Settimana Santa impegnano le singole confraternite (Rosario,
Addolorata e Sacro Cuore) per l’adorazione e soprattutto per le processioni di
Quarantore, il cui ordine processionale può essere assunto come chiave di lettura
dell’ordinamento sociale della comunità 19. Ai margini dei cortei processionali del
Rosario e del Sacro Cuore, che si svolgono nel vecchio centro storico con percorsi
identici, si affacciano prevalentemente persone molto avanzate negli anni, mentre i
bambini, i giovani e gli adulti procedono all’interno del corteo. Questo sembra
sottolineare una coscienza di ruoli svolti e ancora da svolgere: i protagonisti in itinere
appartengono alla parte attiva della comunità, i protagonisti marginali e statici sono i
più anziani e i vecchi.
Mandare le donne avanti esortandole a disporsi su due file denota la volontà di fare di
esse delle portabandiera dell’ordine sociale che viene comunque controllato e gestito
dai maschi. Questi affermano il proprio ruolo dominante occupando il posto d’onore,
subito dopo il baldacchino sacro, e procedendo in ordine sparso.
Solo i confratelli delle congreghe procedono ordinati su due file e ciò è segno della
dedizione all’ordinamento sociale da cui promana il carisma che la comunità riconosce
loro sul piano della mediazione col divino.
A questi riti fanno eco la Domenica delle Palme con la caratteristica benedizione dei
ramoscelli 20, la Missa in Cœna Domini con la tradizionale «lavanda dei piedi»; il
Venerdì Santo con le processioni delle Varette e della Via Crucis conclude i riti
confraternali.
Le congreghe, a tarda sera del Giovedì Santo, un tempo, praticavano anche il «giro»
dei Sepolcri (un corteo per la visita al Sacramento o a gruppi scultorei sistemati nelle
diverse chiese, tra addobbi scenografici, adornati con teneri e gialli germogli di cereali
cresciuti in vassoi, al buio per privarli della funzione clorofilliana) 21. Tali percorsi
congregazionali si intrecciavano reciprocamente, a differenza delle processioni
generali in cui tutte le congreghe svolgevano lo stesso percorso, in un unico corteo
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rigidamente ordinato (ma anche a differenza dei cortei che ogni congrega potrebbe
svolgere dentro il territorio di propria pertinenza). I cortei delle visite ai sepolcri non
erano riconosciuti come momenti liturgici statutari e non seguivano percorsi
simbolicamente e rigidamente definiti ma, proprio per questa loro variabilità,
sembrano essere rappresentativi di uno spontaneo sistema di ricucitura della
territorialità e della socialità. Non mi è stato possibile ricostruire sistematicamente i
percorsi 22, ma alcune loro costanti, come l’intreccio processionale di differenti cortei
che valicavano l’ambito territoriale di propria pertinenza e la reciprocità nello scambio
delle visite sacre tra le confraternite, connota una ritualità di ricomposizione dello
spazio e della socialità. Essi erano aperti non dallo stendardo, ma da un’altra insegna
della congrega costituita dalla croce priva della mozzetta (che di solito ne ricopriva il
dorso) ed era chiusa dal priore con insegne e bastone a lutto e dall’assistente spirituale.
Le processioni e le ritualità devono essere viste, guardate, osservate. Al loro passaggio
si aprono le porte e le finestre, i cittadini che stanno in casa si affacciano ai davanzali e
sulle soglie; non solo per cogliere l’immagine dei processionanti, ma anche per
proporre a essi la propria presenza. Tra parenti e amici ci si rimprovera bonariamente
se passando non si scorgono reciprocamente partecipi alla processione. All’interno del
percorso processionale si costituiscono gruppi ridotti di amici che propongono
unitariamente la loro immagine, per esternare e riconfermare la loro alleanza. Anche le
donne, che hanno la prescrizione di procedere su due file, ai lati della strada, si
mostrano disposte a non rispettare rigidamente l’inquadramento lineare e nelle file si
formano piccoli gruppi per avere accanto qualche familiare o amica. Personaggi
pubblici, come politici e altri rappresentanti delle istituzioni, guidano il gruppo degli
adulti ponendosi tra essi e prendendo posto in prossimità dell’autorità ecclesiastica che
in tale circostanza rappresenta il centro e la figura più autorevole del rituale. Molti
personaggi pubblici attribuiscono alla loro presenza anche un significato di solidarietà
verso i gruppi organizzatori delle liturgie. Interessante è a questo proposito rilevare
che essi, con il sindaco in testa, cercano di esprimere solidarietà a tutte le congreghe,
trasferendosi da un corteo congregazionale all’altro, allorquando le processioni si
svolgono quasi contemporaneamente; (come nel caso dei Quarantore delle congreghe
del Rosario e dell’Addolorata).
Compartecipare a questo giuoco e intreccio di sguardi acquista il significato di
condividere reciprocamente il rito nella sua essenza. Tutti partecipano alla
realizzazione dell’evento immaginifico, anche se con ruoli diversi e complementari: la
ricomposizione dell’identità comunitaria e dei luoghi attraverso una tacita e implicita
dichiarazione di appartenenza e partecipazione al medesimo ordine simbolico e rituale.
La mattina del Venerdì Santo la Confraternita dei Marinai 23, partendo dalla chiesa
matrice, dà vita, ormai da secoli, alla tradizionale processione dei «santarielli», come
la chiamano i protagonisti, o delle varette (letteralmente, diminutivo di vara, ossia
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bara) 24, come la indica in genere la gente. Si tratta di nove gruppi scultorei in
cartapesta, dei primi decenni del secolo, che rappresentano alcune scene della Via
Crucis e che vengono portate in processione seguendo l’ordine della narrazione 25. La
processione è aperta da un corteo di confratelli della congrega del Rosario disposto su
due file che procedono ai lati delle vie. I confratelli indossano saio, mozzetta e corona
di sparacogna (erba spinosa degli asparagi selvatici) sistemata sopra il cappuccio che
per l’occasione viene indossato lasciando scoperto il volto e ripiegato sul capo per non
avvertire le punture degli aculei vegetali. Simili cortei, ma ridotti numericamente, si
interpongono tra le varette mentre altri confratelli, appaiati, presidiano ogni statua che
è portata e seguita da gruppi di cittadini secondo un distinguo sia per sesso che per
fasce di età 26. Le prime statue sono portate e seguite dai bambini, le successive sono
gestite e accompagnate dagli adolescenti, poi dai giovani e infine dagli adulti e dai
vecchi. È ovvio che nel corso degli anni i protagonisti più giovani si avvicenderanno
da una statua all’altra, verso quelle che hanno maggiori connotazioni drammatiche e
infine seguiranno, da adulti e distinti per sesso, le scene più tragiche che raffigurano il
Crocefisso, nei cui pressi canta un gruppo di congregati, il Cristo Morto nella bara,
seguito da anziani e vecchi in riverente silenzio e in rigoroso abito nero, l’Addolorata,
seguita dalla mestizia corale delle donne.
È di estremo interesse notare come i giovani sviluppano, nel corso della processione,
comportamenti parodistici nei confronti del divino; in particolare questi atteggiamenti
si notano nei canti che ripropongono un mottetto ricorrente («Sono stato io l’ingrato Gesù mio perdòn pietà») 27, secondo ritmi melodici distorti da accentuazioni e urlati
posti in finale di battuta: una corale declamazione simile a quella dei cortei politici.
Allorquando i gruppi si incontrano sul corso, dove il corteo svolta, o nei tornanti della
successiva salita, viene accentuata la cadenza vocale che denota un più chiaro senso di
sfida. In tali luoghi si crea un echeggiante intreccio musico-vocale tra le parodie
canore dei ragazzi, i canti modulati degli uomini, le tristi nenie delle donne e
l’armoniosa strumentazione bandistica che, dal fondo del corteo, esegue languide e
accorate marce di requiem.
I giovani esorcizzano la morte in maniera scherzosa e burlesca, mentre gli adulti ne
tentano la risoluzione riproponendo i comportamenti rituali del lutto e del cordoglio. Il
coro dei congregati esegue, in latino, la triste nenia del Miserere e dello Stabat Mater
affrontando sul piano tecnico della modulazione canora e corale il tema della morte e
del suo intrinseco dolore. Le donne seguono la statua dell’Addolorata che è posta in
fondo al corteo come se partecipasse al lutto del Figlio e come se avocasse su di sé
tutto il dolore a cui alludono le precedenti rappresentazioni. Esse intonano sconsolate e
mogie laudi dialettali che raccontano episodi della passione e morte di Cristo.
Attraverso tali neumi la comunità femminile, che nel lutto reale assolve,
tradizionalmente, al lamento funebre popolare, tenta la risoluzione del dolore, della
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morte e del cordoglio estetizzando vocalmente il pianto di Maria.
Si nota, in questo ordine processionale, la fusione di due ordini simbolici e rituali
strettamente connessi alla vita reale dei partecipanti: il progressivo avvicinamento alla
morte, sia reale che metaforico, vissuto dai protagonisti attraverso il passaggio dal
corteo delle varette iniziali a quelle di coda che viene scandito dal lento e graduale
trascorrere delle fasi della vita degli stessi protagonisti. I modelli culturali (religiosi e
civili, privati e collettivi) rappresentativi della morte delineano, in questa liturgia, il
percorso che compie l’uomo, con la sua vita, per l’edificazione di sé, tra una nascita
difficile e una morte dolorosa. Il rito e il mito, il reale e l’immaginario, si
riconfermano quali valori imprescindibili della vita.
Il pomeriggio dello stesso giorno la confraternita dell’ Addolorata 28 svolge la
processione della Via Crucis nel cui svolgersi si effettuano le tradizionali orazioni
sostando in «stazioni» immaginarie individuate estemporaneamente dal parroco o
suggerite a questo dai fedeli che allestiscono, lungo il tragitto, degli altarini provvisori.
Il corteo processionale è aperto dai confratelli in saio ed è seguito da molti
parrocchiani della Chiesa di Santa Maria Pinta ai Cappuccini che accompagnano una
propria statua dell’Addolorata. La processione, dalla quale è stato escluso ormai da
tempo il simulacro del Cristo Morto, parte dai Cappuccini e, come tutti i cortei
liturgici della stessa confraternita, procede lungo il quadrilatero costituito da via
Baldacchini, via Dogana, via Margherita, corso Vittorio E. II. Prima della riforma
liturgica, il corteo processionale della Via Crucis, inoltrandosi su entrambi i territori
(vecchio e nuovo centro abitato) sulla falsariga di quello delle Varette, si svolgeva il
pomeriggio del Giovedì Santo. Ciò denota che la confraternita dell’Addolorata
condivideva pacificamente con i marinai la liturgia penitenziale della Settimana Santa.
Esse, unitamente, si contrapponevano, sul piano simbolico, alla congrega dei nobili, le
cui ritualità pasquali si limitavano al giro di visita dei sepolcri ed erano pesantemente
connotati da segni e simboli obsoleti della loro cultura barocca e rococò. Tra i
confratelli nobili prevaleva la ricerca e l’ostentazione frivola di elementi distintivi, sia
nell’abito confraternale (che saranno poi scusa di una clamorosa contestazione
popolare), sia nella pompa mondana delle loro trionfali processioni, sia nella
ricercatezza con cui codificavano sottili simbologie di privilegio anche nella
disposizione dei cortei processionali.
Sul piano segnico il percorso «tradizionale» della Via Crucis, svolto dalla confraternita
dell’Addolorata, quando si inoltrava nel vecchio centro urbano, si proponeva anch’
essa, insieme con quella dei marinai, quale ritualità simbolicamente unificatrice della
territorialità e della socialità cittadina ormai separata.
Dal 1963 un decreto episcopale ha annullato la precedente divisione delle parrocchie
basata sull’ordine alfabetico dei cognomi e ha costituito le parrocchie distinguendone
e definendone i territori. La protesta civica, intesa a non accettare la ripartizione
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territoriale e a mantenere la divisione parrocchiale in ordine ai cognomi, ha
determinato uno dei fenomeni sociali più significativi della storia recente di Amantea.
Tale protesta è stata caratterizzata da aspri scontri tra alcuni cittadini di Amantea e le
autorità ecclesiastiche, sconfinando (il 5 marzo 1963) nell’azione sacrilega di
percuotere il vescovo pro-tempore, sul sagrato della chiesa. La volontà conservatrice
era manifestata dai marinai e ancor più dai nobili, desiderosi di mantenere
l’ordinamento sociale e simbolico di quell’universo culturale a cui appartenevano a
memoria d’uomo.
La confraternita dell’Addolorata esprime ora un grande dinamismo nell’ambito sociopolitico: conta il maggior numero di confratelli, circa 2.700, e ha tra i suoi iscritti molti
della classe dirigente politica della città. Essa si è espressa favorevolmente al decreto
episcopale anche perché con questo veniva riconosciuta dignità territoriale al centro
marino e di conseguenza maggiore autonomia e autorevolezza alla chiesa nella quale
ha sede la confraternita. La congrega dell’ Addolorata, favorita dalle scelte diocesane e
forte del prestigio goduto nella comunità, ha risposto alla contesa sociale arroccando le
sue processioni lungo il citato quadrilatero marino. Ma il rifluire dei suoi cortei in tale
ambito, che tempo fa era rappresentativo del territorio urbano della marina, risulta ora
limitativo; i suoi percorsi processionali perimetrano, ora, solo la parte centrale
dell’abitato marino che, da allora, è cresciuto in maniera convulsa. La più recente
espansione edilizia ha riproposto la rinnovata esigenza di ridefinire culturalmente e
simbolicamente il territorio urbanizzato, anche in riferimento ai riti e alle iniziative dei
«centri» preesistenti. Tutto questo si ripercuote sulle attività socio-culturali delle
associazioni civiche e delle confraternite in particolare che avvertono, però, il disagio
di non trovare soluzioni rituali e simboliche rispondenti al nuovo ordine spaziale
creatosi con la straripante e galoppante espansione del centro marino. Bisogna anche
dire che tale disagio è maggiormente sentito nella congrega dell’Addolorata in quanto
il suo peso sociale che la rende interprete cosciente di un sentimento generale al quale,
sia per mantenere il suo prestigio, sia per spiccato senso di responsabilità, vorrebbe
offrire proposte risolutive, atte a rifondare, sul piano simbolico e rituale, l’unità
spaziale e sociale minacciata dalla più recente e caotica espansione urbana.
L’arroccamento dei cortei della congrega dell’ Addolorata acquista ora significati
paradossali: da una parte sembra che la congrega, per rifondare la percezione del
centro comunitario, proponga di seguire un simbolismo rituale articolato in partizioni
territoriali minori che sono tradizionalmente funzionali alla ricerca di una più
complessa identità unitaria sia di tipo spaziale che sociale 29; dall’altra parte potrebbe
essere frutto di una vaga consapevolezza che le liturgie e i simboli congregazionali,
non più pregni di potenza carismatica, siano ormai inadatti a rifondare l’identità
culturale della nuova spazialità che comporta un più ampio concetto di centro
comunitario.
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Ma se i riti passionistici della Settimana Santa sono il fulcro liturgico e simbolico delle
congreghe di Amantea, se essi possono essere letti anche come espressioni
paradigmatiche del lutto e della morte (metaforicamente assunti nella figura
dell’Addolorata e del Cristo Morto), l’attività confraternale prefigura anche un più
concreto rapporto con il fenomeno della morte.
Nel toccare tale argomento è necessaria una breve premessa chiarificatrice della
concezione della morte. La morte non esiste, dice Epicuro nella lettera sulla felicità:
«quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi» 30. La morte,
come entità ontologica, non fa parte del bagaglio delle esperienze umane. La coscienza
della morte è costituita dalla rappresentazione empirica di essa; «dall’interazione di
una coscienza oggettiva che riconosce la mortalità, e di una coscienza soggettiva che
afferma, se non l’immortalità, almeno una forma di permanenza attraverso la morte»
31.
Sono ormai molti i riferimenti che l’antropologia culturale ha trovato tra le
confraternite e il mondo dei defunti: dal rito particolare del «memento mori» dei
paternostri o comunicati (confratelli) di Caulonia 32, alla gestione generale delle
liturgie dei defunti che tutte le congreghe hanno svolto a partire soprattutto dal
rinascimento. Molte volte gli stessi congregati venivano identificati con i morti e le
loro processioni divenivano, nell’immaginario popolare, processioni dei morti (cortei
di spiriti).
I luoghi che divenivano teatro di eccidi andavano liberati dall’anima vagante del
defunto che si riteneva potesse aggirarvisi minacciosa alla ricerca dell’acquietante
vendetta 33. Processioni e riti notturni di requiem, svolti dai congregati, avevano il
compito di riscattare al controllo dei vivi (alla spazialità nota e addomesticata) il luogo
dell’eccidio che aveva subìto violentemente una caduta vitale, divenendo luogo di
morte. Questi riti esorcistici prevedevano spesso lunghe processioni delle confraternite
che accompagnavano, simbolicamente, l’anima del defunto nella cappella
confraternale o cimiteriale.
In più paesi (Amantea, Nocera Terinese, Soriano Calabro) ho potuto rintracciare
racconti che affermano di incontri fatti da vecchi con le anime dei morti e le loro
testimonianze sono così lucide e pregne di una dettagliata materialità da far dubitare
che siano solo visioni di un universo immaginario, proiezione inconscia e riassuntiva
del mondo reale. Oltre alle note processioni dei morti, spiegabili spesso come cortei
svolti da congreghe per riscattare alcuni territori dall’infestazione dei defunti e
riconsacrarli alla domesticità umana, ho trovato anche molto interessante i racconti
circa la partecipazione di qualche vivo alle liturgie dei morti. In tali racconti c’è
sempre una persona (uomo o donna) che, svegliandosi prima dell’alba per svolgere
delle attività lavorative esterne, vede, passando nei pressi di qualche chiesa o cappella,
la luce delle candele attraverso i vetri o le fessure della porta. Per devozione e curiosità
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entra e si ritrova con una moltitudine di incappucciati intenti a svolgere funzioni sacre.
Al sopraggiungere del visitatore l’assistente spirituale, dal presbiterio, rivolge a tutti
un metaforico e codificato invito: «i morti rimangano, i vivi se ne vadano!»; il nuovo
arrivato non vede uscire nessuno e subito dopo gli sovviene che si tratta di una messa
dei morti (particolare funzione sacra che si crede svolta e partecipata dagli spiriti dei
defunti) e intimorito si allontana alla svelta.
Il racconto, al pari di quelli che trattano delle processioni dei morti, è la sublimazione
di una casuale esperienza soggettiva riferita, molto probabilmente, alla imprevista
partecipazione di un estraneo alle segrete funzioni devozionali, riservate
statutariamente ai soli fratelli congregati. Ma sia che si tratti di una visione che di una
reale adunanza confraternale, il malcapitato viene allontanato mediante una
comunicazione che identifica i confratelli con i morti. L’identificazione, immaginaria
o pretestuosa, nelle antiche congregazioni era un fattore esplicito, ma ciò non
costituiva coscienza per le categorie più disagiate della comunità che, nel mondo
congregazionale, vedremo, entreranno tardi, quando questo era decadente e
notevolmente trasformato.
Nell’assumere il ruolo di mediatrici tra il mondo dei vivi e quello dei morti, le
confraternite elaborarono dei criteri metodologici atti a mortificare (condurre a morte)
l’identità individuale dell’io egoista e superbo e a fondare un’entità e una identità di
gruppo altruistica e umile; da qui si comprende l’affermazione dell’identico abito che
rende uguali nel gruppo e soprattutto del cappuccio che annulla l’identità individuale
34. L’intrinseco valore d’uso del cappuccio si fonde con il valore simbolico. Esso, oltre
a sospendere l’ordinaria entità e identità individuale dei confratelli, mira a edificare e
rendere oggettivo, cioè riconosciuto dalla comunità, lo stato carismatico e sacrificale
abbracciato dai singoli congregati. La morte dell’identità individuale e l’esaltazione di
una vita congregazionale, consente alla confraternita di caricarsi di quella forza
medianica atta a instaurare un contatto tra il mondo reale e il mondo dell’immaginario,
tra l’universo fisico e l’universo metafisico. Nella morte simbolica di «sé» ogni
confratello trova la necessaria protezione per affrontare collettivamente i rischi insiti
nelle funzioni funebri che mettono il sodalizio a contatto con il mondo sconosciuto, e
pertanto rischioso, dell’ade, dei morti.
Il vestimento delle confraternite, a volte, comprende il cappuccio, ma questo
generalmente non ha più la funzione originaria. L’analisi di alcuni segni che si
colgono in coloro che usano il vestimento induce a considerare la decadenza di tale
stato sacrificale e carismatico delle confraternite. Non praticare l’uso del cappuccio
per annullare le identità individuali (come avviene in Amantea e ormai in moltissimi
altri centri) è uno dei segni che affermano il processo di disgregazione delle valenze e
dei valori collettivi. È segno che si dissolve quella prassi che consentiva alla comunità
confraternale di acquistare spessore nella mortificazione dell’individuo, proteso a
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ricercare un’identità astratta di tipo collettivo. Le confraternite di Amantea, da questo
punto di vista denotano una situazione per così dire pregressa e si trovano a uno stadio
ancora più avanzato rispetto a quello che potremmo definire il secondo stadio, data la
scala dei livelli che qui si propone.
Il primo livello è quello dell’uso del cappuccio come occultatore dell’identità
individuale. Il secondo livello è l’uso parziale del cappuccio, come in Amantea
durante la processione delle varette: non nasconde il volto ma protegge dalle spine
della corona che cinge il capo dei confratelli. Il terzo livello è dato dalla sistemazione
del cappuccio come semplice ornamento omerale. Il quarto livello è quello che
imprime al cappuccio la riduzione del modello a tal punto da renderlo inutilizzabile 35.
Il quinto livello è dato dalla scomparsa totale del cappuccio e in quest’ ultimo caso
rientrano spesso forme residuali di confraternite i cui aderenti non hanno più alcuna
consapevolezza della formale associazione d’origine.
Le confraternite di Amantea hanno un cappuccio terminante a punta e con due fori
indicativamente all’altezza degli occhi. Anch’esso è bianco come il saio e, nella parte
ampia, ha due fasce di stoffa a forma di lingua, una anteriore e una posteriore. Il
cappuccio è nascosto dietro le spalle dalla mozzetta e su questa viene ripiegata solo la
lingua di stoffa superiore che, ricadendo lungo la schiena, contrasta con il colore della
mozzetta medesima. La semplice funzione estetica del cappuccio è sottolineata anche
dal rito con cui esso viene indossato 36.
I significati principali ai quali rinvia l’uso del saio e del cappuccio non esprimono più,
dunque, la forza di promuovere quel processo di osmosi, in cui una parte essenziale
del «sé» cede spazio all’entità collettiva e si riconosce in essa. Questi segni indicano,
di contro, l’emergere di valenze e valori individualistici che rifondano l’esperienza
confraternale dell’epoca contemporanea in associazioni al cui interno prevale la
ricerca di una identità collettiva intesa come sommatoria soggettivistica. Questa prassi
additiva del soggettivismo individuale si contrappone a quella sottrattiva
dell’individualismo e scardina il sistema precedente in cui una parte dell’individualità
si sacrificava per la socialità e instaura un nuovo sistema dove, viceversa, una parte
della socialità viene sacrificata per l’individualità.
Mi sia concesso fare alcune rapide e generali considerazioni di carattere storico sulla
rifondazione dell’esperienza confraternale moderna che muove certamente
dall’avvicendamento, negli istituti congregazionali, di classi subalterne in ascesa e ceti
dominanti in decadenza.
Le istituzioni confraternali, derivanti o meno dai Collegia Illicita, promanano dallo
spirito fraterno presente già nelle primitive Ecclesiae cristiane di base che
promuovono quel salto di qualità realizzato dall’ideale cristiano tendente a moderare
lo spirito egoistico (pieno di «sé») e stimolare quello altruistico, a dilatare il rapporto
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fraterno al di là dei vincoli di parentela, dispiegando il concetto di «prossimo» dal
familiare all’ausiliatore 37
Mentre una parte di quelle comunità, si trasformarono, rapidamente, in istituzioni
religiose «regolari» (strutturandosi in termini gerarchici e dando vita alle
congregazioni monacali), nell’ultimo medioevo, le comunità laicali di base
incominciarono a darsi statuti giuridici che si ispiravano a tre principî fondamentali:
1 - Il mutuo soccorso che tra i consociati condurrà poi allo spirito corporativistico;
2 - La pratica della carità che muoveva dallo spirito di solidarietà e di tolleranza verso
il fenomeno del pauperismo;
3 - La diffusione della vita cristiana e l’edificazione della pratica liturgica tra i laici.
Gli aderenti alle confraternite appartenevano a categorie sociali con redditi
quantomeno decorosi che, per soccorrere le categorie sociali più indigenti, avevano
realizzato un vivace sistema di autofinanziamento basato su lasciti e donazioni. Le
confraternite divennero organismi finanziarî che gestivano istituti di cura e di carità,
praticavano il prestito a interesse, nonché contratti di fitto ed enfiteusi sui beni
accumulati 38.
Nell’età moderna, con l’ingresso, in esse, di una rilevante massa sociale medio-bassa e
con il fermento dello spirito controriformistico con cui Gregorio XV aveva fondato
l’istituto di Propaganda Fide, le confraternite laiche furono pervase da un rinnovato
zelo e vennero mobilitate per sostenere la Chiesa Cattolica, per arginare l’eresia, lo
scisma e la corruzione della fede in generale.
Nel regno di Napoli e delle Due Sicilie, in seguito agli interventi di soppressione e di
confisca dei beni, gli scopi e le pratiche sociali persero vigore e le confraternite
vennero, di fatto, troppo rapidamente abbandonate39. Il conseguente vuoto rituale e
liturgico veniva colmato, ancor più rapidamente, anche dietro sollecitazioni
ecclesiastiche, da nuove categorie sociali, provenienti da classi sociali subalterne che
trovavano appagante essere ammesse (o addirittura insediarsi in massa) negli antichi
sodalizî. Attraverso questi le categorie sociali subentranti potevano affermare, sul
piano dei segni, il prestigio che promanava da una maggiore vicinanza e familiarità
con istituzioni e organizzazioni «sacre»: attraverso queste i nuovi congregati
divenivano protagonisti in molteplici occasioni liturgiche e festive calendarizzate dalla
comunità.
È stato spesso rilevato che dal ’700 in poi si riscontrano molti documenti e note che
esprimono valutazioni critiche, anche se discutibili, nei confronti di numerosi
comportamenti e riti religiosi confraternali del Meridione. Ma se questi giudizi
esprimono un punto di vista distante dal nostro, c’è anche da chiedersi il perché, da
dove muovono e quali possono essere, ragionevolmente, compresi 40.
La quantità di annotazioni critiche verso molti aspetti liturgici congregazionali del
Meridione è dovuta anche al fatto che nel Mezzogiorno si è concentrata,
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maggiormente, l’attenzione degli studi demologici. D’altra parte, il disappunto
espresso da molti osservatori rinvia a quei fenomeni di decadimento che hanno
accompagnato la trasformazione storica degli istituti congregazionali e alla
conseguente rifondazione della pratica liturgica da parte di categorie sociali con
differenti prassi rituali, subentrate, improvvisamente, nell’organizzazione
confraternale.
Quando le classi subalterne conquistarono l’istituto organizzato delle confraternite, da
semplici strumenti economici incominciavano a diventate soggetti della recente storia
politica. Le loro opere, le istituzioni che hanno animato, i pensieri che hanno dato alla
comunità, gli affetti che hanno suscitato sono stati investiti di un più elevato senso
sociale che li ha resi più vigorosi.
Questo discorso apre polemiche e problematiche che dispiegherebbero un dibattito
troppo ampio; in questa sede esso ci interessa solo nella misura in cui rientra nel tema
del mio intervento.
Gli strati sociali non protesi verso l’affrancamento sono occupati soprattutto a
soddisfare i bisogni materiali o primari, così come li intendono Marx ed Engels ne
L’Ideologia tedesca 41. Alla precarietà della vita corrispondono anche rituali poveri,
ma che spesso sono complessi nei modelli culturali e nei sistemi ideologici 42. Con
l’avvio del processo di affrancamento culturale ed economico, le classi subalterne
hanno guardato, con rinnovata energia, ai bisogni di tipo onnicomprensivo, cioè di tipo
materiale e intellettuale, come li definisce Malinowski, e quindi anche all’elaborazione
di rituali più articolati concentrandosi, in particolar modo, intorno ai riti funebri.
L’attenzione verso questi riti derivava dal fatto che i riti funebri erano quelli più
codificati della religiosità popolare (spesso l’estrema unzione era l’unico sacramento
assunto dopo il battesimo); ma anche perché il lutto ed il cordoglio attivavano in pieno
(e ancora oggi attivano) quel codificato mutualismo che si esprime in reciproci doni e
comportamenti obbliganti che sorreggono il complesso sistema relazionale incentrato
su rapporti di vicinato, di conoscenza, di parentela, di comparatico 43.
L’amministrazione funeraria e la sepoltura dei congregati sono alla base della attività
economica e sociale di molte confraternite, così anche di quelle di Amantea. Le
energie che queste hanno riversato e riversano nella prassi funeraria è così intensa e
ben amministrata che le autorità civiche riconoscono in essa un valido supporto
sociale, capace di assorbire gran parte dell’impegno municipale per la gestione
economica e organizzativa della sepoltura cimiteriale 44. Ma tale attività incomincia
ora a essere percepita come ultima spiaggia, unica attività ancora sentita dagli stessi
confratelli; in tutte le congreghe aleggia ormai la sconsolante consapevolezza di
svolgere, ormai, un’attività simile a quella delle Società di Mutuo Soccorso o
addirittura collaterale alle imprese di Onoranze Funebri. Le confraternite svolgono,
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attualmente, solo una modesta opera di animazione della vita religiosa parrocchiale,
soprattutto in occasione di alcune processioni, ma assolvono ancora, in maniera
esemplare, a tutta una serie di attività economiche e amministrative finalizzata a
predisporre una buona morte dei confratelli con il semplice versamento di una piccola
quota annuale 45.
La gestione dell’evento luttuoso nella sua prassi organizzativa, dall’acconciamento dei
morti nella bara, all’allestimento della camera ardente, all’accompagnamento, alla
tumulazione dei feretri e alle preghiere in suffragio dell’anima dei confratelli defunti, è
meticolosamente codificato dalle confraternite di Amantea in una serie di servizi e di
precisi atti burocratici volti ad amministrare la fase del trapasso : riversali, ricevute,
verbali, bolle, ecc.
«Le nostre attività principali sono i funerali e la tumulazione dei morti. Noi offriamo
agli iscritti la cassa con zinco e imbottitura. La cassa è un tipo unico per tutti, salvo per
quei confratelli che risiedono fuori; allora la cassa la comprano nelle città dove
risiedono i familiari e noi corrispondiamo la somma equivalente al costo della cassa
deliberata per tutti, secondo i contratti stipulati dalla congrega. Poi offriamo il
trasporto della salma dalla casa alla chiesa e dalla chiesa al cimitero; una Messa, o alla
cerimonia funebre o alla settimana o al mese, come preferisce la famiglia, il loculo per
venti anni non rinnovabili; alla fine dei venti anni si provvede a traslare i resti in un
ossario; offriamo anche la tumulazione, la chiusura del loculo, la lapide con
l’iscrizione in bronzo a caratteri romani di cm. 3» 46.
Da questo meticoloso elenco risulta la precisione con cui la confraternita cura i servizi
e la dotazione per la morte di un congregato.
Le confraternite, in tale prospettiva, attenuano il rischio della perdita della presenza,
sia come processo psichico o psicologico studiato da E. De Martino, sia come
sbiadimento delle capacità oggettivanti dell’individuo. In altri termini le congreghe
attenuano l’angoscia della morte, intesa come fenomeno che limita o annulla la
possibilità di proporre, produrre e riprodurre sensorialmente la propria presenza
mediante le tecniche e i simboli variamente e appositamente elaborati da ogni cultura.
Con le cerimonie funebri le confraternite intendono evitare, o quantomeno ritardare
quanto più possibile, che una presenza - per dirla con le parole di De Martino «caduta in crisi di oggettivazione o di trascendimento passa essa stessa in luogo di far
passare, perdendo se stessa nel contenuto e il contenuto in se stessa (...)» 47.
I riti marginali di oggettivazione della presenza tendono a non far passare la crisi nella
quale il defunto è caduto e a mantenere la crisi il più a lungo possibile per ritardare o
impedire che il defunto, e con esso tutto ciò che è stato in grado di tradurre in forma
autonoma, passi in maniera definitiva. Così, ogni forma di oggettivazione può essere
letta come un rituale di controllo culturale della morte per allontanare da «sé»
l’indistinto e l’indistinguibile attraverso cui tutto passa nell’eterno oblio. Conservare
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oggetti di un morto denota la volontà di non far passare, di far fermare e di far
sopravvivere il morto e le sue qualità edificanti.
La consapevolezza che la confraternita è preposta a istruire le pratiche funebri e le
liturgie del trapasso, nonché a produrre e ri-produrre, incisivi e duraturi nel tempo,
molti segni, ricordi e simboli del defunto, lenisce l’angoscia dell’eterno oblio e
rafforza la speranza di prolungare quella sorta di «vita» o di stato larvale che si ritiene
raggiungano i defunti dopo la morte.
In tutte le culture vi sono riferimenti a un periodo durante il quale il defunto viene
lentamente trasposto nell’universo dei trapassati e questo periodo è più o meno denso
di significati allegorici a seconda che, rispettivamente, si tratti di una cultura più
primitiva o più complessa 48. Il pensiero primitivo ritiene che gli uomini quando
muoiono subiscano «un grande mutamento che nel complesso peggiora il loro
carattere e la loro indole, rendendoli suscettibili, irritabili e collerici, facili ad
offendersi al minimo pretesto, a far ricadere sui vivi il loro scontento, affligendoli con
disgrazie di tutti i generi» 49.
La cultura popolare calabrese, pur conservando retaggi del primitivo pensiero, esprime
«la credenza che i morti possano influire sia nel bene come nel male sulla vita degli
uomini» e ciò - dice ancora Frazer - «crea una notevolissima differenza tra il concetto
che l’uomo primitivo e l’uomo civile hanno, rispettivamente, della vita dopo la morte»
50. Su tali argomentazioni vi sono in Calabria diverse indagini antropologiche in corso;
basta citare ad esempio gli studi che Luigi M. Lombardi Satriani ha condotto e sta
conducendo sull’ideologia della morte nelle classi subalterne.
Il grande interesse dei cittadini di Amantea verso le confraternite viene spesso
attribuito alla crescente preoccupazione di non avere, al momento del trapasso, tutta
l’attenzione che si vorrebbe da parte dei figli. Questi sono stati cresciuti con scarsa
attenzione verso la morte: ai bambini è comunemente interdetta la partecipazione ai
funerali o si evita accuratamente di coinvolgerli nei dolorosi rituali e pertanto,
nell’evento luttuoso, la confraternita sopperisce alla spontanea e spesso incerta
attenzione e dimestichezza dei familiari.
La processione delle Varette diventa anche metafora di tale atteggiamento:
l’avvicinamento graduale dei protagonisti adulti alle statue che connotano la morte (il
Crocefisso e la bara di Cristo deposto) indica che è stato concluso un primo ciclo di
crescita individuale; questo viene disegnato dal progressivo passaggio e
familiarizzazione con le connotazioni del dolore leggibili negli altri «misteri» o gruppi
scultorei. Anche la confraternita si pone come mediatrice di tale condizione e diviene
essa stessa simbolo di morte: la partecipazione alla vita confraternale è determinata da
un reale e progressivo avvicinamento alla morte: «da giovani non ci si preoccupa della
congrega, poi, quando si diventa anziani i soci incominciano a pensare alla morte» dichiara il segretario dell’Addolorata, e subito dopo aggiunge - «... Io non iscrivo solo
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le persone superstiziose: per esempio se vengono persone anziane, certe volte vengono
a iscriversi marito e moglie, e hanno il dubbio che iscrivendosi dopo poco muoiono,
allora io li sconsiglio. È capitato a volte che si è iscritta qualche coppia di anziani e
che dopo poco tempo uno di loro è morto e allora alcuni si fissano che iscriversi da
anziani porta sfortuna e allora ci parlo e cerco di sconsigliarli se non sono veramente
tranquilli» 51.
Si intravede, qui, il convincimento che un approccio tardivo con la confraternita
comporti un più alto rischio di morte, come se nell’istituto confraternale che presiede
ai riti funerari si identificasse l’attività di dispensare la stessa morte. L’avvicinamento
simbolico e quello reale verso la defunzione si conclude con la sovrapposizione dei
due universi; ciò è anche rilevabile nel rapporto precoce con la congrega, quello che
avviene con la prima iscrizione, generalmente alla nascita o da bambini. In questo caso
non vi è timore, poiché la graduale familiarizzazione dell’infante con i riti
confraternali prefigura il lento avvicendarsi da protagonisti nei gruppi scultorei delle
varette e quindi un progressivo avvicinarsi all’universo reale e simbolico del dolore e
della morte. La congrega esercita, perciò, un utile e propedeutico ruolo, vicario del
mondo dei morti. Interessante ad esempio è stato il colloquio svoltosi tra una signora e
il segretario della confraternita dell’Addolorata. Durante un mio giro di indagine una
signora si era recata all’ufficio della confraternita - diceva - per avere notizie della
madre defunta e il segretario le diede tutti i ragguagli del caso, circa la situazione
amministrativa e la vita larvale della defunta: il tempo trascorso e quello che rimaneva
ancora da trascorrere nel loculo, la relativa manutenzione effettuata a carico della
confraternita, la data in cui sarebbe avvenuta la riesumazione e la collocazione delle
ossa in un’urna ecc.
Riaffiorano, qui, processi di oggettivazione di «sé» attraverso la componente eidetica:
la permanenza di immagini e di segni offre una maggiore sicurezza e durata dello stato
larvale. Il segno principale di ciò è costituito dalla consuetudine di voler sublimare i
segni, le dotazioni e le opere funerarie. Il generale uso della pietra pregiata, dei marmi,
dei graniti per la tomba, la lapide e le statue di ornamento sepolcrale, appare
indiscutibilmente come una scelta eccezionale di oggetti di qualità superiori a quelli
posseduti in vita. La pietra tombale è concepita come una sorta di pietra miliare, posta
a ricordo e possibilmente a imperitura memoria; essa sfida il tempo e lo fa passare
conservando segni oggettivi e autonomi del defunto: il nome e le generalità, l’epigrafe
e l’immagine fotografica.
Molto interessante è proprio il rapporto tra lo stato della defunzione e la fotografia. A
tale proposito si rinvia alla vecchia costumanza popolare di fotografare il morto poco
prima di tumularlo. La fotografia, in vita, era stata spesso percepita come uno
strumento magico attraverso cui il fotografo, appropriandosi dell’immagine si
appropriava anche dell’essenza del soggetto fotografato e poteva esercitare, in qualche
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modo, un potere su di esso. In morte, quando cioè cessa la capacità di proporre la
propria immagine autonomamente, la fotografia diviene strumento necessario e
indispensabile alla perpetuazione del «sé»; essa non è più temuta, ma bramata, perché
in essa possa essere traslato il «sé» rappresentato 52. Il diffondersi dei ricordini funebri
con la fotografia del defunto, da distribuire agli amici anche come ringraziamento per
la partecipazione al cordoglio, si iscrive nei riti di oggettivazione reiterata
dell’immagine di «sé».
I processi e i riti fondatori di sé e della propria presenza sono inscindibili dalla
componente eidetica. La presenza, intesa come riscontro oggettivo dell’esistenza, è
soggetta alla caducità e perciò può perdere la forza oggettivante e tradursi in una
presenza parziale o inefficace: è il caso di persone esistenti, ma della cui presenza la
comunità non ha conoscenza o ha scarsa memoria.
La presenza di sé, per poter essere oggettivante e oggettivarsi, va proposta. La prima
proposta rituale di sé nella confraternita viene fatta per interposta persona,
generalmente il padre del neonato: è l’iscrizione che si fa un mese dopo la nascita.
L’iscrizione del proprio nome nell’elenco costitutivo del sodalizio, nei registri, la
ripetizione di esso in altri atti, costituisce ulteriore ed elementare prassi per
l’oggettivazione della presenza di sé all’interno della congrega.
Si tratta di vere e proprie azioni fondanti. L’importanza che viene attribuita
all’iscrizione del proprio nome ci viene meglio chiarita da un rito che si svolge a
Motta Santa Lucia, nella Società Operaia di Mutuo Soccorso 53. Quando muore un
socio la Società provvede agli onori funebri con il Vessillo accompagnando, in
gruppo, il feretro al cimitero, dove possiede una Cappella e le cripte per la sepoltura.
Dopo l’ultima benedizione del prete, il presidente o un suo delegato trascrive nel
registro di morte il nome del defunto declamandolo ad alta voce e tutti i soci in coro
rispondono gridando: presente! L’imprimere il nome sul registro è dunque ritenuto
segno vicario dell’esistenza, presenza virtuale che conferma e dilata, nel tempo e nello
spazio, l’esistenza stessa.
Nelle confraternite in esame, ma anche in altri sodalizî simili e in pseudoconfraternite
54, l’intento di fondare la memoria di sé sulla percezione visiva dei segni e delle
immagini pervade la partecipazione alle sacre liturgie di quei pochi confratelli che
indossano gli abiti congregazionali. Tale atto deriva dal bisogno di presenziare e
produrre quantitativamente e significativamente la propria immagine e i rituali
pubblici, si sa, posseggono un alto fattore ri-produttivo dell’immagine.
I confratelli di Amantea, che usano ancora l’abito congregazionale, sono uomini dai
visi scuri, segnati dal sole e dalla salsedine. In prossimità della imponente gradinata
sacra, nei giorni di festa grande, essi attendono il momento opportuno per indossare il
loro «vestimento». Lo portano devotamente in un piccolo involucro e l’incertezza e la
gravità dei movimenti e lo sguardo di chi è abituato a scrutare l’orizzonte, coronano la
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solenne determinazione di quegli uomini antichi e la volontà insopprimibile con cui
danno vita a quel rito; neanche l’evidente ebbrezza di qualcuno è valsa a indebolire la
sua decisione. Nella lenta agonia di quegli individui, le cui esperienze racchiudono un
universo socialmente significativo, si legge la volontà di non lasciar morire quel segno
confraternale che rappresenta l’universo socio-culturale entro cui il sé ontologico di
ciascuno di essi si è formato e si è affermato.
L’uomo moderno, inteso sia in senso individuale che collettivo, rapporta tutto ciò che
lo circonda alla propria dimensione egocentrica. La ben nota Figura Vitruviana di
Leonardo da Vinci, archetipo grafico del rinascimentale rapporto a misura d’uomo,
può essere assunto come ideogramma del rapporto tra il sé soggettivo e la realtà
circostante.
Il «sé» ontologico dell’individuo, in quanto entità culturalmente significativa
dell’universo, si percepisce come centro e modulo sociale, come realtà universale e
modello di ogni altra situazione individuale possibile. Solo attraverso la dimensione
percettiva e la prassi dialettica può esistere il dispiegamento verso la conoscenza di un
altro sé. Senza la dimensione percettiva non potrebbe esistere altro sé all’infuori del sé
pensante e qualsiasi dissociazione da sé sarebbe impraticabile; ogni tentativo di
viaggio al di fuori di sé, ogni esplorazione e trascendimento provocherebbe un
disperato oblio confusionale e un ansioso bisogno reintegrativo del modulo iniziale.
Nel secolo XVIII, quando già era stato delineato il tracciato del nuovo abitato sulla
pianura costiera che apriva altri orizzonti all’economia cittadina 55, l’universo dei
marinari conservò ancora la forza di sviluppare una propria egemonia sul nuovo
nucleo urbano. Trasformò la struttura economica derivante dall’attività della pesca,
basandola sull’industria della lavorazione e conservazione del pesce, rilanciando il
commercio attraverso i nuovi mezzi di comunicazione terrestre.
I segni e i simboli della propria cultura scandirono ancora i luoghi del nuovo
insediamento urbano. La congrega del Rosario o dei marinai estese al nuovo sito il
percorso processionale del Venerdì Santo (ampliando quello originale) e segnò il
nuovo spazio con appellativi del proprio universo culturale: nuovo borgo marinaro,
Via dei Marinari (nella toponomastica ufficiale: Via R. Margherita), via Dogana ecc.
Ma ora sono scomparse sia la cala che le vele. Il nuovo borgo marino è cresciuto oltre
misura con attività che esulano dall’economia marinara e pertanto non può più essere
controllato, umanato e protetto egemonicamente dalla cultura antica.
L’inevitabile interazione tra il mondo tradizionale e il mondo contemporaneo
composto da individui connotativamente simili e culturalmente diversi, la percezione
di un mondo molto differente da quello della propria formazione culturale, apporta un
disorientamento che può condurre allo smarrimento si sé, alla perdita della presenza
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come è intesa da De Martino in Morte e pianto rituale. Ma, allo stesso tempo, consente
il dispiegarsi della nozione di sé poiché ogni individuo acquista rilievo e spessore nel
confronto con gli altri e gli altri vengono definiti in rapporto a se stesso.
Lo svolgimento dei riti e la fruizione di essi in termini eidetici si configura come
processo culturale per l’oggettivazione di sé, ma anche del gruppo. I processi
oggettivanti devono iterare, andare, vagare, proiettare immagini e simboli di sé nello
spazio perché possano essere percepiti, codificati e decodificati dagli altri. Nel far
questo essi interagiscono con gli ordinamenti sociali e simbolici primitivi
confermandone o riassettandone aspetti più o meno specifici che ridefiniscono le
convenzioni. Queste, sviluppandosi in termini ripetitivi e al contempo innovativi,
fondano la tradizione che opera seguendo un percorso a forma di spirale: ripropone la
stessa forma circolare per offrire l’illusione che nulla cambia, spostandosi, in maniera
più o meno evidente, su un’elicoide di poco discosta dalla precedente, per procede su
un itinere sempre diverso, ma che mantiene costanti e molteplici punti di riferimento
col percorso già compiuto e prefigura i punti di riferimento del tragitto ancora da
compiere.
Note
1 La città di Amantea, nel 1964, è passata dalla diocesi di Tropea a quella di Cosenza e ciò ha
determinato, intorno agli anni del cambio di Curia, una certa difficoltà nel reperire
testimonianze orali presso le autorità ecclesiastiche: le prime le hanno dimenticate e le seconde
non conoscono abbastanza bene la situazione di partenza.
2 La lettura di statuti vecchi e nuovi evidenzia il decadimento del mondo confraternale. Vedi ad
esempio il Regolamento della Confraternita dell’Addolorata di Amantea, (con approvazione
canonica ad experimentum per il primo quadriennio, Cosenza 22 gennaio 1975 e successive
approvazioni) che non autoprescrive più, imperativamente e autorevolmente, di partecipare alle
processioni, ma si invita «possibilmente» a intervenirvi.
Cfr. anche, lo Statuti per le Confraternite dell’Arcidiocesi di Catanzaro e della Diocesi di
Squillace (1931), che all’art. 12 recitava: «(...) (I confratelli) Dovranno inoltre intervenire alle
processioni consuete e deliberate dalla Confraternita, vestiti dell’insegne che porta la medesima
e subire le multe stabilite in caso di assenza». Invece, la Bozza Statuto Diocesano per le
Confraternite ed i Comitati Parrocchiali dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano (1981), per il
quale si creò una profonda incomprensione tra la curia e molte confraternite della diocesi, in
premessa stabilisce: «Pertanto viene presentato il presente Statuto Interdiocesano come avente
vigore di legge sinodale dal 1-1-1982, in abrogazione di qualsiasi altra disposizione vescovile
precedente e di ogni usanza o diritto di privati o gruppi, che fossero al presente Statuto contrari
o con esso incompatibili. Infine soltanto la legge civile vigente e gli organismi da essa
riconosciuti competenti saranno idonei interlocutori dell’autorità ecclesiastica per
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l’interpretazione e l’applicazione del presente Statuto». E più avanti, agli articoli 38-39-40,
continua disponendo che «le entrate attive di qualsiasi provenienza devono essere erogate
esclusivamente per le spese di culto» e nella eventuale questua unica comune tra celebrazioni
religiose e celebrazioni civili stabilisce che un terzo entri nelle Casse delle Confraternite.
Oltre ai documenti, statuti e regolamenti delle confraternite di Amantea ho consultato:
Libro delle costituzioni della Venerabile Confraternita dell’Immacolata di Conflenti 19161886;
Officio della Santa Disciplina esercitato dalla Congregazione della Beata Vergine Annunciata
di Nocera Terinese (copia del 1826);
Regola della Congrega della Beatissima Vergine Addolorata e della Buona Morte nel Comune
di Nicastro, in Provincia della Seconda Calabria Ulteriore ;
Regola da osservarsi dai Fratelli della Venerabile Congregazione della Beata Vergine
Annunciata della Città di Nocera della Calabria Citra (copia del 1826);
Regola della Venerabile Congregazione di S. Maria del Suffragio eretta nella Città di Nocera
della provincia di Calabria Citra in diocesi inferiore di Tropea (approvazione del 1777);
Regola dell’Arciconfraternita del SS. Rosario della Città di Policastro (estratta dal Registro
Privilegiorum della Real Camera di S. Chiara in Napoli, 1820), ecc.
3 Altre confraternite sono scomparse, come la congrega di S. Giovanni Battista e del
Sacramento. Quella di S. Maria delle Grazie non ricade più nel territorio comunale di
Amantea, da quando la frazione di in S. Pietro in Amantea è stata elevata a comune. In merito a
questa congrega, una relazione della Prefettura di Cosenza, del 1911, spedita al Ministero degli
Interni, comunica che il vescovo di Tropea, mons. Leo, aveva ordinato al parroco Muti di
celebrare le funzioni della congrega di S. Maria delle Grazie, ma i congregati non vollero aprire
la porta della loro cappella. Il vescovo decise quindi di rinviare le celebrazioni al 29 giugno e la
mattina di tale giorno si presentò in Amantea dove gli andò incontro una delegazione di 121
cittadini di S. Pietro in Amantea che chiese la sostituzione del parroco. Il prelato rifiutò la
proposta e si profilarono manifestazioni ed incidenti che vennero scongiurati con rinforzi dei
carabinieri. (Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero dell’Interno, Direzione Generale
di Pubblica Sicurezza, busta n. 15).
4 Cfr. V. Segreti, Appunti per una storia della marineria amanteana, in «Il Corriere Calabrese»,
a. II, n. 1, gennaio-marzo 1992.
5 V. Padula, Calabria prima e dopo l’Unità, a cura di A. Marinari, Ed. Laterza, Bari 1977, vol I,
p. 211.
Confrontando alcuni dati documentali (Ministero e Real Segreteria di Stato degli Affari Interni,
Specchio della Marina Mercantile dei Reali Domini di qua dal Faro al 1° luglio 1835, Napoli
1836; Specchio della Navigazione Commerciale dei Reali Domini di qua dal Faro per l’anno
1854, Napoli 1855; citati da G. Sole, La pesca ed il mare nella Calabria tradizionale, in
«Dedalus» n. 7-8, luglio, dicembre - gennaio giugno, Castrovillari 1992, pp. 105-106; Id.,
Viaggio nella Calabria Citeriore. Pagine di storia sociale, Ed. Amministrazione Provinciale di
Cosenza, Cosenza 1985, pp. 116-120) si può leggere il progressivo decadimento dell’attività
marinara di Amantea.
6 «La confraternita è stata fondata nel 1895. I primi fondatori furono trenta Religiosi.
Attualmente conta 1600 tra confratelli e consorelle.
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La prima uscita dei confratelli avvenne in occasione delle Quarant’ore del martedì Santo dello
stesso anno di fondazione. Si vestirono di saio con la mozzetta rossa in una antica chiesetta,
«Madonna delle Grazie» di proprietà dei nobili Cavallo-Marincola, sita nel quartiere storico
della nostra cittadina. Di li si recarono in corteo alla chiesa Matrice, parteciparono alla
processione del martedì Santo. Da quel giorno divenne sede della confraternita la chiesa
Matrice (parrocchia di S. Biagio).
(Da una relazione letta dal sig. Bossio Saverio al raduno regionale delle confraternite, datata 25
maggio 1980).
7 «Facciamo visita ai confratelli ammalati e quando capita che entriamo in gruppo nella casa di
questi si nota che hanno un grande sollievo e si sentono molto meglio per la consolazione che
gli diamo a star loro vicino. Facciamo anche delle opere di carità.
Quando è morto un sacerdote molto povero, Don Giovanni Posa, che celebrava la messa in un
garace perché era senza chiesa, l’abbiamo accolto nelle nostre cripte senza che pagasse una lira.
La sua famiglia discende da S. Pietro in Amantea, ha una sorella anch’essa molto povera e i
familiari volevano tumularlo con la congrega dell’Addolorata, ma quelli gli hanno detto che
dovevano pagare. Un’altra volta, nel 1935, c’era una suora, suor Leontina, mi pare che si
chiamasse Sciumbata, ed aveva 24 anni ed era molto bella. È morta di tubercolosi, allora si
moriva per la tubercolosi. L’abbiamo tenuta per 50 anni nelle nostre cripte; poi nel 1985
l’abbiamo fatta riesumare e abbiamo deposto l’urna sull’altare della chiesa in attesa di
individuare un decoroso posto in ossario. Le monache portarono l’urna alla cappella dell’altra
congrega, ma io me la feci restituire perché non si dovevano permettere, senza un nostro nulla
osta, di ricevere un’urna che era stata nostra per 50 anni». (Intervista a Bossio Saverio, Cassiere
della confraternita del Sacro Cuore e Priore ad interim per decesso dell’ultimo priore. Il tempo
ed il suo impegno sembrano aver convalidato ormai la sua carica non ancora formalmente
ratificata dall’assemblea).
8 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano 1978, p. 325.
9 Il borgo marino, come si nota nella xilografia del geografo G. B. Pacichelli, in «Descrizione
del Reame di Napoli», 1703, in tale anno era costituito da qualche edificio civile intorno
all’approdo e dai due conventi di S. Bernardino e Cappuccini. Dopo un modesto sviluppo avuto
nel secolo scorso è divenuto, negli ultimi decenni molto più vasto e popolato del centro antico.
10 Traduzione letteraria: mezzogiorno in poi, cioè quelli che lavorano mezza giornata e cioè
hanno poca voglia di lavorare.
11 Per quanto concerne tali studi si rinvia soprattutto a F. Faeta, Territorio, angoscia, rito nel
mondo popolare calabrese. Le processioni di Caulonia, in «Storia della Città», n. 8, 1978. ID.
(a cura di) L’architettura popolare in Italia. Calabria, ed. Laterza, Roma-Bari 1984.
12 L’Arciconfraternita dei nobili (saio bianco, mozzetta di seta celeste con l’immagine della
patrona e feluca di feltro bianco alla cintola) da tempo non svolge più alcuna ritualità, anche se
alcuni soci intendono riorganizzarla. Essa svolgeva la processione nella ricorrenza festiva della
patrona (8 dicembre) su un percorso molto articolato che, partendo da S. Bernardino
(successiva ed attuale sede della congrega), si snodava sul territorio marino ed anche, più di
ogni altro corteo, su quello della vecchia città. A differenza degli altri percorsi che si
improntano alla semplice circolarità, questo presenta diversi ritorni che sembrano ordire e
ricucire le subpartizioni territoriali del tessuto urbano e suggerisce inoltre l’intenzione di
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affermare il dominio su tutto il territorio comunitario. La presenza pubblica della confraternita
dei nobili ebbe un epilogo spiacevole durante il corteo della visita ai Sepolcri, la sera del
Giovedì Santo, nel 1970: essa fu dispersa da un folto stuolo di giovani studenti e attivisti dei
partiti di sinistra che, sulla scia della contestazione sessantottesca, umiliarono clamorosamente
i partecipanti alla sfilata con fischi, rumori e lancio di prodotti ortofrutticoli di scarto. La
congrega precedeva, per diritto, le altre confraternite nelle processioni unitarie e portava il
palio in quella del Corpus Domini.
13 La congrega dei marinai (saio bianco, mozzetta nera su cui campeggia il medaglione della
protettrice) svolge la festa della patrona (la 1a domenica di ottobre) con un corteo il cui
percorso ricalca quello della processione delle «Varette». Svolge inoltre, contemporaneamente
alla congrega dell’Addolorata, ma segnando ciascuno il proprio territorio, l’adorazione e la
processione di Quarantore nel penultimo Martedì di Passione, su un segmento longitudinale del
centro storico. Suo compito è ancora quello di organizzare e svolgere la «Simana Santa» e
soprattutto la processione delle Varette, la mattina del Venerdì Santo. Questa processione si
inoltra anche nello spazio urbano della sottostante piana marina, compiendo un percorso
«circolare» e costeggiando Viale Margherita e Corso Vittorio E. II che delimitano due lati dei
confini parrocchiali dei Cappuccini
14 I fedeli il cui cognome iniziasse con le lettere D, F, L, M, S, V, ricadevano sotto la
giurisdizione della parrocchia di S. Elia (o del Collegio dei Gesuiti) e così altri cognomi erano
assegnati alla parrocchia di S. Biagio (o Chiesa Matrice o Duomo) ecc. Cfr. Registri
parrocchiali.
15 Generalmente, nelle comunità il cui sistema aggregativo è meno complesso e dinamico, non
esiste spazio per l’accaparramento di nuove adesioni; l’appartenenza è determinata dal diritto
ereditario determinando scarsa duttilità del sistema e rivalità viscerali che coinvolgono anche
elementi dello stesso nucleo familiare.
16 Intervista a Idolo Enrico Morelli, ex impiegato comunale che ha realizzato dal nulla
l’anagrafe dei residenti all’estero e che è stato insignito, dal presidente S. Pertini,
dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per l’alto zelo nel suo lavoro.
17 Intervista a Idolo Enrico Morelli.
18 Da un manoscritto del 1898, opera dell’arciprete don Francesco Pontieri, intitolato «Breve
cenno sulle parrocchie di questa città », (Nocera Terinese), della stessa diocesi, sembra potersi
evincere che la Chiesa si era via via proposta di mitigare le conflittualità territoriali e
procedette alla unificazione di esse sub eodem tecto. Cfr. F. Ferlaino, Vattienti. Osservazione e
riplasmazione di una ritualità tradizionale, Ed. Qualecultura-Jaca Book, Vibo Valentia-Milano
1991, p. 282.
19 I cortei rispettano il seguente ordine:
a - avanti a tutti un vigile urbano si adopera per sgombrare la strada dal traffico;
b - un crocifero con crocefisso astile da corteo;
c - due file di bambini, ragazze e donne che a gruppi di due o tre procedono lungo i bordi della
strada; al centro alcune suore intonano canti liturgici e litanie;
d - un congregato con il saio che porta, issato davanti a sé come un vessillo, un imponente
crocefisso. Egli è affiancato da due piccoli confratelli anch’essi in abito congregazionale;
e - seguono gli altri confratelli (circa quindici) che disposti su due file avanzano lungo i lati
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della via;
f - altri quattro confratelli sorreggono il palio ed un altro l’ombrellino sotto il quale prende
posto l’arciprete in abiti rituali; questi sorregge, alto davanti a sé, l’ostensorio con il SS.
Sacramento e di tanto in tanto avvia delle preghiere che vengono poi riprese dal corteo;
l’arciprete è coadiuvato da alcuni chierichetti che portano il turibolo per l’offerta dell’incenso
ed i quattro antichi lampioni da corteo;
g - seguono gli uomini; tra essi risalta la figura del sindaco;
h - chiude il corteo la banda musicale che di tanto in tanto intona delle marcette o delle melodie
sacre a seconda se il corteo si sposta o sosta per l’adorazione.
Molti fedeli, soprattutto i vecchi, si affacciano alle finestre, ai balconi, davanti alle porte, sui
marciapiedi, bruciando incenso nei bracieri ed inondando l’aria del fumo profumato. Alcuni,
rivolti al Sacramento, si esprimono con atteggiamenti e gesti plateali; pregano, invocano con
trasporto, dialogano con il divino tramite una rapida ed insistente sequela di scongiuri e/o una
litanica dichiarazione dei loro più sentiti desideri: che ci sia bene nelle case e nelle loro
famiglie e che sia allontanato il male.
Lungo i percorsi si allestiscono altarini ricoperti di damaschi e lini ricamati, si sosta e si dà
luogo alle preghiere per il rito della benedizione solenne.
20 Interessante è l’usanza di portare robusti rami di olivo, che hanno l’aspetto di veri e propri
alberelli, ai quali vengono legati salami, corone di fichi secchi, ciambelle di pane e bottiglie di
vino (annotata da M. T. Florio De Luca, Amantea, tradizione e folklore. Ed. Pellegrini,
Cosenza 1972, p. 98).
21 Questi sepolcri rinviano alle grandiose macchine sceniche di carattere sacro che
nell’effimero periodo barocco, ideate anche da famosi artisti, venivano usate con l’intento di
sublimare la rappresentazione del divino e di attrarre e meravigliare i fedeli distraendoli da
probabili simpatie verso il protestantesimo.
I cespi di cereali, presenti anche nelle chiese cattoliche e greche, rinviano ai «giardini di
Adone», simili ornamenti vegetali che venivano posti sulla tomba del dio morto per propiziarne
la resurrezione. Ciò indica il carattere sincretico del rito religioso.
22 L’analisi richiederebbe la ricostruzione delle particolarità dei percorsi attraverso una fitta
verifica incrociata delle informazioni orali recuperabili dalla memoria degli anziani; cosa che il
tempo a disposizione non mi ha consentito di approfondire.
23 Amantea era una modesta cittadina marinara governata da un’oligarchia patrizia (meno
oppressiva del sistema feudale circonvicino) che si riuniva nel Sedile di S. Basilio (soppresso il
25 aprile del 1800), nel vecchio quartiere di Catocastro. Secondo gli storici esisteva, sin dal
XIV secolo, una sorta di confraternita-madre denominata Congregazione della Beata Vergine.
Da questa, che aveva sede nel Cenobio dei Minori Conventuali, sul finire del XVI secolo, ne
sorsero altre due. La congregazione della Beata Vergine si trasformò e assunse il titolo di
Arciconfraternita dell’Immacolata Nostra Signora (detta dei Nobili) e dopo poco tempo fu
costituita anche la Confraternita della Madonna del Rosario (detta dei Marinai).
24 Quest’anno, a causa della pioggia torrenziale tale processione non si è svolta il Venerdì
Santo, ma la comunità non poteva restare senza assolvere al suo impegno ed ha trovato il modo
di svolgerla il giorno successivo, come era stato anche preannunciato dall’arciprete.
25 Tali processioni fanno pensare a sacre rappresentazioni itineranti, di stampo
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controriformistico, che si diffusero a opera di predicatori popolari minori degli ordini riformati
e che trovano la loro più alta espressione artistica nei cosiddetti gruppi scultorei o scenari o
stanze dei monti, dei quali il più celebre è il Sacro Monte di Varallo.
26 Gesù nell’orto degli ulivi - Gesù preso dai giudei - Ecce Homo - Gesù aiutato dal Cireneo La Veronica - S. Giovanni evangelista - Crocefisso - Gesù deposto nella bara - Addolorata.
27 Ritornello del canto «O Fieri Flagelli».
28 La confraternita dell’Addolorata è sorta nel 1822 ed ha sede nella chiesa di S. Maria Pinta
presso i Cappuccini, nel borgo marino. Con saio bianco e mozzetta nera con l’effigie della
patrona, in passato partecipava anch’essa alla processione della Candelora (2 febbraio) che è la
festa propria della confraternita ed alle altre processioni comuni. Ora svolge la processione di
Quarantore nell’ultimo Martedì di Passione e quella del Venerdì Santo pomeriggio, durante la
quale le statue dell’Addolorata e del Cristo Morto sono protagoniste della Via Crucis, con
corteo e soste che ne rappresentano indicativamente le stazioni. L’aver scelto la simbologia
della Settimana Santa come terreno di confronto socio-culturale conferma la centralità del
tempo pasquale per il calendario delle classi popolari di Amantea.
29 È ormai noto che la percezione dell’identità promana dalla reciproca percezione e
autoconsapevolezza delle affinità e delle distinzioni. Molti paesi calabresi hanno percepito
l’unità culturale anche nell’identificazione delle differenze: l’esistenza di molti centri subpartiti
(Soprano e Sottano - Jusu e Susu - Come nella stessa Amantea si distinguono quelli della
Piazza e della Taverna) confermano e sottolineano il bisogno di analizzare gli aspetti distintivi
per soddisfare comunque il desiderio di individuare segni e caratteri unitarî.
30 Epicuro, Lettera sulla felicità (a Meneceo), Vita di Epicuro scritta da Diogene Laerzio,
versione di Angelo Maria Pellegrino, Stampa Alternativa, Roma 1992, 2a ediz., p. 9.
31 E. Morin, Il paradigma perduto. Che cosa è la natura umana. Ed. Bompiani, Milano 1974, p.
99.
32 A Caulonia, i paternostri o comunicati, fatta la penitenza, vanno in giro per il paese
scuotendo una campanella e, fermandosi ai crocicchi, cantano una cantilena «rauca e orrorosa»
che ricorda a tutti il dover morire: «O fratelli, o sorelle, pensate che tutti abbiamo a morire!
Oggi in figura, domani in sepoltura!» Poi declamano: «Un Pater Noster e un’Ave Maria per
l’anima di chi si trova in peccato mortale ... per le anime scordate del purgatorio ... per la pace
tra i principi cristiani ...». Essi bussano alle case per raccogliere le offerte che tutti elargiscono,
furtivamente, senza guardarli altrimenti sarebbe segno di gravi sventure. Per il loro continuo
contatto con i defunti, sono ritenuti quali figure vicarie dei morti ed il contatto con loro è
considerato cagione di morte. (vedi Davide Prota, Ricerche storiche su Caulonia, tip. Toscano,
1913; cfr. F. Faeta, Territorio ...
33 Cfr. Luigi M. Lombardi Satriani - Mariano Meligrana, Il Ponte di S. Giacomo, L’ideologia
della morte nella società contadina del Sud, Ed. Rizzoli, 1982.
Le credenze di un particolare stato di permanenza o di presenza dei morti non fa solo
riferimento all’ideologia della morte nella religiosità delle classi popolari o nel pensiero
religioso primitivo di tutto il mondo. Anche le religioni più note e con un pensiero escatologico
profondamente elaborato prevedono interconnessioni tra il mondo terreno e quello celeste, tra il
mondo dei defunti e quello dei vivi. La stessa Chiesa Cattolica - come ha avuto modo di
chiarire il famoso esorcista p. G. Amorth - ritiene che le anime dei defunti, poiché non ancora
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ricongiunte perfettamente con Dio (cosa possibile solo in seguito al giudizio universale e alla
resurrezione dei morti), possano essere ammesse a godere di un certo margine di fluttuazione
libera che consente loro dei contatti con i viventi.
34 È importante sottolineare come quasi tutte le attività confraternali si svolgono nella tutela
della segretezza dei gesti e delle decisioni individuali: si pensi anche alle riunioni ed alle
votazioni che, attraverso l’uso del cappuccio e dei bossolotti con palline bianche e nere,
contribuivano, insieme a tanti altri riti simili, a garantire l’osservanza dei principi collettivi a
cui le confraternite si ispiravano.
35 È ad esempio il caso anche delle confraternite di S. Nicola da Crissa che portano un
piccolissimo cappuccio inutilizzabile cucito sull’orlo superiore della mozzetta.
36 I confratelli adagiano appena la sua imboccatura sulla nuca con le fasce tirate una sulla
fronte e l’altra sulla nuca e poi, come già accennato, coadiuvati da un’altra persona, lo fanno
scendere all’indietro, trattenendo la fascia anteriore sulla testa e stirandolo dai lati per farlo
aderire alle spalle; infine, indossano la mozzetta e vi lasciano cadere su di essa la fascia
anteriore.
37 Cfr. la parabola del Buon Samaritano nel Vangelo di Luca, 10,25.
38 Ancora oggi molte proprietà di vecchie congreghe sono oggetto di contenziosi. Dall’11-06
al 10-09-1992, all’albo pretorio del Comune di Nocera Terinese è stata esposta una sentenza di
causa civile del tribunale di Lamezia Terme, per notifica pubblica a soggetto giuridico
inidentificabile. La causa, tra Macchione Francesco e la confraternita del Carmine dello stesso
comune, nasceva dall’interesse del possessore dei terreni confraternali al fine di divenirne
proprietario per usucapione.
39 Si pensi alle soppressioni napoleoniche, alla Cassa Sacra, alle incamerazioni dell’epoca
unitaria.
40 Lo studio demologico ha ormai acclarato numerosi documenti (atti dei sinodi diocesani,
relationes ad limina, rapporti di polizia, note di viaggiatori, ecc.), che denunciano o tradiscono
un certo rammarico intorno a molti comportamenti rituali del popolo e, in essi, spesso si insiste
per correggere quei comportamenti.
41 C. Marx-F. Engels, L’Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967.
42 Alcuni informatori di paesi senza organizzazioni confraternali, hanno testimoniato che i
morti della gente del popolo, dopo una sbrigativa benedizione del prete, venivano deposti in
una elementarissima bara che serviva solo per il trasporto della salma su una carriola e che
veniva poi recuperata per essere riutilizzata. Il seppellimento avveniva depositando il cadavere
in una «carnaia» o fossa comune dove, dopo la chiusura della pesante pietra sepolcrale, nessun
segno individuale restava a futura memoria.
43 L’adesione ai riti funerarî è partecipata a tal punto che per sottolineare questo uso è coniato
un detto popolare: «alle nozze con l’invito ai lutti con i rintocchi».
44 «La confraternita per la comunità è di grande aiuto. Quasi il 50% dei cittadini di Amantea è
iscritto a una congrega e questo vuol dire che l’amministrazione comunale non ha nessun
disturbo per il servizio del cimitero. Inoltre con l’organizzazione che abbiamo noi il comune
risparmia moltissimo spazio per i loculi: solo da quattro anni il comune concede i loculi in fitto;
prima li vendeva in proprietà e quindi ci voleva sempre uno spazio maggiore. Noi delle
confraternite togliamo molti pensieri al comune e il comune ci privilegia nel trattare le
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assegnazioni di lotti al cimitero perché noi poi possiamo costruirci i loculi». Intervista a Idolo
Enrico Morelli, (id.).
45 Tutte sono in possesso del riconoscimento canonico ed di una chiesa o cappella all’interno
del cimitero e diverse centinaia di cripte o loculi.
46 Intervista a Idolo Enrico Morelli.
47 E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Ed.
Boringhieri, Torino 1977, p. 24-25.
48 A tale proposito sono di grande interesse i seguenti studi: F. Aries, L’uomo e la morte dal
medioevo ad oggi, ed. Laterza, Roma-Bari 1990. R. Huntington, Celebrazioni della morte.
Antropologia dei rituali funerarî, ed. Il Mulino, Bologna 1985. E. Morin, L’uomo e la morte,
ed. Newton Compton, Roma 1980. R. Hertz, Sulla rappresentazione collettiva della morte, ed.
Savelli, Roma 1978. J. Ziegler, I vivi e la morte. Saggio sulla morte nei paesi capitalisti, ed.
Mondadori, Milano 1978.
49 J. G. Frazer, La paura dei morti nelle religioni primitive, Ed. Longanesi, Milano 1978.
50 J. G. Frazer, La paura dei morti ...
51 Intervista a Idolo Enrico Morelli.
52 In merito all’uso della fotografia tra le classi subalterne calabresi si rinvia agli studi di F.
Faeta, Il patrimonio etnofotografico della Calabria, Atti del VII Convegno Storico Calabrese,
Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Vibo Valentia-Mileto, 11-14 marzo 1982, Ed.
Gangemi, Roma-Reggio Calabria 1985, Id., Imago mortis, Simboli e rituali della morte nella
cultura popolare dell’Italia meridionale, De Luca, Roma 1980.
Per quanto concerne il primordiale concetto magico dell’immagine esiste ormai una vastissima
letteratura scientifica; tra essa si rinvia a:
E. H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata, ed. Einaudi, Torino 1966. L. Levy-Bruhl,
L’anima primitiva, Boringhieri, Torino 1962. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Ed.
Euroclub, Torino 1973.
53 Alla Società venne conferita la personalità giuridica dal tribunale di Nicastro con sentenza
del 27 dicembre 1898 e riconosciuta dal Ministero Agricoltura Industria e Commercio il 1900.
54 Definirei così i gruppi di fedeli che si possono identificare come residui di congreghe, ormai
senza alcuna documentazione e con attività marginali dallo stato giuridico originario di cui
spesso neanche gli associati conservano memoria. In Conflenti, ad esempio, sono stati
gentilmente proposti alla mia osservazione un registro contabile (dei bilanci, 1879-1886) e un
registro delle costituzioni (delle assemblee, 1816-1886) della Confraternita dell’Immacolata e
benché sia estinta da alcuni decenni, la memoria di essa è rapidamente e gravemente
compromessa. A Nocera Terinese esistono tuttora dei gruppi che indossano il saio e la
mozzetta, ma nessuno degli aderenti, che tra loro si chiamano portantini perché portano le
statue, e meno ancora la stessa comunità, hanno consapevolezza degli abiti congregazionali che
indossano.
55 Incomincia a prevalere una struttura economica su base agraria in mano alla nobiltà
latifondista ed al clero, una struttura industriale, commerciale ed artigianale che tesse rapporti
anche con l’entroterra.
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MUSICA, SUONI E RUMORI INTORNO ALLA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI MESORACA
MUSICA, SUONI E RUMORI INTORNO ALLA CONFRATERNITA
DELL’IMMACOLATA DI MESORACA
Antonello Ricci
I dati che esporrò in questo scritto sono tratti da una ricerca sul campo 1, tuttora in
corso, che sto conducendo a Mesoraca (CZ): un paese, di circa 10.000 abitanti, situato
nel Marchesato di Crotone, sulla fascia collinare che, dalle pianure marine poste tra
Botricello e Isola Capo Rizzuto, sale verso le propaggini degli altipiani della Sila
Piccola. L’economia di questo paese si basa in prevalenza su una fiorente attività
agricola, in particolare coltivazioni di frumento e, soprattutto, di olivo: nel paese sono
assai diffusi i frantoi per la produzione olearia. Viene anche praticata un’agricoltura
per uso proprio (ortaggi, vite, legumi, ecc.) in appezzamenti disseminati intorno
all’abitato. Anche la raccolta delle castagne ha ancora una certa rilevanza. La
pastorizia è assai diffusa: soprattutto vengono allevate capre e pecore, raccolte in
stazzi posti prevalentemente lungo la fascia collinare più alta da cui più facilmente è
possibile raggiungere i pascoli silani con la transumanza estiva. Un’altra parte
rilevante dell’economia mesorachese riguarda l’attività artigiana legata in prevalenza
alla lavorazione del legno che ha trovato in questo paese, soprattutto in un recente
passato, una certa diffusione anche in relazione al commercio di legname proveniente
dalla pratica di disbosco del territorio comunale situato in Sila. Infine è oggi presente
una cospicua attività di terziario che contribuisce in maniera rilevante a determinare
una complessa stratificazione del tessuto sociale del paese e non è senza significato
rispetto all’odierna organizzazione della confraternita dell’Immacolata di cui andiamo
a scrivere.
Quella dell’Immacolata è oggi l’unica confraternita (in dialetto congrea) esistente a
Mesoraca e fa riferimento alla omonima chiesa, posta nella parte centrale dell’abitato,
del mantenimento della quale si occupa. Ne fanno parte 33 uomini e 101 donne. Fino a
un recente passato (circa venti anni fa), la presenza maschile era, al contrario,
predominante rispetto a quella femminile.
L’attuale priore, Romano Rizzuti professore di lettere alle scuole medie di Mesoraca, è
entrato nella congrea circa sedici anni fa, come collaboratore. Così egli rammenta uno
dei primi approcci avuti con i membri della confraternita: «Una mattina incontrai il
priore e il procuratore davanti la chiesa dell’Immacolata, si apprestavano a organizzare
la festa della Madonna, a maggio. Ricordo che il priore, Cesare Lombardo, un
falegname con cui ero molto amico, mi invitò a dare una mano per l’organizzazione
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MUSICA, SUONI E RUMORI INTORNO ALLA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI MESORACA
della festa, accettai volentieri e iniziai ad aiutarli nella “cerca” dei fondi. In seguito il
priore mi volle tenere vicino, pensò che essendo insegnante potevo essere utile alla
congrea. Mi chiedeva di scrivere delle lettere alle ditte, prendere i contatti, così alla
fine, sotto sua sollecitazione, mi sono iscritto».
Tuttora l’iscrizione avviene in seguito a una proposta del priore che, a sua discrezione,
invita coloro che ritiene elementi validi. La persona dovrà quindi richiedere il libretto
personale, timbrato e firmato dal priore stesso, sul quale verrà annotata la quota di
iscrizione e i successivi versamenti annuali. Il denaro così accumulato servirà a
effettuare gli uffici funebri a cui ha diritto ciascun confratello in caso di morte e che
consistono nel suono gratuito delle campane e in undici messe in suffragio. Dice
ancora Rizzuti: «In caso di morte di un fratello viene fatto eseguire il suono a tre
campane, per la morte del priore o del procuratore la suonata è molto più lunga e
avviene all’alba». L’espressione a tre campane indica che la suonata viene eseguita in
successione dalle due chiese parrocchiali del paese e da quella della confraternita. Essa
consiste di una serie di rintocchi singoli a cui fa seguito un ritmo terzinato finale che
viene detto a scasso o a rìepitu, termine quest’ultimo che indica anche il lamento
funebre.
Secondo la testimonianza di Romano Rizzuti esiste, anche se non è possibile rilevarla
in maniera sistematica, una connessione tra gruppi familiari e appartenenza alla
confraternita: lo stesso Rizzuti ha avuto parenti nella congrea e un suo zio, Giuseppe
Rizzuti impiegato comunale, ne è stato priore. In altri casi egli ha potuto rilevare una
linea di discendenza primogenitale nell’entrare a far parte della confraternita.
«Prevalentemente gli appartenenti alla congrea sono artigiani e contadini - dice Rizzuti
- ma attualmente si stanno avvicinando anche i cosiddetti professionisti: insegnanti,
medici, avvocati, e via dicendo».
La Confraternita dell’Immacolata organizza due feste all’anno: quella della Madonna
nel mese di maggio e quella del Venerdì Santo, in dialetto ’U Signure mùortu 2.
Quest’ultima è sicuramente la più importante anche in considerazione della
rappresentatività sociale di cui viene caricata dalla popolazione mesorachese. La festa
du Signure mùortu (insieme a quella settennale dell’Ecce Homo) costituisce evento
rituale in cui si pongono in luce, con diversa chiarezza, manifestazioni di dinamica
sociale collegate con l’auto-rappresentazione di gruppi parentali o di altri sistemi di
alleanza attraverso le diverse formalizzazioni in cui si dispiega l’evento festivo e
rappresenta allo stesso tempo un importante momento di auto-riconoscimento e di
coinvolgimento dei differenti strati sociali. È la festa per cui ritornano molti emigrati
anche da località extraeuropee. In una delle osservazioni ho potuto rilevare la presenza
di persone ritornate appositamente dall’Argentina per poter partecipare alla
processione.
La congrea dell’Immacolata si occupa dell’organizzazione della festa, nell’arco di
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MUSICA, SUONI E RUMORI INTORNO ALLA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI MESORACA
tutta la Settimana Santa. Solitamente tra il martedì e il mercoledì vengono preparate le
varie figure della processione: particolare attenzione ricevono la Naca e la Madonna.
La prima consiste in una statua del Cristo Morto, posta in una grossa teca, che nel
corso dell’anno viene conservata in una nicchia della chiesa. Per l’occasione, dal
giovedì, viene addobbata con fiori e luminarie ed esposta. Anche la Madonna è
abbellita con un’aureola di lampadine. Nei giorni precedenti il priore raccoglie anche
le prenotazioni e le offerte di coloro che desiderano prendere parte attiva alla
processione: le donne che vogliono sostenere i sei fiocchi della Naca (cinguli), i dodici
bambini che aprono la processione portando piccole croci, e un gran numero di donne,
di varie età, che portano le lanterne davanti al Calvario. Un’altra occupazione dei
membri della congrea in questi giorni consiste nell’approntare un numero sufficiente
di lanterne. Vengono anche controllati tutti gli altri oggetti della processione,
verificata l’integrità degli abiti processionali, e così via.
Il venerdì verso le sedici viene aperta la chiesa confraternale e iniziano i preparativi
per l’incanto, l’asta a busta chiusa che consente di regolamentare la partecipazione di
tutti coloro che, avendo un voto da sciogliere, vogliono partecipare alla processione
portando il simbolo per il quale hanno chiesto la grazia. Tutti gli interessati
cominciano pian piano, alla spicciolata, ad avvicinarsi alla chiesa. La maggior
concentrazione di persone avviene verso le diciassette quando il priore, insieme al
segretario e agli assistenti, in una piccola grotta artificiale posta sotto il sagrato della
chiesa dell’Immacolata, dà inizio ufficialmente all’incanto. Da questo momento si crea
un’atmosfera di grande aspettativa caratterizzata prevalentemente da un teso silenzio
rotto ogni tanto da mormorii di impazienza, da qualche battuta di spirito sulla
precisione dell’orologio del priore, il quale periodicamente avverte del tempo
rimanente all’apertura delle buste. Immediatamente dietro si percepisce il cupo o
stridente crepitìo delle tràccole (tocche-tocche) che i bambini cominciano a suonare.
Apparentemente sembra che poco o niente accada, ma con uno sguardo più attento e
soprattutto attivando una macroattenzione uditiva si percepisce un frenetico
susseguirsi di notizie, indiscrezioni, tentativi di carpire il segreto delle altrui offerte.
Le buste vengono consegnate negli ultimissimi minuti, prima che scada l’ora a cui il
priore ha dato il via aprendo l’asta, per poter eventualmente usufruire di qualche
determinante indiscrezione sull’offerta dell’avversario. Alle diciotto l’asta è dichiarata
chiusa e viene dato inizio all’apertura delle buste che, esternamente, recano scritto il
nome della figura o dell’oggetto che si desidera portare. Le buste vengono aperte in un
crescendo di suspence, di mormorii, di commenti. Le cifre sono in alcuni casi molto
alte e possono superare il milione. Fino al 1981, l’incanto avveniva all’interno della
chiesa e gli oggetti venivano attribuiti al miglior offerente in seguito a un gioco al
rialzo a partire da una cifra base stabilita dal priore. L’avvenimento acustico in quel
caso risultava estremamente più denso di significati che riverberavano sottesi intrecci
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MUSICA, SUONI E RUMORI INTORNO ALLA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI MESORACA
sociali oggi non più così evidenti. Il risultato potrebbe essere definito come un vero e
proprio corpo a corpo sonoro i cui elementi erano da un lato le cifre urlate dal priore e
i suoi tentativi di tenere sotto controllo il pubblico, dall’altro gli asimmetrici rilanci
provenienti da gruppi diversi del pubblico e con un crescendo di volume e di intensità
sonora di incitamenti e di minacce e rimproveri, di pause, di attese e frenetiche
consultazioni fino a quando l’offerta si fosse stabilizzata.
I quadri della processione sono disposti secondo un ordine ben preciso. In apertura si
trova un crocifisso liturgico portato da un bambino, segue la tripla croce con i consueti
simboli della passione (tenaglie, scala, corona di spine, martello, chiodi, ecc.), poi
vengono i dodici bambini incappucciati che portano piccole croci. A essi segue lo
Stendardo, uno dei simboli su cui si concentra particolare attenzione e che possiede
anche caratteri sonori per via di un canto polivocale eseguito dai portatori: sette
persone - di solito maschi - con abiti e guanti neri e camicia bianca. Uno di essi porta
l’asta con il grande drappo nero da cui scendono sei lunghi cordoni con fiocchi tenuti
dagli altri componenti del gruppo. Poi è la volta del Cristo velato, un crocifisso ligneo,
anch’esso assai ambito, condotto da un uomo in abito e guanti neri con corona di spine
in testa. Due file parallele di donne portano le lanterne, fornite dalla congrea su
prenotazione e offerta, con cui rischiarano la via al Cristo del Calvario. Con questa
denominazione si intende il Cristo penitenziale, scalzo, vestito di rosso, insanguinato,
che porta una grossa croce di legno alla cui estremità inferiore è attaccato un tratto di
catena; è la figura per la quale viene fatta l’offerta più alta. Seguono i Giudei, cinque
uomini - un adulto e quattro adolescenti - incappucciati, con tuniche bianche; l’adulto
viene detto il capo dei giudei e costituisce un’altra figura sonora della processione
perché, oltre a percuotere vigorosamente la croce con la suddetta catena, detiene anche
la trombetta - acquistata con l’incanto - con la quale esegue, in punti stabiliti del
percorso processionale, tre squilli. Anche gli altri giudei hanno un ruolo sonoro
percuotendo, sulla strada o sulla croce, le lance di canna di cui sono dotati. A questo
punto giunge la Naca - un’altra delle figure ambite - portata da sei uomini vestiti con
tuniche bianche, fascia azzurra e stemma della congrea: pur non facendone parte,
hanno diritto, per l’occasione, a indossarne gli abiti, essi sono gli unici a portare le
insegne della confraternita, infatti i confratelli da più di quindici anni non portano più
tali abiti in processione. Davanti a essa camminano i rappresentanti della congrea
(priore, procuratore, segretario e assistenti). A una certa distanza, separata dalla Naca
da un troncone di processione e circondata da un nutrito gruppo di donne, segue la
Madonna addolorata intorno alla quale vengono costantemente eseguiti canzoni e
rosari cantati.
La processione prende avvio verso le diciannove in seguito alla preparazione dei
vincitori dell’asta. Nel frattempo, nel corso del pomeriggio, continuano a radunarsi i
bambini e i ragazzi con le tràccole che a Mesoraca sono principalmente del tipo a
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manovella con risuonatore a scatola, ma è stato possibile osservare anche qualche
strumento a martelletto e qualche raganella di canna. Tuttavia quelle a scatola vengono
ritenute le vere tocche-tocche che rùmmano. Le costruiscono i falegnami ribadendo
attraverso di esse una loro costante presenza nella dimensione festiva. Tra gli oggetti
di proprietà della congrea vi è anche una grossa tràccola a manovella di circa
cinquanta centimetri di altezza, segnata con una croce rossa sui lati della scatola. Dai
racconti dei confratelli e di altre persone del paese lo strumento assume contorni quasi
mitici: per alcuni è sempre esistita, per altri è stata costruita da un certo Giuseppe
Jannone falegname ed ebanista ricordato per la particolare bravura, la cui figura è
anche essa posta in un lontano e mitico passato. Secondo le informazioni raccolte lo
strumento è fornito di dodici percussori, che ripetono il numero degli apostoli. Lo
strumento è in grado di emettere un suono simile al tuono, sia per il volume, che per il
timbro carico di tratti scuri e cupi, al contrario di quello di altre tràccole ascoltate,
anche di grandi dimensioni, che emettono un suono più acuto e crepitante. Nell’arco di
tempo che precede l’incanto e prima dell’uscita della processione si radunano gruppi
di bambini (tutti maschi) con tràccole di ogni misura, per lo più di circa 20-25
centimetri di altezza. Gli strumenti vengono suonati a turno (v. foto N. 1), passati di
mano in mano per provarli, confrontarli, paragonarli, gareggiare sulla potenza sonora e
sull’abilità a suonare a lungo e velocemente. Il culmine dell’eccitazione si verifica
quando il grande e agognato strumento della confraternita viene dato ai ragazzi che
hanno fatto una piccola offerta. In questo momento il gruppo vincitore viene
letteralmente preso d’assalto da tutti i giovani presenti, compresi in una fascia d’età tra
i dodici e i venti anni, ma spesso anche uomini ben più adulti lo vogliono provare; è
evidente, tuttavia, che per tradizione e per consuetudine la tocca-tocca sia strumento
delegato agli ambiti dell’età giovanili: le persone anziane se ne disinteressano
totalmente, gli adulti che vogliono ancora suonarla lo fanno con un leggero senso di
disagio come se stessero compiendo un’azione che ne regredisce lo status, per molti
emigrati suonare lo strumento costituisce azione densa di carica nostalgica, quasi
potesse per qualche istante reintegrarli nella comunità paesana perduta. La grande
tocca-tocca della congrea viene afferrata, stretta a sé, ognuno vuole cimentarsi per
dimostrare la forza di cui è capace nel far girare la manovella e mettere in azione i
dodici percussori di legno che generano ’u fragasciu, ’u rummu 3. Per riuscire a tenerla
ferma bisogna sedercisi sopra, quasi cavalcarla. Sembra instaurarsi una voglia di
competizione, la volontà di esibire e sfoggiare le proprie qualità fisiche e la capacità di
saper generare il potente suono della tocca-tocca. Si nota anche un’evidente attrazione,
quasi di carattere devozionale, verso di essa che per il resto dell’anno è custodita
segretamente: sono le stesse persone, i membri della congrea che sottolineano l’ansia
che si manifesta nel voler entrare in contatto con questo oggetto in quell’occasione.
Nel momento in cui la processione si appresta ad avviarsi, i gruppetti di bambini e
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ragazzi con le tocche-tocche si precipitano avanti urlando, schiamazzando e facendo
crepitare i loro «strumenti delle tenebre» 4. Essi non fanno parte del corteo e non sono
mai facilmente visibili perché corrono in continuazione e si fermano ogni tanto agli
angoli delle case, salgono sulle scale esterne, sui ballatoi (i gafii), qualche volta anche
sui tetti, dando vita a una vera e propria azione purificatoria dello spazio che sarà
percorso dalla processione, attraverso una continua e incalzante produzione di suono 5.
Nel corso del tempo l’imponente e rumorosa presenza infantile, riscontrata nei primi
anni di osservazione, è andata sempre più riducendosi e oggi è limitata a pochi
bambini, a un paio di gruppi adolescenziali con grosse traccole e al drappello che
prende all’incanto la tocca-tocca della confraterntia.
Analogamente a quanto avviene per le tocche-tocche, anche con la trombetta (’a
trummicedda) si instaura il medesimo atteggiamento di sfida da parte di tutti coloro
che vogliono provare a mettere in vibrazione le piccole e rigide pareti del singolare
aerofono: una piccola tromba metallica, ritorta, della lunghezza di circa 12-13
centimetri. Allorché l’incanto si è concluso e lo strumento è stato attribuito, si scatena
una corsa, una competizione, una sfida, anche in questo caso tra maschi, ma di età
adulta, a provarlo (v. foto N. 2), dimostrando di essere in grado di saperlo suonare.
Questo comportamento, a detta del priore della congrea e di alcuni dei protagonisti,
sarebbe determinato dal desiderio di mettersi alla prova per verificare la propria
perizia nel suonare lo strumento ed eventualmente potere, l’anno successivo, prenderlo
all’asta. Contemporaneamente essi si sottopongono a un vero e proprio apprendistato
che, di volta in volta, consente loro di affinare la tecnica esecutiva. Ma al di là di ogni
possibile interpretazione di carattere funzionale tale comportamento appare connotarsi
come un gioco competitivo tra maschi: una prova di forza, di destrezza e d abilità. Da
dieci anni è frequentemente la stessa persona ad aggiudicarsi il piccolo strumento:
Natale Narcisi, messo comunale di Mesoraca, sovente impersona il capo dei giudei e
come tale è anche il suonatore della trombetta. Egli mi ha fatto questo racconto:
«Alcuni anni fa la congrea scoprì che non erano state presentate offerte per la tromba.
Si creò un’atmosfera di tristezza e anche di panico, non sarebbe più stata la stessa la
festa du Signure mùortu senza ’a trummicedda. Allora mi feci avanti con un’offerta,
ma segretamente feci anche un voto: promisi al Signore che se mi avesse dato la
resistenza a suonare lo strumento per tutta la processione l’avrei incantato tutti gli
anni». In realtà Natale sapeva benissimo di saper suonare lo strumento perché, come
altri fanno ancora oggi, egli era tra quelli che si divertiva a provarlo prima dell’inizio
della processione. Altra cosa è comunque entrare nel ruolo di capo dei giudei ed essere
responsabile di emettere gli squilli che avvertono delle cadute di Cristo e che devono
far tremare di paura e suscitare l’emozione e il pianto nelle donne che seguono il
corteo intorno alla Madonna.
Anche la trombetta si connota nella visione dei mesorachesi di tratti mitici. Non si sa
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chi l’abbia costruita e qualcuno sostiene anche che possa trattarsi di una tromba
suonata dai Giudei mentre Cristo veniva realmente condotto alla crocifissione.
L’aspetto che maggiormente viene enfatizzato è la difficoltà della tecnica esecutiva:
nelle narrazioni viene ricorrentemente sottolineata l’abilità che bisogna possedere per
poterla suonare, ma anche la forza che necessita per emettere la giusta frequenza
sonora. «Gli squilli - dice Natale Narcisi - devono essere lùonghi e piatusi» (lunghi e
pietosi). Vale a dire che l’effetto sonoro deve essere forte e prolungato, per funzionare
da segnale, ma deve anche avere delle oscillazioni e soprattutto un’accentuata caduta
cadenzale dell’intonazione che determini l’effetto «pietoso». Esiste realmente una
certa difficoltà nel suonare questo strumento, dovuta in primo luogo alla tecnica di
esecuzione propria degli strumenti a bocchino 6, alle sue ridottissime dimensioni e
anche al suo sempre più precario stato di conservazione. La sua collocazione quasi
mitica è anche messa in risalto dalla convinzione diffusa che non esistano fabbriche o
artigiani in grado di poter riprodurre un altro uguale strumento. È lo stesso priore a
sottolineare la difficoltà da lui incontrata per riuscire a sostituire l’ormai logora
trombetta, tanto che si è radicata nella popolazione la convinzione che lo strumento sia
insostituibile.
La parte della processione che riveste un carattere spiccatamente musicale è lo
Stendardo (’u Stinnardu). Con questa denominazione si intende sia il grande drappo,
sia il gruppo di persone che vi canta intorno (v. foto N. 3): in dialetto si dice cantare a
ru Stinnardu, per indicare l’intervento in quella parte della processione, così come
cantare a ru Calvariu, cantare a ra Naca, cantare a ra Madonna, indica la
partecipazione nelle rispettive zone della processione. Come è facile pensare, si tratta
di interventi che prevedono un livello superiore di specializzazione. Similmente a tutte
le altre figure della processione, lo Stendardo viene preso all’incanto per voto, ma
anche in questo caso, analogamente alla trombetta, si è venuta a determinare una sorta
di ricorrenza delle stesse persone, dovuta alle peculiarità del ruolo musicale. A ben
vedere, dai primi e non ancora definitivi risultati della ricerca è sembrata emergere una
qualche ricorrenza di gruppi familiari allargati, ovvero insiemi di persone legate da
forme tradizionali di alleanza (comparatico), nell’esecuzione del canto dello
Stendardo. Dati forniti dallo stesso priore sembra che all’incanto di questa figura si
siano alternate sempre persone appartenenti ai medesimi nuclei familiari. La prima
spiegazione ottenuta riguarda, com’è ovvio, la particolare perizia canora degli
appartenenti a tali nuclei familiari, nei quali, secondo l’opinione comune, vi è una
particolare propensione al canto, perpetuata sotto la sollecitazione di un profondo
riconoscimento sociale. Anche in questo caso sembra essere la qualità della voce uno
degli elementi discriminanti per la scelta dei componenti il gruppo: infatti gli
appartenenti a questi nuclei familiari sono ritenuti possedere una timbrica vocale
(tùonu) omogenea che permette di creare l’accordo. Al termine della festa du Signure
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mùortu, il giorno seguente e anche diverso tempo dopo, i vari gruppi che hanno dato
vita al canto dello Stendardo vengono ricordati e il loro canto commentato. Si tratta di
una forma musicale di carattere responsoriale che prevede due brevi incipit melodici
iniziali eseguiti dai due solisti a cui fa seguito il pieno del coro nella seconda e
conclusiva parte che solitamente viene ripetuta due volte. Il testo verbale, quasi
interamente in italiano con alcuni inserti in dialetto, enuncia le piaghe e le ferite di cui
è cosparso il corpo di Cristo seguendo una struttura formale ricorrente nei canti
religiosi di tradizione orale in Calabria, in cui viene percorso tutto il corpo della
divinità dai piedi alla testa. Lo stile di canto 7, estremamente enfatico e parossistico, è
caratterizzato da una timbrica della voce dai toni e dai colori molto marcati, ed è
sottolineato da una gestualità ampia, dai caratteri quasi teatrali. Tutto l’insieme lascia
trasparire un’accentuata carica esibizionistica che tende a crescere col passare del
tempo, nel corso della processione e che viene anche coadiuvata dalle offerte di vino e
di altre bevande che si susseguono durante il tragitto. Va aggiunto che nei primi anni
di osservazione il gruppo era strettamente maschile e rigoroso nell’abbigliamento
(abito nero, camicia bianca, cravatta e guanti neri), col succedersi degli anni la regola
maschile si è venuta pian piano a sfaldare per una crescente mancanza di ricambio
generazionale. Oggi, nonostante qualche tentativo di ripristinare la regola maschile, il
gruppo dello Stendardo è misto con prevalenza femminile.
La processione del Venerdì Santo a Mesoraca costituisce un evento emblematico del
ciclo cerimoniale dell’anno dove il coagularsi di una serie di eventi sonori si manifesta
in un contesto dai chiari connotati rituali, la cui gestione è affidata a un’istituzione
sociale forte come la confraternita. In questa occasione la comunità riceve, tramite la
mediazione della congrea, la gestione di un intero universo sonoro. Esso ben si presta
a mettere in forma il carattere più imponente della festa: la solennità; «se poi si chiede
quali eventi sonori concorrano alla solennità, la risposta è: tutti, dai più informali ai
più organizzati [...] sarà poi il contesto a decidere quale abbia più peso» 8, Ancora
Gino Stefani ribadisce che «può avvenire che una situazione festiva sia colta
dall’osservatore anzitutto o soprattutto sub specie soni, in quanto il suono è l’evento
più “clamoroso” della festa» 9. La scala «rumore-suono-musica», riprendendo ancora
Stefani, si manifesta compiutamente nell’evento festivo più importante che avviene a
Mesoraca e comprende i silenzi carichi di tensione dell’incanto e le scariche vocali di
coloro che attendono di saperne l’esito, le grida, gli schiamazzi e i suoni crepitanti e
indeterminati delle tràccole, i vibranti e indefiniti segnali della trombetta collegati alle
percussioni e alle concussioni della catena e delle lance di canna sulla croce e sul
terreno e infine l’organizzazione melodico-ritmico-armonica dei canti polivocali e, in
passato, della banda musicale.
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MUSICA, SUONI E RUMORI INTORNO ALLA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI MESORACA
NOTE
1 Tale indagine sul campo ha fatto parte delle attività di studio di un Dottorato di ricerca in
Etnoantropologia - Letterature e pratiche simboliche - Mito e rito, svolto sotto la guida del
Prof. Luigi M. Lombardi Satriani.
Il presente scritto, pensato a suo tempo come anticipazione, esce dopo che sono stati pubblicati
gli esiti definitvi della ricerca prima ricordata. La tematica qui trattata e gli esempi a cui si fa
riferimento sono confluiti con una trattazione necessariamente più ampia e articolata, nel
volume A. Ricci, Ascoltare il mondo. Antropologia dei suoni in un paese del Sud d’Italia, Il
Trovatore, Roma, 1996 e nel compact disc Mesoraca. Vie musicale d’un village en Calabre, a
cura di A. Ricci, AIMP XLII Archives internationales de musique populaire, Museé
d’ethnographie de Genève, collana diretta da L. Aubert, VDE-Gallo 872, Genève 1996.
2 Le prime osservazione della processione del Venerdì Santo da me effettuata risale al 1979 e
al 1980. Successivamente, nel 1983 e nel 1984 insieme a R. Tucci, ho realizzato una
sistematica rilevazione della dimensione musicale della festa, continuata successivamente fino
ad oggi da me soltanto, ponendo attenzione ad ogni componente di carattere acustico.
3 La registrazione di un brano eseguito con la tocca-tocca della congrea si trova nel disco di
documenti sonori allegato al volume P. E. SIMEONI - R. TUCCI (a cura di), Museo Nazionale
delle Arti e Tradizioni Popolari. La collezione degli strumenti musicali, Roma 1991, brano A/1;
un’altra regiostrazione di traccola effettuata a Mesoraca è nel cd Calabre. Musiques de fêtes, a
cura di G. Plastino «Inedit», W 250050, 1993, brano 8.
4 Cfr. C. LÈVI STRAUSS, Dal miele alle ceneri, Milano 1970.
5 La parola «suono» viene qui utilizzata nel senso di stimolo uditivo culturalmente dotato di
significato e in quanto tale è paragonabile a ciò che viene inteso per musica secondo la
definizione che ne fornisce Blacking di «suono umanamente organizzato», cfr. J. BLACKING,
Come è musicale l’uomo?, Milano 1986, p. 33. Riuscire a identificare l’esistenza di una
discriminante tra suono e rumore è di fondamentale importanza perché sappiamo che sovente
ciò che è detto rumore, cambiando il contesto culturale o il periodo storico diventa suono e
viceversa. «La nozione di suono - scrive Giannattasio - non coincide necessariamente con
quella della fisica acustica, ma è soprattutto il frutto di una valutazione “soggettiva” (suono vs.
rumore = accettabile vs. inaccettabile) che può variare in funzione delle culture, dei gruppi
sociali e dei periodi storici». F. GIANNATTASIO, Il concetto di musica, Roma 1992, p. 91.
L’estrema fluidità di significato attribuibile a questi due termini è ben messa in luce da
Giovanni Piana, il quale sostiene che «pretendere che la distinzione tra suoni e rumori sia una
distinzione rigida e che la sua giustificazine poggi sulla natura del fenomeno sonoro, piuttosto
che sulla sua elaborazione culturale, significa niente altro che educare al pregiudizio». G.
PIANA, Filosofia della musica, Milano 1991, p. 101. La distinzione tra suono e rumore è il
primo gradino per cominciare ad avere una certa chiarezza su ciò che si intende per fatto
musicale, nel senso più sopra accennato: «Uno dei concetti più importanti e fondamentali
riguarda la distinzione tra suono e rumore, ovvero tra musica e non-musica; sulla base di questo
gruppo di concetti possiamo capire con esattezza la vera natura della musica in una certa
società». A. Merriam, Antropologia della musica, Palermo 1983, p. 81. L’opposizione
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MUSICA, SUONI E RUMORI INTORNO ALLA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI MESORACA
suono/rumore è anche ripresa da Carpitella in A. MAURO (a cura di), Diego Carpitella
risponde a tre domande sulla «musica diabolica» nella tradizione popolare e nell’ideologia
romantica, in «Quaderni Portoghesi», (1984-1988), nn. 15-24, pp. 295-298. Sullo stesso
argomento si veda quanto scrive Nattiez il quale, nelle sue riflessioni, introduce anche il
silenzio come elemento determinante a delimitare i contorni del fatto sonoro, cfr. J. J.
NATTIEZ, Il discorso musicale, Torino 1987, pp. 13-32. A questo proposito va anche ricordata
l’opposizione, delineata da Lombardi Satriani, tra rumore e silenzio folklorico, laddove
quest’ultimo non è inteso come assenza di comunicazione e di suono, ma al contrario come
luogo di un’espressività - verbale e, io aggiungo, anche sonora - che avviene attraverso la
metafora. Cfr. L. M. LOMBARDI SATRIANI, Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Palermo
1983, pp. 27-31. Senza alcuna pretesa di esaurire qui l’argomento, mi sembra di fondamentale
importanza, ai fini di una possibile delimitazione del concetto di suono, l’introduzione
dell’opposizione natura/cultura in musica così come è stata delineata da Carpitella secondo cui
«La scelta di determinati suoni (sia per l’emissione vocale che per la percezione auricolare) è
una scelta culturale». D. CARPITELLA, Convergenze fra indagine etnomusicologica e
ricerche espressive contemporanee, in idem. Musica e tradizione orale, Palermo 1973, pp. 209215. Riguardo alla medesima coppia oppositiva, particolarmente stimolante risulta ciò che
scrive Lévi-Strauss intorno alla stretta analogia esistente tra mitologia e musica in quanto
sistemi di comunicazione entrambi propri soltanto della cultura, cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Il
crudo e il cotto, Milano 1966, p. 30 ss.
6 La tecnica di esecuzione degli strumenti a bocchino consiste nell’utilizzo delle labbra come
dispositivo sonoro (ancia labiale). Si tratta di una tecnica di una certa difficoltà che prevede una
precisa impostazione dei muscoli labiali e un necessario apprendistato. Cfr. P. RIGHINI,
Lessico di acustica e tecnica musicale, Padova 1980, p. 250.
7 La registrazione di alcune strofe del canto dello Stendardo si trova nel cd Calabre. Musiques
de fêtes ...., brano 9.
8 G. STEFANI, Musica barocca, Milano 1974, p. 13.
9 Ibid., p. 30.
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LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE COSENTINE DEL ’700
LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE
COSENTINE DEL ’700
Renata Ciaccio
Molti degli studi sulle confraternite sono stati scritti sulla base degli statuti, o
comunque di fonti istituzionali che contengono il loro maggior limite nell’assetto
normativo, nel fatto cioè che esse rappresentano il dover essere di idee ed intenzioni di
priori, funzionari, degli stessi confratelli, ma non documentano come si svolgesse
realmente la vita delle confraternite. Nonostante ciò, grazie ad esse è stato possibile
delineare le caratteristiche di fondo di tali istituzioni.
Gli statuti sono ad esempio indispensabili per ricostruire i sistemi di elezione delle
cariche, le caratteristiche sociali e morali che i confratelli dovevano possedere, i tempi
di noviziato, la scelta delle persone da assistere, l’entità delle quote mensili o annue
che gli iscritti erano tenuti a versare e soprattutto le pratiche devozionali 1. Di pari
importanza si sono rivelate le visite pastorali e le relazioni ad limina. Le prime,
divenute più frequenti dopo il Concilio di Trento, nonostante la loro prolissità sono
utili perché forniscono notizie sulle sedi delle confraternite, sul numero dei membri,
sulle risorse finanziarie, sugli arredi sacri 2. Purtroppo gli atti delle visite sono
custoditi quasi sempre negli archivi vescovili, in talune aree male organizzati o
inaccessibili.
Le relazioni ad limina, per lo più conservate presso gli archivi vaticani, avrebbero
dovuto essere la fonte principale per tracciare le mappe ecclesiastiche e per realizzare
il grande Atlante storico rimasto però, per motivi finanziari, alla fase di progetto 3.
Nello studio delle associazioni devozionali, tali documenti presentano limiti di fondo.
Anche se riportano il numero e talvolta anche il nome e il tipo delle confraternite, esse
non consentono di conoscere il numero dei membri e i risultati della loro attività.
Un terzo tipo di fonti utilizzabili per lo studio delle confraternite sono i verbali delle
adunanze. Essi ci informano sulla genesi delle decisioni dei confratelli, sui criteri di
selezione adottati per iscrivere nuovi membri, sull’ordine di precedenza seguito nelle
attività assistenziali e nelle spese. Lo studio dei testamenti offre poi l’opportunità di
indurre non solo motivazioni e atteggiamenti di coloro che destinavano i loro lasciti
alle confraternite, ma anche la consistenza finanziaria. Purtroppo però questo tipo di
fonte è stata poco utilizzata dagli studiosi, forse perché molto spesso scoraggiati dalla
mole del lavoro da compiere 4.
Scopo principale di questa ricerca è stato quello di individuare, attraverso
file:///C|/Documenti/CONFRATERNITE/Vol_2/Testi_2/C4_ciaccio.htm (1 of 12) [25/11/02 9.39.44]
LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE COSENTINE DEL ’700
l’utilizzazione di una fonte diversa da quelle sin qui esaminate - gli elenchi nominativi
forniti dagli statuti delle confraternite cosentine -, il profilo demografico e socioprofessionale degli iscritti.
Cosenza, tra la metà e la fine del XVIII secolo, periodo in cui furono approvati la
maggior parte degli statuti esaminati, attraversava una fase di stasi demografica,
provocata dal succedersi, con un intervallo regolare di venti anni, della peste (1743)
della carestia (1763) e del terremoto (1783) 5. Tali eventi avevano naturalmente
provocato una congiuntura economica sfavorevole che aveva ulteriormente aggravato
le condizioni generali di una società già strutturalmente stagnante.
Lo scenario che si desume dai dati rintracciati nei «fuochi» del catasto onciario è
quello di una popolazione per la maggior parte povera, che vive giornalmente del
proprio lavoro e che, come spesso si legge nelle annotazioni catastali, «non possiede
beni di sorta» 6.
Molti sono i bracciali o torrieri (circa il 20%), proprietari solo della propria forza lavoro, che vivono nelle torri, dove coltivano la terra altrui, trattenendo per sé solo il
necessario per sopravvivere. Numerosi anche gli ortolani e i venditori di foglie, cioè di
gelsi per i bachi da seta, che coltivano ad ortaggi le linze appezzamenti di terra per i
quali, come scrive Pietro Moretti, più elevato è il rapporto rendita - superficie: «Su di
esse si concreta la solerte attività di ortolani, bracciali, venditori di foglie,
frequentemente inurbati dai casali circostanti, che tentano di ghermire alle ridotte
dimensioni del fazzoletto di terra il necessario per soddisfare l’affitto e le esigenze
esistenziali integrando la propria forza lavoro con acqua e letame» 7.
L’orto e il giardino sono infatti presenti in ogni quartiere e danno all’agglomerato
urbano caratteristiche più vicine a quelle del grosso borgo che del centro
metropolitano. Consistente è anche la presenza dei nobili che, come vedremo,
costituiscono gruppo a sé insieme con le loro corti di artigiani, commercianti e, in
ordine decrescente, scrivani, sacerdoti, medici, avvocati, procuratori ad lites.
Una umanità socialmente mista ma con una netta preponderanza del ceto meno
abbiente, che non possiede rendita e vive a stento del proprio lavoro, e decide di
aggregarsi ad una confraternita non tanto a difesa della professione o del mestiere, ma
soprattutto per assicurarsi una qualche forma di assistenza. La «coesione di gruppo» è
qualità labile e transitoria legata a elementi precisi di materialità culturale (reliquie,
statue, immagini sacre) e a funzioni di tipo mutualistico 8. È soprattutto questo aspetto
del mutualismo che dà un’inconfondibile caratteristica alle confraternite cosentine:
assistenza in vita in caso di malattia o povertà, assicurazione per una «buona morte» e
messe di suffragio per l’anima dei defunti.
Per avere un quadro della composizione socio-professionale delle confraternite della
città di Cosenza, abbiamo esaminato i capitoli di 10 statuti che tra il 1752 e il 1793
furono sottoposti all’approvazione regia 9.
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LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE COSENTINE DEL ’700
Le liste nominative sono state quindi incrociate con i dati del catasto onciario della
città (1756) 10, operazione che ci ha permesso di delineare le condizioni socioeconomiche e insieme l’età dei confratelli. Naturalmente il numero dei confratelli
individuati varia a seconda della data di approvazione degli statuti: più lungo è infatti
il lasso di tempo che intercorre tra questa e l’anno di redazione del catasto onciario e
meno possibilità abbiamo avuto di rintracciare gli iscritti. Ad esempio non siamo
riusciti a individuare i componenti della confraternita del SS. Salvatore, che tuttavia è
l’unica che si caratterizza per statuto come confraternita di mestiere: la sua data di
approvazione risale difatti al 1652, circa un secolo prima della realizzazione del
catasto.
Va infine precisato che le dieci confraternite esaminate non forniscono il quadro
completo delle associazioni laiche presenti nella città nel ’700, poiché nel corso della
ricerca abbiamo trovato tracce dell’esistenza di altre associazioni: ma si tratta soltanto
di nomi e di poche notizie sull’anno di fondazione e sull’attività svolta.
Intorno alla metà del XVIII secolo Cosenza, intesa come centro urbano, contava circa
5000 anime: utilizzando i dati disponibili e deducendo la consistenza numerica delle
diverse confraternite esaminate (dalle liste degli iscritti sono stati estratti 459
nominativi e tramite il catasto ne sono stati rintracciati 172), si può supporre che in
quel periodo circa un terzo della popolazione adulta maschile fosse iscritta ad una
confraternita. Infatti, anche se l’associazione ad una confraternita era aperta a tutti
coloro che possedevano buoni requisiti morali, indipendentemente dalle condizioni
sociali e dal sesso, negli elenchi nominativi esaminati non abbiamo rintracciato alcuna
donna, neanche in quella del SS. Rosario, che invece in altre città italiane si era
caratterizzata come società essenzialmente femminile 11. C’è da precisare però che è
impossibile conoscere la composizione reale di una confraternita, poiché spesso le
petizioni al sovrano per l’approvazione degli statuti venivano sottoscritte solo da una
parte degli associati.
Comunque, dai capitoli degli statuti esaminati non emerge alcun accenno alla presenza
femminile, ad eccezione di quello dell’Arciconfraternita del SS. Nome di Maria
Assunta che, oltre a prescrivere l’età minima di ammissione, fissata a quattordici anni,
precisa tra l’altro che «sono anche ammesse nella nostra congregazione le donne,
purché siano di ottimi costumi e no di malo odore e carne tale il fratello (?) ne faccia
libro separato da quello dei fratelli per sapersi quali siano» 12.
Prima di passare all’analisi della composizione demografica e socio-professionale
delle confraternite cosentine, è interessante soffermarsi brevemente sulla loro
dislocazione nella città.
Delle dieci confraternite esaminate solo tre sono ubicate nella parte centrale
dell’agglomerato urbano: l’Arciconfraternita di S. Caterina, socialmente mista ma con
una preponderanza del ceto artigiano, che aveva sede presso la chiesa di S. Francesco
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di Assisi sotto la protezione dei padri francescani; l’Arciconfraternita del SS. Nome di
Maria Assunta e quella della Morte ed Orazione, ambedue collocate all’interno del
duomo e composte soprattutto da nobili, sacerdoti e appartenenti al ceto civile.
Le altre sette erano dislocate nelle zone periferiche del centro urbano: nel quartiere di
Portapiana troviamo la confraternita di S. Giovanni Battista; in quello di S. Agostino,
all’interno dell’omonima chiesa, amministrata dai padri agostiniani, le confraternite di
S. Maria della Consolazione e di S. Maria del Soccorso; nel quartiere dei Pignatari,
nella chiesa del SS. Salvatore vi era l’omonima confraternita e poco distante, nella
chiesa di S. Gaetano, quella di S. Maria del Suffragio e delle Anime del Purgatorio,
sotto la protezione dei padri teatini.
Infine, nella zona più a sud della città, nel quartiere dei Revocati, troviamo presso la
chiesa di S. Domenico, con i padri domenicani, la Confraternita del SS. Rosario che,
come avremo modo di vedere, si caratterizza più di tutte le altre come associazione
socialmente mista, e la Confraternita di S. Maria della Misericordia o dei nobili, che
però nel corso degli anni si sposta in luoghi diversi.
Le concentrazioni risultano caratteristiche: mentre gli ordini dei teatini e degli
agostiniani, situati nelle zone periferiche più povere della città, accolgono al loro
interno confraternite di composizione sociale «bassa» (la maggior parte dei congregati
sono braccianti, ortolani, venditori di foglie, bottegai e piccoli artigiani), gli ordini
francescani e domenicani svolgono una funzione di mediazione fra i gruppi sociali
accogliendo aristocratici e popolari (Confraternita di S. Caterina e confraternita del
SS. Rosario). Invece l’esclusivismo aristocratico sembra essere una caratteristica della
cattedrale, ubicata nel centro della città, dove si alternano «case palaziate» con le
botteghe delle professioni di maggior prestigio: gli speziali, gli orefici, i dottori, i più
danarosi bottegai (Arciconfraternita della Morte e Orazione e Arciconfraternita del SS.
Nome di Maria Assunta).
La piramide per età (vedi tabella n. 1), costruita sulla base delle 166 persone di cui
siamo riusciti a rintracciare i dati anagrafici attraverso il catasto onciario, ci permette
di fare alcune osservazioni preliminari sulle caratteristiche dei confratelli. Dei 166
confratelli, il 34,33% è costituito da individui di età compresa fra i 15 e 30 anni, il
31,92% da persone di età compresa fra i 30 e i 45 anni, il 25,90% sono gli appartenenti
alla fascia d’età fra i 40 e i 60, mentre solo 11 sono i confratelli di età compresa tra i
60 e i 90 (il 4,2% si trova nella fascia d’età 60 -70 e il 3,6% in quella 70 -90). La
giovane età della maggior parte dei confrati trova una spiegazione nella prescrizione
fissata da molti statuti 13 sull’età massima di ammissione, di regola fissata a 25 anni,
termine che però doveva essere senz’altro molto elastico dal momento che dipendeva
dalla discrezionalità dei funzionari ammettere anche persone più anziane.
Del resto va rilevato che, in base ai dati del catasto onciario del 1756, la maggior parte
dei fuochi del centro urbano aveva un capofamiglia di età compresa fra i 20 e i 45
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anni: pertanto la composizione delle confraternite di Cosenza riflette le caratteristiche
demografiche generali della città, composta da una popolazione essenzialmente
giovane.
In genere nelle diverse confraternite erano rappresentati tutti i livelli socio professionali, dai nobili ai contadini, dagli ecclesiastici agli artigiani, dagli avvocati ai
commercianti, sia ricchi che nullatenenti, sia persone colte che analfabeti, anche se la
maggior parte dei confratelli era rappresentata dal ceto meno abbiente, da coloro che
vivevano a stento del proprio lavoro e le cui condizioni di sopravvivenza potevano
facilmente attraversare momenti di crisi a causa delle ricorrenti congiunture
sfavorevoli.
Tuttavia se è vero che l’accesso alle confraternite era garantito ad ogni strato sociale, è
anche vero che i nobili, i possidenti o, in mancanza di questi, i vari mastri - artigiani e
i più ricchi commercianti ricoprivano, all’interno di esse, le cariche più importanti.
Secondo D. Zardin 14 studioso delle confraternite milanesi, era molto raro che un
confratello di basso livello sociale ricoprisse un ruolo importante: in generale era
l’aristocrazia della parrocchia a dominare nelle cariche di ogni tipo.
Il dominio delle classi sociali alte negli incarichi interni alle confraternite amplificava
ulteriormente la loro capacità di controllo sociale; d’altra parte però solo i membri
dell’élite erano in grado sia di fungere da intermediari con le istituzioni, sia di trattare
con padronanza le questioni finanziarie (lasciti, doti) 15. I cittadini del ceto medio
invece, esclusi dall’esercizio del potere politico negli organi amministrativi delle città,
potevano occupare ruoli importanti purché non fossero in competizione con nobili o
possidenti. Oltre alla composizione sociale, anche l’ampiezza numerica variava da una
confraternita all’altra: dalla serie di dati riportati negli statuti sono state contate da un
minimo di 25 persone (Confraternita di S. Maria del Soccorso) ad un massimo di 117
(Arciconfraternita del SS. Rosario).
Per avere una chiara idea della stratificazione socio - professionale delle confraternite
ho proceduto all’identificazione della qualifica relativa a 169 persone. I mestieri
risultati sono 36 (se ne veda la lista compilata in ordine decrescente secondo il numero
degli appartenenti nella tabella n. 2).
Con il 20,11% la classe dei bracciali è quella maggiormente rappresentata. Se a questi
aggiungiamo gli ortolani e i venditori di foglie, come se si trattasse di appartenenti alla
stessa categoria professionale, la percentuale sale al 27,81%. Se invece raggruppiamo
sotto la stessa denominazione di artigiani i vari sartori, fabbricatori, calzolai, manipoli,
indoratori, crocifissieri, falegnami, lavoranti di oreficeria, pittori, mastri di sportone,
questa categoria sale in testa con il 22,48% del totale. Seguono, in percentuali
nettamente inferiori, i nobili patrizi 16, i bottegai, gli scrivani, i sacerdoti, i procuratori
ad lites, i dottori e gli avvocati.
Sebbene la mescolanza sociale fosse abbastanza diffusa nelle confraternite cosentine,
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ciò non vuol dire che non vi fossero anche associazioni esclusive per ceto o
corporative o «di mestiere».
Infatti, delle dieci confraternite studiate, due in particolare si caratterizzano come
associazioni esclusive: l’Arciconfraternita di S. Maria della Misericordia e quella del
SS. Salvatore.
La prima, già nella parte introduttiva dello statuto, chiarisce il suo carattere elitario, di
classe, essendo riservata solo ai nobili, «a coloro che godono l’onore del Sedile» 17
anche se più avanti si precisa che possono farne parte anche «gli avvocati o distinti
galantuomini da ammettere però con voto segreto dei due terzi dei componenti della
confraternita e non dei due terzi di quelli che si congregano».
La seconda, la Confraternita del SS. Salvatore, di cui però non è stato possibile
rintracciare i componenti attraverso il catasto poiché il suo statuto risale al 1652, si
caratterizza come associazione di sarti. Infatti nell’introduzione allo statuto si legge:
«Nell’illustrissima città di Cosenza ... ab antico tempore una lor cappella in detta città,
sotto nome del SS. Salvatore et Santo homo Buono dell’arte dei Cositori dove sempre
in essa si son fatte ed al presente si fanno molte opere pie, per servizio dei poveri di
detta arte» 18.
I mastri sartori iscritti a questa confraternita erano tenuti a pagare «grana 5 al mese per
sovvenzione dei poveri di detta arte». Inoltre le regole stabilivano anche che in città
non potessero essere aperte botteghe di sarti senza l’approvazione dei sei funzionari
della confraternita: per tale scopo dovevano essere versate «libra cinque di cera
bianca». L’intento principale dell’associazione era soprattutto mutualistico, ma con
una forte componente corporativa a difesa dell’arte e della professione.
Anche se non viene specificato nei loro statuti, altre due confraternite possono essere
identificate come associazioni di mestiere: S. Giovanni Battista e S. Maria della
Consolazione ambedue situate in quartieri periferici e piuttosto popolosi (Portapiana e
S. Agostino).
Dei 67 componenti della prima, attraverso il catasto, ne sono stati rintracciati 29, tutti,
ad eccezione di un portiere di piazza, un indoratore, un proprietario e 5 di cui non si
conosce la professione, bracciali o figli di bracciali residenti nel quartiere di
Portapiana o in zone limitrofe. Inoltre al suo interno sono stati individuati tre gruppi
parentali: Spadafora (6 componenti), Dodaro (9 componenti), Mazzuca (5
componenti). Quindi oltre a caratterizzarsi come confraternita di mestiere, S. Giovanni
Battista si qualifica come una associazione dominata da tre grossi clan familiari, dal
momento che su 67 iscritti ben 20 appartenevano a tre gruppi consanguinei. Del resto i
dati del catasto 19 hanno evidenziato che il quartiere di Portapiana è quello con la più
alta concentrazione di famiglie consanguinee. Altra caratteristica della Confraternita di
S. Giovanni Battista è il bassissimo livello di alfabetizzazione dei suoi associati: su 67
iscritti, solo 3 infatti sono in grado di firmare, cosa del resto ovvia dal momento che,
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come abbiamo visto, i suoi componenti erano per la maggior parte braccianti.
Molto simile alla prima come composizione sociale è la confraternita di S. Maria della
Consolazione che, ad eccezione di un mastro calzolaio, che tra l’altro era l’unico in
grado di firmare, era composta esclusivamente da bracciali o figli di bracciali. C’è da
rilevare che, fra le confraternite esaminate, questa era la più povera, non possedendo
alcuna rendita e vivendo esclusivamente di elemosine.
Ubicata nella medesima chiesa, quella di S. Agostino, ma composta da appartenenti ad
un ceto sociale più alto, la confraternita di S. Maria del Soccorso era quella
numericamente più piccola: infatti i suoi iscritti erano solo 25. Poiché il suo statuto fu
approvato nel 1778, quindi 23 anni dopo la realizzazione del catasto onciario,
conosciamo la professione di una sola delle 8 persone rintracciate (un mastro
calzolaio) mentre abbiamo individuato il mestiere dei padri di altri 6 membri: 2
soldati, un mastro-calzolaio, uno scrivano, un mastro-sartore e un crocefissiere; tra
l’altro, ben 13 dei 25 iscritti sono in grado di firmare. L’esame dei mestieri dei
componenti della confraternita di S. Maria del Suffragio e delle Anime del Purgatorio,
ubicata nella chiesa di S. Gaetano nel quartiere dei Pignatari, ci dà il quadro di una
associazione composta in massima parte da commercianti (5 bottegari e 1 macellaio),
ortolani e venditori di foglie (n. 9), artigiani (1 indoratore, 1 mastro-sartore, 1 pittore,
1 mastro-calzolaio, 1 tappezzatore di scarpe) ai quali si aggiungono 3 sacerdoti, 2
bracciali e 1 servitore. In questa confraternita i posti di prestigio sono occupati da due
persone di condizione economica abbastanza agiata: Niccolò Stocchi, figlio di un
grosso commerciante che ha investito nella bottega un capitale di 1100 ducati, ricopre
la carica di priore e Giovanni Conte, assistente, insieme al fratello è proprietario di tre
botteghe e possiede un capitale di 500 ducati. Non estraneo, in ogni caso, era l’uso
sapiente delle risorse parentali: due nipoti di Conte che lavoravano nella bottega dello
zio risultano infatti membri della confraternita. Un esempio questo di come, all’interno
di una stessa confraternita, le cariche di rilievo venissero ricoperte da quanti, seppur
privi di potere politico, detenevano comunque quello economico. Caratteristica
peculiare di S. Maria del Suffragio e delle Anime del Purgatorio è l’istituzione al suo
interno di un «Monte» che garantiva ai suoi associati il «beneficio funerario». Infatti si
legge nei capitoli dello statuto che «Tutti li fratelli che vorranno ascriversi in detto
Monte, devono pagare carlini due l’anno e la congregazione deve darli i soliti suffragi
con il suono delle campane, sepoltura e confraternita deve pagare il jus funeris, libre
sei di cera, e tutto ciò sempre che averà pagato puntualmente ogni anno li suddetti
carlini due, e ritrovandosi in attrasso, non sia la congregazione tenuta a cosa alcuna,
ma pagandosi dagli eredi gli attrassi, dovranno godere come avessero pagato in vita.
Non ascriveranno in detto Monte Fratelli o Sorelle, senza espressa licenza o consenso
degli officiali, qual dovranno vigilare, che coloro, che si vogliono ascrivere non
oltrepassano l’età di anni venticinque» 20. Una posizione sociale ed economica più
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LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE COSENTINE DEL ’700
elevata sembra caratterizzare gli appartenenti alle due confraternite ubicate presso il
duomo: l’Arciconfraternita della Morte ed Orazione e quella del SS. Nome di Maria
Assunta.
La prima si caratterizza decisamente come associazione d’élite, essendo composta
quasi esclusivamente da aristocratici, dottori, avvocati, notai, qualche grosso
commerciante, un mastro-sartore e da ecclesiastici (9 su 59 sono sacerdoti e chierici).
Tutti sono in grado di firmare e quasi tutti risiedono nel nucleo del centro storico che
ha il suo perno nella cattedrale. Le «rivele» del catasto relative ai loro beni mobili ed
immobili testimoniano una agiata condizione economica.
Caratteristiche un po’ meno elitarie sembrano qualificare l’Arciconfraternita del SS.
Nome di Maria Assunta, che annoverava tra i confratelli (13 individuati su 39 iscritti)
un dottore, due agiati commercianti, un mastro-barbiere, i figli di uno speziale, di uno
scrivano e di un mastro-barbiere e quattro conciatori, di cui due padre e figlio. Anche
questi confrati sono tutti in grado di firmare ed abitano per lo più nelle immediate
vicinanze del Duomo.
Ma quella che più delle altre si configura come associazione «aperta», non esclusivista
né socialmente, né territorialmente, è la Confraternita del SS. Rosario, ubicata nella
chiesa di S. Domenico, sotto la protezione di padri domenicani. Infatti la provenienza
sociale dei membri è abbastanza composita: si va dal nobile patrizio e dall’avvocato
fino al bracciale e al tavernaro, al solachianelli (calzolaio), all’ortolano. Una così
marcata differenziazione sociale era con tutta probabilità lo specchio di reti clientelari,
dunque verticali, che si prolungavano anche nella sfera cerimoniale. Inoltre il SS.
Rosario era la confraternita composta dal maggior numero di giovani: 17 delle 43
persone rintracciate sono infatti di età inferiore ai trenta anni (e di questi 17 ben 11
sono sotto i venti anni), 15 appartengono alla fascia d’età fra i 30 e i 45 anni, 6 fra i 45
e i 60 anni e solo 4 sono fra i 60 e gli 80 anni, tutti, tra l’altro, distribuiti in ben sette
gruppi parentali. Il SS. Rosario era l’associazione più numerosa (i suoi iscritti erano
114 di cui 53 in grado di firmare) e se è vero, come scrive Edoardo Grendi 21, che il
«numero» dei confratelli è di regola una spia del successo di una confraternita, questa
doveva senz’altro essere la più ambita di tutte.
L’ultima delle confraternite studiate, quella di S. Caterina, ubicata nella omonima
cappella presso la chiesa di S. Francesco di Assisi, risultava composta, ad eccezione di
un sacerdote e due scrivani, per la maggior parte da artigiani (indoratori, manipoli,
muratori, calzolai), gente che viveva del proprio lavoro senza possedere «beni di
sorta». Anche questa confraternita aveva istituito un «Monte funerario» che dietro
versamento di due carlini all’anno avrebbe dovuto garantire agli associati «li soliti
suffraggi di campana, sepoltura, confraternita ed altro» ed un «Monte di maritaggio»
che distribuiva ogni due anni una dote di 25 ducati alle figlie dei confratelli di età
compresa fra i 6 e i 12 anni 22. Anche in questo casi i «fratelli» iscritti al «Monte
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funerario» non avrebbero dovuto superare il 25° anno di età.
Feste cerimoniali, culto, ma soprattutto mutualismo per la «vita eterna» e più di rado
per quella terrena: questo soprattutto, il ruolo delle confraternite cosentine.
L’aggregazione di gruppo o rifletteva catene solidaristiche preesistenti oppure era
legata soprattutto a funzioni di tipo mutualistico: la promessa di aiuto alla propria
famiglia in caso di necessità e l’assicurazione per una «buona morte». Come afferma
Pietro Moretti 23 «L’incapacità di organizzarsi a difesa dell’arte della professione, del
mestiere e dell’affinità di insediamento priva la società cosentina di alcune,
fondamentali istituzioni aggreganti che altrove e per sistemi politici similari, hanno
avuto gran peso sociale ed economico. Congregazioni e confraternite, su tale piano,
non dimostrano di avere rilevante incidenza». Infatti esse appaiono soprattutto come
istituzioni destinate a rafforzare le coesioni verticali di uomini di diversa estrazione
sociale, dei quali tendevano a legittimare il ruolo raggiunto o le funzioni svolte. «Le
varie congregazioni, ad esempio, non regolamentano certamente concorrenze e
competitività. Stabiliscono però con grande enfasi il diritto ad una particolare
sepoltura, la minuziosa cerimonia funebre dell’adepto, l’abito che indosserà nelle feste
religiose, la solennità con la quale festeggerà il santo patrono. Simboli distintivi ai
quali i congregati tengono moltissimo». Inoltre le possibilità di usufruire di alcune
facilitazioni economiche (prestiti, censi) e di doti per le proprie figlie o sorelle
rappresentavano non trascurabili incentivi soprattutto per le classi sociali meno
abbienti. Un considerevole lascito in favore della Congregazione del SS. Rosario fece
si ad esempio che in breve tempo si associasse ad essa un folto numero di appartenenti
al ceto «civile» in vista di una prossima distribuzione delle cariche «Apparenza per
mantenere e consolidare il proprio stato e apparenza per sopravvivere. Al riparo di
tanti istituti e istituzioni dalle finalità, in prima istanza, estremamente evidenti si cela,
appunto, questo rapporto causale».
Solo le confraternite nobiliari costituiscono gruppo a sé e si caratterizzano come
associazione politica, più rivolta a confermare il prestigio o a esercitare controllo
sociale che a svolgere una funzione mutualistica: un ruolo messo ancor più in evidenza
dalla «protezione» offerta dalla cattedrale.
Note
1 C. BLACK, Le confraternite italiane del cinquecento, Milano 1992.
2 V. MAZZONE - A. TURCHINI (a cura di), Le visite pastorali. Analisi di una fonte, Bologna
1985.
3 M. ROSA, Geografia e storia religiosa per l’«Atlante storico italiano, in «Nuova rivista
storica», 53, 1969.
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LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE COSENTINE DEL ’700
4 S. K. COHN, Death and Property in Siena, 1205-1800, Baltimora e London 1988.
5 P. MORETTI, Immagine di una società in crisi, Milano 1979.
6 A. ROVITO, Cosenza 1756 (demografia e società), tesi di laurea. Facoltà di Lettere e
Filosofia, Università della Calabria, aa. 1989-90.
7 P. MORETTI, Immagine di una società ...
8 E. GRENDI, Le confraternite come fenomeno associativo e religioso in «Società, chiesa e
vita religiosa nell’ancien régime», a cura di Carla Russo, Napoli 1976.
9 ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA (d’ora in poi ASCS). Fondo Opere Pie (d’ora in poi
F.O.P.). Statuti, b. 2.
10 A. ROVITO, Cosenza 1756 ...
11 C. F. BLACK, Le confraternite italiane ...
12 ASCS, F.O.P., Statuti, b. 2, f. 77.
13 ASCS, F.O.P., Statuti, b. 2, f. 73.
14 D. ZARDIN, Carità e mutua assistenza nelle confraternite milanesi agli inizi dell’età
moderna, in La carità a Milano nel sec. XII-XV, a cura di M. P. Alberozzi, Milano 1989.
15 Come ad esempio, il posto da occupare nelle processioni o l’assistenza da prestare ai
condannati a morte, questioni che scatenavano molto spesso dei conflitti tra le varie
confraternite tanto da dover chiedere spesso l’intervento sovrano per risolverli.
16 Per i nobili la percentuale è stata calcolata solo su i 14 rintracciati in otto confraternite,
mentre non sono stati conteggiati quelli iscritti alla Confraternita di S. Maria della
Misericordia, composta esclusivamente da aristocratici.
17 ASCS, F.O.P., Statuti, b. 2 f.
18 ASCS, F.O.P., Statuti, b. 2, f. 66.
19 A. ROVITO, Cosenza 1756 ...
20 ASCS, F.O.P., Statuti, b. 2, F. 74.
21 E. GRENDI, Le confraternite come fenomeno ...
22 ASCS, F.O.P., Statuti, b. 2, f. 73.
23 P. MORETTI, Immagine di una società ...
Tabella 2
1) Bracciali 34
2) Nobili patrizi
14
3) Bottegari 12
4) Scrivani 10
5) Calzolai* 10
6) Sacerdoti 8
7) Conciatori
8
8) Ortolani 7
9) Procuratori ad lites
10) Venditori di foglie
11) Dottori 6
6
6
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LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE COSENTINE DEL ’700
12) Mastri sartori
5
13) Mastri fabbricatori
14) Avvocati 4
15) Barbieri 4
16) Proprietari
3
17) Manipoli 3
18) Indoratori
2
19) Portieri di piazza 2
20) Servitori 2
21) Soldati 2
22) Tavernari 2
23) Amministratore di corte
24) Cameriere
1
25) Crocifissiere
1
26) Cuoco 1
27) Mastro falegname 1
28) Fornaro 1
29) Lavorante di oreficeria
30) Macellaro
1
31) Molinaro 1
32) Petraiolo 1
33) Pittore 1
34) Speziale di medicine
35) Mastro cribaro
1
36) Mastro di sportone
5
1
1
1
1
totale 16
Sotto la stessa denominazione di calzolai sono stati raggruppati scarpari, solachianelli,
tappezzatori di scarpe, lavoranti di calzoleria, mastri calzolai.
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LA COMPOSIZIONE SOCIO-PROFESSIONALE DELLE CONFRATERNITE COSENTINE DEL ’700
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ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA. UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA.
UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
Sonia Dramisino
Cenni storici
L’Arciconfraternita di S. Maria della Misericordia fu fondata nel XVI secolo dai nobili
del Chiuso Sedile di Cosenza, con il fine di prestare assistenza a quanti venivano
condannati a morte 1.
Le notizie ad essa riferite sono frammentarie e spesso contraddittorie perché l’attività
della confraternita non fu sempre costante, infatti a periodi di intenso lavoro se ne
alternavano altri di inoperosità quasi totale, per cui non è stato facile realizzare un
lavoro di ricostruzione coerente e coeso.
Altresì difficoltoso è stato verificare il suo sviluppo e la sua evoluzione diacronica,
visto che nei periodi di stasi, la Misericordia era solita mantenere formalmente le
iscrizioni. I documenti dai quali sono state attinte le notizie più interessanti, risalgono
principalmente ai secoli XVII e XX e consistono, per lo più, in lettere e disposizioni
varie, testamenti, atti di vendita, elenchi dei confratelli. Poche le notizie riguardanti i
primi decenni del ’900 quando l’arciconfraternita cessò la sua attività; si limitano a
piccoli accenni le notizie riferite al ’500, periodo della sua istituzione. Per tali lacune
non è stato possibile desumere la data esatta della fondazione. Per avere un’idea
approssimativa ci si deve rifare a quanto sostenuto da Andreotti 2, che fissa la data nel
1531, e da Caruso, che la colloca otto anni dopo, nel 1539 3.
Considerato che il periodo di maggiore sviluppo delle confraternite calabresi è quello
che va dalla seconda metà del XVI secolo, alla prima metà del XVII secolo si può
affermare che anche per la Misericordia questo fu un momento di grande vitalità. La
sua floridezza può essere comprovata dalle adesioni, copiose, fin dal suo nascere.
Infatti un quaderno non datato, però da collocarsi presumibilmente, tra metà ’500 fine
’700, comprende ben 572 iscritti, appartenenti alla nobiltà cosentina, condizione
necessaria per poter entrare a far parte della confraternita 4. Le lacune di cui si è
accennato e che, interessano soprattutto un arco di tempo di circa due secoli, sono
forse da attribuire per quel che riguarda il quarto e quinto decennio del ’600, a tutta
una serie di calamità naturali abbattutesi su Cosenza (prima fra tutte la peste del 1566
e la conseguente carestia, poi il terremoto del ’59, che distrusse quasi tutti i paesi
calabresi sconvolgendone la struttura sociale); nonché all’incuria dei custodi degli
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ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA. UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
Archivi locali, che non hanno sufficientemente custodito importanti testimonianze
scritte, utili per ricostruire la storia. Anche la Confraternita della Misericordia sembra
risentire di questa fase di declino innescata certamente dalla crisi economico-sociale
del Regno, e soprattutto dalla soppressione innocenziana dei piccolo conventi (1652)
5.
Da alcuni documenti allegati allo Statuto, si rileva che nel corso degli anni la
congregazione mutò più volte il luogo delle sue riunioni 6. Dall’anno della fondazione
fino a metà del XVII secolo la Misericordia ebbe sede in un’ala dell’Ospedale. Infatti,
il 4 ottobre 1549 in un pubblico parlamento su proposta del Magnifico Gio Mario
Garofalo, assistente dell’Ospedale, fu dato, ai confratelli dai sindaci della città
l’assenso per poter allestire a loro spese una camera e una cappella per la sepoltura.
Nel 1593, l’allora priore Gioan Carenzo Migliaresi comprò, sempre dall’Ospedale il
luogo dove erigere la chiesa. Nel 1686 la confraternita si trasferisce in una chiesetta
posta nel borgo dei Revocati di fronte al convento di S. Domenico. Questa fu luogo di
congregazione fino al 1783 anno in cui per un nuovo e terribile terremoto, la chiesa, in
seguito alle gravi lesioni riportate, venne abbattuta.
A questo punto ai nobili congregati fu assegnata una cappella attigua alla chiesa di S.
Nicola dove rimasero forse fino al 1784, anno in cui l’arcivescovo Mormile cedette
loro la cappella dei SS. Filippo e Giacomo sita nel Duomo. Riguardo la storia della
Misericordia Andreotti scrive testualmente:
Sotto Carlo V il 1531 fu eretta da Gentiluomini della città una congregazione sotto il
titolo di S. Maria della Misericordia nel pietoso fine di accompagnare coloro che
doveano giustiziarsi e, mentre che erano in cappella di povvederli di ciò che loro
occorresse, e finalmente fornirli di sepoltura nella propria chiesa. A quest’oggetto i
confratelli nel 5 ottobre de detto anno, per istrumento rogato da Notar Giammatteo
Rizzuto, comprarono le case che Girolamo Migliaresi possedea di rimpetto al
convento dei PP. Domenicani. E perché l’assistenza spirituale venisse
scrupolosamente prodigata agli infelici, si offrivano dodici sacerdoti tra i confratelli
che vestivano l’abito bianco e portavano la croce a petto in segno di nobiltà. Questa
congregazione resse finché non si fondò la congregazione dei Nobili nel monastero dei
Gesuiti. Passati qui quei fratelli, i cadaveri dei giustiziati tolsero a seppellirsi nella
vecchia chiesa dell’Annunziata posta dietro il Carmine, e i Nobili usarono loro la
debita assistenza uscendo da quest’ultima. Soppresso il Monastero dei gesuiti nel
1767, questi confratelli si riunirono ora in un luogo ora in un altro, ma per lo più nella
chiesa dei Teatini, finché nel 1794 non ebbero da Monsignor Mormile il possesso della
chiesa dedicata ai Santi Filippo e Giacomo 7.
Nello Statuto della confraternita, l’affermazione secondo la quale questa fosse stata
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ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA. UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
eretta nel convento dei Gesuiti, viene smentita. Si legge infatti: «... che la
congregazione che esisteva nella chiesa dell’abolita compagnia dei Gesuiti, non era
quella della Misericordia ma sebbene un’altra sotto la denominazione di S. Maria
dell’Annunciata, che fu per appunto quella che, con l’espulsione dell’anzidetta
compagnia dei Gesuiti, rimase anch’essa soppressa» 8.
A questo punto si potrebbe ipotizzare che fossero esistite a Cosenza due confraternite
di patrizi l’una sotto il titolo di S. Maria della Misericordia l’altra sotto il nome di S.
Maria dell’Annunciata e che, con la soppressione di quest’ultima, i suoi membri e i
beni in suo possesso vennero assorbiti dalla prima. Oppure che, dal momento che
l’espulsione dei Gesuiti fu il punto di avvio di una grandiosa opera di ridistribuzione
fondiaria dando a censo i beni incamerati dallo Stato, i Nobili confratelli, in seguito
alle leggi di ammortizzazione che vietavano nuove vendite e donazioni ai luoghi pii,
per non perdere i beni in loro possesso negarono di aver fatto parte del collegio. Ma
queste ipotesi, sono da dimostrare visto che i documenti a disposizione, pochi e
frammentari, non permettono di far completamente luce su questa vicenda. Per avere
notizie certe circa il luogo di riunione dei confratelli bisogna aspettare il 1794 quando,
come già accennato, la congrega ottenne il possesso di una cappella nella Chiesa
Metropolitana. Quello compreso tra la fine del ’700 e la prima metà dell’800 fu un
periodo molto intenso per la confraternita, infatti la vediamo impegnata a regolarizzare
la sua posizione col chiedere il Regio Assenso, a prodigarsi nell’opera di assistenza ai
condannati, ad adempiere pienamente agli obblighi statutari riguardanti la celebrazione
delle messe in suffragio delle anime dei confratelli defunti 9, a chiedere al sommo
pontefice le indulgenze 10, a sollecitare la concessione di privilegi 11. La troviamo,
altresì, impegnata nella controversia con la Confraternita del Crocifisso, conclusasi,
dopo tante traversie, con la vittoria in suo favore.
Sotto il profilo politico gli inizi dell’800 furono per l’Italia Meridionale, abbastanza
movimentati, per la caduta di Murat, per la fine di Napoleone e il ritorno dei Borboni a
Napoli. Le confraternite si trovarono avvantaggiate dal fatto che nel Regno di Napoli,
non era mai stato applicato il decreto di Napoleone del 1811 che ne determinava la
soppressione. Ma lo stesso Murat aveva emanato un provvedimento che tendeva a
sottoporre i luoghi pii al controllo dello Stato con la creazione del Consiglio Generale
degli Ospizi controllato dal Ministero dell’Interno, facendo si che, anche
sopravvivendo, queste istituzioni perdessero in pratica ogni autonomia. Pertanto, forse
solo dopo il decennio francese si cominciò a registrare una ripresa delle confraternite,
anche se di breve durata. Un cospicuo numero di fratelli e sorelle iscritti alla
Misericordia si registra in un Libro della Fratellanza datato 1826-1837, nel quale si
contano ben 104 fratelli e ottanta sorelle per un totale di 184 congregati 12, più del
doppio di quelli iscritti tra il 1800 e il 1824 quando si contavano 66 fratelli e 26
sorelle.
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Con l’Unità d’Italia e la successiva legge per la liquidazione dell’asse ecclesiastico
(1867), il governo non soltanto entrò in possesso del patrimonio e delle rendite delle
chiese, ma danneggiò anche le associazioni laicali distraendole dai loro fini religiosi
ed umanitari. Ovviamente la crisi che si verificò all’interno della chiesa e che
coinvolse anche le confraternite, era troppo profonda per essere soltanto attribuita alle
difficoltà economiche derivate dall’incartamento dei beni 13. La situazione si presentò
particolarmente confusa nel periodo post unitario, non solo per il totale impoverimento
delle confraternite, ma anche e soprattutto per il graduale svuotamento delle loro
caratteristiche peculiari. I vari provvedimenti di legge che introducevano una
definitiva frattura tra culto e beneficenza, sottoposero la vita dei pii sodalizi a sempre
più dirette interferenze da parte delle autorità provinciali e comunali che dovevano
amministrarne i beni.
Per questa via fu facile l’infiltrazione, tra gli stessi confratelli, di persone di tendenze
opposte che del tutto estranee alle esigenze religiose delle confraternite, ne
strumentalizzavano le risorse e il prestigio per i loro fini particolari: fini spesso di
lucro economico ma spesso anche di pressione politica 14. A questa fase di decadenza
e di crisi, non si sottrasse neppure la Misericordia. Per evitare infatti, un disperdersi di
essa nel 1867 da una ristretta rappresentanza del patriziato cosentino, venne proposto
al canonico Paolo di Tarsia di assumere la direzione spirituale della confraternita, di
curarne l’amministrazione, nonché di provvedere personalmente al mantenimento
della chiesa. In questo periodo i confratelli dimostravano un vistoso disinteresse,
cominciavano a non intervenire più alle elezioni degli amministratori, a non
corrispondere la somma annuale per il mantenimento della stessa congrega. La
cappella rimase inattiva e in essa non vennero celebrate neppure le messe in suffragio
dei fratelli defunti che ne avevano fatto richiesta con regolare testamento 15. La
confraternita, dunque, per un certo lasso di tempo cessò di funzionare, lo dimostra il
bilancio degli anni 1879-1896 che, pur amministrato con grande zelo dal Tarsia, si
chiudeva sempre in passivo 16. Dal 1899 in poi reggente della Misericordia fu D.
Giuseppe Nobili Bombini, il quale cercò di risollevarne le sorti con l’aiuto e il volere
di altri patrizi. Innanzitutto si presentò una istanza all’arcivescovo affinché
intervenisse presso la Santa Sede per ottenere clemenza: l’arciconfraternita aveva
sospeso le celebrazioni delle messe annuali che era in obbligo di far solennizzare e,
rimasta chiusa e disorganizzata per alcuni anni, non aveva avuto modo di adempiere a
tali doveri.
Si chiese anche l’autorizzazione ad utilizzare la somma ricavata dalle annualità passate
e capitalizzate dei censi sui quali gravavano le messe, per dei lavori urgenti e necessari
alla cappella di S. Filippo e Giacomo resa impraticabile, anche, per essere stata adibita
a deposito di materiale durante il restauro del Duomo. Per tali migliorie si decise
persino di vendere due statuette d’avorio, di grande pregio artistico, di proprietà della
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ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA. UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
confraternita.
Le celebrazioni delle messe ripresero nel 1902, in seguito ad un Rescritto della Santa
Sede datato 4 luglio 1899 che stabilì che le messe da celebrarsi per la confraternita
dovevano essere in tutto 25: 22 per legato Sersale, 3 per legato D’Aquino e un
anniversario 17. Nonostante i numerosi tentativi fatti, non si riuscì a far risorgere
l’antica congrega visto che nel 1914 la cappella venne ceduta al parroco della
Cattedrale D. Giacomo Maiorano. In qualità di Reggente, il signor Bombini, previ
accordi verbali con i pochi confratelli rimasti, acconsentì alla cessione dal momento
che la chiesa era chiusa al culto oramai da diverso tempo 18. Dopo la morte del
Maiorano, la cappella fu nuovamente chiusa al culto e riattivata nel ’20 quando, il
nuovo parroco del Duomo, fece richiesta per riaverne la concessione.
Gli atti che documentano le ultime sorti della confraternita risalgono al 1926 quando,
il signor Bombini, consegnò alla congregazione di Carità gli oggetti di proprietà della
confraternita. Nel 1938 però vi fu un tentativo, dello stesso Bombini, di riattivare la
Misericordia anche per riavere la suppellettili sacre che, qualche anno prima, erano
state cedute al Monte di Pietà 19. Non è facile individuare la cause che hanno
determinato la fine della confraternita. Volendo fare delle ipotesi si può prendere in
considerazione il graduale assottigliamento dei mezzi economici che l’avevano
sostenuta, il suo impoverimento morale e spirituale che, specie nel periodo post
unitario, venne favorito dal generale rilassamento dei costumi dell’ambiente
ecclesiastico e dalla mancanza di preparazione religiosa. Non meno incisiva fu
l’abolizione, nel 1889, della pena di morte in tutto il Regno che la privò del suo
compito primario, considerato che non vi erano più condannati cui prestare la dovuta
assistenza. Specialmente nel XX secolo, motivo di decadenza può essere
l’attaccamento a schemi di mentalità, di comportamento, di aggregazione radicati in
una tradizione socio-culturale che andava sgretolandosi sotto i colpi di un processo di
trasformazione rispetto a cui, il tipico modello confraternale si manifestava inadeguato
e anacronistico soprattutto se si tiene presente che, con la dissoluzione della nobiltà,
gli spazi alti si erano oramai liberati 20.
Lo Statuto
Il Regno di Napoli, dopo la dominazione spagnola, riconquista nel 1738 la propria
indipendenza politica sotto la Casa di Borbone con il giovanissimo Re Carlo III. Ebbe,
come primo ministro, il Marchese Bernardo Tanucci, uomo di intelligenza superiore,
ma anticlericale, che limitò fortemente i privilegi del clero, restringendo le immunità
fiscali ecclesiastiche, il diritto dei vescovi di mantenere tribunali propri. Soppresse
vari ordini religiosi, dispose la chiusura di tutte le confraternite che, entro un mese,
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non avessero ottenuto il Regio Assenso sia nell’atto della fondazione, sia nello Statuto.
Scontrandosi con la nuova normativa, le confraternite del Regno Furono obbligate a
rivedere gli Statuti e, per molte, fu l’occasione per avviare un vero e proprio processo
di rivitalizzazione, proprio quando nel resto della penisola le stesse istituzioni
conoscevano il declinio. Per obbedire alle regie disposizioni, quarantadue esponenti
della Misericordia, supplicando il Re Ferdinando IV affinché si degnasse di concedere
ut Deus il reale assenso, inviarono nella capitale l’istanza sottoscritta, insieme ad una
copia dello Statuto corredato da notizie storiche circa l’epoca di fondazione ed ogni
altro elemento che potesse contribuire a definire meglio la fisionomia dell’Ente.
L’approvazione dello Statuto, nonché quella delle regole fu accordata dal Re il 30
luglio 1793. Tra le confraternite della città, la Misericordia fu l’ultima a chiedere ed
ottenere il Reale Assenso, per questa ragione nelle processioni essa occupava il
dodicesimo posto, così come stabilito dal Consiglio Generale degli Ospizi con decreto
del 18 febbraio 1829 21.
Agli articoli dello Statuto, sono allegate delle clausole aggiuntive apposte dal
Cappellano Maggiore che riguardano il divieto di fare acquisti, essendo la
congregazione compresa nelle leggi di ammortizzazione che avevano l’obbligo di
recidere alle radici i legami con l’autorità vescovile e con la chiesa di Roma, e
l’ingerenza del clero negli affari interni della Associazione. Agli ecclesiastici iscritti
alla Misericordia infatti, veniva espressamente vietato di esercitare il diritto elettorale
attivo e passivo e di assistere alle adunanze elettorali. Inoltre, come stabilito dal
Concordato del 1741 tra la Santa sede e il regno di Napoli, il rendimento dei conti
della confraternita veniva soprainteso da un tribunale misto, formato da chierici e laici,
eretto a Napoli, che sorvegliava sull’uso delle rendite e nel contempo decideva sulle
liti che potevano insorgere 22. La scelta degli amministratori e dei razionali, cadeva su
coloro che non fossero debitori della confraternita né parenti di quelli che avevano
svolto in precedenza le stesse funzioni, fino al terzo grado di consanguineità e il primo
di affinità. Vi sono infine delle aggiunte, circa il diritto del parroco durante le esequie
e circa l’obbligo di tenere le processioni e le esposizioni del SS. Sacramento solo dopo
avere ottenuto le debite licenze, oltre alla raccomandazione di non aggiungere nulla
alle regole approvate. La confraternita dei Nobili accettando gli articoli aggiunti in
calce dal Cappellano, non solo voleva adeguarsi alla legislazione vigente, ma
soprattutto aspirava al riconoscimento, con atto sovrano, dalla sua qualità laicale per
porsi a riparo sotto la protezione regia da ogni possibile evenienza in caso di
controversie con l’Autorità Ecclesiastica 23.
Lo Statuto scritto su dieci pagine di pergamena è costituito da undici regole, le quali,
come risulta dai documenti, non subirono nel tempo alcuna modifica. Le norme in
esso contenute, come è noto, costituiscono una fonte degna di fede, in quanto
rispecchiano usanze già in atto da secoli, tramandate e rispettate da generazione in
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generazione. In esso non si riporta la data esatta di fondazione, mentre ricorrono, come
vedremo, vaghe indicazioni che rimandano ad origini ab immemorabili o a tre e più
secoli addietro. Per una maggiore conoscenza delle norme statutarie che regolavano la
vita sociale dei confratelli, è utile operarne una accurata trascrizione:
Regola I: Il Divin Salvatore diè alla chiesa, che egli fondò su base eterna, precetti e
consigli. La chiesa ha insinuato ai fedeli l’osservanza sia degli uni che degli altri, e si è
veduto che i cristiani rapiti di santo zelo di religione han con somma scrupolosità
messo in pratica i consigli, come altrettanti precetti e non sono mancati gli eroi che
hanno introdotto nella chiesa Istituti, coi quali si è insegnato a progessare per voto i
consigli. Le opere di misericordia nel cuore dei fedeli han sempre ispirato un
entusiasmo di santo amore per la chiesa cattolica. Sulle orme di questa dottrina la
nostra Arciconfraternita di S. Maria della Misericordia da tre secoli e più formò un
Istituto con cui invitò i fratelli ad un’opera di misericordia, qual’è quella di assistere i
condannati a morte. Ora con più specialità conviene che se ne formino le regole, con le
quali ogni fratello si obblighi all’adempimento dell’Istituto stesso della nostra
Arciconfraternita, secondo il modo che venne stabilito da Re Carlo III di gloriosa
memoria, con Real Dispaccio del di diceotto maggio 1743, che si legge registrato e
pubblicato nella Raccolta dei Dispacci fatta dal gatti, nel tomo IV pagina settanta,
emanato dallo stesso Serenissimo Principe, in occasione di una esecuzione di sentenza
di condanna a morte nella terra di Carolei.
Regola II: La nostra Arciconfraternita debba nella mattina di quel giorno in cui si
eseguirà la Giustizia, esporre sull’altare il Santissimo Sagramento, e i fratelli tutti in
quella mattina siano tenuti offrire preci ed orazioni a Dio per la salvezza del
giustiziato, per la quale cosa la nostra Arciconfraternita debba anche ottenere il bene
Pontificio per la concessione delle Indulgenze dal Sommo Pontefici e specialmente da
Innocenzo XI accordate e concedute all’Arciconfraternita delle Anime del Purgatorio
esistente in Roma, le quali indulgenze sono praticate per l’esposizione, che suole
praticarsi nel giorno in cui la giustizia conduce alla morte i delinquenti.
Regola III: Essendo il fine della nostra Arciconfraternita diretto al bene spirituale
dell’anima dei nostri fratelli e alla salvezza delle anime di quei che dovranno soffrire
per esecuzione di giustizia la morte, non sarà mai lecito a cadauno dei fratelli accettare
né per se né per la nostra Arciconfraternita nessun legato, dono, eredità, che il
condannato volesse fare, e se alcuno l’accettasse non solamente sarà incapace di
acquistarlo per l’osservanza delle regole dell’Arciconfraternita istessa, che ha per
oggetto il solo bene spirituale e non il temporale possesso dei beni.
Regola IV: Siccome i fratelli della nostra Arciconfraternita ab immemorabili sono
stati, come tuttavia sono Patrizi della città di Cosenza, così si stabilisce che tutti i figli
di coloro che godono gli onori del Sedile si ammetterano col voto della metà dei
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fratelli che si ritrovano radunati in congrè nell’atto della Recezione.
Regola V: Sarà però in libertà del governo pro tempore proporre in congrè i membri
anche di quelli che sono iscritti al Sedile, ma fossero del ceto degli Avvocati, o
Distinti Galantuomini. E stimandosi dal governo potersi ammettere, se ne debba fare la
recezione per suffragi segreti, ma non s’intenderà incluso il fratello, se non averà due
terzi dei voti di tutti i fratelli che compongono l’intera Arciconfraternita e non già i
due terzi di quelli che si congregheranno.
Regola VI: I fratelli vestiranno di un sacco bianco, i calzari saranno anche bianchi e
così il cappello, e porteranno in petto una croce nera, siccome si è sempre pratticato
sin dalla fondazione della congrè, quale abito sarà obbligato ciascun fratello farsi a
proprie spese.
Regola VII: Il governo della nostra confraternita sarà composto di un Superiore, o sia
Priore, e due Officiali chiamati primo e secondo Assistente.
L’elezione si dovrà fare il primo agosto di ciascun anno alle ore ventuno precedente
avviso generale a tutti i fratelli, né si intenderà legittimamente fatta se i fratelli non
saranno più della metà di coloro che l’intera congregazione compongono, e fatta
l’elezione nel modo come si è detto si darà al Priore ed Officiale suddetti il possesso.
Regola VIII: Il Priore nominerà tre fratelli per l’elezione del suo successore e resterà
incluso colui che, averà la maggioranza dei voti; lo stesso si pratticherà per l’elezione
degli altri Officiali.
Regola IX: Il Priore sarà obbligato riceversi la lettera del tribunale come ab
immemorabile si è praticato, e siccome confirmò la Maestà del Re Carlo III con
Dispaccio del 1743 e farà arrivare tutti i fratelli affinché prestino la solita assistenza ai
giustiziati. Sarà parimenti sua cura invitare dei sacerdoti che stimerà più abili a
confortarli ed assisterli a ben morire.
Regola X: I fratelli pagheranno carlini due per ogni mese, e se ne farà l’introito
dall’Officiale primo Assistente, affinché ne faccia le spese in occasione di giustizia. E
perché questo sussidio con puntualità bisogna soddisfarsi, dacché se mancasse,
mancherebbe la maniera di supplire alle sopradette spese, che perciò si dichiara
contumace quel fratello il quale per lo spazio di mesi sei compiuti non paghi. Nella
quale contumacia in corso, immediatamente si dichiara privo di voce attiva e passiva e
decaduto dal diritto di associare fino a che non pagherà l’intera sua contumacia.
Regola XI: L’Ufficiale secondo sarà tenuto in fine dell’anno dar conto dell’introito ed
esito a due Razionali eleggendi dai fratelli con maggioranza di voti a norma del
concordato 24.
La confraternita provvedeva di volta in volta alle necessità che potevano insorgere nel
corso degli anni. Un esempio ci viene dato da una deliberazione capitolare del 1805,
fatta ben dodici anni dopo l’approvazione dello Statuto. In essa si stabiliva che i nuovi
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iscritti, dovevano elargire una «elemosina» di almeno dodici ducati per contribuire ma
soprattutto sopperire alle spese sostenute dalla confraternita al tempo della sua
fondazione. L’elemosina, di cui si parla espressamente, risulterebbe più una
imposizione che una offerta libera e spontanea, dal momento che la somma non era a
discrezione dell’offerente bensì già prestabilita. Dalla lettura dello Statuto si possono
evincere alcune notizie interessanti. In primo luogo il fatto che questo sodalizio
limitasse l’aggregazione ad un determinato gruppo sociale: quello dei Patrizi della
città che fossero annoverati al Chiuso Sedile di Cosenza. La sola eccezione veniva
fatta per il ceto degli Avvocati o comunque per galantuomini di ineffabile moralità.
Ovviamente per l’inserimento nella confraternita, la distinzione tra coloro che
godevano gli onori del Sedile e coloro i quali non vi appartenevano era nettissima.
L’iscrizione di questi ultimi poteva avvenire solamente dietro approvazione dei due
terzi di tutti i fratelli componenti la confraternita. Al contrario i figli di coloro che
erano ascritti al Sedile, venivano ammessi con la sola metà dei voti dei fratelli presenti
al momento della votazione. Una confraternita, dunque, molto selettiva se si considera
che persino la reintegrazione del Nobile Fortunato Rossi fu motivo di ricerca oculata
da parte degli assistenti di turno preposti ad esaminare la richiesta di ammissione 25. Si
indagò minuziosamente sulla discendenza di quest’ultimo che risultò appartenere ad
un ramo di quella nobile ed antica famiglia Rossi, un tempo aggregata al Sedile, la
quale da molti anni si era trasferita a Seminara. Si esaminò il grado di nobiltà che si
considerò integro essendo, questa famiglia, imparentatasi sempre con quelle di alto
lignaggio. Solo in seguito a questa verifica si decise all’unanimità di annoverare
l’intera famiglia tra i membri della Misericordia 26.
Questa vicenda può far supporre che la possibilità data ai galantuomini non iscritti al
Sedile di appartenere alla confraternita, richiedeva tali e tante condizioni da renderne
molto lento e difficoltoso l’inserimento. Un altro elemento che emerge è la totale
mancanza di riferimento riguardo le cariche femminili; il ruolo effettivo della donna
era strutturalmente ridotto ad una presenza recettiva e contributiva. Non si riscontrano
infatti circostanze che segnalino la loro presenza durante i momenti più solenni della
vita associativa quali le elezioni degli ufficiali, i piccoli parlamenti mensili, si riscontra
piuttosto una emarginazione dai ruoli di primo piano riservati esclusivamente agli
uomini. Le donne dovevano tuttavia contribuire al mantenimento della congrega
erogando mensilmente la somma di un carlino contro i due che gli uomini avevano
l’obbligo di versare. L’estromissione dai ruoli primari, non limitava però i diritti e i
privilegi che per le donne risultavano uguali a quelli degli uomini. Il trattamento
riguardo i funerali, l’assistenza in caso di malattia, gli obblighi di preghiera così come
le messe mensili, le processioni e in genere tutti i comuni impegni, era identico sia per
le une che per gli altri. Ogni singolo socio, aveva nei confronti della confraternita,
degli obblighi ben precisi legati alle osservanze delle norme statutarie. In primo luogo
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ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA. UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
assolvere ai doveri morali e spirituali come l’obbedienza completa alle cariche,
l’assistenza ai consoci, l’accompagnamento alla sepoltura di quelli defunti e
soprattutto l’assistenza dei condannati a morte fine per cui, come vedremo in seguito,
la confraternita dei Nobili era sorta. Anche se nello Statuto non si fa riferimento
alcuno all’obbligo di partecipazione alle messe e a quello di recitazione delle
preghiere, è implicito che i soci dovevano adempiere anche a questi compiti
associando al sentimento di fratellanza quello religioso di fare del bene per
raggiungere la redenzione eterna dell’anima. Le regole statutarie erano obbliganti in
misura diversa; la mancata osservanza di esse portava all’esclusione dai benefici. Il
fratello che non rispettava il pagamento e, che nello spazio di sei mesi non saldava il
debito, veniva immediatamente escluso dalle cariche sociali e dagli altri vantaggi,
anche spirituali, secondo quell’idea di contumacia espressa molto chiaramente nel
decimo capitolo dello Statuto dove era stabilito che la somma versata dai confratelli,
da utilizzarsi per far fronte alle spese di assistenza ai condannati, doveva essere versata
con puntualità. Inoltre poiché il fine della confraternita era diretto unicamente al bene
spirituale dell’anima dei fratelli, nonché alla salvezza di coloro che per esecuzione di
giustizia dovevano patire la morte, non era permesso a nessun socio accettare
eventuali doni o lasciti fatti dal condannato né per se né in nome della congregazione.
La pena era severissima e comportava l’espulsione dal libro della confraternita. A
questo proposito viene ribadito l’intento di questa associazione, costituitasi
espressamente per perseguire il bene spirituale e non quello temporale. Ma, non
essendoci tra i documenti reperiti nessuna prova tangibile, risulta difficile stabilire se e
come queste sanzioni venivano effettivamente applicate.
L’assistenza ai condannati a morte
Tutte le confraternite nobiliari erano impegnate in specifiche e talora consistenti opere
di carità. Quella cosentina, essendo una confraternita di Bianchi, aveva il privilegio
dell’assistenza ai condannati a morte. Ed è proprio per assolvere a questo esercizio di
pietà cristiana che si fondò l’Istituto con il quale si invitava i fratelli ad un’opera di
misericordia nei confronti di quegli uomini respinti dalla società a causa dei delitti
commessi, praticando il recupero delle loro anime che altrimenti sarebbero state
irrimediabilmente perdute. L’impegno di carità ed assistenza risultava un notevole
strumento di incidenza sociale, attraverso il quale la confraternita operava nel
territorio. Essa occupava un ruolo importante nell’ambito della società cosentina,
poiché si faceva portavoce di un messaggio di solidarietà umana attraverso un
impegno assunto sia in campo spirituale, sia in campo pratico mediante il soccorso e
l’assistenza ai condannati. Dal momento che, il problema dell’assistenza ai bisognosi,
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come il culto dei morti era completamente in mano alle confraternite, lo Stato si
trovava ad essere sgravato da un impegno che altrimenti non sarebbe stato in
condizione di assolvere, date soprattutto le precarie condizioni in cui versava 27. A tale
proposito va rilevata l’importanza dell’intervento nelle sepolture data dalla
Misericordia, poiché ne garantiva l’ordine e la dignità dal momento che, in genere,
venivano eseguite in forma lesiva delle più elementari esigenze igieniche e civili, con
gravi discriminazioni per le categorie sociali più misere 28.
È necessario precisare che l’assistenza ai condannati, pur essendo il fine costitutivo
della congregazione, non era atto di pietà obbligatorio per i confratelli laici. Infatti nel
dispaccio del 25 maggio 1743, emanato da Carlo III si legge testualmente che: «Le
congregazioni laicali non possono essere forzate ad assistere i condannati a morte, per
essere questo un atto di carità che da esse si esercita, ma a ciò sono tenuti gli
ecclesiastici per il di loro carattere». A questa determinazione si arrivò quando il
Tribunale di Cosenza dispose la carcerazione dell’allora Priore Gio Battista
Quattromani che si era rifiutato di prestare assistenza ad un condannato che doveva
giustiziarsi nella terra di Carolei. «Avendo Sua Maestà considerato che non dovea
farsi uso della forza in un atto di pietà in cui coopera la volontà, non ha Sua Maestà
approvato la condotta di V.S.Ill.ma per la carcerazione ordinata del Quattromani,
poiché essendo li detti fratelli laici, né essendo li detti fratelli laici, né essendo soliti
andare fuori la città colli condannati a morte, non si poteano con la forza indurre quei
congregati ad esercitare un atto di misericordia, al quale possono solamente obbligarsi
gli ecclesiastici» 29. Ci si chiede a questo punto, che tipo di assistenza prestavano i
confratelli della Misericordia visto che in alcune occasioni si riservavano il diritto di
decidere se effettuarla o meno. Non potendo per il carattere laicale esercitare
l’assistenza spirituale, intesa nel senso puro del termine, riservata esclusivamente agli
ecclesiastici la loro doveva essere certamente di tipo materiale provvedendo a tutte le
spese relative al mantenimento del condannato nei giorni che precedevano
l’esecuzione, all’accompagnamento e alla sua sepoltura. Anche questo tipo di
assistenza è un esempio caratterizzante di spiritualità laicale, poiché si tratta di un
gesto caritatevole ed umanitario. Pur tuttavia, la pratica dell’accompagnamento dei
condannati determinò talora abusi ed inconvenienti poiché, anche le associazioni più
impegnate risentivano della moda del culto esteriorizzato e pomposo, delle
rivendicazioni dei diritti di precedenza, di una pietà insomma vissuta forse più
esteriormente che non in senso puramente religioso. Questo atteggiamento pomposo
quasi a scopo pubblicitario che ciascuna confraternita aveva assunto, portò nel 1820
alla elaborazione di un Decreto nel quale si determinò ai condannati, doveva essere
esercitata dai soli ecclesiastici «senza alcuna miscela di laici di qualunque condizioni
essi siano». Poiché nel Decreto si era usato il termine assistenza senza specificarne il
tipo, è probabile che la Misericordia lo applicò alla lettera se, il De Matteis intendente
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della Calabria Citra, intervenne per chiarirne i termini. Questi con una lettera al
Superiore protempore specificò che non si era vietata l’assistenza bensì
l’accompagnamento che negli ultimi tempi veniva usato per ostentare la propria
immagine. Chiariva altresì, che l’assistenza essendo un ufficio puramente religioso e
non di pompa, doveva essere praticato esclusivamente dai sacerdoti della
congregazione 30. La non obbligatorietà dell’assistenza ai condannati poneva la
confraternita in una posizione di tranquillità poiché qualunque fosse stata la sua
decisione non sarebbe mai incorsa in nessun tipo di sanzione. A supporto di quanto
detto, può essere esplicativo l’atteggiamento del barono Odoardo Giannuzzi Savelli,
priore della Misericordia nel 1793, il quale non accettò la proposta fatta dalle Autorità
di prestare assistenza anche a coloro i quali venivano fucilati dalla Commissione
Militare. Egli asserì, per giustificare il rifiuto, che la confraternita assisteva
esclusivamente gli afforcati e che le spese necessarie per la tumulazione dei cadaveri
fucilati erano molto esose. Con il passare del tempo e il mutare della situazione
politica, l’atteggiamento dei nobili confratelli fu meno rigido nei confronti di questo
atto pietoso. Infatti, durante il periodo risorgimentale, in cui si registra una
recrudescenza delle condanne a morte per via delle vicende politiche e dei moti
carbonari che si susseguirono nel Regno di Napoli, ritroviamo la confraternita
impegnata a prestare assistenza anche ai fucilati. Quest’ultima, come tutta la società
cosentina, fu coinvolta moralmente ed emotivamente dalla situazione politica e,
certamente, affrontò il già delicato compito con maggiore costernazione, dal momento
che dovette dare assistenza ai tanti patrioti che morivano fucilati in nome di una giusta
causa. È accertato che diede il proprio conforto anche ai fratelli Bandiera, giustiziati,
insieme ai loro compagni, nel Vallone di Rovito il 25 luglio del 1848. La notizia si
apprende da un quaderno, appartenuto alla confraternita, nel quale si fa preciso
riferimento all’avvenimento: «per nove condannati a morte forastieri fucilati allì 25
luglio 1848, borsa fatta per la città in carlini diciotto e messe numero nove» 31. Verso
la fine del XVIII secolo, la confraternita della Misericordia e quella del SS. Crocifisso,
costituita dal ceto degli Avvocati, diedero vita ad un lungo e controverso litigio per
accaparrarsi l’esclusiva sul diritto di assistenza ai condannati al patibolo 32. La
controversia si concluse formalmente il 14 ottobre del 1793, quando il Re con un
Reale Dispaccio fece presente quanto segue: «nello accompagnamento dei malfattori
all’ultimo supplizio si continui ad invitare la pia Adunanza di S. Maria della
Misericordia la quale si è sottomessa a questa lodevole e caritativa opera di pietà a
tenore del Regio Assenso ad essa impartito; e che in caso di mancanza o di
impedimento qualunque siasi della detta pia Adunanza, possa l’Udienza invitare l’altra
Congregazione del Crocifisso, la quale anche lodevolmene si è offerta...» 33.
Un tale avvenimento può essere un riflesso del rapporto conflittuale esistente a quei
tempi tra i due ceti più in vista della città: quello dei Nobili, rappresentate di una
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classe estesa e preponderante, fortemente radicata nella vita sociale cittadina e
detentrice del potere economico e sociale e quello degli Onorati numeroso ed
emergente, che tendeva ad inserirsi con una certa insistenza fra gli aristocratici per
ottenere privilegi e cariche. La contesa inoltre può essere considerata come sintomo di
un fenomeno più vasto che ha colpito il mondo confraternale e che denuncia come
spesso «le pie fratellanze si trasformassero in pie inimicizie e riuscivano a scavare
profondi solchi di odio tra i cittadini e i ceti dello stesso paese» 34. Se da una parte è
indubbio che, almeno all’atto della fondazione, lo scopo primario ed esclusivo della
arciconfraternita fu quello di beneficiare i condannati a morte, dando loro quel
conforto morale e materiale di cui altrimenti sarebbero stati privi, è altrettanto vero che
lo slancio di generosità e di pietà, cedette presto il posto al vero motivo che spinse i
nobili ad affratellarsi: estendere nel tessuto sociale cittadino il già consolidato potere
sfruttando quei principi religiosi di pietà e di assistenza. Da componente essenziale di
socializzazione, la religiosità diventa per costoro occasione di ulteriore promozione
sociale e di garanzia per una indispensabile facciata di perbenismo. Queste
considerazioni sono avvalorate da alcuni atteggiamenti assunti dai confratelli nelle
occasioni in cui dovevano dare conforto al condannato. La loro posizione era talmente
consolidata da permettersi il «lusso» di decidere se concedere o meno l’assistenza.
Con il passare del tempo la confraternita era divenuta uno strumento ulteriore di
supremazia, nonché di pompa e di sfarzo. Essa esercitava nel tessuto sociale
dell’epoca un grado di influenza notevole, resa ancor più incisiva per il ruolo svolto
nel campo assistenziale. Provvedere ai bisogni morali e spirituali del condannato, in
un’epoca in cui i cadaveri venivano ammucchiati l’uno sull’altro e le sepolture
eseguite senza alcun rispetto dei criteri igienici, aveva dato modo ai nobili di estendere
la propria sfera di influenza anche sul piano assistenziale e culturale, fino ad assumere
un ruolo propulsivo nella vita della comunità cittadina. Per l’aristocratico nobiluomo
far parte della confraternita era sì motivo di impegno e servizio verso i ceti poveri e
bisognosi ma ancor più, costituiva uno strumento di prestigio e di potere per una classe
che dalla popolazione stessa veniva esaltata e riconosciuta piena di virtù e doti
superiori.
Note
1 È opportuno riportare qui di seguito i nomi delle famiglie iscritte alla Confraternita: Alimena,
Andreotta, Barracco, Bombini, Castiglione Morelli, Cavalcanti, Ciaccio, Curati, Dattilo, Ferrari
D’Epaminonda, Firrao, Giannuzzi Savelli, Guzzolini, Lupinacci, Sersale, Spiriti, Telesio,
Tirelli.
2 D. ANDREOTTI, Storia dei cosentini, Napoli 1869, vol. II, p. 236.
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3 L. CARUSO, Storia dei Cosenza, Cosenza 1978, vol. I/1, p. 229.
4 ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA (d’ora in poi ASCS), Opere Pie, Corporazioni
Religiose-Cleri-Confraternite (d’ora in poi C.R.C.C.), B1 F1.
5 M. SIRAGO, La Calabria nel Seicento, in «Storia della Calabria Moderna e
Contemporanea», (a cura di) A. Placanica, Roma 1992, p. 228/232.
6 ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 Ff 2 e 14.
7 D. ANDREOTTI, Storia dei ..., p. 236.
8 ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 F 14.
9 A conferma di quanto detto vi sono una serie di registri nei quali venivano annotate le messe
che si celebravano per la festività dei morti in suffragio delle anime dei fratelli defunti. Gli
iscritti elargivano una elemosina per la S. Messa della domenica. Nell’agosto di ogni anno con
il rinnovamento del Capitolo si ricominciava il turno delle messe per concludersi a luglio. I
registri vanno dal 1801 al 1859. ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 ff 23 e 25, B2 f 39.
10 Per poter dare assistenza ai condannati la confraternita doveva ottenere l’approvazione e la
concessione dell’indulgenza che veniva richiesta per poter praticare sull’altare l’esposizione del
SS. Sacramento nel giorno in cui veniva eseguita la condanna quando, tutti i fratelli, erano
tenuti ad offrire preci ed orazioni a Dio per la salvezza dell’anima del giustiziato.
11 Per poter ottenere e godere i numerosi privilegi di cui era provvista l’Arciconfraternita della
Natività di Nostro Signore detta degli Agonizzanti di Roma, la Misericordia nel 1794 chiese e
le fu concesso di essere incorporata ad essa. Da ciò le deriva il titolo di Arciconfraternita
acquisito spesso dalle confraternite di notabili per il loro carattere di congreghe principali a cui
se ne coordinavano altre con uguale scopo.
12 L’ingresso delle donne nella confraternita, si registra dal 1800 in avanti, presumibilmente
perché originariamente potevano far parte di tale congrega solo gli uomini. nel «Libro della
Fratellanza» sono segnati nella prima parte i nomi dei fratelli in ordine alfabetico iniziando dal
nome poi il cognome e in alcuni casi il titolo baronale. Al lato di ognuno è riportata la quota
mensile o annuale elargita, nella seconda parte con gli stessi criteri sono segnati i nomi delle
gentildonne, sorelle o mogli dei fratelli. ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 F 30.
13 F. VOLPE, La Calabria nell’età liberale, in «Storia della Calabria ...», pp. 595-600.
14 M. MARIOTTI, Ricerca sulle confraternite laicali del Mezzogiorno in età moderna, in
Sociabilità religiosa nel Mezzogiorno: le Confraternite laicali, (a cura di) V. Paglia, (atti del
Convegno 1987), Roma 1990, pp. 117-118.
15 Un appunto che riguarda i censi gravanti sull’arciconfraternita dà la possibilità di conoscere
le disposizioni testamentarie di due confratelli: Don Giuseppe Sersale e Don Carmine
D’Aquino. Il primo, il 4 agosto del 1704, fece redigere il suo testamento nel quale si legge:
«Lascio a l’Arciconfraternita di S. Maria della Misericordia un capitale di ducati 108, e per essi
ducati annui otto e grana dieci che mi devono D’Andrea Greco del casale di Altavilla, con peso
di far celebrare per l’anima mia una messa in tutte le domeniche dell’anno, e il di più per la
compra di tanto oglio per la lampada, da celebrarsi dette messe alla ragione di un carlino
l’una». Nel secondo redatto il 25 marzo del 1819 si legge: «D. Carmine D’Aquino capitano di
artiglieria cede all’Arciconfraternita di S. Maria della Misericordia un annuo canone censuale
di ducati 8,10 con l’obbligo di doversi in ogni anno del dì 14 gennaio celebrare un anniversario
per l’anima del fu suo padre D. Vincenzo D’Aquino nella chiesa di essa Arciconfraternita con
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ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA. UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
una messa cantata ed uffizio dei morti da cantarsi dai fratelli medesimi e con tre messe basse da
celebrarsi in detto giorno ...». ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 F 5.
16 ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B2 F 46.
17 Negli anni che seguirono vi furono ulteriori richieste di riduzione del numero delle messe.
Una tale necessità nasceva dal fatto che la rendita pubblica della confraternita con gli anni si
era notevolmente assottigliata e, la somma da essa ricavata, non riusciva a ricoprire le spese
delle 25 messe, il cui costo, nel frattempo, aveva raggiunto la somma di due lire ciascuna.
18 La concessione, che aveva la durata di otto anni, venne fatta «ad personam», per cui, una
volta cessata la carica di parroco, la cappella doveva essere riconsegnata all’Arciconfraternita
la quale si riservava il diritto di riprenderne il possesso in qualunque momento con il solo
preavviso di tre mesi. La cappella inoltre, doveva essere utilizzata esclusivamente per
celebrazioni di funzioni religiose e di culto, per questo, il Maiorano aveva l’obbligo di impedire
che qualsiasi altro sacerdote la utilizzasse per scopi diversi. ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B2 F
48.
19 ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, Confraternite, cartella 7, ff 4, 7 e 37.
20 A. MARIZIO, Le Confraternite nel mezzogiorno tra XVI e XX secolo: un modello elastico
nel tempo e nello spazio di socialità religiosa. L’esempio di Monopoli, in «Sociabilità ...», p.
303.
21 L’ordine era il seguente: 1) Confraternita del SS. Salvatore, 2) Confraternita di S. Caterina,
3) Confraternita di S. Maria del Suffragio, 4) Confraternita del SS. Rosario, 5) Confraternita
del SS. Crocifisso, 6) Orazione e Morte, 7) Confraternita dell’Assunta, 8) Confraternita di S.
Maria del Soccorso, 9) Confraternita di S. Giovanni Battista, 10) Confraternita di S. Maria
della Consolazione, 11) Confraternita della SS. Annunciata, 12) Confraternita di S. Maria della
Misericordia.
22 E. ROBERTAZZI DELLE DONNE, Stato Borbonico Tanucciano ed istituzione
confraternale, in «Sociabilità ...», pp. 58-59.
23 A CESTARO, Il fenomeno confraternale nel Mezzogiorno: aspetti e problemi, in
«Sociabilità ...», p. 27.
24 ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 F 14.
25 ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B2 F 33.
26 La reintegra avvenne il 24 aprile 1831 «... Con le solite ritualità, vestito con l’abito ed
insegne di questa congregazione il prelodato D. Fortunato Rossi fu guidato all’altare dal Mastro
di Cerimonia D. Giovanni Castiglione Morelli, e dopo di essersi eseguita con tutta ritualità dal
cappellano M. Canonico D. Filippo Morelli, la cerimonia della vestizione e ricezione, si è
intonato solennemente l’inno ambrosiano, finito il quale, il ricevuto fratello ha dato a ciascuno
dei soprannominati fratelli il pax tibi frater e indi tutti sono penetrati in sagrestia ... 3, ASCS,
Opere Pie, C.R.C.C., B2 F 33.
27 M. R. VALENSISE, Le confraternite della Diocesi di Nicastro nel periodo post-unitario, in
«Sociabilità ...», pp. 166-167.
22 M. MARIOTTI, Ricerca sulle confraternite ..., pp. 166-167.
29 L’unico torto che poteva essere imputato al Quattromani fu di non aver avvisato per tempo
in modo che il Tribunale potesse provvedere diversamente, invitando altri soggetti a prestare la
dovuta assistenza. Per evitare simili inconvenienti il Re Carlo III prescrisse che il Tribunale
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ARCICONFRATERNITA DI S. MARIA DELLA MISERICORDIA. UNA CONGREGA DI NOBILI A COSENZA (XVI-XX SEC.)
doveva invitare anticipatamente la Confraternita della Misericordia e, in caso di rifiuto,
provvedere ad avvisare un’altra congregazione, ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 F 7.
30 ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 F 28.
31 Nel libro datato 1829-1848 sono registrati: nome, cognome e a volte soprannome del
condannato, luogo di nascita, data di esecuzione, somma ricavata dalla borsa fatta per la città
utilizzata per pagare i becchini, numero di messe celebrate per l’anima del giustiziato. ASCS,
Opere Pie, C.R.C.C., B1 F 27.
32 La controversia ebbe inizio quando, dovendosi giustiziare un parricida Pietro Pizzini,
l’Arciconfraternita, rifiutò di prestare soccorso. L’allora Priore Cavalcanti, giustificò il diniego
sostenendo di aver ricevuto la comunicazione dal Tribunale in maniera non conforme alla
norma cioè oralmente e non per iscritto. Il Tribunale allora rivolse l’invito alla Congrega del
Crocifisso che il 4 ottobre 1793 accompagnò il malfattore al patibolo. Da questo momento,
quest’ultima tentò di accaparrarsi il diritto di accompagnamento accusando la Misericordia di
illegalità in quanto sprovvista di regole e di Reale Assenso. La nobiltà cosentina facendo
ricorso al Re, reclamò l’antichissimo diritto dell’esercizio di un’opera di pietà che era stato
l’unico oggetto per cui venne fondata e per cui si erano congregati i fratelli asserendo che il
Regio Assenso e le regole in merito alla fondazione erano custodite a Napoli già dal 1743.
33 ASCS, Opere Pie, C.R.C.C., B1 Ff 17 e 18. Gli atti giudiziari contengono le vertenze di
entrambe le parti.
34 E. MISEFARI, Storia sociale della Calabria, Jaca Book, Milano 1976, p. 230.
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA
CONFRATERNALE A CERISANO
Luigi Bilotto
Le origini
«La tracchiuni de Maranu, cursunari e Mennicinu, vucchi larghi e Cerisanu». Ecco un
famoso epiteto con il quale viene additato e riconosciuto questo centro, ma nessun
nomignolo lo individua meglio di: «paese delle due madonne» 1. Tra le svariate
possibilità di indagine e di analisi che offre il «pianeta confraternite» e il suo intimo
rapporto con le comunità locali, quelle di Cerisano presentano, più di altre, un esempio
di come esse abbiano costituito dei gruppi al cui interno si proiettavano le tensioni di
classe esistenti nella comunità. Si tratta, in effetti, della presenza di due fazioni facenti
capo alla congregazione del SS. Rosario ed a quella di Maria SS. del Carmelo 2. Da un
punto di vista strettamente religioso, il Rosario affonda le sue origini nella pietà
mariana medievale; indica un giardino di rose, il fiore che, per antonomasia,
rappresentava l’omaggio alle donne e, in senso mistico, alla Vergine. Secondo la
leggenda, fu San Domenico di Gusman a ricevere dalla Madonna la corona del
Rosario. Per questo il connubio Padri Domenicani-Madonna del Rosario, divenne
inscindibile, specie dopo la celeberrima Battaglia di Lepanto, combattuta il 7 ottobre
1571, in seguito alla quale Pio V, proveniente dalle file dei Domenicani, istituì la festa
del Rosario proprio in quel giorno 3.
I Carmelitani 4, fanno riferimento alla Madonna del Carmine e devono la loro origine
al movimento sorto sul Monte Carmelo 5 in Palestina, ispirato, secondo la tradizione
leggendaria, dal Profeta Elia e fondato da San Simone Stock. Entrambi gli ordini,
quindi, sorti tra il XII ed il XIII secolo, con manifestazioni esteriori e preghiere
diverse, diffondono la medesima devozione verso la Madonna. Nel caso di Cerisano e
di altri centri della Calabria, le congregazioni laicali, sorte quasi contemporaneamente
a chiese dedicate alla Vergine del Rosario o del Carmelo, hanno mostrato una così
evidente ostilità, contrapposizione ed avversione, da far sembrare i confratelli
«carmelitani» e «rosarianti» non appartenenti alla stessa religione cattolica, apostolica
e romana. È chiaro che alla base di tutto questo vi sono fenomeni da ricercare non
nella differenziazione dei riti, delle tradizioni e delle pratiche religiose in genere, ma
in fattori che, esulando da fatti propriamente spirituali, sconfinano nel sociale. Fino
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
alla seconda metà del ’500, a Cerisano esistevano delle cappelle di scarsa importanza
ed una chiesa matrice intitolata a San Lorenzo Martire 6. I soli religiosi presenti nel
paese appartenevano al clero secolare che si avviava ad uniformarsi alle disposizioni
scaturite dal Concilio di Trento, e non tanto per l’aspetto comportamentale dei
sacerdoti, quanto per la preparazione culturale e teologica e perché essi fossero «...
costantemente aggiornati nelle questioni fondamentali inerenti ai doveri parrocchiali».
Per tale motivo a Cerisano periodicamente avvenivano delle riunioni col vescovo o
con un suo delegato «in casa e sotto la presidenza di Don Marcello di Majo» 7.
Nel 1561, col consenso di papa Pio IV e del Cardinale Gonzaga, arcivescovo di
Cosenza, sorse la Chiesa della Madonna del Soccorso con annesso convento dei Padri
Domenicani 8. Nel 1609, per volere di Annibale Sersale 9, feudatario del paese e
futuro duca di Cerisano e principe di Castelfranco, venne eretta la chiesa di Santa
Maria degli Angeli con un convento di frati Riformati di San Francesco d’Assisi 10.
Tuttavia, nonostante i Sersale avessero la loro cappella di jus patronato nella
parrocchiale e sebbene avessero edificato la chiesa della Riforma, mostrarono sempre
un maggiore attaccamento alla chiesa che, successivamente, divenne più nota come
del Rosario. La presenza del clero regolare, quindi, affiancata al clero secolare,
produsse nel paese, da un lato, l’esempio della povertà francescana fondato su una
regola che bandiva ogni forma di ricchezza, dall’altro, sul comportamento dei
Domenicani seguaci del sapere e della predicazione ma non alieni al possesso di beni
materiali. E proprio in quest’ultimo convento ove quasi sicuramente dimorarono due
seguaci di Tommaso Campanella, in contrapposizione alla decadenza morale di molti
monasteri calabresi, lievitò un notevole fermento culturale con una fucina di intelletti
particolarmente vivi.
La tradizione orale tramanda l’immagine di un periodo effervescente dal punto di vista
culturale col coinvolgimento di una qualificata rappresentanza laica. L’associazione
nata in quegli anni venne denominata «Circolo dei laici colti» 11. È facile immaginare
che tale organismo fosse formato prevalentemente dalle famiglie nobili e dall’alta
borghesia. Si andava delineando un importante cenacolo culturale che stimolava anche
la pigra classe degli aristocratici che da sempre cercava tale tipo di riferimento al di
fuori della comunità cerisanese. Contestualmente però, tale movimento, operava
all’interno delle classi sociali creando un ulteriore elemento di attrito nella già
frastagliata realtà paesana. Si era, in effetti, creato il circolo chiuso con la sola
partecipazione di nobili ed aristocratici che utilizzavano questa occasione non solo per
fini culturali ma anche per riaffermare alcuni privilegi che, seppure molto limitati
rispetto a quelli dei feudatari, costituivano pur sempre un motivo di distinzione.
Inevitabilmente tale situazione rappresentava il pretesto per creare una chiusura nei
confronti di una nuova classe sociale che, nel frattempo, andava profilandosi con
notevole difficoltà all’interno della comunità paesana. All’ombra del feudalesimo, una
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categoria di artigiani, di fittavoli, di massari e di lavoratori autonomi in genere con
tutti i limiti ed i condizionamenti del tempo, faceva sentire la propria voce e
timidamente tentava di emergere in un sistema feudale che ancor di più aveva stretto le
sue maglie rispetto al passato periodo aragonese e ai primi anni del Viceregno; in ogni
caso, costituiva la vera opposizione alla feudalità. L’emarginazione che, sul piano
intellettuale, nascondeva e camuffava la discriminazione di classe, fu tanto evidente da
stimolare una reazione che, ufficialmente, era caratterizzata da motivi religiosi, ma che
nel suo intimo nascondeva un costante anelito ad una possibile autonomia dalle classi
dominanti. La determinazione del gruppo degli «esclusi» fu tale che come effetto
immediato produsse la decisione di costruire un’altra chiesa, progettata e realizzata
autonomamente, per dimostrare l’intensità della propria fede ma, soprattutto, per
mettere in risalto la propria tenacia. Nacque così, nei primi decenni del XVII secolo, la
chiesa di Santa Maria Vergine del Carmelo. Dalla fine del Seicento, appaiono le prime
notizie circa l’esistenza di due congregazioni facenti riferimento rispettivamente alla
chiesa del Carmine e a quella del Rosario. Ma basta notare quali presenze si registrano
nell’una e nell’altra associazione per comprendere chiaramente e per convincersi che,
anche in seguito, la composizione sociale, economica, culturale e politica delle due
associazioni rimarrà immutata.
La Congrega del SS. Rosario, alla cui testa era quasi sempre un appartenente alla
famiglia Sersale, annoverava le famiglie nobili con un considerevole gruppo di
contadini; la Congrega del Carmine registrava, invece, la presenza del ceto medio.
Molto probabilmente non è casuale che a nascere fosse una chiesa del Carmine con la
conseguente formazione di una confraternita di Carmelitani. Da un punto di vista
strettamente religioso questo ordine, detto inizialmente degli Eremiti di Nostra Signora
del Monte Carmelo, avrebbe potuto costituire una contrapposizione ai Domenicani
molto meno dediti alla vita maggiormente contemplativa e spirituale dei frati
mendicanti. Sul piano sociale, forse, costoro in alcuni paesi della Calabria avevano
dimostrato di essere i più agguerriti antagonisti dei «rosarianti» e gli esempi non
mancavano in tutta la regione. A tal proposito il Miseferi nota che «la degenerazione
delle confraternite nel ’600 non consisteva solo nel progressivo deterioramento del
loro spirito associativo, per la cattiva gestione amministrativa, per l’assenza in esse di
un reale contenuto di moralità sociale e per la vanificazione di ogni puro intento
religioso, ma pure perché al loro interno, cacciato dalla porta, tornava per la finestra il
contrasto di classe. A Bagnara, per esempio, la Confraternita del Rosario fondata nel
1632 e quella del Carmine, eretta nel 1683, arrivavano a contrasti aperti causati dal
diritto di precedenza nelle processioni. Le “pie fratellanze” si trasformavano in “pie
inimicizie” e riuscivano a scavare profondi solchi di odio fra i cittadini e ceti dello
stesso paese» 12. Le occasioni di ostilità tra le due associazioni, davvero, non
conobbero soste. È ancora da chiarire del tutto uno degli episodi più eclatanti
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
verificatosi nel 1647, appena nove anni dopo il funesto terremoto che produsse ingenti
danni da queste parti.
La rivoluzione di Masaniello scoppiata a Napoli si estese a macchia d’olio anche in
periferia con l’illusione di creare governi repubblicani anche in altre parti del Regno.
Cosenza si trovò coinvolta nella rivolta ad opera di Capitan Peppe, appartenente al
ceto degli onorati giudicato non sufficiente per accedere al primo «Sedile». Ne
conseguirono odi e persecuzioni per tutta la nobiltà cosentina. A Cerisano la famiglia
Sersale fu costretta a scappare ma, cosa veramente eloquente, a fare le spese dell’ira
dei popolani furono anche i Domenicani, uno dei quali, Padre Angelo De Luca, venne
giustiziato dai rivoltosi 13. È chiaro che venne utilizzato il clima di confusione per dare
sfogo a risentimenti che, certamente, non erano dell’ultima ora; l’uccisione del frate
non può che essere inquadrata nell’ambito di un feroce dualismo all’interno della
popolazione coinvolta nella sommossa i cui eccessi e le cui conseguenze rischiavano
di diventare incontrollabili. Ecco che in un ambiente fortemente penalizzato dal
disastro tellurico del 1638 e dalla tremenda peste del 1656, i confratelli trovavano
ugualmente il modo di litigare per le cose più futili.
Il secolo XVIII
Anche la parrocchia, alle prese con considerevoli problemi economici, dava adito a
discordie e turbolenze. La cosa divenne insostenibile allorquando fu affidata alle cure
di Don Fabrizio di Ponzo. Costui, col suo modo di fare a metà strada tra il
«decisionista» e l’arrogante, aveva creato non pochi momenti di tensione e, nonostante
ci fossero state le prime avvisaglie di rivolta, aveva continuato imperterrito sulla sua
strada non modificando in alcun modo né le sue decisioni né il suo comportamento 14.
Gli amministratori locali censuravano «il sacerdote di Ponse parroco della chiesa di
San Lorenzo il quale con la solita scandalosità è di malo esempio e ha cagionato
notabili disturbi et compromesso il culto spirituale» 15. «Gli addebiti più rilevanti
evidenziavano gli imbrogli del religioso che si appropriava della cera che i fedeli
portavano per i defunti o per altre ricorrenze, che veniva poi rivenduta agli stessi fedeli
e per giunta a prezzi più alti di quelli che si praticavano abitualmente nel paese» 16.
«Ciò nonostante, la chiesa è rovinata nell’intempiatura come nelle mura essendo un
vituperio di buoni cristiani veder tutti gli altari disadorni» 17.
È comunque palese che l’elevata conflittualità tra il popolo e i sacerdoti, non è dovuta
solo alla non accettazione delle decime o delle contribuzioni in danaro al fine di
sostenere economicamente le chiese, e nel caso specifico la parrocchia lascia bensì
intravedere una sorta di dicotomia tra religione ufficiale e religione popolare, specie se
si pensa, come si evince dai protocolli notarili esaminati, che a contestare don Fabrizio
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erano anche le «confraternite e fratellanze» quelle associazioni cioè che, seppur con
metodi, motivazioni e finalità del tutto specifiche, erano sicuramente l’espressione più
autentica della religiosità popolare 18. Per quanto riguarda poi la riscossione delle
«decime sagramentali» negli anni successivi, almeno fino alla fine del Settecento, la
situazione non creò eccessivi problemi per la misura e per lo «spirito caritatevole» dei
vari parroci; nella platea dei beni di casa Sersale compilata nel 1750 vi si dichiarava
che la parrocchiale era affidata ad un curato che dal jus di stola esigeva le decime che
«procuravano una rendita sufficiente per vivere decorosamente» 19.
Tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, le congregazioni di Cerisano erano
diventate delle vere e proprie attività imprenditoriali, gestivano patrimoni
considerevoli e dirigerle diventò sempre un fatto ambito perché, appunto, costituivano
un notevole centro di potere economico. Nel catasto onciario che a Cerisano fu
compilato nel 1753, le due associazioni registrano un patrimonio non trascurabile con
una netta superiorità di quello dei «rosarianti» 20; tutto ciò mostra con eloquenza la
composizione sociale dei suoi aderenti. Eppure le regole contenute negli statuti che
disciplinavano il comportamento ed il modo di essere dei «confratelli» erano
veramente rigide e menzionavano il solo aspetto religioso senza alcun cenno alla
conduzione dei beni mobili ed immobili. Tuttavia, accanto alla programmazione delle
attività religiose, una mini-organizzazione burocratica ne amministrava la vita
economica con una intraprendenza e senso degli affari che, a volte, facevano
dimenticare i motivi spirituali che erano alla base della costituzione della
congregazione e che, spesso, sconfinavano in atti di vero e proprio cinismo 21.
Non mancavano ovviamente le attestazioni e le dimostrazioni di un non comune
attaccamento alla propria chiesa e di una fede profonda: verso la metà del ’700 la
Congregazione del Carmine, accoglieva una proposta degli ufficiali per comprare un
«abito nuovo di drappo con ricamo a quella loro sagra statua della Beata Vergine del
Carmelo» che, data l’alta qualità, sarebbe costato 150 ducati, per tale motivo si
chiedeva l’assenso dell’assemblea. La risposta positiva non si fece attendere e la
somma, sebbene notevole, fu trovata subito 22.
È questa una delle tante dimostrazione di come, anche in periodi calamitosi, le
confraternite erano attive e riuscivano a realizzare iniziative costose. Non altrettanto
accadeva per la parrocchia, la quale, nonostante un gran numero di prelati vi ruotasse
intorno, e sebbene riscuotesse in un modo o nell’altro le decime «sagramentali»,
mostrava, come in passato, continui segni di decadenza e grosse difficoltà di natura
economica. Per ovviare a tale condizione disastrosa e ritenendo che la nascita di
un’altra confraternita con riferimento alla chiesa madre potesse servire a creare un
ulteriore polo d’aggregazione e quindi di un minimo di flusso di danaro, incoraggiati
anche dalla tenue speranza di inserirsi nell’annosa disputa di sempre tra le due fazioni
onde indebolirne le spinte propulsive, il clero cerisanese dava vita ad una ulteriore
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
cellula associativa. Ecco che questi religiosi
per accrescersi maggiormente la divozione dei cittadini ed il culto divino in loro chiesa
parrocchiale, hanno a più tempo tenuto tra loro consiglio, ed indi determinato di
fondare in essa un oratorio seu Congregazione dei Morti, e propriamente della stessa
guisa, maniera e titolo, che è l’Oratorio della Morte eretto dentro la Cattedrale chiesa
della città di Cosenza». La motivazione ufficiale della fondazione era «d’un perpetuo
sollievo delle Beate Anime del Purgatorio colle calde preghiere e coll’appoggio della
Divina Provvidenza 23. Per tale realizzazione, il clero apriva le sottoscrizioni
autotassandosi.
La congregazione, poi, veniva arricchita da lasciti e donazioni varie. Nella prima metà
del Settecento appare la «Venerabile Cappella del SS. Sagramento di Cerisano» 24 e la
«Venerabile Arciconfraternita del SS. Sagramento della terra di Cerisano» 25 nella
quale «... li confrati si radunano a fare gli esercizi spirituali nell’altare della Cena» 26.
Ma più che di una attiva, efficiente ed operosa congregazione è il caso di parlare di
singoli interventi che, in maniera episodica, contribuivano a mantenere decorosamente
questa chiesa. Intanto casa Sersale vi manteneva la sua cappella di jus patronato
dedicata a San Rocco, ed un legato su una «possessione» nel destro delle Manche che
serviva a celebrarvi un certo numero di messe nella cappella del Purgatorio, ed è per
questo che oggi quella contrada viene appunto denominata Purgatorio. Tra le famiglie
più agiate non si guardava con particolare devozione alla parrocchia e, quindi, alla sua
confraternita, i soli De Majo erano particolarmente legati a questa chiesa e non pochi
protocolli notarili lo testimoniano 27.
Talvolta le finanze dei religiosi di Cerisano venivano utilizzate dal vescovo di Cosenza
attraverso donativi e collette promosse dall’alto prelato nella sua diocesi 28.
Nel 1759 una sorta di tassa veniva imposta al clero del paese riunito nella sagrestia
della parrocchia ove il parroco Giobatta Cervelli illustrava ad alcuni sacerdoti la
richiesta del vescovo che «per diffondere la fede cattolica» intendeva costruire un
seminario. Per la relativa fabbrica erano già pronte le contribuzioni: 10 carlini annui
per i parroci; 5 carlini per i preti; 3 carlini per i chierici, ovviamente per tutta la durata
della fabbrica 29.
In questo periodo operano nel paese oltre quaranta religiosi tra clero secolare e
regolare. Tuttavia vi sono da registrare accesi contrasti tra il convento dei Domenicani
e alcuni cittadini di Cerisano che denunciano alle autorità ecclesiastiche romane fatti
poco edificanti circa il comportamento dei frati del convento di San Domenico. Padre
Bremond, maestro generale dell’ordine, redarguisce il responsabile del monastero, P.
lettore fra Domenico M. Paura, con parole davvero energiche:
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Sento con sommo rammarico che la paternità sua viva costì con poco decoro, anzi sia
di somma ammirazione e di non piccola inquietudine a tutto cotesto pubblico e per li
negozi di seta e di consimili merci alli quali è unicamente intenta e perché altresì
s’ingerisce in tutte le disposizioni che si debbono fare nel paese. Io pertanto, a fin di
usarle una somma carità, ho voluto immediatamente a lei trasmettere la notizia, acciò
che, se mai sia vero l’esposto pensi a riformarsi e non farmi sentire nuovi richiami;
diversamente penserò poi alla maniera di darci l’opportuno riparo con poca sua
soddisfazione; e di tutto aspetterò esserne da lei medesima ragguagliato e dandole ecc.
30.
Il secolo XIX
Con le leggi eversive il convento dei Domenicani venne soppresso (decreto del 7-81809) ed i suoi beni, venduti per accrescere le casse del Regno, finirono per arricchire
la borghesia nata all’ombra dell’ultimo feudalesimo, la stessa sorte toccò ai monaci
Riformati con decreti del 7-7-1809 e del 10-1-1811 31; questi ultimi ritornarono nel
convento di Cerisano nel 1812. È ancora oggi presente nella tradizione orale
l’immagine di quei pochi religiosi che, su un carro tirato da buoi, portavano via quei
pochi cenci che era stato loro concesso di portare per scomparire poi in quella stradella
che mena a sinistra dell’attuale villa Zupi, nota come Via Croce. I Padri Riformati
tuttavia, poterono rientrare in possesso della loro chiesa qualche anno dopo perché,
essendo la loro regola basata sulla più assoluta povertà e proibizione ad avere delle
rendite e dei capitali, venivano giudicati non pericolosi dalle autorità governative.
L’assistenza religiosa passò al parroco di San Lorenzo che vi destinò un apposito
padre spirituale da lui dipendente. A testimonianza del fatto che il vuoto lasciato da
quei religiosi non venne facilmente colmato, si pensi che, anche a distanza di molti
anni, il 9 giugno 1902, il sacerdote Domenico Perri, padre spirituale
dell’Arciconfraternita di Maria SS. del Rosario di Cerisano, scriveva una lettera al
padre generale dell’ordine, a Roma, per esprimere il desiderio di tutti gli iscritti di
godere i privilegi dell’Ordine domenicano e di conoscerne gli eventuali oneri 32. Il
regime napoleonico e la sua politica anticlericale rese ancora più tesi i rapporti tra la
chiesa ed il popolo al punto che quest’ultimo, consapevole di un suo maggiore potere
contrattuale, contestò molto vivamente le modalità dell’esazione delle decime pretese
dal parroco:
Li eccellenti miserabili cittadini dello comune di Cerisano, cioè Vincenzo Tenuta,
Lorenzo Orrico, Luigi de Luca, Antonio Zicarello, Pietro Chiappetta, Francesco Muto,
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anco nel nome di tutti gli altri bracciali e massari di bovi e pecore di detto comune,
buttati al piede di V. E. la supplicano come in questo anno vengano indebitamente
vessati dall’attuale novello parroco per causa delle decime; (egli) intende esigere
somme trabocchevoli, e quantità di generi contro il solito e non come nei comuni
convicini, cioè Marano e Mendicino indove, generalmente, si corrisponde al parroco la
somma di grana 45 di contante, e non già in generi. E così da’ supplicanti si vide
corrispondere a detto parroco per causa di decime, non già detti grana 45 ma grana 50.
Siccome attualmente ed anticamente se è corrisposto, e si corrisponde da galantuomi
cittadini di detto comune di Cerisano e non già in generi siccome pretende a causa che
il grano oggi si vende a caro prezzo di carlini 30. E se qualcuno per l’annate addietro
fusse corrisposto mezzo tumulo di grano, fu a causa che tal genere si vendeva a carlini
10, ed ecco che mezzo tomolo importava grana 50 uguale a carlini 5, che stanno tutti
pronti a corrisponderli egualmente ad galantuomi e maestranze rispetto a quelli
tengono bovi, si pratica da detti comuni convicini che corrispondono grana 45 per
cadauno paio ... 33.
Sulla base di tale considerazione si chiedeva al vescovo e all’Intendente di ordinare al
parroco di uniformarsi alle consuetudini dei comuni limitrofi e di non «bersagliare i
poveri bracciali». Il sindaco del comune non era dello stesso avviso dei richiedenti e
attestava la fondatezza delle motivazioni addotte dal parroco Gaetano Ruffolo. Ciò
nonostante, i dimostranti riuscivano ad ottenere una sospensiva del provvedimento dal
consigliere de Ruberto; la situazione venne ben presto normalizzata così come la
richiedeva il sacerdote, ma le manifestazioni di ostilità non conobbero fine. Nel XIX
secolo le cose non cambiano di molto: dopo la scomparsa della famiglia Sersale, gli
esponenti di un casato che nel corso di pochi decenni da affittuari dei feudatari
avevano accumulato potere e ricchezze notevoli, dominano la vita politica, economica
e sociale del paese. La famiglia Zupi, depositaria di un patrimonio inestimabile, si
ritrova alla testa della congregazione del Rosario, quelle avversarie, i Greco e i Paura
guidano la congregazione del Carmine. Le competizioni più diffuse riguardavano le
modalità di svolgimento delle feste dedicate alla Madonna del Rosario e a quella del
Carmine si gareggiava per organizzarle nella maniera più sfarzosa, con più gente, con
incassi più consistenti, col predicatore più bravo. Particolarmente soddisfatti erano i
sostenitori del Carmine se durante la festa dedicata alla Madonna del Rosario, il
cattivo tempo impediva le celebrazioni e altrettanto succedeva nell’ipotesi contraria.
Nemmeno venivano risparmiati rituali magici e scaramantici per favorire questi eventi.
Il metodo più usato per far scrosciare giù abbondante pioggia era quello di immergere
la «crozza» (un teschio) in un «bacile» pieno d’acqua e aceto 34. Il tremendo terremoto
del 12 febbraio 1854 provocò ingenti danni nel paese ed anche le chiese subirono
crolli e serie lesioni. La chiesa di San Domenico completamente inagibile al culto
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rischiava di degradarsi definitivamente e la congregazione del Rosario ottenne dal
comune l’autorizzazione a poterla riparare a proprie spese. Passati i primi momenti di
disperazione causati dallo sconforto di fronte a tanta sciagura le attenzioni dei
confratelli e delle consorelle si riversavano sulle abitudini e sulle ostilità di sempre.
Camuffati tra i gruppi religiosi, erano sempre presenti i rancori e le divisioni di classe.
Le famiglie contrapposte approfittavano dell’appartenenza a diverse congregazioni per
combattersi senza tregua. Ad un anno dal terremoto, il popolo di Cerisano volle
tributare un solenne omaggio alla Vergine per aver salvato il paese dalla completa
distruzione. Come nella migliore tradizione, però, ogni chiesa volle organizzare una
propria manifestazione e, pertanto, il parroco Raffaele Greco, ben consapevole della
delicatezza della situazione, faceva istanza al vicario dell’arcivescovo chiedendo di
«conoscere a quel delle due debba darsi la preferenza», ossia, quale delle due
confraternite il 12 febbraio (la lettera porta la data del 9), dovesse organizzare la
processione «in virtù del ringraziamento di esser stata la patria preservata dalla
morte». Tutto ciò «ad evitare le quistioni che potrebbero sorgere» 35. Ma i fatti del
terremoto dovevano causare altri conflitti anche a distanza di anni. Il 19 giugno 1856
un funzionario del tribunale di Cosenza registrava che gli amministratori della
Congrega del Rosario di Cerisano avevano querelato Saverio Greco ed altri. «La causa
correzionale pendeva presso la regia giustizia» a causa del furto di alcuni materiali da
costruzione. Gli imputati avevano agito per parte della congregazione del Carmine
della quale erano confratelli. Dal punto di vista giuridico si trattava di un «corpo
morale» contro un altro «corpo morale». Il «rispettabile consiglio degli ospizi» che era
l’ente preposto a vertenze a carattere religioso, negava a Lorenzo Santoro, priore della
congregazione del Rosario, l’autorizzazione a stare in giudizio perché trattavasi
«oltremodo, di un luogo pio che dà querela ad un altro per delle pietre prese per
riparare il campanile del Carmine rovinato dal terremoto, e rischiare il carcere per la
propria chiesa». Spinto da queste considerazioni il consiglio rigettava con fermezza la
richiesta del priore del Rosario il quale, non soddisfatto di tale decisione, ritornava
all’attacco denunciando i «carmelitani» per il taglio abusivo di alcuni alberi. La causa
si spostava sul piano civile ed il consiglio era costretto ad autorizzarne lo svolgimento.
A questo punto le cose si complicavano. Intervenne il sindaco Giuseppe Greco
prestando la sua intermediazione per risolvere l’incresciosa situazione che divideva il
paese in due e creava attriti e tensioni che spesso sconfinavano in risse, aggressioni e
liti. Il sindaco proponeva ai «rosarianti» il pagamento delle spese per il furto subìto e
supplicava i giudici di rinviare il più possibile il processo in attesa di trovare una
soluzione. Ma lo stesso giudice evidenziava al Greco: «private animosità spingono il
priore del Rosario». Il processo doveva celebrarsi per forza. Fortunatamente le autorità
giudiziarie ritenendo ridicola tale determinazione e testardaggine, fecero sì che, a
turno, nei giorni fissati per le udienze, qualcuno si ammalasse, per ritardare
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continuamente le date prefissate. Il più assenteista risultava il cancelliere, il quale,
puntualmente, inviava alcuni certificati di malattia compilati dal dottore De Luca
«chirurgo della real medicina» 36.
Quel terribile sisma aveva arrecato danni gravissimi sia alla chiesa che alla rimanente
struttura, era crollato il campanile che si innalzava nella parte posteriore della chiesa
(ove trovasi quello attuale) e rimase gravemente danneggiata la copertura 37. Tutto
questo impediva la celebrazione delle sacre funzioni, l’uso del cimitero e la vita stessa
della congregazione, né il comune aveva i mezzi per effettuare le riparazioni
necessarie. Anche in questa occasione i congregati del Rosario mostrarono profonda
fede ed elevato senso di responsabilità impegnandosi a fondo ed accollandosi tutte le
spese necessarie per il ripristino della normalità 38.
I monaci riformati
Resta ancora da analizzare il ruolo svolto tra Settecento ed Ottocento dai Padri
Francescani che, come già accennato, costituivano l’altra realtà religiosa del paese,
certamente non in sintonia col modus vivendi dei Domenicani che non si dibattevano
certo nella vasta mole di problemi economici che attanagliavano i Riformati. In un
primo tempo, per gran parte della seconda metà del Settecento, sembrano vivere con
un certo distacco le diatribe delle congregazioni, ma, talvolta, emerge una mal celata
propensione per i Carmelitani, forse a causa di questo divario non solo economico ma
anche ideologico esistente tra loro stessi e i Padri Predicatori che, com’è noto, erano
gli «sponsors» principali dei «rosarianti». In ogni caso si registrano delle frizioni tra
gruppi di paesani ed il monastero della Riforma. Uno degli esempi è contenuto in una
curiosa dichiarazione fatta da alcuni cittadini i quali «... testificano e fanno fede come
quest’oggi suddetto 24 giugno giorno di giovedì, e propriamente circa ore vintitre,
dopo due ore che si era ritirata la processione della Venerabile chiesa parrocchiale di
San Lorenzo Martire e Protettore, abbiamo oculatamente veduto uscire
processionalmente col Ven. li Rev.di Padri Riformati di questa suddetta terra, col palio
ed ubbrella della detta Parrocchiale chiesa, col avere anche inteso sonare le campane
in gloria di detta parrocchia di San Lorenzo, quelle del Ven.le Monasterio de Rev.di
Padri di San Domenico, una con quella della Ven.le chiesa del Carmelo, tutto per fare
cosa grata a detto monastero dei PP. Riformati di Cerisano e che detta processione
abbiamo veduto ancora di essersi ritirata ad ore ventiquattro. Onde per essere tutta la
verità a tutela di chi spetta, ni abbiamo fatto formare il presente atto pubblico in
presenza del giudice notaio e testimoni ... Dott. fisico d.s Rocco Calcagno, Antonio
Calcagno, Luca Frias di Cerisano» 39.
A tessere le trame della vicenda era lo stesso parroco Giobatta Caramelli che
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protestava vivamente con l’arcivescovo di Cosenza perché i Riformati, a suo dire,
usurpavano le prerogative della parrocchia.
Molto più eloquente, secondo la narrazione che segue, è l’avversione mostrata nel
secolo successivo, negli anni attorno al 1840:
I monaci Riformati di Cerisano (paese del circondario di Cosenza) in una notte di circa
70 anni fa furono rubati nel loro refettorio le mezzine dei maiali che avevano da poche
ore ucciso per proprio comodo. Tostochè al mattino vegnente essi s’accorsero del
patito furto e sospettando chi fossero i ladri, accesero in chiesa delle candele nericce e
si misero a cantare in latino il salmo 108 di Davide, il quale tra l’altro dice: ... O Dio
della mia lode, non tacere. Costituisci il maligno sopra di lui e Satana gli stia alla
destra. Quando sarà giudicato esca condannato e la sua preghiera gli torni in peccato.
Siano i suoi giorni pochi: un altro prenda il suo ufficio. Siano i suoi figliuoli orfani e la
sua moglie vedova. E vadano i suoi figliuoli del continuo vagando; e mendichino ed
accattino, uscendo dai loro casolari. L’usuraio gli irretisca tutto ciò ch’egli ha e rubino
gli estranei le sue fatiche. Non siavi alcuno che stenda la sua benignità verso lui; e non
vi sia chi abbia pietà dei suoi orfani. Siano distrutti i suoi discendenti; sia cancellato il
loro nome nella seconda generazione. Poiché egli ha amato la maledizione, vengagli; e
poiché non si è compiaciuto nella benedizione, allontanasi ella da lui. E sia vestito di
maledizione, come del suo manto, ed entri quella come acqua nelle sue interiora e
come olio nelle sue ossa. Siagli quella a guisa di vestimento, nel quale egli sia avvolto,
ed a guisa di cintura, della quale sempre sia cinto. Tal sia da parte del signore la
ricompensa dei miei avversari ... Uno di essi venne immediatamente colpito da forti
dolori e battiti del cuore, pei quali in meno d’un quarto d’ora morì, lasciando vedova
la giovane sua moglie ed orfani di padre cinque suoi piccoli figli. Gli altri furono pure
immediatamente attaccati chi da forti dolori al ventre, chi da soffocazione e chi da
altre indisposizioni. Atterriti perciò e presi da gran paura, si decisero tosto a restituire
ai monaci le mezzine dei maiali che avevano loro rubato 40.
Naturalmente, se la situazione era così conflittuale nelle confraternite, lo era
maggiormente nella vita, per così dire, civile. La famiglia Zupi, che deve la sua
rapidissima ascesa anche all’acquisto dei beni dei monasteri soppressi e delle
quotizzazioni 41, viene accusata di gravi abusi nei confronti dei cittadini di Cerisano.
A farsi promotore di violenti attacchi, è Vincenzo Greco, un noto ed intraprendente
appaltatore 42.
Un fatto ricorrente per determinare l’autonomia dei sodalizi congregati nei confronti
del parroco era sicuramente la nomina del Padre spirituale che, nel clima di accesa
conflittualità, doveva essere il sostegno morale ai capricci e alle intemperanze dei
confratelli turbolenti. La storia religiosa di Cerisano è costantemente caratterizzata da
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nomine, revoche, petizioni, proteste del parroco. Qualche volta accade di trovarsi
anche d’accordo ma raramente. Alla fine degli anni ’70 i Greco e i Santoro riuscirono
a porsi rispettivamente alla guida del Comune e della congregazione del Rosario. I
fatti che vengono qui appresso narrati, indicano con evidenza come ogni mossa fosse
studiata in maniera scientifica: il 1 gennaio 1879, Gabriele Zupi con l’aiuto di 63
confratelli riesce a diventare, addirittura, priore della chiesa del Carmine 43. La cosa
non è di poco conto e tenta di dimostrare come la famiglia Zupi poteva fare e disfare
ogni cosa a proprio piacimento. Diventare presidente della confraternita avversaria,
veniva visto come una prova di forza tendente a fiaccare ogni resistenza «nemica». La
rappresaglia non si fece attendere perché lo stesso giorno nella congregazione del
Rosario venne scalzato il vecchio priore Saverio Zupi. Il fatto veniva denunciato al
prefetto di Cosenza nel modo seguente:
I sottoscritti fratelli della congregazione del SS. Rosario di Cerisano, rivelano
all’autorità vostra un fatto d’abuso e di violenza consumato da pochi individui che
tengono da più mesi in disturbo questo Comune. Riunitasi la mattina dell’andante la
fratellanza per procedere alla nomina degli uffiziali, a maggioranza di essa, anzi la
massima parte elesse il signor Saverio Zupi ad onta che il funzionante da sindaco
Luigi Santoro ed il segretario comunale Lorenzo Santoro con minacce e grida si
opponessero a questo voto ed il Luigi Santoro diceva che lui doveva essere il priore,
ma la maggioranza dei fratelli stette ferma alla nomina e come è stato sempre costume
nel paese si diressero nell’abitazione del signor Zupi per chiamarlo e condurlo in
chiesa per cantarsi il “Te Deum”; in questo frattempo i suddetti Santoro unitamente ai
loro parenti profittarono dell’assenza dei fratelli proclamarono priore Luigi Santoro ed
intonarono il “Te Deum”. Rientrata la fratellanza col signor Zupi, in chiesa
protestarono ad esse con grida contro quest’atto arbitrario e si sarebbe ricorso ad atti di
violenza se il sig. Zupi non li avesse acquietati. In vista di ciò i fratelli pregano
V.E.ll.ma al fine di evitare conflitti e disturbi ed a far sì che la maggioranza sia
rispettata, disporre che l’elezioni abbiano luogo nella prossima domenica
coll’intervento ed alla presenza di persona che Ella delegherà. Tanto speriamo.
Cerisano 20 gennaio 1879.
Seguono le firme di numerosi confratelli 44. Le cose erano andate in maniera diversa e
ad accertarle era stato lo stesso Prefetto di Cosenza al quale erano stati rivolti
numerosi ricorsi. In realtà l’elezione di Santoro era avvenuta regolarmente e solo una
parte dell’assemblea, non soddisfatta del risultato, si era recata a casa dello Zupi per
condurlo in chiesa allo scopo di sovvertire la situazione. Correva anche voce, nel
paese, che la confraternita del Rosario fosse stata fondata da un esponente della
famiglia Zupi.
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In quanto alle vicende comunali, c’è da dire che l’annosa lite per usurpazioni
demaniali tra il Municipio di Cerisano e gli Zupi, era stata momentaneamente
accantonata per una transazione effettuata però in un periodo che vedeva alla guida
dell’ente locale un esponente della famiglia in causa. Non appena Ferdinando Paura
divenne sindaco, contestò la transazione precedente riportando la lite in tribunale. In
sintesi gli avvenimenti di maggior rilievo in campo religioso e civile erano
caratterizzati dallo stesso motivo dominante. In questo periodo particolare Ferdinando Paura sindaco, Luigi Santoro priore - il paese era veramente diviso in due
con dimostrazioni di ostilità mai viste: il priore del Rosario citava addirittura gli Zupi
per usurpazioni di un fondo dato precedentemente in affitto 45. Nel 1882 è il deputato
Antonio Zupi ad essere denunciato per aver deviato un corso d’acqua che serviva per
irrigare un terreno della congregazione del Rosario 46. Naturalmente, tutte le denunce
venivano precedute dalla stessa dicitura: «Riunita e congregata la maggiore e seniore
parte dei confratelli ad oggetto di recitare le glorie a Maria SS. ecc.». Notoriamente i
padri spirituali delle due congregazioni, a volte con uno stipendio superiore al quello
del parroco, per non parlare delle entrate straordinarie per messe ed altro, al pari dei
confratelli laici, erano ugualmente partigiani per la loro chiesa al punto di assecondare
le intemperanze dei più agguerriti sostenitori dell’una e dell’altra parte, nei momenti
più carichi di tensione. Si capisce come, una sorta d’avallo del proprio padre spirituale
caricasse ulteriormente gli animi che ritenevano oltremodo di avere il consenso di un
ecclesiastico che legittimava anche comportamenti al limite del lecito. Ecco che gli
ordini del parroco, a volte, non venivano tenuti in alcuna considerazione suscitando la
sua ira. Lo stesso religioso non poteva fare altro che denunciare l’accaduto:
Cerisano 2 maggio 1888. A Sua Ecc.ma Mons. Vicario Generale di Cerisano.
Il violare l’ordine che ha fatto la congregazione del Carmine, mi spinge a denunziarlo
all’ecc. Sua Rev.ma. Ecco il fatto: per evitare questione ho permesso che la detta
congrega celebri la pia pratica del mese mariano nelle ore pomeridiane, ma sempre
però dopo compiute le funzioni parrocchiali. Gesù serba pio l’ordine. Oggi non è stato
così, perché dopo decorsa mezz’ora, che aveva suonato la chiesa parrocchiale, hanno
cominciato la funzione alcuni della Ven.le Congrega, e così hanno disturbato. In un
piccolo villaggio qual’è Cerisano celebrarsi funzioni ecclesiastiche nella medesima ora
non va. Onde prego la prima disporre che si faccia di mattino nella congrega, o pure
dopo uscita la funzione parrocchiale; violando tale mandato prego L’Ecc.ma infliggere
qualche pena al sacerdote che osi farlo. Baciandole con tutto rispetto le mani mi segno
Suo Dev.mo Servo Luigi Rev. Calcagni Vicario Foraneo 47.
A volte è lo stesso parroco a non essere imparziale o ad essere oggetto di discordia
nell’ambiente religioso paesano. Come è più volte emerso nella corrispondenza tra le
autorità ecclesiastiche cosentine e i religiosi di Cerisano, spesso i padri spirituali delle
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congregazioni, erano affatto alieni dall’essere coinvolti nelle diatribe tra associazioni
opposte e certamente non interponevano i loro buoni uffici per redimere controversie o
questioni varie. Molto probabilmente gli stessi religiosi erano costretti ad assecondare
ciò che i priori e gli assistenti avevano in mente di fare, pena la rescissione dei lucrosi
contratti che venivano stipulati tra cappellani e congregazioni. In tale ambito si colloca
uno dei tantissimi episodi di discordia puntualmente segnalato all’arcivescovo di
Cosenza:
A S.E. R.ma Mons. Arcivescovo di Cosenza.
Le accludo lire 11,10 delle quali 10 per bollo datemi dalla sig.ra Filomena Servidio, e
altre tre dalla sig.ra Luisa Conflenti per limosina della carne, altre 5 mi vennero
elargite dalla venerabile congrega del SS.mo Rosario, i quali perché sempre docili,
ubbidienti e rispettosi alla autorità ecclesiastica, umiliano all’Ecc.S. Ill.ma che
avrebbero offerto pei luoghi Santi una limosina più vistosa se non ne fossero impediti
da dispendiosi lavori intrapresi pel restauro della chiesa. Il PP. Spirituale, il Priore e
tutti della congregazione baciano la mano all’Ecc. S. R.ma e le chieggono la pastorale
benedizione.
A riguardo della V.le Congrega del Carmine perché sempre indocili e riottosi, ne ho
avuto un diniego. Riguardo agli stessi mi corre l’obbligo d’informare l’Ecc. S. R.ma di
quanto questi fratelli hanno fatto contro il sottoscritto e di molti sacerdoti di questo
clero, domenica ultima 8 intercorrente, radunati i confratelli nella chiesa e recitata la
corona di N. S. la SS. Vergine, dietro proposta fatta da Paolo Greco, presidente della
società operaia, cui sono affiliati non pochi della detta congrega, hanno deliberato di
redigersi una petizione contro il parroco e dei Rev.di sacerdoti, da firmarsi da’ fratelli
e sorelle, e da rinviarla non so a quale autorità se civile o ecclesiastica. La petizione
venne subito redatta, ma la maggior parte si sono ricusati di firmarla. Vi si sono
segnati pochissimi e delle canaglie. Nelle ore pomeridiane poi, una dimostrazione
contro di preti e del parroco. Che hanno effettuata a 5 pomeridiane scorrazzando,
schiamazzando, urlando: “abbasso i mariuoli, camorristi e ladri di preti”. Alcuni poi
dimostranti, perché più briachi hanno pure gridato “abbasso il parroco”. I reali
carabinieri hanno fatto cessare cotale baccano con minacciare i dimostranti di carcere.
Ad insinuazione del sindaco, sig. Saverio Zupi hanno sposto querela a’ caporioni, tra i
quali è un Pasquale Caracciolo, germano del sac. D. Ferdinando P. Spirituale di detta
Congregazione. Stando così le cose per non esporsi a maltrattamenti e ad ingiurie che
temono di ricevere da’ facinorosi ascritti alla Congrega del Carmine, vorrebbero
decidersi a non intervenire alla prossima festa che detta Congregazione sarà per
celebrare il giorno di Pentecoste, e neanco al novenario.
Prego l’Ecc. S. Rev.ma far sapere come debbansi condurre in tal faccenda.
Io, insieme ai Rev.di sacerdoti baciando con tutto rispetto le mani all’Ecc. S. Rev.ma,
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e cercandole la benedizione, mi segno 48.
Si era in uno dei periodi più caldi ed imprevedibili della storia delle due associazioni
che corrispondeva al momento in cui la lotta era più cruenta tra la famiglia Zupi e la
famiglia Greco. Quest’ultima, coadiuvata dai Santoro e dai Paura, era protagonista, in
questi anni di feroci attacchi su tutti i fronti sia politici che religiosi. Solo il diretto
intervento del presule cosentino riusciva, almeno momentaneamente, a sedare gli
animi e fare scrivere allo stesso parroco le seguenti parole:
A sua ecc. Rev.ma Mons. Arcivescovo di Cosenza. Il parroco e Vicario Foraneo di
Cerisano espone alla Ecc. S. R.ma quanto segue: secondo la sua venerata lettera rivolta
al Sindaco di costì, e secondo risposta data dall’ecc. S. R.ma comunicata al sottoscritto
con telegramma da Luigi Greco, fratello del Priore della Congrega del Carmine, i
componenti la suddetta congrega si sono recati quest’oggi nella chiesa parrocchiale, ed
hanno chiesto perdono a nome di tutti prima all’ecc. S. R.ma. e poi al sottoscritto
Parroco delle ingiurie e degli oltraggi che hanno alcuni fratelli arrecato loro
obbligandosi che semai osassero rinnovare siffatte offese in appresso, saranno radiati
dal libro della Congrega. Suo fedelissimo servitore Luigi parroco Calcagno 49.
Con il diffondersi delle testate giornalistiche cosentine, diventava abituale anche la
corrispondenza da Cerisano specie su «La Lotta», «Cronaca di Calabria» e «La
Sinistra»; gli argomenti trattati erano i più vari: dalla cronaca nera, alle manifestazioni
pubbliche, alle polemiche politiche. Uno spazio rilevante viene occupato dalle feste
religiose con accenni alla vita delle confraternite 50. Spesso si portavano a conoscenza
della gente fatti poco piacevoli e tali da suscitare il disprezzo dell’intera comunità,
avversari compresi, a dimostrazione del fatto che, per quanto cruente fossero alcune
manifestazioni di ostilità, rientravano comunque nell’ambito di un terreno di scontro i
cui limiti erano ben tracciati e non sconfinavano in gesti sacrileghi ed insensati che,
quando si verificavano, registravano addirittura la solidarietà degli avversari di
sempre. È il caso della notizia riportata nel seguente articolo a stampa:
Eccovi, per i lettori di questa simpatica e diffusa Cronaca di Calabria, qualche notizia
sulla festa del Carmine, che si celebra in Cerisano nel luglio, con gran pompa.
Stamattina poi, giorno della festa, la nostra banda ha eseguito in piazza scelti pezzi di
musica, dimostrando ancora una volta che le diuturne amorose cure del suo
laboriosissimo ed intelligente maestro, Sig. Domenico Zazzara, non vanno spese
invano. In chiesa intanto un nembo di luce e di profumi e un’esultanza di suoni sposati
alle fresche voci delle vaghe fanciulle sfoggianti gli abiti più belli e i più seducenti
sorrisi. Dopo la messa solenne e l’orazione panegirica del Rev. teologo Mauro si è
portata l’immagine in processione per il paese prendendovi parte anche i Seminaristi,
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che per il primo anno si trovano qui ad estivare.
In ultimo chiuse i festeggiamenti un’opera eminentemente filantropica, il sorteggio,
cioè di 2 maritaggi di lire 50 ciascuno, fra le ragazze povere del paese, elargiti di
propria tasca dal priore sig. Paolo Greco, il quale speriamo trovi degl’imitatori
nell’avvenire.
Ritiratasi la processione, verso le ore 13, e sfollata la chiesa, gli assistenti la chiusero a
chiave, come di consueto, ed andarono a mangiare ciascuno nella propria casa. Ma,
riapertasi la chiesa verso le ore 15, alcune donne si meravigliarono di vedere la statua
priva di tutti gli oggetti di oro di cui la mattina era adorna e credendo che il primo
assistente li avesse conservati primo del tempo, se ne sono lagnate con lui. Questi però
e gli altri ufficiali sono rimasti addirittura sbalorditi, giacché nulla sapevano in fatto di
oro.
La notizia, sparsasi in un baleno per il paese, ha costernato tutti, essendo vivissimo nei
Cerisanesi l’affetto per le chiese e non avendo l’accaduto alcun riscontro nel passato.
Il ladro, o i ladri sono ancora ignoti; ma chi conosce il fanatismo di questo popolo in
fatto di chiese certo non andrà a cercare in esso l’autore del sacrilego furto, ma bensì
tra i numerosi forestieri fra i quali si notarono delle facce sospette che puzzavano di
“mala vita” lontano un miglio. Gli oggetti in oro involati sono in numero di undici, fra
cui quattro catene, una di maglie 13, un’altra di 49, una terza di 17 con pendaglio, e la
quarta del peso di grammi 80; più orecchini e spille del complessivo valore
approssimativo di un migliaio di lire. (Sappiamo che il Sig. Paolo Greco, Priore della
chiesa derubata, ha disposto una mancia di L. 500 a chi facesse scoprire i ladri) 51.
Purtroppo dopo sporadici casi di solidarietà, si dava luogo alle solite scaramucce, e
non si pensi che le abituali ostilità rimanessero circoscritte nell’ambito paesano quasi a
volere «lavare i panni sporchi in famiglia» perché, anzi, si utilizzavano le testate
giornalistiche anche per muoversi delle critiche più o meno velate 52.
Non esisteva un solo aspetto che riguardasse minimamente la vita delle confraternite
che non fosse preso a pretesto per gareggiare e mostrare la «superiorità» degli uni o
degli altri e farsene pubblico vanto. Tra le cose di cui andavano fieri i Carmelitani, e in
primo luogo la famiglia Greco che ormai era in prima fila nella conduzione della sua
confraternita, erano due tele, tutt’ora collocate negli altari della navata prossima al
coro, racchiuse in due belle cornici, una in marmo l’altra a stucco, opera del celebre
Juvieddru (mastro Giovanni Ruffolo), raffiguranti rispettivamente San Pietro e San
Paolo, entrambe dipinte dal famoso Enrico Salfi nel 1884. Le opere erano state
commissionate da Pietro e Paolo Greco, più volte con ruoli di primissimo piano
all’interno dell’associazione carmelitana, in omaggio ai santi di cui portavano il nome
53. Dopo undici anni, si riuscì a pareggiare il divario. Nel 1895 esultarono i rosarianti
per aver ingaggiato il pittore Rocco Ferrari, allievo prediletto del Perricci, il quale due
anni prima aveva affrescato la volta della chiesa di San Domenico con scene della
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Battaglia di Lepanto e della vita di San Domenico 54. Stavolta il giovane pittore
montaltese si cimentava con due oli su tela da porre nell’abside della stessa chiesa
raffiguranti rispettivamente il Transito di San Luigi Gonzaga e il Riposo nella fuga in
Egitto. La cosa più interessante però è che le due opere erano commissionate e
dedicate ai loro santi dal priore Luigi Santoro e dal primo assistente Giuseppe Ruffolo
55 i quali andavano in giro dicendo: «Amu apparatu i cunti». Costoro fecero ancor di
più: nella cappella della congregazione c’è una tela raffigurante la Madonna del
Rosario che accoglie nel suo manto i confratelli del Rosario col duca Sersale in atto
devoto; inizialmente, i volti dei confratelli erano completamente coperti dal cappuccio
bianco e, nel 1886, si fece ridipingere una parte dell’opera dal pittore napoletano De
Dominicis, che da due anni stava curando la decorazione della cappella. In altre
parole, al posto di alcuni dei visi coperti, vennero ridisegnate le facce dei confratelli
del tempo 56. La stessa cosa commissionarono alcuni consociati per la navata centrale
della chiesa ove si fecero ritrarre da Rocco Ferrari ai piedi della Vergine del Rosario
57. È evidente che in quel periodo i due sodalizi, oltre a contrapposizioni più o meno
marcate, mostravano un attivismo fuori dal comune e una perseveranza nel far
rispettare le proprie prerogative davvero degna di lode. È il caso che vede protagonista
la statua lignea di San Domenico a mezzo busto con le dita rotte, posta sull’altare della
cappella gentilizia, che faceva disperare i suoi fedeli perché temevano di non poterla
più avere nella propria chiesa. L’origine del curioso episodio risale al presulato
dell’arcivescovo Domenico Narni Mancinelli, che resse la diocesi cosentina dal 1818
al 1831. A causa della poca sensibilità dell’alto prelato che effettuò, come di solito
avviene, una visita pastorale a Cerisano, doveva cominciare la lunga vicenda. In quella
occasione, egli, particolarmente devoto di San Domenico, chiese di portare con sé la
statua onde poterla riparare e riportare all’originario aspetto. Ma le cose si presero per
le lunghe perché ogni richiesta dei confratelli rimaneva puntualmente infruttuosa.
L’immagine lignea del santo rimase a Cosenza per lunghi anni nel monastero di
Costantinopoli noto anche come chiesa di Gesù e Maria. Nonostante tutto i fedeli di
Cerisano non demordevano e quando Narni Mancinelli fu inviato in altra sede, essi
sperarono che il suo successore Pontillo esaudisse le sempre più pressanti richieste
tendenti a riavere la statua; tutto però vanamente. Il 19 settembre 1874 riunita la
congregazione con la firma di 80 confratelli, si decise di scrivere al nuovo arcivescovo
Camillo Sorgente, prelato particolarmente attento ai problemi della diocesi, per riavere
quello che a loro spettava di diritto. Il sensibile pastore accolse la supplica e fu così
che i fedeli del Rosario di Cerisano andarono a Cosenza a riprendere la statua e, al loro
ritorno, organizzarono una grande festa con processione musiche e fuochi d’artificio,
per esternare la loro gioia, la loro soddisfazione e la loro devozione verso il santo 58.
Ma non c’è avvenimento che venga trascurato per rianimare l’annosa conflittualità. A
quanto viene riportato su un periodico, nel 1897, la festa del Rosario
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malgrado la pioggia era riuscita splendida, con mirabili fuochi pirotecnici, con l’ottima
banda di Mendicino e con la presenza di un oratore che lasciò i fedeli incantati.
Probabilmente sono finite le gare sciocche tra le due congreghe di Cerisano, infatti gli
associati della confraternita del Carmine hanno preso parte alla processione del
Rosario, ed hanno così fatto il primo passo per la conciliazione 59.
Altrettanto non fecero i rosarianti nelle successive feste del Carmine.
La costante accesa conflittualità delle due fazioni, a quanto lamentavano ripetutamente
i parroci nelle loro missive inviate ai vari arcivescovi, se da un lato accresceva
l’interesse per le rispettive chiese con lavori di restauro, feste sontuose e ricche
donazioni, dall’altro provocava il costante ed inesorabile impoverimento della
parrocchia, la quale, dopo la soppressione delle decime sacramentali, non aveva alcuna
reddita e versava in precarie condizioni economiche. Avveniva così che, mentre le
chiese del Carmine e del Rosario apparivano sempre in ordine e ben decorate, con due
feste - rispettivamente quella dell’ultima domenica di luglio e quella della prima
domenica d’ottobre - preparate senza badare a spese, con ricchi fuochi d’artificio,
addobbo delle chiese e banda musicale, la parrocchiale dedicata a San Lorenzo Martire
aveva difficoltà anche per l’ordinaria manutenzione. Le feste solenni che erano di sua
pertinenza - come il Corpus Domini - avvenivano senza sfarzi, spesso caratterizzare
dal solo aspetto religioso senza coreografie o elementi, per così dire, spettacolari. In
tale contesto sembrò opportuno a cavallo tra i due secoli, al parroco del tempo, istituire
un’altra confraternita con l’illusione che sarebbe bastato un tale atto a creare un terzo
polo di attrazione e di attività avente come riferimento la parrocchia. Nacque così di
nuovo la Congregazione del SS. Sacramento. Le motivazioni della sua fondazione, è
evidente, sono da ricercare nel tentativo di spezzare l’antico dissidio tra Carmine e
Rosario, ma si voleva soprattutto per garantire un minimo di sostegno economico alla
parrocchia. Scalfire una tradizione ormai radicata nei secoli, con tutto quello che ne
conseguiva, era pura utopia; i confratelli del SS. Sacramento, molto pochi a dire il
vero, non raggiunsero mai la ricchezza ed il potere che avevano avuto il Carmine ed il
Rosario né riuscirono minimamente ad indebolire il dualismo ormai facente parte della
natura del paese e dello stesso essere cerisanesi. Anche il loro tentativo di inserirsi
nelle frequenti dispute tra le due storiche fazioni appariva goffo e privo di efficacia. È
il caso di manifestazioni esteriori a prima vista di poco conto ma che, nel contesto in
cui si verificavano, apparivano gravi e spesso provocavano paurose risse durante le
stesse funzioni religiose. Per esempio, durante la processione del martedì dopo la
Quinquagesima a chiusura delle 40 ore o durante quella del Corpus Domini, il
Santissimo Sacramento viene protetto dal pallio mentre si percorrono le strade del
paese; quando poi ci si ferma davanti agli altari improvvisati nei vari rioni, coloro i
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quali reggono il pallio si fermano e la pisside sacramentale viene accompagnata sugli
altarini protetta dall’ombrello d’onore. Ma a chi tocca il privilegio di portare
l’ombrello? Quelli del Rosario affermano che da sempre è stata una loro prerogativa
ed un loro diritto; quelli del Carmine, non potendo proprio avanzare la stessa richiesta,
sostengono che il privilegio è di pertinenza della Confraternita del SS. Sacramento che
fa capo alla parrocchia che è, appunto, la chiesa che organizza quelle due processioni.
Il 1927 è un anno da tenere a mente, per come il termometro della conflittualità
segnasse temperature elevate. Alla fine delle «quarantore» ha luogo la processione
proprio il martedì di carnevale. Ma accade l’imprevisto, ossia quello che era successo
già altre volte ma con motivazioni diverse. In seguito ai fatti che verranno appresso
narrati, il povero, don Agostino, al quale è necessario riconoscere doti di tolleranza, di
pazienza e di equità, era veramente sconsolato al punto da chiedere al vescovo di
essere inviato ad altra sede. Ma è necessario ascoltare la sua voce per avere un’idea del
clima estremamente teso che vigeva:
Cerisano 1 marzo 1927. Eccellenza Illustrissima.
Impossibilitato a venire personalmente, riferisco per lettera quanto è accaduto in
questa parrocchia oggi stesso, nelle ore pomeridiane.
Per vecchia consuetudine, più che centenaria, in questa parrocchia dopo le quarant’ore
dei tre giorni di carnevale, tutto il popolo, con vera solennità, ha voluto ogni anno
accompagnare il SS.mo che processionalmente ha percorso il corso principale del
paese. Tutto ciò a chiusura delle quarant’ore.
In tale processione è stato sempre solito far portare l’ombrello alla prima autorità
civile locale, la quale o è intervenuta personalmente o ha mandato un suo
rappresentante, assessore o consigliere comunale. Oggi esiste il podestà e sarebbe
dovuto venire o il podestà o il vicepodestà. Infatti era stato delegato proprio il
vicepodestà, nella persona di Ugo de Aloe.
Intanto cosa è avvenuto? Dei sobillatori che fanno capo alle due arciconfraternite,
qualche giorno prima del fatto odierno, hanno fatto propaganda fra il paese in Piazza,
sulle vie e anche per le case a ciò si fosse impedito che l’ombrello l’avesse portato il
vicepodestà. Premetto che tale atto di omaggio del podestà al SS.mo è simpatico, che
se non ci fosse stato qualsiasi parroco avrebbe fatto di tutto per crearlo. Da ciò capire
che io ho difeso la tesi della consuetudine, e cioè siccome l’ombrello è stato portato
dal sindaco, doveva essere portato dal podestà e ho mosso allo stesso regolare invito il
quale è stato accettato e in sua assenza ha mandato il vicepodestà. Premetto ancora che
nella parrocchia esiste una piccola Arciconfraternita del SS.mo Sacramento fondata
ora sono 25 anni allo scopo di attirare verso la parrocchia un po’ di culto e un po’ di
entusiasmo per raccogliere un po’ di oboli per la chiesa. Tale Arciconfraternita però,
essendo di elezione puramente parrocchiale, perché fondata dal parroco del tempo,
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non ha valore giuridico né presso codesta rev.ma curia, né presso il governo. Però tale
Arciconfraternita elegge ogni anno il priore, due assistenti e un procuratore. In
quest’anno pare che gli eletti, da quanto è accaduto, abbiano portato in seno alla
congregazione spirito di novità e tra le novità l’interruzione di offrire l’ombrello al
Podestà. A ciò io mi sono opposto decisamente, sia per non offendere l’autorità civile,
e perciò ho compreso che la novità partiva da persone che agivano allo scopo
semplicissimo di vendetta personale verso il vicepodestà e allo scopo di portare nel
paese molto perturbamento. Tra le persone che fomentavano la discordia e
sostenevano la tesi a me contraria, va notato il sacerdote Vercillo. Nelle discussioni
avvenute per la pacificazione la questione è stata spostata, perché, passati a traverso al
criterio del passato in modo che n’è divenuta in seguito una questione fra le due
congreghe, fra quella del Carmine e quella del Rosario. Per tre giorni nelle piazze e
nelle vie non si parlava che di questo: l’ombrello spetta al priore della parrocchia ...
altri ... l’ombrello spetta al priore di San Domenico. Tutto questo, si diceva, perché
localmente per vecchia consuetudine, risulta che quando l’ombrello non è stato portato
dal sindaco, lo avrebbe portato il priore di San Domenico. Tale consuetudine io l’ho
trovata e l’ho sempre rispettata, appunto perché conoscendo l’indole locale, si
sarebbero avute questioni. In quest’anno per lo spirito di novità n’è messa sul tappeto
della discussione anche tale consuetudine e si voleva ad ogni costo togliere. Io,
prevedendo questioni e questioni serie, ho pregato allora il vicepodestà, perché ad
evitare discussioni e questioni, fosse venuto a portare l’ombrello. Il vicepodestà è
venuto, ma quando tutto era pronto per cominciare le funzioni e cioè i Vespri prima
della processione, e il clero era tutto al coro, in sagrestia si raccolse subito molta gente
e, avviando la discussione sul diritto di portare l’ombrello, gli animi si sono accesi e le
parti in contesa si sono accapigliate scagliandosi pugni e pugni. Intervenuta subito
l’arma dei carabinieri, che ha messo dentro i litigiosi, ma è stato tale il panico della
folla immensa che gremiva la chiesa, tale il chiasso che sono stato obbligato a
sospendere tutte le funzioni e a fare vuotare il tempio. A tutto ciò si è trovato presente
il canonico Vitari, che V. Ecc.za farà bene a chiamare e a domandare schiarimenti
sull’accaduto. Quanto sopra i fatti, adesso conchiusioni: Risulta che a capo di tal
disordini sono stati elementi delle due arciconfraternite allo scopo di portare disordine
in parrocchia, risulta che il sacerdote Vercillo, per favorire quella del Carmine,
sostenendo la tesi contraria alla mia, risulta che molti influenzati dalle parole del
Vercillo hanno accresciuto forza a parlare e a mettere disordini.
Da ciò si rileva che le Congreghe sono vere conventicole a scopo di dominio e di
capricci e non a scopo religioso. Moralmente la religione ci guadagnerebbe molto se
tali Congreghe non esistessero. Per punire la loro albagia sarebbe bene dare una buona
lezione, sospendendo in detta Congrega le funzioni per sei mesi, interdicendole ...
Forse penserà che ho scritto in un momento di orgasmo, ma ho scritto nell’orgasmo
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
per essere più preciso e più veritiero. Giovedì sarò a Cosenza per riferire tutto meglio a
voce. V. E. intanto potrà mandare qui il vicario foraneo, il quale, inquisendo stabilirà i
termini precisi della questione.
Da parte mia muovo questa preghiera: sono quattordici anni che miracolosamente ho
avuto la forza di spirito di fare il parroco in Cerisano che è quanto dire. Le battaglie
che ho combattuto per vincere i tre fieri nemici: il mondo, la carne, il demonio, lo sa il
buon Dio; da lui solo aspetto la mercede. La mia salute per una vita di continua
solitudine e sacrifizi fino all’eroismo è molto sciupata. Prego V.E. disporre di me
come vuole, fino al sacrifizio, ma mi faccia la grazia di allontanarmi da Cerisano.
Tutto il mio lavoro cade nel vuoto e i miei sacrifizi servono soltanto a tirare avanti alla
meglio. Mi sento molto umiliato e forse il Signore ha voluto gettarmi in orgasmo
perché avevo menato vanto come ero riuscito a tenere in freno un paese ribelle. Ma io
solo so a quali sacrifizi e a costo di quali rinunzie avevo ottenuto ciò ... Bacio il sacro
anello ecc. ... (firmato) Il sacerdote Biasi Agostino 60.
Il cappellano del Carmine prontamente redarguito, replicava però scaricando ogni
responsabilità perché, a suo dire, come siano scoppiati i disordini:
... io l’ignoro essendo rimasto a casa ammalato fin dalla vigilia di quel giorno; La
quistione poi verteva tra la Congrega della parrocchia e quella di San Domenico, nulla
entrandovi quella del Carmine, che nessuna pretesa aveva affacciata e nessun diritto
accampava ... Sono questioni futili, puerili, anzi bizantine che solo menti piccine o
delle pettegole possono trattare e non persone serie, che hanno tutt’altro a che pensare.
Tutto il paese sa se io sia stato o pur no il sobillatore a cominciare dall’arma
benemerita 61.
Ne conseguono ammonimenti da parte delle autorità ecclesiastiche e, in seguito alle
ragioni scritte dalle varie parti, viene inviato un apposito decreto dell’arcivescovo
Trussoni che attribuisce il diritto contestato al sindaco o suo delegato, in subordine alla
congrega del Rosario, in ultimo a quella del SS. Sacramento 62. Infatti nella
manifestazione del 1923, Domenico Greco (Micu u Griecu) che era vicesindaco e
carmelitano di ferro, era andato in processione con la fascia tricolore del sindaco ma
anche, ben visibili, con gli abitini della Madonna del Carmelo, tra i sogghigni beffardi
dei carmelitani e la rabbia dei rosarianti.
In ogni caso la decisione del presule cosentino, molto discutibile, non viene accolta di
buon grado e lo stesso Priore del SS. Sacramento ne illustra i motivi:
... Siccome i signori Zupi hanno funzionato sempre da sindaco, trovandosi per
tradizioni di famiglia ascritti alla congregazione del Rosario per conseguenza hanno
sempre delegato a portare il detto ombrello uno dei membri del Municipio che
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apparteneva alla medesima congrega del Rosario 63;
perciò si era ingenerata questa voluta confusione. Don Agostino, che a giudicare dalla
sua accorata lettera poteva sembrare filo-rosariante, ebbe ben presto la possibilità di
tenersi invece equidistante da quei due sodalizi che, a causa dei loro comportamenti,
erano visti come un ostacolo alla corretta pratica della fede religiosa. Alla successiva
festa del Corpus Domini, il decreto del vescovo non fu affatto accettato, si ripropose lo
stesso scenario: il «carmelitano» Domenico Santelli detto Scarola si avventò su
Domenico Scola detto Barducchino per strappargli l’ombrello. La furibonda lite che ne
consegue termina con l’intervento dei reali carabinieri che arrestano alcuni dei
facinorosi. Stavolta il parroco stigmatizza anche il comportamento molto discutibile di
personaggi di primo piano della vita cittadina e della congregazione del Rosario:
... La questione dell’ombrello, che diviene sempre più noiosa e antipatica, si può dire
una questione puramente di parte e immorale. Da quello che farò presente vedrà come
si tratti realmente di una questione di partito che tiene ad imporre una odiosa
supremazia. Nella festività del giovedì Corpus Domini, non è venuto a portare
l’ombrello il podestà né il vice podestà. Il podestà si è assentato non venendo quel
giorno a Cerisano, il vice podestà si è tappato in casa, lasciando il posto libero al
priore del Rosario e ciò ad arte e cioè maliziosamente, perché il vice podestà
appartiene alla famiglia, che partecipa accanitamente per la Congrega del SS. Rosario.
Il vice podestà che poteva e doveva portare l’ombrello, appunto per evitare nuovi
attriti, si è chiuso in casa e l’ombrello è stato portato dal priore del Rosario il quale,
informato del piano prestabilito, è venuto con automobile da Cosenza, qualche
momento prima della processione (...). Un tale atteggiamento del vice podestà e il
contegno superbo del priore del rosario, che ha portato l’ombrello, quasi per affermare
una contrastata supremazia, ha suonato come un atto di sfida verso la Congrega del
SS. Sacramento e anche verso tutti quelli del paese (e non sono pochi) che hanno visto
sempre male tale privilegio (...) la questione dell’ombrello serve esclusivamente ad
affermare la supremazia di una arciconfraternita che si trova al servizio di pochi
demagoghi, che giuocano di furberia per imporre dietro il velazio di una inveterata
difesa consuetudine, gli ultimi sprazzi di una supremazia oramai tramontata ... 64.
Nel 1933, è nuovamente il parroco che non nasconde al vicario foraneo le difficoltà a
gestire tali situazioni, a suo dire, alcuni suoi colleghi
conoscendo le lotte delle Congreghe di Cerisano, stentano a convincersi come io sia
potuto riuscire a tenerle ubbidienti e soggette. Come ciò sia avvenuto lo sa il buon
Dio, ch’è testimone perenne dei miei sacrifici.
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Era così arrogante il comportamento delle congregazioni che pretendevano di
escludere il parroco dalla scelta del padre spirituale, e non era un atteggiamento
episodico o legato a fatti particolari: proprio perché funzionale alle proprie esigenze
strategiche, più che devozionali, il sacerdote delle confraternite doveva essere persona
fidata e fedele e la sua preparazione specifica in campo religioso e dottrinale, passava
in second’ordine. Per questo motivo non sono infrequenti i casi di scontro tra
confraternite, parroco e Curia arcivescovile 65.
In questi anni si rende necessario effettuare numerose riparazioni alla chiesa del
Rosario, si procede al rifacimento della facciata, e si ristruttura la parte ex
conventuale. Anche questo pretesto viene colto al volo per causare un ulteriore
esempio di insensata ostilità. Di fronte alle macerie che non rendevano certo un buon
aspetto all’intero complesso, un gruppo di carmelitani, alla fine di una processione,
passarono di nuovo davanti la chiesa di San Domenico cantando in coro:
sannu Minicu lu biatu
lu cummientu ti l’hannu scioddratu
e si ’ud’era ’ppe santu Simune
ti facianu ’u peddrizzune.
La provocazione venne immediatamente accolta da «’Ntonu de Carruzzinu» e Pietru
Filice (rosarianti) i quali, armati di candelabri, si avventarono sugli avversari
originando fatti e rituali facenti ormai parte del costume di queste confraternite,
culminanti in ferimenti, ulteriori rancori ed altri aspetti che costituivano l’oggetto di
discussione delle serate successive quando, molto spesso, in assenza di mezzi di
comunicazione di massa, ci si ritrovava intorno ad un focolare a raccontare gli
avvenimenti di rilievo che caratterizzavano la vita paesana. Non si faceva a tempo a
lenire un dissidio che ne nascevano altri. Capitava, quando si avvicinava una festa
religiosa, specialmente quella del Carmine o del Rosario, che in alcune famiglie di
Cerisano si tremava al pensiero che potesse succedere qualcosa. Anche le donne
coinvolte nella lotta, spesso, erano molto agguerrite. «Mia sorella - racconta Isabella
Piscitello - era prioressa del Rosario e aveva litigato con le prioresse del Carmine e di
San Lorenzo. Per questo aveva paura, ma, in sogno le apparve la Madonna del Rosario
e le disse: “Non ti preoccupare, io sono la vera Madonna”». A volte la rivalità e il
risentimento sfiorano l’incredibile. Ecco che, per esempio, si sfregia uno dei quadri dei
misteri dolorosi che si portavano in giro per il paese durante la processione del venerdì
Santo per motivi alquanto futili. Ma cosa c’era alla base dell’insensato gesto? Ecco i
fatti: in occasione della processione del Venerdì Santo, vi era, fino a qualche decennio
addietro, l’abitudine di «fare l’incanto», cioè una vera asta, per poter vestire l’abito
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delle Marie, e anche per portare le statue in processione; solo chi offriva di più
usufruiva di questo privilegio. In quell’anno, per l’abito della Veronica, concorrevano
le famiglie dei «Mecci» (carmelitani) contrapposti ai «Bircune» (rosarianti).
Quest’ultima famiglia, rimasta aggiudicataria della gara, poteva esercitare questo
privilegio. La rabbia degli avversari si sfogò in un modo veramente singolare, giacché
i «Mecci» commissionarono a Luigi Spizzirri (da non confondere col cosiddetto
Pampuglia) il taglio della tela raffigurante la Crocifissione di Cristo, la quale, solo
dopo la paziente opera di un pittore dilettante detto ù mutu de Caracciulu venne
restaurata e rimessa la suo posto. Lo stesso anno 1933, il giovane Enrico Cannataro,
più volte coinvolto in dispute di tal genere, viene espulso e deposto dalla sua carica di
primo assistente del Carmine per i tumulti provocati durante la manifestazione di
domenica 31 maggio in occasione della festa dell’Assunzione. Era stato un episodio
veramente increscioso per il quale il giovane era stato tradotto nelle carceri paesane e
rilasciato il giorno successivo. Dopo un atto di pentimento del Cannataro che, a suo
dire, non aveva voluto offendere l’autorità ecclesiastica e che aveva agito «per eccesso
di zelo verso la chiesa e specialmente perché ignoravo la gravezza del caso» 66, viene
riammesso nelle sue funzioni. Altro elemento ad essere coinvolto nella baruffa era
Pasquale Gagliardi detto, Mangiacane che veniva tradotto nelle carceri di Rende
mentre i rosarianti lo beffeggiavano:
Enne Enne u paracu e renne (le rende, le restituisce)
Pasqualinu è chiusu a Renne:
Tre anni dopo, in seguito alle richieste di Attilio Santoro, priore del Rosario, tendenti
ad avere «l’onore di poter ricevere il Santissimo» nella chiesa del Rosario, alla
«chiusura delle 40 ore», durante la processione del martedì di carnevale, appena il
corteo entrò in chiesa, scoppiò una paurosa rissa con numerosi feriti. La Curia allora,
sospese tutte le processioni e le feste esterne del paese, che vennero riprese solo dopo
che le congregazioni del Carmine e del Rosario procedettero all’espulsione di una
trentina di congregati particolarmente turbolenti 67. Nella relazione della visita
vicariale del 1938 il parroco dichiarava:
La parrocchia di Cerisano rimane sempre una parrocchia difficile e ciò a causa
dell’antagonismo fra le due confraternite. Tutto lo studio del parroco deve essere
quello di potere dominare l’ambiente, mettendosi al di fuori e anche al di sopra di ogni
bega di parte, con azioni imparziali, disinteressate. Se questa imparzialità può aversi
dal parroco in quanto tale, riesce molto difficile da parte dei rettori delle congreghe,
che hanno piuttosto interesse ad incrementare la propria chiesa, sia per spirito
sacerdotale non reciso da un più facile tornaconto finanziario, sia per un senso di
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riguardo alla propria confraternita. Questo movimento alquanto fazioso nuoce alla vita
della chiesa parrocchiale, almeno per quello che riguarda il lato finanziario, dato che
tutte le elemosine vengono assorbite dalle due Congreghe e poco o niente va a
beneficio della parrocchia, che vive proprio di sole elemosine (...). I congregati
guardano al cappellano come ad un loro dipendente perché da essi stipendiato. Non è
raro il caso in cui il fanatismo si traduce in azioni di simpatia e attaccamento verso il
proprio cappellano, il quale se non ha occhio e grazia di Dio a starne lontano, dovrà
segnare parecchie seccature. Il passato è d’insegnamento 68.
Si metteva ulteriormente in risalto come questo movimento fazioso nuocesse alla vita
della parrocchia in crisi dal punto di vita finanziario perché tutte le elemosine
venivano assorbite dalle due congregazioni. E le soluzioni? Innanzitutto non
consentire alle due chiese cui fanno riferimento tali sodalizi di svolgere funzioni
proprie della parrocchia. I congregati, nel momento in cui stipendiano il loro padre
spirituale, pretendono che egli sia alle loro dipendenze intromettendosi anche in
questioni di carattere squisitamente religioso. Pur se, come si vedrà in seguito, il
rapporto tra le tradizioni ed i riti della religiosità popolare di cui l’attività confraternale
era intrisa mai ebbero a distanziarsi dai canoni ufficiali della religione cattolica, una
diceria proveniente da appartenenti alle due associazioni in eterna disputa fece saltare i
nervi ad uno degli ultimi religiosi che abitarono il convento dei Frati Riformati di San
Francesco d’Assisi negli anni ’40. Padre Ubaldo Cretella, infatti, in preda alla più
furiosa indignazione, promosse un provvedimento inteso alla chiusura delle due chiese
Carmine e Rosario - ad ogni attività o manifestazione, perché la cecità e l’insensatezza
delle contrapposizioni provocarono nella fantasia popolare il blasfemo pensiero che,
addirittura tra le due Madonne ci fosse rivalità carnale 69. I seminaristi che dal 1895 in
poi tutti gli anni venivano a trascorrere i mesi estivi a Cerisano, restavano sbalorditi
nel momento in cui venivano a contatto con una realtà così pagana.
In questi ultimi decenni, anche se non si annoverano fatti eclatanti e spettacolari, o
caratterizzati da una certa gravità, non si può dire che sia cessato questo senso
d’appartenenza ad una delle due congregazioni - perché quella del SS. Sacramento è
scomparsa pochi anni dopo la sua nascita - né mancano le testimonianze di un
fanatismo religioso che di religioso non ha proprio niente. Domenico Bilotto, classe
1912, viene «allattato» da Carulina ù Mulinaru tenace e fervente rosariante e, sebbene
la famiglia del Bilotto sia carmelitana, anche se non delle più accese per essere a lungo
vissuta all’ombra della parrocchiale di San Lorenzo, egli viene, per così dire,
«acculturato» ed inserito nelle file del Rosario. Anche se passa l’intera giornata dalla
sua «mamma di latte» perché la mamma vera gli era morta ai tempi della «spagnola»
la sera rientra a casa ove, quando si parla di confraternite, si litiga regolarmente fino al
punto che, più di una volta, per sedare i litigi particolarmente violenti col fratello
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Ernesto devono intervenire dall’esterno. Come più volte accennato, non si pensi che
tali manifestazioni fossero appannaggio esclusivo di classi sociali subalterne o di gente
particolarmente invasata, anche alti prelati non nascondevano la loro appartenenza ad
un paese la cui storia è intimamente legata alla religiosità popolare e ai suoi risvolti
più peculiari. È eloquente un fatterello, ammirevole per la notevole dose di autoironia
che contiene, raccontatomi da Paolo Zupi, circa un incontro che doveva avvenire a
Roma tra mons. Saverio Zupi, vescovo nativo di Cerisano e più volte nunzio
apostolico, e padre Francesco Pellegrino, gesuita e annunciatore della radio vaticana,
entrambi appartenenti a famiglie rosarianti di Cerisano. L’incontro non poté avvenire
per fatti sopraggiunti e all’occasione successiva prima ancora di salutarsi, uno dei due
esclamò: «La Madonna del Rosario voleva farci incontrare ma la Madonna del
Carmine lo ha impedito».
Ancora oggi, gli elementi caratterizzanti la vita delle due confraternite, pur se
camuffati in immagini meno cruente del passato, mostrano sempre una accesa rivalità
che si concretizza nello svolgimento delle rispettive feste che, al di là del fatto
religioso, diventano vere e proprie competizioni, con manifestazioni esteriori che
hanno come motivazione fondamentale il mettere in evidenza i propri cavalli di
battaglia, i fuochi d’artificio più spettacolari, la banda musicale più accreditata, il
cantante di grido, il predicatore che ha una maggiore capacità di comunicazione con i
fedeli. Basta che in una occasione una delle confraternite includa tra proprie iniziative
un fatto sociale, o culturale, oppure folkloristico nuovo rispetto agli anni precedenti,
che dall’altra parte tali fatti siano considerati delle sfide alle quali, ovviamente, non si
può far finta di niente e che provocano una reazione. Alla insensata aggressione del
passato, si sostituisce la denigrazione della banda musicale che «stonava» oppure che
«non poteva neanche legare le scarpe» a quella della precedente festa, avversaria,
s’intende; e se una delle manifestazioni riesce ad attirare grande quantità di pubblico,
allora si dice che nel paese è giunta la gente peggiore della provincia dalla quale
bisogna stare alla larga perché: «non sai chi ci trovi dentro». Insomma, tali discorsi, in
determinati periodi dell’anno riescono a polarizzare finanche l’attenzione delle
combriccole di pensionati e di buontemponi che passano il tempo nei ritrovi pubblici,
oppure degli operai edili che vi trascorrono qualche ora di svago dopo una giornata di
lavoro. Passa il santo e passa la festa, e, almeno momentaneamente, si accantonano le
dispute religiose. Ci si dà tacitamente appuntamento ad un’altra occasione che,
davvero, non tarderà a presentarsi.
Oltre oceano
Se la problematica del doppio occupa gran parte dello studio antropologico della festa,
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
del dualismo confraternale, del carnevale ecc., costituisce un aspetto determinante
quando si volge lo sguardo verso le Americhe e vi si osservano, analizzano ed
evidenziano comportamenti e modi di vivere degli emigrati.
Evitando un seppur fugace accenno al vastissimo e poliedrico discorso
sull’emigrazione a ai molteplici «angoli di visuale» che le scienze umane consentono
di focalizzare, rinviando al «ripercorso» in maniera più ampia, dell’emigrazione «in
quanto distacco, uscita fuori dal sé, follia» che fa Vito Teti «anche attraverso il motivo
del doppio e il motivo dell’ombra» 70 si vuole, in questa sede, raccontare di come si
vive nel «paese due» la «disputa delle due Madonne».
Non risulta che i cerisanesi abbiano mai fondato altrettante confraternite religiose
negli Stati Uniti, o in Canada, o in Argentina, destinazioni dei più rilevanti flussi di
emigrazione di questo e dell’altro secolo, come è accaduto per altre comunità
calabresi. Ciò non significa però che siano state del tutto assenti le tradizioni e le
tensioni emotive che la pietà e la devozione mariana delle due confraternite
mostravano nel «natìo loco» né le forme della più deprecabile degenerazione alle quali
si assisteva durante le manifestazioni più importanti che venivano realizzate a
Cerisano.
La festa del Carmine, a New York, si celebra, ogni anno, il 16 luglio. Fino alla fine
degli anni ’50 - raccontava Santo Angotti, classe 1905 - aveva luogo a «basciu città»,
dalle parti del vecchio «Caffè Ferrari» vicino al quale v’era una chiesa del Carmine e
la banca De Luca, fondata e gestita da una famiglia di Cerisanesi, emigrati della prima
ora, e che costituiva un altro punto di riferimento per i compaesani. In seguito, venne
eretta una chiesa più grande, ma anche più distante dalla «vecchia» Manhattan, nella
116.ma strada (tra il Central Park e Harlem), nella quale si celebra una festa del
Carmine grandiosa (seconda solo a quella di San Gennaro). La festa del Rosario,
invece, è meno importante e poco seguita, si svolge anche nella parte vecchia, ma non
registra lo stesso successo. V’è però da mettere in evidenza che non sono solo i
cerisanesi ad organizzarle; costoro, anzi, vedendo che, in questi ultimi anni, l’aspetto
economico veniva gestito direttamente dalla malavita che impone soprattutto ai
negozianti della zona una sorta di contributo forzato, si sono progressivamente
allontanati e non fanno più parte dei comitati organizzatori. Ma le manifestazioni del
«paese uno» non si dimenticano, costituiscono la «festa del doppio» nella quale è la
propria ombra a muoversi. Da ogni parte d’oltre oceano arrivano le collette per
finanziare le due ricorrenze più importanti. La maggior parte di confratelli emigrati
pretende che le offerte in danaro (le pezze) siano appese al vestito o al quadro della
Madonna che viene portato in processione; è una sorta di materializzazione della
propria ombra che si immerge nella spazialità del paese, percorrendone le strade
ancora impresse nella memoria anche nei suoi dettagli e nei suoi odori. «Ci sono
momenti come questi - raccontava Luigi Chiappetta, mio nonno materno - momenti in
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
cui pensi a quando la Madonna esce dalla chiesa per essere portata in processione, agli
spari che s’intrecciano con le note della banda, e con i volantini lanciati dal campanile
della chiesa che scendono come una nuvola benefica che ti protegge e ti assicura,
momenti in cui chiudi gli occhi e percorri il paese assieme alla tua gente, ai tuoi cari.
Poi, li riapri e vedi le ciminiere delle fonderie di Moneessen (Pitzburg), qualche
accenno di commozione e la speranza di tornare presto».
Note
1 Per la storia di Cerisano vedi: L. BILOTTO, Cerisano, Castrolibero e Marano Principato dal
XV al XIX secolo, Santelli ed., Cosenza 1988.
Inoltre dello stesso autore: - Famiglie celebri del Regno di Napoli, I Sersale, duchi di Cerisano
e principi di Castelfranco e Marano, Fedra, Napoli 1989;
- Il paese, la gente, la festa, Cerisano fotogrammi del ’900, Santelli, Cosenza 1990;
- Chiesa e convento di San Domenico di Cerisano, Cerisano 1991.
2 G. VALENTE, La Calabria nella legislazione borbonica, Chiaravalle Centrale, Framsud,
1972.
A p. 692 trovasi il decreto di sanatoria sulla fondazione delle Congreghe del SS. Rosario e SS.
Nome di Gesù, e di S. Maria del Carmine nel comune di Cerisano nella Calabria Citeriore (n.
3988, 25 aprile 1857 ). All’indice è possibile reperire tutti gli assensi relativi alle donazioni ed
ai lasciti testamentari.
Lo statuto della Confraternita del SS. Rosario si trova: in ASN, Cappellano Maggiore, anno
1767, B. 98 - 5 (1185). Vedi anche: ASCS, Opere Pie, Statuti, SS. Rosario, Busta 2, F. 62.
Confraternita del Carmine: ASCS, Opere Pie, Busta 2, f 63.
3 Nuova Enciclopedia Garzanti, alla voce Rosario.
4 Nel secolo XII, i Carmelitani, grazie all’opera di San Bertoldo, si unirono e formarono
l’ordine degli Eremiti di Nostra Signora del Monte Carmelo, approvato da Onorio III nel 1226.
Costoro dopo il fallimento delle crociate, furono costretti a riparare in Europa e tennero nel
1245, a Aylesford, in Inghilterra, il loro primo capitolo nel corso del quale elessero, quale
padre generale, il beato Simone Stock. Costui si adoperò affinché i Carmelitani seguissero con
decisione la via tracciata dai frati mendicanti, senza disdegnare di occupare anche posti di
prestigio nei ministeri apostolici; tuttavia, ogni sforzo risultò vano perché essi rimasero
sostanzialmente contemplativi. Diffusero la devozione mariana specialmente per mezzo
dell’abitino del Carmelo. Poi aggiunsero un secondo ed un terzo ordine. La riforma delle
Carmelitane scalze ebbe inizio nella Spagna del secolo XVI e contò, successivamente, molti
proseliti in tutta Europa; notevoli, a tal proposito, furono i contributi portati da Santa Teresa di
Gesù e di San Giovanni della Croce.
Naturalmente è importante sottolineare l’opera svolta da Santa Teresa d’Avila.
«In Calabria - scrive Padre Russo - I carmelitani si affacciano piuttosto tardi. Il più antico
convento di cui si ha notizia, è quello di Reggio, fondato nel 1428». A Cosenza il convento dei
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
Carmelitani e la chiesa del Carmine (prima dedicata all’Annunciata) venne fondato nel 1567.
(P. F. RUSSO, Storia ..., Rinascita artistica Editrice, Napoli p. 159).
5 Grande Dizionario Enciclopedico UTET, alla voce Carmelo: «Carmelo, in ebraico Karmel=
giardino». È un monte celebre sin dall’antichità tanto da essere citato nella Bibbia dove
simboleggia, addirittura, la fertilità. Sulle sue pendici vi sorsero numerosi luoghi di culto prima
fenici, poi ebraici. Sul Monte Carmelo, secondo la tradizione leggendaria, sarebbe avvenuta la
«prova del sacrificio» tra il profeta Elia e i sacerdoti di Baal e di Astarte che vennero sconfitti e
massacrati dal popolo. A quanto ci viene tramandato dagli storici Giuseppe Flavio, Tacito e
Svetonio, nelle sue grotte dovettero ritirarsi in preghiera e meditazione eremiti di altre religioni.
Il cristianesimo e i movimenti monastici ad essi relativi, vi si svilupparono rapidamente con la
conseguente erezione di monasteri di notevole interesse tra i quali nacque e si diffuse la regola
dell’ordine carmelitano data a questi monaci, nel corso del secolo XII, dal Patriarca di
Gerusalemme.
6 È una chiesa edificata intorno all’anno 1.000 sul sostrato di una chiesa preesistente o di un
castello, fu continuamente tormentata dai vari terremoti che si sono abbattuti su queste terre; i
più tremendi, quello del 1638 e del 1854, vi causarono notevoli danni. Vi operava in maniera
molto episodica, la Confraternita del SS. Sacramento e, verso la metà del sec. XVIII, la
Confraternita della morte.
7 P. SPOSATO, Aspetti e figure della riforma Cattolico-tridentina in Calabria, Napoli 1964, p.
277.
8 L. BILOTTO, Chiesa e Convento di San Domenico di Cerisano, Cerisano 1990. P.
FRANCESCO RUSSO, Storia dell’Arcidiocesi di Cosenza, Napoli 1958, p. 107 e p. 157.
Vedi anche R. DIONESALVI, La Chiesa di San Domenico e l’Arciconfraternita del SS.
Rosario di Cosenza, Napoli, Settembre MCMXXII, La Nuovissima. Inoltre, G. ESPOSITO,
San Domenico di Cosenza (1447-1863. Vita civile e religiosa nel meridione. Pistoia 1957).
La chiesa di San Domenico, di Cerisano, inizialmente dedicata alla Madonna del Soccorso,
risulta essere costruita nel 1484 (Difesa per il Comune di Cerisano rappresentato da sindaco
signor Ferdinando Paura contro i signori Zupi da detto luogo dell’avv. E. Castiglion Morelli,
Tipografia Municipale, Cosenza, 1880, p. 28). Ufficialmente, i Padri Predicatori, vi fondarono
il loro convento l’11 aprile 1561 col consenso del cardinale Francesco Gonzaga, allora
arcivescovo di Cosenza (1562-1565), e con l’approvazione superiore di papa Pio IV dei Medici
(P. FRANCESCO RUSSO, Storia .., p. 157). La prima descrizione del complesso avviene nella
metà del seicento in occasione della riforma cosiddetta dei «conventini» (ARCHIVIO
SEGRETO VATICANO S. C. Stat. Regul. 25 Relationes, convento di Cerisano, nuova
numerazione, da f. n. 333 a f. n. 336).
Vedi anche L. G. ESPOSITO, Soppressione e consegna dei conventini domenicani in Calabria
(1652-1653), in «Rivista Storica calabrese», anno IV, n. 1 e 2.
S. L. FORTE, Le provincie domenicane in Italia nel 1650, in «Archivum Fratrum
Praedicatorum», volumen XXXIX, Roma, Istituto Storico Domenicano di S. Sabina, 1969,
pagine 539-540.
Il terremoto del 1783 che colpì prevalentemente la Calabria meridionale, provocò serie lesioni
alla chiesa e rese parzialmente inagibile il convento.
Una buona descrizione , relativamente all’anno 1714, ne viene data dal priore Reginaldo Gallo
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
(AGOP - ARCHIVIO GENERALE ORDINE DEI PREDICATORI, Roma, Basilica di Santa
Sabina, Liber K, da f. 576 a f. 583).
9 I Sersale, feudatari del paese, erano molto legati alla chiesa ed al convento e ancor oggi si
nota una traccia tangibile della loro devozione. Sebbene i duchi di Cerisano e principi di
Castelfranco avessero fatto erigere una loro chiesa nel 1609 sotto il titolo di Santa Maria degli
Angeli con annesso convento di frati Riformati di San Francesco d’Assisi, e nonostante
avessero anche la loro cappella di jus patronato dedicata a San Rocco nella parrocchiale,
mostrarono sempre un maggiore attaccamento alla chiesa che, in seguito, venne più
comunemente chiamata di San Domenico o del Rosario (Vedi L. BILOTTO, Cerisano ...)
Stesso autore, Famiglie celebri del Regno di Napoli, I Sersale, op.cit.
10 Cronaca de’ Minori Osservanti Riformati della Calabria Citeriore, compilata dal M.R.P.
Lettore benemerito Daniele di Fuscaldo religioso del medesimo ordine e provincia. Colla
giunta in fine di quattro capitoletti sù i novissimi. 1816, in Biblioteca della curia provinciale dei
Frati Minori di Catanzaro.
«Il nostro convento di Cerisano è titolato Santa Maria degli Angeli. Fu eretto nel 1609 e nel
mese di aprile del medesimo anno se n’ebbe da’ frati il possesso. Si avverte che dicendo noi il
possesso, s’intende uso, niente noi possedendo propriamente, ma tutto ci da in uso la chiesa
romana, a cui appartiene disporre de’ beni chiesastici. Per la fabbrica contribuì il principe
Sersale che n’è fondatore. È conventino ma è stato migliorato particolarmente nella chiesa a
gusto moderno. Il sito di esso è un quarto di miglio a dentro della Patria, e gode un’aria assai
piacevole, con ottime acque; è cinque miglia sopra Cosenza nel declive degli Appennini
occidentali, all’affacciata orientale. Vogliono alcuni, che questa patria si nominasse prima
Celosano, a ragione della bontà del sito».
11 L. BILOTTO, Cerisano ...
Vedi Anche: L. BILOTTO, Chiesa ..., «... Quest’ultimo aspetto era favorito anche dal continuo
alternarsi di giovani studiosi dell’ordine i quali si recavano nel convento di Cerisano nel
periodo estivo (dal 22 luglio al 13 ottobre). Gran parte di costoro provenivano dal convento di
Cosenza, ove, per l’eccessiva calura ed umidità rischiavano di ammalarsi di malaria. Tutto ciò
era favorito dal fatto che il convento si trovava nelle vicinanze della confluenza tra Crati e
Busento, in una zona dove le acque stagnavano e “ammorbavano l’aria”».
12 E. MISEFERI, Storia Sociale della Calabria, Jaka Book, Milano 1976, p. 230.
13 D. ARENA, Istoria delli disturbi e revolutioni accaduti nella città di Cosenza e provincia
nelli anni 1647 e 1648, Estratto dall’ASPN (ARCHIVIO STORICO DELLE PROVINCE
NAPOLETANE), Forni, Bologna s.d. pp.74-75.
14 L. BILOTTO, Cerisano..., p. 105.
15 ASCS, Notar Gaetano Infante, 18 marzo 1712, f. 274.
16 L. BILOTTO, Cerisano ..., p. 105.
17 ASCS, Notar Gaetano Infante, 18 marzo 1712, f. 274; L. BILOTTO, Cerisano ...., p. 105.
18 ASCS, Notar Gaetano Infante, anno 1712, f. 68 t.-69 t.
19 Platea dei Beni di Casa Sersale, cit.
20 ASN, Catasti Onciari, Cerisano, voll. 5730, 5731.
21 ASCS, Notaio Lorenzo Zupo, 27 luglio 1749, ff. 41-46.
22 ASCS, Notar Lorenzo Zupo, 3-6-1753, f. 61.
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
23 ASCS, Notar Lorenzo Zupo, 15-2-1751, f. 32.
24 ASCS, Notar Domenico De Luca, 10 marzo 1737, f. 17 e f. 20t .
25 ASCS, Notar Domenico De Luca, 4 maggio 1735, f. 21 t-22 tl. Il malto reverendo sig. D.
Domenico di Majo procuratore della Ven.le Arciconfraternita del SS. Sagramento della terra di
Cerisano riceve la donazione di una casa da Antonio Mazzuca.
26 Platea dei beni di casa Sersale, di proprietà del dott. Alfredo Serafini, procuratore della
repubblica di Cosenza.
27 ASCS, Not. Lorenzo Zupo, 22 dicembre 1756. ff. 141-145.
28 ASCS, Notar Lorenzo Zupo, 11-8-1759, f. 8 t.
29 ASCS, Notar Lorenzo Zupo, 25 agosto 1749, f. 57t-58t. Daniele Perri, procuratore della
Ven.le chiesa seu Congregazione di S. Maria del Carmine.
30 AGOP (ARCHIVIO GENERALE ORDINE DEI PREDICATORI), Roma Basilica di Santa
Sabina IV, 222, f. 232 r (Registro delle lettere del Maestro generale Antonin Bremond).
Segnalato da G. Esposito, Per la storia delle confraternite del Rosario in Calabria. Appunti e
note, in «Rivista Storica Calabrese», gennaio-giugno 1980, pp. 153-154.
31 L. BILOTTO, Cerisano ..., p. 185.
32. AGOP (ARCHIVIO GENERALE ORDINE DEI PREDICATORI), Roma Basilica di Santa
Sabina, XVI. Vedi G. ESPOSITO, Per la storia ..., p. 160: «Cerisano 9 giugno 1902. Rev.mo
Padre, qui in Cerisano, paese dell’archidiocesi di Cosenza esisteva ab immemorabili un
convento di domenicani; e dopo la soppressione di esso convento rimase aperta al culto la
rispettiva chiesa annessa, di cui io mi onoro d’essere il padre spirituale da 20 anni.
Ignoro perfettamente quali privilegi attualmente possa godere la detta Congrega del mio paese
e poiché è desiderio di tutti i membri della ven. Arciconfraternita di godere tutti i privilegi
dell’Ordine Domenicano, mi rivolgo a Lei per sapere quali siano, come pure la spesa
occorrente per potersi avere. Nel raccomandarLe la sollecitudine, Le bacio rispettosamente la
mano e ho l’onore di dirmi di Lei. Dev.mo servo, sac. Domenico Perri, padre spirituale
dell’Arciconfraternita di Maria SS. del Rosario». Le risposte furono date rispettivamente il 22
febbraio e il 12 giugno 1902.
33 ASCS, Affari ecclesiastici, Decime e Congrue, Cerisano n. 22.
34 Per la congregazione del Carmine, l’addetto alla crozza era Federico Greco (Miriminieddru)
il quale in uno stipo dietro l’altare maggiore teneva ben due teschi da adoperare al momento
opportuno. Per quella del Rosario, l’esperto e custode dei teschi era Pasquale «e Vaccaru».
35 ASD.CS, Congregazioni di Cerisano, Busta 2, Lettera del 9-2-1855.
36 ASCS, Opere Pie, Affari speciali, Busta 8, fasc. 234.
37 F. SCAGLIONE, Cenno storico-filosofico sul tremuoto del 1854, in: Atti della Società
Economica di Calabria Citeriore, anno 1854, p. 72.
38 ASCS, fascio Intendenza - Amministrazione: Vi è un fascicolo contenente la corrispondenza
tra gli amministratori comunali, l’intendenza, l’arcivescovo e i rappresentanti della
Confraternita.
Vedi inoltre: ASN, Ministero dell’Interno, III inv., f. 989, fascicolo 22. Contiene la lettera
dell’amministratore della Confraternita in cui, tra l’altro, si chiede la cessione della chiesa
conventuale domenicana, attigua alla Congrega, con l’obbligo di ripararla dai danni subiti dal
terremoto, datata 15 novembre 1856. Vedi inoltre, G. ESPOSITO, Per la storia ..., pp. 153 .
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
39 ASCS, Notar Domenico De Luca, 24 giugno 1746, ff. 17 t-19.
40 P. A. GERVASI, Un terribile iettatore di mia somma rovina, Tipografia de Il Giornale,
Cosenza 1911; segnalatomi da Giovanni Sole e riportato nella sua opera I Santi di
Bocchigliero.
41 L. BILOTTO, Cerisano ...., p. 182 e s.
42 V. GRECO, Lettera ad un Arcivescovo, Napoli 1860.
43 ASD. CS, Congrega di Maria SS. del Carmine di Cerisano.
44 ASD. CS, Congregazioni di Cerisano, B. 4, lettera del 20 gennaio 1879.
45 A favore della Venerabile Congregazione del Rosario di Cerisano, rappresentata dal suo
priore ed amministratore Luigi Santoro ricorrente, contro Gabriele Zupi fu Carlo. nella
eccellentissima corte di Cassazione sedente in Napoli, relatore l’onorevolissimo consigliere.
Stabilimento Tipografico, Napoli 1881, Cortile della Cassazione.
46 Presso la Corte d’appello delle Calabrie, nella causa col rito sommario, tra il signor Luigi
Santoro nella qualità di priore della Congrega del SS. Rosario contro il signor Antonio Zupi fu
Carlo da Cerisano.
47 ASD. CS, Congregazioni di Cerisano, Carmine, lettera del 2 maggio 1888.
48 ASD. CS, Congregazioni di Cerisano, lettera dell’11 maggio 1892.
49 ASD. CS, Congregazioni di Cerisano, B., lettera del’11 maggio 1892.
50 BBC, Giornali Calabri, Cronaca di Calabria 12 aprile 1895.
51 BBC, Giornali Calabri, Cronaca delle Calabrie 1899 - Festa religiosa - furto in chiesa.
Cerisano 23.
52 BBC, Giornali Calabri, Cronaca di Calabria, Cerisano, 2 agosto
53 L. BILOTTO, Itinerari Turistici, Le Serre Cosentine, in Guida WEKA, Milano 1991, p. 26.
54 ID., Chiesa e convento ...
55 BCCS, Giornali Calabri, Cronaca di Calabria, 15 ottobre 1895.
56 L. BILOTTO, Chiesa e convento ...
57 Ecco infatti che il secondo affresco della volta ritrae la Madonna che accoglie i confratelli
così meritevoli.
58 ASD. CS, Visite pastorali degli arcivescovi Narni Mancinelli e Pontillo, relativamente a
Cerisano; inoltre, Fondo Congregazioni, Cerisano, Congr. del SS. Rosario, contiene la
petizione dei confratelli per riavere la statua di San Domenico del 19 settembre 1874, e la copia
della deliberazione sottoscritta da 80 consociati, del 13 settembre 1874.
59 BCCS, Giornali Calabri, la Sinistra, 8 dicembre 1896.
60 ASD. CS, Busta 2, Parrocchia di Cerisano, lettera del 1 marzo 1927.
61 ASD. CS, Cerisano, Parrocchia di San Lorenzo, Busta 2 (provv.) Lettera del 13-3-1927 del
sac. Alfredo Vercillo.
62 ASD. CS, Su carta intestata: «Tommaso Trussoni, per divina misericordia arcivescovo di
Cosenza.
Poiché nella parrocchia di Cerisano sorsero delle questioni inerenti al diritto do portare
l’ombrello d’onore sopra il SS. Sacramento nelle processioni che si fanno nel martedì dopo la
Quinquagesima a chiusa delle SS. XL Ore e nella festa del Corpus Domini; Noi, dopo avere
assunte informazioni circa la consuetudine d’origine di essa,
Decretiamo
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TRA CARMELITANI E ROSARIANTI: ASPETTI DELLA VITA CONFRATERNALE A CERISANO
I.- Il diritto di portare l’ombrello d’onore sopra il SS. Sacramento nelle processioni
sopraindicate appartiene al capo del Comune, o, in sua mancanza, alla persona che viene dopo
di lui nell’autorità comunale.
II.- Non potendo, o non volendo prestarsi le due persone sopradette, succede loro di diritto il
priore della Confraternita del SS. Rosario, senza diritto di delegazione.
III.- Non potendo o non volendomi detto priore, gli succedono di diritto in ordine di dignità gli
ufficiali della Congrega del SS. Sacramento, istituita nella chiesa parrocchiale.
Cosenza 11 aprile 1927. Tommaso Trussoni».
63 Lettera del priore Francesco Ruffolo. Cerisano 20 aprile 1927.
64 ASD. CS, Cerisano, Parrocchia di San Lorenzo, B.2 Provv. lettera del parroco Agostino
Biasi del 17 giugno 1927.
65 ASD. CS, Fondo Confraternite, Cerisano, Congr. SS. Rosario. Forania del Carmine di
Cerisano 6 ottobre 1855.
66 ASD. CS, Fondo Congregazioni, Cerisano, Carmine, Lettera del 30 maggio 1933.
67 ASD. CS, Fondo Congregazione, Rosario, Cerisano 2 marzo 1936.
68 ASD. CS, Visita Vicariale, anno 1938, Cerisano, Parrocchia di San Lorenzo. Lettera del 30
maggio 1933.
69 Testimonianza resami da Coriolano Martirano, amico e frequentatore di Padre Ubaldo.
L’altro religioso ancora vivo nella memoria collettiva del paese era Padre Placido.
70 Cfr. V. TETI, Il paese e l’ombra, Edizioni Periferia, Cosenza 1989.
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LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
Marianna Cassetti
Lorenzo Giustiniani, trattando di Terranova da Sibari, allora soltanto Terranova, ma
colla specifica aggiunta «in provincia di Calabria Citra», scrive che vi erano 7
congregazioni laicali, specificandole nella loro invocazione 1.
È chiaro, quindi, che sul finire del XVIII secolo nella cittadina della Sibaritide, quanto
meno di nome soltanto avevano, o avevano avuto, esistenza più numerose congreghe
che avevano animato la vita religiosa della comunità, incrementando con le attività
spirituali una solidarietà umana che non andava mai disgiunta dalle prime, anzi di
quelle era positiva manifestazione.
Dobbiamo ritenere che Giustiniani scriveva su informazioni assunte circa l’attività
laicale nell’ambito della Chiesa, portando al presente consociazioni che al momento
non esplicavano attività alcuna.
Altrimenti non si spiegherebbe perché all’ordine sovrano di procedere ad una
regolamentazione e riconoscimento ufficiale, motivati dalla necessità di eliminare quei
cavilli che spesso erano argomento per contese di precedenza tra le varie confraternite
dello stesso luogo, soltanto una confraternita, quella della Vergine Immacolata e S.
Antonio di Padova, presentasse la prescritta copia degli Statuti.
Un legame interpretativo si potrebbe collegare col fatto che la confraternita dal titolo
binato aveva sede nel convento dei padri Minori Osservanti di Santa Maria delle
Grazie tuttora aperto, cioè sotto l’egida di un Ordine religioso la cui influenza nella
cittadina aveva rilievo marcato e continuità di esercizio.
Passerà un mezzo secolo pieno prima che altre due confraternite sorgano, o risorgano
in Terranova. Sono quelle intitolate alla Vergine Santissima del Carmine e del SS.
Rosario, entrambe con sede nella chiesa parrocchiale, matrice.
Gli Statuti relativi sono formulati secondo norme prescritte per i riconoscimenti reali.
E le copie esistenti nell’Archivio di Stato di Cosenza, fondo ecclesiastico, dal quale le
traggo, non recano sufficiente riferimento all’iter per l’approvazione sovrana.
Solo per quella del Rosario, nella Collezione delle Leggi del Regno, è riportato il
Decreto segnato col n. 4656, del 30 dicembre 1857, «portante il regio assenso sulla
fondazione e sulle regole della congrega del SS. Rosario nel Comune di Terranova
nella Calabria Citeriore».
Confraternita della Vergine Immacolata e S. Antonio di Padova
eretta nella chiesa dei Minori Osservanti sotto il titolo
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LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
di Santa Maria delle Grazie
Il 7 ottobre 1795, «Li Fratelli della Congregazione (...) anche a nome delle Sorelle
tutte della Congregazione » si rivolgevano al Sovrano, esponendo «come essendo stata
detta Congregazione eretta a tempo immemorabile, onde i supplicanti, e di loro
antecessori sono stati nella buona fede di esser stata eretta con real permesso, e per tale
l’hanno sempre tenuta, e si è stimato per aver ancora adempito a tutte le reali
imposizioni, ma come li Superiori non han ritrovato tra le scritture di detta
Congregazione le regole con detto Regio Beneplacito, e per maggiormente la loro
buona fede manifestarsi in cui han finora vissuto han formato le regole per lo retto
governo ed amministrazione di detta Congregazione. Quindi ricorrono al suo Real
Trono e vivamente la supplicano benignarsi concedere loro la grazia del suo reale
assenzo per lo desiderato effetto delle formate regole, come per l’erezione di detta
Congregazione» 2.
Al primo articolo dei «Capitoli e regole», stabilite le modalità per l’accettazione dei
fratelli, da avvenire dopo rigoroso esame della qualità morale del richiedente, è detto
che l’ascritto si deve sentir tenuto a «farsi la veste, ed il rocchetto di colore celeste
colla immagine di S. Antonio, uniforme agli altri fratelli di cui sarà vestito di
Congregazione nel giorno della sua ricezione, e dopo confessato, e comunicato, qual
sacco col rocchetto dovrà servirli per distintivo della sua Confraternita nelle funzioni,
esequie, e processioni di rito da farsi della medesima».
Per l’elezione degli Uffiziali, al capitolo 2 è detto: «Nel di’ dell’Immacolato
concepimento della Vergine di ciascun anno, si dovranno congregare tutt’i Fratelli
della nostra Congregazione, precedente il suono della campana dopo li secondi vesperi
per ordine del Priore, ove si canterà l’inno Veni creator spiritus e dal Padre Spirituale
l’orazione Deus qui corda fidelium acciò in tale elezione altro fine non vi sia, che il
servizio di Dio, ed il vantaggio delle anime. Quindi dal suddetto Priore che sarà per
terminare al suo ufizio, si nomineranno tre fratelli de’ più probi per sostenere la carica
di Priore, li quali bussolati con palle bianche, e nere, le bianche decideranno il si
inclusivo, e le nere il no esclusivo, e quel fratello bussolato, che avrà ottenuto il
maggiore voto inclusivo resterà eletto Priore (...) all’istessa maniera si procederà
all’elezione del primo, e secondo assistente, e Priore, sempre con maggioranza di voti
segreti (...) e volendo confermarsi la Banca, cioè il Priore, primo, e secondo assistente,
e Procuratore, trovandosi probi, e capaci possa farsi precedente bussola i voti segreti,
et nemine discrepante, quale conferma, potrà farsi per un altro anno solamente, e non
altro. Ciò fatto si canterà il Te Deum e si darà il possesso a nuovi ofiziali eletti». Pei
quali all’articolo 3 sono prescritti gli obblighi: «Il Priore dev’essere l’esempio della
Congregazione stante da lui qual Superiore dipende il buon governo, e regolamento,
per cui da’ fratelli tutti dovrà portarseli il dovuto rispetto. Il medesimo purché
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LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
legittimamente non fusse impedito dovrà portarsi sempre nelle giornate destinate di
congregazione per animare gli altri fratelli ad intervenirvi, e non mancare all’opera
pia. Stando impedito il Priore, il Primo Assistente farà le sue veci nelle Congregazioni,
e lo stesso farà il suo assistente in mancanza del Priore, e del Primo Assistente. Tutti i
Fratelli semprecché legittimamente non impediti dovranno portarsi ogni domenica di
ciascuna settimana, e precisamente in ogni seconda domenica di ciascun mese
dell’anno nella nostra Congregazione, in cui giusta il solito si esporrà la statua
dell’Immacolata Concezione, ed in recitare a Coronella di essa Immacolata colla
litania Tota Pulcra, e responsorio di S. Antonio colle rispettive orazioni coll’assistente
del Padre Spirituale confessarsi e comunicarsi nella Messa, che si celebrerà cantata;
qual Padre Spirituale debba esser eletto a piacere de’ Fratelli senza potersi però punto
inserire nella temporalità, ma solo in ciò che riguarda la nuda e semplice spiritualità
della Congregazione. Debbono inoltre i fratelli vestiti di sacco col distintivo, e bara
propria della Congregazione associare tutt’i Fratelli, e sorelle morte, così in Città che
in Campagna, e sopra le loro spalle portarla nella Chiesa della nostra Congregazione.
Devono le mesate de’ Fratelli, e Sorelle dal Fratello Procuratore eletto introitare, e
notarsi in un libro, e tutte le altre rendite della Congregazione, come anche dimostrare
tutti gli esiti, che dovrà fare, precedenti mandati sottoscritti dalla Banca, ed infine
dell’anno rendere conto della sua procura a due razionali eletti a norma del
Concordato, e de’ Reali ordini del 1781, e restando significato debitore, dovrà subito
ottenere la significatoria, che si darà fuori da’ razionali sudetti passare in mano del
nuovo Procuratore quella quantità delle quali resterà significato debitore, e finalmente
dovranno tutti i Fratelli, e Sorelle pagare ogni anno in potere del procuratore carlini
due li quali serviranno per lo mantenimento di detta nostra Congregazione per la
celebrazione delle Messe e per ogni altro che bisognerà alla medesima e per li suffragi
in tempo di morte di ciascun fratello».
Ma quali sono gli obblighi della confraternita?
Li descrive e specifica il Capitolo IV, che recita: «Sarà tenuta la nostra Congregazione
far celebrare ogni domenica di ciascuna settimana una Messa bassa, ed un’altra cantata
in ogni seconda domenica di ciascun mese dell’anno da un Sacerdote in suffragio
dell’anima de’ Fratelli, Sorelle, e benefattori defunti, la Messa bassa da pagarsi colla
solita elemosina, e la cantata carlini tre alla Sagrestia del Convento. Di più sarà
obbligato far celebrare altre due Messe cantate solenni, una nella Domenica infra
l’ottava del glorioso S. Antonio, e l’altra coll’esposizione del SS. Sagramento dentro
l’ottava della Congregazione de’ Morti coll’intero funerale, precedente però la dovuta
licenza per l’esposizione del SS. Sagramento, da pagare l’elemosina di amendue le
Messe, e funerali carlini dieci l’una alla Sagrestia, ed applicarsi anche in suffragio de’
nostri Fratelli defunti. Di più dopo la morte di ciascun fratello, o sorella dovrà far
celebrare una Messa cantata, e nove basse, purché il Fratello, o Sorella defunti abbia
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LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
puntualmente pagato gli annui carlini due, e non fosse contumace per due anni, nel
qual caso dovrà la nostra Congregazione fargli quelle funzioni comuni come gli altri
benefattori, senza il godimento della Messa da pagare del pari come sopra. Dovrà
inoltre la nostra Congregazione far celebrare la festa dell’Immacolata Concezione con
tutta la pompa dovuta in sì gran Mistero e che suo porta il comodo di essa
Congregazione».
Il 26 ottobre del 1795, facendo di diritto il preventivo parere del Regio Consigliere D.
Giuseppe Gargani Presidente della Regia Camera, il Magistrato preposto scriveva:
«Son di parere che possa V.M. degnarsi concedere, tanto sulle suddette regole quanto
sulla fondazione della suddetta Congregazione Reale Assenzo colla espressa clausola
insita per altro alla Sovranità usque ad regis beneplacitum confargli spedire privilegio
in forma regalis Cam. Sanctae Clarae colle seguenti condizioni:
1° Che la sudetta Congregazione non possa fare acquisti essendo compresa nella legge
di ammortizzazione, e che siccome l’esistenza giuridica di detta Congregazione
comincia dal di’ dell’impartizione del regio assenzo sulla fondazione, e nelle regole,
così restino illese le ragioni delle parti per gli acquisti fatti precedentemente dalla
medesima, come corpo illecito ed incapace, il tutto a tenore del Real Dispaccio de 29
luglio 1776. - 2°. Che in ogni esequie resti sempre salvo il dritto del parroco a tenore
degli Ordini reali. 3°. Che le processioni, ed esposizioni del Venerabile, debbono farsi
precedenti le debite licenze. - 4°. Che gli Ecclesiastici, li quali al presenti si trovano
ascritti in detta Congregazione, e quelli, che vi si ascriveranno in appresso, non
possono godere né della voce attiva, né della passiva, neque directe, neque indirecte
ingerirsi negli affari della medesima. - 5°. Che nella reddizione de’ conti di detta
Congregazione si abbia ad osservare il prescritto del Capo V, S I, et sequentibus del
Concordato. - 6° Che a tenore del Real Stabilimento fatto nel 1742, quei che devono
essere eletti per amministratori e razionali non siano debitori della medesima, e che
avendo altre volte amministrate le sue rendite, e bene abbino dopo il rendimento de
conti ottenuta la debita liberatoria, e che non siano consanguinei, né affini degli
amministratori precedenti sino al terzo grado inclusive de jure civile. E per ultimo, che
non si possa aggiuncare, o mancare cos’alcuna dalle preinserte regole, senza il
precedente real permesso. E questo per Napoli 18 ottobre 1795» 3.
Confraternita della Vergine Santissima del Carmine
eretta nella chiesa matrice
Di questa confraternita esiste, in bello esemplare, copia delle Regole, stese in
«Terranova li 13 marzo 1852» firmata dai «Fratelli Aspiranti alla Congregazione» 4.
Le «Regole» sono contenute in 50 articoli, con un duplicato aggiunto per gli articoli 3file:///C|/Documenti/CONFRATERNITE/Vol_2/Testi_2/C7_cassetti.htm (4 of 10) [25/11/02 9.40.45]
LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
4-11-14-18-36-37-38-39-41-42-43, in piccola parte difformi da quelli esposti
nell’esemplare intero, ma soltanto per la stesura, essendo il contenuto lo stesso.
Gli scopi ed i fini della confraternita sono esplicitamente chiariti nell’articolo I, che
recita: «La Confraternita Laicale del Carmine di Terranova sotto il titolo della Vergine
SS. del Carmine ha per suo scopo esercitarsi sull’esempio vicendevole negli atti di
Religione, ed esercizi di pietà per meglio adempire à doveri di Cristiano.
Che perciò i Fratelli s’impegneranno a fornirsi del Santo timor di Dio, ad amarlo di
tutto cuore sopra qualunque altro oggetto creato, adempire esattamente ai suoi
comandamenti divini, ed ai precetti della Santa Chiesa Cattolica Romana, e fare
acquisto della vera, e pura carità verso del prossimo, e specialmente verso degli
aggregati, che debbono considerare come veri fratelli.
Debbono avere tutta la premura di non mai offendersi tra loro, anzi soffrire con
amorevolezza le imperfezioni altrui, non dare mai occasione di discordia, rissa o
inimicizia; perdonare anzi di tutto cuore qualunque ingiuria ricevuta e fomentare per
quanto a ciascuno appartiene, la carità Cristiana tanto inculcataci dal S. Vangelo».
In articoli successivi, nei quali sono chiariti i doveri di confrate che ciascuno deve
rigorosamente osservare, è specificato che i confrati devono intervenire nelle
processioni «vestiti del proprio sacco, dando sempre la precedenza al Clero Regolare,
e Secolare. Qualora in tali processioni v’interverrano due, o più confraternite, la
precedenza si darà a quella che avrà anteriormente ottenuto il Regio Assenzo, escluso
qualunque altro uso, o privilegio».
E viene di seguito precisato che il sacco ossia veste della confraternita sia «modellata
sulla massima semplicità. La medesima sarà un camice di tela bianca col cappuccio
consimile, ove se ne vorrà far uso una mozzetta di color analogo al titolo della
confraternita, e cappello bianco con laccio del colore della mazzetta senz’altro
ornamento di qualunque natura sia. Alla sinistra della mozzetta, e dove non se ne
faccia uso alla sinistra del cappuccio vi sarà affibiata una figura; che esprime il Santo
tutelare della Confraternita; o il suo emblema. Il Superiore, gli Assistenti, e gli
Uffiziali porteranno sulla mozzetta, o veste pendente dal collo un nastro di color
bianco, una medaglia colla medesima effigie, che esprime la figura. Il solo Superiore
nelle pubbliche funzioni farà uso di un bastone nero».
L’articolo 5 precisa le norme per lo svolgimento delle funzioni alle quali la
confraternita deve dare esecuzione, minutamente dettagliate. Mentre l’articolo
seguente, il 6°, stabilisce che «le donne, ancorché ascritte per sorelle non avranno
adito nell’Oratorio nell’atto che i Fratelli funzioneranno e tratteranno degli affari».
Stabilito, con altro articolo, come dev’essere organizzato il governo, di seguito si
stabiliscono le norme per la ricezione dei fedeli; norme più, o meno comuni a tutte le
congreghe per dare assicurazione massima del rigore per l’ammissione dei richiedenti,
per i quali, una volta accettati, vien detto a quali obblighi il nuovo confrate è soggetto
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LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
per cominciare attiva la sua partecipazione alla vita spirituale ed associativa della
congrega.
Per i benefici dei quali i confrati sono ammessi a godere, si stendono cinque articoli,
dal 14 al 18, mentre per l’elezione del governo si impegnano gli articoli dal 19 al 27,
ed i «Doveri degli Ufficiali» vengono stabiliti e dettagliati in otto articoli, fino al 35°.
Le «Opere della Confraternita» - definizione essenziale per stabilire la natura ed i fini
della confraternita stessa - sono indicate già nella premessa dell’articolo 36, quando è
detto che «Ciascun Cristiano è tenuto ad amare Dio di tutto cuore e prestargli quella
adorazione che merita, ed amare il suo prossimo come se medesimo, e prestargli quei
soccorsi che ciascun può nel suo stato e che vorrebbe esser fatto a lui stesso cogli
esercizii di religione si adempia al primo dovere. Per adempire al secondo che non va
disgiunto dal primo, conviene che ciascuna Confraternita si addica ad un’opera di
beneficenza cristiana verso del prossimo, onde distinguersi i Fratelli nel grande
esercizio della carità cristiana tanto inculcataci dall’Evangelo, e senza di cui non si
potrà essere mai buono cristiano. Ciò avverrebbe qualora i Fratelli s’impegnassero in
certi giorni ed ore stabilite ad assistere nei pubblici Ospedali per sollevare, servire ed
istruire gl’infermi, che rappresentano la persona di Gesù Cristo nostro Redentore.
Sovvenire ove non sonovi Ospedali, gl’infermi poveri della Comune, e badare ancora
che sieno confortati dai mezzi, che la Religione somministra in quelle dure
circostanze.
Visitare le carceri, ove sono, e procurare un ristori ai detenuti trattandoli con somma
carità ed istruirli nei doveri cristiani senza omettere di soccorrerli nella loro disgrazia,
ove siano abbandonati da quei mezzi che la legge riconosce.
Prendersi cura dei ragazzi poveri della Comune divenuti orfani, perché imparino un
mestiere, un’arte onde poter vivere onestamente, e non darsi, fatti adulti, alle
ribalderie.
Radunarsi nei giorni di Congregazione, o dei Fratelli, o altronte delle picciole
sovvenzioni volontarie, che fatti poi in massa si possa da esse in alcuni giorni solenni
vestire un nudo, o provvedere un miserabile pagliericcio.
Allontanare i giorni festivi i giovinetti dalle bettole, dai giochi o altri luoghi di
scandalo, condurli nella Chiesa Parrocchiale, o nella vicina campagna per diporto, ed
istruirli con buoni, e piacevoli modi nei doveri Cristiani, e così d’altri simili atti di
cristiana beneficenza».
Con altri due articoli vengono stabilite le modalità per dare esecuzione ai principi e
computi enunciati.
Le Regole riferentesi ai confrati, ripetono le norme generali per ottenere il legittimo
riconoscimento mediante Regio Assenso, e l’obbligo per ciascuna confraternita del
rispetto dell’autorità civile, e l’obbedienza all’invigilatore di tutte le confraternite della
Diocesi, e la sottoposizione alla vigilanza del parroco competente.
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Poiché la confraternita prevedeva l’aggregazione di sorelle, per la loro accoglienza,
nell’articolo 48 recitava: «Le figlie e mogli dei Fratelli che domandano di essere
aggregati per Sorelle, non godranno del beneficio di pagere la metà dell’entratura,
come si è disposto pei figli dei Fratelli».
L’articolo pre-conclusivo delle Regole condensa il servizio e l’obbligo ai quali le
sorelle devono obbligarsi ed esercitare: «Potranno essere impiegate negli esercizi di
Beneficenza Cristiana, nel solo caso di doversi soccorrere, o servir donne, ma senza
l’intervento de’ Fratelli».
Confraternita del SS. Rosario
eretta nella Chiesa matrice
Il 24 gennaio 1855, Pasquale Mele, economo curato della chiesa arcipretale,
s’indirizzava all’Intendente di Calabria Citra perché «si benigni spingere queste
Regole della V.SS. del Rosario, onde si ottenghi l’approvazione del Nostro Sovrano
Ferdinando II, D.G., essendo questo un mezzo per più infervorare i fedeli al culto della
Nostra Sacrosanta Religione».
La richiesta passava al Sottintendente perché esprimesse il suo parere, necessario per
l’ottenimento dell’approvazione sovrana 5.
Le Regole erano state dettate il 10 giugno 1854 e sottoscritte da tutti i confratelli 6.
L’approvazione veniva data il 30 dicembre 1857, col visto dell’arcivescovo di
Rossano Pietro Cilento, che rimetteva la copia, annotando un’aggiunta, così stesa: «I
Fratelli pagheranno in ogni mese la Contribuzione di grana due per potersi, con questa,
adempire dalla Congregazione i pesi, di cui è gravata, e questa in mano del Cassiere
come è detto nell’articolo 11.
In ciascuna delle sette festività di Maria SS. si farà tra i Fratelli una colletta volontaria
a favore dei carcerati del Circondario; e colla guida del Padre Spirituale e di due, o
quattro Fratelli anziani sarà a questi personalmente distribuita nello stesso giorno in
contanti, o in generi, sia in commestibili, sia in pannamenti, secondo che meglio
aggradirà alla Banca».
Ma, prima che avessero firmato, i confrati fondatori avevano fatto seguire alla stesura
delle Regole il testo di una preghiera da recitarsi a conclusione della congregazione
tenuta in di’ festivo: «Signore, da Voi viene ogni potere sulla terra; l’avete detto Voi
stesso per me regnano i Re, e chi loro resiste a Dio resiste, nella Vostra Misericordia ci
donaste un Re, santificatelo, proteggetelo, la cattolica fede fiorisca, e l’abbondanza, e
la pace regnino nei suoi giorni. Signore, vi preghiamo, salvate il Re, che è vostra
immagine, e salvate noi suoi sudditi».
Le Regole erano state espresse in 39 articoli, col primo affermante che la confraternita
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«ha per suo scopo esercitarsi sull’esempio vicendevole negli Atti di Religione ed
esercizi di pietà per meglio adempire ai doveri di cristiano». Detto che devono in tutto
osservare i precetti della Santa Chiesa Cattolica, e considerare ogni aggregato come
vero fratello, si impone, perciò ad ognuno di non offendersi tra di loro, «anzi soffrire
con amorevolezza le imperfezioni altrui, non dare occasione di discordia, rissa, o
inimicizia, perdonare anzi di tutto cuore qualunque ingiuria ricevuta, e fomentare per
quanto a ciascuno appartiene la Carità Cristiana tanta inculcataci da S. Vangelo».
Ciò stabilito, nell’articolo 4 vien precisato che «Ciascun Fratello fra lo spazio di due
mesi, dal giorno della sua ricezione, si provvederà del sacco, ossia veste della
Confraternita, modellata sulla massima semplicità: La medesima sarà un camice di tela
bianca col cappuccio consimile, colla mozzetta di color nero, e cappello bianco, con
laccio del colore della mozzetta senz’altro ornamento di qualunque natura sia.
Alla sinistra della mozzetta vi sarà affidata una figura, ch’esprime la Madonna del
Rosario. Il Superiore, gli Assistenti e gli Uffiziali porteranno sulla mozzetta, o veste,
pendente dal collo con un nastro di color bianco, una medaglia colla medesima effigie
ch’esprime la figura. Il suo Superiore nelle pubbliche funzioni farà uso di un bastone
nero».
In due articoli, il 5 ed il 6, vengono fissati i termini per la tenuta della congregazione,
mentre il 7° ne stabilisce le modalità, precisando le funzioni gerarchiche degli ufficiali.
Le norme per la ricezione dei fratelli, improntate come le consimili delle altre
congreghe ad una stessa modalità ed alla richiesta delle stesse qualità morali dei
richiedenti, sono contenute nell’articolo 8, che si completa col 9 che prescrive: «Ogni
nuovo fratello sarà soggetto al Noviziato di sei mesi, occupando l’ultimo luogo in
Congregazione, e sotto la guida de’ Maestri dei Novizi. In questo spazio di sei mesi il
Novizio non godrà voce attiva o passiva, ma ha dritto a tutt’i benefizi spirituali e
temporali di cui godono i fratelli»
Significativo l’articolo 11 che precisa: «Nel giorno della vestizione offriranno [i
Fratelli] a benefizio della Sagrestia una candela di cera lavorata a proprio arbitrio sul
peso di essa».
Il 12 e il 13 regolano i pagamenti e la posizione degli eventuali morosi, e le facoltà ed
i modi di godere dell’associazione dei Sacerdoti che ne facciano richiesta.
La parte essenziale, segnata sotto il Capoverso «Benefici de’ quali godono i Fratelli»,
è spiegata in 4 articoli, dal 14 al 17, che chiariscono: «Ogni fratello in caso di morte
godrà dell’associazione, e luogo di sepoltura nella Congregazione, e lugubre apparato
secondo l’uso del paese. La Congregazione pagherà i diritti al Parroco, come ancora il
Clero nell’associazione sarà dalla medesima compensato. Sarà tenuta a fargli celebrare
nel primo giorno che si può un funerale colla recita dell’intiero Uffizio dei Morti, e
Messa cantata. Farà benanco in di lui suffragio celebrare Messe piane numero cinque
(...). La Messa che si dirà nei giorni di Congregazione sarà applicata pei Fratelli vivi, e
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defunti, e l’elemosina sarà erogata dalla Congregazione». L’ultimo articolo, il 17,
stabilisce che «Nell’ottavario dei Morti nella giornata destinata dai Superiori sarà
solennizzato un funerale coll’Uffizio e Messa solenne in suffragio di tutt’i Fratelli
defunti».
L’elezione del governo, stabilita in minuziosi dettagli che formano le regole rigorose
dei procedimenti, che ben denunziano lo spirito ansioso di avere alla guida persone di
alta rettitudine, occupano gli articoli dal 18 al 25. Mentre i Doveri degli Ufficiali eletti,
sono dettagliatamente prescritti lungo ben 8 articoli; l’osservanza dei quali non lascia
adito ad inadempienza alcuna.
Prevedendo l’associazione di «Sorelle», per l’accettazione ed il comportamento ed i
doveri di ciascuna sono stesi 6 articoli, il quarto dei quali precisa: «Le sorelle non
avranno giammai luogo distinto nelle pubbliche processioni, ne’ avranno ingerenza
Note
1 L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Napoli 1797-1804,
vol. X (alla voce).
2 Firmano: Domenico di Noce - D.r Vincenzo de Angelis - Antonio de Angelis - Giuseppe
Pontieri - Carlo Pontieri - Scipione de Angelis - Andrea de Angelis - D.r fisico Gennaro
Pignataro - Domenico Legato - Nicola Bianchimani - Gaetano Carelli - Nicola Carelli Francesco Antonio Zito - Teseo Zito - D.r fisico Giuseppe Truppelli - D.r Gregorio
Bianchimani - Gennaro de Angelis - Gennaro Diodati - D.r Nicola Zito - Lorenzo Mazzei Antonio Saverio Sisca - Scipione Oliva. Autentica il Not. Giuseppe Pontiero.
3 Firmano: il Capitano Fra’ Alberto di Colassi. Giuseppe Pergani. Giovan Batt. Ordone. Con la
data del 26 ottobre il Re concede l’assenso.
La copia conservata in ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA, è quella conforme presentata al
Comune di Terranova dal «Fratello Segretario Domenico Gruerio» col ... del Sindaco
Francesco Rende.
4 Sono, nello stesso ordine dell’apposizione delle firme: «D. Nicola Maria de Angelis - D.
Michele Gruerio - D. Giovanni de Angelis - D. Ferdinando Mele - D. Luigi Mele - D. Giuseppe
Eugenio Mele - D. Francesco Mele - D. Leonardo Truppelli - Pietro Romano - Vincenzo Greco
- Francesco Greco - D. Antonio Pignataro - Vincenzo Russo d’Antonio - Gennaro Mensano Vincenzo Berlingieri - Filippo li Cropani - Raffaele Ferraro - Francesco La Fontana Francesco Antonio Occhiuzzo - Francesco Santopaolo - Giuseppe Solimena».
5 Nella bozza allegata è detto: «L’Economo Curato dell’Arcipretale Chiesa del Comune di
Terranova nel rimettere in tripla spedizione un progetto di Regole per l’istituzione della
Congrega del SS. Rosario domanda implorarsi il Sovrano beneplacito. Pria di emettersi alcuna
disposizione in riguardo, rimetto a Lei un esemplare di siffatte Regole con la preghiera di
manifestare quanto le può occorrere; e nel caso Ella sarà di favorevole avviso disponga che le
suddette regole siano ricopiate sopra carta molto migliore, essendo queste le disposizioni del
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LE TRE CONFRATERNITE DI TERRANOVA DA SIBARI
predetto Real Ministero dell’Interno».
La lettera reca la data da Cosenza 29 del 1855.
6 Nell’ordine, firmano: D. Pasquale Mele, Sacerdote - D. Vincenzo, D. Lorenzo Mazzei - D.
Francesco, D. Peppino, D. Ferdinando, D. Luigino Mele - D. Nicola Maria, D. Giovanni de
Angelis - D. Michele Gruerio - D. Leonardo Truppelli - D. Gaetano, D. Luigi, D. Pasquale, D.
Alessandro, D. Raffaello Zito - D. Domenico Greco - D. Giuseppe, D. Luigi, D. Francesco, D.
Antonio, D. Raffaello Pignataro - D. Andrea La Vergata - D. Raffaello de Rosis - D. Pier Paolo
Mazzei - D. Domenico, D. Pier Paolo de Rosis - D. Domenico Rende - D. Francesco, D.
Carmelo de Angelis - D. Antonio de Rosis - D. Gennaro Gruerio - D. Carlo, D. Antonio Rende D. Raffaello, D. Francesco Cassetti - D. Domenico Bianchemani - D. Francesco, D. Raffaello
Rende - Francesco Durante - Alessandro Tarsia - Michele Fortunato - Domenico Capalbo Raffaello Piraino - Nicola, Francesco di Pace - Vincenzo Caracciolo - Gennaro Piraino Tommaso Stabile - Domenico Piraino - Luigi Occhiuzzi - Raffaello di Santo - Pasquale Milone
- Domenico Salerno - Michele Milone - Raffaello Curto - Vincenzo Rago - Vincenzo, Carlo
Oliva - Domenico Diodati - Vincenzo, Francesco Greco - Vincenzo Russo d’Antonio Raffaello Ferraro - Francesco Santopaolo - Francesco Antonio Occhiuzzi - Vincenzo, Gennaro
Berlingieri - Giuseppe Curto - Biaggio La Regina - Gaetano Varcasia - Francesco Capalbo Nicola Carelli - Gio. Batt. Oliva - Gennaro Carelli - Francesco Lombardi - Peppino Oliva Filippo Russo - Antonio Parrotta - Pietro Romano - Pasquale Lombardi - Michel Angelo
Pellegrino - Francesco Caracciolo - Angelo Venezia - Vincenzo Sgrignieri - Nicola Fusaro.
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LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAG...LCUNE CONFRATERNITE DELLA CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAGGIO
POLITICO E «REGOLATA DEVOZIONE» NEGLI STATUTI
TARDOSETTECENTESCHI DI ALCUNE CONFRATERNITE DELLA
CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
Saverio Napolitano
1. Le confraternite come strutture di comunità
È consistente in questi anni l’attenzione verso le confraternite come manifestazioni di
associazionismo e devozionismo collettivo con particolare riferimento all’Europa posttridentina, allorché il fenomeno assunse connotazioni di massa 1. Tale interesse si
riscontra anche nella storiografia meridionale, che di questi sodalizi sta sondando
l’aspetto della sociabilità religiosa e di cui un seminario del 1987 2 ha fatto il punto
sullo stato delle ricerche. Non mancano studi sull’orizzonte tanatologico 3, in
considerazione del fatto che generalmente le confraternite avevano come scopo
precipuo la cura del servizio funebre per gli associati, per i quali, anzi, l’adesione al
sodalizio costituiva un’indispensabile «assicurazione sull’aldilà» 4. Né è stata esclusa
una lettura di questi gruppi con riferimento alla dimensione aggregativa collegata alla
dinamica degli assetti sociali di riferimento 5.
In Calabria ci si sta orientando attualmente verso un ampio lavoro di inventariazione 6,
su cui ha tracciato un dettagliato riepilogo Maria Mariotti 7 nel seminario appena
citato. In questo panorama, sostanzialmente socio-religioso, non manca qualche studio
attento ai risvolti economico-sociali delle congreghe 8.
Questo saggio non analizza le confraternite come strumenti di rafforzamento della
fede 9, né come organismi di sociabilità religiosa o mutualistici anticipatori di
solidarismo di classe, né si sofferma sulla loro dimensione antropologica: tali profili vi
troveranno qualche eco, ma sono volutamente esclusi, pur nella consapevolezza della
loro rilevanza.
Qui si vuole, partendo da una considerazione di Gabriel Le Bras 10, secondo cui le
confraternite, soprattutto nei centri minori, si connotavano come «piccole repubbliche
cristiane di cui la chiesa era nel villaggio il palazzo comunale», mettere in luce,
attraverso gli statuti tardosettecenteschi di alcuni sodalizi di Mormanno, Papasidero,
Santa Domenica Talao e Scalea (ex-diocesi di Cassano allo Jonio), gli elementi di
diritto pubblico e il linguaggio politico che ne contrassegnano l’impianto
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LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAG...LCUNE CONFRATERNITE DELLA CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
organizzativo e la prassi di funzionamento 11.
In questa prospettiva, le confraternite vengono assunte come strutture di comunità
esprimenti dinamiche interne ai ceti e ai contesti storico-sociali nei quali essi e tali
esperienze collettive vengono maturando. L’impianto normativo-procedurale degli
statuti, a cui si indirizza l’attenzione di questo saggio, nel regolare le conflittualità tra
ceti, esplicita nello stesso tempo anche il dinamismo interno agli assetti sociali di
riferimento. Tale dinamismo denota una spiccata tendenza all’uguaglianza delle
opportunità, confermata dalle prassi statutarie protodemocratiche e dall’uniformità dei
modelli organizzativi che, nel profilare una democrazia linguistica 12, esplicitano un
sostanziale consenso circa aspettative ed aspirazioni dei contesti sociali di riferimento.
Richiamandoci ancora una volta a Le Bras, egli ci ricorda, infatti, che tali «famiglie
artificiali, i cui membri sono uniti da una fraternità volontaria» 13, oltre a soddisfare
bisogni dell’anima, risolvono anche altri problemi che assillano la comunità civile
nella quale vengono in essere e sui quali gli storici locali non si soffermano. Le Bras
pensa evidentemente che le congreghe vadano aldilà del fatto religioso e devozionale,
che pure è fondamentale, esprimendo una serie di esigenze che toccano altri aspetti
della sfera comunitaria da cui esse sono influenzate e su cui nel contempo incidono.
Tanto più che, come lo stesso Le Bras avverte, uno statuto confraternale «stabilizza
provvisoriamente un’esperienza locale e mette a frutto le esperienze vicine. La prima
redazione viene fatta talora dopo parecchie decadi e viene sottoposta a revisione; i
redattori successivi si guardano dal trascurare gli esempi offerti da raggruppamenti
analoghi. Si costituiscono degli schemi tipici e, come per gli statuti comunali, si pone
un problema genealogico» 14.
Queste considerazioni ci sembrano particolarmente interessanti proprio laddove
riconoscono la capacità ricettiva delle costituzioni confraternali di esperienze e
problematiche socio-culturali locali e sovralocali, rivelandosi specchio di fenomeni più
complessi e profondi (non solo religiosi), di cui la tipicità dello schema adottato è la
conferma. Sicché, se da un lato è opportuno ricostruire, ove possibile, la genealogia di
uno statuto confraternale per verificare quanto vi permane delle eventuali edizioni
precedenti, è altrettanto certo che così come esso si configura in una determinata
congiuntura storica non può non esprimere, comunque, esigenze presenti e sentite in
quella congiuntura da una determinata collettività.
Ciò posto, non è accettabile la posizione di chi 15 semplifica la questione delle
costituzioni confraternali meridionali del XVIII secolo sostenendo parimenti che esse
«non introducono particolari innovazioni e disposizioni», che «si rifanno o ripristinano
regole e costituzioni precedenti, andate in disuso e perdutesi col passare del tempo»,
ma pure che tali regole vengono adattate «più o meno alle nuove circostanze ed
esigenze». Tale posizione tende a ridurre la portata delle implicazioni statutarie,
mentre allo storico spetta appurare ciò che è andato in disuso e si è perduto in tempi
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LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAG...LCUNE CONFRATERNITE DELLA CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
passati e che viene ripristinato e adattato nel presente, nonché quelle circostanze ed
esigenze nuove che hanno sollecitato ripristini e adattamenti.
Sulla base di queste considerazioni, pertanto, a noi pare che l’impianto organizzativo e
la normativa procedurale degli statuti presi in esame e sui quali si sofferma questo
saggio, rispondano in modo congruo (e la ripetitività dello schema ne costituisce la
riprova) all’affermarsi di una società per «stati», dei principi di diritto pubblico 16 e
della burocratizzazione e alfabetizzazione, che sono cifre comuni, sia pure entro limiti
differenziati e con incidenze diverse, all’Europa occidentale moderna 17. Nel contesto
meridionale, poi, tale impostazione statutaria non può certo essere disgiunta
dall’esperienza riformatrice e giurisdizionalistica vissuta dal Regno nel corso del
Settecento e che diffuse le spinte laiche in seno alla società, dando, inoltre, allo stato
napoletano, col Concordato del 1741, più ampio spazio di intervento anche in quelle
attività caritativo-assistenziali da sempre settori egemonizzati dalla Chiesa 18.
Gli atti costitutivi delle confraternite ne definiscono il linguaggio politico, che
determina, attraverso la normativa procedurale, una catena di azioni, scaturigini di
connessioni dinamiche e concetti relazionali e processuali riguardanti tanto gli
associati che i non associati 19.
Schematizzando, può dirsi che una struttura di comunità, quale una confraternita,
presuppone ed implica una serie di fatti:
a) che in un determinato contesto storico quell’organismo risponde ad esigenze
specifiche di quella congiuntura;
b) che i sodali si dotano di un codice scritto;
c) che essi, in quanto gruppo organizzato, non possono prescindere da una
suddivisione dei ruoli e delle funzioni, favoriti dallo stesso codice scritto 20, con
conseguente burocratizzazione dell’organismo;
d) che tale suddivisione comporta il riconoscimento di competenze, che pongono i
rispettivi detentori di uffici in un contesto gerarchizzato attributivo di sfere di potere
ed autorità;
e) che questo potere frazionato e diffuso non determina subordinati e capi in termini
assoluti;
f) che tutta la regolamentazione procedurale recepisce una diversificazione socioculturale di fatto presente (in termini e con modalità più o meno spiccati) nella realtà
sociale di riferimento.
Alla luce di questi assunti, le confraternite pongono una serie di interrogativi, a cui
potrebbero dare risposta solo i verbali delle assemblee (sconosciuti, purtroppo, per i
sodalizi in questione): chi detiene il potere, come si distribuisce e come viene
esercitato; quali rapporti intercorrono tra potere e possesso di certe caratteristiche
socio-economiche dei detentori; come si svolge la dialettica tra gruppo dirigente e
affiliati. Insomma, articolazione, gerarchia, ruoli e subalternità inerenti a un sistema di
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LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAG...LCUNE CONFRATERNITE DELLA CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
dialettica sociale e ai rapporti di questo con i contesti più generali ed esterni 21.
Malgrado tutto, anche potendoci basare sui soli atti costitutivi, c’è in essi materia
sufficiente a cogliere, sia pure in via teorica, i meccanismi di funzionamento delle
congreghe e determinati elementi connessi alla dinamica sociale dei soggetti aderenti,
che sembrano smentire l’idea delle confraternite come strutture statiche e sclerotiche,
preoccupate esclusivamente di esercitare uno stretto e soffocante controllo (sociale,
culturale, religioso) sui sodali.
L’attenzione agli aspetti giuridico-formali permette una visione non anchilosante delle
strutture di comunità come le congreghe ed offre, inoltre, l’opportunità di non
rimanere invischiati in una storia delle persistenze. Una storia come studio degli assetti
sociali e delle norme che li regolamentano consente di guardare anche ai mutamenti e
al loro intreccio con le persistenze: una storia di eventi e di strutture, di dimensione
sociologica e politica 22, da integrare e non sottrarre alla dimensione antropologica.
Assumendo le confraternite come strutture di comunità, si è voluto evidenziare non
tanto come la Chiesa agiva sulla società, quanto come Chiesa e società interagissero,
tenendo presente criticamente un’altra affermazione di Le Bras, secondo cui gli
ordinamenti democratici delle confraternite sarebbero stati suggeriti da ordinamenti
comunali e ordini religiosi 23.
In questo lavoro si vuol vedere come «chiesa e villaggio hanno ciascuno assolto o
perfezionato le proprie funzioni» 24, sicché ci si è rivolti ai comportamenti comunitari
di queste «famiglie allargate» 25, alle forme di governo collegiale, ai meccanismi
politici, non tralasciando il parallelismo tra normatività giuridico-politica e normatività
etico-religiosa («regolata devozione»), che evidenzia una consonanza di vedute tra
società e Chiesa settecentesche, forse non del tutto accidentale.
Gli statuti studiati appartengono alle confraternite di alcuni centri della Calabria nordoccidentale, in corrispondenza della regione del Lao tra Mormanno e Scalea. Gli atti
costitutivi sono stati reperiti nell’Archivio di Stato di Napoli fondo Cappellano
Maggiore (per Mormanno, Papasidero e Scalea) 26 e negli Archivi parrocchiali (per
Santa Domenica Talao) 27.
Tali statuti si riferiscono a congreghe costituite nel 1777 o regolarizzate in tale anno
(Confraternita della Morte di Mormanno), con eccezione di Santa Maria dei Sette
Dolori di Scalea fondata nel 1781. Quella della Morte è anteriore di circa un secolo e
mezzo, risalendo, infatti, al 1620. Lo statuto della Confraternita di Santa Domenica
Talao è desunto da una copia redatta nel 1897 sull’originale del 1777.
Quasi tutti questi documenti sono posteriori al Concordato del 1741 tra Stato
napoletano e Santa Sede. Esso prevedeva l’istituzione di nuovi sodalizi e la
sopravvivenza dei vecchi previo beneplacito dello Stato. Ogni statuto, infatti, riporta
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alla fine, seguendo un identico formulario, il regio assenso che imponeva alle
congreghe il rispetto dei diritti del parroco sulle esequie celebrate, l’adempimento del
disposto del titolo V del Concordato, il divieto per i sacerdoti di ingerirsi nella vita
delle confraternite.
Sull’ulteriore sviluppo di questi organismi negli anni Settanta del XVIII secolo, non
dovette essere estranea la grave congiuntura economica attraversata dal Regno a
seguito della catastrofe annonaria e della carestia del 1763-64, causa di inasprimento
della miseria e dei conflitti sociali 28. Conseguenze che acuirono il senso di precarietà
esistenziale, spingendo le popolazioni ad accordare una sempre maggiore udienza al
memento mori. La carestia del 1763-64 servì, inoltre, a complicare ogni prospettiva
strategica su un nuovo tipo di sviluppo del Regno, contribuendo non poco al
rafforzamento del tradizionale sistema di monopolio e controllo delle campagne 29.
Una delle ripercussioni più profonde provocate dalla carestia è, infatti,
l’assecondamento degli interessi particolari di mercanti, incettatori ed agrari, con il
baronaggio che continua a mantenere una posizione di sostanziale predominio grazie
al potere giurisdizionale e ai privilegi di casta. Ciò non toglie che il favorevole trend di
sviluppo demografico che interessa il Regno a partire dagli anni Trenta del secolo
renda più numerosa in ogni centro cittadino la schiera di benestanti, proprietari, nobili
viventi, civili, che vengono ad alimentare «un particolare tipo di borghesia agraria, gli
antenati prossimi dei galantuomini meridionali» 30. Nei paesi sedi delle confraternite
qui considerate, nel terzo decennio del ’700 si registrano aumenti anche notevoli della
popolazione, evidenziati dal confronto tra la rilevazione dei fuochi del 1669 e quella
del 1732-33: a Mormanno da 426 fuochi (circa 2130 abitanti) a 532 (2.660=+20%); a
Papasidero da 102 (510) a 118 (590=+13,5%); a Scalea da 56 (280) a 83 (415=+32%);
a Santa Domenica Talao da 22 (110) a 46 (230=+52%) 31. È anche in questa
congiuntura favorevole che ricevono linfa quelle categorie sociali che hanno nella
terra, nel possesso fondiario, la loro principale matrice. Non rappresentano una forza
politicamente matura ed influente, ma sono nondimeno in grado di minare con sempre
maggiore consapevolezza l’edificio feudale, introducendovi elementi di laicità,
aspirazioni e bisogno di rappresentatività, esemplati appunto dalle organizzazioni
confraternali, anche se spesso in compromissione con le esigenze del settore feudale,
di cui mutuano generalmente i modelli di vita e le concezioni economico-sociali.
L’elenco degli aderenti ci consente di abbozzare una sociologia dei congregati.
La confraternita del SS. Sacramento di Mormanno è l’unica tra quelle esaminate a
rientrare nella tipologia dei sodalizi nobiliari. Tra i soci firmatari troviamo il barone,
Gennaro Tufarelli, e diversi esponenti della casata: Domenico, Alessandro, Filippo,
Giuseppe Maria, Vincenzo Antonio, Nicola, Benedetto, Carlo e Vincenzo. Massiccia è
l’adesione del notabilato locale: D. Domenico de Callis; D. Alessandro e D. Giovanni
Andrea Rossi; D. Vincenzo, D. Francesco e D. Tommaso Genovese; D. Francesco, D.
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Lionardo e Lattanzio Sola; D. Pomponio e D. Sabatino Perrone; D. Filippo e D.
Giuseppe Pace; D. Gennaro e D. Filippo Giovanni Pandolfo; D. Filippo e D. Salvatore
Regina; D. Andrea e D. Bernardo Perfetti; D. Michelangelo e Pier Giovanni Filomena;
D. Giuseppe Cersosimo; D. Nunzio Minervini; D. Vincenzo Capalbi; D. Angelo
Libonati; D. Matteo Pomarico. I «civili» sono rappresentati dal notaio Giuseppe
Pandolfo, il solo aderente di cui è specificata la professione. Diversi altri ascritti
appartengono ad un «ceto medio» non meglio identificabile, di cui può solo
constatarsi, dallo scorrevole ductus delle firme, il buon grado della istruzione, salvo
che per Nunzio e Vingenzo (sic!) Paternostro che rivelano grafia incerta e ductus
slegato 32. L’unico segno di croce appartiene, curiosamente, al cassiere della congrega,
Gaetano Fortunato: il fatto non è di facile comprensione e lascia perplessi, a meno di
pensare ad un incarico fittizio assegnato per ragioni di equilibri «politici» interni. La
confraternita, con sede nella chiesa di S. Maria del Colle, viene costituita, con rogito
del notaio locale Filippo Regina, il 18 agosto 1777, ottenendo il regio assenso il 13
settembre successivo 33.
L’altra congrega attiva a Mormanno, quella della Morte, già eretta come Monte delle
Messe nel 1620, viene fondata il 18 agosto 1776 con atto del notaio concittadino Carlo
Antonio Regina e beneplacito regio dal 14 febbraio dell’anno dopo. Essa è formata da
trecentosei sodali, pressoché interamente appartenenti ai ceti più modesti, come si
desume dai segni di croce di sottoscrizione. Tra i confratelli ve ne sono alcuni aderenti
anche all’altra congregazione: D. Giuseppe Cersosimo, D. Giuseppe Pace, D. Sabatino
Perrone, D. Francesco Sola. Degno di nota ci sembra il particolare che le sottoscrizioni
dei notabili si trovino alla fine del regolamento, mentre quelle di tutti gli altri sodali
seguono, come di consueto negli altri statuti, il preambolo introduttivo al codice
statutario: evidentemente la confraternita è costituita da soggetti delle classi più
povere, ma «sponsorizzata» da alcuni esponenti del notabilato locale. Curiosa appare
anche al coincidenza delle date di fondazione delle due congreghe: il 18 agosto, ma di
anni consecutivi, 1776 quella della Morte, 1777 quella del SS. Sacramento 34.
Il fatto che i nobili e il notabilato mormannese avvertissero la necessità di dar vita a
una confraternita esclusiva, nel mentre si costituiva quella della Morte formata dai
soggetti meno agiati, dà conto dei timori dei ceti socialmente più elevati di privarsi di
una struttura per l’esercizio pubblico delle pratiche devozionali e che nello stesso
tempo servisse a ribadirne la predominanza nell’arengo sociale. Non è casuale, infatti,
che il laicato nella vita liturgica si esprima da parte di nobili e notabili nelle chiese
parrocchiali, come avviene a Mormanno e Scalea con le Confraternite del SS.
Sacramento e dei Sette Dolori, mentre alle categorie sociali meno influenti vengano
assegnate come sedi chiese e cappelle secondarie. Il domicilio della congregazione
nella parrocchiale conferma il controllo del territorio da parte dei ceti socialmente ed
economicamente forti, così come è indubbio che la marginalizzazione topografica dei
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sodalizi a base popolare in luoghi di culto secondari specifica la subalternità delle
classi meno agiate, di cui si sottintende anche la potenziale refrattarietà a una
puntigliosa disciplina organizzativa e devozionale.
Non va dimenticato, peraltro, che la convergenza di interessi tra nobili - notabili e
Chiesa gerarchica va individuata nel possesso fondiario, che ne delinea la loro
fisionomia socio-politica, come si evince dal fatto che la stragrande maggioranza delle
chiese parrocchiali meridionali erano ricettizie, ossia beneficiarie, i cui beni, di natura
privata, costituivano la massa comune, cui potevano accedere solo i sacerdoti locali.
Essi erano usufruttuari dei beni della ricettizia, la cui proprietà spettava alla
parrocchia, e percepivano i frutti della terra con l’obbligo di coltivarla e migliorarla.
Le grandi famiglie locali facevano di tutto per avere un figlio prete, non tanto per una
questione di prestigio, quanto per garantirsi l’unità dell’asse ereditario 35. Il binomio
chiesa-terra è, dunque, strettissimo e fa sentire la sua influenza anche nella
domiciliazione delle confraternite nelle chiese parrocchiali. Nobili, ricchi proprietari e
civili non formano una classe unitaria, ma si riconoscono convergenze di interessi più
numerose dei motivi di contrasto. Convergenze maturate già a decorrere dal secondo
Seicento 36, da quando, cioè, è venuto attuandosi un processo di anoblissement dei ceti
emergenti, che li andava connotando come notabili.
Che - per rimanere alla situazione di Mormanno - i ceti meno agiati (tra i quali sono
verosimilmente da includere - non contenendo lo statuto della Morte elementi
chiarificatori in tal senso - soggetti di estrazione sociale e professionale molteplice, ma
comunque popolare, quali piccoli artigiani e mercanti, modesti contadini e massari) si
riversino in una congrega a parte, denota che tra costoro, quasi alle soglie del XIX
secolo, non si sono definite categorie particolari propense alla costituzione di
confraternite di settore. Il caso di Mormanno (un centro medio-piccolo con una
situazione socio-economica riscontrabile in altri centri analoghi della Calabria
tardosettecentesca) rivela che l’assetto sociale, pur rappresentativo di varie presenze
socio-economiche, è senza sviluppo e incapace di consentire l’emergere di categorie
definite. Per questa ragione la topografia sociale, anziché articolata e dinamica, si
presenta a blocchi contrapposti e tagliati di netto: da una parte nobili, notabili e
«civili» che hanno come denominatore comune il censo, la ricchezza più o meno
appariscente e consistente, a cui, nel caso dei civili, si abbina il possesso di qualità
professionali e tecniche molto specializzate (medici, avvocati, notai); dall’altra
un’indistinta silloge di soggetti, caratterizzati da una condizione socio-economica
modesta o povera. In una situazione del genere, a una contrapposizione di classe così
netta fa riscontro una controllabilità dei ceti più deboli da parte di quelli più forti, tanto
più facile quanto più è frantumata la composizione sociale della categoria non nobile e
non proprietaria, priva di reali forze emergenti. Questo è quanto sembra accadere a
Mormanno, dove la Confraternita della Morte annovera tra i suoi aderenti un gruppo di
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notabili (appartenenti anche all’altra congrega cittadina) forse promotori o
sponsorizzatori del sodalizio.
Eretta nella chiesa di S. Rocco, la Congregazione dell’Assunta in Cielo di Papasidero
contava novantadue associati. L’atto costitutivo, rogato dal notaio Carlo Antonio
Regina di Mormanno e con regio assenso del 3 maggio 1777, vede tra i firmatari un
nutrito gruppo di notabili: D. Clemente Arcangelo e D. Vespasiano Mastroti; D.
Giacinto, D. Antonio, D. Giuseppe e D. Domenico Grisolia; D. Pietro Paolino; D.
Nicola, D. Salvatore Eustachio, D. Pietropaolo e D. Isidoro Oliva; D. Nicola Alitto; D.
Domenico Taddio e D. Carlo Crescente. I fratelli che sottoscrivono con segno di croce
sono cinquantanove 37. Papasidero presenta il caso di una confraternita interclassista,
che raccoglie nel proprio seno elementi nobili (D. Nicola Alitto, discendente degli
antichi baroni del paese, dal 1724 ormai nella mani degli Spinelli di Scalea 38, del
notabilato e del ceto popolare: un crogiolo giustificato dalle modeste dimensioni
demografiche del paese, che non permette al suo assetto sociale di dare vita a forme
dialettiche.
S. Maria dei Sette Dolori di Scalea viene costituita nella parrocchiale di S. Nicola in
Plateis il 20 settembre 1781 con rogito del notaio concittadino Nicola Pepe. Il regio
assenso è del 13 gennaio dell’anno seguente. La presenza del notabilato si riduce a
poche figure: D. Carlo Del Buono, D. Giovanni Calvano, D. Cristoforo Sannia e il
magnifico Giuseppe D’Acunto. A un cospicuo gruppo di altri firmatari socialmente
non identificabili seguono trentotto segni di croce 39. Da osservare che la qualifica di
«magnifico», largamente diffusa nel Cinque-Seicento e ora in disuso, qui ricorre per
l’unica volta.
A Scalea era attiva un’altra confraternita, quella del Carmine 40, di cui non è dato
conoscere lo statuto e quindi informazioni sulla composizione degli ascritti. Si sa solo
che esisteva già dal XVII secolo e che alle sue processioni doveva partecipare
l’insieme dei confratelli dei Sette Dolori, come ci informa lo statuto di quest’ultima
congrega.
Nessuna informazione sui soci fondatori e sugli aderenti ci fornisce lo statuto della
congrega del SS. Sacramento di Santa Domenica Talao, eretta nella parrocchiale
intitolata a S. Giuseppe.
Dalle adesioni ai vari sodalizi emerge come dato più significativo la consistenza di un
ceto non nobile ma nobilitato, costituito da benestanti, affittuari arricchiti, proprietari
terrieri, civili, che immisero ragioni di dinamismo nei loro paesi facendosi portavoci di
istanze di rinnovamento, più spesso conviventi con la cultura di antico regime che
animate da autentica tensione alternativa. La forza socio-economica di questi ceti
nuovi trova un riscontro emblematico nelle loro abitazioni impostate in forma di
palazzo e nei portali (talvolta con ricercati motivi architettonici generalmente opera di
lapicidi locali) che ne ornano gli ingressi, simboli di decoro ostentato e vistoso.
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Analoga indicazione scaturisce dagli organismi giuridico-politico-ecclesiastici, la cui
gestione è egemonizzata da questi gruppi emergenti, che utilizzano tali strutture come
regolatori delle proprie aspirazioni sociali. Le prassi democratiche dettagliate negli atti
costitutivi delle congreghe ne sono una manifestazione persuasiva, tanto più che tali
procedure assolvono anche una funzione garantistica (almeno in via teorica) delle
opportunità di accesso e gestione di detti organismi: ciò che introduce alla loro
dimensione giuspubblicistica.
2. Diritto pubblico e linguaggio politico
Come gruppo organizzato, la confraternita non prescinde da un codice scritto, che
stabilisce modalità di accesso e conservazione dell’ascrizione al sodalizio; ruoli,
funzioni e attribuzioni potestative dei detentori degli uffici; procedure inerenti alla
gestione contabile-amministrativa del sodalizio: un insieme di norme che possono farsi
rientrare in una dimensione oggi definibile di diritto pubblico. Lo stato moderno si
fonda, infatti, sulla formalizzazione delle norme giuridiche ed è essenzialmente
processuale: non esiste, cioè, diritto senza un procedimento che lo applichi e un corpo
di specialisti gerarchizzato 41.
L’ammissione alla confraternita avviene su richiesta degli interessati al priore
(Confraternita della Morte e dell’Assunta). Quest’ultima congrega prescrive che la
richiesta sia avanzata a mezzo di un memoriale. La scrittura è un segno del tempo:
riveste importanza a fini burocratici e come strumento di controllo sociale 42; bisogna
dare ordine ai propri pensieri, esporre in modo logico e convincente le proprie
motivazioni. Nello stesso tempo, però, l’analfabetizzato è costretto a ricorrere all’aiuto
della persona istruita, il che può comportare un’influenza del mediatore
sull’associando.
Tutte le confraternite esaminate prevedono la verifica delle qualità morali dei futuri
soci o direttamente da parte del priore o da persona a ciò delegata dallo stesso. Se in
possesso dei requisiti necessari, l’ascrivendo viene ammesso con la maggioranza dei
voti dei congregati espressi segretamente. L’ammissione avviene dapprima in qualità
di novizio per un periodo di quattro mesi, dopo i quali, se il sodale ha osservato una
condotta consona, viene accettato come fratello.
La qualifica di associato può essere persa dopo tre (Confraternite del Sacramento di
Mormanno, dei Sette Dolori, dell’Assunta, del Sacramento di Santa Domenica Talao)
o cinque (Confraternita della Morte) ammonizioni per altrettante mancanze. In tal
caso, l’espulsione avrà effetto se decisa a voto segreto dalla maggioranza dei fratelli.
Altra causa che comporta la perdita dei requisiti di sodale sono le assenze
ingiustificate in numero di quattro (Confraternite dell’Assunta e dei Sette Dolori) o tre
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(della Morte e del Sacramento di Santa Domenica Talao). Anche in questa ipotesi, la
esclusione dalla congrega avviene a maggioranza dei voti segreti.
Il riconoscimento e la perdita del requisito di consociato hanno il loro momento
fondamentale nella decisione dei congregati assunta a scrutinio segreto e a
maggioranza, molto più determinante teoricamente dell’azione preventiva e di
controllo da parte del priore. I criteri di ammissione/appartenenza alla congrega solo
parzialmente sono affidati a situazioni «oggettive», come il numero delle ammonizioni
e delle assenze ingiustificate alle assemblee e alle funzioni religiose. Molto dipende,
invece, dalla decisione dell’assemblea dei congregati. Il criterio della votazione
segreta consente alle confraternite di configurarsi, sul piano del funzionamento
interno, come strutture «aperte», che affidano il momento decisionale ai confratelli
riuniti in assemblea. Il fatto che sia il parlamento dei sodali a determinare, a scrutinio
segreto, l’ammissione di nuovi membri e l’eventuale loro esclusione, nonché la scelta
dei responsabili, a loro volta investiti di funzioni propositive, dimostra che tra gruppo
dirigente e consesso degli affiliati vige di fatto un equilibrio e che la distribuzione
delle rispettive sfere potestative è di tipo bilanciato.
Le aspettative e gli scopi che stanno alla base delle confraternite vengono, pertanto,
perseguiti attraverso forme di democrazia procedurale, che definiscono la dimensione
politica di queste associazioni. Appare chiaro che il ricorso alla votazione segreta
favorisce la libertà dei consociati, attribuendo loro contestualmente la possibilità di
mediazione e di compromesso. Appartenere o essere esclusi da una confraternita
costituisce, in tutta evidenza, un problema di grande portata: appartenervi rassicura in
quanto parte di un gruppo e beneficiario dei vantaggi che ne conseguono; esserne
esclusi comporta una marginalizzazione con prezzi troppo alti da sostenere in una
società di antico regime contrassegnata da deficienze di varia natura e da valori
religiosi profondamente radicati nella coscienza collettiva e percepiti come momenti
integranti del proprio operare nel mondo. Inoltre, appartenere o essere esclusi da una
congrega riveste rilevanza ad altri fini dell’organismo stesso: più numerosi sono gli
iscritti e più vasta è l’area sociale controllata dalla confraternita, maggiore è la
consistenza economica dell’associazione. Un aspetto, quest’ultimo, da non
sottovalutare, tenendo presente che tali organismi ebbero spesso una qualche solidità
patrimoniale e finanziaria protrattasi a lungo nel tempo 43.
Tutti gli statuti oggetto di questo saggio contemplano una normativa molto minuziosa
circa la procedura elettorale per l’attribuzione delle cariche, la determinazione dei
compiti degli ufficiali maggiori e minori e la definizione delle regole amministrativocontabili.
La confraternita del SS. Sacramento di Mormanno stabilisce (art.1) che il priore e i
due assistenti in carica propongano annualmente all’assemblea, nell’ottava domenica
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dopo il Corpus Domini, tre nominativi tra i quali i confratelli, a scrutinio segreto e a
maggioranza, eleggeranno i loro successori. In caso di parità, si deve procedere al
sorteggio e, se uno dei proposti non ottiene la maggioranza richiesta, deve ripetersi la
votazione sottoponendo eventualmente ai congregati un nuovo nominativo (art. 5).
Il priore e i due assistenti risultati eletti designano a loro volta i nominativi per le
cariche minori, sottoponendoli al voto segreto dei confratelli. Anche il padre spirituale
viene eletto con analogo procedimento.
Un sistema identico segue la Confraternita della Morte di Mormanno, con la
differenza che il priore in carica indica, il primo maggio di ogni anno, tre candidati per
l’elezione del suo sostituto (art. 4), mentre i due assistenti fanno altrettanto per i
candidati alla loro carica (art. 5). A loro volta, i nuovi eletti segnalano i nominativi per
le cariche del tesoriere e dei due razionali. Al priore e agli assistenti di nuova nomina
(di cui il priore sente solo il parere) spetta successivamente l’attribuzione degli uffici
minori (art. 6).
La congrega dell’Assunta di Papasidero procede annualmente, il 15 agosto,
all’elezione degli ufficiali, codificandone la prassi in una sezione specifica dello
statuto sotto il titolo «Modo di eligersi i superiori». Il priore in carica indica dapprima
tre nominativi tra cui scegliere il suo sostituto, che deve ottenere la maggioranza a
scrutinio segreto per risultare eletto. Successivamente, propone all’assemblea altri tre
nominativi per le funzioni di primo e secondo assistente, anch’essi poi eletti con lo
stesso criterio. Il priore e gli assistenti di nuova nomina propongono i fratelli per gli
incarichi subalterni del tesoriere, dei razionali e del padre spirituale. Per tutti è
richiesta la maggioranza a scrutinio segreto.
Il priore e gli assistenti vengono eletti ogni anno la domenica delle Palme dai
congregati di S. Maria dei Sette Dolori di Scalea. L’elezione degli ufficiali minori è
differita al giorno di Pasqua. Per entrambi, lo statuto prescrive la maggioranza dei voti
segreti.
L’atto costitutivo della confraternita di Santa Domenica Talao stabilisce l’elezione
degli ufficiali maggiori nella seconda domenica dopo Pasqua sulla base di due
nominativi proposti dal priore e sui quali deve pronunciarsi l’assemblea a scrutinio
segreto e a maggioranza. Il primo e secondo assistente in carica designano, a loro
volta, distintamente due candidati alle rispettive cariche, sottoponendoli al giudizio
elettorale dei confratelli. Gli ufficiali minori sono designati dal priore col consenso
degli assistenti. Il priore propone il padre spirituale, che deve essere eletto dai sodali.
Al di là di modeste differenze tra i procedimenti elettorali, tutti gli statuti esaminati
hanno in comune il sistema del voto segreto, l’elezione degli ufficiali a maggioranza,
la convocazione delle assemblee per le elezioni con preavviso di otto giorni, il ricorso
al sorteggio in caso di parità, la ripetizione delle votazioni fino a che il candidato
proposto non abbia raggiunto la prescritta maggioranza.
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Ciò che qui conta sottolineare è che il gioco elettorale si sviluppa praticamente tra due
protagonisti: il priore e l’assemblea dei congregati. Al priore e agli assistenti è affidato
il compito di proposta dei nuovi candidati alle rispettive cariche, delegandone
l’elezione all’assemblea. Se priore e assistenti hanno facoltà di indicare i successori,
all’assemblea è lasciata la libertà di bocciarli o promuoverli, avendo in questo caso
come misura il conseguimento della maggioranza qualificata della metà più uno dei
confratelli.
Tale criterio, democratico nella prassi, rivela l’importanza della ricerca del consenso
tra priore e assemblea e quindi l’esistenza di un gioco di scambio, che rende, almeno
sul piano teorico, bilaterale e ugualitario il rapporto tra i due soggetti giuridici. Gli
ufficiali maggiori non detengono il controllo della confraternita, anche se il priore è
depositario della potestà di controllo preliminare delle qualità morali dell’ascrivendo.
Il potere di controllo non è quindi una prerogativa degli ufficiali maggiori. La sfera
potestativa di ufficiali maggiori e assemblea, appare, anzi, bilanciata e perciò diffusa:
il priore e gli assistenti contano molto, ma altrettanto conta l’assemblea dei congregati;
nessuno dei due può ignorare la presenza, il ruolo, l’influenza dell’altro. E questo si
riscontra anche nel caso di una congrega nobiliare come quella del Sacramento di
Mormanno. Tale contemperamento di poteri non implica l’immobilità dei gruppi
dirigenti confraternali e degli associati e denota la presenza di un dinamismo sociale
garantito dalla precisa regolamentazione statutaria. Essa non esisterebbe se ci fosse un
gruppo nettamente dominante e tanto forte e invasivo da impedire ad altri soggetti
l’accesso a funzioni di rilievo nell’ambito del sodalizio. E il fatto, poc’anzi ricordato,
che anche una congrega nobiliare adottasse meccanismi di democrazia procedurale
sollecita una verifica attenta del ruolo del ceto nobiliare nelle specifiche realtà locali,
dove sembra che in qualche caso dimostri una certa sensibilità verso i cambiamenti in
atto nella società civile.
La definizione dei ruoli degli ufficiali maggiori e minori (tutti laici, con eccezione del
padre spirituale e del maestro dei novizi, il riconoscimento a costoro di specifiche
competenze e attribuzioni riflettono le aspirazioni di ascesa sociale dei ceti emergenti,
le loro ricorrenti tendenze ad assumere ruoli di maggior peso: propositi che trovano un
canale di sfogo soprattutto nella gestione di organismi giuridico-politico-ecclesiatici
44. Senza ignorare che, contrariamente al ’500 - ’600 quando si è in presenza di una
società cetuale in cui tutto è strutturato secondo criteri fissi e oggettivi, secondo un
preteso ordine di natura quasi trascendente, nel Settecento la realtà sociale registra il
passaggio dai «ceti» agli «stati» 45. Ciò comporta che una funzione non è più
appannaggio di una determinata categoria sociale, ma di chiunque abbia maturato, in
genere attraverso l’istruzione o l’attività svolta, definite capacità e competenze 46. Col
secondo Settecento siamo ormai di fronte ad una società europea con un accresciuto
dinamismo sociale e una marcata espansione della mentalità individualista. Maggiore
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è la stratificazione e la diversificazione socio-economico-culturale, più numerosi sono
i soggetti che ambiscono a contare qualcosa nell’arengo sociale di appartenenza. I
ruoli che le strutture giuridico-politico-ecclesiastiche vengono formalizzando
configurano una gerarchizzazione che riconosce a ciascun detentore di funzione, oltre
che uno status sociale, una sfera potestativa.
Gli ufficiali maggiori sono il priore, il primo e secondo assistente. Il priore ha il
governo universale della confraternita, vigila sull’osservanza delle norme statutarie,
ordina le spese «solite ed anche l’insolite minori di carlini dieci» (Confraternita della
Morte-Mormanno). Le spese straordinarie devono essere approvate dall’assemblea dei
congregati, cui spetta deliberare su qualsiasi altro affare ritenuto importante, venendo
informata altresì sulla condotta morale dei fratelli che intendono associarsi e sulla cui
ammissione deve pronunciarsi.
Il primo e secondo assistente devono «avere lo stesso pensiero del priore, andando di
comune consenso» (confraternita di S. Maria dei Sette Dolori - Scalea), supplendolo in
casi di assenze, impedimento o decesso.
Appartengono agli ufficiali minori il segretario, il tesoriere o cassiere, i razionali, il
padre spirituale e il maestro dei novizi, nonché il cerimoniere e il portinaio.
Il segretario conserva gli atti, le scritture e i libri della congregazione, verbalizza le
sedute assembleari e collabora col priore nello svolgimento delle elezioni per il
rinnovo delle cariche sociali.
Il tesoriere o cassiere disimpegna il servizio contabile, che scaturisce dal versamento
delle quote associative e dagli altri cespiti di entrata, oltre che dai pagamenti per le
spese effettuate: assolve in altri termini, a tutte le mansioni connesse al servizio di
cassa. I nostri statuti vietano, in genere, la conferma del precedente cassiere, senza che
questi abbia presentato il rendiconto della propria gestione, dimostrando di non aver
effettuato spese senza la delibera dell’assemblea o l’autorizzazione del priore.
I razionali sovrintendono alla revisione dei conti, sottoponendoli all’approvazione
dell’assemblea.
Il padre spirituale è un ecclesiastico che cura la vita spirituale dei confratelli, mentre il
maestro dei novizi (anch’esso un ecclesiastico) è incaricato della formazione spirituale
dei sodali nell’intervallo, in genere di quattro mesi, tra l’ammissione alla confraternita
e la conferma dell’ascrizione.
Le funzioni di questi organi si possono riassumere in una triplice azione: deliberante,
esecutiva o di governo, giurisdizionale e di controllo.
Organo deliberante è l’assemblea dei confratelli che decide circa l’elezione degli
ufficiali maggiori; l’ammissione dei soci al sodalizio; la perdita della qualifica di
fratello per morosità nel pagamento della quota associativa o per mancanze in ordine
ai doveri religiosi e sociali; il pagamento delle spese superiori al tetto massimo
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previsto dallo statuto.
Organo di governo o esecutivo è il priore coadiuvato dai due assistenti. Al priore
spetta il governo della confraternita e decidere sulle spese minime. Priore e assistenti
propongono i candidati alle cariche di ufficiali maggiori, tra i quali l’assemblea
eleggerà i successori, e designano gli ufficiali minori. Nella sfera di governo rientrano
anche tutte quelle disposizioni che attengono alla gestione amministrativo-contabile
della congrega e che sono di competenza di segretario, tesoriere e razionali.
La Confraternita dell’Assunta di Papasidero fissa con tre articoli ad hoc, sempre
inseriti nello statuto, le «Regole per amministrare gli interessi della confraternita».
Una norma concerne la gestione delle quote versate e le modalità di celebrazione delle
messe di suffragio, oltre che la gestione degli acquisti e dei proventi da lasciti o
elemosine. Un’altra norma impone al segretario l’obbligo della regolare tenuta del
libro dei soci, la redazione dei verbali delle sedute assembleari e la cura, unitamente al
priore, del meccanismo elettorale per il rinnovo delle cariche. La terza disposizione
prescrive che i pagamenti siano effettuati mediante appositi mandati firmati dal priore
(o da uno dei due assistenti), dal segretario e dal tesoriere.
Per quanto attiene alla sfera giurisdizionale, le competenze sono assegnate al priore e
all’assemblea confraternale. Al primo spetta la valutazione dei requisiti morali
dell’iscrivendo e la comminazione delle ammonizioni al sodale inottemperante agli
obblighi di assistenza ai confratelli o alle funzioni sacre prescritte. All’assemblea dei
confratelli tocca decidere sull’accoglimento o la radiazione dei soci dal sodalizio.
Formalizzazione delle norme e suddivisione delle funzioni caratterizzano gli statuti
confraternali esaminati, che definiscono procedimenti giuridici ascrivibili alla
dimensione del diritto pubblico e ricchi di una nomenclatura politica esplicitata
dall’uso ricorrente di termini e concetti come votazione, maggioranza, scrutinio
segreto, ballottaggio, sfera potestativa, divisione delle competenze, prassi
amministrativo-contabile, ecc. Si è in presenza di sempre più marcati e diffusi
orientamenti laici in seno alla società civile, così come maggiormente accresciute sono
le tendenze partecipative alla vita comunitaria e quindi il ruolo della dialettica politica
tra i diversi soggetti sociali. Quella meridionale del tardo Settecento tende a
configurarsi come una società per stati, che occupa il posto di una società per ceti: ciò
che conta non sono più tanto le posizioni possedute per vantaggio dinastico, quanto
quelle acquisite attraverso il proprio agire. Quanto più ampie diventano le possibilità
di accesso alla dialettica sociale e più numerose le categorie in grado di contribuire ad
essa, sempre più necessaria appare la strategia della regolamentazione giuridica e il
ricorso a una disciplina normativa del gioco dialettico.
Pur in un quadro demografico ed economico tardosettecentesco non uniformemente e
stabilmente brillante47 ma certamente più mosso rispetto ai periodi precedenti, gli
strumenti di difesa dell’autonomia dello Stato dalla struttura feudale e dalla Chiesa si
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andavano affinando. Il genovesiano «ordine mezzano», formato principalmente da
esponenti del mondo forense e burocratico, è, già dai tempi del riformismo carolino, il
protagonista e il destinatario di un rinnovamento culturale e politico, che coinvolge
anche strati della nobiltà tradizionale. Le rivendicazioni dei diversi ceti si esprimono
soprattutto nel desiderio di riforme più incisive, la cui punta di diamante è
rappresentata dalla polemica antifeudale. Essa, pur con posizioni diversificate, trova
comunque concordi tutti i suoi sostenitori sulla necessità improrogabile di una drastica
limitazione dello strapotere baronale, giudicato la causa prima dell’arretratezza del
Regno e degli impedimenti alla crescita e sviluppo della società civile 48, dove
ricercano sempre più ampi spazi di affermazione i nuovi quadri dirigenti e gli
esponenti dell’«ordine mezzano» 49, di cui sono ancora saldi i legami con al feudalità
e la Chiesa, quest’ultima radicata nell’universo economico, mentale e spirituale della
realtà meridionale 50.
3. La «regolata devozione»
Molto particolareggiate sono le norme che disciplinano l’etica dei confratelli e
attraverso le quali, per usare le categorie di Châtellier 51, gli organismi confraternali
realizzano il controllo del tempo, dell’immaginario e del corpo dei sodali.
Questa «regolata devozione» (Muratori) prevede un insieme di pratiche rituali e
ripetitive che «riadattano l’esteriorità della pietà barocca alle esigenze settecentesche»
52, quando prende consistenza e vigore una «pietà illuminata» che disciplina il
comportamento religioso in senso formalistico.
Ci soffermeremo su questi codici di condotta, perché ci sembra presentino un forte
parallelismo con la prassi giuridico-amministrativa relativa all’organizzazione e al
funzionamento delle congreghe.
Vediamo, confraternita per confraternita, quanto esse prescrivono, cominciando da
quelle che dettano le disposizioni più articolate.
a) Congregazione dell’Assunta in cielo - Papasidero
L’articolo 2 dello statuto impone ai fratelli la recita quotidiana della terza parte del
rosario, aggiungendovi qualche particolare devozione o mortificazione secondo le
indicazioni del padre spirituale. Giornaliero è anche l’obbligo di assistere alla messa.
In alternativa si può visitare una chiesa dove sia esposto il Santissimo, recitando
cinque Pater, Ave e Gloria in onore delle cinque piaghe di Gesù. Il confratello ha
l’obbligo di conoscere la dottrina cristiana ed insegnarla ai propri familiari.
L’articolo 3 vieta di giocare a carte, dadi e altri giochi illeciti e di assistere ad essi
specie nei giorni festivi, nonché di bestemmiare ed assistere a pratiche peccaminose.
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Il sentimento dell’amore deve fungere da elemento coesivo tra i confratelli, che
devono trattarsi ed onorarsi come tali in qualsiasi circostanza (articolo 4). Essi, inoltre,
dovranno farsi visita in caso di malattia e pregare per i confratelli ammalati. In caso di
decesso di uno di loro, gli altri lo accompagneranno devotamente alla sepoltura dopo
avere presenziato alle esequie. Alla prima riunione della congrega, chi sarà in grado di
farlo, leggerà insieme ai sacerdoti l’ufficio dei defunti, oppure reciterà cinque poste di
rosario.
L’adesione al sodalizio mediante versamento di una quota una tantum di cinque ducati
oppure di tre carlini fino al raggiungimento della quota suddetta dà diritto al sodale di
beneficiare di messe di suffragio, alle quali (e questa è l’unica confratenita a
prevederlo) possono aggregarsi anche le donne senza memoriale o informo.
Le funzioni congregazionali domenicali sono circostanziate dall’articolo cinque, il
quale, nel raccomandare ai confratelli la puntualità alle funzioni dopo i tre segnali
della campana, ne fissa l’ordine di svolgimento: invocazione dello Spirito santo;
litanie in onore della Madonna; predica; meditazione sul mistero della passione di
Cristo e in particolare sulle cinque piaghe recitando per ciascuna di esse cinque Pater,
un’Ave e una Gloria; recita del Salve Regina; antifona; orazione alla Vergine.
Il venerdì sono previste l’invocazione allo Spirito santo; le litanie alla Madonna; il
sermone del padre spirituale e «sentimento per disporre i congregati a far le disciplina
col canto del Miserere»; l’adorazione della Croce e la benedizione del padre spirituale.
b) Congregazione della Morte - Mormanno
Oltre alle messe per ogni confratello defunto da celebrarsi immediatamente, nonché le
messe ordinarie non inferiori a cinquanta nel corso dell’anno, lo statuto stabilisce che
deve celebrarsene una espressamente il 3 novembre o il giorno dell’Immacolata nella
cappella della congregazione. I fratelli devono comunicarsi ogni prima domenica del
mese e nella festività della Beata Vergine. Al terzo suono della campana essi devono
portarsi sollecitamente in chiesa. I ritardatari rimarranno genuflessi fino a quando il
padre spirituale non avrà ultimato il sermone. In chiesa deve osservarsi modestia e
silenzio; al sabato bisogna imporsi il sacrificio del digiuno.
L’intento della congregazione è di invogliare alla venerazione del Santissimo e di fare
in modo che «pace e quiete» regnino tra i fratelli e tra essi e il mondo esterno.
Ogni associato deve possedere la corona del rosario e il «flagello» per la disciplina del
corpo. Il rituale cui il confratello deve attenersi durante la permanenza in chiesa
prevede che si inginocchi facendosi il segno della croce e baciando il pavimento,
procedendo, infine, all’esame di coscienza. Quest’ultimo, in base all’articolo 13 dello
statuto, comprende il ringraziamento a Dio per i benefici ricevuti; la richiesta di grazie
e di lumi al fine di conoscere e odiare il peccato; una riflessione sulle offese arrecate al
Signore e sui difetti che il confratello si riconosce; la richiesta di perdono a Dio.
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c) Congregazione di S. Maria dei Sette Dolori - Scalea
Premesso che i confratelli non devono essere inquisiti, viziosi, scandalosi e
«collitiganti» tra di loro e con la congrega, lo statuto impone un contegno corretto e la
recita, ogni venerdì, del rosario in onore dell’Addolorata. La domenica bisogna
abbinare al rosario la lettura del Vangelo e l’ascolto della messa. Ogni terza domenica
del mese, inoltre, i fratelli devono confessarsi e comunicarsi, adempiendo a tale
obbligo anche il giorno della ricorrenza dell’Addolorata. Nella medesima occasione
parteciperanno alla processione fatta col Santissimo. La loro partecipazione è richiesta
anche in occasione delle processioni del Corpus Domini e di S. Nicola, titolare della
chiesa sede della confraternita.
Altre osservanze imposte ai congregati concernono la celebrazione della festività
dell’Addolorata, distribuendo elemosine ai sacerdoti, sia regolari che secolari, in
misura non inferiore a due carlini; l’assicurazione ad ogni fratello defunto della
sepoltura gratuita con aggiunta del panegirico; la celebrazione domenicale di una
messa piana per l’anima dei fratelli defunti e dei benefattori.
d) Congregazione del SS. Sacramento - Mormanno
L’articolo 6 definisce i compiti dei confratelli, obbligati all’accompagnamento del
Santissimo nelle processioni solenni; alla recita del rosario e dell’ufficio sacro durante
le esequie di un sodale deceduto; alla cura della sepoltura dello stesso.
e) Congregazione del SS. Sacramento - S. Domenica Talao
Lo statuto di questa confraternita contempla l’obbligo per i congregati di confessarsi e
comunicarsi ogni terza domenica del mese, assistendo in detta circostanza alla messa
cantata e accompagnando processionalmente il Santissimo. Quest’ultima prescrizione
deve essere osservata anche in occasione della festività del Corpus Domini e in tutti gli
altri casi in cui è canonizzata l’uscita del Santissimo. A questi doveri, si aggiunge
quello di dare assistenza ai confratelli ammalati e moribondi.
Le prescrizioni religiose confraternali includono una serie di pratiche devozionali,
individuali e collettive, incarnazione della dialettica tra religione personale e religione
comunitaria, che attraversa la storia del Cristianesimo «apparentemente in modo
contraddittorio, in realtà complementare» 53.
Le devozioni individuali insistentemente imposte sono la recita del rosario e l’esame
di coscienza, per mezzo del quale il devoto è sollecitato a una riflessione quotidiana
sulla qualità del proprio rapporto con Dio, i propri simili e se stesso. In questa stessa
sfera devozionale rientrano le preghiere e le visite ai confratelli ammalati o moribondi:
altrettanti momenti di esercizio alla solidarietà umana.
Maggiore risalto hanno i riti collettivi come le processioni, i funerali, le messe. A
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queste ultime è raccomandata la frequenza obbligatoria, richiedendosi al fedele non
una presenza distaccata e passiva, magari interrotta solo al momento della predica,
bensì un’attenzione partecipata. Tale risultato viene perseguito ravvicinando l’altare,
dove si celebra il sacrificio, all’assemblea dei fedeli, spesso sopprimendo nelle chiese
più antiche le barriere costituite dalle gallerie e navate laterali. È quanto avviene a
Papasidero, ad esempio, dove la chiesa parrocchiale di S. Costantino, nel corso della
profonda ristrutturazione nel 1786, vede l’impianto medievale originario a tre navate
reso a navata unica con l’interno interamente adeguato ai canoni barocchi
dell’architettura controriformistica. Ad aggiornamento vengono sottoposte la
parrocchiale di S. Nicola in Plateis a Scalea e la cattedrale quattrocentesca di
Mormanno, entrambe allineate nel XVIII secolo ai dettati tridentini con profusione al
loro interno di elementi decorativi barocchi, che ornano anche la nuova facciata di S.
Maria del Colle sovrapposta all’antica versione. In queste chiese, compresa S.
Costantino di Papasidero, vengono inoltre inseriti altari laterali sovrastati da tele a
soggetto religioso diverso in ossequio alla precettistica tridentina che assegna alle
immagini sacre una funzione di pedagogia liturgica e meditazione devozionale 54.
Ma è certamente con la morte che il rapporto delle confraternite è più immediato e
viscerale, manifestandosi nelle forme vistose di penitenza e nella gestione di elaborati
apparati, nonché nelle processioni, cui aderisce un’intera comunità, attrice e spettatrice
di un rituale di forte presa emotiva offerto a Dio e ai suoi migliori intercessori, la
Vergine e i morti. Non a caso la Madonna è ricorrente nelle nostre congreghe, sia
come titolare delle stesse che come destinataria di devozioni e preghiere, soprattutto il
rosario. Costante è anche la presenza della morte come esempio che rammenta al
devoto la caducità della vita terrena, nonché quella dei defunti che pregano per la
salvezza propria e intercedono per quella dei loro cari e di cui i viventi possono
alleviare le pene ed accellerare la salvezza eterna con messe, preghiere e opere di
carità.
4. Conclusione
Le costituzioni confraternali qui esaminate evidenziano una duplice tendenza: alla
formalizzazione giurdico-amministrativa e a quella etico-religiosa.
Ogni confraternita è congegnata su un complesso di disposizioni legiferate. Ciascun
destinatario di una carica dispone di specifiche competenze; sono codificati i poteri di
controllo, disciplina e supervisione, la condotta e i compiti di ufficiali superiori,
inferiori e ascritti, nonché i rapporti degli uni verso gli altri. Sono anche definiti i
criteri di gestione amministrativo-contabile con l’impiego di soggetti competenti in tal
senso (razionali). Questa burocratizzazione e gerarchizzazione degli organismi
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pubblici sono il contrassegno di una società meridionale tardosettecentesca che
procede faticosamente verso una sua laicizzazione e organizzazione per «stati»
anziché per «ceti». La gestione delle istituzioni giuridico-politico-ecclesiastiche è
spesso il regolatore delle aspirazioni di ascesa sociale dei ceti emergenti, che
recepiscono, come nel caso di questi statuti, procedure protodemocratiche. Un
democraticismo assolutamente non assimilabile ad un fatto puramente linguistico,
poiché è riscontrabile, per rimanere in Calabria, anche in altri centri 55, sicché
l’ampiezza del fenomeno induce a ritenere che tali manifestazioni di laicità siano i
prodromi di quelle esperienze liberali che fertilizzano il riformismo meridionale
tarsosettecentesco di stampo moderato, preludio alla breve stagione del 1799.
Tali ragioni suggeriscono pertanto letture meno riduttive delle costituzioni
confraternali esaminate, che risentono indubbiamente degli effetti della politica
giurisdizionalistica, facendosi portavoci delle spinte, contraddittorie e fragili finché si
vuole, ma non per questo ininfluenti, in direzione della legittimazione di categorie che
si contrappongono con un certo vigore alle strutture feudali del Regno e all’impianto
sociale di antico regime.
Tutta la parte procedurale degli statuti, inoltre, sembra inserirsi congruamente in un
contesto europeo occidentale settecentesco in cui è vivo l’interesse per una più
razionale organizzazione amministrativa dello Stato e di ogni organismo che abbia le
caratteristiche di una struttura di comunità. Una normativa procedurale chiara - e
chiara in quanto codificata per iscritto - assicura gli strumenti più idonei a governare e
garantisce agli aspiranti alla gestione degli organismi giuridico-ecclesiastici di
partecipare alla vita «politica» della comunità.
La politica regalistica dello Stato napoletano comporta alla Chiesa una limitazione del
proprio ruolo, circoscritto alla parte etico-religiosa. Le norme in tal senso disciplinano
minutamente l’attività dei confratelli, elaborando una «regolata devozione» riflesso del
nuovo spirito cui deve improntarsi la pietà dei fedeli: non più quello «barocco» 56
affidato all’emozionalità e alla teatralità dei riti, bensì un devozionalismo, che pur non
escludendo una componente di esteriorità (funerali, processioni), tende piuttosto al
controllo del corpo e alla disciplina dello spirito, in un dimensione «burocratizzata»,
che è parallela al formalismo giuridico-amministrativo che regola la vita interna delle
confraternite. I fedeli non hanno bisogno di gesti, simbolismi, ritualità, sermoni spinti
al massimo grado di efficacia attraverso stratagemmi retorici capaci di persuaderli alle
direttive tridentine e sottrarli alle lusinghe della cultura magico-contadina.
La conquista spirituale delle masse da parte della Chiesa ha superato i tornanti difficili
della fase post-tridentina; non ci sono più forti resistenze neppure nei centri rurali e più
periferici, dove la gerarchia ecclesiastica ha campo libero, oltre che nell’adeguare le
architetture degli edifici sacri ai canoni, acquisiti e consapevolmente accolti dalle
popolazioni, della precettistica tridentina, anche nel disciplinare la vita religiosa dei
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fedeli, sollecitati a una devozionalità che abbina momento collettivo e momento
individuale. Quest’ultimo è probabilmente quello maggiormente incoraggiato, in
quanto recupero di una religiosità intima e consapevole, che fa perno sulla
confessione, la comunione, il rosario, la meditazione: momenti miranti al
rafforzamento della fede interiore e alla costruzione di un fidelis novus, che ponga
come suoi principali intenti il senso di solidarietà con i propri confratelli e un costume
di vita improntato a morigeratezza, onestà, pentimento per i peccati commessi. Codice
etico tanto più significativo in quanto richiesto in un contesto storico-sociale animato
da dinamica competitiva, aspirazioni e tensioni sempre più laicizzate, fermenti
culturali riformatori.
Note
1 Tra le opere di carattere generale, cfr. G. G. MEERSSMAN - G. P. PACINI, Le Confraternite
laicali in Italia dal Quattro al Seicento, in Problemi di storia della Chiesa nei secoli XV-XVII,
Napoli 1979, pp. 109-36; il n. 50, 1982, di «Quaderni Storici» su I vivi e i morti; Le
Confraternite in Italia nell’età moderna e contemporanea secoli XV-XX, atti del Convegno di
Grado, 29 settembre - 1° ottobre 1983; R. RUSCONI, Confraternite, compagnie, devozioni, in
Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico, Torino 1986; L. CHÃTELLIER,
L’Europa dei devoti, tr. it. Milano 1988; F. LEBRUN, Le riforme: devozioni comunitarie e
pietà personale, in La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, tr. it., Bari 1988.
2 La sociabilità religiosa del Mezzogiorno nel Sette-Ottocento: le Confraternite laicali, Istituto
Luigi Sturzo, Roma 10-12 dicembre 1987, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», XIX
(1990). Una sintesi dei contenuti di questo seminario è stata tracciata da R. M.
ABBONDANZA, La sociabilità religiosa nel Mezzogiorno nel Sette-Ottocento: le confraternite
laicali, in «Bollettino storico della Basilicata», IV (1988), n. 4, pp. 155-57.
3 M. A. RINALDI, Per una sociologia della morte. Note introduttive per una ricerca in
Basilicata, «Rivista di storia sociale e religiosa», VII (1978), pp. 135-54; EAD, La gestione
della morte nelle confraternite lucane dal XVII al XIX secolo, ibid., XI (1982).
4 Ph. ARIES, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, tr. it., Bari 1980, pp. 212-13.
5 S. MUSELLA, Dimensione sociale e prassi associativa di una Confraternita napoletana
nell’età della Controriforma, in Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, a cura
di G. GALASSO - C. RUSSO, I, Napoli 1980, pp. 341-438.
6 Rimando, per brevità, alla bibliografia contenuta in M. MARIOTTI, Ricerca sulle
confraternite laicali nel Mezzogiorno in età moderna. Rapporto dalla Calabria, in «Ricerche di
storia sociale e religiosa», XIX (1990), 37-38, pp. 141-83.
7 Ibid.
8 A. MARZOTTI, Chiesa e società in Calabria nel dibattito storiografico del secondo
dopoguerra. Un contributo: le congreghe, in «Incontri meridionali», 2-3, 1977, pp. 5-47.
9 F. RUSSO, Storia della Chiesa in Calabria dalle origini al Concilio di Trento, Soveria
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LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAG...LCUNE CONFRATERNITE DELLA CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
Mannelli 1982, II, p. 661.
10 G. LE BRAS, La chiesa e il villaggio, tr. it., Torino 1979, p. 127.
11 Su queste questioni senza dubbio il presente saggio avrebbe tratto grande giovamento, se
avessi avuto modo di poterlo consultare, dal lavoro di E. ROBERTAZZI DELLE DONNE,
Relazione sugli aspetti giuridici delle confraternite, in La sociabilità religiosa del Mezzogiorno
nel Sette-Ottocento: le confraternite laicali.
12 S. VECCHIO, Democrazia linguistica. Il dibattito in Francia e in Italia tra Sette e Ottocento,
Palermo 1990.
13 G. LE BRAS, Studi di sociologia religiosa, tr. it. Milano 1969, p. 179.
14 Ibid., pp. 194-95.
15 R. M. ABBONDANZA, Confraternite e luoghi pii in Basilicata nell’età moderna, in
AA.VV., Società e religione in Basilicata nell’età moderna, II, Roma 1977, p. 33.
16 Cfr. G. POGGI, La vicenda dello stato moderno, Bologna 1978, pp. 114-29, nonché J. H.
SHENNAN, Le origini dello stato moderno in Europa (1450-1725), tr. it. Bologna 1976.
17 Cfr. D. CARPANETTO - G. RICUPERATI, L’Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni,
lumi, Bari 1986; E. HINRICHS, Alle origini dell’età moderna, tr. it. Bari 1993, pp. 104-11, 196202; H. KAMEN, L’Europa dal 1500 al 1700, tr. it. Bari 1990, pp. 228-31, 320-34.3
18 M. DEL LUNGO, Pauperismo e assistenza negli antichi Stati italiani, in «Società e Storia»,
VII (1984), n. 23, pp. 188-89.
19 J. G. A. POCOCK, Politica, linguaggio e storia. Scritti scelti, tr. it. Milano 1990, pp. 11417.
20 J. GOODY, La logica della scrittura e l’organizzazione della società, tr. it. Torino 1988, pp.
14-15.
21 F. HUNTER, La struttura del potere in una comunità urbana, in Potere ed élites politiche, a
cura di S. PASSIGLI, Bologna 1971, pp. 87-95.
22 J. KOCKA, Storia sociale. Concetto, evoluzione, problemi, in H.U. WEHLER - J. KOCKA,
Sulla scienza della storia, tr. it. Bari 1983, 194 ss.
23 G. LE BRAS, La chiesa e il villaggio ..., p. 124.
24 Ibid., pp. 127-28.
25 J. HEERS, Transizione al mondo moderno (1300-1520), tr. it. Milano 1922, p. 32.
26 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (= ASN), Cappellano Maggiore, fs. 1194, inc. 63, ff.
1r-4v (Mormanno, SS. Sacramento); fs. 1194, inc. 173, ff. 1r-10v (Mormanno, Congregazione
della Morte); fs. 1141, inc. 96, ff. 1r-8v (Papasidero, Congregazione dell’Assunta); fs. 1191,
inc. 57, ff. 1r-5v (Scalea, Congregazione S. Maria dei Sette Dolori).
27 ARCHIVIO PARROCCHIALE DI SANTA DOMENICA TALAO, Regole della
Congregazione del SS. Sacramento, eretta nella Chiesa di S. Giuseppe in Santa Domenica.
28 Cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, V, L’Italia dei lumi (1764-1790), t. 1 La
rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni Sessanta. La Lombardia delle riforme,
Torino, 1987, pp. 222-69; Idem, 1764: Napoli nell’anno della fame, in «Rivista storica
italiana», 1973, n. 2, pp. 394-472; P. VILLANI, La carestia del 1764 nel Regno di Napoli e la
politica di Bernardo Tanucci, nel vol. dello stesso Società rurale e ceti dirigenti (XVIII-XX
secolo), Napoli 1989, pp. 13-30.
29 P. MACRY, Mercato e società nel Regno di Napoli. Consumo del grano e politica
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LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAG...LCUNE CONFRATERNITE DELLA CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
economica del ’700, Napoli 1974, p. 413.
30 Cfr. P. VILLANI, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza, ed. UL, Bari 1973, p.
160, che quantifica la crescita demografica del Regno, tra il 1734 e il 1765, in un 30% in più
rispetto agli anni precedenti.
31 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Una fonte per lo studio della popolazione del Regno
di Napoli: la numerazione dei fuochi del 1732, a cura di M. R. BARBAGALLO DE DIVITIIS,
Roma 1977, pp. 47, 52-53.
32 Sul rapporto scrittura-società, cfr. per il Mezzogiorno moderno G. DELILLE, Livelli di
alfabetizzazione nell’Italia meridionale a metà ’700: problemi di ricerca e primo risultati, in
Sulle vie della scrittura. Alfabetizzazione, cultura scritta e istituzioni in età moderna, Atti del
Convegno di studi, Salerno 10-12 marzo 1987, a cura di M. R. PELIZZARI, Napoli 1989. Per
una proposta di modelli di scrittura, v. J. QUENIART, Les apprentissages scolaires
élémentaires au XVIII siècle: faut-il réformer Maggiolo?, in «Revue d’histoire moderne et
contemporaine», XXIV (1977), pp. 3-27. Per un discorso più generale sulla problematica, v. H.
J. GRAFF, Storia dell’alfabetizzazione occidentale, tr. it. Bologna 1989; G. R. CARDONA,
Antropologia della scrittura, Torino 1981; il n. 38, 1978, di «Quaderni storici» dedicato a
Alfabetismo e cultura scritta.
33 ASN, Cappellano Maggiore, fs. 1194, inc. 93.
34 Ivi, fs. 1194, inc. 173.
35 G. DE ROSA, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Laterza, 1978, pp. 47-101.
36 P. L. ROVITO, La rivolta dei notabili. Ordinamenti municipali e dialettica dei ceti in
Calabria Citra. 1647-1650, Napoli 1988, in part. pp. 330-33.
37 ASN, Cappellano Maggiore, fs. 1141, inc. 96.
38 ASN, Pandetta Zeni. Sommaria, fs. 84, inc. 35.
39 ASN, Cappellano Maggiore, fs. 1191, inc. 57.
40 A. PEPE, I Carmelitani in Calabria e la Congrega del Carmine a Scalea, «Brutium», XXXV
(1956), nn. 7-8.
41 J. A. MARAVALL, Stato moderno e mentalità sociale, tr. it. Bologna 1991, II, pp. 514-15.
42 D. MARCHESINI, Il bisogno di scrivere. Usi della scrittura nell’Italia moderna, Bari 1992,
pp. 93-94.
43 Ignorandosi la consistenza patrimoniale e finanziaria delle confraternite in questione nel
periodo considerato, non è possibile una comparazione con i dati relativi all’anno 1898. Una
Statistica delle Confraternite a cura del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio.
Direzione Generale della Statistica (vol. II, Roma 1898) ci informa che a quella data la
confraternita del SS. Sacramento di Mormanno possedeva una patrimonio mobiliare di 20.257
lire; che le entrate ammontavano a 1013 lire, mentre le uscite erano leggermente superiori,
1042 lire. L’altra confraternita mormannese, quella della Morte, disponeva di un patrimonio
mobiliare di 16.611 lire, con entrate e spese in pareggio per 831 lire.
La Congrega dell’Assunta di Papasidero poteva contare su un patrimonio immobiliare valutato
in 5.620 lire; dal patrimonio e da altre fonti non precisate ricavava entrate per 389 lire a fronte
di 252 lire di spese annue.
Per tutte le confraternite le voci di uscita riguardavano principalmente le spese di culto (546,
426 e 176 lire rispettivamente per i sodalizi citati), quelle per il pagamento delle imposte (118,
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LE REPUBBLICHE CRISTIANE. DIRITTO PUBBLICO, LINGUAG...LCUNE CONFRATERNITE DELLA CALABRIA NORD-OCCIDENTALE
176 e 97 lire) e quelle per l’amministrazione (258, 137 e 59 lire).
44 D. CARPANETTO - G. RICUPERATI, L’Italia del Settecento ..., p. 72.
45 A dimostrazione di questo passaggio, si veda quanto accadeva a Papasidero, dove il Monte
di pietà fondato nel 1593 era governato da sei membri scelti paritariamente tra i rappresentanti
della nobiltà, del clero e del popolo (S. NAPOLITANO, Il Monte di pietà di Papasidero.
Dinamica sociale, precarietà economica e riflessi del Concilio di Trento nella Calabria di fine
Cinquecento, in «Daedalus», n. 3, 1989, pp. 9-40.
46 J. A. MARAVALL, Stato moderno ..., pp. 28-30.
47 A titolo orientativo, attribuendo alla situazione catanzarese un valore euristico per il resto
della Calabria, si veda A. PLACANICA, Uomini strutture economia in Calabria nei secoli XVIXVIII, I - Demografia e società, II Clima produzione rapporti sociali Reggio Calabria, 1974,
Chiaravalle C.le, 1976. Utile anche G. BRASACCHIO, Storia economica della Calabria. Dalla
restituzione del Regno all’occupazione francese (1734-1806), Chiaravalle C.le 1977.
48 A titolo esemplificativo, si veda A. MASCI, Esame politico de’ diritti e delle prerogative
de’ baroni nel Regno di Napoli, Napoli 1792.
49 A. M. RAO, La Calabria nel Settecento, in Storia della Calabria moderna e contemporanea.
Il lungo periodo, a cura di A. PLACANICA, Reggio Calabria-Roma 1992, pp. 303-27.
50 A. PLACANICA, La Calabria nell’età moderna; II, Chiesa e società, Napoli 1988, p. 45.
51 L. CHÂTELLIER, L’Europa dei devoti ..., p. 44 ss.
52 M. ROSA, Le Chiese cristiane fra tradizione e rinnovamento, in Europa 1700-1992: storia
di un’identità, I, La disgregazione dell’Ancien régime, Milano 1987, p. 171.
53 F. LEBRUN, Le riforme ..., pp. 45-46.
54 Mi permetto di rinviare al mio Per una storia socio-religiosa della Calabria in età moderna.
Chiese extra moenia e pietà barocca nella media e bassa Valle del Lao. Proposta di ricerca e
ipotesi di lettura, in «Coscienza storica», I (1991), 1, pp. 75-76.
55 Cfr. R. LIBERTI, Le confraternite nell’area della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi,
«Incontri Meridionali», n. 2, 1985, pp. 69-104; M. T. REDA, Statuti delle confraternite laicali a
Mendicino, «Rivista storica calabrese», n.s., VIII (1987), pp. 555-71; G. VALENTE,
L’Arciconfraternita nobile dell’Immacolata di Celico Minnito, ivi, pp. 543-53.
56 Si veda a questo proposito, a titolo indicativo, M. MORAN - J. ANDRES - GALLEGO, Il
predicatore, in L’uomo barocco, a cura di R. VILLARI, Bari pp. 139-77.
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC.
XVIII-XX)
Mario Spizzirri
Nel marzo 1852, in risposta alle sollecitazioni dell’Intendente di Calabria Citra,
pressato da disposizioni governative, le Amministrazioni di Beneficenza dei comuni di
Rende e di San Fili, si premuravano, forse con eccessiva sollecitudine e senza
intraprendere le opportune ricerche negli appositi archivi, a verbalizzarne le superiori
richieste e a risolverne i quesiti. Così nella riunione della Commissione di Beneficenza
comunale di Rende del 12 marzo 1852, riferendosi alla circolare del Presidente del
Consiglio Generale degli Ospizi del 14 dicembre 1851 e alla successiva
comunicazione del 20 febbraio dell’anno successivo, si segnalavano le seguenti forme
associative laicali:
a) il luogo pio San Giovambattista di cui non si conosceva data di fondazione ma si
continuavano a celebrare le messe nelle festività del titolare e la sua chiesa era
mantenuta decentemente;
b) l’arciconfraternita del SS. Rosario, dotato di regole regalmente approvate e di
rendite regolarmente amministrate, se ne celebrava la festività solennemente e la
chiesa era mantenuta con la necessaria decenza;
c) l’arciconfraternita di Costantinopoli, dotata di regole regolarmente approvate ed
amministrata similarmente a quella precedente;
d) luogo pio dell’Annunziata di cui non si conosceva data di fondazione ma la chiesa
era mantenuta con decenza ed era dotata di un maritaggio per donzelle povere di 10
ducati annui;
e) il monte dei pegni, istituito 150 anni, prima da don Ottavio Morcavallo. I firmatari,
Luigi Salerno e Salvatore Pellicori, assumevano per intero la responsabilità
dell’informativa. A San Fili ove, certamente, in quel momento non era operante una
commissione similare a quella del comune limitrofo, al questionario non si rispose in
maniera complessiva. Da Bucita (il popoloso rione che in virtù alla legge del 1816 sul
riordinamento sull’amministrazione civile era stato assegnato al comune di San Fili), il
22 Novembre 1851, il priore Giuseppe Formoso, rendeva noto che, in quella località,
esisteva la confraternita di Maria SS. Assunta in Cielo. In essa si celebrava la messa
ogni giorno festivo con l’ufficio della Beatissima Vergine e non era possibile
conoscere verun fondatore o titolo alcuno tranne l’approvazione reale delle regole, il
28 maggio 1779, e lo stato discusso quinquennale. Da San Fili, parimenti, Francesco
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Carelli, priore della Congregazione Dell’Immacolata Concezione e monte dei fratelli e
sorelle, il 2 marzo 1852, nella sua risposta evidenziava il titolo, il modus
amministrandi e gubernandi (secondo precise regole ma di cui si ometteva la
datazione) e l’ignoranza di un fondatore. Alle primordiali e frettolose carenze si
rimediava il 9 marzo successivo. Solo allora il medesimo priore comunicava che le
regole di quella venerabile congregazione, sanzionate dal Re D. G. il 13 febbraio
1777, nel marzo successivo ne avevano visto, alla presenza delle autorità delegate, il
corporale possesso. Il 5 dicembre dell’anno precedente, invece, Ferdinando Pellegrini,
1° assistente dell’Arciconfraternita dello Spirito Santo, si era premurato di fornire, per
illuminare le superiori autorità, una sintetica memoria storica. Così si apprendeva che
quel luogo pio laicale era regolato, amministrato e diretto da secolari che: ... «in ogni
anno si sottopongono in congrega a tenore dell’enunciato consiglio (quello della
beneficenza e degli ospizi, a tenore delle Istruzioni del 1820, presieduto
dall’Intendente e dall’Arcivescovo) e secondo i reali istituti che la congrega conserva,
muniti di sovrano assenso del 3 aprile 1781, nonché di bolla pontificia». Si precisava,
inoltre, che la suddetta, anteriormente a quella regia approvazione ... «officiava per più
secoli sotto il titolo della Vergine santissima, di cui esisteva una statua sull’altare
maggiore e le antiche regole, nel nome di detta Vergine, si trovavano conservate nel
grande Archivio generale la più antica chiesa e congrega del comune di San Fili e
possedeva la rendita annuale di 28 ducati» il che, considerando la necessità di messe
ed altri paramenti sacri riduceva la sua decorosa, secolare esistenza, al limite della
sopravvivenza. A breve distanza cronologica, dai procuratori si rendevano sommarie
informazioni (ma certamente essi stessi ne ricercavano scarsa documentazione) sui
luoghi pii del SS. Sacramento (i cui esercizi di pietà si riducevano, ormai, ad un legato
annuale di messe basse, nei giorni festivi, di 14 ducati), di S. Giovanni Battista (dalla
chiesa diruta e sprovvisto di rendita tale da non poter assicurare esercizi di pietà tranne
la celebrazione di messe basse); di S. Maria delle Grazie e di S. Caterina. In essi non
vi era «veruna disciplina perché non sono accompagnati da fratellanze in congreghe
...» Ed, alfine, il 22 marzo di quell’anno chiarificatore, il procuratore Raffaello
Granata, similarmente corrispondeva per il SS. Rosario 1. Eppure in quella seconda
restaurazione borbonica, a seguito del Concordato del 1818 che seguiva di pochi anni i
tremendi colpi di maglio della legislazione antiecclesiastica dei napoleonidi (volti a
recuperare all’autorità centralizzata dello stato anche le multiformi e variegate
fratellanze laical-religiose a livello periferico e già istituzionalizzate alcuni decenni
addietro), l’ancora vivido e rigoglioso mondo confraternale aveva smarrito gli
splendori dei secoli precedenti. L’11 febbraio 1856, l’Intendente-presidente del
consiglio generale degli ospizi, stigmatizzava la corruzione morale degli abitanti del
comune di Rende e l’ambigua situazione delle congreghe normalizzate, regolate da
frodi, differimenti e priori perpetui e dava mandato al consigliere laico Luigi Maria
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Greco di compiere una discreta investigazione. Tra i compiti primari gli veniva
vigorosamente rammentato di convocare le fratellanze delle congreghe, far proporre
gli ufficiali da sostituire ai perpetui ecc. All’energica richiesta della più alta autorità
della provincia di Calabria Citeriore, posto per legge a capo della Beneficenza
distrettuale, il Greco relazionava, nel maggio successivo, con estremo puntiglio che
dalle informazioni aveva appurato che alla congregazione della SS. Annunziata
trovavasi, da moltissimi anni, aggregato il «monte dei Mandarini» e a quella del SS.
Rosario quello «De Filippis». Le rendite di quelli erano state omesse in tutti gli stati
discussi. Immane era stato il compito del «visitatore» per cercare di venire a capo dei
conti delle congregazioni dal 1831 al 1855, poiché per frode erano stati sottratti i
registri dei verbali delle nomine e i documenti legali circa i nomi dei priori, cassieri,
esercizi e, dulcis in fundo, anche il sindaco, il mag.co Perugini, evidentemente legato
da vincoli di affinità socio-economica con i responsabili dei pii sodalizi, non forniva
alcun ausilio. Nel dicembre 1856 l’Intendente, circa la rettifica dei luoghi pii di Rende,
comunicava al Direttore generale dell’Interno (ove le omissioni di quel paese avevano
suscitato stupore ed allarme) che il consigliere Greco dopo avere scoperto la storia e le
rendite dei due legati «Mandarini» e «De Filippis» aveva costretto le confraternite a
rinnovare le cariche e a fornire i conti, arretrati da oltre un ventennio 2. Tanto non era
segnalato per San Fili anche se i due paesi, per secolari legami politico-feudali, sociali
ed economici, nel campo pio e religioso manifestavano straordinarie possibilità di
contatto. Storicamente più giovane San Fili, le cui prime connotazioni ufficiali non
sono più tarde della seconda metà del 1200 (è del 1267, epoca del contrasto tra
Federico II e il Papato, un atto in cui, nella descrizione minuziosa dei possedimenti
dell’arcivescovo di Cosenza, sono esplicitamente menzionati i casali della terra di
Rende e tra essi quello Sancti Felicis 3 e che nei registri angioini del 1276 sullo stato
della popolazione nel giustizierato di Val di Crati e Terra Giordana inglobava 556
abitanti), più vetusta la seconda la cui fondazione, quale Arintha, all’epoca brezia e
della magna Grecia, referente occidentale della ellenica, mitica cittadella fortificata,
denominata Pandosia. Collinare, montuoso, difficile alle colture estensive e
massificate il territorio del primo (addossato e circondato dalle foreste, spesso
impenetrabili dell’Appennino) se si eccettua un’economia di raccolta, di conquista e di
ingegno, estremamente esteso e pianeggiante il secondo adagiato, per la maggior parte,
nella valle del Crati ove si sviluppava un’attività agricola dalla fisionomia ricca e
diversificata. Per secoli, quindi, le due economie rappresentarono i caratteri della
contiguità e complementarietà complessiva. D’altronde, le necessità politiche, fecero
sì che i due paesi costituissero i beni territoriali di un «unicum» feudale che ebbe in
Rende il suo capoluogo fino alla eversione della feudalità, sancita soltanto nel 1806 ad
opera di re Giuseppe Bonaparte, fratello primogenito di Napoleone grande 4.
Vincoli considerevoli ed importanti, stante il quotidiano interscambio di cose e
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persone (naturalmente efficaci le comunicazioni mercé i flessibili tratturi spesso
tracimati in mulattiere) e notevole l’afflato spirituale poiché ogni palpito innovatore,
anche in tal senso, dell’una sensibilizzava ed animava la vita dell’altra nascosta, ma
non assopita, dietro le sue colline ... E tale interconnessione, ritualmente consistente e
composita veniva «da lontano» se si considera che, già fin dal VI secolo in un «breve»
di Gregorio I, sommo pontefice, è evidenziata, con ricchezza di particolari, la presenza
in quel territorio di una ecclesia-emolitana stabilita, da successivi reperti, ai margini
del casale Emule 5, da identificare con una comunità cristiana, caratterialmente
itinerante, lungo la vallata dell’omonimo fiume, affluente del Crati che, nato ai piedi
del monte Sparviero, scende rapidamente a valle, avendo alla sua sinistra l’abitato di
San Fili e, alla destra, Rende e la sua valle. Lungo quel tratto, disseminato ancora oggi
da centri abitati e casolari, si sviluppò, per qualche secolo, l’attività di quella comunità
cristiana primitiva che, da un punto di vista sociologico, come altre similari esperienze
dei primi secoli dell’era cristiana, costituì essa stessa un’associazione religiosa a fini
solidaristici, sorta in un ambiente sociale che reagiva, a suo modo, alla progressiva
disgregazione delle fatiscenti strutture statali logorate da traumatiche e repentine
evoluzioni. Tant’è che nella progressività del tempo, strutture embrionalmente
arcaiche e farraginose si affinano, si esemplificano e si esaltano e altre, meno provvide
di razionali interventi integrativi e correttivi, scompaiono lasciando spesso le flebili
tracce di un singolare riferimento cartaceo, monumentale o toponomastico. A tali e
tanti reperti di tal genere è da ricollegarsi nella zona, in epoca bizantino-normanna,
l’attivazione di poderosi complessi monastici 6 che proiettavano la loro composita
influenza nelle località circostanti e sollecitavano le popolazioni a mutuarne, per una
vita più decorosa, vissuta all’insegna del Cristo vivente (gli echi di un Medioevo dalla
cristologia totalizzante si spegneranno, almeno in questi ambiti, al di là dei limiti
cronologici dell’età considerata) e, quale migliore antidoto ai secoli bui dell’estremo
stato di bisogno (carestie, pestilenze, balzelli e iura feudali d’ogni sorta) per la
stragrande maggioranza delle popolazioni sanfilese e rendese, regole ed istituti. In
realtà lo stato feudale nelle sue gattopardiane metamorfosi all’alba dell’età moderna e
in occasione dell’affermazione del potere ispanico in Italia e del prepotere e della
prepotenza dell’aristocrazia filo-asburgica nel vicereame di Napoli, particolarmente
eclatante durante l’impero di Carlo V (è passata alla storia la meraviglia
dell’imperatore di fronte all’eccezionale sfarzo del principe Sanseverino), aveva
assistito ad un ulteriore cambio della guardia. Nella prima metà del 1500, nel castello
baronale di Rende, si erano installati gli Alarcon (poi anche Mendoza), marchesi della
Valle e grandi di Spagna 7 il cui dominio si protrarrà fino al «decennio
dell’occupazione militare francese». In quel clima le nostre contrade soffrivano
ricorrenti sbandamenti economici, determinati da endemiche contrazioni delle
richieste e dalle insufficienti capacità delle domande, stante fatalistiche arretratezze
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tecnologiche e insufficienti possibilità di mercato ove grande ruolo giocava
l’inadeguatezza viaria, risalente all’epoca romana ed assolutamente obsoleta. Eppure
grandiosa diffusione andava assumendo l’industria serica di derivazione bizantina. I
contadini non tardarono, emotivamente allettati dalla nuova coltura circonfusa da
magia di ricchezza, a rivedere la metodologia coltivatoria e a rinnovare le fertili
campagne, disboscando e distruggendo querceti, vigneti ed alberi da frutto per far
posto ai gelsi mori. Cosi, nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII, a Rende e San Fili
(di cui è prova l’immensa congerie dei protocolli notarili), quella produzione fu al
primo posto nelle attività economiche e nel costume delle genti: non vi fu dote di
sposa, anche di umili condizioni, testamento pubblico o privato che non abbondasse
del richiamo a quella primordiale fonte di ricchezza 8. La stabilità politica e le
considerevoli possibilità commerciali e di ricchezza, offerte dalla nuova produzione,
per alcuni decenni costituirono il sogno di un benessere materiale e terreno fino ad
allora ignoto e proibito, per i più, nelle nostre contrade. Quel rinnovato bisognointeresse non mancò di sollecitare e richiamare maestranze e mercanti forestieri che
divennero, in breve tempo, gli esponenti più agguerriti di quella «nostrana» borghesia
degli affari e dell’intraprendenza e, dopo aver eroso il potere del feudatario (distante
per buona parte dell’anno dal feudo e sempre più affievolito per l’apatia del lusso
napoletano, fomentato anche dalle autorità centrali del reame), assunsero «de facto» il
controllo degli organismi municipali.
È un processo che durerà a lungo, forse troppo a lungo e, al di là dei «se» e dei «ma»
si svolse con lentezza storico-sociale esasperante. Tant’è che per assistere
ufficialmente (anche se già da lungo tempo, pur operando in connessione e nelle
immediatezze del mitico marchese essi ne rappresentavano il corrispettivo tangibile e,
forse neanche tanto veritiero, di un’autorità e di un potere particolarmente temuto),
all’imprimatur dei Vercillo, dei Magdalone, degli Zagarese, dei Miceli, dei Gentile,
dei Mazzulli, dei Perugino, dei Pastore ecc, quale classe egemone occorrerà attendere
il 1700 e la timida politica riformatrice dei Borboni che, paternalisticamente, si
occupavano dei loro sudditi 9. Ma essa non riuscì a scalfire l’ormai secolare
provincialismo, tutto pompa ed emulazione (costante è la ricerca di titoli nobiliari e la
caccia a feudi e suffeudi, pagati somme altissime, è all’ordine di quel secolo) e
l’atavica vessatorietà sui ceti più umili ed indifesi. Allora la lungimiranza della Chiesa
divenne punto di riferimento non solo spirituale e devozionale ma anche e soprattutto
sintesi stimolate, aggregante e risolutiva per le problematiche socio-economiche della
enorme massa dei fedeli bisognosi, di cui se ne temevano, anche a livello locale, già
all’indomani dell’imponente ed irreversibile scissione luterana (sec. XVI), i sintomi
decadenti dell’indifferenza e dell’apatia a danno dell’ordine terreno faticosamente
ottenuto ed accettato. Sul monito dei padri conciliari dell’«ecclesia semper formanda
pro vitae suae», dovunque si avvertiva l’esigenza di una nuova stagione religiosa
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
all’insegna del ritorno costante ed effettivo al messaggio evangelico sulla trilogia
dell’amore, della carità e della fratellanza. Nella assoluta necessità della presenza e
dell’adattamento al «sacro» anche alla luce della storica capacità di flessibilità e di
validità della sua gestione a tutti i livelli, si assisteva ad una ripresa su larga scala di
iniziative e di opere che, nate e strutturate su quel modello, non tardarono a
ricompensare (come era nell’aspettativa dei suoi componenti) anche le immediatezze
del «profano». Le punte avanzate in quell’opera di riscossa furono, ancora una volta,
rappresentate dall’umiltà e dal sacrificio degli ordini mendicanti (francescani e
domenicani) e dall’immensa fede popolare, talora virulenta nel suo contrattualismo
parasuperstizioso, nelle somme potestà ed espressioni celesti.
La viva aspirazione al rinnovamento e alla fattività cristiano-cattolica a Rende e a San
Fili si evidenziò con la ricostituzione di strutture ed istituzioni. Nella prima metà del
1500 a Rende, annessa alla chiesa della Madonna delle Grazie, veniva inaugurato, a
poche decine di metri dall’imponente, laica fortezza e dimora patrizia, un maestoso
convento francescano, affidato ai frati minori della particolare famiglia, a squisita
devozione mariana, degli osservanti che ivi rimasero, tra alterne vicende, fino a pochi
anni orsono 10. San Fili, posto in posizione più defilata rispetto al potere centrale,
(poté godere di una relativa autonomia amministrativa) tale non rimase
nell’espressione della sua spiritualità. Quivi, col concorso festante del popolo, veniva
aperto nei primi anni del 1600, in località «Pantano Aceto», annesso alla chiesetta
rurale di Santa Maria degli Angeli, il convento dei minori osservanti della particolare
famiglia dei riformati, eccezionalmente devoti del «crocefisso» 11.
La loro predicazione e la fattività delle loro opere si tramutò, ben presto, in
esemplarità e sprone consortile per i fedeli, anelanti alle certezze evangeliche a fronte
di un’esistenza peregrina sita ai margini della società del tempo. In quel clima di
effervescenza laicale, smarrita di fronte alla totale inefficienza dell’apparato pubblico
a livello comunale (ma erano forse maturi i tempi?) si rinnovarono e rinacquero con
vigore le devozioni e quella mariana svolse tosto, a Rende, un ruolo preponderante. Di
origine antichissima, come tramandato, essa già da secoli aveva espresso l’esigenza di
dedicare piccole cappelle o «cone», all’indomani del concilio di Efeso, 431, alla
Madonna di Costantinopoli, culto che, nel 1600, ebbe il suo culmine con la
costruzione di una chiesa, sussidiata dal marchese Mendoza e dalle famiglie Perugini,
Zagarese e Vercillo poi i membri più prestigiosi dell’omonima confraternita aggregata
a quella di Roma e, come tale, collegata a benefici ed indulgenze 12. Parimenti, in quel
lasso di tempo, presero vigore le congregazioni di S. Giovanni Battista, del Rosario (di
influsso delle bianche lane dei domenicani presenti nei vicini conventi di Cosenza e
Cerisano) e dell’Annunziata. Le mutilazioni documentali, dovute alle calamità della
natura e all’incuria o all’irrazionalità degli uomini, ci hanno conservato le sole Regole
o atti costitutivi, imposti dal dispaccio reale del 29 giugno 1776, delle Congregazioni
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
di Santa Maria di Costantinopoli e di San Giovanni Battista. Ma su di esse ci si
soffermerà tra breve. San Fili, intanto, non era certamente da meno. Dalla visita
pastorale, effettuata il 10 maggio 1684 dal vicario generale dell’arcivescovo di
Cosenza 13, si evince che, allocate nella chiesa parrocchiale, intitolata
all’Annunciazione della B.V.M, vi erano: la Confraternita dell’Annunciazione e/o SS.
Sacramento (i cui membri indossavano, in occasione delle già sontuose ed elaborate
processioni, tuniche bianche con vessillo e croce e generosamente dotata da una
rendita di 61 ducati), saggiamente amministrata dal procuratore laico; quella di S.
Caterina (i cui membri adoperavano indossare tuniche del medesimo colore della
precedente); quella del Rosario, i cui adepti usavano nelle processioni tuniche bianche
con mozzetta color celestino, croce e lampioni. Similmente avveniva nella chiesa dello
Spirito Santo ove era allocata l’omonima congregazione (il cui assenso era stato
ottenuto da Carlo II d’Asburgo, re di Spagna, nel 1674 ad opera di Giuseppe ed
Andrea Formosa), nel tempio della Concezione vi era già un sodalizio di uomini che si
riunivano in tutti i giorni festivi (l’assenso ufficiale sarà molto più tardo); nella chiesa
di S. Giovanni Battista gerosolimitano, la congregazione usava nelle processioni vesti
bianche e croce. Nella particolare chiesa di S. Antonio Abate (per l’annessa «domus
hospitalis») i membri della fratellanza indossavano anch’essi nelle loro processioni
vesti bianche con croce. Per tutte e sette, tranne per quella del SS. Rosario,
l’abbigliamento era uniforme ed identico a quelle similari di Rende. È probabile che
anche e soprattutto in questo ci si rifaceva a precedenti modelli, in particolar modo a
quelli romani. In una successiva visita pastorale del giugno 1762 14, a circa un secolo
di distanza ed effettuata personalmente dall’arcivescovo di Cosenza mons. Michele
Maria Capece-Galeota, si rilevava, con maggiore sottolineatura per quelle dello Spirito
Santo e per l’Immacolata, le congregazioni per eccellenza, l’ancora piena efficienza ed
importanza delle associazioni laical-religiose della terra sancti Felicis anche per
l’integra, costante prevalenza di sentimenti di accoglienza e di partecipazione, a tutti i
livelli, della popolazione. I rapporti confraternali, almeno in ambito gestionale e di
vertice, nel secolo XVIII, che ne segnò la massima espansione e ne decretò la
istituzionalizzazione, non erano affatto idilliaci, per quella necessità di rappresentare la
vastità di esigenze-interessi sempre più materiali e meno spirituali della vetusta,
affievolita tradizione medievale e paleo-cristiana, (le congregazioni amministrarono
fino al secolo XIX cospicui patrimoni) e le frizioni ed i contrasti occasionali e formali
di prestigio celavano scopi di preminenza più gravi ...
Per avere un quadro dei beni posseduti si è provveduto a estrapolarne i dati sommari
nella seguente tabella 15:
San Fili - Catasto Onciario 1742
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
Cappella SS. Rosario (eretta nella chiesa parrocchiale)
Beni: castagneti in località Petronisi, Terriforti e Rovezzo
Rendita: once 83,22
Cappella S. Caterina (eretta nella chiesa parrocchiale)
Beni: castagneto in località Ianni Porcaro
Rendita: once 1,10
Chiesa S. Giovanni Battista
Beni: luogo aratorio in località Monticello e castagneto in località Ortale
Rendita: once 15,10
Chiesa Spirito Santo
Beni: luoghi aratori/castagneti in località Bolette e Candeline
Rendita: once 60
Chiesa Immacolata Concezione
Beni: luoghi aratori/castagneti in località Cocchiano e Cerasuolo
Rendita: once 25
Pio Monte dei maritaggi di zitelle povere del paese, istituito
dal fu Giuseppe Gentile e aggregato alla congregazione
dell’Immacolata Concezione
Dotazione: ducati 29
Cappella SS. Sacramento (eretta nella chiesa parrocchiale)
Beni: castagneti in località Pagliarello
Rendita: once 40,20
Comune di S. Fili - catasto provvisorio - Stato di Sezione - 1814
Cappella del SS. Rosario
Beni: castagneti in località Candelina, Ortale, Iovino, Palazia, Sozze,
Macchia longa, S. Venere e Silvia
Rendita: lire 270.99
Chiesa Immacolata Concezione e Monte
Beni: castagneti in località Candelina, Iovino, Ianni Porcaro, Monachelle,
Poveracchio. Casa in località Timpa
Rendita: lire 168,12
Chiesa S. Giovanni Battista
Beni: castagneto in località S. Maria
Rendita: lire 118,18
Chiesa S. Antonio abate
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
Beni: castagneti in località Candelina, Sozze, Ortale, Iovino, Palazia,
Macchia longa, Silva
Rendita: lire 176,04
Cappella dell’Assunta in Bucita
Beni: gelseti/castagneti in località Giampaolo, Tommarinaro, Vrinco,
Carrere e Piano Ghiande
Rendita: lire 80,71
Comune di Rende - Catasto Onciario, 1743
Congregazione laica di S. Maria di Costantinopoli
Beni: vari in località La Giudecca e Timpone
Rendita: once 210
Chiesa di S. Giovanni Battista.
Beni: vari in località Pica, Frattine, Cerasolo e la Crucicchia
Rendita: once 68,15
Congregazione laicale del SS. Rosario
Beni: vari in località Paramuro, Cerasuolo e Gaudioso
Rendita: once 20
Cappella del SS. Sacramento
Beni: vari in località Sorbato e Ianni Porcaro
Rendita: once 12,15
Cappella del SS. Rosario
Beni: vari in località Paramuro, Ariella e Gaudioso
Rendita: once 43,5
Comune di Rende - Catasto provvisorio - stato di sezione - 1814
Cappella del SS. Rosario e Congregazione
Beni: gelseti/castagneti in località S. Maria della Neve e Pinnacchera
Rendita: lire 60
Congregazione laicale di S. Maria di Costantinopoli
Beni: vari in località Arcavacata e Puzzilli
Rendita: lire 32
Chiesa di S. Giovanni Battista
Beni: vari in località Frattine, Carratella e Vercilli
Rendita: lire 80
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
Cappella del SS. Sacramento
Beni: vari in località Giudecca
Rendita: lire 3
Nel marzo 1730 il notaio imperiale Diego Asta, a San Fili, registrava un incontro al
massimo vertice tra autorità laiche (il sindaco), ecclesiastiche (i due parroci), e
confraternale (il procuratore della cappella e/o congregazione del SS. Sacramento o
dell’Annunciazione). Gli ecclesiastici lodavano le attività svolte dalla confraternita e
manifestavano al sindaco (per ottenerne l’indispensabile appoggio municipale
considerate le presumibili e comprensibili reazioni delle altre associazioni che,
purtuttavia, successivamente vi furono e ne impedirono il pio proposito), l’esigenza di
chiedere la pontificia bolla di approvazione per elevar la suddetta ad arciconfraternita.
Si sottolineava che la richiesta avveniva non per vanità ma per il lustro generale. La
congregazione avrebbe, inoltre, provveduto a rafforzare l’impegno nelle opere di
assistenza e alle autorità comunali si sarebbe garantito, per l’avvenire e a promozione
ottenuta, le due pissidi a sfera, l’incensorio, il pallio, sacro ombrello per le pompe
magne, le pianete e la cera per tutte le festività di devozione e, in particolare, per
quella dell’Immacolata, la protettrice del paese.
I due parroci, così benevoli, venivano invitati a far seppellire i fratelli congregati
nell’apposita sepoltura riservata, esistente nella chiesa matrice, senza esigere alcun
obolo per le cerimonie funebri. Ma il tentativo di coinvolgimento, a livello locale, dei
maggiori rappresentanti del potere reale, non sortì, per l’oggettiva incapacità
dell’organo di autogoverno dell’università (il rinnovo delle cariche, appannaggio delle
famiglie magnifiche del ceto borghese in gelosa concorrenza anche nella gestione del
sacro, di cui erano magna pars, in pratica paralizzava iniziative e decisioni di una certa
rilevanza se si eccettuavano normali e superficiali attività di routine), la generosa,
agognata soluzione. Eppure quel genere di confraternite, sintomatiche del periodo
controriformistico e collegate all’affermarsi della festa del Corpus Domini, nei secoli
XVI e XVII avevano dilatato enormemente la loro importanza e la loro diffusione. Nel
1538 il domenicano Tommaso Stella aveva fondato una Confraternitadel SS.
Sacramento presso la chiesa di Santa Maria della Minerva in Roma, che Paolo III
approvò con bolla del 1539, indicandola esplicitamente come modello a quelle future.
Nei decenni seguenti il continuo arricchimento di indulgenze, l’interessamento papale,
lo sforzo concorde di vescovi, vecchi e nuovi ordini religiosi, avevano trasformato le
confraternite del SS.mo Sacramento in uno dei più efficaci strumenti di organizzazione
dei fedeli; se ne trovavano infatti, almeno in Italia ed in Francia, quasi in ogni
parrocchia, ove costituivano spesso un nucleo ristretto di fedeli, fra i più agiati e
socialmente preminenti, sicuri collaboratori del clero parrocchiale nello stimolo al
rinnovato culto eucaristico. Compiti dei confratelli erano, soprattutto, il decoroso
accompagnamento del viatico quando esso veniva recato ai moribondi, il
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
mantenimento dell’altare del SS.mo, presente in tutte le chiese parrocchiali, la
partecipazione alle processioni mensili e quella annuale del Corpus Domini, il
coordinamento dell’attività caritativa della parrocchia e soprattutto l’obbligo della
comunione frequente, in ottemperanza al nuovo orientamento, in materia, sancito dal
concilio di Trento. Su iniziativa diretta della santa Sede era avvenuta una
mobilitazione senza precedenti del laicato che, per la prima volta nella storia moderna,
veniva inserito in un disegno complessivo e combinato, guidato e gestito, a tutti i
livelli, dalle gerarchie ecclesiastiche che, a mente delle carenze delle organizzazioni
medievali, si affrettavano a fornire direttrici e coordinate 16.
Quell’incoraggiamento, nel corso del ’500-700, aveva sortito, a fronte di una ripresa
solidaristica, l’erezione di confraternite in ogni parrocchia e l’elevazione ad
arciconfraternite delle omonime confraternite romane cui, brevi e bolle pontificie,
avevano concesso il privilegio di aggregare tutte le congregazioni dello stesso titolo e
di renderle partecipi alle generose indulgenze e ai benefici spirituali. Ma San Fili
rimaneva, pur sempre, un piccolo centro collinare con tutte le caratteristiche di altre
similari località della periferica provincia di Calabria Citeriore e, a dimostrazione della
fluidità di quei rapporti e di quelle fortune, la Confraternita del SS. Sacramento, già
desiderosa di maggiori fortune presenterà, nell’arco di alcuni decenni, aggredita anche
dalla legislazione regolamentatrice del regalismo borbonico di ispirazione tanucciana
(1750-1780) un imprevedibile, repentino declassamento. L’8 giugno 1806, un atto del
notar Serafino Parise, registrando un incontro al vertice tra i priori delle confraternite,
circa ordine e precedenza nelle processioni, ci dà il numero, la misura e la consistenza
dei nuovi e, potremmo dire definitivi (visto che tali si riproporranno fino all’avvento
del Fascismo), rapporti di forza. Alla presenza del notaio, infatti, si presentarono
soltanto il priore della Congregazione dell’Immacolata e quello dell’Arciconfraternita
dello Spirito Santo che, sulla base della convenzione del gennaio-aprile 1793,
ribadivano, in perfetta sintonia, l’ordine di tutte le processioni di «loro» pertinenza e,
in considerazione dell’irreversibile tramonto della vivace-litigiosità dei secoli
precedenti e della decadenza numerica, soli attori privilegiati decidevano ed
imponevano anche alle altre cappelle (le ormai ex congregazioni giuridicamente
sfibrate dalla mancanza di regole e di assenso), privilegi e turnazioni. Ma come non
addebitare quella generale mancanza di tenuta al mutato clima socio-economico che
aveva reso la classe dei «magnifici», uscita indenne dalla flebile fiammata della
Repubblica napoletana, assuefatta al controllo costante e sistematico di quelle
associazioni, attenta alle nuove opportunità offerte dal momento storico contingente?
La fonte tradizionalmente privilegiata per lo studio delle confraternite, soprattutto
sotto l’aspetto della loro organizzazione societaria (modalità di ammissione dei
confratelli e loro impegni devozionali, morali ed economici; meccanismi di elezione
alle cariche societarie e funzioni e limiti di queste) sono gli statuti o regole.
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
Normalmente ogni confraternita, giunta ad una certa fase di organizzazione e di
stabilità della sua vita sociale, avvertiva la necessità di fissare in forma cartacea ed
organica il complesso di impegni, di norme e di comportamenti e, oserei dire di
brevettare, le consuetudini che costituivano la ragione ed i modi del suo costituirsi. Era
il momento della formulazione della sua «magna charta», di solito democraticamente e
all’unanimità approvata dall’assemblea plenaria dei confratelli alle cui prescrizioni ci
si doveva uniformare. Per le località in oggetto, assidue ricerche hanno permesso di
reperire le Regole delle seguenti confraternite: Rende: S. Giovanni Battista e S. Maria
di Costantinopoli; San Fili: SS.ma Immacolata e Spirito Santo.
Esse si caratterizzano per la loro monotona e minuziosa insistenza sulle eccessività
burocratiche della vita confraternale: la modalità dell’elezione degli organi direttivi e
le punizioni ed ammende ai contravventori alle norme statutarie. In realtà aspetti
particolari che assumono un’importanza sproporzionata rispetto agli scopi ed alle
funzioni nella dialettica interna del sodalizio.
Ci si avvede, anzi, che gli statuti si somigliano in maniera eccessiva e sorge spontaneo
il sospetto che, al momento della loro formale e regale istituzionalizzazione, si
tenessero presenti precedenti formulari di altre similari organizzazioni con le
medesime caratteristiche devozionali o caritative già «in loco» o in altre località più
importanti o, sic et simpliciter, recepite dall’arciconfraternita cui ci si aggregava.
Ad un esame più approfondito, pur con i limiti e le cautele dovute alla carenza quasi
generale di genuinità per i motivi suesposti, le Regole rimangono la fonte ufficiale per
eccellenza, e più vasta, per conoscere, non solo le strutture associative e i loro impegni
devozionali, mutualistici e caritativi, ma anche la religiosità di quel micromondo
laicale in quanto furono testi di formazione spirituale. A voler renderne testimonianza
dettagliata, lo statuto della venerabile congregazione sotto il titolo della Madre di Dio
di Costantinopoli della terra di Rende, è preceduto, a tenore del reale rescritto del 29
giugno 1776 (che, ricordiamolo, ingiungeva a tutte le confraternite laicali di
«regolarizzarsi»), da una supplica nella quale si specificava la sua presenza a Rende,
fin dai principî del secolo precedente, inizialmente come associazione spontanea di
fedeli e solo in seguito con ... «regole da osservarsi nell’esercizio di devozione,
sussistenza e governo della congregazione» e, si lamentava, che solo l’ignoranza ne
aveva impedito, in quel tempo, la richiesta del sovrano beneplacito17.
Il priore pro-tempore Vitale Perugini ed il dottore in legge Giovanni del Bianco, 1°
assistente, insieme ad alcune decine di supplicanti, tra cui si notavano le firme di
membri delle famiglie Magdalone, Vercillo, Mandarini, Monaco, Perugini e del pittore
Cristofaro Santanna, seguiti da un considerevole numero di crocesegnati
(l’analfabetismo nella Rende di quel tempo, forte di circa 4.000 anime, era
diffusissimo), a tangibile dimostrazione che la richiesta era avvertita e coinvolgeva
anche larghi strati popolari, sottoponevano al Re l’approvazione di Regole cui, già da
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
antica consuetudine, si uniformavano i confratelli. Otto capitoli, sinteticamente, ne
illustravano il modus operandi. Nel primo ci si occupava del governo spirituale e vi
era compendiato il catalogo del bravo cristiano (partecipazione alle messe e alle
orazioni prescritte e, in particolare, alle processioni con l’assistenza del padre
spirituale ecc.), in tutto seguendo le norme dell’arciconfraternita di Roma. Il capitolo
2° presentava le norme per l’elezione del priore e degli ufficiali maggiori. Il priore
insieme ai suoi assistenti, il segretario ed il cassiere venivano eletti il 1° gennaio di
ogni anno: si chiariva subito che il superiore e gli altri dovevano essere laici ed eletti a
maggioranza di voti senza ulteriori qualità. Nel capitolo 3° si elencavano gli obblighi
rigorosi degli adepti: la presenza in congregazione, l’obbedienza al priore, la
proibizione di giocare a carte, ai dadi e soprattutto in pubblico ... Il capitolo 4° si
occupava del «noviziato». Al priore era ingiunto di assumere tutte le adeguate
informazioni circa le qualità morali e spirituali dei richiedenti. La loro ammissione, in
prova per un anno solare, era sottoposta al vaglio dell’assemblea, congregata al suono
delle campane, «more solito», ed accettata a maggioranza semplice. Il capitolo 5°
concerneva i doveri dei confratelli verso gli altri membri e i carcerati. Il capitolo 6° si
occupava degli obblighi verso i fratelli defunti. È solo in questo lungo articolato che la
congregazione, autodefinitasi superbamente arciconfraternita, fissava in maniera
rigorosa l’omaggio verso i confratelli deceduti (intervento in processione, vestiti col
solito abito e sepoltura gratis nell’apposito luogo della Chiesa, messa e litanie ecc). Il
capitolo 7° trattava dell’ufficio del priore e degli ufficiali maggiori e ne fissava norme
rigorose circa il loro mandato e le loro responsabilità soprattutto finanziarie. Nell’8°
ed ultimo capitolo, esaurita la pedissequa normativa sociale e dirigenziale delle
precedenti, si imponeva, senza retorica, ed in tono minore, l’assistenza materiale del
personale da fatica: sagrestani e portinai. In tutto l’impianto, soltanto nel tratteggiare la
figura e l’opera del maestro dei novizi, fa capolino, quasi sornionamente, l’esigenza
classista che esso fosse persona di buona condizione ... Dopo aver messo in chiaro la
salvaguardia dei diritti del parroco, responsabile in ambito locale della politica
ecclesiastica della Santa Sede e, dopo aver chiarito in maniera inequivocabile che
eventuali adepti in talare non avrebbero dovuto avere né voce attiva né voce passiva,
fatta salva la vincolante osservanza del Concordato del 1742, si chiedeva la regia
autorizzazione, poi ottenuta il 7 aprile 1777. Le Regole della Congregazione di S.
Giovanni Battista constavano, invece, di ben 50 articoli che, per comodità di
interpretazione, si possono suddividere in parti. Nella prima parte, strutturata sui primi
otto articoli fondamentali, si fissavano gli scopi umanitari ed intersocietari
dell’associazione (esercizio della carità verso gli aggregati e verso il prossimo) e gli
interni doveri dei confratelli nei riguardi del sodalizio (presenza alle periodiche
riunioni e improrogabilmente in occasione delle pubbliche processioni ordinate alla
chiesa parrocchiale e altre solenni particolarità in usuale abbigliamento: sacco e
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
cingolo). Quivi ci si soffermava a rammentare che la prassi imponeva la precedenza al
clero secolare regolare e alle altre congregazioni fornite soltanto di assenso più antico
e, quindi, senza altre prerogative. La seconda parte (artt. 9-13) aveva per oggetto
l’ammissione dei confratelli. Se ne precisavano, dettagliatamente, i limiti (buona
condotta, noviziato per sei mesi, versamento di 46 carlini fino all’età di 20 anni e per
un massimo di 57 carlini, considerata l’età e le condizioni dell’aspirante senza
eccezioni per laici ed ecclesiastici. La terza parte, composta di cinque articoli, si
soffermava sui benefici dei quali godevano i confratelli in vita ed in morte (esequie a
totale spesa della confraternita, sussidio quotidiano ai membri colpiti da malattie
stagionali, previa esibizione dell’attestato di un dottor fisico di fiducia
dell’istituzione). La quarta parte constava di un vasto articolato (ben 16 articoli) e
fissava le norme per l’elezione del governo della congregazione laicale. A parziale
variante degli statuti della precedente confraternita, testé analizzata, quivi si stabiliva
che l’elezione dei novelli reggitori (priore, assistenti, segretari e cassiere ecc.), doveva
avvenire, a scadenza annuale, nella terza domenica del mese di dicembre. Minuzioso
era, a tal proposito, il rituale. Il segretario uscente doveva preparare una nota di tutti
gli aggregati ultratrentenni, alfabetizzati con almeno un quinquennio di militanza
confraternale e non debitori verso la pia associazione o i monti ad essi collegati. Al
padre spirituale era affidato l’importante compito di illustrare brevemente le mansioni
agli eleggendi la cui giubilazione doveva avvenire a maggioranza nel segreto della
bussola e coronata dall’intonazione dell’inno ambrosiano. L’insediamento avveniva
nel capodanno successivo e, in quell’occasione, essi provvedevano alla nomina dei
collaboratori: segretario, fiscale, maestri dei novizi e delle cerimonie, sagrestano. Al
disbrigo-controllo degli affari economici, ossia la Banca, era delegato il cassiere,
estratto da una terna di fratelli probi. Nella quinta parte, pochi ed essenziali articoli
impegnavano gli ufficiali ad una saggia amministrazione morale e materiale dell’Ente.
La parte sesta, di 14 articoli, pontificava vagamente sulle attività sociali e sulle opere
di beneficenza e di carità dei propri aggregati verso il prossimo anche in
collaborazione con le altre pie associazioni. In particolare si impegnavano gli aderenti
a prestare, in certi giorni ed ore stabilite, l’assistenza nei pubblici ospedali-ospizi per
sollevare, servire ed istruire gli infermi (viventi immagine del Cristo sofferente) o
l’assistenza agli infermi poveri del paese, visitare le carceri per alleviare la penitenza
dei detenuti, occuparsi degli orfani indigenti per avviare loro verso un’arte od un
mestiere per poter vivere onestamente, far loro evitare ribalderie, bettole, giochi od
altri luoghi di scandalo ed invogliarli a seguire le sacre funzioni.
Nella parte finale, quella moderna o delle novità, a corollario si ricordava la necessità
del regio assenso, l’indispensabile riconoscimento per l’esistenza giuridica della
confraternita nell’esatta osservanza dei disposti delle autorità laiche ed ecclesiastiche e
la possibilità di aggregare le «sorelle», con approvazione assembleare e del parroco.
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Ma la già difficilissima probabilità era, ulteriormente, messa in sordina in quanto alle
sorelle, non sarebbe stato, giammai, permesso di partecipare ad attività amministrative
e la loro carità, come era comprensibile in un radicatissimo, provinciale maschilismo
di uomo, padre e padrone, si poteva esercitare inevitabilmente solo verso altre
consorelle. Lo statuto organico della sanfilese Arciconfraternita dello Spirito Santo,
ottenne la regia sanzione, mercé supplica di prammatica al Re di un considerevole
numero di congregati, il 3 aprile 1781. Nel preambolo si faceva riferimento alle sue
antichissime origini storiche, collegate alla presenza in loco di una chiesetta di S.
Maria di Costantinopoli e alla protezione che la madre di Dio aveva offerto a quella
fedele cittadinanza, «nella peste del 1656 (suo simulacro era stato portato in
processione e il flagello non aveva mietuto vittime) e nel 1660 (allorché stuoli
immensi di bruchi devastarono le campagne). Fu in quell’occasione che il mag.co
Francesco Palermo, sindaco della comunità, e i parroci, avevano stabilito di far
celebrare a spese pubbliche la festa della Madonna il martedi della Pentecoste. Le
continue manifestazioni di benevolenza di tanta protettrice aveva tanto entusiasmato la
popolazione che, nel 1674, i magnifici Giuseppe ed Andrea Formosa avevano ottenuto
da Carlo II d’Asburgo, re di Spagna, il sovrano assenso per costituire un regolare
congregazione. Però «onde attenersi a rigore al solo titolo e pensando forse celebrarsi
tal festa il martedi della Pentecoste perché allora la discesa dello Spirito Santo
autenticasse la divina maternità di Maria, composero ambe le feste e domandarono
l’assenso sotto il nome dello Spirito Santo ... ma la chiesa era ormai angusta e il priore
don Franchino Gentile fu il promotore della fabbrica della nuova congregazione,
perfezionata dopo moltissimi anni. Intanto, l’errore nel titolo, l’introduzione ivi di S.
Francesco di Paola, il disfacimento della famiglia Maida e la crisi di quelle Gentile e
Formosa, le maggiori rappresentanti della paesana "pietas", la costituzione della
congregazione dell’Immacolata, raffreddarono la devozione e resero quasi ignoto il
titolo originario per cui dicesi che financo la statua di S. Maria di Costantinopoli fosse
stata venduta ai rendesi» 18. Tali e tante altre le chiarificatrici informazioni forniteci,
alcuni decenni dopo, da un ecclesiastico dell’Ottocento della Calabria Citeriore, autore
di alcune opere di carattere sacro, molto dotte ed impegnate, almeno per quei tempi.
Pertanto, con l’orgoglio di una sperimentata tradizione, nei preliminari si faceva
riferimento all’abito-uniforme adoperato dagli adepti nelle prescritte sacre cerimonie:
sacco bianco, mozzetta rossa e cappello bianco. Tra i supplicanti si segnalavano
membri delle famiglie Maida (il priore pro-tempore), Gentile, Mazzulla(i), De Simone,
Carelli, Asta, San Marco, Salerno e Parise, ossia la consueta passerella della borghesia
medio-alta, già presente nelle altre congregazioni contermini, e le croci, firme di una
robusta quantità del popolino. A quel memoriale erano allegate le Regole, distribuite
in capitoli. Nel 1°, quasi a voler evidenziare in forma marcata la suprema finalità del
perfezionamento e salvezza dell’anima degli aderenti, si trattava dell’ufficio del padre
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
spirituale (laico od ecclesiastico, indicato da priore ed eletto, a maggioranza,
dall’assemblea) per assistere e guidare l’attività spirituale dei confratelli. Il 2° capitolo
si occupava, con minore enfasi, dell’elezione, a capodanno, dei responsabili maggiori
dell’associazione. La prassi indicata, quasi ricalcava quella dell’Arciconfraternita della
Madonna di Costantinopoli di Rende con una singolare variante: gli eleggibili (quattro
confratelli segnalati dal priore uscente) dovevano essere probi ed assidui alle
manifestazioni della congregazione. Nel 3° capitolo si definivano, con estrema
puntigliosità, gli uffici del priore e dei suoi due assistenti, in particolar modo, nella
loro veste di vigilanti sulla partecipazione dei congregati alle riunioni e alle
processioni (S. Francesco di Paola, Giovedì santo ecc.), e sull’attività del tesoriere,
investito di responsabilità materiali non indifferenti. Così nei successivi capitoli 4° e
5°, circa i doveri degli ufficiali minori si specificava, ricollegandosi organicamente al
capitolo precedente, che il cassiere o l’addetto alla Banca (materialmente la localitàdeposito ove si amministravano i beni comuni mediante le diffusissime operazioni di
entrata e di uscita per lo sviluppo della rendita patrimoniale), fosse un confratello
probo, onesto e, soprattutto, per evitare tentazioni di sorta, facoltoso. Ed essendo, per
di più, quello il compito più delicato e gravoso, lo si affiancava, almeno per la
riscossione delle censuazioni (diffusissime per tutto il ’700) con un procuratore ad
exigendum. E, occupandosi, con fugace prammatismo, di problemi più eterei, si
snellivano le procedure per l’ammissione dei neoadepti (la condotta morale del
novizio, solo per tre mesi, era sottoposta la controllo del maestro ad hoc che
esercitava, pertanto, l’importante ed autarchico diritto di imprimatur o di veto). I
doveri di tutti i confratelli si estrinsecavano, inoltre, nella costante partecipazione alle
assemblee e alle processioni ove tutta la confraternita, vestita a festa col tradizionale
abito, manifestava la sua capacità organizzativa non solo coreografica ... E, dulcis in
fundo, si richiedeva l’impegno di versare, nel gennaio di ciascun anno, 12 grana al
tesoriere.
Alfine si poteva prendere visione del sovrano beneplacito che, sulla falsariga di quanto
disposto dalla legislazione in vigore, imponeva di evitare ammortizzazioni, preservare
i diritti dei parroci nelle esequie od altro ed escludere da voce attiva e passiva
esponenti del clero, resisi membri della prestigiosa congregazione.
Nell’autunno 1776, corrispondendo con tempestività alle disposizioni governative del
Regno, il priore, gli altri officiali e confratelli della venerata confraternita eretta in San
Fili sotto il titolo della SS. Vergine Immacolata Concezione, dopo aver ottenuto da
don Gaspare Miceli, il maggior proprietario della comunità, i 60 ducati necessari,
avviavano alla Real Camera di S. Chiara di Napoli, la pratica di legittimazione. La
richiesta, come per prassi corrente, aveva ottenuto le firme di membri delle famiglie
Blasi, Granata, Capizzano, Gentile, Miceli, Leone, Bruzzano, Parise e Pellegrino e la
partecipazione di un numeroso stuolo di crocesegnati, ossia quasi un facsimile della
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
precedente. Su tale falsariga sono redatte le Regole, articolate in nove capitoli. Nel
primo, tanto per ... non cambiare, si fissavano le modalità circa la elezione e l’ufficio
del padre spirituale (monaco o prete) nell’istruzione e l’assistenza ai confratelli, con
particolare pietà verso quelli infermi e moribondi. Nel 2° capitolo, nel trattare
l’annuale elezione, a capodanno, dei maggiori reggitori del sodalizio (priore ed
assistenti), si ripeteva il solito rituale delle altre pie associazioni ma ... si specificava
che gli eleggibili fossero fratelli probi e del ceto civile. Sarebbero stati gli eletti,
insediatisi nella settimana successiva alla loro proclamazione, a nominare il tesoriere,
il procuratore ad exigendum e gli altri collaboratori minori. Il 3° capitolo, occupandosi
della ricezione dei novizi, enunciava un rito macchinoso ma privo di oggettiva
difficoltà (il noviziato quivi era ridotto addirittura ad un solo mese di assistenza alle
sacre funzioni e ad indicare solo simbolicamente lo stato di inferiorità: una torcia di
cera). La riduzione-semplificazione era la spia privilegiata della robusta necessità, non
soltanto formale, di sostenitori. Nel 4° capitolo si fissavano le norme generali per tutti
i congregati (partecipazione assidua ai sacri uffici della confraternita ove agli
analfabeti era acconsentita la sola recita del rosario) e, en passant, ci si soffermava sul
versamento di sei grana al procuratore ad exigendum nel gennaio di ciascun anno.
L’omissione o l’inesatta osservanza di quest’ultimo dovere, poteva produrre, senza
mezzi termini, la perdita di agevolazioni e privilegi. In appendice si segnalava la
presenza, in seno alla congregazione, di un pio monte, costituito da beni stabili e censi,
cui potevano partecipare, indifferentemente, mercé il versamento mensile di soli due
grana, fratelli e sorelle. L’adesione a questo particolare istituto avrebbe comportato,
almeno, l’automatica celebrazione, post-mortem, di trenta messe in suffragio. Nella
parte finale del capitolo si rammentava l’importanza della confessione (nelle prime
domeniche di ogni mese) e nelle ricorrenze dell’Immacolata Concezione, protettrice
del paese (come da atto rogato il 7 dicembre 1707 da Gennaro Luchetta), di S.
Giuseppe, S. Pietro, S. Andrea, S. Antonio di Padova e S. Tommaso, per poter
usufruire delle indulgenze plenarie concesse, a tal riguardo, dai papi. Non era
obbligatorio, essendo normale consuetudine, ma in quelle cerimonie si interveniva con
camice, cingolo, mozzetta e copricapo, rigorosamente in bianco. Nel 5° capitolo, circa
i compiti del priore, del primo e del secondo assistente, si sottolineava la necessità
della loro vigilanza-supervisione alle attività dell’ente e le funzioni di rappresentanza,
oserei dire esterna, con gli altri organismi della vita cittadina. Nel capitolo successivo,
nel delineare gli obblighi delle cariche minori (maestro dei novizi, cerimoniere i due
infermieri per l’assistenza domiciliare e quotidiana agli adepti aggrediti dai diffusi
morbi, si aveva cura di sottolineare che il tesoriere (unanimemente ritenuta nel mondo
confraternale la carica più profana e più impegnativa dopo quella del priore), doveva
essere confratello probo e facoltoso e così ci si esprimeva per il procuratore ad
exigendum. Così, il 13 febbraio 1777, veniva concesso il regio assenso ed il 7 marzo
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
successivo, alla presenza dell’attuario, in rappresentanza della corte marchionale di
Rende, il priore della congregazione, Francesco Antonio Blasi, veniva immesso nel
«vero, reale e corporale possesso di Regole, esercizi e privilegi della suddetta». Nel
1930, a distanza temporale di tanti lustri che avevano visto il costante succedersi di
eventi e mutazioni politiche d’ogni sorta, il podestà di San Fili, con sua nota,
ingiungeva all’ultimo priore della Confraternita dell’Immacolata di attenersi alle
severe restrizioni del r.d. 30-12-1923 ossia ad annullare ogni prosieguo della secolare
attività. Quelle che per alcuni secoli erano state la manifestazione-espressione più
intraprendente dell’attivismo del sentimento religioso, resosi pietas organizzata in
funzione solidaristica per particolari emergenze e contingenze in ambito locale,
(laddove macroscopicamente si denunciava l’assoluta deficienza di organismi pubblici
deputati alla bisogna) erano sopravvissute, nonostante la semplicità delle loro strutture,
a legislazioni regalistiche ed antiecclesiastiche, in pieno secolo XX, seppure
stancamente, pensavano di rendere ancora un contributo alla devozione dei «loro»
fedeli. Ma all’indomani dei Patti Lateranensi del 1929, il Fascismo, ormai consolidato,
faceva sì che quei sopravvissuti focolari confraternali, pubbliche palestre sempre più
vetuste di sostegno, di soccorso e di civismo, venissero condannate, per consunzione
all’anacronismo irreversibile e alla loro fine più ingloriosa.
Note
1 ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA, Opere Pie-Affari Speciali, 1849-1862, Rende e San
Fili, B. 3.
2 ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA, Opere Pie-Affari Speciali, 1828-1860, Comune di
Rende, B. 36.
3 F. RAO, Presenza ecclesiale nel territorio di San Fili dal secolo VI al XIX, Cosenza 1987, p.
35.
4 Bollettino delle Leggi del Regno di Napoli, 1806, ad vocem.
5 F. RAO, Presenza ..., p. 9.
6 Ibid., pp. 13-17.
7 F. FONTE, Rende nella sua cronistoria, Chiaravalle C.le 1976, pp. 155-162.
8 ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA, Notar Cesare Morcavalo, Atti notarili, 1592, f. 41;
Notar Gian Domenico Carini, Atti notarili, 1614-1616.
9 F. FONTE, Rende della ..., p. 302-303.
10 Ibid., p. 287-293.
11 F. RAO, Presenza ..., pp. 48-50.
12 F. FONTE, Rende nella ..., pp. 282-285.
13 ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, Registro della Visita Pastorale del Vicario generale
dell’Archidiocesi di Cosenza nell’anno 1684.
14 Ivi, anno 1762.
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FRATERNITE E CONFRATERNITE LAICALI A RENDE E SAN FILI (SECC. XVIII-XX)
15 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Catasti onciari - Rende e San Fili 1742-1743;
ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA, Catasto murattiano - stati di sezione delle comuni di
Rende e di San Fili.
16 G. ANGELOZZI, Le confraternite laicali, Brescia 1978, pp. 39-50.
17 ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA, Opere Pie-Affari speciali, 1810-186o, Rende, B.
35.
18 G. VERCILLO, Origine e progresso del culto di S. Maria di Costantinopoli, Napoli 1834,
pp. 84-86.
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LA SECONDA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI ROVITO
LA SECONDA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI ROVITO
Gustavo Valente
Delle due confraternite esistenti in Rovito sotto la medesima invocazione
dell’Immacolata Concezione nulla si sapeva prima che Mario Perfetti, lo storico
documentato della sua Rovito, ne facesse più che un cenno in un suo articolo su La
Chiesa ed il Convento della Riforma di Rovito 1.
La prima notizia che si ha al riguardo - ce la riferisce lo stesso Mario Perfetti - risale al
1694, a quando i frati del Convento della Riforma, intitolato a S. Pietro, «contendono
alla Congregazione dell’Immacolata Concezione, che ha sede nella Chiesa di Santa
Sofia in Rovito, la celebrazione della festa ma inutilmente, ché un decreto del Vicario
Generale dell’Archidiocesi di Cosenza risolve il contrasto in favore della seconda e l’8
dicembre essi partecipano con La Croce e quadretto di S. Pietro titolare di detto
Convento alla processione della Statua dell’Immacolata, fatta scolpire in Napoli e
consegnata ai Confratelli nel precedente mese di Aprile».
È chiaro il legame che ormai avvicina il Convento e la congrega, ribadito, per altro, da
una permuta di terreno 2, si va stringendo. Fino a che, avvalendosi della Costituzione
Pontificia di Benedetto XIII, del primo aprile 1727, che concede a tutto l’Ordine di S.
Francesco di poter erigere in Roma nella loro Chiesa di Santa Maria in Ara Coeli
arciconfraternita sotto il titolo dell’Immacolata Concezione, con la potestà di dare
licenza d’istituirne altre in qualsivoglia luogo dell’orbe cristiano tanto soggetto quanto
non soggetto al medesimo Ordine, e potere quelle erigende aggregare a quella di
Roma, non si pensa di avvalersi di quelle norme per dar vita alla congrega di Rovito.
Ed infatti, il Padre Generale fra Crescenzio Krisper, concede al Padre Provinciale P.
Francesco da Figline «di poter eriggere Confraternità sotto l’istesso titolo
all’Immacolata Concezione nella Chiesa di S. Pietro Apostolo» di Rovito 3. Rilasciata
delega a fra Serafino Marra da Celico, lo stesso, assieme a P. Francesco da Figline, fra
Pietro di Cosenza, guardiano, fra Giovan Battista da Cosenza, Vicario, fra Gabriele da
Rose e fra Antonio da Spezzano Grande, «Sacerdoti abitanti di famiglia nel Convento
di Rovito» si costituiscono da una parte per la stesura dell’atto.
Dall’altra parte si costituiscono quelli che saranno i fondatori della congrega, e cioè «li
Signori Rev. D. Giacinto, Rev. D. Saverio, Rev. D. Luiggi, Rev. Gennaro, D.
Gioseppe, D. Pietro Antonio Arnedo della città di Cosenza commoranti nel Casale
della Motta, e Revv. D. Giuseppe Arnone, D. Giuseppe Costantino Paroco, D.
Salvatore Arnone Paroco, Rev. Sac. D. Diego Rossi, Cl.co Saverio Falcone, Cl.co
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LA SECONDA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI ROVITO
Nicola Rossi, Filippo Caccuri, Domenico Rossi, D.r Michelangelo Perfetto, D.
Bernardino Sansosti, Pascale Rossi, Domenico Costantino, Diego Bombicino, Tomaso
Litranta, Berardino Bernardo, Marco Donato, Francesco Candelise, Francesco
Bombicino, Andrea Provenzano, Jacinto Bombicino, Ignazio Bernardo, Angelo
Arnone, Ippolito Lavoratore, Emanuele Arnedo, ed Antonio Palazzo».
Tutto ciò accadeva dopo che «il nominato Padre fra Serafino da Celico, portatosi in
questo Casale di Rovito ha fatto sentire alli paesani del medesimo se vi fossero state
persone, che avessero voluto aggregarsi a detta Confraternità perloche, si sono trovati
pronti a detta aggregazione li sopradetti Signori [sono ripetuti i loro nomi] che
volendosi avalere di un tanto beneficio si sono dimostrati pronti a volere essere
Confrati della detta Confraternità erigenda sotto detto titolo dell’Immacolata
Concezione sù di che il sopra detto Padre Provinciale P. fra Francesco di Figline,
volendo procedere con tutto il dovere necessario, ni ha impetato ancora la licenza della
Rev.ma Curia Arcivescovile di Cosenza».
Adempiute quelle prime formalità legali, «volendo mandare in esecutione detta
erettione di Confraternità esso Rev. P. Serafino di Celico, e PP. locali di esso
Convento di Rovito eriggono, e stabiliscono detta Confraternità, sotto il titolo di
Immacolata Concettione nella propria Chiesa di esso Convento sotto il sudetto titolo di
S. Pietro destinando per Cappella, ed Altare di detta Confraternità l’Altare Maggiore
di detta Chiesa, nel quale li Confratelli, e Consorelle doveranno esercitare le loro
funzioni secondo la forma delle Costituzioni Pontificie, le quali essi RR. PP., in tutto,
e per tutto intendono eseguire ed osservare» e tutti i già citati «spontaneamente per
salute dell’anima loro per maggior servitio di Dio, e gloria della sua Immacolata
Madre si aggregano a detta Confraternità, e per godere tutte le indulgenze, che ni sono
state concedute dà Sommi Pontefici; et questo con la fagoltà in futurum di potersi
aggregare altre persone tanto dell’uno, quanto dell’altro sesso per Confratelli e
Consorelle di detta Confraternità di quali Confratelli, e Consorelle debiano eseguire ed
osservare le regole, e pesi di detta Confraternità, che sono li seguenti:
1 - Dovrà tenersi Congregazione, e farsi gli esercitij spirituali in ogni Domenica, e
tutte le festività, e solennità della Beata Vergine, nel giorno di S. Anna, e del P.S.
Francesco.
2 - In ogni giorno di Domenica, la mattina li Confratelli dicano la Corona delle sette
allegrezze della Beatissima Vergine, e le Consorelle la dicano doppo il Vespro non
essendo conveniente che convengano gli uni, e li altri, e per ogni volta che vi sarà
Congregatione tanto di mattina quanto di sera, finiti gli eserciti, spirituali si cantino le
litanie, col tota pulchra, ed il Padre dica l’oratione, ed assista a tutte le funzioni
spirituali.
3 - Nella festività della Vergine si dica il primo notturno col te Deum, e Laudi del
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LA SECONDA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI ROVITO
Officio piccolo della medesima Vergine, e doppo si dichino anche le Litanie, e Tota
Pulchra; e sempre che di sarà Congregazione tanto di mattina quanto di sera, il Padre
sia obligato fare rispettivamente a Confratelli, e Consorelle un devoto sermone sù
quella materia che meglio giudicherà.
4 - In ogni domenica, vi siano per turno dui Confratelli, e due Consorelle, che si
confesseranno, e Comunicheranno, una nelle festività della Vergine, di S. Anna, del
Patrono S. Francesco e delle Portiuncula, si confesseranno, e Comunicheranno tutti li
Confratelli, e Consorelle, e con specialità nel giorno dell’Immacolata Concezione.
5 - In tutti i Venerdì di quaresima verso il tardi tutti li Confratelli siano obligati,
doppo dato il segno di la Campana, convenire alla Confraternità, e dato il segno dal
Padre, fare ciascheduno l’esame della coscienza, poscia si dica la Corona delle Cinque
Piaghe di Gesù Cristo, e fatto un Sermone dal Padre, faccino tutti la Disciplina.
6 - In ogni seconda domenica faccino la processione con la statua di Maria
Immacolata per lo Chiostro, e recinto del Convento, alla quale siamo obligati
convenire tutti li Confratelli, cantando l’Ave Maria Stella, e la Magnificat.
7 - Morendo un fratello, o una sorella, li fratelli che sapiano leggere, diranno in
suffragio de medesimi un intiero officio de Morti, in piena Confraternità, e quelli che
non sapranno leggere, dichino respettivamente la sudetta Corona in suffragio de’
medesimi, e li Officiali Maggiori della Confraternità, dalle elemosine che saranno in
banca, o se anderanno questuando siano obligati far cantare in loro suffragio una
Messa in giorno di domenica, e con l’intervento delli altri Confratelli.
8 - Ogni fratello, e Consorella, in ogni mese contribuirà un grano per le spese, e
mantenimento della Confraternità, e vadino in mano del procuratore della medesima
sincome ogni altra elemosina, ed ogni anno sia obligato dar conto della sua
amministrazione à Monsignore Arcisvescovo, o’ à chi da lui sarà Deputato.
9 - Siano obligati li Confratelli celebrare la Novena dell’Immacolata, e
successivamente la sua festa con tutta la solennità possibile, e con la publica
processione previa licentia di monsignore Arcivescovo, e la Confraternita sia obligata
soccombere alle spese, ò col danaro che sarà in banca, ò col denaro di una tassa che
dovrà farsi respettivamente.
10 - Dalle elemosine si raccoglieranno siamo obligati li Confratelli fare tutto il
necessario per lo mantenimento della Confraternità, e fra lo spatio di due anni,
ciascheduno, per questo principio si facci li vestimenta à proprie spese.
11 - La forma del vestire delli Confratelli sia à somiglianza di quella usano li
Confratelli dell’Arciconfraternità di Roma, il cingolo però non sia di filo, una di corda,
e di canape, perché tutti li Confratelli, e Consorelle, doveranno essere cordigeri acciò,
a tenore delle Costitutioni Apostoliche potessero guadagnare le Indulgenze delle
sudette Corone, ed altre concedute à medesimi cordigeri.
12 - Ogni anno del giorno di Capodanno si facci l’elettione de Ufficiali della
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LA SECONDA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI ROVITO
Congregazione, che doveranno essere un Prefetto, due Assistenti, Il Secretario, Il
Maestro de’ Noviti, due Cantori, Il Maestro di Cerimonie, Un procuratore, Un
sacristano, Un portinaio, due infermieri, e due pacieri. A tali elettioni intervengono il
Superiore locale del Convento, il Padre della Confraternità, e tutti li Confratelli. La
nomina delli eligendi si faccia dal Superiore locale, dal Padre e dal Prefetto della
Confraternità, delli quali ciascheduno dovrà nominarsi due sogetti, che doveranno
andare in Bussola e per voti segreti. Per questa prima volta però si facciano tutti li
officiali di comune consenzo. Il Padre dovrà farsi, e sempre disputarsi dal Ministro
Provinciale della Provincia.
13 - Chi è stato officiale uno anno, possa essere confirmato per la seconda, e per la
terza, e poi deve vacare, almeno un anno, ciò possa esser rieletto; Il governatore però
sia eletto nuovo ogni anno; ciascheduno possa avere dui officij, pur che fossero
compatibili.
14 - L’aggregazione delli confratelli, e Consorelle si faccia dal Superiore locale,
Padre, Prefetto, due Assistenti, e secretario, e si tenghi un libro dove si notino li
aggregationi. Un altro dove si rigistrino li elettioni, ed un altro dove si notano li
introiti, ed esito. Non potrà però aggregarsi alla Confraternita chi che sia, se prima non
sarà cordigero, e benedetto dal Superiore locale pro tempore al quale per costituzione
apostolica si appartiene.
15 - In ogni anno nel giorno dell’Immacolata Concettione doppo cantato il Vangelo
della Messa solenne, il Prefetto, o li due assistenti, in mano del Superiore locale, ed in
nome di tutte la Confraternità siano obligati far voto, e giurare di difendere il mistero
dell’Immacolata Concettione.
16 - Morendo un Confratello, o Consorella, la Confraternita in forma publica, deve
associare il loro cadavere à quella Chiesa dove anderà a seppellirsi.
17 - Il Convento sia obligato designare due sepolture gratis, e senza veruno peso, una
per li Confratelli, e l’altra per le Consorelle, alle quali però in caso di morte sia in
libertà di ciascheduno di volernesi lasciare, o nò per osservanza delle Costitutioni
Apostoliche, nessuno possa essere a ciò forzato.
18 - Morendo un Confratello, o una Consorella, e lasciandosi spontaneamente ad una
delle dette sepolture della Confraternità, li Religiosi devono andare processionalmente,
servata forma, a pigliare il loro cadavere ed associarlo gratis. E per le cere, la quarta
funeraria alla Parrocchia propria se però li spettasse, salvis juribus ambam partium, e
per il de più osservarsi le Costitutioni delle Congregationi.
19 - Dovendosi istituire qualche cosa nuova, ò fare qualche conventione, fra la detta
Confraternità, ed il Convento si facci col consenso del Padre Provinciale pro tempore,
con pubblico Istrumento, ed essendo necessario anche col consenso della Rev.ma
Curia Arcivescovile Cosentina.
20 - Il Priore della Confraternita abbia la facultà di mortificare discretamente li
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Confratelli defettosi, e negligenti. Nessuno Confratello però possa essere amosso dalla
Confraternita senza la Consulta, e voto del Provinciale del Superiore locale, del Padre,
Prefetto, Assistente e Secretario e dovrà farsi con pubblica scrittura da registrarsi nel
libro dell’aggregationi assignando la causa di sola amozione.
Finalmente essendo necessarie altre regole, e statuti per mantenimento, e
conservatione della Confraternità, o si pigliano dalla Confraternità del Santissimo
Rosario di Cosenza, o si determinino in piena Congregazione coll’assistenza del
Superiore locale, e si ne domandi la necessaria approvazione à chi si spetta si come
doverà farsi per le scritte già regole, e statuti.
Le quali regole, e statuti, e pesi, ben intesi da detti Confratelli promettono d’eseguirla,
ed osservarle ad unquem.
Come ancora essi Signori constituti con il consenso e parere di detto im Rev. Padre
Serafino Marra di Celico subdelegato, eliggono per questo presente anno 1731 per
ufficiali di detta Confraternità le seguenti persone. Per Padre di detta Confaternità il
Rev. Padre frà Gio. Batta di Cosenza, com’anche destinato oretenus da detto P.
Ministro Provinciale; Per Perfetto il M. Rev. Pietro Antonio Arnedo; Per primo
Assistente il Rev. D. Giuseppe Costantino Paroco di Rovito Motta; Per secondo
Assistente il Rev. D. Giuseppe Arnone; Per Maestro de Novitij il Sign. Domenico
Rossi; Per Secretario il Rev. Sac. D. Diego Rossi; Per Cantori li Rev. D. Michelangelo
Arnone, e D. Antonio Rossi; Per Pacieri li Mag.ci Pascale Rossi, e Filippo Caccuri;
Per Sacristani, Ignatio Bernardo, e Marco Donato; Per Mastro di Cerimonie Andrea
Provenzano; per Infermieri li Mag.ci D. Giuseppe Arnedo, e Alberico Rossi; Per
Portinarij il Rev. D. Luiggi Arnedo, e Cl.co Saverio Falcone; per Procuratore: il
Mag.co Angelo Arnone, li quali furno da tutti non solo confermate, una altresì d’essi
nominati accettati con che però che nel venturo anno si eligghino con tutte quelle
solennità, e requisiti ut supra.
Presenti in detto atto ci Mag.ci Angelo Scarpello Prefetto dell’Ill. Congregatione sotto
titolo dell’Immacolata Concettione e Santa Sofia del Casale di Rovito, e Not.
Giuseppe Arnone in nome del Pubblico, Università di Rovito, e sua Chiesa
Parrocchiale, li quali riplicano detto Atto, salve però le dispositioni Pontificie non
potersi erigere altra Confraternità, seu Congregatione sotto detto titolo, atteso ci si
ritova eretta in detto Casale quale attualmente esiste, e sta attualmente esercitata, anzi
con tutta quella dovuta riverenza che si ritrova, ritrovandosi anche in possesso di fare
la solenne processione con la statua in virtù di decreto, emanato dalla Corte
Arcivescovile e come tale intendono sempre proseguire, e mantenersi nel solito
possesso, e non aderire a tale pretesa nuova institutione del Convento de RR. PP. onde
intende sempre essere anteriore per essere istituita in tempo della felice memoria di
Paolo V, e da tempo immemorabile, che però non intende mai farsi preiudicio, ma
mantenere salve le sue raggioni, protestandosi ambidui in nome del Publico, sua
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LA SECONDA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA DI ROVITO
Congregatione e fratelli de omnibus.
E di parte di detto M. Rev. Padre fra Serafino Marra di Celico subdelegato si replica,
che adeant ad Sacram Congregationem Brevium, e parimente doceant de corum
privilegiis statutis aliisque è che la Congregatione accerta da detti protestanti e di
Santa Sofia e non della Concettione 4.
Torna certamente utile, qui, riportare quanto Mario Perfetti ha trovato in un atto del
Notaio Costantino, relativamente ad una vicenda che, interessando la confraternita,
vivamente impressionò non soltanto il Casale di Rovito: «La scomparsa di cinque sai
dà l’avvio ad un’inchiesta che da Rovito porta fra Samuele di Castrovillari nella terra
di Rose, dove per ordine di quella Corte marchionale egli procede, insieme al
mastrogiurato e ad un soldato del luogo, alla perquisizione delle turri d’Arena in una
delle quali si nutre il fondato sospetto che la refurtiva sia stata occultata. E quattro
abiti sono ritrovati in quella nomata della Corbe, il cui torriere dichiara che gli sono
stati consegnati per conto di fra Giuseppe de Rose, laico riformato degente in detto
Convento di Rovito». Questi, posto sotto sorveglianza in una stanza dello stesso
Convento, tenta inutilmente di convincere i suoi improvvisati custodi, magnifico
Nicolò de Blasio, di Monteleone abitante in Aprigliano, e fra Diego di S.o Pietro di
Amantea laico, a consentirgli di pigliare la Chiesa», cioè di mettersi in luogo dove non
poteva essere arrestato 5.
Note
1 «Rivista Storica Calabrese», N. S., IX, (1988), 135-145.
2 M. PERFETTI, La chiesa e il convento ...
3 ARCHIVIO DI STATO COSENZA, Not. Domenico Antonio Stefani, Celico, 23 gennaio
1731, fl. 202-292, in Rovito, nella Chiesa di S. Pietro.
4 All’Atto son testimoni il «Rev. D. Giuseppe Scozzafava, Arciprete, D. Saverio Candila, M.
Domenico e Nicola Palazzo, Giuseppe Arnone di Cursio, Giuseppe Arnone alias Scattiglia di
Rovito, e Cl.co Michelangelo Falcone di Celico».
5 L’atto è rogato sotto la data del 9 ottobre 1770.
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LE CONFRATERNITE DEL CARMINE DELLE ORIGINI (SECC. XVI - XVII). - MOTIVAZIONI PER UNA DIFFUSIONE ICONOGRAFICA
LE CONFRATERNITE DEL CARMINE DELLE ORIGINI (SECC. XVI - XVII).
MOTIVAZIONI PER UNA DIFFUSIONE ICONOGRAFICA
Giorgio Leone
È ormai assodata l’importanza che ebbero le confraternite nel campo dell’arte, non
solo per la specifica committenza che, del resto, facoltosa o modesta, si inserisce negli
usuali rapporti dell’artista con la clientela, ma soprattutto per la divulgazione di una
immagine cultuale.
La confraternita, avendo cura di un’effigie sacra - di conseguenza di una cappella
all’interno della chiesa ospite, annessa o addirittura indipendente - ne promuove il
culto con le relative processioni, pratiche che ricevettero impulso proprio in questo
ambito, e feste patronali; ne accresce il prestigio tramite richiesta di gonfaloni, statue
processionali, dipinti, suppellettili e decorazioni per la propria cappella. È
conseguenziale, pertanto, che identificandosi con una immagine ne divenga tramite
privilegiato di diffusione, la cui ampiezza di raggio è quasi proporzionale alla
miracolosità del Patrono, se non anche al prestigio raggiunto dalla stessa associazione.
Non mancano, infatti, i casi in cui i confratelli sono impegnati nella divulgazione dei
panegirici del proprio Santo protettore, veri o fittizi che siano, così come sono
testimoniate lunghe ed estenuanti rivalse tra i sodalizi di una stessa cittadina o tra
quelli di centri urbani limitrofi, e tutto ciò non è poi del tutto indipendente dal preteso
prestigio.
L’analisi che si presenta non è rivolta tanto alle scelte nelle committenze artistiche
delle confraternite del Carmine o «dello Scapolare» attive in Calabria 1, quanto al
ruolo da esse svolto nella diffusione, ed eventuale caratterizzazione della propria
immagine cultuale della Vergine, ricordando che giammai - almeno per quello che a
oggi si conosce - esse lo ebbero nell’ideazione dell’effigie nel tipo puro, che
generalmente perviene da tradizioni cultuali precedenti. Infatti, si può dire che
l’iconografia della Madonna del Carmine, così come oggi la si riconosce nella stretta
simbiosi con l’abitino e con le anime purganti, dipenda in gran parte dalle
connotazioni ricevute nell’ambito delle pratiche devozionali confraternali.
Se il distintivo dello scapolare appare già nel corso del ’400 per alcune confraternite
dedicate alla Madonna sorte nelle chiese carmelitane 2, l’immagine della B.M.V. del
Monte Carmelo in seno all’Ordine, dalle sue origini fino al ’500, venne a qualificarsi
più come tipo iconografico caratterizzato in sé sebbene diversamente connotato dal
tema mariano approfondito - che distinto da segni o attributi secondari di
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riconoscimento. Sin dalle prime notizie in proposito, l’aggregazione dei frati, che poi
si denomineranno Carmelitani 3, si distingue per la centralità data nelle loro devozioni
al culto di Maria quale Theotòkos. Centralità che emerge pure nella dislocazione
architettonica del loro primo insediamento sul monte Carmelo in Palestina 4.
Alcuni studiosi hanno pure rilevato come da questa particolare devozione, nei primi
quattro secoli di storia dell’Ordine, l’approfondimento mariologico generasse delle
«figure» simboliche che sono state distinte in quelle di «Maria Patrona», di «Maria
Virgo Purissima» e di Maria quale «Madonna dello Scapolare» 5. A queste è possibile
porre in relazione altrettante iconografie della Vergine, e dato che le «figure»
simboliche di riferimento potrebbero essere coesistenti, solo la dominanza dell’una o
dell’altra si può far susseguire cronologicamente; tali iconografie possono reggersi da
sole, ma a volte la specificità carmelitana le ha fuse in una sola immagine, come nel
noto dipinto di Corleone (fig. 1), eseguito da Tommaso De Vigilia 6.
La «figura» simbolica della «Madonna dello Scapolare» è quella che particolarmente
interessa questa indagine: per lo specifico Titolo e per la cronologia in cui divenne
dominante (dal sec. XVI in poi). Bisogna precisare, però, che sebbene la sua
formulazione dipenda in gran parte dal pio lascito della Vergine a S. Simone Stock,
essa non è risolutiva di questa circostanza, perché comprende tutte le devozioni
mariane carmelitane, così come la Sacra Leggenda dà forma ai sentimenti di
gratitudine dell’Ordine, verso di Lei, per le particolari protezioni ottenute 7. Cosicché,
anche da un punto di vista strettamente iconografico - e se è giusto porre in relazione a
questa «figura» l’immagine della Madonna con l’abitino in mano -, sarebbe
semplicistico affermare che essa corrisponda tout-court alle scene con la Consegna
dello Scapolare a S. Simone; queste piuttosto, seppur collegabili all’origine stessa
della pratica di indossare l’abitino, si inseriscono in un diverso filone devozionale,
quello della perseveranza e salvezza finale dei frati, che alle soglie dell’epoca moderna
sembra accomuni tutti gli ordini religiosi 8.
Ora, se può esistere un nesso tra la formazione delle moderne Confraternite del
Carmine e la cosiddetta Bolla Sabatina - almeno con le interpretazioni date nel tempo
al messaggio salvifico della Madonna a S. Simone Stock, prima, e a Giovanni XXII,
dopo 9 - potrebbero pure rilevarsi legami tra le prime e l’evoluzione della forma
dall’originario scapolare in quella dell’abitino. Ossia, se è possibile istituire relazioni
tra lestensibilità del beneficio dello scapolare (i «privilegi») e la costituzione delle
Confraternite del Carmine moderne, è anche probabile l’ipotesi che lo scapolare
(l’abito dell’Ordine) subisse l’adattamento, per comodità, a semplice pettorale, com’è
appunto l’abitino. Infatti, i «privilegi sabatini» dall’intendimento iniziale, rivolto ai
soli religiosi, frati o terziari che fossero, giunsero - attraverso le pertinenti
confraternite - a quello comprensivo l’universalità dei credenti, così come le
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confraternite stesse, originandosi in seno all’Ordine dalle più antiche congreghe del
Signo Ordinis e del culto alla Madonna, via via attraverso quel processo di
laicizzazione, comune del resto a tutti i sodalizi, arrivarono addirittura a prescindere le
stesse predicazioni e diffusioni carmelitane 10.
Dall’esame delle testimonianze iconografiche in merito alle immagini della Madonna
del Carmine, risulterebbe, senza che l’ipotesi sembri azzardata, che l’abitino dipinto
nelle Sue mani, o anche in quelle del Figlio, oltre a essere una caratterizzazione di
possibile origine confraternale, comincia ad apparire solo nella II metà inoltrata del
’500. E ciò in eloquente coincidenza con la formazione delle Confraternite del
Carmine modernamente intese; e se certo non mancherebbero esempi più antichi
riguardo alla raffigurazione degli abitini, bisogna precisare che, fra gli esempi finora
noti precedenti alla II metà del ’500, mai appaiono nelle mani della Madonna, ma
piuttosto al collo delle anime del purgatorio tratte alla Salvezza per Sua intercessione.
Così è raffigurato sul già ricordato dipinto di Corleone (fig. 1) e in quello del Carmelo
catanese, dipinto nel 1501 dal «Pasturi» 11.
È senz’altro interessante cogliere la rispondenza dell’evoluzione di tale
caratterizzazione iconografica della Madonna del Carmine nella specificità dell’abitino
con l’età del generalato di Giovan Battista Rossi (1562-1578), quando «la cosa più
importante dell’affiliazione diventa lo Scapolare» 12.
Quando nella II metà del ’500 cominciano ad apparire le Confraternite dello
Scapolare, la devozione mariana dei Carmelitani aveva già rivolto, a seguito di eventi
miracolosi, un culto particolare alla Madonna Bruna che, sin dal sec. XIII/XIV, era
venerata nel Carmine di Napoli 13. La prassi, successiva a tali eventi, di erigere in ogni
convento dell’Ordine una cappella dedicata nel titolo alla Madonna del Carmine di
Napoli 14, è una circostanza dalla quale non si può prescindere per comprendere
appieno sia il confluire di questa immagine nella «figura» simbolica della «Madonna
dello Scapolare», sia il suo passaggio nel culto confraternale delle origini. Per
quest’ultimo aspetto è da rilevare, però, che probabilmente si tratta solo della
legittimazione di un uso già in auge che, se almeno nel Meridione italiano ha pure
giustificazione nella vicinanza a Napoli, può indicarsi nella circostanza che l’effigie
della Bruna era anche venerata dall’Arciconfraternita romana del Carmine, con sede a
S. Martino ai Monti, alla quale dal 1599 divenne obbligatoria l’iscrizione da parte di
tutti gli altri simili sodalizi 15.
Sia la Bruna di Napoli (fig. 2) che la sua replica romana (fig. 3) - non diretta ma forse
mediata da immagni intermedie -, dipinta da Girolamo Massei, probabilmente tra il
1593 e il 1595, non avevano nessuna connotazione iconografica secondaria, la
specificazione dell’abitino venne aggiunta successivamente 16, e questo già da sé
spiegherebbe come nel tempo, rispetto al tipo iconografico, assumesse importanza
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l’attributo di riconoscimento confraternale.
Purtroppo, allo stato attuale degli studi riguardo alle presenze carmelitane in Calabria,
non è possibile conoscere la particolare circolazione artistica anteriore al sec. XVI, né
tantomeno, prima di queste date, sono pervenute immagini della Madonna del
Carmine. Certo si potrebbero, per grandi linee e con perplessità, ipotizzare presenze
artistiche ed iconografiche analoghe a quelle delle Province religiose cui la Calabria fu
annessa prima della costituzione di una Provincia autonoma nel 1575 17. La stessa
Galaktotrophoùsa della chiesa del Carmine di Tropea - icona cretese veneziana
databile alla I metà del ’500 che propone lo stesso tipo esemplato su un’icona del
Museo Mandralisca di Cefalù 18 - che la tradizione locale ritiene la primitiva
immagine cultuale di quella chiesa conventuale, passata poi alla rispettiva
confraternita dopo la soppressione innocenziana 19, potrebbe semplicemente riferirsi
alla devozione verso la Madonna delle Grazie, che non è avulsa dall’ambito
carmelitano. Si è già visto, nei dipinti siciliani precedentemente indicati, che la
Vergine è raffigurata con il seno scoperto stillante latte, ma in quasi tutte le chiese
conventuali carmelitane sono presenti culti secondari rivolti appunto a questo
particolare Titolo della Madonna: a Napoli, con una bella pala di recente attribuita a
Giovan Vincenzo Forlì 20; a Cosenza, con interessanti affreschi cinquecenteschi 21.
Uno di questi, quello datato 1572, quasi sicuramente ricalca la parte centrale, cioè il
busto della già più volte citata Madonna del Carmine di Corleone. Al momento, ciò
che meraviglia è il vederla trattata come una icona, pure con iscrizioni in greco. Non
desta, invece, nessuno stupore la scoperta di una interessante scultura marmorea
cinquecentesca oggi collocata - infelicemente - in una nicchia sulla facciata della
chiesa del Carmine a Taurianova. Questa diffusione sicuramente avvenne per tramiti
siciliani, probabilmente nei Conventi carmelitani messinesi tale immagine doveva
essere ben conosciuta, come informerebbe il dipinto della chiesa carmelitana di
Furnari.
La più antica immagine della Vergine riconoscibile in Calabria come Madonna del
Carmine è quella affrescata nella lunetta del portale centrale della chiesa conventuale
di Corigliano Calabro, databile al 1550 22. Sempre in chiese carmelitane si indicano
una bella tela a Cosenza, assegnabile a pittore napoletano attivo nel primo Seicento, e
un bassorilievo, datato 1603, esposto all’esterno del convento di Vibo Valentia (fig. 4).
In queste, e in altre ancora, è ben testimoniata la diffusione della Madonna Bruna di
Napoli (fig. 2), che è una immagine della Vergine esemplata secondo il tipo che oggi
si indica come «Vergine della Tenerezza» - la vecchia Eleoùsa, della quale altri, forse
con poca attendibilità, riconoscono la possibile origine nell’icona del «miracolo
abituale» del monastero costantinopolitano delle Blacherne 23 -, o ancora meglio
secondo l’iconografia della Glykophiloùsa. Il particolare della corona, sorretta o no da
angeli, che è presente su queste immagini, potrebbe giustificarsi nella stessa icona
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napoletana, sulla quale venne aggiunta successivamente. Forse sul rilievo di una manta
metallica, a testimoniarne la grande devozione; oppure, dato che non si possiede
documentazione che assicuri questo rivestimento già in antico, potrebbe trattarsi della
traslitterazione, nelle repliche, dell’analogo motivo degli angeli incoronanti presente
sull’edicola marmorea che, databile ai primi decenni del ’500, tutt’ora incornicia la
Bruna di Napoli 24.
L’immagine della Bruna ebbe larga diffusione anche fuori dagli ambienti carmelitani:
per la Calabria, e per cronologie comprese tra ’500 e ’600, si indicano l’affresco della
chiesa rurale dedicata alla SS. Annunziata ad Amendolara 25 (fig. 5), opera di pittore
vicino all’orbita lucana di G. Todisco; la tela attribuibile a Daniele Russo 26, in
possesso di privati (fig. 6); l’altra tela in cui è raffigurata tra i SS. Andrea, Carlo
Borromeo e Anna, della chiesa dell’Immacolata a S. Caterina allo Jonio; la bella statua
della chiesa del Rosario a Paola 27 e la tela della chiesa del Purgatorio a Tortora, dove
è raffigurata fra S. Carlo Borromeo e S. Lucia. Tale straordinaria estensione si ricorda
a proposito della stessa immagine dipinta sul trittico della chiesa di S. Maria di
Portosalvo realizzato da Pietro Negroni, probabilmente tra il V e il VI decennio del
’500 28, si ritiene che il tipo specifico venisse utilizzato, anche con la particolarità
degli angeli reggicorona, per immagini della Vergine relative ad altri Titoli: è il caso
della Madonna di Costantinopoli di Barletta, dipinta da Donato Bizamano 29, e in
Calabria è emblematico il caso della Madonna degli Infermi a Francavilla Marittima.
Come si è detto prima, il tipo della Bruna, senza la caratterizzazione dell’abitino, è
testimoniato anche nelle immagini cultuali delle prime Confraternite del Carmine,
siano esse sorte all’ombra dei conventi, a seguito delle predicazioni dei frati o di più
generiche devozioni private. Tra i dipinti di sicura provenienza confraternale
pervenuti, il più antico, allo stato attuale della ricerca, è quello di Bagnara Calabra
(fig. 8), che è forse anche la più interessante tra le copie vere e proprie tratte
dall’originale napoletano nel corso del ’500 30. Seguono poi le pale della confraternita
di Morano Calabro, datata 1594 e attribuibile a Pietro Torres 31; di quella di Aieta,
databile ad anno prossimo a quello della più antica attestazione della confraternita (a.
1608) e assegnata a Fabrizio Santafede 32; di quella di Taverna, datata 1605,
corrispondente grosso modo all’anno di fondazione del sodalizio, e firmata da
Giovanni Balducci 33 e di quella di Guardavalle, dipinta da pittore operante nella I
metà del ’600.
Poca cosa rispetto al numero delle confraternite che fino ad ora si possiede, e che
sicuramente è destinato ad aumentare con il prosieguo degli studi 34. Certo nelle
chiese dei sodalizi del Carmine sorti tra ’500 e ’600 esistono ancora immagini della
Madonna del Carmine, ma sono opere più recenti e se alcune ripetono l’effigie della
Bruna (Belmonte, Carolei, Tropea, etc.), altre si adeguano a un modello in cui la
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Vergine, per lo più in piedi e in posa libera da schemi stabiliti, sorregge il Bambino e
ha in mano l’abitino. Questa iconografia della Madonna del Carmine è testimoniata da
antica data nell’ordine carmelitano - in frontespizi e anche nelle scene della Consegna
dello Scapolare a S. Simone Stock 35 - ma sembra essere anche legittimata nel culto
confraternale delle origini, tanto da costituire, per lo sviluppo che avrà nei secoli
successivi che la porterà a sostituire la stessa immagine della Bruna, un campo di
indagine specifico. La detta iconografia della Madonna del Carmine è infatti
testimoniata sull’antica pala d’altare, dipinta probabilmente da Gaspare Celio agli inizi
del ’600, della nuova Cappella dell’Arciconfraternita romana, edificata alla fine del
’500 quando questa lasciò la chiesa conventuale di S. Martino ai Monti 36.
Accade pure, come è testimoniato in Calabria dai dipinti di Catanzaro e Lungro, che
quando una confraternita di antica istituzione deve commissionare un nuovo dipinto e
vuole rimanere fedele all’immagine vetusta, il pittore - dietro indirizzo della
committenza certamente illustra la Bruna con l’abitino fra le mani. Nelle immagini
delle prime confraternite del Carmine, quando il modello della Madonna è fedele a
quello della Bruna, ed è illustrato il pio lascito dello scapolare, Ella consegna sempre
l’abito dell’ordine, mentre in quelle estranee a questo ambito, a volte, porge un
abitino, anche quando a riceverlo è S. Simone Stock, come testimonia il dipinto della
chiesa parrocchiale di S. Pietro Magisano 37 (fig. 9), dove all’uopo è cambiata la posa
di una mano. E a proposito bisogna pur rilevare che in altre pale di sicura committenza
confraternale raffiguranti la Consegna dello Scapolare a S. Simone Stock - come in
quelle di Catanzaro, opera di Domenico Leto (pittore finora testimoniato solo a
Mesoraca nel 1755), e di Curinga (fig. 10), dipinta da un pittore settecentesco che
ricalca stilemi più antichi - la distinzione semantica tra scapolare e abitino è ben
decifrata: la Vergine consegna il primo a S. Simone, mentre il piccolo Gesù regge
l’abitino e a volte, aiutato da un angelo, lo dispensa ai confratelli o lo accetta dalle
anime liberate - o liberande - dal purgatorio. Questi esempi, ma l’elenco potrebbe
essere più numeroso, sembrerebbero dare credibilità all’enunciato che qui si tende a
dimostrare, e cioè che con l’andare del tempo, ed a seguito delle pratiche confraternali
carmelitane, l’immagine specifica della Madonna perderà il suo riconoscimento
iconografico intrinseco a favore di un altro secondario, quale appunto può considerarsi
il particolare pettorale, che di quelle pratiche fu la più esteriore divenendo, nella
devozione popolare, oltre che simbolo, oggetto salvifico in sé, quasi di valore
sacramentale 38. Il caso di Bagnara (fig. 8) - come del resto quelli già citati di Napoli e
di Roma - è didattico, dato che gli abitini vennero dipinti solo successivamente su una
Madonna che di per sé illustra la Vergine Carmelita cioè la Bruna. Emblematica di
questo valore dato all’abitino è pure l’ideazione dell’affresco della cupola della chiesa
del Carmine a Guardavalle, dipinta sul finire del ’600 da un pittore della famiglia dei
De Rosa di Squillace (Tommaso o Giuseppe?). Qui, fra santi e nubi di
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un’Incoronazione della Vergine, un angelo, isolato, sventola degli abitini, quasi il
«trionfo» di una pratica devozionale.
Ancora non si è in grado di stabilire con precisione quando, almeno in Calabria,
l’abitino cominciò a essere applicato nelle mani della Vergine Bruna, motivo
iconografico la cui presenza diverrà costante dalla II metà del ’600, fino a combaciare
con l’identificazione stessa del tipo. Una testimonianza indiretta potrebbe essere il
quadro della chiesa di S. Nicola a Scalea, dipinto da Giovan Bernardo Azzolino in
anni prossimi al 1613 39, dipendente, almeno nella devozione, dalla locale
confraternita attiva già nel 1606. Testimonianza indiretta perché nella raffigurazione
appaiono, per la prima volta, gli abitini, anche se sono gli angeli reggicorona a
sventolarli, secondo uno schema analogo a quello che si riscontra sulle pale del SS.
Rosario 40, dove gli angeli reggono rose e rosari.
Dopo queste date, l’immagine della Bruna, come Madonna del Carmine, sarà sempre
qualificata dall’abitino, sia in ambito confraternale, sia in quello più generale della
devozione popolare. Sono da segnalare a Tropea una tavola dipinta nella II metà del
’500; a Mottafollone un dipinto su tela ed una bella statua lignea, benché bisogna
precisare che alla data di queste (a. 1690) non è ancora testimoniata l’attività di uno
specifico sodalizio che probabilmente prenderà l’avvio dalla devozione privata dei De
Pietro, committenti delle stesse opere; la tavola tardo cinquecentesca anche primi ’600
dell’arcivescovado di Cosenza 41 (fig. 11), sempre che l’abitino sia un’apposizione
contestuale all’immagine della Vergine - e che la committenza sia realmente fuori
dall’ambito conventuale carmelitano - del tardo ’600; la tela ora nella chiesa di S.
Giorgio a Rogliano, dov’è raffigurata fra S. Francesco d’Assisi e S. Carlo Borromeo;
quella databile alla prima metà dello stesso secolo della chiesa della Purificazione di
Morano, dov’è dipinta coi SS. Lorenzo, Pietro e Paolo; un affresco nella chiesa delle
Armi e Saracena (sec. XVII tardo); la tela della Cattedrale di Rossano (fig. 12), dipinta
nel 1694 probabilmente dal già ricordato Daniele Russo, nella quale la Madonna è
posta fra S. Gaetano e S. Michele Arcangelo; la tela della chiesa del Carmine a
Spezzano Albanese, opera molto ripetitiva del ’700; dove la Vergine è raffigurata fra i
SS. Francesco d’Assisi e Paola; la tela della confraternita del Carmine a Catanzaro
(fig. 13), dipinta da pittore napoletano della I metà del ’700, quella della parrocchiale
di Rovella presso Zumpano e quella del convento delle Domenicane a Cosenza, opere
ripetitive del ’700, nelle quali è dipinta sola.
Gli esempi da elencare sono molti, e danno ragione ai risultati di quella indagine,
condotta da E. Novi Chavarria 42, che ha registrato in Calabria la più alta incidenza del
titolo della Madonna del Carmine nei casi di patronato, ma essi non si riducono solo ai
secc. XVI e XVII, anzi l’immagine della Bruna perdurerà nei secoli successivi, anche
quando la specificità sarà abbandonata dalle confraternite. Per il Settecento e
l’Ottocento si vogliono continuare a richiamare, fra tutti, la tela della chiesa Matrice di
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S. Costantino Calabro, dipinta da Giulio, attorno alla metà del ’700, nella quale la
Madonna Bruna, è dipinta fra i SS. Antonio Abate e Nicola; quella della chiesa di S.
Basilio a Placanica, coi SS. Gennaro, Benedetto e Basilio, bella pittura napoletana
dello stesso secolo; l’altra del Santuario di S. Maria del Castello a Castrovillari, dove
Ella è raffigurata fra S. Antonio Abate e S. Antonio da Padova 43; ed ancora la tela del
Carmine di Gagliano - dipinta sul finire del ’700 da Francesco Colella di Nicastro dov’è fra i SS. Michele Arcangelo ed Elia, e infine un gustoso esempio di matrice
popolareggiante dipinto in un’edicola interna al Palazzo Gentile a S. Fili (fig. 14).
La tela della chiesa di S. Francesco di Paola a Corigliano Calabro 44, nella parte
originale (sec. XVIII) denuncia derivazioni dai frontespizi dei «cataloghi»
dell’Arciconfraternita romana (quelli che determinarono gran parte dell’iconografia
tardo manerista e barocca della Madonna del Carmine!), poiché molti sono i rimandi a
quella variante della Bruna che lì era effigiata a stampa, specie per quanto concerne i
due angeli reggicorona che ostendono palme. Questo riconoscimento, oltre a
testimoniare la circolazione in Calabria di quei «cataloghi», attesta ulteriormente
l’esistenza in Corigliano di una confraternita. Presenza documentata e diffusa proprio
dall’esistenza in questa cittadina di uno dei più antichi e noti conventi carmelitani
della Calabria 45. A Corigliano, comunque, l’immagine della Madonna del Carmine
più conosciuta propone, rispetto alla Bruna, una variante nel gesto della Vergine che
con la mano stringe il braccio libero del Figlio: è l’immagine effigiata sia sul dipinto
(databile ai primi decenni del ’600), custodito nella chiesa conventuale dove la
Madonna è raffigurata tra i SS. Francesco d’Assisi e Caterina da Siena - associazione
di culti inusuale in una chiesa carmelitana -; che su quello (del XVIII sec.), custodito
nella chiesa di S. Pietro, dove Ella è accompagnata da S. Antonio da Padova, S. Carlo
Borromeo e S. Giacomo Pellegrino.
Si è già detto che l’immagine della Bruna napoletana è esemplata secondo il tipo della
«Vergine della Tenerezza» - o della Glykophiloùsa che sia -, ma si può anche
osservare che generalmente nelle immagini più diffuse della Madonna del Carmine è
quasi sempre attestato il tipo «affettuoso» della Vergine, sintetizzato nello slancio del
Figlio verso la Madre, reso con la carezza al mento, con l’abbraccio al collo e così via.
Questa particolarità scomparirà solo quando, tra ’700 ed ’800, si rileverà, nel campo
della statuaria soprattutto, una sorta di elaborazione in serie delle immagini della
Vergine, le quali riceveranno specificazione iconografica solo al momento finale, se
non proprio all’acquisto, con l’applicazione dei rispettivi simboli esterni. Per la
Madonna del Carmine questi saranno, oltre all’abitino, la caratteristica foggia a
cappuccio che il manto acquista ripiegandosi sulla testa. La stella appuntata su questo.
Elementi iconografici mariani di origine antichissima, che addirittura dipendono
dall’età bizantina, ma che col tempo acquisirono nuove valenze, popolari si potrebbe
pure dire, e che trovano spiegazione anche in alcuni canti o inni tradizionali. Simboli
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esterni sono anche le anime purganti e la nuvola, ma di queste parlerò in seguito.
Varianti della Bruna - volendo indicare così le Madonne «affettuose» carmelitane appaiono già da antiche date, e spesso sono soltanto un risultato di adeguamenti di
quell’immagine a opere di diversa impostazione, come nel già ricordato caso di
Corigliano. Esempi si trovano sulla tela a Curinga già ricordata, su di un paliotto a
Squillace del sec. XVIII (fig. 15), su un’altra tela a Sambiase (sec. XVIII, II metà)
(fig. 16); ancora a Iacurso, sede di convento carmelitano, dove è tuttora custodita una
statua lignea (fig. 17) scolpita nel 1598 e restaurata, esattamente tre secoli dopo, da
Pietro Drosi (e quindi completamente rifatta nella policromia, come nel suo «stile» e
in quello di molti restauratori del sec. XIX). In questo simulacro il piccolo Gesù
accarezza il mento della Madre con la punta delle dita, quasi stesse a solleticarlo.
Variante del tipo della Bruna può considerarsi pure il dipinto di Mattia Preti (fig. 18)
per la chiesa dei Cappuccini di Taverna 46, che un cinquantennio dopo ripete, nella
palma e nel giglio retti dagli angeli, gli stessi simboli presenti sul quadro del Balducci,
commissionato dalla locale confraternita. A Castrovillari, invece, su di una tela
custodita nella chiesa di S. Maria del Castello 47, databile nel sec. XVII inoltrato, e a
Tortora, su di un dipinto di Genesio Galtieri della chiesa e del Purgatorio, databile
attorno agli anni ’70 del ’700, è illustrato un tipo che, seppur appartiene a quello della
«Vergine della Tenerezza», non ha rimandi diretti con l’immagine della Bruna. In
questa iconografia sembra confluisca quella particolare della «Madonna del Buon
Consiglio», nota nell’area nord della Calabria tramite il particolare culto arbëresche, se
non ché vi si potrebbe pure riconoscere il rimando ad alcuni «frontespizi» carmelitani,
quali quello degli Atti del Capitolo Generale, editi a Roma nel 1564, o delle
Costituzioni di Bologna del 1602, oppure delle Lettere d’indulgenza, stampate a
Milano nel 1608 48.
La particolarità della carezza al mento, che si è riscontrata nell’immagine della
Madonna del Carmine diffusa dalle confraternite «dello Scapolare» alle origini della
loro istituzione moderna, passerà poi in molte «Madonne delle Grazie», come
testimoniano la statua della chiesa omonima di Pittarella 49, presso Pedivigliano, e
numerose «Madonne del Purgatorio», fra le quali quella dipinta nel 1789 da Domenico
Oranges per la chiesa Madre di S. Fili - e replicata su una tela del Duomo cosentino -,
che rivelano il legame dei loro culti con quello della Madonna del Carmine. E lo stesso
sembra verificarsi, nella chiesa di Donnici, presso Cosenza, su quella tela dipinta da
uno della famiglia Bellizzi, pittori operanti nell’hinterland cosentino attorno alla metà
dell’Ottocento.
A questo punto è necessario dire che la pìetas verso la Bruna, nel Mezzogiorno d’Italia
- e questo almeno in quelle regioni più fortemente legate a Napoli -, ad un certo
momento, qualificandosi come vera e propria devozione popolare, trascese tutti i
tramiti proposti per la propria diffusione iconografica, formando un groviglio difficile
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da dipanare. Cosicché, la persistenza di questa immagine non sempre è spiegabile
esclusivamente con presenze carmelitane, siano esse frati o confratelli. Nelle
confraternite, però, l’ultimo impulso potrebbe pure giungere, nel corso dell’Ottocento,
attraverso quella serie di motivazioni che decretarono l’incoronazione della Bruna da
parte del Capitolo Vaticano (a. 1875) 50. A conclusione di questa prima parte
dell’indagine, si potrebb ipotizzare che uno dei tramiti privilegiati per la diffusione
dell’immagine napoletana sia lo stesso abitino. Infatti, esso, nella sua forma, prevede
su uno dei lati l’emblema mariano carmelitano, che in origine era il solo monogramma
della Vergine. Come è possibile notare dalle testimonianze pervenute, nel corso del
tempo questa faccia venne a caratterizzarsi con l’effigie della Bruna, e ciò anche
quando la Vergine che lo mostra non è esemplata su questo schema. La circostanza,
comunque, è ovvia: dato che si è constatato che l’immagine della Madonna Bruna era
quella dei «cataloghi» delle confraternite, è altrettanto giustificabile la sua presenza
sullo scapolare. Solo di recente sugli abitini è avvenuta la sostituzione di questa antica
immagine con quella specifica venerata nelle confraternite locali.
L’indagine particolare, oltre agli abitini dipinti sui quadri, può essere svolta su quelli
pervenuti e spesso applicati ad antiche statue. Fra questi, realizzati generalmente a
stampa, si vuole segnalare quello custodito nella chiesa Matrice di Cittanova, applicato
successivamente alle mani della Madonna del Carmine scolpita nel tardo ’700 da
Domenico De Lorenzo o da suo figlio Giuseppe. È forse tra gli esempi più belli ed
elaborati di un abitino (fig. 19): la decorazione, in fili metallici e paillettes, è condotta
a motivi floreali di vago sentore liberty che riquadrano un piccolo e più antico
medaglione con la Madonna Bruna, realizzato in argento sbalzato (punzone: i GS).
L’altro aspetto che si presenta per completare l’indagine svolta sulla definizione e
formulazione dell’immagine della Madonna del Carmine nelle prime confraternite del
Carmine, modernamente intese, e della relativa diffusione in altre forme devozionali, è
quello riguardante la presenza nella «pala del Carmine» delle anime purganti. Come è
risaputo, la giustificazione di questa unione sta nell’asserita apparizione della Vergine
a S. Simone Stock e nella cosiddetta Bolla Sabatina che si ritiene emanata dal papa
Giovanni XXII il 3 marzo del 1322 e riferita ancora in altra promulgata da un
pontefice di nome Alessandro (IV o V?), quest’ultima trascritta a Maiorca il 2 gennaio
1422 51. Questa Bolla, però, non deve essere confusa né con l’istituzione in seno
all’Ordine della Commemorazione solenne di Maria, che ha ben altri significati, né
con tutte quelle successive al sec. XV che in parte ne dipendono 52. Addirittura, non
esistendo a riguardo documentazione anteriore agli ultimi anni del ’300, è stato pure
supposto che lo specifico documento trascritto a Maiorca sia un’originale creazione
siciliana 53, anche se contemporaneamente si è ipotizzato che la Bolla non sia altro che
una legittimazione, nella devozione carmelitana, di pratiche devozionali precedenti.
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Comunque, ritornando alla particolare annessione del purgatorio alla Vergine, bisogna
dire che né la pratica del Sabato dedicato alla Madonna, né la particolare
abbreviazione del purgatorio sono prerogative della devozione carmelitana: la prima,
nel generale culto a Maria, risale al sec. IX 54, la seconda, invece, precedentemente era
appannaggio dei Francescani, ed un legame con la spiritualità di questi è stata pure
rilevata nella stessa essenza della Bolla Sabatina 55. Non è carmelitana nemmeno
l’associazione della Madonna al Purgatorio, in quanto trascenderebbe tutti gli ambiti
specifici cui in genere è condotta, per risolversi nel particolare ruolo di intercessione
che Le è sempre stato riconosciuto 56. Singolare, però, nella devozione carmelitana
sembrerebbe la fusione tra la pratica mariana del Sabato e l’intervento della Vergine
nella liberazione delle anime dal purgatorio 57.
Certamente, la particolare annessione dell’abbreviazione del purgatorio ai «privilegi»
dello scapolare - siano essi dibattuti, apostrofati o approvati dalla Chiesa 58 -, in parte
potrebbe spiegare la forte presenza di ascritti ai sodalizi del Carmine 59, poiché non
solo la devozione alle anime purganti è tra le più diffuse della Chiesa cattolica, ma la
sicurezza della liberazione dal fuoco - e poi addirittura il sabato successivo alla morte
corporale - è senz’altro una promessa accattivante rispetto a tutte le altre stabilite di
prassi negli statuti confraternali e per lo più relative al seppellimento ed alle pratiche
di suffragio nel trigesimo e negli anniversari 60. Oltretutto è stato già evidenziato che il
concetto e l’ambientazione del purgatorio nell’ideologia cattolica, ha una lunga
gestazione che, a ritroso nel tempo, superando i secc. XII e XIII - corrispondenti
grosso modo al suo slancio e prima sistemazione da parte della Scolastica - collega
questa credenza a realtà precristiane, tanto che è possibile svolgerli sullo stesso filo cui
progressivamente prende forma il culto dei morti nel mondo cristiano 61. Anche da un
punto di vista antropologico, non mancherebbero pratiche che concretizzano nel
purgatorio luoghi e usi rivolti in genere ai defunti, intesi come presenze costanti nel
mondo dei vivi.
Quanto detto, seppure brevemente, perché non è questa relazione la sede di siffatte
ricerche, è necessario per introdurre l’aspetto iconografico della vicenda: si voglia o
no riconoscere nel documento quattrocentesco della Bolla Sabatina l’attestazione di
una tradizione antica, esso è sempre l’antecedente illustre di tutte le immagini,
carmelitane e non, in cui la Vergine viene associata direttamente al purgatorio, come
particolare intercedente e liberatrice, mentre non mancano esempi precedenti in cui
Ella è posta sì in relazione al purgatorio, ma solo in veste di chi accoglie dopo
l’espiazione del fuoco 62. I già citati dipinti di Corleone (fig. 1) e di Catania ben
esemplificano, in ambito carmelitano, l’associazione della Madonna alle anime
purganti e, come si è già detto, si costituiscono come summa delle «figure simboliche»
elaborate nella specifica mariologia. Essi certamente acquisiscono diverso valore
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considerando che tale iconografia è caratteristica della Sicilia carmelitana, dove, come
si è detto, è probabile abbia avuto origine la stessa Bolla Sabatina. Per chiarire la
genesi delle immagini siciliane, bisognerà indagare i loro rapporti con quelle
«Madonne delle Grazie col Purgatorio» testimoniate in Campania 63 e in tutto il
meridione d’Italia, cui le avvicinano molti particolari iconografici della Vergine: dal
seno spremuto per far stillare latte, alla falce di luna sotto i suoi piedi. Rispetto alle
immagini campane, in cui la Madonna scende fra le anime purganti, queste
carmelitane di Sicilia sono più ortodosse, rilegando appunto la rappresentazione del
purgatorio nelle scenette laterali in cui sono illustrati i «privilegi» dello scapolare. In
una di queste la Vergine Carmelita accoglie le anime liberate dal fuoco sotto il grande
mantello e poi le presenta alla SS. Trinità. L’immagine particolare è quella della
cosiddetta «Madonna della Misericordia» (o dei «Raccomandati») che ebbe una sua
formulazione anche in ambito carmelitano 64. Una iconografia questa che, specie se
collegata al purgatorio, divenendo desueta sopravviverà in ambiente periferico fino a
data tardissima, come nella tela datata 1783 della chiesa della Madonna delle Grazie a
Caccuri, e la combinazione di questa immagine al culto principale della chiesa ospite
non è priva di significanze.
Se gli esempi siciliani presentano un’illustrazione ortodossa dell’annessione della
Madonna al purgatorio, è possibile che in ambito carmelitano dovevano pure esistere
immagini della Vergine esemplate sul tipo di quelle campane - finora è noto solo il
dipinto del convento carmelitano di Chieti 65, al contrario non sarebbe spiegabile
quanto sancito nel Decreto del 1613 in cui espressamente si prescrive ai Carmelitani di
non commissionare pitture in cui la Madonna scende direttamente nel purgatorio, ma
piuttosto che le anime vengano tratte dal fuoco da mano angelica per sua particolare
intercessione 66. In qualunque modo si siano svolte le cose, nell’immagine posttridentina della Madonna del Carmine - si ricordi qui che il Concilio di Trento con la
sua XXV sessione determinò, più o meno direttamente o indirettamente, tutta la
successiva iconografia sacra - convergono altri elementi iconografici elaborati
precedentemente nell’immagine della «Madonna delle Grazie con Purgatorio»: la
disposizione delle anime purganti - almeno come già appare in alcuni dipinti databili
dal II decennio del ’500 in poi -, la presenza della nuvola 67 che da quelle distanzia come avviene nel dipinto datato 1508 di Teggiano probabile opera di Andrea Sabatini
o in quello più noto di Pedro Machuca del 1517, ora al Museo del Prado a Madrid.
Viene espunto, naturalmente a motivo di decoro delle immagini sacre, il particolare
delle mammelle stillanti latte, sostituendolo con angeli (cfr. figg. 9-16) o Santi che
versano acqua sulle anime del purgatorio, illustrando la loro liberazione per mano
angelica. La prima traslitterazione, in ambito carmelitano, ha prototipi letterari e
tradizionali, come i miracoli di S. Eliseo e le visioni di S. Teresa la Grande 68, mentre
la seconda appare già nel Breviario di Filippo il Bello (1253-1296) ed in quello detto
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di Carlo V di un secolo successivo 69, ma qui non è annessa alla figura della Vergine,
come invece sarà sottesa nelle illustrazioni laterali dei dipinti siciliani e raramente
illustrata anche in immagini della «Madonna delle Grazie con purgatorio», come in
quella di S. Valentino Torio datata 1511 ed opera di Andrea Sabatini 70.
Certo sarebbe interessante ricercare e motivare queste dipendenze, per ora ci si limita a
rilevare che alla fine del ’500, scomparendo quasi del tutto le immagini della
«Madonna delle Grazie con purgatorio» - rimarranno solo in area provinciale - la
particolare annessione diviene precipua della «pala del Carmine», anche se non
mancano rari esempi che prevedono altri culti mariani, quali quello del Rosario, della
Cintura, dell’Immacolata e della Misericordia 71. Bisogna pure ricordare, che è proprio
in questa elaborazione post-tridentina dell’immagine del Carmine che il tipo
iconografico della Vergine del Carmelo viene ad essere quello della Bruna napoletana,
e non si sa fino a che punto in questo ebbe peso la particolare scelta operata
contemporaneamente dalle relative confraternite.
In Calabria, pur se non mancano esempi di immagini della Madonna esemplate sul
tipo di quelle della «Madonna delle Grazie con purgatorio» - fra le quali si vuole
ricordare almeno quello quattro-cinquecentesco della chiesetta della Neve a Verbicaro,
dove il Purgatorio è un secchio gremito di animule -, i primi dipinti finora conosciuti
di ambito confraternale che illustrano la Madonna del Carmine con purgatorio sono
quelli di Aieta e di Guardavalle. Purtroppo, si tiene a precisare di nuovo, che lo stato
lacunoso delle testimonianze iconografiche non permette di stabilire se realmente per
quegli anni questa immagine sia stata la «cona» più diffusa, in ambito confraternale e
in quello devozionale più generale, come è pure possibile, dato che, via via che si
avanza nel ’600, la Madonna del Carmine sarà sempre collegata al purgatorio. E tale
identificazione diverrà così sostanziale che sull’icona di Bagnara, così come si è visto
per l’abitino, verranno applicate piccole anime purganti (figg. 7-8), per meglio
sintetizzare un’immagine che, seppure all’origine non aveva bisogno di attributi
secondari, senza questi oramai appariva troppo generica.
Si è già detto che l’immagine della Madonna del Carmine, nel primo secolo della
chiesa controriformata, è quella privilegiata per la raffigurazione del purgatorio, e
come tale, quindi, può essere intesa quale tramite per quelle iconografie che dalla II
metà del ’600 - età in cui meglio si definisce il culto alle anime purganti 72 - saranno
specifiche di altre devozioni mariane: la «Madonna del Suffragio», la «Madonna del
Purgatorio», o più generalmente quelle relative al culto verso le «Sante Anime». E che
l’iconografia di queste immagini sia debitrice a quella carmelitana, lo denuncia sia il
fatto che molto spesso in esse la Vergine è dipinta secondo il modello carmelitano dipendente o no che sia dall’icona napoletana -, sia che vi appaiono elementi elaborati
proprio in seno a quelle devozioni particolari. Un esempio noto è quello della Pala del
Suffragio, dipinta nel 1687 da Giacomo Bate per la chiesa parrocchiale di Cemmo 73,
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ma per la Calabria si segnala, al momento, solo la pala della cappella del Suffragio o
del Purgatorio nella Cattedrale di Nicotera, forse opera di Giulio Rubino, dipinta
attorno al V decennio del ’700. Un caso, questo, che permette di evidenziare a livello
iconografico una commistione di tipi e titoli mariani non sempre corrispondente, e che
si rivela in parte analogo a quel fenomeno dell’annessione alla confraternita madre del
Carmine di Confraternite diversamente intitolate.
Continuando, si dirà pure che nell’iconografia della «Madonna del Suffragio», la quale
nel ’700 diverrà l’immagine specifica del purgatorio, sopravviveranno quasi tutti gli
elementi della «pala» carmelitana: il tema dell’angelo, che trae le anime dal
purgatorio, come dal Decreto del 1613; la separazione della Vergine da queste tramite
gloria di nubi; l’acqua versata da angeli o Santi sulle anime che, come mezzo di
refrigerio, sostituendo le antiche stille di latte, rende in pittura alcune pratiche rivolte
ai defunti. Enumerare tutte le testimonianze iconografiche in cui l’immagine della
Madonna del Carmine prevede anche il purgatorio è un assunto che per brevità non
può essere trattato in questa sede (cfr. figg. 7, 9-10, 14, 16, 18, 20), e diventerebbe
oltremodo pedante anche spostare l’interesse sulla particolare iconografia delle anime
purganti, scandagliandone e decifrandone la gestualità, la rappresentazione della loro
età e del sesso 74. Al fine di questa indagine, che ha voluto evidenziare la
caratterizzazione in ambito confraternale calabrese dell’immagine della Madonna del
Carmine specialmente per come poi è stata conosciuta nella devozione popolare, si
segnala la presenza di S. Michele Arcangelo su alcuni dipinti, come in quello delle
confraternite di Taverna e Gagliano. Se a Taverna questa presenza può essere
giustificata da un culto privato e preesistente alla cappella della confraternita, in
genere potrebbe alludere alle anime purganti, sia per il particolare ruolo rivestito
dall’Arcangelo nel momento del trapasso, sia perché il suo culto è a volte associato a
quello del purgatorio, come appunto nell’antica diocesi di Tropea 75.
È interessantissima, invece, l’iconografia illustrata su di un dipinto di Daniele Russo
per la chiesa Matrice di Spezzano Piccolo (fig. 20). La Vergine è su di una nuvola
sorretta da angeli - secondo un modello tipico della pittura di Ippolito Borghese, dal
quale dipende pure lo stile dell’autore, anche se ne è un tardissimo epigono - mentre
altri due la incoronano. Uno di questi regge un fiore: è un gesto diffuso
nell’iconografia della Madonna, tanto da trascendere, ma non escludere del tutto, nel
contesto particolare almeno, né le dipendenze dalla «cona» del Rosario, né il rimando
alla preghiera carmelitana del Flos Carmeli. In basso è raffigurato un affollato
purgatorio in cui le anime si rivolgono supplici alla Vergine e al suo Figlio.
L’eccezionalità dell’immagine è nella particolare risoluzione della Bruna perfettamente riconoscibile e accompagnata dall’abitino - commista al modello delle
antiche «Madonne del Purgatorio», come si evince chiaramente dal gesto del
Bambinello che letteralmente spreme il turgido seno della Madre per stillare latte sulle
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anime, seguendone la traiettoria con il capo chino. Benché la sopravvivenza di questo
schema sia rara e insolita, nel caso specifico è senz’altro frutto di una committenza sì
ritardataria ma certo non incolta, e nello stesso momento ben esemplifica che nella
immagine della Madonna del Carmine giungano, prima di passare in altre forme
devozionali, esperienze iconografiche elaborate precedentemente. Ed in questo la
confraternita di certo svolse un ruolo non secondario, poiché nella codificazione di tale
iconografia rendeva espliciti i propri appannaggi spirituali e materiali, tanto che, nella
devozione popolare, purgatorio ed abitino formano un’unità inscindibile, anche se,
come si è detto, l’immagine del purgatorio non è esclusiva di quella carmelitana. E
accade pure, quasi a dispetto delle diàtribe tra le confraternite, che in alcuni dipinti si
ritrovino associate le diverse pratiche devozionali relative al suffragio: è il caso di una
modesta tela, datata 1831 (?), custodita nella chiesa dell’Immacolata a Crotone (fig.
21): l’Immacolata sovrasta le fiamme del purgatorio, e qui le anime hanno al petto
rosari e abitini, ma bisogna ricordare che nel frattempo il particolare pettorale
contrassegnò pure altre devozioni mariane, quasi che l’abitino sia un segno della
devozione alla Vergine, indipendentemente dai singoli culti.
A questo punto, sarebbe anche interessante continuare l’analisi per indagare le
motivazioni della presenza, quasi costante, di alcuni santi sui dipinti raffiguranti la
Madonna del Carmine. A prima vista ciò sembrerebbe collegarsi esclusivamente a
culti locali particolari, ma in parte potrebbe anche avere origini carmelitane, passate
poi nella cultualità confraternale specifica, e poi in quella più generale della devozione
popolare. Anche qui però è difficile riconoscere un ruolo ben distinto delle
confraternite nella diffusione dei propri culti e delle proprie immagini. Non c’è
bisogno di spiegare né la presenza dei profeti Elia ed Eliseo - che l’antica e
leggendaria storiografia dell’Ordine riteneva suoi fondatori 76 -, né quella di santi
carmelitani; sarebbe però interessante giungere a possibili collegamenti coi culti
specifici dei Carmelitani Calzati o Scalzi. Altri santi hanno legami con le devozioni
dell’Ordine, anche se meno appariscenti. S. Anna è venerata in quanto madre di Maria,
e le antiche leggende raccontano di un suo arrivo sul monte Carmelo, e anche di un
primitivo insediamento dei Carmelitani nei pressi della Porta Aurea a Gerusalemme,
storica per l’abbraccio tra S. Anna e S. Gioacchino dopo l’annunzio della nascita della
Vergine, e perciò collegabile al suo immacolato concepimento 77. S. Antonio Abate,
per la sua vita di eremita e «fondatore» della vita monastica è considerato, sempre
dagli «storici» antichi, uno dei primi carmelitani 78. E per santi più recenti, la presenza
di S. Carlo Borromeo, potrebbe essere giustificabile dal fatto che fu cardinale
protettore dell’Ordine durante e subito dopo il Concilio di Trento 79.
Note
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LE CONFRATERNITE DEL CARMINE DELLE ORIGINI (SECC. XVI - XVII). - MOTIVAZIONI PER UNA DIFFUSIONE ICONOGRAFICA
* Questo contributo è un approfondimento del tema trattato nella mia relazione L’iconografia
della Madonna del Carmelo e la committenza confraternale in Calabria dal XVI al XIX secolo
(prime ricerche) al convegno Confraternite, Chiesa e Società. Aspetti e problemi
dell’associazionismo laicale europeo moderno e contemporaneo indetto dal Centro Ricerche di
Storia Religiosa in Puglia, in programma per aprile 1992 ma rinviato a data da destinare. Nella
prospettiva che gli atti di questo convegno calabrese vedano la luce prima di quelli pugliesi, si
è effettuata qualche ripetizione, per meglio comprendere il problema iconografico sotteso alla
rappresentazione della «Vergine carmelitana», che in genere sono state risolte in nota. Al
contrario qui non si pubblicano le foto in precedenza allegate a quell’articolo, preferendo,
anche per la particolarità di questa nuova indagine, far conoscere il meno noto o l’inedito, pur
se spesso non si tratta di opere di grande pregio artistico.
Colgo l’occasione per ringraziare la dott. L. Bertoldi Lenoci, presidente del centro pugliese di
ricerche di storia religiosa, per la gentilezza con la quale mi ha aiutato a definire il tema della
presente relazione; p. E. Boaga, per i sempre validi consigli sull’approfondimento dei temi
carmelitani; il sig. M. Marchi, priore dell’Arciconfraternita romana della «Madonna del
Carmine alle tre Cannelle»; p. B. Sgura, superiore del convento carmelitano di Palmi, la dott.
A. Lico e la dott. A. Miglorini, per la cortese disponibilità, e con loro tutti quelli che, nel
prosieguo della mia ricerca, che mira al catalogo delle immagini della Madonna del Carmine in
Calabria, sono di valido ed insostituibile aiuto.
1 La ricognizione delle confraternite esistenti in Calabria è basilare per condurre siffatta analisi,
purtroppo si è ancora lontani dalla completezza - e forse non ci sarà mai -, ciò nonostante è
possibile effettuare considerazioni di carattere generale. Per la localizzazione e la consistenza
delle confraternite calabresi si fornisce, un elenco di quelle fino ad ora conosciute, con relativa
bibliografia riportata in calce. Per ognuna di esse, tra parentesi, si riporta l’anno della probabile
fondazione (f), quello del Regio Assenso (Ra) o il periodo in cui ne è documentata l’attività
(at), precisando che specie la prima datazione non sempre sancisce l’effettiva fondazione dei
sodalizi, anzi, spesso capita che essa sia posteriore ad altre testimonianze non meno probanti. Il
punto interrrogativo (?) invece, segna quelle sedi che ritengono probabili, ma nelle quali non ho
ritrovato documentazione alcuna se non quella artistica di probabile rapporto con pratiche
confraternali. Dalla compilazione sono state escluse, a meno che non ci sia diversa
documentazione, le sedi dei conventi carmelitani, anche se è norma che presso di esse sia attiva
una confraternita (per l’elenco dei conventi in Calabria si rimanda a A. C. LEOPARDI, I
Carmelitani di Calabria, Palmi, 1987, pp. 115-162).
Elenco per diocesi (circoscritte secondo il nuovo regolamento):
Diocesi di Cassano: Castrovillari (at 1618): chiesa di S. Giuliano (at 1827), Francavilla (?)
Morano C. (at 1697, Ra 1895), Saracena (f 1939);
Diocesi di Catanzaro-Squillace: Borgia (at sec. XVII), Carlopoli (at sec. XVIII), Catanzaro (f
1639, Ra 1768), Fabrizia (?) Gagliano (at sec. XVIII), Guardavalle (at 1659), Monasterace (f
1680), Olivadi (at sec. XIX), S. Vito sullo Jonio (Ra 1777), Squillace (Ra 1776): chiesa di S.
Pietro (f 1934), Taverna (at I decennio sec. XVII);
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Diocesi di Cosenza-Bisignano: Acquappesa (f 1891), Aprigliano (a 1718), Bisignano (at 1734)
Carpanzano (a 1769), Cerisano (at fine sec. XVII, f 1824), Cosenza (f. 1892), Marano
Marchesato (f 1883, f 1955), Mendicino (Ra 1778), Paola (f 1928), Parenti (f 1854), Rende:
chiesa del Ritiro (at 1742), chiesa di S. Maria Maggiore (f 1954), Rogliano (f 1903), Rovella di
Zumpano (at. sec. XVIII) S. Lucido (f 1740), Settimo di Montalto (f 1954);
Diocesi di Crotone-S. Severina: Cotronei (at sec. XVIII), Isola (già sede diocesana, at. sec.
XVIII), Mesoraca (f 1645), S. Severina (f 1915);
Diocesi di Locri-Gerace: Antonimina (at sec. XVII), Bovalino (f 1946), Gerace: chiesa di S.
Maria di Monferrato (at metà ca. sec. XVII), chiesa del Carmine nuovo (Ra 1777), Mammola (f
1628), Roccella Jonica (Ra 1777), Siderno (at 1760): chiesa del Carmine (f 1950);
Diocesi di Lungro: Lungro (f 1638, Ra 1785: già diocesi di Cassano fino al 1913), S. Sofia
d’Epiro (at 1749: già diocesi di Bisignano fino al 1913);
Diocesi di Mileto: Cisternino (f 1879), Comerconi (at. sec. XVIII), Drosi (at sec. XIX),
Filadelfia (at. secc. XVIII-XIX), Filogaso (at sec. XVIII), Francavilla Angitola (Ra 1776),
Gerocarne (f 1680), Jonadi (f 1700), Mileto (Ra 1781), Moladi (at. sec. XX), Monteradoni (f
1875), Monterosso (at. sec. XVIII), Pizzo (at. sec. XIX), Stefanaconi (at. sec. XVIII), Vibo (?);
Diocesi di Nicastro: Adami (f 1739), Curinga (f 1705), Tiriolo (at 1615);
Diocesi di Oppido Mamertino (la maggiore parte dei paesi provengono dalla diocesi di Mileto
smembrata il 1979): noja (at. secc. XVIII-XIX), Cinquefrondi (f 1771, Ra 1779), Cosoleto (f
1928), Delianova (at sec. XVIII), Laureana di Borrello (f 1640, Ra 1777), Misignani (f 1734),
Molochio (f 1679), Oppido (at. sec. XIX), Palmi (Ra 1777), Polistena (at. sec. XVII), S.
Ferdinando (at sec. XVIII), S. Pietro di Caridà (at sec. XVIII), Sitizano (f 1769) Terranova
Sappo Minulio (f 1678), Varapodio (f 1732);
Diocesi di Reggio Calabria-Bova: Bagnara (f 1687), Ceramida (at. sec. XIX: già diocesi di
Mileto fino al 1979), Fiumara (Ra 1777), Pellaro (at sec. XIX), Roghudi (at 1625), Reggio C. (f
1520), S. Agata di Cardeto (at 1770), S. Stefano d’Aspromonte (at sec. XVIII), Scilla (f 1749)
Varapodio (at. sec. XX);
Diocesi di Rossano-Cariati: Caloveto (f 1881), Cariati (f 1900), Cirò (f 1615): chiesa di S.
Maria (f 1902), chiesa di S. Anna (f 1912), Rossano (at sec. XIX), Terranova da Sibari (?);
Diocesi di S. Marco Argentano: Aieta (at 1608, già diocesi di Cassano), Belvedere Marittimo (f
1634), Bonifati (f 1634), Ioggi (f 1954), Mongrassano (f 1654), Mottafollone (f 1787), S.
Donato Ninea (f 1792), S. Marco A. (Ra 1752), S. Maria del Cedro (?), S. Sosti (f 1897),
Scalea (at 1604, già diocesi di Cassano).
Fonti e Bibliografia: Analecta Ordinum Carmelitarum, Roma; ARCHIVIO GENERALE
DELL’ORDINE CARMELITANO, Roma; ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (R. Camera
di S. Chiara), N. I. 58; ARCHIVIO DELL’ARCICONFRATERNITA DEL CARMINE alle Tre
Cannelle, Roma; Regesto Vaticano per la Calabria, a cura di F. Russo, I-X, Roma 1974 (I vol.);
A. C. LEOPARDI, I Carmelitani ..., pp. 197-205; V. F. LUZZI, Le Memorie di Uriele Maria
Napoleone, Reggio C. 1984; M. MARIOTTI, Ricerca sulle confraternite laicali nel
Mezzogiorno in età moderna. Rapporto dalla Calabria, «Ricerche di Storia Sociale e
Religiosa», 1990, n. 37/38, pp. 141-183; E. MISEFARI, Storia sociale della Calabria, Milano,
1976; F. RUSSO, Storia della diocesi di Cassano al Jonio, I-IV, Roma 1964 (I vol); ID., Storia
dell’Archidiocesi di Reggio Calabria, Reggio C. 1961; L. RENZO, Archidiocesi di Rossanofile:///C|/Documenti/CONFRATERNITE/Vol_2/Testi_2/C11_leone.htm (17 of 45) [25/11/02 9.42.07]
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Cariati. Lineamenti di storia, Rossano S. 1990; G. VALENTE, Dizionario dei luoghi della
Calabria, I-II, Chiaravalle C.le 1973; idem, La Calabria nella legislazione napoleonica,
Chiaravalle C.le 1984; A. TRIPODI, Spigolature per la storia delle confraternite calabresi,
«Calabria Sconosciuta», XV (1992), n. 55, pp. 49-53.
2 E. BOAGA, Le confraternite del Carmine o dello Scapolare, «La dimensione mariana del
Carmelo», I, Roma 1989, pp. 68-78 (72).
3 Per la storia delle origini dei Carmelitani: J. SMET, I Carmelitani, Roma, 1989, pp. 11-61;
per l’analisi della loro pìetas mariana nei primi secoli: N. GEAGEA, Maria. Madre e Decoro
del Carmelo, Roma, 1988, pp. 55-110, 439-464, 529; E. BOAGA, La devozione mariana nelle
crociate, «La dimensione ...», pp. 5-10.
4 N. GEAGEA, Maria ..., pp. 522-533.
5 L. SAGGI, Santa Maria del Monte Carmelo, in I Santi del Carmelo, a cura di L. Saggi, Roma
1972, pp. 109-135 (pubblicato nuovamente in L. SAGGI, Santa Maria del Monte Carmelo,
Roma 1986); per specifici rimandi alla letteratura carmelitana si veda N. GEAGEA, Maria ...,
pp. 520-599.
6 A tutt’oggi non esiste una trattazione sul fenomeno iconografico carmelitano nella sua
globalità, comunque, in linee generali si può affermare - in base agli studi elencati in calce che le prime immagini della Vergine venerate dai Carmelitani, per naturalità di cose, non sono
diverse dai tipi di elaborazione «bizantina»: si possiedono ancora icone che, sebbene
diversamente datate, ricalcano l’Odighitria (Firenze, chiesa del Carmine) e la «Vergine della
Tenerezza» [Napoli, chiesa del Carmine (fig. 2); Roma, Traspontina]. Nelle icone, le diverse
esplicazioni della mariologia carmelitana, possono rispecchiarsi in base all’insita concettualità
dell’immagine.
La «figura simbolica» di «Maria Patrona» può ben leggersi sulla grande icona oggi custodita
nel Museo Macarios I a Nicosia (Cipro), proveniente da un’antica chiesa carmelitana. In questa
la Vergine, seduta in trono, accoglie i Carmelitani sotto il lembo del suo manto, mentre su
scene che corrono lateralmente sono illustrati suoi interventi miracolosi a favore dell’Ordine.
Un concetto per molti versi simile a quello della Madonna della Misericordia che pure ebbe
una sua specifica sistemazione in ambito carmelitano.
La «Virgo Purissima» - l’Immacolata o meglio la Vergine dell’Apocalisse - fra i Carmelitani
ebbe originale elaborazione, in chiave teorica ed in quella artistica, sia in relazione al
concepimento di S. Anna, sia nella specifica ideazione della figura a sola e collegata con le
litanie lauretane, e non so se ciò possa esser messo in relazione al fatto che l’Ordine - benché
nella particolare «riforma» mantovana - fu custode del Santuario di Loreto.
La «figura» di Maria quale «Madonna dello Scapolare» è complessa, perché iconograficamente
non si riferisce con semplicità alle scene di Consegna dello scapolare a S. Simone Stock:
comprende tutte le altre, in quanto lo scapolare simboleggia il privilegio dell’abito ottenuto
grazie alla sua intercessione, e solo successivamente, ma solo in ambito popolare, potrebbe
rapportarsi alle immagini della Vergine in cui Ella è raffigurata con l’abitino in mano.
La tavola di Corleone (fig. 1) è emblematica di un’iconografia che racchiude tutti i «temi»
mariani approfonditi dall’Ordine carmelitano, e che fino ad ora si è riscontrata solo in Sicilia,
ma forse diffusa anche in Calabria, a Taurianova e a Cosenza (vedi più avanti nel testo): la
Vergine è raffigurata secondo l’immagine della «Donna dell’Apocalisse», con la luna sotto i
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piedi, con il Bambino in braccio e il seno mostrato e spremuto - quasi una Madonna delle
Grazie. In basso, sono dei Santi carmelitani, fra i quali S. Simone Stock che riceve lo scapolare e sembrerebbe questa la prima rappresentazione del pio lascito. Lateralmente, in otto scene,
vengono illustrati «miracoli» della Vergine a favore dell’Ordine i benefici della devozione allo
scapolare ai religiosi, indipendentemente se frati, confratelli o consorelle. Una simile
impaginazione è nella tavola di Catania, dipinta nel 1501 dal Pastur: uguale è pure la
raffigurazione della Madonna sul purgatorio, nell’atto di accogliere sotto il suo manto le anime
elette - e si colgano i legami con l’iconografia della Madonna della Misericordia (cfr. per la
mariologia i testi citati nella precedente n. 5 ed in più si segnala: N. GEAGEA, Una forma di
culto mariano del sec. XIII: la devozione alla Madonna del Carmelo, Roma, 1979; per
l’indagine iconografica e per gli studi storico-artistici di rimando, invece, Io. B. DE LEZANA,
Maria Patrona, seu De singulari ... deserviunt, Romae 1648; P. PERDRIZET, La Vierge de la
Miséricordie, Paris 1905; E. MÂLE, L’art religeux de la fin du XVI siècle, Paris 1932; G.
GONZÁLEZ, Iconografia carmelitana, Madrid 1960; G. SAGGI, Appunti d’iconografia
carmelitana, «Lo Scapolare», I, 1950, pp. 18-22; B. BORCHERT, L’Immaculée dans
l’icographie du Carmel, «Carmelus», 2, 1955, pp. 85-131; L. REAU, Iconographie de l’art.
chrètien, Paris 1957; V. HOPPENBROUWERS, Devotio Mariana in ordine fratrum B.M.V. de
Monte Carmelo a medio saeculo XVI usque saeculi XIX, Roma 1960; C. EDMOND,
L’iconographie carmelitaine dans les ancien Pays-Bas méridionaux, Bruxelles 1961; A.
MARTINO, Arte e fede esaltano la Regina del Carmelo, in La Madonna del Carmine.
Contenuto, Storia, liturgia della devozione, Roma 1969, pp. 23-27; A. PAPAGEORGIOU,
Icones de Chipre, Geneve 1969, pp. 106-108; M.C. DI NATALE, Tommaso de Vigilia,
«Quaderni dell’Archivio Fotografico Regionale dell’Arte Siciliana», 4, 1974, pp. 23-24; 5,
1975-1977, pp. 39-40; V, ABBATE, Revisione di Antonello Panormita, «Beni Culturali e
Ambientali. Sicilia», III, 1982, 1/3, pp. 39-68; E. BOAGA, La «Bruna» e il Carmine di Napoli,
Napoli 1988; N. GEAGEA, Maria ...; Elenco delle immagini, a cura di R. Palazzi, in J. SMET,
I Carmelitani ..., I; M. A. PAVONE, La diffusione del solimenismo, nella costiera amalfitana,
in La Costa di Amalfi nel sec. XVIII (Atti del Convegno: 1985), Amalfi 1988, pp. 1017-1046.
7 L. SAGGI, La «Bolla Sabatina». Ambiente. Testo. Tempo, Roma 1967 p. 40.
8 IBID., pp. 5-26.
9 V. HOPPENBROUWERS, Devotio ..., pp. 199-206; C. CATENA, Le Carmelitane. Storia e
spiritualità, Roma 1969; L. SAGGI, La «Bolla ..., pp. 27-51; idem, Simone Stock, in I Santi ...,
pp. 320-323; V. MACCA, Nuovo dizionario di Mariologia, Torino 1985, s.v. Carmelo, pp. 312316.
10 V. HOPPENBROUWERS, Devotio ..., pp. 321-330; V. MACCA, Enciclopedia mariana
Theotòkos, Genova 1958, s. v. Lo scapolare del Carmine, pp. 446-461; C. CATENA, Le
Carmelitane ..., pp. 137-142; E. BOAGA, Le confraternite ..., pp. 70-74.
11 Elenco ..., didascalia n. 18. Si vedono pure G. BASILE, Di alcuni quadri nelle chiese di
Catania, ARCHIVIO STORICO PER LA SICILIA ORIENTALE, XIII (1916), pp. 148 ss.; M.
CATALANO, Artisti e artefici a Catania nel Rinascimento, «Bollettino storico Catanese», III
(1938), pp. 75 ss.; S. BOTTARI, La pittura del Quattrocento in Sicilia, Messina 1954, p. 91.
12 E. BOAGA, Le confraternite ..., p. 72.
13 V. HOPPENBROUWERS, Devotio ..., pp. 285-288. Cfr.: E. BOAGA, La «Bruna» ..., pp. 5file:///C|/Documenti/CONFRATERNITE/Vol_2/Testi_2/C11_leone.htm (19 of 45) [25/11/02 9.42.07]
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10 (con relativa bibliografia) e L. SAGGI, Espressioni principali di pietà popolare mariana
carmelitana, «La dimensione ...», I, pp. 79-85 (82).
14 E. BOAGA, La «Bruna» ..., p. 7. Cfr.: V. HOPPENBROUWERS, Devotio ..., pp. 287-288.
15 ID., Le confraternite ..., p. 73; ID., Il titolo Equizio e la basilica di S. Martino ai Monti,
Roma 1988, pp. 24-25.
16 Per l’icona napoletana, l’aggiunta dell’abitino, avvenuta in epoca di molto successiva, è
stata dimostrata - ed espunta - dall’ultimo restauro (cfr.: E. BOAGA, La «Bruna» ..., pp. 1517), mentre per la replica romana, ciò risulta evidente da un esame ravvicinato dell’opera.
17 A. C. LEOPARDI, I Carmelitani ..., pp. 49-57. Se le fondazioni carmelitane in Calabria non
sembrano essere antecedenti al sec. XV (cfr. per ultimo F. RUSSO, Storia della chiesa in
Calabria dalle origini al Concilio di Trento, Soveria M. 1982, p. 647), rimane aperto il
problema circa la presenza di attività carmelitane in età precedenti, e non tanto per la
circolazione di particolari culti (cfr.: A. C. LEOPARDI, I Carmelitani ..., pp. 41-42), quanto
addirittura sulla effettiva fondazione dei conventi. Per quella di Corigliano, infatti, sia la
Relazione del 1650 (ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Sacra congregatio status
regularium, Relationes, 12, ff. 481-484), sia le notizie degli storici calabresi dell’Ordine (P. Th.
PUGLIESI, Antiquae Calabrensis Provinciae Ordinis Carmelitarum exordia et progressus,
Napoli 1696, pp. 145 ss.; cfr. A. C. LEOPARDI, I Carmelitani ..., pp. 39-47, 56-57, 145),
sostengono una datazione antica, informando che nel 1493 il convento venne solo ricostruito
nel luogo attuale da altro «poco discosto».
Sulla presenza di fondazioni - o rifondazioni - carmelitane di altre provincie religiose si
conoscono solo testimonianze relative ai secc. XV e XVI: il convento di Curinga (a. 1479: cfr.
A. C. LEOPARDI, I Carmelitani .., pp. 120-121) ed il monastero femminile di Valleverde a
Caulonia [E. D’AGOSTINO, Il monastero di S. Maria di Valverde in Castelvetere. Dipendenza
calabrese di S. Caterina di Valverde in Messina (secc. XIII-XIX), in Messina e la Calabria dal
Basso Medioevo all’Età contemporanea (Atti del 1° Colloquio calabro-siculo: 1986), Messina,
1988, pp. 299-322 (306 n. 17)]. Poco indagato, invece, il fenomeno della diffusione dei
Carmelitani Scalzi: a Cosenza, a Catanzaro, e monache carmelitane e Condojanni e forse a
Saracena (cfr. anche G. FIORE, Della Calabria illustrata, II, Napoli 1691-1743, pp. 364-367,
434).
18 Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II. Calabria, a cura di A. Frangipane, Roma 1933, p.
107 (cfr.: E. BARILLARO, Calabria. Guida artistica e archeologica, Cosenza 1972, p. 107).
Per l’icona siciliana si veda: T. VISCUSO in Cefalù. Museo Mandralisca, Palermo 1991, p. 20.
19 A. C. LEOPARDI, I Carmelitani ..., pp. 136-137.
20 P. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera,
Napoli 1991, p. 232.
21 E. BARILLARO, Calabria ..., p. 157.
22 Per ultimo G. LEONE, La facciata del Carmine, «Il Serratore», IV, 1991, 19, pp. 36-39.
23 L’icona della «Bruna» di Napoli raffigura, sul fondo dorato e punzonato nelle aureole, la
Vergine con ampio maphorion blu - bordato d’oro e segnato da una grande stella -, dal quale si
intravedono il rosso della cuffia e delle maniche della veste. Ella regge il Figlio, vestito di
tunica trasparente e chitone rosso, che con la mano sinistra si aggrappa a un lembo del manto e
con la destra le accarezza il mento, accostandosi con la faccia alla sua guancia. Lo slancio del
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LE CONFRATERNITE DEL CARMINE DELLE ORIGINI (SECC. XVI - XVII). - MOTIVAZIONI PER UNA DIFFUSIONE ICONOGRAFICA
Figlio verso la Madre è sottolineato dalla posizione delle sue gambe: di una, il piede, quasi a
darsi spinta, si poggia sul braccio della Vergine, mentre l’altra, come si evince dalle numerose
copie e repliche, doveva essere penzoloni nel vuoto, ma dopo il restauro del 1974 - ed anche
prima - non v’è più traccia. La datazione del dipinto generalmente è proposta al sec. XIII, ma
considerate le condizioni della opera è tutta da verificare. La simbologia, comunque, è quella di
prassi sulle icone mariane «bizantine», così come appartiene a quella cultura il tipo effigiato:
una Glykophiloùsa o più genericamente una «Vergine della Tenerezza». Se un tempo non
molto lontano tale modello veniva definito Eleoùsa, oggi si preferisce definirlo «Vergine della
Tenerezza», evitando la pericolosa identificazione di «titolo» e tipo (cfr.: G. BABIC, Il
modello e la replica nell’arte bizantina delle icone, «Arte Cristiana», LXXVI, 1988, pp. 61-78).
Si è anche proposto (I. ZERVOU TOGNAZZI, L’iconografia e la «vita» delle miracolose icone
della Theotòhos Brefokratoùsa Blachernitissa e Odighitria, «Bollettino della Badia greca di
Grottaferrata», XL, 1986, pp. 215-287) di denominare tale tipo iconografico mariano
Theotòkos Brefokratoùsa Blachernitissa, ma sarebbe bene precisare che l’icona di questo
monastero costantinopolitano, così come identificabile sull’icona del Sinai, riproduce un
modello ben definito, che ebbe una sua diffusione, e può essere inserito in quello della
«Vergine della Tenerezza», ma non definirlo in toto.
L’ampia circolazione del modello iconografico mariano effigiato sull’icona napoletana, per
l’età medioevale è ancor tutta da definire ed andrebbero certo verificati i possibili legami con
quell’icona, di analogo soggetto, custodita nella Cattedrale di Cambrai [M. S. FRINTA, Search
for an Adriatic Painting Workshop with Byzantine connection, relazione letta al 17°
Internationale Byzantine Congress at Washington (Washington: 1986), cfr.: P. BELLI D’ELIA,
Fra tradizione e rinnovamento. Le icone dall’XI al XIV secolo, in Icone di Puglia e Basilicata
dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra (Bari: 1988) a cura di P. Belli D’Elia,
Milano 1988, p. 30], e bisogna pure aggiungere che, almeno per quella specifica napoletana - e
per altre «icone» carmelitane, non andrebbe certo dimenticata a proposito la tradizione secondo
la quale questa icona giungesse direttamente dal Carmelo in Palestina a seguito dei frati
transfughi (cfr.: Io. B. LEZANA, Maria ..., p. 31).
24 Per l’edicola marmorea, e per alcune considerazioni sul luogo del primitivo culto
all’immagine, si veda R. PANE, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, II, Milano 1977, pp.
119-127.
25 Per l’analisi degli affreschi di Amendolara si veda G. ROMA, Religio Rusticorum. Gli
affreschi della cupola dell’Annunziata ad Amendolara, Chiaravalle C.le 1984.
26 Daniele Russo è un pittore attivo - sullo scorcio della II metà del ’600 e gli inizi del ’700 nell’hinterland cosentino, e in altri centri della Calabria settentrionale, nato probabilmente a
Macchia di Spezzano della Sila, così come si può arguire da quanto egli stesso appone alla sua
firma sul quadro raffigurante l’Assunta dipinto nel 1684 per la Parrocchiale di Trenta. Il suo
stile è stato posto in relazione a quello di Ippolito Borghese (M. P. DI DARIO GUIDA, I secoli
del «pianto», in Itinerari per la Calabria, a cura di M. P. Di Dario Guida, Roma 1983, p. 266),
ma, ammesso che si stia parlando della stessa persona, sarebbe interessante indagare, essendo
Borghese attivo sino al 1621, il probabile tramite.
27 La scultura è stata esposta alla Mostra Scultura lignea barocca in Calabria (Cosenza: 1992) a
cura di R. Iannace, cat. n. 1, in corso di stampa.
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LE CONFRATERNITE DEL CARMINE DELLE ORIGINI (SECC. XVI - XVII). - MOTIVAZIONI PER UNA DIFFUSIONE ICONOGRAFICA
28 V. SAVONA, La vicenda artistica di Pietro Negroni. Annotazioni critiche, in Pietro Negroni
e la cultura figurativa del Cinquecento in Calabria, catalogo della mostra (Cosenza: 1988) a
cura di V. Savona, Cosenza-Rovito 1990, p. 17.
29 C. GELAO in Icone di Puglia ..., pp. 143-144, scheda n. 51.
30 Per le copie della «Bruna» ordinate dai Provinciali per le chiese dell’Ordine è emblematico
il caso del Belgio: V. HOPPENBROUWERS, Devotio ..., p. 287.
31 P. LEONE DE CASTRIS, La pittura ..., p. 94.
32 G. PREVITALI, La pittura del cinquecento a Napoli e nel vicereame, Torino 1978, p. 156;
M. P. DI DARIO GUIDA, I secoli ..., p. 266; P. LEONE DE CASTRIS, La pittura ..., p. 262.
33 Per ultimo P. LEONE DE CASTRIS, La pittura ..., p. 322.
34 Tra le confraternite di antica istituzione, almeno quelle di cui si ha notizia tra i secc. XVI e
XVII (Reggio C., Taverna, Scalea, Aieta, Cirò, Tiriolo, Castrovillari, Roghudi, Lungro,
Guardavalle, Catanzaro, Laureana di Borrello, Bonifati, Belvedere M., Mesoraca,
Mongrassano, Terranova S. M., Molochio, Gerocarne, Monasterace, Bagnara C., Mammola,
Morano C.: cfr. precedente n 1), solo quelle di Taverna, Aieta, Guardavalle, Bagnara e Morano
hanno custodito fino ad oggi l’originaria pala d’altare (per la descrizione si rimanda alla mia
relazione al Convegno barese). Non è escluso, però, che successive indagini possano far
accrescere il numero delle testimonianze iconografiche, rintracciando - magari in altre
collocazioni - l’antico dipinto di committenza confraternale, oppure, indicando, come nel casi
di Scalea, antiche immagini che arricchiscano la conoscenza in merito al modello diffuso
dall’attività confraternale.
35 Per l’analisi di alcuni frontespizi di opere carmelitane si rimanda a B. BORCHERT,
L’Immaculée ..., pp. 122 ss. nel quale sono forniti illustrazioni e commenti anche sulla
formazione dell’immagine della Vergine nelle «scene di consegna».
36 La legittimazione nel culto confraternale di questa diversa immagine della Madonna del
Carmine è possibile avvenga proprio per la sua presenza nel nuovo Oratorio che
l’Arciconfraternita romana costruì alle Tre Cannelle, quando, per vari motivi, lasciò la
primitiva sede di S. Martino ai Monti, pur restando ad essa legata sino al 1763 (cfr.:
ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Visite Apostoliche, documento non numerato e non
datato inserito nella Misc. 552-572; G. MARINCOLA MAURO (P. MANCINI), La chiesa del
Carmine, «AlmaRoma», XV, 1974, 12, pp. 31-36; Guide rionali di Roma, Rione II. Trevi, 2, II,
a cura di A. Negro, Roma 1985, pp. 80-83).
37 G. VALENTINO, Itinerari d’arte, Catanzaro 1991, p. 24.
38 Sullo scapolare, la sua devozione, la pertinenza all’abito religioso e l’evoluzione in ambito
confraternale N. GEAGEA, Maria ..., pp. 631 ss.; E. BOAGA, Le Confraternite ..., pp. 68-74;
L. SAGGI, Espressioni ..., pp. 85-87.
39 Inventario ..., p. 246; M. P. DI DARIO GUIDA, I secoli ..., p. 266; P. LEONE DE
CASTRIS, Pittura ..., p. 319.
40 C. GELAO, Aspetti dell’iconografia rosariana in Puglia tra il XVI e la prima metà del XVII
secolo, in Le confraternite pugliesi in età moderna (Atti del Seminario internazionale di studi:
Bari 1988) a cura di L. Bertoldi Lenoci, Brindisi 1988, pp. 527-565.
41 Inventario ..., pp. 121-122 (non è stato possibile un esame ravvicinato della tavola, né per
analisi organolettiche, né per l’indagine alla «luce di Wood»).
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LE CONFRATERNITE DEL CARMINE DELLE ORIGINI (SECC. XVI - XVII). - MOTIVAZIONI PER UNA DIFFUSIONE ICONOGRAFICA
42 E. NOVI CHAVARIA, Insediamenti e consistenza patrimoniale dei Carmelitani in Calabria
e in Puglia attraverso l’inchiesta innocenziana, in Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno
moderno, I, Galatina 1987, pp. 205-229.
43 G. TROMBETTI, Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989, p. 43.
44 T. GRAVINA CANADÈ, La chiesa di S. Francesco, «Il Serratore», III, 1990, 14, pp. 32-34
(33).
45 P. Th. PUGLIESI, Antiquae ..., pp. 145 ss. (cfr.: A. C. LEOPARDI, I Carmelitani ..., p.
145).
46 G. LEONE in Mattia Preti in Calabria, catalogo della mostra (Cosenza: 1987) a cura di A.
Ceccarelli, Soveria M. 1990, p. 4.
47 G. TROMBETTI, Castrovillari ..., p. 52.
48 Per le illustrazioni e commento di questi frontespizi si rimanda a B. BORCHET,
L’Immaculée ..., pp. 122 ss.
49 La scultura è stata esposta alla mostra Scultura lignea ..., cat. n. 31, in corso di stampa.
50 E. BOAGA, La «Bruna» ..., pp. 13-15.
51 L. SAGGI, La «Bolla Sabatina» ..., pp. 27-31, 74-83.
52 Per questi aspetti fondamentali sono L. SAGGI, La «Bolla Sabatina» ..., pp. 27 ss. ed idem,
S. Simone Stock, in I Santi ..., pp. 320-323 nei quali sono richiamati e discussi studi precedenti,
fra i quali il superato, a volte inattendibile, ma sempre utile per conoscere l’antica storiografia
carmelitana B. F. M. XIBERTA, De visione S. Simonis Stock, Roma, 1950. Per l’istituzione
della «Commemorazione solenne di Maria» e sulla forzatura di vedere in essa l’affermazione
della festa dello Scapolare, cosa che invece sembra essere degli inizi del sec. XVII si veda
sempre L. SAGGI, S. Maria ... (1972), pp. 118-122; idem, Espressioni ..., pp. 59-60.
53 L. SAGGI, La «Bolla Sabatina» ..., pp. 86-90 (cfr.: V. MACCA, Nuovo ..., p. 314).
54 S. ROSSO, Nuovo ..., s. v. Sabato, pp. 1216-1228.
55 L. SAGGI, La «Bolla Sabatina» ..., pp. 5-26.
56 P. SCARAMELLA, Le Madonne del Purgatorio. Iconografia e religione in Campania tra
rinascimento e controriforma, Torino 1992, pp. 25-100.
57 L. SAGGI, Espressioni ..., p. 85.
58 ID., La «Bolla Sabatina» ..., pp. 31-51 (cfr.: V. MACCA, Nuovo ..., pp. 314-315).
59 ID., S. Maria ... (1972), p. 134.
60 Un’analisi che, sebbene rivolta ad un territorio ben circoscritto, permette di cogliere la
globalità di questo fenomeno è in L. BERTOLDI LENOCI, Le confraternite postridentine
nell’archidiocesi di Bari. Fonti e documenti, 1, Bari 1983, pp. 51-88 (cfr. per quanto riguarda i
primordi di tali pratiche F. M. DE ROBERTIS, Le associazioni religiose con particolare
riguardo allo scopo funerario. I successivi sviluppi, in Le confraternite pugliesi ..., pp. 29-43).
Per la Calabria una prima sintesi dello sviluppo delle confraternite è in M. MARIOTTI, Ricerca
sulle confraternite ..., pp. 141-183.
61 J. LE GOFF, La nascita del purgatorio, Torino 1982 (part. pp. 3-142).
62 P. SCARAMELLA, Le Madonne ..., pp. 65-100.
63 IBID., pp. 5 ss.
64 P. PEDRIZET, La Vierge ..., pp. 150-193.
65 P. SCARAMELLA, Le Madonne ..., p. 124 (cfr.: G. FERRI PICCALUGA - G.
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LE CONFRATERNITE DEL CARMINE DELLE ORIGINI (SECC. XVI - XVII). - MOTIVAZIONI PER UNA DIFFUSIONE ICONOGRAFICA
SIGNOROTTO, L’immagine del Suffragio, «Storia dell’arte», 49, 1983, pp. 235-248 (241, n.
32).
66 Fra tutti si cita L. SAGGI, La «Bolla ..., pp. 40-41 (cfr.: P. SCARAMELLA, Le Madonne
..., pp. 93-94, 214).
67 La presenza delle nuvole nelle immagini sacre, ha sempre rappresentato la linea di
demarcazione tra lo spazio celeste e quello terreno, come tale, quindi, si può affermare che sia
stata utilizzata secondando il tipo di rapporto che nel tempo e nella devozione viene a
impostarsi tra i due. Questa divisione, espressa o no dalle nubi, è essenziale nel Medioevo, rara
nell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma divenne di nuovo fondamentale nel lungo
periodo della Chiesa controriformata, che vide nelle nuvole apoteòsi e teofanìa. Nonostante ciò,
non è mancato in ambito carmelitano, di leggere nella nube che generalmente accompagna le
immagini della Vergine un significato eliano, rivedendoci la nubecula parva in cui il Profeta
prefigura la venuta del Messia. Se nelle immagini postridentine della Madonna del Carmine, la
presenza della nuvola può ben essere considerata l’effetto di quanto sancito nel Decreto del
1613 (si veda precedente n. 66), non mancano certo esempi - specie di età anteriore - in cui la
simbologia carmelitana è ben espressa. Comunque, interessante sarebbe approfondire il
passaggio che, nella specifica iconografia della Vergine del Carmelo, avviene dalla
rappresentazione della Madonna nella mandorla a quella nella nuvola (cfr.: B. BORCHERT,
L’Immaculée ..., pp. 130-131).
68 Per l’annessione del «tema» del refrigerio alla raffigurazione dei due Santi si veda S.
TERESA DI GESÙ, Opere, a cura di P. E. Cereda di Gesù - P. F. Arante Roma 1950, pp. 26-28
(cfr.: G. FERRI PICCALUGA - G. SIGNOROTTO, L’immagine ..., p. 237 n. 14); T.
STRAMARE - F. SPADAFORA, Eliseo Profeta, in I Santi ..., pp. 204-209.
69 J. LE GOFF, La nascita ..., pp. 419-420 (cfr.: P. SCARAMELLA, Le Madonne ..., pp. 9394).
70 Per i dipinti citati, oltre a P. SCARAMELLA, Le Madonne ..., passim, si rimanda, per più
puntuali annotazioni critiche, a P. GIUSTI - P. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento
a Napoli. 1510-1540. Forastieri e regnicoli, Napoli 19882, passim.
71 P. SCARAMELLA, Le Madonne ..., pp. 203-245 [l’ampio saggio, nella prima parte, ben
articolato nonostante gli incolmabili vuoti per mancanza di testimonianze iconografiche, a mio
personalissimo avviso, sorvola in alcuni aspetti che invece potrebbero dare maggiori
connessioni all’interpretazione dell’immagine mariana (es.: periodo di formazione delle
iconografie occidentali della Vergine e legami della «Madonna del Purgatorio» con la
precedente formulazione della «Bolla Sabatina»), e addirittura non mi sembra ben accorto nella
seconda parte, cioè nell’esame del periodo postridentino. Infatti, accomuna tutte le immagini
della Vergine legate al purgatorio nonostante i diversi titoli devozionali, quasi dimenticando il
ruolo privilegiato che ebbe appunto la Madonna del Carmine, sia in ambito teologico, sia in
quello devozionale. Per quest’ultimo, e per il meridione italiano, si rimanda a quanto di volta in
volta rilevato da R. DE MAIO, Pittura e controriforma a Napoli, Bari 1983].
72 G. FERRI PICCALUGA - G. SIGNOROTTO, L’immagine ..., pp. 247-248.
73 IBID., pp. 237 ss.
74 IBID., pp. 243-245.
75 A. TRIPODI, Spigolature ..., p. 49.
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76 L. SAGGI, Agiografia carmelitana, in I Santi ..., pp. 25-91; T. STRAMARE - F.
SPADAFORA - C. PETRES - F. NEGRI ARNOLDI, Elia profeta. Santo, in I Santi ..., pp. 136153; T. STRAMARE - F. SPADAFORA, Eliseo ..., pp. 204-209.
77 B. BORCHERT, L’Immaculée ..., pp. 85 ss. [cfr.: L. SAGGI, S. Maria ... (1972), pp. 125126].
78 L. SAGGI, Agiografia ..., pp. 39 e passim.
79 J. SMET, I Carmelitani, II, Roma 1990, pp. 14 e passim.
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LA CONFRATERNITA DELLA B.V.M. DI MONTE CARMELO DI CU... DEL PASSATO E DI ATTIVAZIONE DI ENERGIE PROGETTUALI
LA CONFRATERNITA DELLA B.V.M. DI MONTE CARMELO DI CURINGA:
UN’IPOTESI DI RECUPERO DEL PASSATO E DI ATTIVAZIONE DI ENERGIE
PROGETTUALI
Sebastiano Augruso
Numerose confraternite fiorivano a Curinga tra il Cinquecento e gli inizi del secolo
XIX. Restano oggi, ancora vive ed attive, la Confraternita dell’Immacolata
Concezione e, per l’appunto, la Confraternita della B.V.M. di Monte Carmelo. Di
recente quest’ultima ha avviato un’interessante esperienza di rinnovamento, che
potrebbe essere una conferma ai convincimenti di chi ritiene che la storia di tante
confraternite calabresi non sia tutta chiusa in archivio. Adeguatamente stimolate, esse
possono ridiventare luoghi di vita e strumenti efficaci di intervento nella nostra realtà.
Limiti di tempo impediscono, in questo momento almeno, di esporre, a guisa di
premessa, le essenziali linee storiche del movimento confraternale a Curinga. Non è
nemmeno possibile soffermarsi sulle dinamiche immediate che concorrono a spiegare
il processo in questione; il quale, in ogni caso, recepisce esigenze varie e diffuse,
maturate negli ultimi due decenni precedenti, dall’attenzione ai nuovi linguaggi ed ai
problemi dell’inculturazione della fede alla riscoperta delle istituzioni ecclesiali e della
pietà degli strati popolari calabresi, dalla domanda di una spiritualità e di una teologia
biblicamente connotate e della evidenziazione della centralità dei poveri all’insistenza
per una ecclesiologia di comunione e per il pluralismo associativo.
Tale processo di riplasmazione, oserei dire di rifondazione, veniva avviato il 1985, con
la missione del Carmelo italiano a Curinga e con l’affidamento, da parte del vescovo
della Diocesi di Lamezia Terme, mons. V. Rimedio, di restaurare il monastero di S.
Elia Vecchio, - menzionato dalle fonti come insediamento basiliano dal secolo XI, nel
1632 offerto dagli ultimi eremiti ai Carmelitani della Riforma di Monte Santo -, e di
realizzare, in relazione al monumento, un «Centro di Spiritualità e di Accoglienza».
Il progetto soggiacente al processo mira a restituire alla confraternita il suo interno
dinamismo attraverso un recupero, - che deve essere guidato dalla sapienza spirituale e
da una rigorosa intelligenza storico-antropologica -, di tutti gli elementi costitutivi
della sua fisionomia carismatica, in un atteggiamento di rispettosa fedeltà, senza
frivole indulgenze a tentazioni di riesumazioni meccaniche e di strumentali revivals, e,
nel contempo, a declinare gli elementi della tradizione individuando il futuro di cui
sono gravidi, a ritradurli in un linguaggio comprensibile nella situazione attuale, a
reinvestirli in proposte capaci di rispondere alle sfide dell’oggi. Si elencheranno, in
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LA CONFRATERNITA DELLA B.V.M. DI MONTE CARMELO DI CU... DEL PASSATO E DI ATTIVAZIONE DI ENERGIE PROGETTUALI
sintesi, i temi e gli ambiti sui quali si sta esercitando tale tentativo di recupero critico e
di attivazione di energie e progettuali.
1. Il riferimento al Carmelo
È vivo nella coscienza collettiva come identificazione con l’Ordine, del quale la
confraternita si sente la continuatrice dopo le soppressioni, come collegamento a quelli
che il Carmelo considera come i suoi antecedenti veterotestamentari; su tale base
l’azione formativa cerca di innervare i motivi spirituali del Carmelo stesso, che nel
nostro tempo si autodefinisce «fraternità contemplativa in mezzo al popolo»: la
«theosis» della tradizione orientale e la «salita del monte» dei grandi mistici
carmelitani come apertura alla trascendenza, presentata come universo fecondo di
significati, in un’epoca anomica ed alla ricerca di senso; la tensione escatologica come
affermazione dei valori della gratuità in una cultura dominata dal pragmatismo e
dall’utilitarismo individualistico; la dimensione contemplativa non come intimismo
destorificante, ma come lucidità demistificante, come capacità di entrare nel cuore del
reale, di guardare il mondo scoprendovi le dinamiche del progetto di Dio a partire dai
poveri; il silenzio e la solitudine non come separazione, ma come distanza critica,
spazio di decondizionamento e di libertà in un tempo di clamori e di manipolazioni
della coscienza; la centralità della croce come prezzo di un impatto maturo con la
realtà, come risposta all’edonismo deresponsabilizzante, come assunzione amorosa
della pena del mondo.
2. Le figure modello: Elia profeta
Elia, che l’Ordine carmelitano considera come suo padre e modello, è forse la figura
che più profondamente è entrata nell’immaginario collettivo religioso di Curinga. In
sintonia con le antiche tradizioni dell’Ordine, da un canto popolare egli è considerato
come il fondatore sul Carmelo del primo convento. In consonanza con l’apocalittica
giudaica, dalle leggende che lo riguardano è presentato come un vivente, conservato
nel Paradiso terrestre per gli ultimi tempi, presenza numinosa, «genius loci», che
aleggia in un clima caratterizzato dal «fascinosum» e dal «tremendum» insieme, nei
due conventi, quello, già citato di S. Elia Vecchio e quello, più recente (1652) e più
vicino al paese, noto alle fonti come «S. Elia in cremenza». In una leggenda di
fondazione è lui che ha scelto il luogo in cui doveva sorgere il nuovo convento e ne ha
squadrato il chiostro. È l’uomo divorato dallo zelo ardente della causa di Dio, punitore
di scellerati, di bestemmiatori, di preti indegni. Come nel folklore ebraico, appare
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LA CONFRATERNITA DELLA B.V.M. DI MONTE CARMELO DI CU... DEL PASSATO E DI ATTIVAZIONE DI ENERGIE PROGETTUALI
spesso misteriosamente, sotto mentite spoglie, nella solitudine dei boschi e lungo i
greti delle fiumare (c’è forse qui anche una traccia di Elia ispiratore della vita
eremitica, immagine fatta propria anche dall’esicasmo, trasmessa probabilmente dal
monachesimo italo-greco). Come nel folklore russo e nella liturgia bizantino-slava, è il
celeste custode dell’acqua e del fuoco, invocato dai contadini nei periodi di siccità.
Partendo da tale sostrato, l’azione formativa nella confraternita, attingendo sia alle
letture della tradizione, patristica, monastica, carmelitana, della figura del profeta, sia
all’esegesi contemporanea, entrambe ricchissime di stimoli per l’oggi, - si pensi, per
tutte, all’interpretazione di Carlos Mesters, che opera in Brasile -, propone Elia come
assertore di un rigoroso monoteismo che sottrae l’uomo alla schiavitù degli idoli del
nostro tempo, come contemplativo che entra nelle profondità di Dio, come uomo di
fede che condivide l’emarginazione dei poveri, impegnato nella lotta per la giustizia e
nella difesa dell’identità culturale del suo popolo affrontando un potere prevaricatore e
mafioso, come riconciliatore.
3. Le figure modello: Maria
Nella religiosità popolare di Curinga, come d’altra parte, nell’Ordine carmelitano ed in
tutto il mondo cattolico, a partire dal XVI sec., anche in termini iconografici, la
Madonna del Carmine è soprattutto la Madonna dello Scapolare, la Vergine che salva
dalla dannazione eterna e libera dalle pene del purgatorio. La Madonna del Carmine è,
nel contempo, nella pietà popolare di Curinga, la Madre e la compagna di Cristo,
invitata dai fedeli a rallegrarsi, nei sette mercoledì dopo Pasqua, per i doni a lei
concessi da Dio. Sia la prima immagine che la seconda conservano una profonda
validità teologica e spirituale e vengono riproposte nell’ottica della partecipazione di
Maria al mistero pasquale del Cristo. La Madonna del Carmine è, nel linguaggio
popolare corrente, a Curinga, semplicemente «la Carmelitana». L’appellativo si
collega all’immagine di Maria «soror nostra» del Carmelo del secolo XIV. In un canto
popolare si assiste ad una vera e propria mariofania sotto le apparenze di una monaca
carmelitana a favore di una sventurata; l’iconografia corrente rappresenta la Madonna
del Carmine, a partire dal Cinquecento, vestita dell’abito dell’Ordine. Sulla scia di tale
immagine, Maria viene riproposta nella confraternita come compagna nel cammino di
fede e nell’assimilazione della Parola di Dio. Maria è, nella tradizione della
confraternita come dell’Ordine, «Decor Carmeli»; nella formazione Maria viene
pertanto offerta, nella linea della teologia della bellezza, come modello realizzato di
un’umanità armoniosamente ricomposta secondo le ragioni di Dio. La Madonna del
Carmine appare, infine, nei canti popolari di Curinga, come la patrona dei poveri, dei
perseguitati, dei carcerati, di chi ha il cuore ferito, degli emigranti. Da qualche anno la
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confraternita ha avviato un lavoro nel campo dell’emigrazione, che ha come fine
quello della difesa dell’identità dei Curinghesi lontani e, in prospettiva, della
ricomposizione della comunità.
4. La formazione, la liturgia, la pietà
Caduta, forse da un secolo, la pratica dell’anno di formazione sotto un maestro dei
novizi, abbandonate da decenni le pratiche domenicali e mensili di pietà previste dallo
statuto, senza un padre spirituale, l’acculturazione dei nuovi membri della
confraternita è stata praticamente assicurata quasi esclusivamente dalla mediazione
familiare. È attualmente in fase di sperimentazione una nuova «ratio» educativa, che,
valorizzando l’apporto della famiglia, recuperi le grandi indicazioni della tradizione
carmelitana e punti, pertanto, sulla «lectio divina», su incontri di spiritualità, su una
lettura di fede della realtà sociale e culturale, con articolazione in fasce di età, nella
rivalutazione, soprattutto, dell’Eucarestia come uno dei poli, assieme alla «lectio»,
della spiritualità dei confratelli e come elemento fondante della vita in fraternità.
5. La solidarietà, l’ecclesialità, la memoria
Forte è ancora nella confraternita il sentimento dell’appartenenza, che stabilisce
legami non soltanto tra le persone, ma anche tra famiglie, intere aree parentali, rioni, e
che è alimentato da una tenace memoria storica. Vivace è la coscienza della dignità e
della specificità laicali, il desiderio di partecipazione. L’attuale processo di
rinnovamento tende a sostanziare tali valori di un più operoso e attivo sentimento
comunitario vivificato dalla carità evangelica, a valorizzare la domanda di
partecipazione, mediante una distribuzione di responsabilità e mediante la riattivazione
delle istituzioni (assemblea e consiglio) attraverso le quali la partecipazione stessa si è
espressa. Appare in fase di superamento l’atteggiamento di conflittualità col clero e la
confraternita pensa sempre più se stessa all’interno di una prospettiva di parrocchia
intesa come comunione di comunità. Il sentimento della memoria viene canalizzato e
valorizzato nel senso della promozione di energie che lavorino per la tutela e la
valorizzazione dei beni culturali ed artistici della confraternita stessa, della comunità
ecclesiale, dell’intera comunità civile di Curinga.
6. La diakonia
Il processo di rinnovamento in corso è vissuto dalla confraternita oltre che come
ripensamento dell’identità anche come ricerca di un ruolo, di un servizio specifico, sia
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LA CONFRATERNITA DELLA B.V.M. DI MONTE CARMELO DI CU... DEL PASSATO E DI ATTIVAZIONE DI ENERGIE PROGETTUALI
all’interno della comunità ecclesiale che nei confronti della società. Si accenna
brevemente ad alcune di queste forme di servizio.
La diakonia mistagogica. È la diakonia più omogenea al carisma del Carmelo. Si
esprime come offerta di spazi di meditazione della scrittura, di preghiera, di
mediazione tra fede e cultura.
La diakonia della memoria. Si esprime attraverso il «Progetto Anamnesis» ai cui
contenuti si accennava sopra. Ultimamente è stata promossa, dietro incarico della
Soprintendenza Archeologica di Reggio Calabria, una campagna di scavi che ha
riportato alla luce nella Piana di Curinga un villaggio neolitico della cultura di
Stentinello.
La diakonia della diaspora. Promuove il lavoro relativo all’emigrazione al quale sopra
si accennava.
Prevalentemente il servizio «ad extra» è organizzato dal «Centro di Spiritualità e di
Accoglienza», una struttura operativa della confraternita, che in futuro avrà sede nei
locali previsti accanto al S. Elia Vecchio e sarà animato da una comunità di religiosi o
di religiose del Carmelo; attualmente opera nei locali del convento adiacente al
Santuario «Maria SS.ma del Carmelo». Il periodico «Lettere dal Carmelo» svolge il
ruolo, all’interno della confraternita, di strumento di comunicazione di iniziative e
programmi; si propone all’esterno come possibile spazio di lettura di fede della realtà.
Nella stessa ottica di mediazione tra esperienza spirituale e confronto col territorio
dovrebbero muoversi le ipotizzate «Edizioni del Ginepro» oltre che come strumento di
recupero e riproposta di testi ed esperienze della tradizione spirituale e di pietà
popolare della Calabria.
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Natale Pagano
La già diocesi di Nicotera, oggi Mileto Nicotera Tropea, è una delle più antiche sedi
episcopali d’Italia.
La sua origine, ufficialmente viene ascritta al I secolo, in quanto di essa parla nelle sue
Lettere Papa San Gregorio Magno 1.
La tradizione orale, invece, la fa risalire all’anno 65 d.C., in quell’anno, infatti, pare
che il vescovo di Reggio, il protomartire Santo Stefano Niceno, abbia imposto le mani
sul primo vescovo della Città, il nicoterese Niceforo 2.
Questa credenza non è corroborata, però, da documentazione scritta, mancante per le
note vicissitudini che caratterizzano la storia dei primi secoli delle nostre comunità. Va
però tenuta presente l’esistenza nel quarto secolo, della Massa Nicoterana che,
unitamente a quella Silana e alla Tropeiana, costituivano il patrimonio terriero di San
Pietro, più importante nel Bruzio 3.
Pertanto, se nel quarto secolo, era in vita ed efficiente un così cospicuo patrimonio, la
cui formazione era dovuta alle donazioni da parte dei fedeli del posto che avevano
tradotto in essere i precetti evangelici, il che, necessariamente, porta all’esistenza, in
quel periodo, di una comunità molto potente e molto formata avente come capo un
episcopo o Presbitero.
Come detto la documentazione dei primi secoli, relativa alla storia ed alla vita di
questa diocesi è totalmente mancante.
Quella che resta va dal 1513 ed è tutta inventariata, catalogata e quel che più conta è
tutta schedata.
Ciononostante non è raro ritrovare altri documenti che molto spesso integrano e
completano i vuoti esistenti nei vari periodi.
Recentemente, infatti, ho quasi completato il fondo Relationes ad Limina,
integrandolo con i documenti avuti in fotocopia e provenienti dall’Archivio segreto
vaticano, per cui posso affermare che, oggi, questo fondo ad incominciare dalla
Relazione di mons. Ottaviano Capece del 1590, è quasi al completo 4.
Pertanto, da questa data fino ai giorni nostri si ha una visione completa dello stato
politico-economico-sociale-religioso della Città e diocesi di Nicotera.
La mia ricerca sulle confraternite di questa diocesi, pertanto, prende l’avvio dalla
consultazione del fondo «Relationes ad Limina», per poi integrarsi coll’altro fondo
delle «sante Visite», purtroppo non completo e discontinuo, per concludersi con i
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Registri degli Esiti e degli Introiti e con le Platee dei beni e con i Sinodi, esistenti
nell’Archivio storico vescovile di Nicotera 5.
Devo, altresì, aggiungere che nel corso di queste ricerche sono riuscito a recuperare
alcuni Statuti di cui si ignorava l’esistenza, relativi ad alcune confraternite 6.
Ma procediamo con ordine presentando il territorio giurisdizionale di questa diocesi
che poi è quello concesso dopo la restaurazione della Cattedra Episcopale nicoterese
avvenuta il 14 agosto del 1392, meno il territorio dell’Archimandritato di Joppolo,
restituito soltanto nel 1927, e che, in precedenza, faceva parte dell’arcidiocesi di
Reggio Calabria.
Con questa restaurazione, Nicotera, oltre ad aver perduto il privilegio di sede
episcopale immediatamente soggetta alla Santa Sede, perde anche gran parte del suo
territorio, già precedentemente assottigliato e compromesso da Ruggero il Normanno
nella formazione della già diocesi di Mileto, per cui la diocesi nicoterese viene ad
avere un territorio molto limitato in estensione territoriale anche se omogeneo nella
sua organicità comprendente i Comuni di Nicotera con i casali di Comerconi, Badia,
Preitoni e Caroniti, «l’oppido» di Motta Filocastro con i casali di Limbadi,
Mandaradoni, Caroni e San Nicola de Legistis.
Il primo documento che dà la situazione delle confraternite esistenti in diocesi, è la
Relatio ad Limina del 10 giugno 1590 di mons. Ottaviano Capece che afferma:
«(...) Tam in Cathedrali quam in omnibus Ecclesiis parochialibus (...) ascripta adsunt
Confraternitates SS.mi Corporis X.ti (...) et tres Confraterintates SS.mi Rosarii quae
visit(ationem) Ordinarii reverentes recipiunt, decreta Sinodalia observant ac de
administratis rationem reddunt» 7.
Alla luce di questo documento si deduce che tutte le dieci chiese parrocchiali hanno
una confraternita dedicata al SS.mo Sacramento 8 ed altre tre di cui si ignora la chiesa
parrocchiale, hanno un’altra confraternita dedicata alla Madonna del Rosario 9.
Mons. Ottaviano Capece nella relazione che fa alla Santa Sede il 2 aprile del 1592 è
molto più preciso nella terminologia e negli oneri gravanti sulle confraternite, infatti,
tutte le confraternite «Ordinarii visitationes recipiunt» e allo stesso vescovo «rationem
redunt» 10.
In questo documento il vescovo non scrive più «ascripta sunt» ma «erecta sunt»,
analogamente in tutte le altre relazioni 11 di mons. Ottaviano Capece, il cui lungo
episcopato termina nel 1619.
A questo Prelato successe il suo coadiutore mons. Carlo Pinto (1619-1644) che nella
relazione del 1626 conferma che in Cattedrale «adest SS.mi Sacramenti Societas et
illius bona, et introitus fideliter adlinistrant per procuratores et magistros ejusdem
Societatis qui singulis annis rationem de ipsorum administratione reddunt» 12.
Mons. Pinto in questo atto, per la prima volta, fa espressamente riferimento alla
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Confraternita del SS.mo Sacramento esistente nella chiesa parrocchiale di San Nicola
de Legistis, che «in coeteris casalibus» annualmente «procuratores et magistri
renovant», che si ha molta cura del SS.mo Sacramento, e che le congreghe rendono
conto della loro amministrazione alla Curia Vescovile.
Molto particolareggiata è la relazione di mons. Carlo Pinto del 1632: «In ipsa
Cathedrali (...) adet Sodalitas Laicorum pro cultu et in honorem Sanctissimi
Eucharestiae Sacramenti authoritate Ordinaria restituta (...) ejusdem administratores
quotannis ex praescripto Sacrosancti Concilii Tridentini Episcopo vel iis quod
Episcopus deligit rationem reddunt» 13.
Nello stesso documento mons. Carlo Punto sostiene che «in Oppido Mottae Philocastri
habet Sodalitatem Laicorum, et ultra ipsas Sodalitates SS.mi Sacramenti, adest
Congregatio Virorum Piorum».
Nella relazione del 1636 il Pinto evidenzia i compiti e gli oneri gravanti sulle
confraternite: «In eadem Cathedrali Ecclesia adest Confraternitatem SS.mi Sacramenti
quae ex legatis piis, et elemosinis praeter satisfactione missarum onerum, erogant satis
congrue sumptus ad ornatum, et paramenta, et quaecumque alia necessaria pro cultu et
veneratione SS.mi Sacramenti». Analogamente negli altri centri in cui trovasi la stessa
confraternita «qua potest diligentia cultu et ornatu ob tenuitatem Beneficiorum
paupertatem et exiguitatem populi exercente munia parochialia et cultus divinus» 14.
Mons. Pinto segnala ancora che a Motta Filocastro: «Sub dominio temporali Ducis
Montis Leonis (...) est ecclesia matrix sub titulo Sanctae Mariae de Romania in qua
(...) adest Societas SS.mi Sacramenti quae hanbet sufficientes redditus annuos pro
oneribus ijs, quae pertinent ad ornatum, cultum et venerationem ipsius SS.mi
Sacramenti» e che nella stessa Motta e più precisamente nella chiesa di Santa Caterina
si trova un’altra confraternita di cui non è dato conoscere la dedicazione.
Della Confraternita del SS.mo di Motta nel Museo diocesano di Arte Sacra di Nicotera
esiste la pergamena di aggregazione ad un’arciconfraternita romana 15.
La stessa cosa afferma per San Nicola da Legistis ove ci sono due confraternite, una
dedicata, e si sapeva, al SS.mo Sacramento la quale ha un reddito sufficiente per le
necessità ed il culto del Santissimo Sacramento, «et altera autem Sanctissimae
Conceptionis ex elemosinis tum et ex aliquibus paucis redditibus annuis missas (...)
celebrari curant (...) paramentis aliis necessariis».
Anche il casale di Limbadi (diventerà sede del Comune, a danno di Motta Filocastro
nel 1836), risulta avere due confraternite: una dedicata al SS.mo Sacramento esistente
nella chiesa parrocchiale di San Pantaleone e l’altra «in ecclesia sub invocatione
Sanctae Catherinae intus quam est erecta Confraternitas, et ex elemosinis (...) missas
celebrant».
Incerta è la data di nascita della Confraternita Gesù Maria di Nicotera anche perché in
nessun documento rimasto si fa riferimento dell’esistenza di questo Sodalizio.
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
La prima notizia certa trovasi in un Registro Miscellanea di mons. Pinto dell’anno
1636 ove viene riportato:
Ill.mo e Rev.mo Signore,
il Procuratore e fratelli della Congregazione di Gesù Maria di questa Città di Nicotera,
supplicando l’espongono come già hanno eretto la loro nuova chiesa sotto il
felicissimo auspicio di V.S.Ill.ma e quella hanno provvisto delle cose fini necessarie
perché di devozione tiene obligo di celebrare due messe la settimana, per: tutti flexis
genibus supplicano V.S.Ill.ma si degni concedere loro licenza che demattina 25 del
corrente mese di aprile prossimo cominciano celebrare la Santa Messa in detta loro
nuova chiesa acciò possano sodisfare a detti loro oblighi che oltre è giusto non ci
faranno supplicare il Signore per l’esaltazione di V.S.Ill.ma con ricevere il tutto a
grazia speciale ut Deus 16.
Questo documento, inedito, mette la parola fine su tutte le congetture e le notizie
romanzate relative alla costruzione della chiesa 17 che vogliono fatta edificare dal
sacerdote Giuseppe Adorisio per soddisfare un voto fatto allorché fu deportato dai
Turchi al tempo dell’incursione turchesca del 19 giugno del 1638, e poi sfuggito
miracolosamente dalla prigionia fece ritorno in patria 18.
Da questo atto risulta, invece, che la chiesa fu costruita dai Confratelli della congrega
in data imprecisata e benedetta il 25 aprile del 1636, vale a dire due anni prima
dell’assalto dei Turchi.
Alla luce di questo documento, visto il silenzio esistente in tutti gli altri atti custoditi in
Archivio, nasce spontaneo chiedersi quando la congrega è stata istituita ed in quale
chiesa essa si riuniva.
Considerando la conformazione topografica del quartiere in cui è ubicata la chiesa,
sono del parere che la confraternita è stata originariamente eretta nella chiesa di San
Sebastiano, forse sotto l’episcopato di mons. Capece e che successivamente i
confratelli abbiano voluto erigere un proprio tempio, posto nelle stesse pertinenze di
San Sebastiano.
I due sacri edifici, infatti, sono vicinissimi 19.
La prima documentazione che fa riferimento a questa chiesa a parte quella del Pinto, è
la relazione del 25 aprile 1649 di mons. Camillo Balbo la quale fa semplicemente
cenno all’esistenza della sola chiesa senza per nulla citare la confraternita. In merito
però devo precisare che la lunga relazione di mons. Balbo non parla delle confraternite
esistenti in diocesi 20.
Molto più precisa è, invece, quella di mons. Francesco Aricò del 16 ottobre 1666 la
quale dice: «In altera ecclesia sub invocatione Jesu Mariae ubbi missae celebrantur ac
per confratres paiae exercitationes et mortificationes exercentur» 21.
In altro documento si fa riferimento ad un atto esistente in Curia del 1706 nel quale
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
viene affermato che la chiesa fu fondata nel 1636 e che dice: «dentro della Chiesa di
Gesù e Maria sta eretta la confraternita sotto il titolo di Gesù Maria coll’assenso
dell’Ordinario, e li fratelli di detta confraternita seu Congregatione magiormente ed
altri Benefattori hanno con le loro elemosine fatto non solo tutte le sopra dette robbe e
suppellettili, ma di più socorsero la chiesa da settanta anni in qua, et oltre le sopradette
robbe l’infrascritti suppellettili» 22.
L’abito di questa confraternita è un sacco bianco sul quale s’indossa una mozzetta
rossa con fascia rossa orlata con striscia celeste.
Di questa congrega sono riuscito a rintracciare l’antico Statuto, compilato molto
probabilmente nel 1777.
Lo Statuto è denominato: «Regole della Confraternita di Gesù e Maria», consta di
nove articoli che cosi recitano:
1. È solito che a tre di maggio si fa la festa dell’esaltazione del SS.mo legno della
Croce nella medama chiesa con uscire processionalmente il legno della Croce per la
Città vicino l’ore venti 23 con il capitolo e religiosi e fratellanze;
2. È solito che il giorno della medama festa si fa l’elezione del Rettore, del Priore, due
Assistenti, due Claviggeri, il Sacristano e Procuratore;
3. È solito che i venerdì di marzo si fa l’esposizione del SS.mo Sacramento con uscire
ogni venerdì vicino l’ore ventidue il SS.mo Crocifisso per la Città processionalmente e
l’ultimo venerdì esce processionalmente la SS.ma Vergine dei sette Dolori con andare
per la Città vicino l’ore ventidue e pois i leva nella chiesa Madre dove si sta facendo la
predica e si fa molto profitto per l’anime nostre;
4. È solito che avanti la Domenica di Quaresima si fa l’esposizione del SS.mo
Sacramento principiando da giovedì e continuamente infino Domenica la mattina poi
si canta la Messa;
5. È solito che per fare tutte queste Funzioni esce un fratello per fare la questua
essendo la chiesa povera senza avere rendite;
6. Tiene la medama confraternita un oratorio attaccato con le mura della medama
chiesa di Gesù e Maria fatto anticamente dai fratelli;
7. È solito che il venerdì Santo vicino l’ore ventiquattro esce la processione colli
misteri della Passione di nostro Signore Gesù Cristo con fare pure anche una machina
tutta piena di lumi e là dentro il nostro Redentore;
8. Che li fratelli quando fanno processioni potessero portare sopra dell’elmuzia una
fascia rossa a guisa di stola, con apprendersi nell’estremità l’insegna di Gesù e Maria;
9. Che godesse la confraternita suddetta il titolo di arciconfraternita 24.
Nel 1777 i fratelli scrivono al Re di Napoli la seguente lettera per chiedere il «regio
assenso»:
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Li sottoscritti e croci segnati Fratelli della Congregazione di Gesù e Maria della Città
di Nicotera Provincia di Calabria Ultra, supplicando espongono alla M.V. qualmente
avendo per lunga esperienza osservato che detta Congregazione sia sempre ben
governata con alcune regole, si sono risoluti per la maggior osservanza di quelle, e per
il maggior culto di Dio d’impetrare il Real Beneplacito di V.M. quindi umiliano essi
supplicanti alla M.V. le predette Regole e la supplicano di voler concedere il Regale
assenzo tanto su d’esse quanto su la fondazione predetta a tenore del veneratissimo
Dispacci del 29 giugno dello scorso anno 1776 e l’avranno a grazia ut Deus» 25.
Segue la firma ed il segno di croce di venti iscritti e la convalida del Notaio Laureana
di Nicotera.
Lo stesso Statuto viene presentato nel 1910 all’approvazione dell’Ordinario diocesano
con lievi modifiche rispetto all’originario.
C’è anche una relazione presentata al vescovo dalla quale risulta che nel 1910 vi sono
trecentosessanta confratelli; che le provviste per il culto e per quanto occorre sono
fatte dalla confraternita secondo le richieste del Rettore della Chiesa; che i confratelli
sono assidui agli esercizi di pietà, ma vi sono alcuni che non si accostano ai
Sacramenti.
Le rendite sono quelle che si ricavano dalle tasse annuali pagate dai confratelli e
vengono amministrate dal Priore col controllo di tutti gli altri ufficiali.
La confraternita ha, altresì, delle consorelle associate che hanno tutti i vantaggi propri
dei confratelli, ma non hanno un abito particolare.
La confraternita, infine, non ha legati da assolvere.
Dal 1 gennaio 1899 al 6 luglio 1910 essa ha avuto un introito di L. 6.668,85 ed un
esito di L. 8.126,22 in quanto è stato soddisfatto un debito di L. 2.020 con il
costruttore Carmine Isaia che aveva eseguito dei lavori di restauro nella chiesa 26;
erano state, inoltre acquistate tre nuove campane per L. 1.014,30. Complessivamente
in dodici anni si era spesa per il culto della chiesa la somma di L. 2.029,22. Per
pareggiare il deficit il Padre Spirituale ha rinunciato al suo onorario ascendente a L.
1.250, per cui il deficit della confraternita rimane di L. 197,37. Vi sono, però,
cinquantotto confratelli morosi 27.
Nel 1666 mons. Francesco Cribario relaziona alla Santa Sede in questi termini:
Intus Cathedrale tribus diebus in hebdomada recitatur Rosarium Beate Mariae Virginis
a confratribus huiusmodi Confraternitatis quod olim recitabatur in Ecclesia parvi
Conventus Ordinis Sancti Dominici nunc suppressi.
La congrega in questione è quella del SS.mo Rosario posta nella chiesa della SS.ma
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Annunziata dei Padri Domenicani il cui convento era stato soppresso nel contesto delle
disposizioni innocentiane del 1653 28.
Sulla erezione di questa confraternita, le cui prime notizie si trovano nella Relazione
ad Limina del Capece del 1590, ci sono dei dati controversi.
Alcuni scrittori del secolo scorso, infatti, sulla scorta di non so quale documento
attestano che la confraternita è stata istituita da mons. Bartolomeo De Ribero nel 1699.
Questa affermazione naturalmente, alla luce, della documentazione precedente non ha
più valore.
A mio avviso mons. De Ribero nel 1699, dopo aver provveduto alla riparazione della
chiesa della SS.ma Annunziata, che per lungo tempo era rimasta abbandonata, in
quanto fuori le mura, provvede ai restauri del tempio spinto dalla sollecitazione di tutta
la cittadinanza, molto legata a questa chiesa, ed autorizza i confratelli che nel
contempo si erano trasferiti nella chiesa cattedrale a far ritorno alla propria chiesa.
I confratelli di questo Sodalizio indossano, come divisa, il camice bianco con il
cingolo, la mozzetta nera di seta con fregio bianco e la fascia a righe bianche e
marroni.
I confratelli che costituiscono la cattedra invece della mozzetta nera adoperano quella
rossa, il priore sulla stessa porta una lamina di argento con su impressa a sbalzo la
Madonna del Rosario.
Anche di questa congrega esiste lo Statuto, recentemente da me recuperato che è stato
redatto nel 1777, nonché la lettera inviata al Re per la richiesta del Regio Assenso nel
contesto della regia circolare del 29 giugno del 1776.
La confraternita fu riconosciuta da Re Ferdinando IV con Regio Beneplacito del 29
giugno 1776.
Con atto del Notaio Pupa del 27 ottobre 1863 la chiesa del SS.mo Rosario, olim della
SS.ma Annunziata, già appartenente ai Domenicani e poi ai Conventuali, fu assegnata
alla confraternita dei Rosarianti 29.
Dalla Relazione di Santa Visita di mons. Giuseppe Leo del 1910 risulta che i
confratelli sono centosettantuno e sono assidui unitamente alle sorelle alle funzioni ed
alla recita del SS.mo Rosario e si accostano ai Sacramenti.
Le sorelle godono gli stessi diritti dei fratelli, prendono parte a tutte le funzioni ma non
hanno abito speciale o particolare.
Vi sono, inoltre dodici fratelli di cappa. Dal registro degli Esiti e degli Introiti del 1910
è di L. 331,30 l’esito, invece è di L. 409,10 per cui a fine anno si registra un deficit di
L. 77,80.
Da altri numerosi documenti emerge ancora che tutti gli arredi specialmente
l’argenteria sono di proprietà della congrega.
«L’argenteria fu comprata dal priore pro tempore dell’ente Cassa Sacra giusto atti di
notar Nicola Cioffi del 25 aprile 1864» 30.
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Le prime notizie sulla congrega di Comerconi di Nicotera dedicata al SS.mo
Sacramento provengono dalla Relatio ad Sacra Limina del 1590 di mons. Capece, cui
fa seguito nel 1636 e 1638 mons. Pinto il quale precisa che le rendite sono molto
pingui «et qua potest diligentia cultu et ornatu ob tenuitate Beneficiorum paupertatem
et exiguitatem populi exercent munia Parochialia et cultus Divinus» 31.
Le successive Relationes non fanno più riferimento alla confraternita ma soltanto alla
chiesa parrocchiale.
Analogamente i resoconti sulle Sante Visite effettuate anche nel XVIII secolo non
fanno alcun cenno di questa confraternita.
Di questo sodalizio esiste, però, nell’Archivio storico vescovile l’antico Statuto
manoscritto o «Regole della Confraternita dell’SS.mo eretta dentro la chiesa
parrocchiale di Comerconi in questo anno 1799 come apparisce per decreto di erezione
della R.ma Curia Vescovile» 32.
Nonostante le ricerche fatte in Archivio non sono riuscito, fino al momento, a
rintracciare questo Decreto Vescovile.
Lo Statuto consta di diciannove articoli:
P.ma Regola
Adempiuto che avranno tutto quel si comanda de Novizii nella sottoscritta Regola, in
una delle sere si eserciterà la Congregazione. Si sisteranno avanti l’Altare del SS.mo
Sagramento con pietra e fune al collo, corona di spine a capo, e candela accesa in
mano, il Padre Spirituale dirà cantando.
Salvos fac seros tuos.
SX Deus Meus sperantes in Te.
Mitte eis auxilium de Sancto
SX.Et de Sion tuere eos
D.ne exaudi me. Domine Vobiscum
Oremus
His famulis tuis, quaesimus D.ne, Coelestis Gratiae munus impartire, ut iuncta eorum
Oratio et operatio a Te semper incipiat et per te coepta finiat. Per Christum.
Gli Officiali devono essere nel modo seguente Prefetto, R.mo Assistente e Secondo.
Li subalterni sono V.S.
Due Consultori, Avvocato, due Maestri di cerimonia, due Sagristani, un COnfaloniere,
due infermieri, due Piscatori, un Cassiere, l Maestro dei Novizii, ed un Razionale, che
sappia leggere, e scrivere dovendo ogn’anno prendere i conti delle rendite di detta
Congregattione dall’Esattore a cui spetta fare detta esazione, tenendosi una cascia con
due chiavi serrata. E tutti li quali Officiali si eleggeranno per ogn’anno nella sollennità
del Corpo di Cristo, e quelli s’intendono fatti chi avranno più voti.
Si stabilisce, e si ordina che in tutte le occorrenze di detta, nessuno dei fratelli avesse
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
ardito di disturbare quello che sarà conchiuso dal Prefetto, R.mo, e Secondo
Assistente, due Consultori, ed avocato et tutto quello sarà conchiuso dalli medesimi, li
fratelli l’abbiano per rato, grato e fermo.
Regola Seconda
Resta determinato che il Prefetto e p:mo Assistente, finito l’anno del loro Officio
restino da semplici portinari e da superiori li più inferiori.
Regola Terza
Tutti quelli che appresso entreranno in detta Congregazione devono per lo spazio di
mesi due fare da novizi e nel noviziato devono mostrarsi più ubbidienti.
Regola Quarta
Morendo alcuno dei Novizii, non debb’aver altro che il solo accompagnamento, e per
la di loro anima Messe cinque, ponderando quanto spetta pagare ciaschedun fratello.
Regola Quinta
Perché detta Congregazione non si può mantenere senza l’aiuto dei fratelli, si
stabilisce che pagasse ciaschedun di essi grana dodici per ogni anno.
Regola Sesta
Volendosi alcuno arrollare alla detta Congregazione ch’ecceda l’età di anni quaranta
debba pagare carlini sette.
Regola Settima
Perché si deve obbligazione speciale al nostro Protettore S. Nicola ed Avvocato S.
Antonio di Padova come quelli che ci han difeso, ci difendono e ci difenderanno da
tutt’i mali per tanto si determina che detta Congregazione accompagni nella
processione detti Santi nelle loro Feste.
Regola Ottava
Tutt’i questi Fratelli devono assistere alle funzioni che si faranno da detta
Congregazione perché non si ritrovano ammalati, o impediti legittimamente.
Regola Nona
Ogni Novizio, ch’entra, dovrà pagare carlini tre più la torcia, e dopo si comprerà a
spese della Congregazione.
Regola Decima
Sapendo gli Infermieri che alcuno dei fratelli sia infermo, devono andare a visitarlo e
dopo dirlo in Congregazione.
Regola Undecima
Essendo visitato da detti Infermieri alcun fratello infermo il quale sia povero, che non
possa sostenersi, siano obligati i Fratelli soccorrere detto infermi bisognoso
Regola Duodecima
Morendo alcun Fratello, sia obligata la Congregazione predetta dar celebrare carlini
venticinque di Messe per l’anima del fratello defunto fra lo spazio di un mese pagando
ciaschedun fratello la sua tangente, e se taluno non adempirà detto pagamento, sia
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
cancellato da detta Congregazione e privato dei Fratelli di quella Regola.
Regola Decimaterza
Nella morte di qualsiasi Fratello siano tenuti tutti di accompagnare il cadavere sino al
sepolcro con abito e cereo e debbano recitare per ciascheduno cinque Rosarii, cioè tre
assieme nelli giorni di Congregazione e due a loro commodo fra lo spazio di giorni
otto, e mancando alcun dei Fratelli senza di essere leggittimamente impedito e senza
licenza del Padre Spirituale debba pagare carlini due.
Regola Decimaquarta
Nessuno dei Fratelli abbia ardire di querelare alcuno di detti Fratelli, senza licenza del
Padre Spirituale, e del Prefetto, ed in caso contrario sia obbligato all’amenda di tutte le
spese.
Regola Decimaquinta
Essendo il fine della fratellanza, il servire con maggior fervore Iddio e la Chiesa, deve
ognuno servir di lume, e dar buon’Esempio agli altri e star lontano dalla bestemmia,
Ubbriacatezza, ed altri peccati, che potessero essere d’inciampo, e rovina al Prossimo;
ed accadendo qualunque sappia, siano tenuti gli altri Fratelli notificarlo al Padre
Spirituale, per darci quel rimedio opportuno, che richiederà la contingenza.
Regola Decimasesta
Che tutti li Fratelli si debbano confessare e Communicare per ogni terza Domenica del
Mese; purché non siano leggittimamente impediti altrimenti saranno puniti ad arbitrio
del Padre.
Regola Decimasettima
Ogni Fratello deve ricevere qualunque penitenza data dal Padre Spirituale altrimenti
sarà punito gravemente e cassato dalla Tabella.
Regola Decimottava
Se Alcuno manifesterà la penitenza data dal Padre, dev’essere cassato dalla Tabella e
perde ogni cosa.
Regola Ultima
Se Alcuno sene uscirà da detta Congregazione, se poi vuole ritornare deve pagare tutte
le mesate, e carlini cinque 33.
Dagli Atti di Santa Visita di mons. Giuseppe Leo del 1910 risulta che nella chiesa
parrocchiale di Mandaradoni di Limbadi, dedicata a Santa Maria ad Nives i si trova
ancora efficiente e funzionante la Confraternita del SS.mo Sacramento.
Questa confraternita ha ancora il proprio Statuto che però viene modificato a «seconda
delle circostanze».
L’abito dei confratelli è il sacco con fascia rossa; sono quaranta iscritti, mentre le
sorelle sono cinquanta. Entrambi pagano L. 1,20 cadauno per ogni anno.
Il Cassiere ed il Priore provvedono per la cera occorrente per il culto liturgico.
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Per la morte di ogni associato si celebrano ventiquattro Messe e si recitano tre rosari in
chiesa, hanno, inoltre diritto ad un «tumulto» nella cappella posta nel cimitero
comunale.
Il «banco» si rinnova il primo gennaio di ogni anno ed è composto dal priore e da due
Assistenti. Nello stesso giorno l’esattore presenta i conti e si pagano le spese fatte nel
corso dell’anno.
Durante la Quaresima tre volte alla settimana si riuniscono in chiesa e recitano per
circa una mezz’ora le prescritte preghiere e si conclude l’incontro con la benedizione
fatta col Crocifisso 34.
Altra confraternita di cui si ignora l’anno di fondazione è quella dedicata al Cuore di
Gesù e di Maria posta nella chiesa parrocchiale di Badia di Nicotera.
L’abito è il sacco con la mozzetta celeste e la fascia rossa. Possiede lo Statuto. I fratelli
di «monte» sono trentanove, quelli di «cappa» sono diciannove, le sorelle invece sono
trentasei.
Per avere diritto alla sepoltura nella cappella cimiteriale che è di proprietà della
confraternita è obbligatorio che ciascuna famiglia della parrocchia abbia un membro
iscritto alla congrega.
Le elezioni degli «uffiziali» vengono fatte annualmente dai fratelli di cappa.
Ogni associato deve partecipare alle sacre funzioni e alla deliberazioni della
confraternita nonché deve pagare annualmente la somma di L. 1,25.
Gli associati devono partecipare col prescritto abito a tutte le processioni ed alla
benedizione col Santissimo la prima domenica di ogni mese.
La confraternita accompagna, inoltre, e porta il cadavere «dalla casa alla chiesa dei
confratelli e sorelle, assiste all’ufficio ed alla Messa, poi recita il Rosario in suffragi
del defunto».
«Il direttore spirituale è il Parroco, senza alcuno stipendio. I doveri sono di presenziare
alle deliberazioni, ed alle sacre funzioni; la congrega non ha provviste per il culto; i
confratelli sono diligenti ed assidui agli esercizi di pietà, frequentano i Sacramenti ed
adempiono agli oblighi verso i confratelli e sorelle defunti, nelle esequie e nei
funerali» 35.
Nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù e Maria SS.ma Addolorata di Limbadi si trova la
confraternita omonima di cui non si hanno documenti inerenti alla sua fondazione.
L’abito distintivo è un camice bianco con cappuccio e «tracolla celeste».
La congrega ha perduto il Regio Assenso al tempo della distruzione della chiesa
avvenuta col terremoto del 16 novembre 1894 e dell’8 settembre del 1905.
I fratelli pagano annualmente L. 2,50 mentre le consorelle, che non hanno abito
particolare, la somma di L. 1,25.
Il contributo annuale viene speso per le necessità della chiesa e della confraternita
stessa.
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Il numero degli iscritti è di sessantanove tra fratelli e sorelle.
Con Decreto vescovile del 1882 del 28 giugno veniva istituita nella chiesa
parrocchiale di San Giuseppe di Nicotera la confraternita omonima. L’abito dei
Confratelli è il sacco bianco con mozzetta rossa e fascia gialla 36.
Dagli atti di Santa Visita del 1910 si rileva che in quel tempo la confraternita è
temporaneamente priva di Statuto e che quanto prima «appena saranno pagati i debiti
che ha la confraternita stessa si farà domanda alla R.ma Curia per l’elezione degli
Ufficiali» 37.
Note
1 N. PAGANO, La diocesi di Nicotera - Dalle origini al VI secolo, San Calogero 1983; D.
CORSO, Cronista Civile e Religiosa della Città di Nicotera, Napoli 1882.
2 D. TACCONE GALLUCCI, Monografia delle diocesi di Nicotera e Tropea, Reggio Calabria,
1904; F. SORACE, Cenni biografici dei vescovi di Nicotera. La Medma obliterata, Manoscritto
inedito, esiste copia in ARCHIVIO STORICO VESCOVILE.
3 G. MONACO, Note sull’origine della diocesi di Nicotera, opera inedita, esiste copia in
questo ARCHIVIO STORICO VESCOVILE.
4 Il fondo «Relationes ad Sacra Limina» (da ora in poi R.S.L.) dei vescovi di Nicotera esistente
in questo ARCHIVIO STORICO VESCOVILE, recentemente è stato tutto completato, con la
integrazione dei documenti mancanti per mezzo di fotocopie inviate dall’ARCHIVIO
SEGRETO VATICANO.
5 ARCHIVIO STORICO VESCOVILE NICOTERA (da ora in poi A.S.V.N.), fondo «Santa
Visita», Santa Visita del 1682 alla chiesa parrocchiale di Motta Filocastro fatta dal vicario
foraneo don Antonio Tropea, L. 4;
A.S.V.N., Santa Visita del 1700 fatta dal decano Giuseppe Baratta, L. 48;
A.S.V.N., Registro delle Visite Pastorali di mons. Michelangelo Franchini dal 1842 al 1852, L.
18;
A.S.V.N., Santa Visita del 1706, di Mons. ANTONIO MANSI, fascicolo Mansi;
A.S.V.N., Platea seu Inventarium Bonorum et in.rium V.bilis EcclesiaeIesu Mariae Civitatis
Nicoteren del 1706;
A.S.V.N., Platea seu inventarium delli beni e rendite della Venerabile Cappella del SS.mo
Sacramento di Comerconi del 1728;
A.S.V.N., Platea seu repertorium Bonorum, iurium et sacrarum supellectilibus Venerabilium
Cappellarum Sanctissimi Rosarii Ecclesiae Caroni del 1753;
A.S.V.N., Liber Venerabilium Cappellarum Ruris S. Nicolai de legistis-Sanctissimi et
Conceptionis del 1765;
A.S.V.N., Nota dell’entrata che tiene la chiesa di Santa Catarina di Limbadi del 1732;
A.S.V.N., Inventario delli beni della Venerabile Cappella del Santissimo Sacramento della
Città di Nicotera del 1625;
A.S.V.N., Platea dei beni che possiede la soppressa Cappella del SS.mo eretta nella Chiesa
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
Cattedrale di Nicotera fatta nel 1788;
A.S.V.N., Mons. FRANCESCO FRANCO, Constitutiones et Acta Sinodi Nicoterensis, Napoli
1772;
A.S.V.N., Mons. LUIGI MARIA VACCARI, Constitutiones Sinodales pro dioecesibus
Nicoterae et Tropeae, Napoli 1883;
A.S.V.N., Mons. ANTONIO MANSI, Sinodus Dioecesana, Messanae, 1705;
A.S.V.N., Mons. EUSTACHIO ENTRERI, Atti di Santa Visita del 1740, L. 45;
A.S.V.N., Mons. EUSTACHIO ENTRERI, Atti della Santa Visita del 1742, n.
XVIII/VESC/29;
A.S.V.N., Mons. PAOLO COLLIA, Santa Visita del 1723, n. XVI/VESC/11;
A.S.V.N., Mons. PAOLO COLLIA, Atti della seconda Santa Visita, n. XVI/VESC/20;
A.S.V.N., R.S.L. di mons. PAOLO COLLIA del 1731, n. XVI/VESC/34;
A.S.V.N., Descrizione del Vescovado di Nicotera nel 1734, di mons. PAOLO COLLIA, n.
XVI/VESC/43;
A.S.V.N., Statuto della Congregazione del Santissimo Rosario di Nicotera del 1777;
A.S.V.N., Regole della Confraternita del SS.mo eretta dentro la Chiesa parrocchiale di
Comerconi in questo anno 1799 come apparisce per decreto di erezione della R.ma Curia
Vescovile.
6 A.S.V.N., Statuto della Congregazione del SS.mo Rosario di Nicotera del 1777;
A.S.V.N., Regole della Confraternita del SS.mo eretta dentro la chiesa parrocchiale di
Comerconi del 1799.
A.S.V.N., Regole della Confraternita di Gesù e Maria di Nicotera, n. I/VIS/48.
7 A.S.V.N., Fondo Relationes ad Sacra limina, fascicolo mons. Ottaviano Capece.
8 Le confraternite dedicate al SS.mo Sacramento sorsero nel XVI secolo e si propagarono
rapidamente nel contesto anche della Bolla di Papa Paolo III del 30 novembre del 1539. Quasi
tutte le chiese parrocchiali, infatti, avevano istituito una congrega dedicata al culto e
all’adorazione del Santissimo Sacramento.
9 Le congreghe dedicate alla Madonna del SS.mo Rosario sorsero in gran numero dopo la
vittoria di Lepanto del 7 ottobre del 1571. Alla propagazione di queste confraternite dette dei
Rosarianti contribuirono notevolmente i Padri Domenicani.
10 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicolo mons. Capece Ottaviano.
11 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicolo mons. Carlo Pinto.
12 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicolo mons. Carlo Pinto.
13 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicolo mons. Carlo Pinto.
14 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicolo mons. Carlo Pinto.
15 A.S.V.N., Fondo «Pergamene», Pergamena miniata di grandi dimensioni di Ioannes
Baptista Titulo Sanctae Mariae Angelorum praesbiter Cardinali Spinula del 14 febbraio del
1745.
16 A.S.V.N., Registro di mons. Carlo Pinto dal 1619 al 1645.
17 D. TACCONE GALLUCCI, Monografia ..., p. 23.
18 R. CORSO, Echi Leggendarie delle Incursioni Barbaresche sopra Nicotera in Libia «Rivista
di Studi Libici», vol. II, anno III, Tripoli d’Africa 1955.
«(...) il sacerdote Giuseppe Adorisio, fatto schiavo e tradotto in Tunisi, si guadagnò, per il suo
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
carattere, la compiacenza del padrone e da questi venne incaricato ad accompagnare un
famiglio ad attingere acqua, preso il mare. Li la sorte lo avrebbe favorito, facendogli trovare
una barchetta, onde saltatovi dentro, raggiunse una nave che lo sbarcò a Reggio Calabria giunto
in Nicotera, nel momento in cui si erigeva la Chiesa di Gesù e Maria, vi offrì l’altare ed un
quadro ex voto che rappresentava la scena della sua fuga miracolosa».
19 A.S.V.N., Registro Gesù e Maria, 1706:
«La detta Chiesa di Gesù e Maria stà eretta nell’inferiore parte del Borgo di questa Città
lontana dalla fontana di basso circa trenta passi che li stà per occidente, e circa altri quaranta
passi lontana dalla chiesa di San Sebastiano, che li stà di sotto dalla parte di mezzogiorno.
Tiene la detta chiesa di Gesù e Maria la Porta nella parte occidentale, e l’altare maggiore sotto
titolo di Gesù e Maria nella orientale, che però sta di rimpetto alla detta porta, avante la quale
stà alquanto spatio, che confina con la casa nova di esso Procuratore (Rev. Giacinto Ceareo).
Dentro la detta chiesa vi stanno due altri altari uno dalla parte di tramontana sotto il tiolo
dell’Immacolata Concettione, e l’altro al muro di mezzogiorno sotto titolo di San Michele
Arcangelo, di detta chiesa tra il detto altare maggiore e quello di San Michele Arcangelo vi sta
la porta della Sacristia nella quale si scende per due gradini.
Quale Sacristia è una stanziola puochi anni sono fabbricata di pietre e calce, attaccata al muro
di mezzogiorno di detta chiesa di Gesù e Maria per commodo della detta cheisa e
conservattione dei sacri suppellettili, però non tiene alcun soffitto; ma la detta chiesa lo tiene di
tavole dipinte con chiodi dorati in mezzo alli cerchi della pittura, che quantunque di settanta
anni a dietro fatta dipingere, pure si mantengono non dispiacevoli alla vista.
(...) Dentro detta chiesa di Gesù e Maria sta eretta la Confraternita sottotitulo di Gesù e Maria
Coll’assenso dell’Ordinario; e di fratelli di detta Confraternita seu Congregatione
maggiormente, et altri Benefattori hanno con loro elemosine fatto non solo tutte le sopradette
robbe e suppellettili ma di più soccorrono la detta chiesa da settanta anni in qua et per
commodità particolari di detta Congregatione, tengono oltre le sopradette robbe l’infrascritti
suppellettili».
20 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicolo mons. Camillo Balbo.
21 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicolo mons. Francesco Aricò.
22 A.S.V.N., Registro Gesù e Maria, 1705.
23 Le ore sono da calcolare secondo l’orario napoletano: dal sorgere del sole al tramonto dello
stesso.
24 Dai documenti custoditi nell’A.S.V.N. non risulta che la confraternita abbia ricevuto il titolo
di arciconfraternita.
A.S.V.N., Chiesa e Confraternita di Gesù e Maria, fascicolo Santa Visita, vol. II, n. I/VIS/48:
«(...) Nella chiesa si celebrano ogni anno le funzioni seguenti: Le solenni quarantore, dal
Vespro della feria V dopo la Domenica di Sessagesima alla conventuale di Domenica di
Quinquagesima. La Via Crucis in tutte le domeniche da quella di Settuagesima alla domenica
IV di Quadragesima inclusive. I venerdi di marzo nelle ore del mattino e nella prima ora della
sera. La feria V in Coena Domini, e la feria VI in Parasceve, il mese di Maggio con
predicazione canto e benedizione con l’ostensorio, il mese di giugno consacrato al Sacro Cuore
di Gesù, con lettura devota canto e benedizione con la Pisside, il mese di ottobre, la solenne
novenae festa della SS.ma Addolorata nella terza o dell’Immacolata e del Natale con
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LE CONFRATERNITE DELLA DIOCESI DI NICOTERA
l’esposizione del SS.mo e nelle prime ore, del mattino, le solennità del Natale e dell’Epifania
prima dell’aurora, ringraziamento dopo il vespro del primo giorno dell’anno, coroncina del
Sacro Cuore di Gesù nel primo venerdi di ogni mese, messa cantata nelle principali solennità
dell’anno, nelle solenni quarantore, nella festa della Santa Croce, dell’Arcangelo Michele, della
B.V. sotto il titolo della Consolazione, di San Nicola, dei fedeli defunti, nella chiusura del mese
di maggio, nella domenica infra octavam Corporis Christi con l’esposizione del SS.mo, nel
giorno del Sacro Cuore di Gesù e nella chiusura del mese di giugno. Ne porta le spese la
confraternita».
25 A.S.V.N., Chiesa e Confraternita di Gesù e Maria, fascicolo Santa Visita, vol. II, n.
I/VIS/48.
26 A.S.V.N., ibid.
27 L. D’AVANZO, Descrizione di Nicotera in un apprezzo del 1646:
(...) in detta Chiesa vi è la Congregazione del Santissimo Rosario.
N. PAGANO, Il Complesso Monastico dei Padri Conventuali di Nicotera in I Beni Culturali e
le Chiese di Calabria, Reggio Calabria 1981, pp. 523-532.
28 A.S.V.N., Confraternita del SS.mo Rosario di Nicotera, fascicolo Santa Visita, vol. II, n.
I/VIS/45.
29 A.S.V.N., ibid.
30 A.S.V.N., ibid.
31 La confraternita acquistò le seguenti opere: tre calici di argento, un incensiere con relativa
navetta di argento, la statua lignea della Madonna del Rosario fatta scolpire da Domenico De
Lorenzo nel 1808, una grande campana da Francesco Borgia nel 1871 ed un confessionale
ligneo fatto nel 1822 a cura del Priore Gaetano La Tessa.
32 A.S.V.N., Fondo R.S.L., fascicoli Capece e Pinto.
33 A.S.V.N., fascicolo Chiesa di Comerconi.
34 A.S.V.N., Statuto della Confraternita.
35 A.S.V.N., Confraternita di Mandaradoni e di Limbadi, fascicolo Santa Visita, vol. II, n.
I/VIS/58.
36 A.S.V.N., Chiesa di Badia di Nicotera, fascicolo Santa Visita, vol. II, n. I/VIS/47.
37 A.S.V.N., Chiesa d San Giuseppe di Nicotera, fascicolo Santa Visita, vol. II, n. II, N.
I/VIS/47.
38 A.S.V.N., ibid.
39 La Cattedra è stata eletta il quattro novembre 1989.
40 Le cappelle cimiteriali tuttora esistenti nel Cimitero di Nicotera sono quelle della
Confraternita di Gesù e Maria, di San Giuseppe e di Badia di Nicotera.
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
Giovanni Russo
Nella prima metà del secolo XVI, Polistena, piccolo casale della Baronia di San
Giorgio, si avviava ad assumere una fisionomia più consistente. È in tale epoca che il
fermento politico-culturale-religioso si accentuò con la nascita di nuove strutture ed
istituzioni religiose. Alle ormai decadute presenze basiliane 1 che gravitarono nell’area
rurale polistenese, succedevano nuove iniziative ecclesiastiche. Nel 1537, infatti,
veniva fondato il convento degli Osservanti 2 e, nel 1540, quello dei Cappuccini 3.
All’antica Chiesa Madre dedicata a S. Marina si aggiunsero numerose chiese tra cui
quella della SS. Trinità 4, sorta prima del 1540 sull’area sovrastante una ormai
abbandonata grotta basiliana, e quella di S. Maria degli Angeli, fondata «in solo» nel
1542 5. Anche la vita civile e politica che, fin dal 1502, era dominata dalla presenza
dei vari Consalvo, Elvira e Fernando di Cordova 6, non mancò di registrare ulteriori
fermenti. Nel 1540, infatti, un importante convegno si tenne a Polistena ove vennero,
addirittura, esibiti i privilegi di Gerace 7. Fu in tale occasione, che coincise con la
venuta di Ludovico Consalvo Ferdinando di Cordova, nipote del Gran Capitano, che
potrebbe essere stata collocata la lapide marmorea a lui dedicata da Giovanni Ramires
Salazarius, Contador Generale 8. Ed in questo contesto che precede il concilio di
Trento, che in Polistena, casale infeudato agli Spagnoli, si svilupparono numerose
confraternite 9, organi di mistica religiosità che ebbero lo scopo di raccogliere tra le
proprie fila cittadini di ogni espressione sociale, oltre che inculcare il senso religioso
ed organizzare iniziative di assistenza, nonché sepoltura e suffragi agli aggregati dopo
la morte.
Prima, forse, in ordine di tempo ed alla luce della frammentaria documentazione ad
essa relativa, può considerarsi quella della SS.ma Trinità, eretta nella omonima
Chiesa. Non si conoscono i particolari e la data esatta della sua fondazione che si può
ipotizzare anteriore alla data del 21 giugno 1540, epoca in cui Paolo III concedeva
indulgenze per il giorno della festa del S. Salvatore «Pro ecclesia seu oratorio
confraternitatis SS. Trinitatis loci Polistinae ...» 10. Ulteriori indulgenze le venivano
elargite dallo stesso Papa il 10 Dicembre del 1541, per il giorno della Transfigurazione
11.
Secondo Uriele Napolione, la chiesa fu «fondata in solo ad istanza de cittadini a 5
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febbraio del 1541 col peso annuale al Capitolo Lateranense di due libre di cera» 12.
Nonostante le divergenze, grazie al Regesto di P. Russo, si può affermare che la chiesa
preesisteva alla data del 1540. Nell’archivio della confraternita si conserva una
pergamena con la quale, sotto la data del 10 febbraio 1541, si riconosceva
l’aggregazione della chiesa alla Arcibasilica romana di S. Giovanni in Laterano,
aggregazione che, avvenuta ad istanza del sodalizio, arricchì sia la chiesa che la
confraternita di molti privilegi, fra cui la completa esenzione dalla giurisdizione
dell’Ordinario 13.
Altra aggregazione del sodalizio fu quella fatta all’Ordine Trinitario e, precisamente,
alla Trinità degli Spagnoli in Napoli 14. È del 16 settembre del 1592 15 la pergamena
di riconoscimento, sottoscritta dal Frate Giovanni Navarro, Maestro in Sacra Teologia,
Ministro Provinciale nonché Commissario Generale dell’Ordine della SS. Trinità per
la liberazione degli schiavi di tutt’Italia e Sicilia, che la inviò al sodalizio polistenese
dal monastero partenopeo.
Secondo Rocco Liberti 16, la fondazione della Chiesa e della confraternita potrebbe
essere stata ispirata dalla più importante Abbazia normanna della SS. Trinità di Mileto,
il che sposterebbe indietro l’epoca di fondazione dell’istituzione polistenese.
La visita pastorale 17 effettuata da mons. Del Tufo, nel 1586, registrava questa
confraternita di laici i cui Cappellani figurarono Antonino Coraca 18 e Antonino Sopo,
mentre negli atti della Visita del 1630 veniva annotata la presenza della confraternita
«cum saccis rubei coloris» 19. Tale vestimento dei confratelli viene confermato anche
dalla Visita del 1716 che precisa la mancanza dello scapolare 20. Tra le funzioni
antiche 21 promosse dalla confraternita, oltre le statutarie pratiche religiose, si ha
memoria di una «Processione dei misteri» 22 che si svolgeva nel Giovedì Santo, agli
inizi del ’700, ma che doveva essere una tradizione molto più antica dovuta alla
presenza dei Domenicani nella chiesa della Trinità nella seconda metà del XVI secolo
23. Distrutta la chiesa dal terremoto del 1783, il pio sodalizio che «ab antiquo fu
composto in ogni tempo di Patrizii e della classe più eletta della città» 24, cessò la
propria attività. Su istanza di nuovi confratelli e su presentazione di nuove Regole 25
approvate con Regio Assenso spedito il 21 ottobre 1794, la confraternita venne
ricostituita. L’inaugurazione ed elezione degli Ufficiali avvennero il 23 novembre del
1794 dentro la chiesetta della SS. Annunziata 26, da poco ricostruita, non essendo
ancora ricostruito né l’oratorio né la chiesa della congregazione della SS. Trinità.
Dall’11 Luglio 1795 27, i confratelli poterono utilizzare il proprio oratorio e, nelle
pratiche devozionali, vestire «il sacco di tela bianca colla mozzetta di molla color
celeste, col friso rosso a torno, e colla fascia rossa per ritenere un insegna del rosso,
che anticamente vestirono i confratelli, con scarpe e cappello rosso» 28. Il Regio
Assenso subordinò l’approvazione all’offerta volontariamente fatta dagli stessi
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
confratelli per il mantenimento degli esposti che vi sarebbero stati in città per lo spazio
di anni sette «ed indi applicarli a qualche utile arte» 29.
Nel 1857 si giunse a ripristinare il sodalizio negli antichi suoi diritti e privilegi con
l’aggregazione all’Ordine Trinitario 30. Con Regio Decreto di Ferdinando II, del 22
Aprile del 1858 31, venne accordato il titolo di arciconfraternita 32, con la condizione
di un annuo maritaggio di una fanciulla povera, nonchè della vestizione di tre poveri,
ecc. Per far fronte a tale impegno fu richiesto un assegnamento di un fondo di 600
ducati che, magnanimamente alcuni gentiluomini sborsarono 33.
Nel corso dell’800, molti lavori ed abbellimenti alla chiesa 34 furono deliberati dalla
confraternita che, il 31 Agosto 1884, accettava il locale assegnato dal Comune, per
costruire la cappella sociale nel cimitero 35. La Nobile Arciconfraternita, nonostante
tutte le difficoltà, ancora oggi continua ad esercitare la propria opera di aggregazione e
di servizi, contando su un numero di 140 iscritti di cui n. 50 confratelli e n. 90
consorelle.
Tra le più antiche confraternite pretridentine sotto il titolo del SS. Sacramento che, nel
corso del XVI secolo, fiorirono nel vasto territorio della Piana di Gioia 36, occupa un
posto di rilievo, anche perché tutt’ora operante, la Confraternita del SS. Sacramento di
Polistena, eretta nella chiesa madre dedicata a S. Marina. Tale confraternita,
contrariamente a quanto tramandato da varie fonti, fu fondata prima del 1543 e non nel
1548 37.
Nell’«Elenco delle confraternite aggregate alla Venerabile Archiconfraternita del SS.
Sagramento della Minerva dal 1539 al 1739», risulta la registrazione: «Casale
Polistino Dioc. di Malta (Sic! Evidente errore dell’amanuense che non ha letto Mileto
nei documenti antichi?) In S. Marina 6 Nov. 1543» 38.
Anche il «Rubricellone» che si conserva pure nell’Archivio della Ven.
Arciconfraternita del SS. Sacramento della Minerva «composto nell’anno 1739 da
Fran.co M. Magni» 39, alla data del 6 Novembre 1543 registra l’aggregazione della
«confraternita della chiesa di S. Marina di Casale Polistino Dioc. di Malta» e rinvia al
tomo 3, p. 122 per ulteriori notizie. Tale tomo, però, secondo quanto ci ha assicurato p.
Tarzicio Piccari, archivista della Provincia Romana Domenicana, non è più disponibile
perché asportato o in età napoleonica o nelle successive vicende risorgimentali e
dell’Unità d’Italia, allorquando il convento fu Sede militare 40. Se aggregata, quindi,
nel 1543 a S. Maria sopra Minerva, la nostra confraternita non può essere stata eretta
nel 1548 ma, al contrario, può considerarsi sorta prima del 1543.
Il 23 marzo del 1548, invece, Paolo III, ad istanza dell’Università e dei congregati,
concesse la facoltà di erigere una cappella del SS. Sacramento nella Parrocchiale
Chiesa, sotto la tutela della confraternita 41. Di tale bolla Pontificia se ne conserva
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
memoria, oltre che nel Regesto del Russo 42, anche negli Atti della Visita Pastorale del
1586. Il vescovo, in quella occasione, tra le altre cose, domandava all’allora rettore,
abate d. Giuseppe Aragonese, se vi era la «Compagnia del SS. Sacramento». L’abate,
non solo ne dava conferma, ma presentava al presule tal Geronimo Zangari,
procuratore del sodalizio che subito esibì «le bolle in carta pergamena salplumbo con
la candela gialla et rossa secondo la consuetudine della Romana Corte spedite dalla
felice memoria di Papa Paolo III sotto la data in Roma nell’anno 1548 nel mese di
aprile, per le quali concede facultà a detta Università che la detta cappella sia jus
patronato di quella Università et li confratri et procuratori l’abbiano potestà di
ministrar le robbe di detta cappella et confrateria ...» 43.
Gli atti di tale S. Visita ci indicano, inoltre, che il Vescovo,
havendo entrato et fatto alquanto oratione avanzi il SS.mo Sacramento visitò quello il
quale ritrovò che si conservava in una cappella a man sinistra nell’entrare della porta
maggiore la quale cappella era fatta di marmoro con la schiovatione di N.ro Signore et
sopra di quello altare stava una porta indorata con la chiave, dentro la quale in un vaso
d’argento si conservava il SS. Sacramento ... 44.
Tale ubicazione, cioè dell’altare situato «a man sinistra nello entrare della porta
maggiore», non rispondeva, evidentemente, alle esigenze dell’abate D. Giuseppe
Aragonese che sottoponeva al vescovo la possibilità di spostamento dell’altare
maggiore dalla sua situazione originaria al posto ove, all’epoca, vi era la porta
maggiore. In altri termini, l’abate richiese al vescovo di poter invertire l’orientamento
della chiesa, spostando l’altare maggiore ove era la porta maggiore e la porta maggiore
ove era l’altare maggiore e, pertanto, pur restando fermo l’altare della schiovazione,
veniva ad assumere una ubicazione diversa da quella originaria, in modo che l’altare
del SS. Sacramento fosse rimasto vicino all’altare maggiore.
Per Mons.r Ill.mo è stato ordinato a detto procuratore p(rese)nte perché il detto Rettore
ha asserito che l’altare maggiore lo vole rimutare et farlo dove al p(rese)nte è la porta
maggiore a capo basso la chiesa che detto procuratore procuri che questa mutatione si
faccia presto, attalche il S.mo Sacramento stia vicino all’altare maggiore overo farsi
modo che detto Sant.mo Sacramento stia nell’altare magg.re dove sta al p.nte detto
altare con una custodia condecente con tutte cose necessarie fra termine di sei mesi 45.
Questa ipotesi della identificazione dell’altare della «schiovatione di marmoro» con
quello della cappella del SS. Sacramento viene avvalorata anche dal fatto che la Visita,
nel mentre per tutti gli altri altari delle rispettive cappelle di ogni chiesa visitata, indica
un quadro o la «cona», per la cappella del SS.mo Sacramento non indica il solito
quadro, avendo già indirettamente citato il gruppo marmoreo della «schiovatione».
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
Questo ci fa supporre che la vigorosa pala cinquecentesca possa essere stata collocata
nella antica chiesa madre o qualche anno prima dell’epoca della fondazione della
confraternita o all’epoca della concessione a quest’ultima della facoltà di erigere una
propria cappella. Quindi, una pala marmorea che si potrebbe considerare, forse,
realmente uscita dalle mani di Giovanni Merliani da Nola, come ebbe a sostenere il
nostro grande Francesco Jerace 46, e non come, forse erroneamente, viene tramandato
dalla lapide ottocentesca collocata sul lato sinistro dell’altare della nuova chiesa
madre, a ricordo della risistemazione avvenuta, nel 1823 47. Tale iscrizione indica,
quale data di esecuzione del nostro celebre monumento, il 1503 e riferisce una delle
solite leggende che, in questo caso, vuole che il gruppo marmoreo fosse proveniente
dalla spiaggia di Tauriana ove una nave, a causa di una forte tempesta, rimase
incagliata.
In questo caso, qualora fosse tale la verità, per quale motivo arrivò a Polistena e non
rimase, invece, a Taureana?
Noi propendiamo per la tesi di Francesco Jerace che la vuole, come dicevamo, opera
del nolano. Se effettivamente è tale, non può essere stata realizzata nel 1503, come
riferisce l’iscrizione, in quanto Giovanni Merliano da Nola, nato nel 1488, non poteva,
a 15 anni di età, sostenere il peso di un così poderoso impegno artistico 48.
La Visita pastorale del 1586, d’altra parte, riferendo della Cappella del SS.
Sacramento, che ancora era posta nell’entrare, a man sinistra della porta maggiore,
fornisce un elenco degli arredi e suppellettili sacri, senza accennare minimamente ad
un quadro o ad altro che richiamasse la Santa Eucarestia, tipica iconografia del SS.
Sacramento 49. Tutto ciò, però, ci fa sorgere il legittimo dubbio: fu la pala
commissionata espressamente per la cappella del SS. Sacramento, o fu oggetto o atto
di magnanimità da parte di qualcuno verso la chiesa, la confraternita o verso la stessa
università?
Se l’avesse commissionato all’artista l’università o la confraternita, avrebbe
presentato, senza meno, o i segni dell’Eucarestia, o il legittimo stemma dell’università
polistenese. Non a caso, nel 1441, epoca del manufatto marmoreo da noi pubblicato 50
e relativo allo stemma comunale con la figura di S. Marina Vergine con al fianco il
bimbo caratteristico, l’università di Polistena sottolineava, con l’apposizione di detto
stemma dentro la chiesa di S. Rocco, lo ius patronato che godeva su quest’ultima. Non
a caso tale stemma quattrocentesco fu rinvenuto, alla fine dell’Ottocento, fra gli ancora
superstiti ruderi della chiesa di S. Rocco che il terremoto del 1783 aveva raso al suolo
51. Ed allora non ci rimane che ipotizzare la possibile donazione del superbo gruppo
marmoreo da parte di qualche benestante. Data l’importanza e la rilevanza artistica del
manufatto, è possibile che l’università o la stessa confraternita avessero, in un
momento come quello, non molto fiorente dal punto di vista economico, optato per
l’accettazione dell’artistico altare su cui avrebbero potuto esercitare gli esercizi di
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pietà ed ove i cappellani avrebbero potuto consacrare. E se fossero stati gli stessi
feudatari a donare tale imponente lavoro, visto che proprio in quegli anni, o addirittura
nella stessa epoca, Ferdinando Ludovico di Cordova, nipote del Gran Capitano, fu in
zona 52?
Tutto ciò rimane una questione aperta, da risolvere con ulteriori documenti.
Nel corso della visita pastorale del 1586, oltre all’altare in questione ed a quello
maggiore, figurava anche un altro altare dedicato alla «Nunziata», di jus patronato di
tale D. Antonino Spanò, fin dal 14 Novembre del 1575, epoca in cui mons. Giovanni
Mario De Alessandris, Vescovo di Mileto, gli concesse la facoltà di poterlo costruire.
Anche per questo altare la Visita segnala un quadro raffigurante l’Annunziata 53.
Non vi è dubbio, quindi, sull’evidente identificazione dell’altare della Deposizione con
l’altare utilizzato, per quasi quattro secoli, dalla Confraternita del SS. Sacramento. Se
osserviamo tale monumento nella situazione attuale, dentro la chiesa arcipretale
odierna, lo troviamo in una posizione molto simile a quella che poteva avere
all’interno della antica chiesa matrice, dopo lo spostamento voluto dall’abate
Aragonese e dal vescovo. Non tragga in inganno, però, l’attuale cappella del SS.
Sacramento 54 che non rispecchia l’esatta situazione di quella antica ma che, anzi,
potrebbe essere considerata un vero doppione dell’antico altare del SS. Sacramento,
cioè della pala marmorea della Deposizione che, dopo il flagello, nel 1823, fu situato
ove oggi si trova, proprio nel rispetto della sua antica posizione. A valorizzare, infine,
questa nostra ipotesi della identificazione, ci possiamo avvalere della visita pastorale
del 1708, effettuata da mons. Bernardini, vescovo di Mileto, durante l’arcipretura del
rev. d. Francesco Rovere e alla presenza dell’allora procuratore della confraternita,
magnifico d. Giuseppe Amendolia. In tale epoca, infatti, gli spostamenti ordinati dal
vescovo Del Tufo nel 1586, erano stati già effettuati e, praticamente, in detta cappella
si conservava il SS. Sacramento:
... Visitavit tabernaculum in cappella in latere dextro, que est de j(ur) e patronato
Universitatis. Fuit repertum ex marmore, quam nobiliter constructum. Mandavit
hodierno Proc.ri Mag.co D. Josepho Amendolia accomodari crucem. In dicto altari
celebrantur duodecim misse in qualibet die ex pluribus legatis ut in tabella 55.
Ma se ciò non bastasse, contribuisce, a sostegno della nostra ipotesi un’ulteriore
testimonianza che, in maniera inequivocabile, conferma quanto da noi sostenuto. Una
«Memoria relativa alla Congregaz. del SS.mo Sacram.to di Polistina» Scritta dal sac.
Francesco Zerbi ed inviata il 3 Settembre 1825, in maniera riservata al vescovo di
Mileto per la Santa Visita ed in sequito a delle polemiche con il Comune di Polistena,
tra le altre cose, così riferisce ai punti 4 e 5:
La cappella fu fabbricata non con spese del Comune, ma di S. Veneranda quando non
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esisteva la Congregazione. Istallata questa, per assenso Reg.o, le fu concesso il locale
della matrice col peso delle campane ecc. Essi fratelli non ostante ciò, diedero pure al
Colleg. una sacristia, l’accesso al campanile, e il comodo del luogo per i bisogni
comuni, per cui poveri fratelli non poteron far uso del loro oratorio, sentendosi il
fetore di detto comune. E ciò in compenso di detta Cappella.
Se ultimamente in detta cappella dai divoti fu eretto l’altar della schiodata, questo fu
sempre anticamente in detta cappella, come analogo al sacramento 56.
Definito tale problema della identificazione, torniamo a riprendere i risultati della
visita pastorale del 1586. Essa elenca i beni 57 e le robbe stabili e mobili della
confraternita che, onorando gli antichi impegni assunti, con i ricavati dei tanti lasciti o
dei beni posseduti, oltre alla celebrazione delle messe da parte dei cappellani,
provvedeva alla vestizione di dodici poveri l’anno. Era provvista di vari arredi e
suppellettili 58 ed i confratelli indossavano l’abito «cum saccis albis et muzzettiis rubei
coloris» 59. La confraternita disponeva di un reddito di 800 ducati e nella propria
cappella faceva celebrare, quotidianamente, 7 messe al minimo 60. Il reddito di cui la
confraternita disponeva, nel 1630, veniva utilizzato, in parte, per maritare nove
fanciulle orfane e per vestire 12 poveri, secondo il legato istituito, ab antiquo, dal sac.
Francesco Palermo 61.
Nel 1676, la confraternita emanò le nuove regole o meglio i nuovi capitoli contenenti
le norme ed i requisiti morali per l’ammissione degli adepti, nonché quanto inerente la
vita stessa, i rapporti ed il comportamento dei congregati. Detti capitoli, da noi
rinvenuti 62 ed allegati alla presente nell’appendice n. 1, si compongono di 14 articoli,
oltre una «Tabella delli pesi e di tutte le funzioni e suffraggi in beneficio dei fratelli e
delle sorelle» che si articola in 5 punti, letti e discussi in presenza di tutti gli iscritti ed
approvati il 1 Maggio 1676.
La confraternita, di cui non ci sono pervenuti gli statuti originari relativi alla sua
costituzione, nel 1676, evidentemente, affermò la necessità di aggiornare le regole alle
esigenze ed ai modi di vita di quell’epoca. I capitoli, sebbene privi di un prologo o di
cenni sulla storia della confraternita ed in una forma alquanto stringata, nell’insieme,
si presentano con una tendenza a chiarire e delimitare il compito di ciascuno
nell’interno del gruppo ed a marcare il significato e lo scopo della confraternita, che
non era solamente di culto, ma che si estendeva ancora a soccorrere ed assistere fratelli
e sorelle ammalati, ad accompagnare all’estrema sepoltura i cadaveri degli estinti ed a
suffragarne le anime con preghiere e cerimonie propiziatorie. La morte era quasi
sempre al centro dell’attenzione, come organo culturale della comunità. La
confraternita si rendeva come intermediaria tra la vita e la morte. Non a caso, quindi,
ogni sera di venerdi, il padre prefetto della congregazione doveva ordinare e nominare
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i fratelli che dovevano «andare la notte per la terra ricordando la memoria della morte»
63 ed ogni 1° lunedi del mese si doveva «cantare l’officio» e «celebrare una messa
cantata per l’anima delli fratelli e sorelle defonte» o che, in occasione di infermità
grave di un adepto, di fratelli o sorelle appositamente assegnati, dovevano assisterlo
«per agiutarlo a ben morire» 64. I capitoli non mancano di informazioni relative alla
cassa di deposito 65 «la quale si debba custodire con due chiavi e l’una stia in potere
del Procuratore e l’altra del Cassiere, il quale sia tenuto far l’inventario e libro
d’introito ed esito» o alla composizione delle cariche all’interno della confraternita:
Ministri, Officiali, Prefetti, Consultori, Procuratori, Assistenti, Sacristani, Cassieri ed
altri simili.
Ulteriori informazioni sono quelle relative a riunioni periodiche (ogni sera di venerdì)
o a processioni (quella del SS. Sacramento intorno alla Chiesa ogni terza domenica e
la processione generale del Venerdì Santo «con li soliti cinque Misterij, con tutte
quelle sollennità e cerimonie solite e consuete à soddisfazione della fratellanza e
augmentare la devozione et eccitare gl’animi delli cittadini, al beneficio di detta
confraternita»).
Momento, quindi, non solo devozionale, ma anche spettacolare, come teatro di figura
emotivo che avrebbe portato un beneficio alla confraternita, in termini di maggiore
aggregazione alla stessa, in un momento in cui era alto il numero delle confraternite in
una comunità certamente non numerosa per popolazione 66. Non vi è accenno, però,
negli statuti, ad alcun divieto di mutare le regole senza averne ricevuto licenza dalla
Curia Vescovile. Manca, infatti, quella norma che avrebbe dovuto sottolineare il
diretto controllo della Curia sull’istituzione. A proposito di tali controlli, non
mancarono, successivamente, ricorsi alla Sacra Congregazione dei Cardinali da parte
dei confratelli, in seguito a delle visite pastorali in cui, evidentemente, il vescovo o
suoi delegati esercitarono forme di controllo o di restrizione. Si accampò, forse ed
erroneamente, da parte della confraternita, il diritto di godimento di privilegi accordati
alle confraternite aggreganti (in questo caso di Santa Maria sopra Minerva), mentre
alla nostra spettavano solamente le indulgenze e le grazie spirituali 67.
Secondo quanto si evince dalle risoluzioni del Sinodo Parravicino, la Sacra
Congregazione dei Cardinali, l’8 Novembre 1690, stabilì che la cappella del SS.
Sacramento poteva essere sottoposta alla visita dell’Ordinario, nonostante il privilegio
che le era stato concesso da Paolo III e che i congregati esibirono per ostacolare nuove
visite che i vescovi avrebbero effettuato dopo quelle del 1686 e del 1689. Così il
documento sinodale:
Resolutio in causa Polistinae Militen. Juris Visitandi
Intra Parochialem Ecclesiam Terre Polistinae usque ab anno 1548 auctoritate
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Apostolica erecta est societas Sanctissimi Sacramenti habens propriam Cappellam
cum Sacro Tabernaculo, et particolares etiam Introitus per ipsos confratres vigore
Breviss. m. Pauli III ad proprium eorum libitum administrandos, et erogandos cum
reservatione iuri patronatus eiusdem favore Universitatis dictae Terrae, ut ex
sequentibus verbis Indulti erectionis. A nemine etiam ordinaria, vel Apostolica
auctoritate in administratione Cappellae, et illius bonorum, ac fructhum, quavis
occasione, vel causa, etiam ratione Visitationis, molestanda, seu perturbanda est, et
contra aliter facientes, propria authoritate, et manu armata tueri, et defendere possit,
absque alicuius censure, seu poene incursu, et latius in Brevi per manuscircumferendo. Vigore huiusmodi erectionis Societas predicta aggregata est Ven.
Archiconfraternitati eiusdem Instituti in Ecclesia S. Mariae super Minervam de Urbe,
de cuius proinde privilegiis partecipat, et inqualibet tertia Dominica cuiuslibet mensis
Sanctissimum Echaristiae Sacramentum à praefata Cappella desumptum circum
Ecclesiam processionaliter defert, et per totam octavam festivitates Sanctissimi
Corporis Christi expositiones, et processiones huiusmodi peraguntur, prout etiam
expositio fit in majori hebdomada, occasione devotionis quadraginta horarum, et in
unoquoque die Veneris mensis martii, in memoriam Sanctissimae Passionis. Non
ostantibus exemptionibus, et prerogativis predictis modernus Episcopus Cappellam,
Sacristiam, eiusque suppellectilia visitavit anno 1686, ad quarum novam visitationem
procedere volens anno 1689 de mense Decembris non obstante pendentia litis in Sac.
Congreg. usque de mense Augusti eiusdem anni, Confratres eidem Visitationi se
opposuerunt respectu dumtaxat Sacristiae, quae propterea Ecclesiastico interdicto
supposita fuit, et eisdem functiones expositionis Sanctissimi Sacramenti, eiusque
processionalis delacionis intra annum prohibitae; Quo circa interditio pluries cum
reincidentia suspenso, ac Archiepiscopo Rhegiensi pro formali extractione dicti Brevi
à Sacra Congregatione delegato, eaque Ser. Ser. facta ex Iuribus ab utraque Parte
circumferensis, dignentur EE. VV. decernere.
1 - An dicta Cappella Sanctissimi Sacramenti, illiusque Sacristia Iuris-Patronatus
Terrae Polistinae, ut asseritur, exempta à visitatione Ordinarii, ab eo ratio
administrationis bonorum peti, et visitari possit, non obstante Brevi s.m. Pauli III.
2 - An Interdictum appositum ab Ordinario Sacristiae, dictae Cappellae, aliaque per
eundem innovata, pendente recursum in Sacra Congregatione veniant revocanda?
3 - An continuande sint sumptibus Universitatis solemnitas festivitatis Sanctissimi
Corporis Christi in dicta Cappella, ubi adest Sacrum Tabernaculum, usque ad
octavam; expositio eiudem Sanctissimi in majori hebdomada à Dominica Palmarum
usque ad feriam tertiam, et processionalis delatio quacumque tertia Dominica juxtam
solitum?
Die 18 Novembris 1690. Sacra Congregatio Emintentissimorum S.R.E. Cardinalium
Concilii Tridentini Interpretum, respondit ad primum, et secundum affirmative, ad
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tertium arbitio Ordinarii tantum. F. Cardinalis Columna Praefectus. R. Pallavicinus
Secretarius. Locus Sigilli. Gratis etiam quoad scripturam 68.
Eretta canonicamente una confraternita, infatti, quello che per primo gode dei diritti su
di essa è l’ordinario diocesano perché a lui è affidata dalla Chiesa la custodia del culto
e delle opere pie esistenti nella sua diocesi. Fin dove si estende l’autorità del vescovo
sulle confraternite, bisogna tener presente ciò che fu stabilito dal Concilio Tridentino
secondo il quale visitare le chiese o cappelle e tutti quei locali, che hanno rapporto col
culto, ancorché talune di esse sieno munite del privilegio di esenzione, escludendo
quelle sottoposte immediatamente alla protezione regia, spetta all’ordinario diocesano.
Compete al vescovo, inoltre, il diritto di vigilare sull’amministrazione dei beni; però
non può impedire che si facciano spese straordinarie senza sua licenza, né proibire o
restringere l’esercizio delle dette spese, avendo pieno diritto sull’amministrazione dei
beni appartenenti alla confraternita solamente quegli uffiziali a tale scopo eletti dai
confratelli medesimi 69.
La Confraternita del SS. Sacramento, al pari delle altre confraternite esistenti nel
territorio polistenese, gestì un limitato peculio, amministrato per semplici scopi di
beneficenza e di culto, al fine di soddisfare, oltre che i bisogni della fratellanza, anche
degli altri cittadini che, spesso, a causa dell’usura o della incuria e l’impotenza delle
autorità, erano relegati alla fame.
Nel secolo XVIII, la confraternita, secondo quanto si evince dalla «Platea del SS.
Sagramento ...» 70, del 1701, ebbe un movimento di capitali per operazioni censuarie
pari alla somma di 8267 ducati per un totale di 402 partite così suddivise: n. 80
(magnifici e simili) ; n. 11 (professionisti: notai, dottori, capitani ecc.); n. 47
(ecclesiastici); n. 182 (cittadini di cui non viene indicata la condizione sociale); n. 18
(forestieri); n. 61 (mastri); n.3 (massari). Nel 1743, infatti, secondo i «Riveli», tra le
istituzioni che maggiormente concedevano prestiti vi era la cappella del SS.
Sacramento con n. 141 partite di censi bollari e n. 53 di censi perpetui 71. La
confraternita 72, soppressa in seguito al terremoto del 1783, per decreto di Ferdinando
IV, il 21 maggio 1794, munita di Regio Assenso 73, fu ravvivata ad istallata
solennemente nella nuova Chiesa Matrice il 1° Gennaio 1795 74. Da questa data a
tutt’oggi la confraternita svolge le tradizionali pratiche, contando su un numero di 437
iscritti, 75 di cui n. 161 confratelli e n. 276 consorelle.
Fra le funzioni caratteristiche ed antiche legate alla confraternita, oltre al Corpus
Domini, vi è la funzione della «Cena» del Giovedì Santo 76 con la lavanda dei piedi
agli apostoli, rappresentati dai confratelli e la «guardia» che, a turno, effettuano 2
confratelli per ogni ora davanti al Sepolcro di Cristo, nella notte che precede il
Venerdì Santo. All’alba di quest’ultimo giorno, a cura della congrega si svolge la
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secolare processione del Cristo che porta la Croce, seguìto dai confratelli in abito di
giudei e dalla Madonna. L’effetto suggestivo di tale funzione è strettamente legato alla
musica suonata dalla Banda che intona la trascrizione della «Settima Parola» di M.
Valensise 77. Ma, secondo quanto si evince dalla Tabella dei Pesi del 1676 78, a cura
della confraternita si svolgeva anche la «processione generale con li soliti cinque
misterii con tutte quelle sollennità cerimonie solite e consuete à soddisfazione della
fratellanza e per aumentare la devozione et eccitare gli animi delli cittadini, al
beneficio di detta Confraternita». Tale processione, a differenza di quanto già indicato
per la chiesa della Trinità 79 ove si svolgeva il Giovedì, veniva attuata il Venerdì
Santo, mentre oggi viene effettuata dalla Congregazione del SS. Rosario la sera del
Venerdì Santo.
Relativamente al secolo XVI, abbiamo notizia di ulteriori confraternite attraverso la
già citata Visita di Mons. Del Tufo del 1586 in cui vengono annotate, oltre quella della
SS. Trinità e del SS. Sacramento, quelle di Santa Venaera, San Sebastiano, S. Maria
del Carmine, S. Ciriaco, S. Rocco, S. Nicola, S. Biase, SS. Nome di Gesù o Rosario.
Della Congregazione di Santa Vennera, installata dentro l’omonima Chiesa, non
abbiamo notizie sulla data di fondazione. Che la Santa abbia avuto, ab antiquo, un
particolare culto, lo si può evincere dal fatto che una fiera di S. Veneranda veniva
concessa a tal Jerace G. M., nel 1498 80. Ciò fa ipotizzare la presenza della Chiesa in
tale epoca. Nel 1586 «la Chiesa di S. Vennera e confraternita di laici» rendevano alla
curia cinque ducati l’anno 81. La Visita pastorale del 1630 riferisce, inoltre, di tale
confraternita «cum saccis coloris cerulei et muzzetta albi» 82, mentre quella del 1716,
riferisce di «sodalitas confratrum et vestiuntur saccis turchini coloris» 83. In
quest’ultima data, il sodalizio figurava, inoltre, in attivo di 30 ducati che i confratelli,
ottenuto il consenso dell’Università, in quanto di quest’ultima era la chiesa,
destinavano alla confezione di uno stendardo di seta di colore ceruleo con l’immagine
in mezzo di S. Veneranda 84.
Nel 1735, la confraternita, per il tramite del Suo Procuratore D. Domenico Zangari,
commissionava all’artista partenopeo Gennaro Franzese la statua lignea a mezzo busto
della Santa 85.
Chiesa e confraternita, comunque, cessarono la loro esistenza col flagello del 1783,
dopo di ché la Cassa Sacra destinava le rendite dei beni, già ad essi appartenuti, alla
ricostruzione della nuova Chiesa matrice 86.
Altra confraternita di laici fu quella di S. Sebastiano, fondata in epoca imprecisata
dentro l’omonima Chiesa. Nel corso della Visita pastorale del 1586, oltre la
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descrizione della chiesa, il Visitatore annotò la presenza della confraternita, dotata di
un crocifisso portato a mano, un gonfalone indorato ed uno stendardo di damasco
bianco con l’asta 87, mentre nella visita del 1630 figurò come «confraternitas cum
saccis albis et muzzetta cerulei» 88. Il 20 Novembre del 1604, Papa Clemente VIII le
concedeva indulgenze fruibili nella festa di S. Sebastiano nel primo giorno di luglio,
nella Pasqua e nelle festività dell’Assunzione e dell’Annunciazione della Beata
Vergine Maria 89. Circa l’esistenza e l’attività di detta confraternita rimangono poche
e labili tracce nella visita del 1630. La mancanza di espresse segnalazioni nelle
successive visite potrebbe indurci a supporre che la confraternita con l’andare del
tempo, forse verso la fine del ’600, si sia sciolta. Tutto ciò, comunque, rimane un
problema aperto da verificare.
All’interno della stessa Chiesa di S. Sebastiano, dopo il 1586, venne ad essere fondata
una nuova Congregazione di S. Maria del Carmine. Secondo il Regesto di P. Russo,
infatti, il 31 dicembre del 1612, alla confraternita e agli adepti venivano concesse da
Papa Paolo V indulgenze da beneficiare nelle feste di S. Maria del Carmine,
Purificazione, Annunciazione, Assunzione e Natività della Beata Maria Vergine 90. La
visita pastorale del 1630, effettuata 18 anni dopo la concessione delle indulgenze, non
riferisce di tale Confraternita, ma indica, per la prima volta, l’altare dedicato a S.
Maria di Monte Carmelo 91. Anche di questa confraternita non vi è traccia nelle
successive visite pastorali. Quantunque, sia questa come quella di S. Sebastiano,
fossero riuscite a sopravvivere, cosa non documentabile al momento, avranno ricevuto
anch’esse il colpo di grazia dell’impietoso sisma del 1783.
Al gruppo delle confraternite già presenti alla fine del ’500 appartiene la Confraternita
di S. Ciriaco. Di essa non si conosce l’epoca esatta della fondazione, mentre si sa che
operava dentro l’omonima chiesa. Negli atti della visita pastorale del 1586 sia della
chiesa che della confraternita figurava procuratore tale M. Sal. Pellegrino 92. Il
procuratore veniva eletto, anche in questo caso, dall’Università e confermato
«dall’Ill.mo Signore» (Feudatario) 93. La rendita della Curia Vescovile proveniente
dalla chiesa e confraternita ammontava a 5 ducati annui, mentre quella dell’annesso
«Hospedale detto Santo Chiriaco» era di carlini 25 94. Nella visita pastorale del 1630
viene segnalata quale confraternita «cum saccis albi et muzzetta coloris violacei» 95.
Tale confraternita non viene segnalata dal Regesto del Russo, né dalle visite pastorali
che vanno dal 1716 in avanti, per cui si può ipotizzare la sua cessazione verso al fine
del XVII secolo.
Pure antica può considerarsi la Confraternita di S. Rocco, operante dentro l’omonima
Chiesa di jus patronato dell’Università di Polistena 96, anche se della sua fondazione si
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sa ben poco 97. Nel 1586 ne figurava procuratore, eletto dall’Università, tale M.
Geronimo Longo 98. Chiesa e confraternita rendevano alla curia Vescovile di Mileto
ducati sette e mezzo annui 99. Fra le suppellettili possedute figuravano «un crocifisso
portato a mano e uno stendardo arangino» 100. A cura di questa congregazione si
effettuava la processione con il simulacro di S. Rocco, nel giorno della sua festa, «cum
magna fidelium devotione et concursu populorum et convicinium», come si rileva
dalla visita pastorale del 1712 101.
Anche della Confraternita di S. Nicola la documentazione più antica può, al momento,
considerarsi la visita pastorale del 1586. Tale confraternita era operante dentro
l’omonima Chiesa «extra moenia». Chiesa e confraternita rendevano alla curia
vescovile carlini 15 annui 102. Null’altra documentazione o tracce rimangono di essa.
Lo stesso vale per la Confraternita di S. Biase che svolgeva le proprie pratiche
associative dentro l’omonima Chiesa «extra moenia», e che rendeva, assieme a
quest’ultima, «carlini dudici» annui alla Curia Vescovile, nel 1586 103. Non viene
indicata dalle successive visite pastorali o da alcun altra documentazione. Forse era in
decadenza o, addirittura, estinta, agli inizi del Seicento. Anche la stessa chiesa,
peraltro, figurò carente di ogni necessario, agli inizi del ’700 104.
Già presente, nel 1577, era la Confraternita del SS. Nome di Gesù o del Rosario. Il 30
Aprile del 1577 fu concessa - secondo P. Esposito 105 - la facoltà di istituire un
sodalizio del SS. Rosario nella Terra di Polistena. Da una verifica della fonte, da noi
effettuata alcuni anni fa, unitamente allo stesso P. Esposito, rilevammo che il
documento dell’Archivio Domenicano non riferiva espressamente di confraternita «del
Rosario», bensì di quella del «SS. Nome di Gesù» 106. Tutto ciò è spiegabile, forse,
col fatto che, in tale epoca, la denominazione del «SS. Nome di Gesù» era quasi
sempre indicata unitamente a quella del «Rosario», a meno che non si tratti di una
distrazione dell’amanuense. La concessione di tale facoltà di istituzione del nuovo
sodalizio domenicano, comunque si chiamasse all’origine e avvenuta a soli 6 anni di
distanza dalla battaglia di Lepanto, fu voluta, certamente, dagli uomini e
dall’università di Polistena che, stimolati forse dalla presenza domenicana del vicino
San Giorgio, nel 1579, ottennero ulteriore assenso del Vescovo di Mileto, Mons.
Giovanni Mario De Alexandris, per la fondazione e costruzione di un convento
domenicano presso la chiesa della Trinità 107. La confraternita non fu, quindi,
creazione dei domenicani che, installatisi originariamente nella chiesa della SS.
Trinità, solo il 2 Ottobre del 1583 108, dopo una barbosa lite con i vicini Osservanti,
che ufficialmente si opponevano per ragioni di distanza 109, ottennero dal papa
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Gregorio XIII la concessione di poter edificare la definitiva «casa domenicana»,
identificabile, oggi, col palazzo Valensise. Quest’ultima concessione papale, infatti, è
indirizzata ai «Diletti figli, Priore e Frati della Casa della SS. Trinità dell’ordine dei
frati Predicatori del luogo di Polistena, diocesi di Mileto». Il nuovo convento fu,
pertanto, intitolato al SS. Rosario e ad esso fu dedicata la chiesa omonima ove la
confraternita, installata inizialmente nella chiesa della SS. Trinità, continuò a svolgere
i propri scopi religiosi, morali, caritativi ed assistenziali fino al 1783, allorquando il
memorando terremoto distrusse chiesa e convento 110, con la conseguente
soppressione della confraternita.
Rispetto alle confraternite sorte in Polistena, agli inizi del XVII secolo, dobbiamo far
rilevare che nella Visita pastorale del 9 Nov. 1630, nel resoconto relativo alla chiesa
parrocchiale sotto il titolo di S. Marina, ove già operava la congregazione del SS.
Sacramento, veniva registrato un «Mons Pietatis seu Congregatio» 111, eretto
nell’altare del Sangue di Cristo. Trattavasi della Congregazione del Sacro Monte di
Pietà che era sorta prima del 1612. La sua esistenza venne confermata anche dalla
visita pastorale del 1712 che della confraternita, tra l’altro, annotava le seguenti
caratteristiche: era un sodalizio di confratelli e consorelle; ogni anno i sacerdoti
eleggevano il procuratore; aveva, oltre i paramenti ed ogni altro necessario, un reddito
pari ad oltre cento ducati, conservati in una cassa con tre chiavi; il suo procuratore protempore era tale d. Giuseppe Jemma; nella cassa di deposito erano conservati 600
ducati rappresentati in parte da capitali ed in parte da rendite annue; le tre chiavi della
cassa venivano conservate una dal procuratore, una dal consultore e un’altra
dall’arcario, volgarmente detto cassiero 112.
La quota associativa, secondo quanto si evince dalla visita pastorale del 1716, era di
carlini quindici e grana due per i confratelli e carlini due e grana sei per le consorelle
113. La confraternita si provvide, nel 1729, di un nuovo altare marmoreo
commissionato al napoletano Giovan Battista Massotta per il costo di 400 ducati 114.
Tale confraternita che, nel corso della sua quasi bicentenaria esistenza, svolse una
discreta attività creditizia 115, cessò la propria attività col terremoto del 1783.
Tra il 1631 ed il 1638 crediamo sia stata eretta, dentro la chiesa della SS. Trinità, la
Confraternita delle Anime del Purgatorio. Essa svolgeva le proprie pratiche associative
nell’omonimo altare ove vi era anche il sacro monte delle Anime del Purgatorio i cui
procuratori, nel 1638, figuravano Carlo Jeraci e d. Fabrizio Lamanna 116. La visita
pastorale del 1708 annota tale altare «sacri montis» ove «adist confraternitas» 117,
mentre le visite successive del 1712 e del 1716 annotano che la confraternita era
composta da confratelli e consorelle, che pagavano 12 grani annui, avendo diritto alla
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celebrazione, in detto altare, di 15 messe in suffragio dei defunti 118. Anche questa
istituzione ebbe a fare i conti col terremoto del 1783.
Sono così 11 le confraternite polistenesi che, ad eccezione di quella di S. Biase
certamente già scomparsa, vengono confermate dalla Relazione ad limina del 1612:
«Confraternitates laicorum in distinctis Ecclesiis p. maiori parte cum usu saccorum,
undecim numerantur» 119.
La situazione demografica polistenese, agli inizi del ’700, secondo lo stato delle anime
120 era rappresentata da una popolazione di 3416 anime di cui 131 appartenenti al
clero ed agli ordini religiosi. Ed in tale contesto, caratterizzato da una già numerosa
presenza di confraternite, si andarono ad aggiungere altre 2 nuove, a carattere laicale,
riservate a determinati ceti sociali: nobili e artigiani.
Successivamente alla costruzione della chiesa di S. Giuseppe, iniziata dal Dottor
Girolamo Moleti prima della sua morte avvenuta nel 1698, e continuata nella fabbrica
da Giovanni Domenico Milano, esecutore testamentario del Moleti, che la aprì nel
1704 121, fu eretta, quasi certamente tra il 1712 ed il 1730, la Congregazione de’
Gentiluomini o de’ nobili sotto il titolo di Santa Maria della Natività o della Nascita,
altre volte detta anche Congregazione di S. Giuseppe o di S. Maria delle Grazie 122.
Essa operò dentro la sudetta chiesa di S. Giuseppe. Non si conoscono, al momento, gli
estremi notarili della sua fondazione, ma si sa che aveva un proprio monte con relativa
Cassa di deposito per le necessità degli iscritti. Nei «Riveli» del 1743, epoca in cui
segretario della congregazione era tale Felice Scarcella, risultò esigere una sola partita
di censo bollare di annui ducati cinque e grana settanta per capitale di ducati
settantacinque. Ad essa, inoltre, era iscritta tutta l’«Eccellentissima Casa dei Milano,
Signori e Feudatari di Polistena», che annualmente pagò, a partire dal 1732, carlini 3 e
grana 12, cifra forse corrispondente alla quota associativa. Ad essa, naturalmente,
aderì buona parte del nobilume locale. Nel 1757, figurò prefetto della congregazione
tale d. Paolo Lidonnici, mentre nel 1764 il dr. fisico Gregorio Calojero. La sua attività
cessò col terremoto del 1783 anche se, ancora dopo, detta congregazione della Natività
figurò gestire n. 13 partite di censi bollari per un capitale di ducati 188 e per una
rendita di ducati 9 e carlini 40 123.
A pochi anni dalla fondazione di tale sodalizio dei nobili, fece il suo ingresso nella
società polistenese la Congregazione di Santa Maria dell’Idrea o delle Anime del
Purgatorio.
Essa fu fondata per atti del notaio Francesco Antonio Muscarà 124 di Polistena l’8
maggio del 1745, ed installata dentro la chiesa della SS. Trinità, ove, oltre alla
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Confraternita della SS. Trinità, operava anche l’altra sotto il titolo delle Anime del
Purgatorio, prima descritta.
Questa novella istituzione laica, con relativo monte di messe, fu fondata dai seguenti
35 «magistri» polistenesi, come si evince dagli atti di notar Muscarà alla cui copia
furono allegati gli «Statuti da osservarsino nella V.ble Confraternita dell’Anime del
Purgatorio della Chiesa della SS. Trinità di questa Città di Polistina dà Fratelli Artisti
ed altro, a tenore della fervorosa lor divozione verso la gloriosa Vergine Maria SS.ma
dell’Idria»: Filippo Passalia, Nicola Tripodi, Bruno Manna, Francesco Barone, Marino
Almirante, Matteo Nania, Francesco Spanò, Domenico Spanò, Giuseppe Floccari,
Francesco De Leo, Antonio Jerace, Francesco Calcapetra, Nicola Barone, Domenico
Adornato, Paolino Calcapetra, Andrea Muscarà, Domenico Milardo, Michele Tigani,
Carlo Plastina, Michele Muscarà, Antonio Calcapetra, Felice Seminara, Giuseppe
Calcapetra, Michele Albanese, Gregorio Russo, Letterio Muscarà, Andrea Muscarà,
Domenico Fida, Domenico Adornato di Carmelo, Didaco Calcopetra, Carmelo
Adornato, Francesco Antonio Fida, Didaco De Leo, Bruno Macri e Geronimo Barone.
Fu volontà dei fondatori che la confraternita fosse in tutto e per tutto soggetta alla
piena ed «onnimoda giurisdizione Vescovile di Mileto, senza che mai persona alcuna
di qualsiasi grado, stato, e condizione o preminenza s’avesse da intromettere in
qualunque affare, caosa, lite o negozio della medema, dovendosi sempre tutte le liti,
caose e negozi principiare, proseguire e terminare nell’Ill.ma Curia Vescovile sud.a
cui intendono in omnibus sottomettersi».
Secondo le norme contenute negli Statuti, alla confraternita potevano aderire «non
solo persone artisti, ma d’ogni ceto ancora sijno nobili sijno Plebei» purché non
avessero superato il 45° anno di età e con la riserva ancora che ai soli artisti competeva
sostenere le cariche degli ufficiali della congrega che erano le seguenti, oltre al Padre
Spirituale: «Prefetto seu Procuratore; 1° e 2° Assistente; Cassiero; 2 infermieri;
Sagristano; e Puntatore».
Ogni fratello era obbligato a pagare, nel suo primo ingresso, grana dieci, continuando
così nei successivi anni. La confraternita era dotata, inoltre, di una propria cassa del
deposito, chiusa con tre chiavi ed aveva istituito un proprio monte di messe in
suffragio dei fratelli defunti cui venivano, dopo la morte, dedicate n. 15 messe 125.
Anche questa ulteriore iniziativa laicale cessò la propria attività col terremoto del 1783
che rase al suolo l’antica Polistena e che causò la morte di 2261 persone.
Ricostruita la cittadina, la popolazione superstite che ascendeva a circa 2830 anime,
non impiegò molto a ripristinare, nel 1794, solo due delle numerose ed antiche
confraternite: quelle della SS. Trinità e del SS. Sacramento.
Anche i Domenicani, abbandonato il loro convento diruto, avevano costruito un
conventino a lato della ricostruita Chiesa di San Giuseppe, chiesa che, nel volgere di
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pochi anni, passò a denominarsi «del Rosario».
Aboliti i pp. Domenicani con l’occupazione militare, la chiesetta del SS. Rosario e il
conventino passarono al R. Demanio. Tali cespiti furono assegnati ai pp. Paolotti di
Polistena che li vendettero a Francesco Siciliano ed all’Arciprete Zerbi 126. In seguito
a tale operazione, non tardò l’idea di installare una nuova Confraternita del SS.
Rosario in detta chiesetta che, acquistata da Zerbi e Siciliano, fu da costoro ceduta
assieme a parte del conventino per il solo uso della novella congregazione. In
esecuzione del Sovrano Decreto del 15 Gennaio del 1830, portante il Regio
Beneplacito, il 24 Aprile del 1831, alle ore 15, nella chiesa del SS. Rosario, la
Commissione di Beneficenza del Comune di Polistena dichiarò 127 installata ed aperta
la novella congregazione la cui vita sarebbe stata regolata dai 16 articoli delle norme
statutarie anch’esse approvate dall’autorità superiore, con Regio Assenso dell’Aprile
del 1831, richiesto dai 42 confratelli fondatori 128.
La congregazione, con le questue, col braccio pubblico, colle sottoscrizioni e con
alcuni lasciti di devoti, fece ogni sforzo, e lodevolmente costruì una grandiosa chiesa
che, tutt’oggi, viene da tutti ammirata per le sue linee architettoniche 129. La
congregazione, inoltre, comprò delle casupole adiacenti e realizzò la sacrestia,
l’oratorio e varie comodità 130. La confraternita, che veste il tipico abito domenicano
bianco e nero 131, oltre a svolgere le usuali pratiche devozionali, l’assistenza ai
confratelli e il suffraggio ai morti, attua annualmente la processione della antica statua
della Madonna del Rosario, la processione dei misteri, suggestiva funzione della notte
del Venerdì Santo, e l’«Affrontata» nel giorno di Pasqua. Mentre nel 1931 contava n.
283 soci, alla data odierna annovera, nonostante tutte le difficoltà, 95 iscritti di cui 45
confratelli e 50 consorelle.
Ma a proposito di queste ultime, è il caso di riferire di una ulteriore iniziativa legata
alla Chiesa del Rosario.
Il 18 Novembre del 1926, al Vescovo di Mileto fu rivolta una calorosa istanza, da
parte di 100 giovinette che, fondata la Congregazione delle figlie di Maria 132
chiedevano l’approvazione ufficiale. Esse, richiamando una precedente associazione
delle Figlie di Maria, istituita dal fu arciprete Domenico Rodinò Toscano e che poteva
considerarsi una pia unione di devote di Maria, mai riconosciuta ed approvata,
motivavano la nascita della novella istituzione con l’esigenza di «formare la vera
coscienza cristiana di tanta gioventù che ha molto bisogno di essere educata secondo
lo spirito del Santo Vangelo... poiché in questa Chiesa del Rosario vi è una forte
schiera di giovinette (N. 100 oltre n. 40 fanciulle da 8 a 10 anni) che vivamente
desiderano di militare sotto la bandiera della Vergine Santissima imponendosi di
osservare quelle regole di vita cristiana che le rendano migliori nell’avvenire».
All’istanza seguiva, in allegato, un «Elenco della Congregazione delle Figlie di Maria
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della Chiesa del SS. Rosario» 133. Tale congregazione che mai ebbe la
caratterizzazione delle confraternite che in passato operarono in Polistena, ma che può
considerarsi solamente una pia associazione femminile, venne a fondersi nella Azione
Cattolica che, a Polistena, ebbe mons. Luigi Guido tra i più entusiasti propagatori.
Simile alle confraternite può essere considerata la Pia Associazione di Maria SS.
Immacolata.
«Taluni divoti dell’Immacolata avendo desiderio di costituire un pio sodalizio sotto il
nome e nella Chiesa appartenente all’ordine di S. Francesco, del titolo della Vergine
SS.ma suddetto, mi premurano di presentare a Voi questo loro desiderio e di
sollecitarne l’autorevole Vostra approvazione ...»: così recitava una lettera del 28
Gennaio del 1895 dell’allora Arciprete Domenico Rodinò Toscano, indirizzata Vicario
Vescovile di Mileto 134.
L’Associazione fu ideata, nel 1894, dal sig. Pasquale Lombardo fu Carmine ed altri
volenterosi, mercé le cure del canonico Agostino Laruffa.
Mons. Antonio M.a De Lorenzo, vescovo di Mileto, con decreto del 15 Agosto 1895,
ne diede canonica istituzione.
Il sodalizio che, all’atto della fondazione, si componeva di n. 96 confratelli, 99
consorelle e di 5 sacerdoti 135, ricevuto il decreto vescovile, riunitasi in assemblea il 9
Settembre 1895, elesse i propri ufficiali che, all’unanimità, risultarono i seguenti:
padre spirituale e rettore: Agostino Laruffa, Sacerdote; priore: Domenico Sanzotta fu
Giuseppe; 1° assistente: Domenico Guido fu Francesco; 2° assistente: Domenico
Cannatà fu Francesco; cassiere: Michelangelo Guido fu Francesco.
Fu solennemente inaugurata il 19 settembre del 1895 con l’intervento delle
rappresentanze degli altri sodalizi della città, di un immenso popolo allietato dalla
musica cittadina e con un erudito discorso tenuto dall’arciprete Domenico Rodinò
Toscano. Lo scopo della novella congregazione fu, secondo quanto si evince dallo
statuto, pubblicato nel 1897 136, quello di coltivare in vita lo spirito degli iscritti,
educandolo nella pratica delle cristiane virtù; onorare i defunti associati colle consuete
pompe religiose; aiutare le anime con i suffragi e di mantenere il culto nella chiesa
dell’Immacolata.
Pertanto, si dichiarò estranea a qualunque lotta elettorale, politica ed amministrativa e
stabilì che i propri associati intervenissero alle seguenti funzioni: processione di Maria
SS. Immacolata; processione della Pietà che si fa il Venerdì Santo dopo la funzione
dell’Agonia di N.S.G.C.; processione di quei Santi, ai quali si fa la festa nella chiesa
dell’Immacolata; a tutte le processioni di rito, prendendo quel posto che le compete
secondo l’ordine dell’anzianità. Venendo poi invitata a funzioni speciali da altri
sodalizii, dovrà avere la precedenza su quello dal quale proviene l’invito.
Furono ammesse a far parte dell’associazione le donne, che però in nessun caso, per
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statuto, avrebbero potuto intervenire alle adunanze, né avrebbero avuto diritto al voto.
Lo statuto si compose di n. XIV Capitoli per un totale di n. 83 articoli.
Con ordinanza del 31 Marzo 1897 ebbe approvato il riordinamento
dell’amministrazione.
Nel corso della sua attività diede un contributo non lieve ai continui lavori per
l’abbellimento della maestosa chiesa che, in passato, e cioè fin dal 1537, era
appartenuta agli Osservanti.
Attualmente, a far parte del sodalizio, risultano solo 31 iscritti di cui 9 confratelli e 22
consorelle 137.
Termina così questo breve excursus sulle confraternite polistenesi che, nell’arco di
cinque secoli 138, costituirono, oltre che l’esempio della vita reale, uno spaccato di una
certa società dalle forti radici religiose, non senza le immancabili contraddizioni.
Sorte con scopi di devozione e di assistenza, ridussero spesso l’ampio respiro che
aveva caratterizzato il loro sorgere alle sole cerimonie della messa e delle celebrazioni
sia festive che funerarie, specie negli ultimi tempi.
Appendice
1
1676. Capitoli della congregazione del ss.mo sacramento di polistena
Tabella delle regole, e precetti, che devono osservare tutti li fratelli, e sorelle, li quali
saranno descritti et aggregati alla confraternita della venerabile cappella del SS.mo
Sacramento di questa terra di Polistina, con quelli statuti, et osservazioni che si
dovranno anche osservare dalla confraternità sudetta in beneficio della fratellanza.
1) In primis - Ogni fratello sta in obligo, di provedersi del suo habito e potendosi fare
anche il mozzetto rosso, con l’insegna sincome ricerca l’ordine di detta confraternità e
che si proveda della disciplina per la solita funzione del Venerdì, come comanda la
Regola.
2) Ogni fratello sia obligato venire ogni sera di Venerdì, al tocco della campana,
purché non habbi (che Dio non vogli) legittimo impedimento per causa d’infermità, o
ché sia fuori della Patria, per suoi affari, e quelli che mancheranno p. negligenza
propria, siano tenuti nella prima congregazione darsi in colpa, avanti al Padre Prefetto,
e ricevere pazientemente la Penitenza, che li sarà data.
3) Che per ogni terza domenica tutti quelli fratelli che saranno assegnati assistano a
portare lo Palio del SS.mo attorno alla Chiesa, come al solito, e che li medesimi fratelli
assegnati a detta giornata siano obligati far la cerca per la terra in detto giorno e di
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quello che si farà d’elemosina si consegni al Cassiere per metterlo in Cassa a beneficio
della Confraternità.
4) Che per ogni 3a Domenica siano obligati, tutti li fratelli e sorelle confessarsi e
comunicarsi devotamente e recitare cinque Pater noster e cinque Ave Maria in honore
del Sangue Sacratissimo di Nostro Signore Giesu Christo per conseguire quelle
Indulgenze concesse dalli Sommi Pontefici.
5) Per ogni primo Lunedì di mese, nel qual giorno si farà celebrare una Messa cantata
per l’Anima delli fratelli e sorelle defonte e s’esponerà il SS.mo con le solite
Ceremonie, e si reciterà l’officio pro defunctis, ogni fratello e sorella, dovrà venire con
quella devozione si conviene tanto per conseguire l’infinite Indulgenze quanto per
augmento della Confraternita, e buon esempio di tutti.
6) Che li fratelli assignati nel giorno della 3a Domenica siano tenuti ancora assistere
alle funzione di seppellire li morti et anco s’esortano tutti gl’altri fratelli non assegnati
che non havendo legitimo impedimento assistano similmente a detta funzione iuxta
solitum.
7) Che per ogni sera di Venerdì il Padre Prefetto della Congregazione debba ordinare,
e nominare, li fratelli che dovranno andare la notte per la terra ricordando la memoria
della morte.
8) Che quando un fratello sarà infermo siano obligati li medemi fratelli, assignati di
mese, andarlo à visitare durante l’infermità e succedendo caso di morte, assistano detti
fratelli et uno secondo officiale della Congregazione per agiutarlo al ben morire et
rispetto delle sorelle ch’assistano alla Visita due altre sorelle e nell’hora della morte ci
vade anche il detto Sacerdote, Ministro come di sopra.
9) Perché la Confraternità averà da portare molti pesi, tanto per Processioni, quanto
per le messe che si celebreranno e per la cera e sogna e altre spese, per mantenimento
della Confraternità la quale intende continuare e perservarsi col dovuto decoro e
devozione per tanto ogni fratello e sorella dovrà pagare a beneficio di detta
Confraternità grana due per ogni primo di mese, qual danaro si consegni al Cassiere
per riponerlo in cassa e potendosi a suo tempo fare quelle funzioni e suffraggi pij che
in questa medesima capitolazione si dechiarano.
10) Che quando s’havrà da fare elettione di Ministri, et officiali di detta Confraternità
come sono Prefetti, Consultori, Procuratori, Assistenti, Sacristani, Cassieri, et altri
simili, si debiano eligere col voto, parere e beneplacito di tutti li fratelli o pure della
maggior parte d’essi, non potendono intervenire tutti in Congregazione.
11) Che tutti quei fratelli, li quali per tre Venerdì continui cesseranno di venire nella
congregazione purché non habbiano legittimo impedimento, come se detto nel 2°
Capitolo, resteranno privi delli Privileggi, Prerogative, e suffraggi, che dispenza la
Confraternità e volendono essere reintegrati, in tal caso siano obligati soccombere alla
penitenza, che li sarà data, dal Padre Prefetto, all’arbitrio del quale stia, se volesse dar
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penitenza salutare, o pecuniaria purché non ecceda la somma di tre mesate, e di novo
se ne facci nota in libro della fratellanza.
12) Che quelli fratelli e sorelle le quali cesseranno per tre mesi continui di pagare le
due grana il mese non sia tenuta la Confraternità fare a beneficio d’essi, quelle
funzioni e suffraggi che li promette, pero volendono detti fratelli e sorelle esser di
novo reintegrati, siano obligati pagar per intero tutto l’attrassato che non pagorno,
purché non siano infermi, ma se fossero infermi, non possono per nessun conto essere
ricevuti.
13) Che di tutto quello Introito di qualsivoglia genere di robba che pervenirà in
beneficio della Confraternità, tanto dell’esattione delle messe, quanto delle cerche,
elemosine, carità e lasciti, si dovessero riponere in Cassa la quale si debba custodire
con due Chiavi e l’una stia in potere del Procuratore, e l’altra del Cassiere, il quale sia
tenuto far l’inventario, e libro d’Introito et esito, et in fine d’ogni anno sia obligato
presentare il conto del suo administrato e per la visura di quello s’assegnino due
fratelli idonei col voto e parere della fratellanza.
14) Che l’esattore delle mesate sia obligato, nel primo del mese d’Agosto di questo
presente Anno, presentare, al Procuratore di detta Confraternità, il libro originale
dell’esattione, a fine di doversi haver novitiero di quelli che forse mancaranno di
pagare, servata la forma del Capitolo, e continuasse a presentare detto libro, per ogni
primo di mese.
Tabella delli pesi che deve portare la confraternità e di tutte quelle funtioni e suffraggi,
deve fare in beneficio delli fratelli, e sorelle
In primis la Confraternità della Venerabile Cappella del Santissimo Sacramento e per
essa li suoi officiali, et administratori, promettono di fare ogn’anno in giorno di
Venerdì Santo, la Processione generale, con li soliti cinque Misterij, con tutte quelle
sollennità e cerimonie solite e consuete à sodisfazione della fratellanza e augmentare
la devozione, et eccitare gl’Animi delli Cittadini, al beneficio di detta Confraternità.
Item si promette per ogni primo Lunedì di mese far celebrare una messa cantata nella
Cappella per l’Anima delli fratelli e sorelle defonti, e per le Benefattori con esponere il
SS.mo con le debite sollennità cantare l’officio in detto giorno e pregare Dio benedetto
per l’Anima delli fratelli e sorelle defonti.
Item li promette che quando succederà caso di morte ad alcun fratello o sorella li quali
havranno adempito il pagamento mensuale, secondo il precetto dechiarato, in tal caso
s’anderà con la solita Processione con venti torcie, ad accompagnare il fratello o
sorella defonta, in ogni Chiesa dovunque anderà il Cadavere a seppellirsi e se li
faranno celebrare, nella Cappella di detta Confraternità, e non in altra Chiesa quindeci
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messe o sopra il corpo se succederà in tempo, o la mattina seguente, e se li pagherà, il
Jus del mortaggio, che spetta al Vicariato e Parrocchia, secondo la presente
consuetudine di questa terra.
Item si dechiara che li fratelli e sorelle li quali sono scritti d’hoggi a dietro e d’hoggi
avanti, sodisfaranno le mesate dechiarate in questa capitolatione, habbiano tutti li
sopradetti sufraggij, et honoranze, o goderanno tutte le prerogative, et Indulgenze, ma
quelli li quali non sono scritti e si volessero scrivere, tanto fratelli quanto sorelle,
saranno ricevuti tutti, purché non eccedono l’età di quaranta anni, et essendono di
maggiore età di questa, procurino di concordarsi col Procuratore et Officiali della
Confraternità, li quali faciliteranno, ché siano ricevuti, purché paghino qualche somma
competente per il jus d’entratura, perche potrebbe facilmente succedere di Alcun
fratello o sorella, morte improvisa o violenta, o vero ab intestatu, per la qual causa, per
la sua sepoltura, vi volesse più spesa del jus del solito mortaggio, che si deve al
Vicariato e Parrocchia, in questo caso, la Confraternità resta tenuta a pagare questo
solito, che camina, de consuetudine, e tutto il di più che s’havesse da spendere, vadi a
peso, e carico della parte.
Item se li promette, che quando alcun fratello o sorella, li quali hanno adempito il
pagamento mensuale, servata la forma delli statuti, e morisse fuori della Patria,
producendosi fede autentica della loro morte se li celebreranno venti messe
immediatamente che sarà prodotta la fede della morte.
Quali Capitoli letti e discussi in presenza di tutti li fratelli, nella congregatione, sera di
Venerdi primo di maggio di questo Anno 1676 sono stati approbati da tutti senza
discrepanza nessuna e col comune consenso e beneplacito delli detti fratelli, sono stati
firmati dalli sottoscritti Officiali e Ministri di detta Congregatione.
Domenico Pisano Marino
Procuratore
D. Giuseppe Pistarchi
Prefetto
D. Francesco De Notaris
Consultore
Gregorio Jeraci
Consultore
D. Antonio Galluzzo Consultore
Domenico Coratolo Consultore
2
Polistina capitoli della congregazione di s. Maria della idrea
Statuti da osservarsino nella V.ble Confraternità dell’anime del purgatorio della chiesa
della SS.ma Trinità di questa città di Polistina de fratelli artisti, ed altri a’ tenore della
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fervorosa lor devozione verso la Gloriosa Vergine Maria SS. ma dell’Idria.
Cap. I
Regole comuni à tutti li fratelli
1) Che possono ammettersi in essa Congregazione, non solo persone artisti, ma d’ogni
ceto ancora, sijno Nobili, sijno Plebei, purché non sopravivessero all’anno
quarantesimo, come si spiegherà qui sotto nel Cap ... n ... e colla riserba ancora che à
soli artisti competano sostenere l’Uffizi della Congregazione, come si dirà appresso.
2) Che cadaun Fratello nel suo primo ingresso sia tenuto promettere al P. Spirituale
pro tempore, o ad’altro invece, a assistere in tutte le funzioni solite farsino in detta
Congregazione, ed osservare le regole prescritte, con sottoporsi all’ubbidienza del
medemo, e dell’Uffiziali negli affari concernentino al servizio di detta Congregazione.
3) Debba ognun Fratello nel suo primo ingresso, che farà in essa Congregazione,
offerire meza libra di cera bianca lavorata, quale servirà pelle funzioni si fanno in essa.
4) Che sia tenuto ognun Fratello pagare anche nel primo ingresso grana dieci, e così p.
ogn’anno continuare un tal pagamento; qual danaro si porrà in Cassa del Diposito,
chiusa con tre chiavi, come si spiegherà nel Cap. seguente.
5) Sian tenuti tutti i fratelli p. ogni prima Domenica del Mese confessarsi col di loro
Padre Spirituale, e dopo communicarsino p. mano del medemo in detta Cappella.
6) P. ogni sera di Venerdì dopo il tocco della Campana d’essa Chiesa, quale si farà
suonare con pausa tre volte, che fanno adunarsi tutti li Fratelli in essa p. fare
l’orazione, e dopo la disciplina con cantarsi il Miserere mei Deus, e tutto lo medemo
salmo nel quale divoto esercizio sia tenuto intervenire il Padre Spirituale, quale
impedito sostituischa qualche Chiesastica Persona d’egual merito; mancando poi
qualche fratello sia tenuto pagare un tornese p. Ogni volta purché non sia impedito da
qualche legitima causa, il che si rimette nella prudenza del Padre Spirituale.
7) Sian tenuti ancora p. ogni festa, e Domenica dell’anno, adunarsi in Chiesa dopo il
solito tocco della campana, e quivi recitare la Corona di sette poste overo l’uffizio
della Madonna, rispetto à coloro che lo sanno leggere, o l’averanno imparato à mente,
ed alcuna volta l’uffizio de’ morti, il che tutto resta à disposizione del Padre Spirituale
e mancando alcuno de’ Fratelli dovesse pagare un tornese, purche non fusse impedito
legitimamente come sopra.
8) Sien tenuti tutti ed ogn’un de Fratelli intervenire col sacco nelle Processioni della
Protettrice, Corpus Domini e Rogazioni giusta il solito, come pure
nell’accompagnamento dovrà farsi quando si tumulerà il cadavere di cadaun Fratello
defonto e mancando senza legitima causa dovrà pagare grana due.
9) Dovendo poi detta Confraternità impiegare denaro tenuto in beni stabili quanto in
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cenzi, tanto Enfiteutici, quanto Bullali o altro non possa fare ciò senza licenza della
Corte Vescovile di Mileto come pure trattandosi in caso di alienazione di fondi, o altro
appartenente ad essa Congregazione, non possa farsi inaudita detta Curia e
compratticarsi l’atti soliti praticarsi in casi simili.
Cap. II
Del numero dell’Uffiziali
1) Affinché la Confraternita suddetta si mantenesse con decoro, e stima che li
conviene, e per esser ben regolata p. tanto siano in essa li seguenti Ufficiali, cioè,
Padre Spirituale, Prefetto seu Procuratore con due altri assistenti, cassiero, due
infermieri, Sagristano, e Puntatore.
2) Riguardo che questa Confraternita al di presente in questa primiera sua fondazione
si istituisce da soli Artisti, perciò espressamente si comanda che à medemi solamente e
non ad altri competa l’amministrazione delli sopra nomati uffizij restandono a tale
effetto inabili le persone così nobili, e civili, come Plebei.
3) Circa l’elezione dell’officiali sudetti, si comanda che tutti i Fratelli radunarsi
debbano in detta Chiesa nel giorno susseguente alla seconda domenica di luglio
precedente il suono della campana dove radunati, con tutta modestia si ritireranno in
luogo decente e si farà l’elezione come siegue.
4) Collocati saran tutti li Fratelli si proponerà dal Prefetto il Padre Spirituale che dovrà
esser Sacerdote e Confessore Secolare il di cui officio sarà assistere nelle funzioni,
predicare à fratelli ed istruirli circa l’erudimenti della S. Fede, confessarsi e
comunicarsi, et signanter in ogni prima domenica del mese; fatta sicché una tale
elezione dalla maggior parte de Fratelli sarà necessaria la conferma della Vescovil
Corte di Mileto e confermato sarà esserciterà tal carica p. anni tre senza poterlo
amovere, quando non vi s’opponesse positiva mancanza circa l’esercizio, e colla sua
giusta limosina di grana venticinque per ogni prima domenica del mese che assiste alle
Confessioni come si è detto.
5) Seguita l’elezione del Padre Spirituale, statim si farà quella del resto dell’uffiziali
cioè il Prefetto seu Procuratore, primo Assistente, e Sicondo, e Cassiere si faranno p.
vota secreta, e chi ha più voti sarà Prefetto, gradatim poi primo e secondo Assistente e
così il Cassiere. L’altri uffiziali, come Infermieri, Sagristani, e Puntatore li nominerà il
Padre Spirituale. La cassa deve star serrata con tre chiavi, dè quali l’una starà in mano
del Prefetto seu Proc.re, e le altre due in mano del primo e secondo Assistente. Tutti e
tre avran la cura p. le questue in tutto l’anno a benefizio della Cappella dell’Idria, e
festa, e Processione della Vergine SS.ma, quale sarà ogni seconda Domenica di
Luglio, e questi sudetti tre ufficiali terranno il primo luogo in Congregazione presso il
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Padre Spirituale = Si dichiara, che se in tali elezioni seu deputazioni, com’anche in
ogn’altro affare concernente alla medema vi fosse mossa lite, dubbio ò controversia,
devasi questa muoversi, risolversi e terminare nella sudetta Curia di Mileto, e non
avanti altro Giudice.
6) Si debbano nominare in detta elezione, seu deputazione persone abili, pontuali e
benestanti e della Professione che potessero assistere, ed esercitare il di loro uffizio, e
che non possano far cosa senza consenzo del Padre Spirituale.
Cap. III
Costituzioni per l’erezione del monte
1) Affinché l’anima d’ogn’un fratello ne sentisse dopo nell’altra vita, il suffraggio
d’una tal Congregazione, si stabilisce che si dovesse erigere un Monte di messe
accioche seguita la morte di cadaun fratello si dovessero statim celebrare nella stessa
chiesa della SS.ma Trinità messe numero quindeci p. l’anima d’esso fratello, a quale
effetto si dovrà tenere un libro p. annotarsino dà Sacerdoti le messe celebrate, il quale
deve conservarsi dal Procuratore da cui si pagarà il danaro.
2) Per goder dunque ogn’un fratello dopo morte un tal suffraggio, sia tenuto pagare
nell’ingresso grana diece, e così p. ogn’anno continuare il pagamento sudetto.
3) Non si possono ammettere, ed ascrivere p. fratelli, coloro che sono sopra l’anni
quaranta, se non col parere del Padre Spirituale, e col consenzo della maggior parte dé
fratelli, con esser tenuti non solo pagare l’ingresso della mezza libra di cera, e grana
dieci come sopra, ma di vantaggio sian tenuti pagare p. intiero l’importo di grana dieci
p. tutti quelli anni, che sopravanzano li quaranta p. non inferirsi menomo pregiudizio a
detto Sacro Monte; Dichiarando però, che tal costituzione non abbi luogo nella
presente elezione potendosi ammettere persone sopra l’anni quaranta purché non sijno
troppo avanzati in età, ne attualmente infermi, per cui ne potesse aver nocumento d.o
Sacro Monte.
4) Desistendo alcun fratello pagare il solito carlino p. lo spazio di sei mesi e richieste
in tal tempo dal Procuratore non ha curato pagare in questo caso morendo, senza aver
pagato non debba godere del suffraggio di dette messe quindici.
5) Se poi si ritrovasse alcun fratello in attrasso col detto Sacro Monte più di sei mesi di
modo che morendo non più godesse del beneficio del medemo e desiderarebbe
reintegrarsi al Monte sudetto in tal caso avutosi prima il consenzo del Padre Spirituale,
e della maggior parte de fratelli con pagare per intero li residui dell’anni decorzi, si
puot’ammettere, e nel medemo reintegrarsi.
6) Se alcun fratello volesse volontariamente sciogliersi da detta adunanza, sia tenuto
pagare carlini cinque e questo senza strepito di giudizio, ma propria auctoritate il
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Procuratore se li esigerà e li metterà in cassa del diposito.
7) Nel caso poi che talun fratello avrà ardire scrivere o far comparire pagamenti nel
libro in modo che si vedesse non esser ancora elassi li sei mesi prefissi di sopra e quel
fratello si ritrova in attrasso più di detto tempo, sia nello stesso punto casso dal numero
de Fratelli, e privo del beneficio di detta confraternità senza speranza esser in essa
reintegrato ...
Note
1 Numerosi monasteri basiliani costellarono il territorio circostante Polistena: S. Barbara, S.
Pietro, S. Maria di Placet, S. Maria di Carbonara, S. Maria di Campoforano, S. Elia, S. Maria
del Ruvo, S. Giorgio ecc.: cfr. D. VALENSISE, Monografia di Polistena, Napoli 1863, p. 40;
N. FERRANTE, Santi italogreci in Calabria, Reggio Calabria 1981, pp. 267-269; G. RUSSO,
Note sul monastero greco di S. Maria di Campoforano nei pressi di Polistena, «Rivista Storica
Calabrese» N. S., IX (1988), pp. 37-52; Le «Memorie» di URIELE MARIA NAPOLIONE, a
cura di V. F. Luzzi, Parte I, Memorie per la Chiesa Vescovile di Mileto, Reggio Calabria 1984,
p. 222.
2 F. RUSSO, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. IV. Roma 1978, p. 6, n. 1787; A.R.P.
WADDINGO HIBERNO, Annales Minorum seu Trium Ordinum a S. Francisco Institutorum,
Tomus XVI (1516-1540), Florentiam 1933, p. 128.
3 D. VALENSISE, Monografia ..., p. 41; G. RUSSO, Polistena nelle immagini di ieri, Palermo
1985, p. 178, doc. n. 2.
4 F. RUSSO, Regesto ... vol. IV, p. 48, n. 18266; F. RUSSO, Regesto ... vol. IV, p. 69, n.
18466; D. VALENSISE, Monografia ..., pp. 136-137; Le «Memorie» ..., p. 58.
5 Secondo il Napolione, era una «Cappella, o sia Romitorio, che si pretende fondato in solo da
F. Arcangelo da Polistina minore osservante di S. Francesco a 21 Dicembre del 1542 col peso
di una libra di cera l’anno»: cfr. Le «Memorie» ..., p. 61. Non sappiamo se tale chiesa è da
identificarsi con la chiesa di S. Maria degli Angeli, annessa all’antico palazzo dei Milano, poi
distrutto dal terremoto del 1783.
6 D. VALENSISE, Monografia ..., pp. 34-36; C. TRASSELLI, Lo stato di Gerace e Terranova
nel Cinquecento, Reggio Calabria 1978, p. 25.
7 C. TRASSELLI, Lo Stato ..., p. 31.
8 Tale lapide con relativo stemma che la sormontava, un tempo posti su un muro della
Peschiera, furono, negli anni ’60, portati via da Polistena e, solo dopo 18 anni, furono da noi
recuperati ed esposti nel museo civico di Polistena, ospitato, temporaneamente, nei locali della
Biblioteca Comunale.
9 Le confraternite, secondo il diritto canonico, possono essere semplici associazioni o
istituzioni morali ecclesiastiche, se la loro personalità giuridica fu comunicata dall’Autorità
ecclesiastica e laicali, se dallo Stato: cfr. G. ZUMBO, Delle confraternite ecclesiastiche. Studio
giuridico canonico, Mileto 1906. Per ciò che concerne le confraternite dell’area della Piana di
Gioia, cfr. E. MISEFARI, Storia sociale della Calabria. Popolo, classi dominanti, forme di
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resistenza dagli inizi dell’età moderna al XIX secolo, Milano, 1973; appendice: Confraternite,
corporazioni, opere pie in Calabria; A. MARZOTTI, Chiesa e società in Calabria nel dibattito
storiografico del secondo dopoguerra. Un contributo: le congreghe. «Incontri Meridionali»,
1977, n. 2-3, pp. 5-47; R. LIBERTI, Le confraternite nell’area della Diocesi di Oppido
Mamertina-Palmi. «Incontri Meridionali», III serie, V (1985), n. 2, pp. 69-102; M.
MARIOTTI, Ricerca sulle confraternite laicali nel Mezzogiorno in età moderna. Rapporto dalla
Calabria, «Ricerche di storia sociale e religiosa», XIX (1990), n. 37-38, pp. 141-183 (atti del
Convegno di Roma, 10-12 Dicembre 1987, «Sociabilità religiosa nel Mezzogiorno. Le
confraternite laicali»).
10 F. RUSSO, Regesto ..., vol. IV, p. 48.
11 F. RUSSO, Regesto ..., vol. IV, p. 69.
12 Le «Memorie» ..., p. 58.
13 D. VALENSISE, Monografia ..., p. 136; ARCHIVIO COMUNALE DI POLISTENA, Cat.
II, cl. I, Opere pie e beneficenza, f. 2-1. Riconoscimento giuridico delle confraternite.
All’interno di tale fascicolo vi è una carta dattilografata con un breve cenno alle «Memorie
storiche» dell’arciconfraternita. Inoltre, nello stesso fascicolo si conservano: una ulteriore
«Relazione» sulla storia del sodalizio (brevissima), un «Inventario dell’archivio» ed un
«Inventario dei beni mobili ed immobili». Tali documenti furono prodotti, nel 1887, a richiesta
del Prefetto della Provincia. Nell’archivio della Confraternita si conservano, inoltre, ulteriori
pergamene con le quali l’Arcibasilica Romana rinnovava l’aggregazione per gli anni 1870,
1886, 1901, 1927. Da queste si evince, chiaramente, che la originaria data di aggregazione fu
quella del 10 Febbraio 1541. Tutte, infatti, o quasi così cominciano: «Dilectis Nobis in Christo
Universitati et Hominibus Terrae Polistinae Mileten. Diocesis, ac Confratribus Confraternitatis
SS.mae Trinitatis dictae Terrae Polistinae salutem in Domino sempiternam. Quum alias
videlicet de Anno 1541 die vero 10 Mensis Februarii seu alio veriori tempore a
Praedecessoribus nostris fuerit vestris antecessoribus concessa submissio, unio, sive
incorporatio ...».
Altra pergamena che ivi, ancora, si conserva è quella con cui Papa Gregorio XVI, il 21 Luglio
1834, concesse indulgenza plenaria a tutti i fedeli che, nel giorno dedicato alla Divina
Maternità e nella festa della domenica seconda di luglio, avrebbero visitato la Chiesa.
14 La chiesa della Trinità degli Spagnuoli fu eretta dai napoletani verso il 1573 e rinnovata nel
1588. Poi fu data agli Spagnoli che, per la più parte, abitavano in questa contrada, che la
rifecero e intitolarono a S. Maria del Pilar, edificandovi un contiguo convento per i frati
spagnoli della Trinità. Cfr. G. ASPRENO GALANTE, Guida sacra della città di Napoli, Napoli
1872, p. 368. Che la Confraternita della SS. Trinità di Polistena fu aggregata all’Ordine
Trinitario con sede in Napoli, dentro la Trinità degli Spagnoli, lo tramanda una memoria del 16
ottobre 1858, scritta da Michele Valensise, allora Priore della confraternita polistenese: «... E
primieramente il Sodalizio, il quale come si rileva da una antica carta era allegato all’ordine
Trinitario, e precisamente alla Trinità degli Spagnuoli in Napoli ...»: cfr. ARCHIVIO
DELL’ARCICONFRATERNITA DELLA SS. TRINITÀ (d’ora in poi A.A. SS. T.P.), Libro
dell’Apertura e stabilimenti della Venerabile ed Insigne Congregazione sotto il titolo della SS.
Trinità di questa Città di Polistena ... (subito dopo la delibera dell’8 Sett. 1858 vi è trascritta la
memoria del Valensise).
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
15 A.A.SS. T.P., Pergamena del 16 Settembre 1592. È bene precisare che il Valensise,
Monografia ..., pp. 136-137, nel mentre nel testo riferisce: «Fu inoltre nel giro di quel secolo e
propriamente nel 1579 questa nobile Arciconfraternita associata allo Ordine Trinitario e con ciò
messa a parte di tutti i privilegi, grazie ed indulgenza di quello, e chiamata alla speciale
comunione di frutti e beni spirituali che le opere di quei frati avessero potuto acquistare ...»,
alla nota 1, relativa a tale affermazione, poi aggiunge: «La pergamena per questa aggregazione
conservasi nel predetto Archivio; e dalla stessa rilevasi che una tale concessione è stata fatta
dal Com. Generale Teol. Giovanni Navarro, e data in Napoli il 21 Settembre 1692».
Dall’esame della pergamena risulta incontrovertibile che la data esatta è quella del 16
Settembre 1592. Non sappiamo, quindi, a cosa si riferiscono le date del «1579» e del «21
Settembre 1692».
16 R. LIBERTI, Le confraternite ..., p. 92.
17 ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI MILETO (d’ora in avanti A.S.D.M.), Acta
Pastoralis (in avanti A.P.), vol. 4, f. 854.
18 Procuratore della SS. Trinità, alla data del 7 aprile 1598, era tale Minico Coraca: cfr.
SEZIONE DI ARCHIVIO DI STATO PALMI (d’ora in avanti S.A.S.P.), Notaio G. A. Rovere,
B. 442 Bis, vol. 5198, f. 98 v.
19 A.S.D.M., A.P. ..., vol. 5, f. 103.
20 A.S.D.M., A.P. ..., vol. 7, f. 436: «... in dicta ecclesia adest sodalitas confratrum sub titulo
Sanctissimae Trinitatis et confratres indunt in functionibus saccis rubei coloris absque
scapolare ...».
21 Una delle più importanti processioni, a cura della Confraternita della SS. Trinità, fu, da
tempo immemorabile, quella della Madonna dell’Itria. Abbiamo testimonianza di un antico suo
simulacro che, già nel 1712, veniva portato in processione per le vie della città: cfr. A.S.D.M.,
A.P. ... vol. 6, f. 805.
Detta Visita Pastorale del 1712 così ne riferisce: «... Altare S. Mariae Hidriae est annexum
altari maiori. Habet simulacrum B. Mariae Virginis Hidriae, et qualibet feria tertia post Pasca
processionaliter defentur p. Civitatem ...». Tale simulacro, al pari di quasi tutto ciò che
apparteneva alla antica chiesa, fu distrutto dal terremoto del 1783. Successivamente, si
provvide alla formazione della nuova imponente statua, di cui diremo avanti.
22 BIBLIOTECA COMUNALE DI POLISTENA, Fondo Milano, n. provv. 4, Libro Maggiore
1715, 5 Maggio 1715: «... Pagati ad Ant.no Calojaro p. prezzo di rotola 4,3/4 cera che S.E.P.
dona p. illuminare due misteri della Processione della SS. Trinità nel giovedì Santo - 4. 3. 9».
23 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Secr. Brev. 71, ff. 382-384 v., 72, ff. 736-740; F.
RUSSO, Regesto ... vol. V, p. 98, n. 23549: «Priori et Fratribus domus SS. Trinitatis, O.P. loci
Polistinae, Mileten. Dioc., indulgentur quod possint facere aedificare aliam domum ...».
24 A.A.SS.T.P., Libro ..., memoria del 16 Ottobre 1858.
25 Le nuove Regole, presentate al Re dagli ufficiali e fratelli della novella laicale confraternita
unitamente ad un memoriale col quale chiesero di riformare le antiche loro regole e di impartire
sulle nuove il Regale assenso, si articolarono in 17 punti.
26 A.A.SS.T.P., Libro ..., f. 1. A firma del segretario della congregazione, Giuseppe Perna, fu
registrata la seguente memoria: «A 23 Novembre 1794 nella chiesa dell’Ill.mo Sig. Cassiere
Sig. D. Niccolò Jeraci sotto il titolo della SS. Annunciata, avuto primo il suo permesso, s’aprì
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l’Insigne Congregazione sotto l’Augustiss.mo titolo della SS. Trinità, e sotto la protezione della
gloriosissima Madre di Dio sotto il titolo dell’Itria, dentro la quale chiesa canonicamente e
secondo lo stabilimento nei Capitoli del Reale Assenso ottenuto addì 21 ottobre 1794, furono
eletti li officiali di banca, come ancora gli officiali subalterni e dopo l’invocazione dello Spirito
Santo, si elessero per officiali di banca li qui dietro scritti e dopo già eletti detti officiali si
devenne agli stabilimenti dietro qui annotati. Il Regio Assenso è registrato nel libro dei
privilegi n. 70, al f. 122. Polistena 24 Novembre 1794. F.llo Giuseppe Perna Segretario». Le
cariche furono così distribuite: Priore: D. Michele M. Valensise; 1° Assistente: Dr. D.
Francesco Antonio Pilogallo; 2° Assistente: D. Nicola Jerace; Tesoriero: D. Luigi Barone
Rodinò; Padre Spirituale: Rev. D. Francesco Mangiaruga; Sagristano: Mag. Dr. D. Francesco
Tigani; Segretario: D. Giuseppe Perna; Consultori: Dr. D. Ferdinando Manfré, D. Francesco
Lombardo, D. Carlo Sergio; Maestri di Cerimonie: D. Gerolamo Jerace, Dr. Fisico D. Ant.no
Riccio, Mag.co Fran.co Ciurleo, M.ro Fran.co Laruffa, Maestro de’ Novizi: Nr. D. Vincenzo
Fida; Stendardieri: Nr. D. Michel Angelo Zirilli, D. Giuseppe Curciarello, D. Gaetano
Lombardo; Infermieri: D. Carl’Ant.o Lombardo, M.ro Domenico Sorace; Sottosacristani: D.
Paolo Lidonnici, D. Giuseppe M. Mileto, M.ro Pasquale Laruffa, Mag.co Francesco Siciliano;
procuratore delle limosine: Mag.co Domenico Rodinò; Procuratore della Cappella e
Cappellano: Rev. Can.co D. Domenico Guido. A fondare la novella congregazione furono
complessivamente 56 confratelli i cui nomi, per ragioni di spazio qui omettiamo.
27 A.A.SS.T.P., Libro ..., f. 15: «A 11 luglio 1795 si benedisse l’oratorio della Congregazione
della SS.ma Trinità dal M.to Rev.do M.ro in Sacra Teologia Arciprete D. Nicola Montiglia
d’unita al Collegio, e la p.ma messa in d.to Oratorio celebrata col canto fu celebrata dal Rev.do
Can.co D. Dom.co Guido Procuratore della Cappella e Cappellano della Congregazione».
28 Art. 1 delle Regole. L’art. 6, inoltre, trattando del nuovo confratello, specifica che questi
«debba vestire l’abito, cioè il sacco di tela bianca, la mozzetta color celeste col friso rosso la
tracolla di raso rosso, e cingolo rosso»: cfr. ARCHIVIO DI STATO DI REGGIO CALABRIA
(d’ora in avanti: A.S.R.C.), inv. 27, f. 81, n. 223, a. 1858, Consiglio Generale degli Ospizi,
Comune di Polistena, Congrega sotto il titolo della SS. Trinità. Oggetto: Copia del Regio
Assenso sulla fondazione e regole del 1794 e del Real Decreto con cui fu elevata ad
Arciconfraternita.
29 A.A.SS.T.P., Libro ..., f. 15. Il giorno 11 aprile 1795, nell’oratorio della congregazione, ai
confratelli fu proposto: «come essendono state spedite le provisioni dalla Suprema Giunta di
Corrispondenza della Cassa Sagra dal Sig.r Regio Consigliere e Commissario D. Giuseppe
Zurlo, con le quali ordinò in sieguito del Veneratissimo Regio Assenso impetrato sulle nove
regole di d.a congregazione, e dell’offerta volontariamente fatta dall’istessi confratelli di
soccombere alla metà paga bisognerà p.lo mantenimento dell’espositi vi saranno in questa città,
p.lo corso d’anni sette, ed indi applicarli a qualche utile arte, giacché all’altra metà paga
soccomber deve l’altra Congregazione di questa sud.a Città sotto il titolo del SS. Sacramento;
per cui si dovessero dette provisioni accettare, ed in seguito concedere la facoltà alli Sig.ri
Ufficiali di d.a Congregazione di potersino obbligare poenes acta junctae Arcae Sacrae,
corrispondere e soggiacere alla sud.a metà paga bisognerà p.lo mantenimento delli espositi
sudetti per lo giro sud.o di anni sette ...» e, pertanto, furono invitati a deliberare in merito. Gli
ufficiali accettarono l’onere del parziale mantenimento degli esposti per anni sette, mentre
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
l’altra parte spettava alla Confraternita del SS. Sacramento che aveva subordinato, pur essa,
l’approvazione delle proprie nuove regole a detta condizione.
30 A.A.SS.T.P., Libro ..., pp. 238-240. Così la nota: «Nell’anno 1857 per l’avvedutezza di
alcuni fratelli, e con l’operosità e rapporti del benemerito Can.co Florimo di San Giorgio
residente in Napoli, si giunse a ripristinare il Sodalizio negli antichi suoi diritti e privilegi, li
quali sono un vero tesoro d’indulgenze, come si osserva dalla Bolla e dai libretti pubblicati ...».
Si rinnovò, infatti l’aggregazione del sodalizio alla Trinità degli Spagnuoli. (Vedere anche la
nota n. 14).
31 Alla luce del carteggio che si conserva presso l’ARCHIVIO DI STATO DI REGGIO
CALABRIA (Inv. 27, f. 81, n. 223), la copia del Real Decreto che accorda il titolo di
Arciconfraternita alla Congrega della SS. Trinità reca la data del 22 aprile 1858, mentre mons.
Valensise, invece, indica la data del 21 aprile 1857: cfr. D. VALENSISE, Monografia ..., p.
138.
32 A.A.SS.T.P., Libro ..., p. 239. Così l’annotazione: «... Ed ecco già quella preminenza
cotanto irragionevolmente contrastata, emergere più splendida, ed ineluttabile, quando coll’alba
dell’antevigilia della solenne festa di nostra Signora della Idria giungeva in Polistena il Decreto
col quale S.M. il Re (D.G.) dichiarava prima Arci-confraternita la congregazione della SS.
Trinità. Il tripudio e la gioia dei benemeriti fratelli i quali, e con elargizioni e con operativa
alacrità giunsero ad averne l’intento desiderato, fu cosiffattamente intensa da manifestarsi
ineffabile! E già da mane a sera il rombo dell’aere ripercorso per lo sparo della polvere ne
intronava le vicine contrade. Quindi il giorno alla Donna SS.ma dedicato si cantò solennemente
l’Inno di ringraziamento a Dio perché si compiacque far trionfare cotanto questa nobile Arciconfraternita ad onta degli ostacoli e contraddizioni riprodotte dai suoi avversari, facendo loro
ricordare che «Sanctum et terribile nomen Eius!» e che sotto lo stendardo di colui che regge
l’Universo, Signore degli Eserciti «Rex Regum et Dominus Dominantium» si tremano le forze
avverse e tutto si vince!».
33 L’elevazione ad arciconfraternita comportò non poche difficoltà e lungaggini burocratiche
causate dalla tipica forma di antagonismo tra confraternite per il diritto di precedenza.
L’antagonista confraternita di quella della SS.ma Trinità fu, in questo caso, quella del SS.
Sacramento. Ambedue ripristinate il 21 ottobre 1794, fin da quell’epoca, intrapresero vere e
proprie lotte per il diritto di precedenza che, dopo molti contrasti, si attenuarono arrivando ad
una specie di bonario accordo, stabilendosi che nelle festività principali, cioè nelle processioni
di Pasqua, del Corpus Domini, della protettrice S. Marina, e del compatrono S. Rocco avesse la
precedenza la Congrega della SS. Trinità e che nelle due della SS. Trinità e della Madonna
dell’Itria, avesse la precedenza la Confraternita del SS. Sacramento. Ambedue, però,
presentarono istanza al Re perché potessero essere elevate ad arciconfraternita. Ma, come per la
concessione dei Regi Assensi che furono, dopo il terremoto, condizionati dall’obbligo di varie
forme di assistenza e beneficenza, anche in questo caso, l’Autorità Reale, per mezzo dei propri
Ministri, Intendenti ecc., credette opportuno richiedere alle due Congreghe l’eventuale
disponibilità di fondi da destinare ad opere di beneficenza. Quella del SS. Sacramento,
rappresentata dal priore Domenico Ferraro che venne interrogato dal sindaco dell’epoca D.
Saverio Rodinò prima e poi dal R. Giudice del Circondario di Polistena, Francesco Lojercio,
con l’assistenza del cancelliere Francesco Teti, pur manifestando l’indisponibilità economica di
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quel momento onde far fronte alle richieste opere di beneficenza, dichiarò di non voler
rinunziare al beneficio dell’auspicato titolo e promise che avrebbe provveduto, in, tempi
migliori, alle opere caritative, qualora le fosse stato accordato il titolo di arciconfraternita. La
Confraternita della SS. Trinità, invece, che sin dal 1855, aveva umiliato supplica al re, a tale
effetto, uniformandosi alle determinazioni del Real Ministero, si obbligò di elevare a ducati 30
annui le opere pie che promise di realizzare, erogando tale somma annua nel seguente modo:
1) vestire tre poveri nel giorno della SS. Trinità, con la spesa di ducati 6;
2) distribuire ai detenuti nel giorno natalizio di S. M. il Re N.S. del pane, con la spesa di ducati
1.20;
3) Provvedere a un maritaggio di ducati 13;
4) distribuire ai poveri nella festività della Madonna dell’Idria ducati 1.20;
5) celebrare la festa delle Quarantore per ducati 8.60, per un totale di ducati 30,00.
Per l’adempimento di tali opere era necessaria, quindi, una rendita annua di ducati 30. Ed a tale
effetto i confratelli della pia adunanza, Signori D. Saverio Rodinò, Procuratore della congrega;
D. Giuseppe Lombardi, 1° Assistente, Rev. Teologo Can. D. Domenico Lidonnici, Rettore e
Padre Spirituale; nonché i confratelli D. Angelo Rodinò di Miglione, D. Giovan Battista
Valensise e D. Carlo Perna, con atto del Notaio Francesco Tigani, il 7 Maggio 1857, si
obbligarono, con atto di donazione irrevocabile fra vivi di donare alla congregazione,
rappresentata nell’atto da D. Francesco Lagamba, 2° Assistente, beni per un valore di 600
ducati che avrebbero procurato la rendita annua di ducati 30.
Con l’elevazione ad Arciconfraternita e con l’aver stabilito la rendita sui beni stabili per le
opere di culto e di beneficenza, il sodalizio venne riguardato come Opera Pia, ed in quanto tale,
fu obbligato a rendere i suoi conti alla Deputazione Provinciale, al pari di ogni altro Istituto di
beneficenza. Gli obblighi relativi alle opere pie furono, dal sodalizio sempre soddisfatti: cfr.
ARCHIVIO DI STATO DI REGGIO CALABRIA, Inv. 27, f. 81, n. 223 ...; D. VALENSISE,
Monografia ..., p. 138.
34 Distrutta la chiesa e quanto di artistico ivi si conservava, dal terremoto del 1783, la
congregazione ebbe prima di tutto l’esigenza di ricostruire il proprio oratorio, dopo di che
provvide, tra il 1797 ed il 1798, alla formazione della nuova statua della Madonna dell’Itria,
statua che, pur mancando di documentazione archivistica relativa alla committenza, modalità di
esecuzione e prezzo, si tramanda esser stata realizzata, per certo, da Vincenzo Scrivo, ben noto
scultore di Serra San Bruno. Il 1° Gennaio 1799, i confratelli deliberarono la realizzazione di
una nicchia o cappella dentro l’oratorio «per collocare la eccellente statua ... e così ricavarne
maggiore devozione ...», obbligandosi di pagare, nel periodo della fabbrica, grana cinque
ciascheduno, in occasione della morte di un confratello o di una consorella: cfr. A.A.SS.T.P.,
Libro ... p. 39. Nello stesso libro vengono annotate molte notizie relative a lavori per il
completamento della chiesa ed a memorie di occasioni particolari che, a titolo esemplificativo e
non nella totalità, qui di seguito regestiamo:
24-12-1810: Riapertura e benedizione della sottostante cappella di S. Anna (p. 79);
19-01-1812: Tassazione dei congregati per accomodo dell’organo (p. 83);
08-09-1853: Riattazione e copertura della cupola nonché compimento dello stucco della chiesa
(se ne da delega al priore M. Valensise);
15-06-1854: Restituzione di una campana al barone D. Luigi Rodinò che «da più anni l’aveva
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
improntata» (p. 210);
02-09-1856: Autorizzazione al priore onde prelevare ducati 50 dalla questua della Madonna
dell’Itria del 1856 ed aggiungerli alla offerta di due devoti per ricostruire ed accomodare il
cappellone della chiesa (p. 217);
08-05-1856: Visita del Vescovo Mincione che autorizza a tenere perpetuamente esposto il SS.
Sacramento in chiesa. L’avvenimento viene descritto nei particolari da D. Pasquale Pilogallo
(p. 218).
16-10-1858: In una memoria del priore M. Valensise, (alla p. 240), si annotano lavori già
compiti dello stucco, del pavimento, del coro ecc., nonché lavori di stucco delle cappelle
laterali, rispettivamente della Vergine SS. dell’Idria e di S. Giovanni Battista, realizzati a
devozione dei confratelli G.B. Valensise e m.ro Fortunato Jerace.
24-05-1863: Acquisto Crocifisso d’argento ad uso della arciconfraternita, del costo di ducati
64, (p. 262);
26-05-1863: Concessione a Michele Valensise dell’autorizzazione a poter collocare una lapide
sepolcrale ove fu seppellita Ottavia Fazzari, sua defunta moglie (p. 263);
01-11-1864: Anticipo di ducati 209.80 ai mastri per farsi il nuovo pavimento di marmo nella
chiesa (p. 271);
21-11-1866: Lavori al frontespizio della chiesa, secondo il disegno di Mastro Raffaele Rovere
«facendosi però di pietra granita nostrale la zoccolatura, le basi ed i capitelli delle colonne» (p.
279).
03-09-1875: Nuovi lavori alla cupola della chiesa, bisognevole di una nuova copertura «a
scanso di danni che potrebbero avvenire ed ogni ulteriore ritardo potrebbe essere pericoloso».
L’importo di tali lavori, calcolato in lire 888,54, fu anticipato dal Padre Spirituale, teologo
Domenico Valensise. Con tale deliberazione venne autorizzato il priore a stipulare regolare
contratto di esecuzione con il mastro Francesco Antonio Gangemi (p. 297).
Inoltre, il Libro contiene l’elenco dei padri spirituali, nonché quello dei priori della
Confraternita che noi omettiamo per ovvie ragioni di spazio.
35 A.A.SS.T.P., Libro ..., p. 549. L’esecuzione dei lavori fu affidata a Fortunato Jerace, padre
dello scultore Francesco Jerace.
36 R. LIBERTI, Le confraternite ..., p. 73.
37 Le fonti più antiche, per la verità, indicano la data del 1548: cfr. A.S.D.M., AP. ... vol. 4°, p.
836; O. PARAVICINO, Synodus Diocesana Miletensis Secunda ..., Messina, 1693, p. 141; D.
VALENSISE, Monografia ..., p. 139; ARCHIVIO DELLA CONFRATERNITA DEL SS.
SACRAMENTO, POLISTENA (d’ora in avanti A.C.S.S.P.), Libro delle sessioni che si
tengono dai fratelli del SS. Sacramento della Città di Polistena dal principiare del P.mo Giugno
1847 in avanti, essendo Priore Francesco Politanò (chiochiò).
Gli stessi confratelli, nel formulare l’istanza al Re, onde poter ottenere il titolo di
Arciconfraternita che, come abbiamo visto precedentemente fu assegnato alla Confraternita
della SS. Trinità, indicarono, quale data di erezione, quella del 1548: «... che sin dal 1548
venne istallata, successivamente ravvivata, e quindi confirmata col Regio Assenso del 21 Ott.
1794 contando il privilegio di sua antichità fra le altre due confraternite esistenti nel predetto
Comune sotto il titolo del SS. Rosario, e l’altra sotto il titolo della SS. Trinità, erette in epoche
assai posteriori ...» cfr. A.S.R.C., Inv. 27, f. 81, n. 223. Per niente vera quest’ultima
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
affermazione, secondo quanto noi abbiamo trattato a proposito della Confraternita della SS.
Trinità che, alla luce dei documenti finora pervenuti, risulterebbe la più antica delle
confraternite polistenesi.
Secondo Imperio Assisi, inoltre, la Confraternita del SS. Sacramento, da lui indicata con la
denominazione del «SS. Corpo di Cristo», fu fondata nel 1549: cfr. I. ASSISI, Storia religiosa
della Calabria. Le confraternite laicali nella Diocesi di Mileto, Cosenza 1992 (nell’elenco delle
confraternite più antiche della Calabria).
38 ARCHIVIO ARCICONFRATERNITA SS. SACRAMENTO DI S. MARIA DELLA
MINERVA, ROMA, Elenco delle Confraternite aggregate alla Venerabile Archiconfraternita
del SS. Sacramento della Minerva dal 1539 al 1739, Lettera C. Ringraziamo per tale
indicazione archivistica l’amico Ferdinando Mamone di Candidoni.
39 ARCHIVIO ARCICONFRATERNITA SS. SACRAMENTO DI S. MARIA DELLA
MINERVA, ROMA, Rubricellone dell’Archivio della Ven.. Archiconfrat.a del SS.mo
Sagramento della Minerva composto nell’anno 1739 da Fran.co M.a Magni, coll. VI, a. 2, a.
1543.
40 Ringraziamo il p. Tarzicio Piccari, archivista della Provincia Romana Domenicana, per la
disponibilità e per averci concesso di rovistare nel «Minerva Archivum» ove, purtroppo, oltre
la fondamentale notizia della data, null’altro ci è riuscito di rintracciare. Speravamo nel
rinvenimento di una qualche documentazione dell’epoca (magari avessimo rintracciato
l’istanza prodotta dall’università e dalla Confraternita per l’aggregazione!).
41 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Reg. Lat. 1790, ff. 20 v.-22, Paolo III, 1547-1548,
Aliq. Div. ann.
42 F. RUSSO, Regesto ..., vol. IV, p. 176, n. 19489: «Universitati et hominibus terrae
Polistenae Militen. dioc., datur facultas erigendi cappellam SS. Sacramenti in parochiali
ecclesia, sub tutela confraternitatis eiusdem nominis. Dat. Rome, apud S. Petrum, an.
MDXLVIII, X kal. Aprilis, an. XV, Sacrosante Ro.ecclesie».
43 A.S.D.M., A.P. ..., vol. 4°, f. 838. Questa ulteriore fonte conferma, in maniera
incontrovertibile, che il 1548 non è da considerare l’anno di erezione della confraternita, bensì
della concessione, da parte di Paolo III, della facoltà di erezione della cappella e dello jus
patronato sulla stessa da parte dell’Università. È scontato, quindi che la confraternita
preesistesse.
44 A.S.D.M., A.P. ..., vol. 4°, f. 835 v.
45 A.S.D.M., A.P. ..., vol. 4° f. 837 v. Questo mutamento della posizione dell’altare fu,
probabilmente, voluto dall’Abate Aragonese anche per onorare il privilegio delle compagnie
del SS. Sacramento di officiare nell’omonima cappella che, secondo R. Liberti, era «sita
sempre in cornu epistulae, cioè in fondo a destra per chi guarda verso l’abside». Cfr. R.
LIBERTI, Le confraternite ..., p. 71.
46 F. JERACE, Le avventure di una «Pala Marmorea»., Memoria letta alla Regia Accademia di
Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli dal Socio Ordinario Residente Francesco Jerace.
Napoli 1924.
47 P. CALCATERRA, Monografia di Polistena, Polistena 1931, pp. 35-36.
48 Tale considerazione trova anche riferimento nell’opera di alcuni studiosi: G. CECI, Per la
storia dell’arte in Calabria-Ancora della Pala marmorea di Polistena, «Brutium» a. IV, 1925, n.
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
1; nello stesso saggio vi è anche una conclusione di Alfonso Frangipane che non manca di
sottolineare tale importante sfumatura. Anche agli occhi del Prof. Raffaele Mormone, in
occasione di una sua visita alla Pala marmorea di alcuni anni fa, la data del 1503 non parve
realistica. Egli, infatti, ci manifestò che, rispetto allo stile dell’opera, la data era piuttosto in
anticipo e non molto accettabile, specie se l’opera era attribuita al Merliani. Cfr., inoltre: F.
SEMERARO, Un capolavoro del Cinquecento in Calabria di cui si ignora quasi tutto: la pala
marmorea della Chiesa matrice di Polistena, «Brutium», LXIX (1990), n. 1, pp. 6-7.
49 Tra le funzioni che la confraternità annualmente esercitava, a tenore dell’impegno assunto
alla data della fondazione, secondo quanto si evince dal Sinodo Paravicino, e cioè: Quarantore,
Ottavario della Festività del Corpus Domini, processione intorno alla chiesa nella terza
domenica di ogni mese, vi era anche l’esposizione del SS. Sacramento «in unoquoque die
veneris mensis Martii, in memoriam Sanctissimae Passionis». Cfr.: O PARAVICINO, Synodus
..., pp. 141-142.
Tale funzione dell’esposizione, nel giorno di Venerdì di marzo, in memoria della SS. Passione
perché veniva effettuata? Potrebbe avere qualche riferimento con la deposizione del corpo di
Cristo dalla Croce, cioè con uno dei punti centrali della passione del Cristo? Secondo la
prof.ssa Mariotti, al Corpo di Cristo erano «e spesso dedicati i più antichi sodalizi eucaristici,
confluiti poi in gran parte nelle Confraternite del SS. Sacramento» (cfr. M. MARIOTTI,
Ricerca ..., p. 157). Se così fosse anche nel nostro caso, si potrebbe ipotizzare che l’università e
Confraternita, in virtù della concessione della facoltà di poter erigere la propria cappella,
abbiano, in tale epoca, cioè nel 1548, avvertito la necessità di erigere un altare e, pertanto,
abbiano scelto (?) tale iconografia che evidenzia la deposizione dalla croce del corpo di Cristo.
Se così fosse, avremmo una possibilità per datare la pala marmorea anche al 1548 e
resteremmo nella attribuzione jeraciana. Resta, comunque, una supposizione che si aggiunge ad
altre, in attesa del rinvenimento auspicabile di un qualche altro autorevole documento che
possa far luce, definitivamente, su ciò che resta ancora un rebus storico-artistico.
50 G. RUSSO, Polistena nelle immagini di ieri. Palermo 1985, p. 21, figg. 23-24; Idem, Cenno
storico-corografico e blasonature dello stemma e del gonfalone municipale di Polistena (RC)
(lavoro in corso di pubblicazione, effettuato per conto del Comune di Polistena, ai fini del
riconoscimento dello stemma e del gonfalone municipali), datt. pp. 1-2 e relative note.
51 D. VALENSISE, Studi storico critici intorno a S. Marina Vergine. Napoli, 1908, p. 170.
52 Il Valensise, nel trattare della lapide così detta della «Peschiera», da Joannes Ramirez
Salazarius dedicata a Consalvo Ferdinando di Cordova, nipote del Gran Capitano (lapide che,
unitamente allo stemma, si conserva nel Museo Civico) così riferisce: «Noi ciò non ostante
vedendo in esso un’opera destinata a magnificare la memoria del Feudatario Signore D.
Consalvo nipote del Gran Capitano, e sapendo d’altronde che egli non risedè mai stabilmente
nei suoi feudi, pensiamo che tale onore fosse a lui reso in quella, che in compagnia del Viceré
di Toledo venuto in Calabria transitando per le nostre terre recossi in Gerace. Il perché, se la
venuta, di cui è parola, avverossi già, siccome narra il Pasqua, nell’anno 1540; ed in questo
medesimo anno che il descritto monumento vuol tenersi innalzato ...». Cfr. D. VALENSISE,
Monografia ..., p. 36.
53 A.S.D.M., A.P. ..., vol. 4°, ff. 850 v. - 851 r.
54 Ad abbellire tale nuova cappella dedicata al SS. Sacramento provvide l’arciprete Domenico
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
Rodinò Toscano che, in sul finire dell’800, commissionò all’artista polistenese Francesco
Jerace l’altare in marmo. Successivamente, nel 1904, lo stesso Jerace realizzò, per la stessa
cappella, il quadro ad olio raffigurante «L’ultima Cena del Signore». Che tale opera odierna sia
un doppione o una aggiunta, realizzata senza rispettare la memoria di quella più antica ed il suo
ruolo, lo conferma la relazione del Tabulario Sabatino del 1669, allorquando in testa alla chiesa
vi erano solo i tre cappelloni a forma di croce: «... Se ritrova la Chiesa Madre, consistente in
una nave coverta a tetto, a sinistra vi sono sei cappelle sfondate con ornamento di stucco, et alla
destra ci sono due altari fuore muro e la fonte battesimale, in testa vi sono tre cappelloni che
formano una croce, cioè uno a sinistra con altare della Madre SS.ma della Pietà e contiguo alla
porta della sacrestia et a quell’a destra ci è una cona con intagli e figure di basso rilievo di
marmo, con colonne, cornici et altri ornamenti ove è la custodia del SS. con una sacrestia a
parte, quale cappella si mantiene con entrate separate da quella della detta Chiesa Madre e tiene
tutte sue commodità, essendo di jus patronato dell’Università ...». Cfr. Relazione del Tabulario
Sabatino del 1669 in G. VERRINI, Per la revindica del territorio di Polistena aggregato a
Casalnovo. Polistena, 1932, p. 40. Nel 1759 si provvide, a cura della Confraternita, alla
esecuzione di gradini di marmo (non sappiamo se quelli dell’altare della «schiovazione» o se
quelli d’ingresso alla Cappella, come si evince dalla seguente registrazione: «Elemosinati dalla
Pia carità di S. Altezza Padrone al procuratore della V.ble Cappella del SS.mo di Polistina
Geronimo Jerace p. farsino li gradini di marmo in d.a Cappella ... d. 50»: cfr. BIBLIOTECA
COMUNALE DI POLISTENA, Fondo Milano, N. Provv. 75, Reg. del 23 Agosto 1759.
55 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, p. 1030.
56 A.S.D.M., B. Polistena-Sodalizi, 3 Sett. 1825, Zerbi-Riservata al Vescovo p.la Santa Visita.
Molto interessante, quindi, ai fini della nostra tesi, tale sottolineatura dello «altare della
schiodata» come «analogo al Sacramento».
57 A.S.D.M. A.P. ..., vol. 4°, ff. 836 r.-836 v.; le entrate erano le seguenti «- Il quondam presti
Jacovo Condoluci et lo quondam Cola Condoluci suo f.re lassaro sopra tante stabili ad pias
causas quattro messe la settimana denari undici l’anno;
- Lo quondam presti Nocentio Tafuri lassò per una messa la settimana sopra la quarta parte di
una poteca uno ducato l’anno;
- Lo quondam presti Fran.co di Palermo mediante donatione ha donato et lassato alla
Confraternita di detta Cappella per maritar molti ogni anno in perpetuum tante povere orfane et
virtuose a ragione di denari venti l’una per quella qualità et summa ascende l’entrata del
giardino suo a Vatone et di più ha lassato altre sue robbe stabili poste in polistina per dirse una
messa il giorno ogni anno per l’anima sua et vestirsi dodici poveri l’anno perpetuum, delle
quali robbe sopradette ogni anno se ne have et solono havere di entrata di fertile et infertile
ducati quaranta;
- Bernardino Galluccio paga di elemosina sopra certa sua vigna scudi cinque l’anno di censo
cum potestate affrancandi;
- Lo quondam Colangelo tarentino et quondam Pinnuzza sua soro hanno lassato per l’anima
loro a detta confraternita ducati diece l’anno sopra le loro robbe;
- Lo quondam Dominico Rubari lassò per elemosina et per l’anima sua dentro lo giardino suo
un piede di celso posto in Polistina il quale si può vendere cinque carlini l’anno mentre no cade
o sicca;
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
- Lo quondam Tadeo Raso lassò per l’anima sua dentro lo suo giardino in polistina uno piede di
celso la fronda del quale si può vendere un tarì l’anno mentre no sicca o cade;
- Il quondam Magnifico Gio.Batta Marino per una messa la simana uno ducato l’anno:
- Il quondam Bartolomeo zizo lassò per l’anima sua dentro lo suo giardino posto a Polistina
uno piede di celso, la fronda del quale si può vendere doi carlini l’anno mentre sicca o cade;
- Il quondam Dominico Rubari lassò per l’anima sua anno qualibet uno cafiso di oglio il quale
l’herede no lo pagò mai; Sopra le quali entrate la confraternita di detta cappella paga ogni anno
per sei cappellani et un sacrestano denari quaranta et per allumare tante lampe ducati otto di
oglio, per cera tanto appresso il S.mo Sacramento quanto per celebratione delle dette messe
ducati venti. per lo vestire et maritare dell’orfane ducati trenta, li quali fanno la somma di
ducati novanta otto».
58 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, ff. 837 r.- 837 v. Stando a detta Visita, veniamo a conoscenza
delle suppellettili sacre che qui di seguito indichiamo e che si conservavano, a cura del
procuratore e del clerico Giovan Domenico Lombardo, allora sacrestano:
«un crocifisso portato a mano di mistura che serve per la processione per li morti;
- Una custodia con li raggi et giro d’argento con li vitri et piede di rame indorato;
- Un’altra coppa et coverta di argento con piede di rame indorati per portare il Sant.mo
Sacramento all’infermi;
- Uno censero con navetta di argento di valore di denari trenta;
- Doi calici con le coppe et patene di argento;
- Uno stendardo di damasco carmosino;
- Una cappella di damasco bianco e pardiglio consistente in questi pezzi ut seguitur: una
pianeta, doi tonicelle, un piviale, avanti altare, panno di letterio, doi stole et doi manipoli;
- Un pallio di velluto carmosino rizzo figurato et ricamato di oro con le tre banderole stampate;
- Un piviale di damasco carmosino;
- Un pallio ordinario di velluto verde vecchio per la comunione degli infermi:
- Una pianeta di broccato rizzo;
- Doi pianete di velluto carmosino;
- Doi tonicelle e pianeta di velluto negro;
- Un’altra pianeta di velluto negro;
- Doi pianete di saietta di melana rossa;
- Doi tonicelle et una pianeta di velluto verde;
- Una pianeta di damasco giallo et turchino;
- Cinque cammisi con soi ammitti stoli cingoli et manipoli;
- Diecennovi tovaglie di altare;
- Uno avanzi di velluto carmosino et verde;
- Uno avanti altare di stammetta azzurra;
- Uno avanti altare di velluto rosso;
- Tre missali.
Per ciò che concerne le suppellettili delle altre Confraternite e chiese visitate nel 1586, cfr.: G.
RUSSO, Arte e arredi sacri nelle chiese di Polistena del sedicesimo secolo, «Il Nuovo
Provinciale», VI, n. 30 del 9-15 Settembre 1989, p. 9. Ulteriori spese per suppellettili, nel corso
del ’700, sono:
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
- nel 1732 acquisto di candelieri, frasche di fiori, parati di Portanova;
- nel 1736 un pallio di «raccamo». Cfr. rispettivamente:
A.S.N. Fondo Riario Sforza-Milano, Serie Milano, N. Provv. 215, f. 363; BIBLIOTECA
COMUNALE DI POLISTENA, Fondo Milano, Libro Magg. segnato di Lettera B, f. 18.
59 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 98. La descrizione dell’abito compare a partire dalla Visita
pastorale del 1630.
60 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Sacra Congr. Concilii, Relationes Mileten., 523 A e
B, Relatio a. 1612, ff. 636-637. La relazione, nella lingua latina, dedica alla Cappella del SS.
Sacramento ed alla Società del SS. Corpo di Cristo (ancora così viene denominata la nostra
Confraternita) alcune significative attenzioni, riferendo, tra l’altro, che a quest’ultima «...
ornatui satis provisum est et quotidie magis providetur. Missae hic fiunt quotidie septem ad
minus, et noctu atque interdiu ibi cernuntur accensa novem lampades, q. ornam.ta argentea
magni ponderis, ac valoris. Baldachina et Altaris pallia hic multa sunt ex serico aureis filis
intexto. Bona haec ex pontificio Pauli fel. rec. Papae 3 privilegio p. laicos ministrantur, et licet
eiusdem Privilegii et antiquae consuetudinis clypeo muniti ... Deputatis meis computa reddere
administrationis, nihil re in visitatione diligenter examinata, cessere, et computa a X annis citra
revisa sunt». La relazione accenna anche alla situazione demografica del paese ed alla chiesa
parrocchiale: «Polistina, tertia totius Diocesis circa Habitator. frequentiam, et loci nobilitatem
Terra, Incolar. habet quatuor millia, quor. tum Presbyteri tum clerici octuagintasex sunt. In
parochiali ecclesia adest organum, fons baptismalis ac sacristia supellectili sacra sufficienter
dotata. Cura exercetur Animarum p. Parochum unum cum quatuor coadiutoribus sacerdotibus a
me approbatis».
61 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 836 r.; ... A. P., vol. 5°, f. 98; inoltre: G. RUSSO, Istituzioni di
beneficenza e attività creditizie a Polistena dal Cinquecento all’Ottocento, in «Attività
creditizia e società calabrese in età contemporanea», Aatti (in corso di pubblicazione) del
convegno di Polistena, 27-28 dicembre 1990, organizzato dalla Deputazione di Storia Patria per
la Calabria e dalla Banca Popolare di Polistena.
62 A.S.D.M., B. Polistena-Sodalizi=Fasc. Capitoli della Confraternita SS. Sacramento
Polistena, 1676.
63 A.S.D.M. ..., Capitoli ..., art. 7.
64 A.S.D.M. ..., Capitoli ..., art. 8.
65 Per accenni alle «casse di deposito» delle istituzioni polistenesi, cfr. G. RUSSO, Istituzioni
...
66 La situazione demografica polistenese agli inizi del ’700, in calo di quasi 600 unità rispetto
al 1612, contemplava un numero di 3416 anime di cui 131 appartenenti al clero ed agli ordini
religiosi: cfr. A.S.N., Archivio Riario Sforza-Milano, Serie Milano, b. 9, inc. 51/84, a. 1726.
67 Non ci sembra molto chiaro, per la verità, il motivo vero per cui venne adita la Sacra
Congregazione dei Cardinali. Ufficialmente risultò quello secondo cui, nel 1686 e 1690, i
vescovi, contrariamente al volere dei confratelli, effettuarono la visita alla cappella ed alla
sacrestia. Perché tale opposizione la manifestarono solo in tale epoca se, precedentemente, la
cappella e sacrestia furono sempre visitate dall’Ordinario diocesano cui spettò, tra l’altro, il
controllo sui conti? La visita pastorale del 1586, infatti, ce ne da testimonianza: «et di più è
stato ordinato a detto procuratore par.le che nella fine della sua administrazione debbia dare li
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
conti a S.E. Ill.ma o a persona deputata da esso et per questo presente anno si li deputano li
Ministri u.s.: Donno Minico Rubari Vicario foraneo di San Georgio e Donno Giuseppe
Aragonese Rettore della detta Parrocchiale li quali tutti insieme o, la maggior parte di essi
possano vedere li predetti conti cossì del presente anno come da cinque anni adietro et
significare le partite secondo li pareri di ragione ...» (A.S.D.M. A. P. ..., vol. 4°, f. 838 v).
Anche dalla Relazione ad limina del 1612 si potrà evincere la stessa cosa.
La Visita pastorale del 1677, effettuata da D. Ludovico Grassi, Arcidiacono della Cattedrale di
Mileto e luogotenente generale, su mandato del vescovo, non presentò problemi di questo tipo.
Infatti: «visitavit dictam Cappellam SS.mi et eius Sacristiam et laudavit quia omnia fuerunt
reperta approbata ...» (A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 302).
Non resta, quindi, che ipotizzare un possibile astio tra la Confraternita ed il vescovo o per conti
che non tornarono o per altro motivo a noi poco noto che sfociò, addirittura, nell’adire la Sacra
Congregazione del Concilio. Questa emanò un decreto sul diritto di visita dei vescovi ordinari
della diocesi nella cappella del SS. Sacramento e nella sacrestia.
68 O. PARAVICINO, Synodus ..., pp. 141-142.
69 G. ZUMBO, Delle confraternite ..., pp. 14-16.
70 A.S.D.M., II-i-4, Libro dove sono notati tutti li debitori di questa Venerabile Cappella del
SS. Sacramento, Jus Patronato di questa Città di Polistina; come anco li stabili che detta
Cappella diede in affitto, dilucidata dalla Platea antica; e dette partite sono liquide, e pagano
ogn’anno conforme appare dal manuale di detta Cappella in quest’anno 1701. Sindico Antonio
Receputo e Procuratore.
71 A.S.N., Catasti onciari, Polistena, vol. 6288, ff. 491 v.-495 v.
72 Ci sembra utile indicare, anche se in maniera incompleta, un primo elenco dei procuratori
della Confraternita e della cappella, a partire dal 1586 e fino al 1783. Per i Priori, dal 1795 in
poi, rinviamo alla documentazione ad essi relativa, esistente presso l’archivio della
Confraternita. Circa le date che seguiranno, c’è da precisare che vengono indicate senza pretesa
di considerare l’intervallo tra l’una e l’altra, quale periodo di effettiva carica del Procuratore:
1586: Geronimo Zangari; 1597-1598: Giovan Francesco Palermo;
1602: Giovanni Aloisio Monteleone; 1643 : Fabritio Raso; 1676 : Domenico Pisano Marino;
1701 : Antonio Receputo, Sindico e Procuratore; 1708 : Mag.co D. Josepho Amendolia; 1716 :
D. Carlo Sergio; 1737 : Gregorio Calojiaro; 1739 : Mag.co Antonino Caloggiaro; 1741 :
Michelangelo Jeraci; 1742-1743 : Gregorio Assalti; 1744: Michelangelo Jeraci; 1746 :
Giuseppe Custurone; 1747 : Gregorio Assalti; 1749 : D. Bruno Jerace; 1750 : idem; 1752: D.
Domenico Fazzari; 1757 : Michelangelo LaScala; 1759 :Geronimo Jerace; 1760 : Francesco
Antonio Zangari, poi Domenico Fazzari; 1761 : Domenico Fazzari; e poi Giuseppe Carlino;
1764 : Dr. Pilogallo; 1765 : Cannatà; 1767 : Dr. Receputo; 1768 : Dr. Receputo e poi Dr. D.co
Fazzari; 1770 : Francesco Antonio Avati e poi Dr. D. Michelangelo Amendolia; 1771 :
Amendolia; 1772 : Dr. Fazzari; 1774 : Jerace; 1775 : Notar Vincenzo Ginneri; 1776 : D. Bruno
Fazzari e poi Michelangelo Amendolia; 1777 : Amendolia; 1778 : D. Scipione Jerace e poi D.
Carlo Sergio; 1779 : D. Carlo Sergio e poi Dr. Pilogallo; 1780 : Giovan Battista Avati; 1781 :
Dr. Lombardo e poi D. Scipione Jerace; 1782 : Jerace, poi D. Fabrizio M. Jerace; 1783 : D.
Francescantonio Pilogallo.
73 A.S.R.C., Inv. 27, F. 81, n. 223. Detto incartamento contiene copia del Regio Assenso. Cfr.
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
inoltre: A.S.D.M., A. P. ..., vol. 15°, a. 1794, ff. 621-630. Anche per questa Confraternita la
concessione del Regio Assenso fu subordinata all’accettazione del parziale mantenimento
(all’altra metà provvedeva la Confraternita della SS. Trinità) degli esposti della città per il
corso di anni sette (vedere la nota 29). Secondo le nuove Regole che si articolarono in XVI
punti e n. 7 clausole, i confratelli, a partire da quella data, poterono ricominciare a vestire il
sacco bianco con scarpe, fascia, cappello rosso e mozzetta rossa.
74 A.C.S.S.P., Libro delle sessioni ..., f. 1. Per ciò che, nello specifico, concerne la vita della
Confraternita, a partire dal 1847, si rinvia a detto libro.
75 La confraternita, nel 1930, vantava la presenza di circa 900 iscritti, mentre, nel 1943, di 15
novizi, 300 confratelli e 514 consorelle: cfr. R. LIBERTI, Le confraternite ..., p. 73.
76 In tale occasione, a cura della confraternita, si procede alla distribuzione del pane benedetto
(à curuda) ai confratelli, ma anche a tante altre famiglie, mentre, dopo la funzione religiosa, si
consuma la rituale cena organizzata per i confratelli che hanno interpretato il ruolo di
«Apostoli» durante la cerimonia religiosa. Molto sentita, fino a pochi anni addietro, la veglia
della notte che precede il Venerdì Santo. Nel corso di detta veglia, anziane donne davano voce
ai tradizionali ed antichi canti popolari della settimana santa, mentre, a turno, due confratelli, in
abito, effettuavano la cosidetta «guardia» del Sepolcro.
77 Musicista polistenese (1822-1890). Per la sua biografia, cfr.: C. PUJIA, Michele Valensise.
Discorso del Canonico Teologo C. Pujia Arciprete della Cattedrale di Oppido Mamertina,
Siena, 1891. In molti comuni della Calabria, ove si svolgono le rituali processioni della
Settimana Santa, molti complessi bandistici locali eseguono musiche (marce funebri) di autori
locali, scritte «ab antiquo» per tali occasioni. Varrebbe la pena di tentare una ricerca in tal
senso!
78 Vedere Appendice n. 1, Tabella delli Pesi, punto n. 1.
79 Nel periodo che precede la Pasqua, Polistena rivive le sue antiche tradizioni religiose che,
tramandate da tempo immemorabile, giungono a noi ricche di fascino, seguite da tutti, più che
ogni altra manifestazione. L’esuberanza che caratterizza le altre feste, intensamente rumorose e
spensierate, nelle processioni della Settimana Santa, invece, resta smorzata in un tono di
particolare mestizia. Le campane restano mute ed hanno voce, invece, le tradizionali «palle
scure», nonché «tocche» e «carici». Il Venerdì Santo, in particolare, è molto sentito tanto che in
detta giornata vi si svolgono numerose funzioni e processioni. Nella chiesa della SS. Trinità,
con inizio alle ore 13,00, sia attua l’Agonia di Nostro Signore Gesù Cristo. La locale
Filarmonica (coro ed orchestra«Theotokos») esegue le «Sette parole dell’Agonia di N.S.G.C.»,
di M. Valensise, alternate da una serie di prediche di un valente oratore e dallo sparo di
«surfalora» che hanno il compito di sostituire, in questa occasione, le campane. La funzione si
conclude con la deposizione del Cristo dalla Croce. Non ci dilunghiamo, qui, nella narrazione
di tutte le processioni che meriterebbero una apposita trattazione.
80 A.S.N., Fondo Riario-Sforza-Milano, Serie Milano, «Ristretto d’alcune scritture .. fatto nel
1690, f. 27, n. 46: «In Polistina la fiera che si fa nel mese di Novembre l’altra chiamata S.ta
Vennera che si fa nel mese di Febbraro e l’altra che si fa nel mese di Luglio nel giorno della
consacrazione della Chiesa di detta Terra».
81 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 856.
82 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 101.
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
83 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 7°, f. 441.
84 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 7°, f. 441. «Ad praesens habet ducatos triginta de superfluis
expensatum et confratres cum consensu Universitatijs, volunt conficere vexillum ex serico
cerulei coloris cum imagine in medio S.te Venerande et Dominus Visitator commendavit hoc
opus». Anche in questo caso, è utile sottolineare il ruolo dell’università cui, forse, spettava lo
jus patronato pure su questa chiesa, al pari di altre.
85 A.S.N., Fondo Riario Sforza-Milano, Serie Milano, n. provv. 215, Libro d’introito ed esito
... ff. 436; 456.
86 G. RUSSO, Polistena ..., p. 182.
87 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, ff. 855 r.-855 v.:«Nella quale visita comparse M.o Vinc.o
Pilagallo e disse la detta Chiesa essere confr. di laici e lui essere proc.re ...».
88 A.S.D.M., A. P., vol. 5°, f. 103.
89 F. RUSSO, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. V. Roma 1979, p. 332; R. LIBERTI, Le
confraternite ..., p. 94.
90 F. RUSSO, Regesto ..., vol. V, p. 429, n. 27171: «Pro confraternitate S. Maria de Carmine
in ecclesia S. Sebastiani, terrae Polistenae, Milet. dioc., indulgentia in festo eiusdem S. Mariae
de Carmine et Purificationis et Annuntiationis et Assunptionis et Nativitatis ipsius B.M.V.»; R.
LIBERTI, Le confraternite ... pp. 81-82; I. ASSISI, Storia religiosa ..., p. 65.
91 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 103.
92 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, ff. 852 r.-852 v.: «Continuando la detta Visita visitò la Chiesa di
S.to Chiriaco dentro Pol.na la quale fu ritrovata consacrata ma no l’altare p.essere novamente
fabricato ... Nella quale visita comparse m. Sat. Pelegrino et asserì la detta Chiesa essere
confr.a di laici et esso essere procuratore la quale ha venti carlini d’entrata l’anno di fondi
d’uno horto contiguo alla chiesa et ha le infr.tte mobili u.s.: uno calice con la coppa et patena
d’argento, tre pianete una di tela, una di rosso carmosino et una di tela moresca; doi cammisi,
doi avanti altare uno di tela, uno di damasco giallo, uno missale, quattordeci tovaglie in circa
doi crocifissi a mano et uno confalone le quali robbe si conservano per detto Procuratore».
93 A.S.D.M., A. P., vol. 5°, f. 1030; a. 1708: «Eccl.a S. Ciriaci est Universitatis ... regitur d.a
eccl.a p. Proc.re eligendum ab universitate et confirmandum ab Ill.mo D(omi)no ...».
Procuratore, in tale visita, figurò tale M.ro Giuseppe Scarcella.
94 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 852.
95 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 103.
96 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 6°, f. 802: «... Spectat ad Universitatem et regitur p. Proc.rem
eligendum et confirmandum u.s.».
97 Nessuna traccia di essa nel Regesto Vaticano del Russo. Per ciò che concerne la chiesa
omonima, vedere la nota 50.
98 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 853. Nel 1772, figurava Procuratore il magnifico D.
Francesc’Antonio Zangari: cfr. SEZIONE DI ARCHIVIO DI STATO DI PALMI, Obblighi
Notar Borgese, B. 34, n. 530, f. 68.
99 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 866.
100 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 853.
101 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 6°, f. 802. Anche la relazione della visita pastorale del 1716
sottolinea quanto sopra: «... habet statuam S. Rochi in armario servata et in die suae festivitatis
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
cum magna devotione defertur per vias et plateas civitatis». Cfr.: A.S.D.M., A. P. ..., vol. 7°, f.
433.
102 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 866: «... la Chiesa di Santo Nicola di detto luoco, confr.a di
laici rende carlini quindici annui».
103 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 4°, f. 866.
104 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 1045: «... reperta indigens omnibus necessariis ...».
105 G. ESPOSITO, Per la storia delle confraternite del Rosario in Calabria. Appunti e note,
«Rivista Storica Calabrese, N.S., I (1980), nn. 1-2, p. 156.
106 ARCHIVIO GENERALE ORDINE PREDICATORI (AGOP), Roma, Reg. IV, 39, f. 217
v. La verifica del documento fu da noi effettuata il 13-6-1985. Ringraziamo, per la illimitata
disponibilità, padre G. L. Esposito che, precedentemente, in una sua lettera del 7-2-1984, a tal
proposito, così ci assicurava: «non so se trattasi d’una distrazione dell’amanuense o di altro.
Anch’io correggerò la cosa, appena pubblicherò la continuazione di ben altri 160 sodalizi,
scavati fino ad oggi».
107 A.G.O.P., XI, 2020,13 Luglio 1579, Ind. X. Il documento, concessoci, magnanimamente
per la pubblicazione da p. G. L. Esposito è il n. 10 del nostro libro: cfr. G. RUSSO, Polistena
..., p. 188; P.G.M. PIÒ, Elenco dei conventi Domenicani nei primi anni del 1600, in «Della
Progenie di S. Domenico In Italia, Parte I, pp. 67-68: «il luogo di S. Maria del Rosario di
Polistina, o vero la Trinità di Polistina».
108 F. RUSSO, Regesto ..., vol. V, p. 99, n. 23560: «Confirmatur erectio conventus pro
Fratribus Ord. Praed. terrae Polistinae, Milet. dioc., sub titulo B. Marie de Rosario ...»; inoltre:
ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, S. C. Stat. Regul. Relationes 25, Relatione del
Monastero dell’Ord.ne di Pred.ri della Terra di Polistina: «... fu fondato alli 2 del mese di Ott.
l’anno 1583 con il consenso di tutto il popolo et aut.a seu breve della Santità di Gregorio XIII
come appare p. carta signata dal Notaro q.le si conserva nel deposito di detto Convento ...».
Inoltre: S. L. FORTE, Le province domenicane in Italia nel 1650, «Archivum Fratrum
Praedicatorum», XXXIX (1969), pp. 562-563: «Questo convento, situato fuori dell’abitato, fu
fondato con Breve di Gregorio XIII del 2 Ottobre 1583, come appariva dall’atto notarile
conservato nel convento. I frati ricevettero gratis, senza alcun obbligo, il terreno dove si stava
costruendo il convento ...». Dovrebbero bastare questi documenti autorevoli per far tacere
coloro che vorrebbero il convento fondato nel 1592. Ma se non bastasse, rinviamo a P. A.
BARILLARO, Conventi Domenicani di Calabria, Soriano Calabro, 1989, p. 157: un fra’
Domenico di Polistena, maestro del convento di Policastro (da intendersi Belcastro) veniva
trasferito, nel 1589, al luogo di Polistena: ulteriore prova dell’esistenza del convento, nel 1589,
se ivi veniva trasferito Fra’ Domenico di Polistena.
109 F. RUSSO, Regesto ..., vol. V, p. 98, n. 23549: «Priori et Fratribus domus SS. Trinitatis, O.
P. loci Polistinae, Mileten. dioc., indulgentur quod possint facere aedificare aliam domum,
eisdem ab episcopo Mileten. et ab incolis dicti loci concessam, nonobstante vicinitate domorum
O.H.S.A. (Agostiniani), Cappuc. et Min. Obs. (Osservanti), ibi existentium ...». I tre conventi,
ma specialmente gli Osservanti, richiamandosi al privilegio concesso dal Papa Pio IV, si
opposero per ragioni di vicinanza coi loro conventi. Il breve di Gregorio XIII del 2 Ott. 1583
mise fine alla lite.
110 Vistosi ruderi della originaria parte inferiore del convento sono, tuttora, visibili.
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
111 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 99. Il Visitatore, nel fare il resoconto dell’altare del Sangue
di Cristo, tra l’altro, così aggiunge: «adist in d.o Altari Mons Pietatis seu congregatio ... Adsunt
Procuratores et Magistri cum capsa cum tribus clavibus munita ...».
112 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 6, f. 797: «Visitavit Altarem Sacri Montis Pietatis in quo adest
erecta sodalitas confratrum et consorum anno quolibet sacerdotes eligunt Proc. pariter. Habet
propria paramenta in proprio stipo sita et abbundat de omnibus necessariis. Redditus montis
ascendit sup.a summam ducatorum centum in arca tribus clavibus servata et ut dixit praesens R.
Procurator d. Joseph Jemma in d.a arca clausa ut sup.a servantur sex centum ducatos, partim ex
capitalibus et partim ex reddibus annui, tres claves d.e arcae servantur una p. Rev. Proc.em, alia
p. R. Consultorum et alia p. R. Arcarius (vulgo Cassiero) ...».
113 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 7°, f. 428: «adest pariter sodalitas confratrum et consorum et
quolibet anno solvunt carolenos quinque et granos duos, vel carolenos duos, et granos sex ...».
114 G. RUSSO, Polistena ..., p. 175, doc. n. 1: contratto di committenza dell’altare di marmo
del Sacro Monte di Pietà eretto nell’antica chiesa madre nel 1729 e distrutto dal terremoto del
1783.
115 G. RUSSO, Istituzioni ..., (dattiloscritto, p. 12).
116 S.A.S.P., Notaio G. F. Buccafurni, a. 1638, b. 52, f. 647, ff. 116 v. - 118.
117 A.S.D.M., A. P. ..., vol. 5°, f. 1041: «adest confraternitas, habet paramenta particularia sua
propria ... Planeta una rubei coloris ... quae omnia confecta ... expensis confratrum pro eorum
devotione ...»
118 A.S.D.M., A. P., vol. 6°, a. 1712, f. 803: «Altare animarum Purgatorii ubi adest sodalitas
erecta confratrum et consorum celebrantur quolibet feria secunda pro sodalibus et consoribus
defunctis pariter in quolibet feria secunda, recitantur officium defunctorum, est egregie
ornatum Altare et etiam Cappella, nihil mandavit ...»; inoltre: A.S.D.M., A. P., vol. 7°, a. 1716,
f. 435: «Visitavit Altarem Animarum Purgatorii ubi est annexa sodalitas confratrum et
consorum, solvendo unusquisque illorum in quolibet anno duodecim granos et sodalitas in
morte cuius libet illorum habet onus celebrandi quindecim missas et solvere in funerias ...».
119 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Sacra Congr. Conc., Relationes Mileten, f. 637.
120 Vedere la nota 66.
121 A.S.N., Fondo Riario Sforza-Milano, Serie Milano, b. 27, f. 130, inc. 1.
122 BIBLIOTECA COMUNALE POLISTENA, Fondo Milano, «Giornale mensile di spese e
provisionati 1729-1751», f. 103, marzo 1730: «Alla congregazione di S. Giuseppe p. carità ...
d. 2»; f. 173, 1 Aprile 1732: «Pagati alla Congregazione di S. Giuseppe p. tutta l’Ecc.ma Casa
... 3:12»; f. 198, 7 Aprile 1733: «Alla congrega di S. Giuseppe p. Sua Altezza e p. l’Altezza dei
SS.ri Principe e Principessa ... 3:12»; f. 440, Aprile 1743: «Pagati al Monte seu confraternita di
S. Giuseppe p. la celsissima Padronanza ... 0 : 72»; cfr., inoltre: S.A.S.P., Notaio Vincenzo
Ginneri, b. 271, vol. 3038, a. 1757, ff. 54 r.- 55 v.: «Sig. D. Paolo Lidonnici ... attual Prefetto
della V.ble Congregaz.ne de Nobili eretta dentro la V.ble Chiesa, di questa Città, di S.
Giuseppe, eretta sotto il titolo di Maria SS.ma delle Grazie»; S.A.S.P., Notaio V. Ginneri, b.
272, vol. 3044, 17 giugno 1764: «Dr. Fisico Sig. Gregorio Caloiro di q.ta sud.a Città (di
Polistena) attuale Prefetto della V.ble Congregaz.ne de’ Gentiluomini di q.ta Città, eretta nella
V.ble Chiesa di S. Giuseppe, sotto il titolo di S. Maria della Natività»; A.S.N., Catasti, 1743,
vol. 6288, f. 464: «La Congr.e di Polistina sotto il titolo della Natività di Maria SS.ma sempre
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
Vergine e p.esso io Felice Scarcella Secretario di d.a Congregazione in esecuzione delli Reali
Ordini e concordati con la S.Sede Apostolica rivelo come la d.a Congr.ne esigge dal D. Felice
Rovere di d.a Città di Polistina di Censi Bollari annui docati cinque e grana sessanta p. capitale
di docati settanta cinque, sincome appare p. Istrumento rogato p. mano di Notaro Nunziato
Acquario ...».
123 Idem.
124 A.S.D.M., B. Polistena, Fasc. Capitoli della Congregazione di S. Maria dell’Idrea, 1745, n.
8. Ringraziamo di cuore Mons. F. V. Luzzi per aver concesso di pubblicare l’incartamento.
125 Vedere Appendice n. 2.
126 A.S.D.M., B. Polistena, Parrocchia, B. 2, fasc. «Chiesa del Rosario».
127 ARCHIVIO CONFRATERNITA DEL SS. ROSARIO DI POLISTENA, Copia del
processo verbale della Commissione di beneficenza del Comune di Polistena, a. 1831.
128 ARCHIVIO DELLA CONFRATERNITA DEL SS. ROSARIO-POLISTENA, «Regole da
osservarsi dà Fratelli della Congregazione del Santissimo Rosario della Città di Polistena».
129 G. RUSSO, Polistena..., p. 185, doc. n.8.
130 Non ci dilunghiamo nell’esporre, in questa sede, quanto inerente a lavori e varie della
Confraternita a prò della chiesa, in quanto oggetto di uno specifico nostro lavoro che ci
auguriamo possa vedere la luce quanto prima, ed al quale rinviamo.
131 Il 12 aprile 1898, l’allora rettore della chiesa del Rosario, sac. Domenico Sabatino,
formulava istanza al vescovo di Mileto perché da questi fosse apposta sul decreto di
approvazione per l’associazione della Confraternita del Rosario al Terz’Ordine Domenicano, la
sua firma, dopo quella del Maestro Generale dell’Ordine dei Predicatori. All’istanza allegava
l’elenco dei 57 componenti (fratelli e sorelle) il Terz’Ordine di S. Domenico da cui si evince,
chiaramente, che il 4 Agosto 1890 accedettero al Noviziato le sorelle Alfonsina La Camera,
Filomena Frezza e Pasqualina Zavaglia; il 27 febbraio 1897 Caterin Pisano e Maria Itria Egipsi;
il 10 aprile 1898 Rosaria Jannone, Teresa Papalia, Rosa Varamo, Francesca Violi, Nicolina
Fusco, Angela Nasso, M. Antonia Mileto, M. Giuseppa Contartese, Teresa Scarcella, Concetta
Tripodi, Teresa La Ruffa e Marina Scarcella; il 6 sett. 1898, i confratelli Domenico Rodino
Toscano, Angelo Tripodi, Raffaele Caracciolo, Papalia Francesco, Angelo Lascala, Franconiere
Francesco, Silipo Giovanni, Silipo Giuseppe, Longo Giuseppe, Lazzaro Domenico, Laruffa
Agostino, Vincenzo Ferraro, Trimboli Domenico, Pace Vincenzo, Fusco Giuseppe, Rovere
Domenicantonio, La Ruffa Agostino, Lorenti Francesco, Rao Francesco, De Maria
Michelangelo, Rao Agostino, Mazza Domenico, Salvatore Vincenzo, Calcopietro Giuseppe,
Longo Domenico, Cocciolo Antonio, Ferro Michele, Papalia Antonino, Megna Michele,
Lazzaro Antonio, Vicisano Michelangelo, Riolo Cesare, Lazzaro Luigi, Safioti Domenico,
Megna Raffaele, Nania Domenico, Raffaele Rovere, Megna Raffaele, Tripodi Costantino e
Mangiaruga Giovanni: cfr. A.S.D.M., B. Polistena, Sodalizi, 1898, Per l’associazione della
Confraternita del Rosario al Terz’Ordine Domenicano.
132 A.S.D.M., B. Polistena, Sodalizi, Inc. Chiesa SS. Rosario, Congregazione Figlie di Maria,
1926.
133 Elenco Della Congregazione Delle Figlie di Maria della chiesa del SS. Rosario di
Polistena. Le 100 nubili consorelle erano le seguenti: Fiorentino Annunziata, Fusco Margherita,
Raguseo Annina, Tropea Rosa, Fusco Marina, Laruffa Carmela, Fusco Maria, Fusco Concetta,
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
Lazzaro Rosina, Formica Rosina, Fusco Alfonsina, Varamo Caterina, Murdica Pasqualina,
Grande Palma, Grande Pasqualina, Megna Rosa, Formica Rosina, Formica Angela, Tripodi
Concetta, Nasso Assunta, Garaffa Rosa, Varamo Francesca, Lorenti Rachela di Ros., Lorenti
Rachela di Fran., Borgese Rosa, Lucenti Marta, Tripodi Maria Itria, Tripodi Concetta, Pace
Carmela, Jerace Catena, Pesa Carmela, Mileto Maria, Zerbi Enrichetta, Trimboli Marina, Pesa
Pasqualina, Muscherà Esterina, Tropepe Teresa, Cordì Maria Itria, Cosoleto Angela, Scarcella
Terea, Scarcella Marina, Grande Rosina, Grande Maria, Careri Carmela, Zerbi Lucia, Lemma
Catena, Ferraro Pasqualina, Borgese Caterina, Calderazzo Marina, Longo Natalina, Loprete
Itria, Calcopietro Maria, Rao Assunta, Lemma Pasqualina, Jemma Assunta, Lemma Angela,
Oliva Caterina, Lemma Angela di Ros., Longo Caterina, Pagano Maria, Mileto Marina, Megna
Assunta, Fusco Concetta, Borgese Itria, Morfea Francesca, Mileto Angela, Lemma Concetta,
Cammarere Maria, Franco Catena, Nasso Maria, Fiori Giovanna, Ferraro Francesca, Scarcella
Marina di Ros., Zerbi Assunta, Zerbi Clementina, Tripodi Antonietta, Calcopietro Marina,
Brogna Marina, Cammarere Marianna, Fonti Marina, Scarcella Peppina, Garaffa Angela,
Sarlete Angela, Scarcella Maria, Franco Catena Erriga, Brogna Marina fu Gius., Raso
Concettina, Zuccalà Mariantonia, Zuccalà Francesca, Ruiis Marina, Ruis Francesca,
Calcopietro Rosa, Filomeno Concetta, Filomeno Rosa, Franco Catena, Anastasio Assunta,
Muscherà Rosina e Varamo Concetta. «Fa seguito alla congregazione altre 40 fanciulle di 8-10
anni, bene istruiti (sic) nel catechismo mercè l’opera della Direttrice (Anna Saffioti); fecero la
1 comunione ... tali fanciulle indossano il nastrino rosso e il nastrino verde, con la relativa
medaglia quale Beniamine e aspiranti alla Pia Unione».
134 A.S.D.M., b. Polistena, Sodalizi, a. 1895, Associazione M. SS. Immacolata.
135 Soci fondatori della neo congregazione furono:
confratelli: Lombardo Pasquale, Michelangelo Morano, Giuseppantono Galatà, Pasquale
Falatà, Francesco Scriva, Francesco Filipo, Vincenzo Lombardo, Raffaele Napoli, Domenico
Guido, Pasquale Guerrisi, Pasquale Commis, Michelangelo Mileto, Michelangelo Rao,
Domenico Belcastro, Michelangelo Belcastro, Domenico Cannatà, Carmine Cannatà, Carmelo
Cannatà, Carmine Cannatà fu Giu., Angelo Riolo, Carmine Napoli, Scali Vincenzo, Giovanni
Fidale, Sebastiano Malara, Michelangelo Guido, Francesco Belcastro, Domenico Corica fu
Fran., Domenico Corica fu Gius., Francesco Corica, Giuseppe Corica, Domenico Ciurleo,
Carlo Deleo, Marino Lagamba, Salvatore Lazzaro, Giacomo Marra, Rosario Mileto,
Michelangelo Cannatà Giuseppe Rao, Francesco Guarrisi, Stellario Bernava, Domenico
Loddeni, Alfonso Rao, Carmine Albanese, Giuseppe Albanese, Domenico Albanese, Morano
Francesco, Carmine Morano, Giovanni Cullari, Domenico Cullari, Vincenzo Politanò; Politanò
Giuseppe, Michelangelo Politanò, Boeti Michelangelo, Rocco Boeti, Francesco Boeti, Pasquale
Calcopietro, Calcopietro Michelangelo, Antonino Calcopietro, Francesco Calcopietro, Pasquale
Cacopietro, Pasquale Filippone, Francesco Napoli, Antonino Napoli, Giuseppe Calcopietro,
Michelangelo Panaia, Vincenzo Jannello, Francesco Jannello, Francesco Mangiaruga,
Francesco Giancotta, Michelangelo Dagostino, Michelangelo Pochì, Domenico Romano,
Michelangelo Romano, Michelangelo Mammola, Domenico Mammola, Vincenzo Mammola,
Rocco Mammola, Vincenzo Papasidero, Cannatà Francesco, Vincenzo Mercuri, Angelo
Laruffa, Carmine Schiavello, Domenico Filipponi, Rocco Filipponi, Domenico Simari,
Francesco Papasidero, Giuseppe Papasidero, Francesco Fidali, Pasquale Fidali, Giovanni
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
Fusco.
Consorelle: Teresa Mileto, Maria Itria Fusco, Mariantonia Fusco, Teresa Fusco, Marina
Politanò, Rosaria Guarrisi, Maria Itria Simonetta, Teresa Simonetta, Filico Rosaria, Cannatà
Teresa, Maria Loddeni, Maria Concetta Fusco, Maria Eugenia Marafioti, Rosaria Filardo,
Marina Baglio, Maria Napoli, Carmela Fidale, Caterina Pochì, Francesca Pochì, Maria Carmela
Franconi, Teresa Franconi, Maria Seminara, Maria Concetta Callà, Rosaria Callà, Teresa
Rovari, Teresa Marafioti, Eugenia Filardo, Teresa Belcastro, Maria Concetta Cannatà, Venezia
Joppolo, Maria Baglio, Rosaria Deleo, Gabbrela Borgesi, MariaAngela Surbara, Teresa
Romano, Marina Spataro, Pasqualina Pepè, Rosaria Calcopietro di Ant., Rosaria Calcopietro fu
Ant., Rosaria Franconi, Maria Concetta Sigillò, Constanza Sigillò, Rosaria Napoli, Condomitti
Maria, Morabito Teresa, Francesca Simonetta, Borgesi Arcangela, Maria Itria Fusco, Rosaria
Ceravolo, Fortunata Misiti, Marina Dilangeli, Catena Valarioti, Caterina Giancotta, Rosa Maria
Giancotta, Maria Vincenza Commis, Maria Itria Commis, Caterina Commis, Filippa Bernava,
Teresa Bernava, Rosaria Belcastro, Maria Concetta Racobaldo, Teresa Racobaldo, Rosaria
Filardo, Maria Teresa Di Agustino, Maria Annunziata Morano, Caterina Borzesi, Maria
Pronestì, Maria Concetta Belcastro, Teresa Racobaldo, Girolama Albanesi, Teresa Albanesi,
Maria Giuseppa Marafioti, Caterina Macrì, Maria Concetta Franconi, Rosaria Corica,
Michelina Parrello, Fortunata Parrello, Rosaria Boeti, Angela Larosa, Arcangela Paonna, Maria
Giuseppa Marafioti, Maria Eugenia Pulicriti, Maria Papasidero, Caterina Fazzari, Maria
Fazzari, Costanza Varamo, Maria Itria Mammola, Caterina Fidali, Marina Mammola,
Pasqualina Larosa, Maria Larosa, Mariantonia Franconi, Maria Concetta Belcastro, Francesca
Culleri, Rosaria Cullere, Maria Itria Racobaldo, Maria Itria Zuccalà, Francesca Zuccalà,
Francesca Guarrisi.
Sacerdoti: D. Pasquali Jaconis; D. Michelangelo Cannatà, Canonico; D. Vincenzo Cannatà,
Canonico; D. Giuseppe Maria Cannatà, Canonico; D. Francesco Tigani.
136 PIA ASSOCIAZIONE DI MARIA SS. IMMACOLATA IN POLISTENA, Statuto
dell’Associazione Reggio Calabria 1897.
137 Anche qui si risentono gli effetti dell’emigrazione. È significativo quanto ci ha riferito
l’amico Domenico Politanò: fino a pochi anni fa, alcuni genitori di emigrati pagavano la quota
associativa per i propri figli. Con la morte di tali anziani genitori, gli emigrati smisero di
rinnovare il pagamento ed il numero degli iscritti calò notevolmente. Con l’approssimarsi del
1995 ricorrerà il centenario della fondazione della confraternita il cui abito uniforme è il
seguente: un camice di color bianco, una mozzetta di color celeste, un lungo scapolare anche di
color celeste cosparso di stelle, un cappuccio bianco ed una cinta ordinariamente rossa e nera
(quest’ultima si usava anticamente, negli accompagnamenti funebri). Sarebbe utile una
adeguata iniziativa che, oltre al valore celebrativo, potrebbe riaprire e stimolare nuove strategie
perché questa (come le altre antichissime) istituzioni non vadano a cessare definitivamente.
Polistena perderebbe, così, una antica tradizione fatta di religione, di fede, di mutualità, di
solidarietà, ma anche di colore, di folklore.
138 Alle numerose confraternite che abbiamo potuto segnalare per un paese che, sebbene
piccolo, in proporzione, è stato uno tra i primi della Calabria a vantare confraternite piuttosto
antiche, ci corre l’obbligo di citare una ulteriore Confraternita di cui, nel testo, non abbiamo
voluto occuparci: la Congregazione del Clero e della chiesa. Di essa ci dà memoria l’amico
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LE CONFRATERNITE LAICALI DI POLISTENA TRA XVI E XX SECOLO
Enzo Misefari che, nell’indicare, quale fonte, il privilegio 349, fol. 7 t della Regia Camera di
Santa Chiara (privilegi che vanno dal 1735 al 1808), vuole che copia dell’Inventario napoletano
sia stato effettuato, agli inizi di questo secolo, dallo allora direttore dell’ARCHIVIO DI
STATO DI REGGIO CALABRIA, Blasco: cfr. E. MISEFARI, Storia sociale della Calabria ...,
Milano 1973, pp. 343, 359. Seguono l’indicazione bibliografica del Misefari: A. MARZOTTI,
Chiesa e società in Calabria nel dibattito ...; (già citato alla nota 9). I. ASSISI, Storia religiosa
...
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LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL ...IGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL PERIODO BORBONICO)
LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL COMUNE
DI SAN FERDINANDO CALABRO (ORIGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL
PERIODO BORBONICO)
Bruno Polimeni
In data 31 ottobre 1856, il massaro Francesco Barbalace, Primo Eletto del Sotto
Comune di San Ferdinando di Rosarno, inoltrava istanza all’Intendente della provincia
di Calabria Ultra Prima «per secondare le sante brame di questa devota popolazione,
che a maggior gloria di Dio, e della Vergine SS.ma desidera installare una Congrega
laicale» 1, e allegava due copie delle Regole, chiedendo di far «provocare il Regio
Assenso» 2.
Il progetto veniva, poi, inviato dall’Intendente - nella qualità di Presidente degli Ospizi
- a mons. Filippo Mincione, vescovo della diocesi di Mileto, il quale, a sua volta, lo
restituiva, con nota del 25 febbraio 1857, col prescritto parere trovandolo «uniforme al
Regolamento» 3.
Lo statuto, che si conserva in originale presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria,
mentre la copia di pertinenza della confraternita è andata perduta nel corso degli anni,
risulta firmato dai fratelli: Nicola Sollazzo, parroco; Pasquale Barbalace di Francesco,
Antonino Martino, sacerdote; Francesco Antonio Barbiere, Giuseppe Puntoriero,
Ferdinando Tripodi, Giuseppe Pugliese, Francesco Naso, Domenico Pantano, Nicola
Tassone, Domenico Ingegniere, Pietro Barbalace, Raffaele Contartese, Giuseppe
Vizzone, Francesco Vizzone, Agostino Marice e da 61 fratelli che appongono il segno
di croce.
I primi aderenti alla confraternita - secondo le nostre ricerche - appartengono, per la
maggior parte, al ceto sociale dei massari di campi e di bovi, due e tre artigiani e
qualche vangoto: uomini nati o naturalizzati nel villaggio di San Ferdinando che, da
una piccola comunità di 150 anime costituitasi su una plaga malarica del territorio di
Rosarno, dopo i primi e importanti lavori di bonifica effettuati nel 1822 dal generale,
marchese Vito Nunziante, contava in quell’anno quasi duemila abitanti 4. Era, questa,
una comunità in continua crescita, la quale era arrivata in quel sito, perché spinta dalla
fame e dalla miseria, cioè in una borgata della Piana di Gioia «ove - come scrisse uno
studioso dell’epoca - il pane del povero è più abbondante e i lavori più proficui» 5,
dopo essersi trasferita da alcuni Comuni del catanzarese, soprattutto dai Casali di
Tropea, dalle borgate rurali del Monte Poro e da sperduti paesi del cosentino, come
Dipignano, Mangone, Malito, Grimaldi e Orsomarso. I primi componenti
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LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL ...IGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL PERIODO BORBONICO)
appartenevano al ceto medio dei massari, i rimanenti erano vanghieri e sterratori, i
quali avevano, con il loro duro lavoro, deviato il corso del fiume Mesima e
prosciugato le paludi rosarnesi formatesi a seguito del movimento tellurico del 1783.
A questa popolazione si aggiungevano i coatti, i cosiddetti servi di pena siciliani e
campani che, all’epoca della bonifica, erano stati affidati dal governo borbonico al
Nunziante affinché provvedessero, tra l’altro, alla costruzione delle prime casette del
nuovo villaggio, che in onore al re Borbone fu chiamato San Ferdinando.
Tutta questa gente formava, perciò, una complessa massa eterogenea con differenti
usi, costumi e tradizioni; un po’ rozza nei suoi comportamenti, ma che fu, col passare
degli anni, amalgamata con arte e timore reverenziale dalla famiglia napoletana dei
Nunziante, e influenzata anche dai preziosi ed «ascetici consigli» 6 dei primi parroci
che si succedettero nel villaggio: questi ultimi scelti e proposti al vescovo della diocesi
dagli stessi marchesi Nunziante in forza del loro jus patronatus conferito dal papa
Gregorio XVI con bolla dell’11 giugno 1833 7.
Non a caso, quindi, il primo firmatario del progetto delle regole della confraternita è
D. Nicola Sollazzo, un sacerdote venuto dalla natia Galatro e nominato secondo
parroco di San Ferdinando nel 1854 8.
Questo prete, che un poeta locale, Nicola Porretti, definisce «pio pastor di quell’ovile»
9, in una sua ad futuram rei memoriam, scritta il 2 gennaio 1855, ci offre, con un
pizzico di orgoglio, un sintetico ed eloquente quadro della realtà del paese: «Per la
gloria accidentale dell’Altissimo vogliamo qui mettere in prospetto dei futuri, che
sotto la cura spirituale del Reverendo Arciprete novello sig. Sollazzo la Religione e la
civilizzazione in questo villaggio mostrano i loro progressi. Già l’ovile di Cristo è più
numeroso. La Chiesa è più frequentata, è migliorata la devozione. Le feste sono tanti
giubilei per la frequenza dei sacramenti, anche di coloro che rozzi antenati non
adempivano nemmeno al Santo Precetto Pasquale, non si sentono più i furti, le
bestemmie, le disonestà, gli scandali: tutto spira Religione e moderatezza nel vestire
prima scornio e scandaloso, e la voce del Pastore si ha per quella di Dio in ogni cuore.
Voglia l’Altissimo mandare a compimento qui tanti disegni, che volga in mente
l’ottimo fra i Pastori. D. Nicola Sollazzo» 10.
Altra firma di rilievo è quella del sacerdote Antonino Martino, il focoso poeta liberale,
pure da Galatro - famoso per le sue satire in vernacolo come il Pater noster dei liberali
calabresi -, il quale si trovava, in quegli anni, a San Ferdinando, perché confinato dal
regime borbonico, dove esercitava il ministero di economo curato, tenendo nel
contempo «di giorno una scuola (...) e ciò senza ricevere compenso alcuno e per solo
scopo di civilizzare questo paese, e una scuola serotina per villani» 11. Si dice che
l’abate Martino sia stato incaricato, in quello stesso periodo, di insegnare pure il latino
ai figli dei marchesi, ma a causa di una sua poesia satirica intitolata A gunnella nella
quale aveva messo alla berlina un rampollo degli eredi Nunziante che si lasciava
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LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL ...IGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL PERIODO BORBONICO)
dominare dalla moglie autoritaria, sia stato cacciato due anni dopo dal paese 12.
Altra firma interessante è quella di don Andrea Orlando, brigante assieme al
sanguinario Francesco Muscato detto il Bizzarro di Vazzano durante il Decennio
francese, graziato, poi, da Gioacchino Murat, e confinato dopo la restaurazione
borbonica, nel villaggio di San Ferdinando perché sospettato di appartenere alla
Carboneria 13. Dagli atti del notaio rosarnese, Domenico Antonio Saladino, e da altri
documenti d’archivio, sappiamo che l’Orlando passò il resto della sua vita nella
frazione di Rosarno, rispettato e annoverato tra i buoni e i pochi cittadini elettori del
Comune 14.
Lo scopo, dunque, della confraternita era quello di rappresentare tutti gli strati sociali
della popolazione, di legare quegli individui di diversa estrazione al vincolo
dell’amicizia e della concordia, di riunirli sotto la stessa bandiera del cattolicesimo.
Nel timor di Dio essi aderivano anche per la promessa di ricevere, in cambio, un aiuto
morale e materiale nei momenti di particolare bisogno e per il soddisfacimento del
desiderio di assicurarsi come unico conforto, al momento della morte, una decente
sepoltura con i relativi suffragi. Quest’ultimo motivo, forse, era il più prevalente nel
Sud «non solo per il significato stesso del suffragio», ma anche per il «conforto» che
la povera gente provava al pensiero di essere «pensata da qualcuno dopo la morte» 15.
Spinti da questo desiderio di affratellamento, i buoni naturali del villaggio di San
Ferdinando fecero di tutto per ottenere la prescritta autorizzazione regia. E, infatti,
dopo il parere favorevole della Consulta di Stato, il re Ferdinando II emise, con
decreto n° 4657, in data 30 dicembre 1857, il suo sovrano beneplacito che così recita:
Ferdinando II. Per la grazia di Dio, Re del Regno delle Due Sicilie, di Gerusalemme
ecc. ecc. Veduto l’avviso della Consulta dei Reali Domini al di quà del Faro; sulla
proposizione del Direttore del Nostro Ministero e Real Segretaria di Stato dell’Interno;
abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Accordiamo il nostro regio Assenso sulla fondazione e sulle regole della nuova
Congrega sotto il titolo di Maria Santissima del Carmine e dell’Immacolata che si
vorrebbe installare nel Comune di S. Ferdinando annesso a Rosarno nella Calabria
Ultra Prima, giusto il progetto annesso al presente Decreto.
Art. 2. Il Direttore del Nostro Ministero e Real Segretaria di Stato dell’Interno è
incaricato della esecuzione del presente Decreto.
Firmato Ferdinando. Il Ministro Segretario di Stato Presidente del Consiglio dei
Ministri Ferdinando Troya. Il Direttore del Ministero e Real Segreteria di Stato
dell’Interno Bianchini.
Lo statuto si compone di 49 articoli. Ne riportiamo alcuni per evidenziare gli scopi
della confraternita, i doveri degli aderenti e i benefici di cui essi godevano.
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LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL ...IGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL PERIODO BORBONICO)
Art. 1. La Confraternita Laicale del Sotto Comune di S. Ferdinando di Calabria Ultra
Prima sotto gli auspici della Gran Madre di Dio Maria SS.ma nel doppio titolo del
Carmine cioè, e dell’Immacolata, ha per suo scopo esercitarsi nell’esempio
vicendevole, negli atti di religione, ed esercizi di pietà, per meglio adempire ai doveri
di Cristiano. Che perciò i fratelli s’impegneranno a fornirsi del Santo timor di Dio, ed
amarlo di tutto cuore, sopra qualunque altro soggetto creato, ed adempire esattamente
ai suoi Comandamenti divini, ed ai Precedetti della Santa Chiesa Cattolica Romana.
I fratelli avevano il dovere d’intervenire in tutte le pubbliche processioni vestiti del
proprio sacco, dando sempre la precedenza al clero regolare e secolare. Qualora
intervenivano due o più confraternite, la precedenza spettava a quella che aveva
ottenuto anteriormente il regio assenso.
Art. 4. Ciascun fratello fra lo spazio di due mesi dal giorno della sua ricezione si
provvederà del sacco, ossia veste della Confraternita, modellata sulla massima
semplicità. La medesima sarà un camice di tela bianca, col cappuccio consimile, ove
se ne vorrà fare uso: una mozzetta di color rosso, qual’analogo al titolo della
Immacolata, ed un cappello bianco con laccio di color della mozzetta senz’altro
ornamento. Alla sinistra della mozzetta, ed ove non se ne faccia uso, alla sinistra del
cappuccio vi sarà affibbiata una figura, che esprime la Santa Tutelare ed i suoi
Emblemi.
Il Superiore e gli Assistenti e gli altri Ufficiali porteranno sulla mozzetta, o veste
pendente dal collo, col nastro di color bianco, una medaglia colla medesima Effige,
che esprime la figura. Il solo Superiore, nelle pubbliche funzioni, farà uso di un
bastone nero.
Merita di essere posto in rilievo l’art. 18 secondo il quale era dovere della
confraternita provvedere ad un sussidio giornaliero per il fratello infermo quando
questi veniva colto dalla febbre, ovviamente in base ai mezzi finanziari a disposizione
della cassa.
Riteniamo che la «febbre» a cui si fà menzione era da intendersi la febbre malarica a
causa della quale quasi tutti gli abitanti soffrirono e molti morirono precocemente.
Malgrado i continui lavori di bonifica che si effettuarono per quasi un secolo, questa
terribile malattia imperverserà per molto tempo, fino ai primi anni del Novecento, ed
avrà fine soltanto con le moderne opere idrauliche eseguite dal Consorzio di Bonifica
nel 1932 16.
Lo stesso articolo recitava, inoltre, che nel «caso che qualche fratello infermo
soccomberà alla morte, se mai non è stato interamente soddisfatto il sussidio
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LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL ...IGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL PERIODO BORBONICO)
giornaliero, il suo compimento sarà pagato a favore della famiglia».
L’art. 36, oltre a richiamare gli aderenti all’osservanza dell’amore verso Dio e il
prossimo, consigliava di dedicarsi anche ad opere caritatevoli verso i bisognosi, di
assistere gli infermi negli ospedali, di portare conforto nelle carceri ai detenuti e
soccorrerli nella loro disgrazia, di prendersi cura dei ragazzi poveri divenuti orfani
perché «imparino un’arte, o un mestiere, onde potersi vivere onestamente e non darsi,
fatti adulti, alla ribalderia». Lo stesso articolo dello statuto raccomandava, pure, di
vestire i poveri e di allontanare, nei giorni di festa, i giovani dalle bettole e da altri
luoghi di scandalo, istruendoli, con buoni e piacevoli modi nei doveri cristiani.
Detti principi di vicendevole aiuto - come è noto - saranno ripresi ed attuati in favore
delle classi sociali meno abbienti dalle Società di Mutuo Soccorso, che, dopo l’Unità
d’Italia, sorsero e si diffusero ovunque in Calabria e anche nella Piana di Gioia Tauro.
Possiamo, perciò, affermare che le confraternite laicali per l’importante ruolo svolto anche se il loro principale fine fu quello spirituale - furono le antesignane delle Società
di Mutuo Soccorso e quindi del movimento cooperativistico.
Della confraternita potevano far parte anche le donne, le quali erano tenute a pagare la
stessa contribuzione degli uomini, però non potevano occupare delle cariche in seno
alla stessa, né avere un posto distinto nelle pubbliche funzioni. Le suddette Regole,
allorché ricevettero l’approvazione del Re, furono inviate dall’Intendente di Reggio al
sindaco di Rosarno, in data 22 gennaio 1859, e consegnate al Primo Eletto di San
Ferdinando, signor Francesco Naso, anch’egli massaro di campi.
In quell’anno, la marchesa di Albano, D. Gabriella Spiriti, fece portare da Napoli, da
un vecchio convento dei Benedettini soppresso dalle leggi napoleoniche, una
magnifica statua dell’Immacolata, che ancora oggi si venera e si festeggia nel mese di
agosto. Era da poco trascorso il 1854, l’anno in cui Pio IX aveva proclamato il dogma
dell’Immacolata Concezione e perciò, in ogni contrada del Regno di Napoli, era viva
la devozione mariana.
Il simulacro di pregevole fattura, scolpito in legno, è opera probabilmente di un bravo
artista napoletano del Seicento. Iconograficamente si rifà al tipo delle tele murilliane
che ispirano ad una devozione tenera ed affettuosa verso la Vergine, la quale, a mani
giunte, volge lo sguardo verso i fedeli. Le sue forme leggiadre sono avvolte da un
ampio mantello azzurro stellato, da cui spicca la bianca veste sotto la quale spuntano i
piedi, che poggiano su una luna falcata, nell’atto di schiacciare il velenoso serpente.
Questa Madonna fu sempre invocata come protettrice dei marinai, i quali, ancora oggi,
la venerano contribuendo in larga misura ai suoi festeggiamenti poiché molti di loro
fanno parte della congrega.
La testimonianza di una antica devozione da parte di questi pescatori locali ci viene
offerta da un ex-voto, che tutt’ora si conserva nella sagrestia della chiesetta, mediante
il quale si attesta la presenza, in San Ferdinando, anche di nuclei familiari immigrati
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LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL ...IGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL PERIODO BORBONICO)
dalle isole Eolie. Questo ex-voto consiste in un modesto dipinto su lastra di vetro,
dove, nell’iconografia si rileva che un veliero di proprietà del capitano Giuseppe Tizio
(originario di Stromboli), trovandosi ancorato a Torre Faro, fu colto, il 1° marzo 1865,
da una violenta tempesta che ruppe gli ormeggi dell’imbarcazione, per cui la stessa
rimase per alcune ore in balìa delle onde. Ma i marinai, dopo essersi raccomandati
all’Immacolata «miracolosamente» - come si legge nella dedica - arrivarono a Messina
17.
Da rilevare che il suddetto ex voto è analogo ad altri esposti recentemente in occasione
di una mostra etnoantropologica intitolata Immagini eoliane allestita nell’isola di
Salina. Gli storiografi riportano, a proposito, che simili ex voto o tavolozze venivano
acquistati dagli isolani nei porti di Napoli o di Palermo, oppure venivano eseguiti su
ordinazione a testimonianza di uno scampato pericolo ed in segno di riconoscenza e
devozione al proprio Santo protettore 18.
Come in ogni associazione, gli aderenti alla confraternita del villaggio di S.
Ferdinando erano tenuti a riunirsi periodicamente o in particolari solennità «al suono
della campana» nell’oratorio della chiesetta del paese per deliberare sulle proposte del
Priore o, allorché se ne ravvisava la necessità, anche a richiesta della maggioranza dei
confratelli. La chiesetta dove si tenevano le adunanze era quella denominata «Del
Perdono», cioè l’attuale cappella gentilizia dei marchesi Nunziante, e tale usanza si
perpetuò fino al 1925, data in cui fu costruita una apposita chiesetta di esclusiva
pertinenza della congrega. Molte deliberazioni adottate dalla confraternita sono andate
perdute nel corso degli anni. Oggi ne rimangono soltanto alcune 19. Da una lettera
allegata al carteggio della congrega e inviata in data 18 maggio 1891 al vescovo di
Mileto, Antonio Maria De Lorenzo, apprendiamo che erano state apportate delle
modifiche alla norma che trattava della celebrazione delle messe ai defunti.
In essa il priore Pasquale Loiacono così scriveva:
Eccellenza Reverendissima. Il giorno 17 maggio al suono della campana riunita la
Congrega si stabilì quanto segue: Siccome il nostro regio assenso sotto il doppio titolo
di Maria Santissima del Carmine e Immacolata Concezione, parla che cessando di
vivere un Fratello avrà messe piane numero 25, al valore di grana 15, ma siccome oggi
il giorno, il valore della messa non è più come sopra, ma bensì avrà il valore di una
lira, si è stabilito di celebrarne 16 che corrispondono alla stessa somma che spiega il
regio assenso. San Ferdinando 18 maggio 1891.
In occasione di una visita pastorale, avvenuta l’11 marzo 1883, mons. Luigi Carvelli
(1838-1888) richiamava il Priore
alla stretta osservanza degli statuti della Confraternita, specialmente per quanto
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LA CONFRATERNITA DEL CARMINE E DELL’IMMACOLATA NEL ...IGINI DI UN VILLAGGIO DURANTE IL PERIODO BORBONICO)
riguarda l’elezione e la durata degli Ufficiali, la dipendenza di tutta la Congrega dal
Padre Spirituale in tutto ciò che riguarda la direzione dello spirito e l’esercizio di pietà
nelle sacre funzioni.
Il priore, in quegli anni, risultava il marchese d’Albano, don Salvatore Nunziante 20.
Dal contesto emerge che il vescovo richiamava il priore alla stretta osservanza del
regolamento della congrega. Non conosciamo i motivi veri del richiamo, ma, a quanto
pare, non si era ancora provveduto al rinnovo delle cariche sociali nei termini stabiliti
dallo statuto e perciò erano sorti dei dissidi tra il marchese e il parroco del tempo, don
Pietro Vallone. Evidentemente, anche la congrega subiva le pressioni accentratrici dei
Nunziante, i quali, persino nelle manifestazioni religiose, esercitavano la loro
influenza sulla popolazione e sul clero locale, sempre in forza del loro diritto di
patronato sulla chiesa sanferdinandese. Probabilmente, il parroco Pietro Vallone - che
il poeta locale Nicola Porretti definisce «anima pia» - come padre spirituale della
congrega non sopportava l’ingerenza dei Nunziante, per cui alcune volte sorsero dei
contrasti. E, forse, per queste divergenze di vedute o dissidi il sacerdote Vallone se ne
andò da San Ferdinando e, amareggiato, lasciò questa memoria scritta a margine di un
foglio nel Registro dei matrimoni del 1857/92:
... abbandona finalmente questo avverso cielo e i pessimi suoi abitanti il dì 7 aprile
1892; cioè dopo 11 anni mesi 7 e giorni 7 ritornandosene alla sua benedetta diocesi e
città di Tropea per rivedere poi le casette e S. Ferdinando in Paradiso!» Ed aggiunse:
«Povero mio successore se dovrà soffrire al pari di me, ma non spererei ... addio! 21.
Gli aderenti alla confraternita erano, come prescriveva lo statuto, persone di sani
costumi morali, che adempivano scrupolosamente ai doveri di cristiani, a quegli atti di
religione e di esercizi di pietà che il tempo e le tradizioni richiedevano.
I fratelli nei giorni di Quaresima facevano penitenza e digiuni, il Giovedì Santo
impersonavano gli apostoli, il Venerdì Santo, come anche nel primo venerdì di marzo,
portavano il cilicio, e durante la funzione religiosa, che si teneva nella chiesetta Del
Perdono, oltre ad eseguire mirabilmente i canti gregoriani in latino, si battevano con
corde e catene fino a far sprizzare il sangue dalle carni 22. Questo atto di sacrificio era
chiamato, in gergo locale, «La Disciplina». Gli adepti si rifacevano ai riti delle
Compagnie dei Disciplinati o dei Battenti che - come scrive padre F. Russo - si
diffusero in Calabria intorno al 1500 e sorsero a Guardavalle, a Paterno Calabro, a
Cropani, a Briatico e a Gerace 23.
In onore dell’Immacolata si celebrava una novena, ancora oggi affollatissima di fedeli,
dal 29 novembre al 7 dicembre. Per soddisfare la volontà di partecipazione popolare,
la bella statua della Madonna veniva e viene trasferita dalla chiesetta della
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confraternita nella chiesa matrice, che è più spaziosa, e per non sottrarre tempo al
lavoro, la messa della novena veniva officiata prima che facesse giorno; in tal modo
all’alba i lavoratori dei campi potevano recarsi al quotidiano lavoro.
Dopo il terremoto del 16 novembre 1894 la popolazione sanferdinandese si privò dei
modesti oggetti d’oro e di argento (220 pezzi inventariati) e li offrì alla Vergine
chiedendo che fosse confezionato un modesto cuore d’argento con incisa una scritta
commemorativa.
Quanto mai suggestiva e commovente era la processione penitenziale che aveva luogo
il Giovedì Santo e che oggi si svolge il venerdì notte, allorché i fedeli con in testa la
confraternita si recano al Calvario cantando ad alta voce il Perdono. Nell’Ottocento e
nei primi anni del Novecento quando ancora il paese era immerso nel buio per
mancanza di elettrificazione, quella processione notturna con le lanterne ad acetilene
portate in corteo dai giovani «permeava di commozione tutto l’abitato; le poche
persone che restavano in casa attendevano il suo passaggio con il lume acceso e le
porte spalancate, si inginocchiavano piangenti e si battevano il petto davanti al Cristo
già morto e alla Madonna Addolorata vestita di nero, dal viso cereo e con le lacrime
agli occhi» 24.
Vogliamo chiudere questo nostro modesto lavoro con una poesia in vernacolo scritta
dall’avv. Pasquale Rombolà, appassionato studioso di folklore locale, sanferdinandese,
morto recentemente. Essa serve a farci calare nella realtà di quell’epoca e a
comprendere i genuini sentimenti di religiosità popolare che animarono la popolazione
rurale di San Ferdinando nella metà dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento.
Dhu vennari di marzu ’nta sirata
nu ventu friddu l’ossa ti tagghiava
La campanedha di l’Ammaculata
Menzu abbrahata 25, paci non si dava.
La luna joculana e ’ncucuzzata
Chi nuvuli facia l’ammucciateda 26
Lu ventu chi jiuhhjava 27 ’nta la strada
Li pagghi li vutava a rotaredha.
Lu ’ntinnu soi pi l’aria si pirdia
U perdonu a fratellanza ricurdava,
Senza parrari a ognuno ’nci dicia
Mu dassa u focu chi lu caddiava.
Quandu ogni tantu na porta s’apria,
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La luci da lumera linguiava;
Poi cu nu corpu forti si chiudia,
Ognuno a Cresiola s’abbiava.
Quandu tutti i fedeli s’adunavanu
’Ntrusciati 28 finu all’anchi ’nte mantelli;
Li luci di l’artaru s’appicciavanu,
A circu s’assittavanu li fratelli.
Lu zi’ Pascali cu la varva a pizzu
’Ntonava a vuci vascia «u miserera»
Cchiu forticedhu facia Ciccu Rizzu
Cchiu forti ancora la dulenti schera 29.
’Nterra stindutu e pedhi di l’artaru
Subba a nu linzolu ricamatu,
cu na curuna ’ntesta i spalassari 30,
Stava lu Cristu Mortu ’insanguinatu.
Tinia li mani e li pedhi forati,
Vivu paria lu sangu a la custata;
Figghioli, aviamu l’occhi spalancati,
Eramu tantu ’bboni dha sirata.
’Ncera na puzza di candili arduti,
Di fumu, di rihjati 31 e di suduri;
A n’anguleddhu tutti ricugghiuti 32
Faciamu parti a tuttu dhu duluri.
Cantandu si facia la «Disciprina»,
Ognunu su partia di lu scaluni
Cu na catina i spadhi si ’bbattia
Pistandusi lu pettu ’ndinacchiuni.
A chiesti puntu chidhu locu Santu
Paria na forgia e nu circu ’mpernali
Scrusci di pettu, singhiuzzi di chiantu,
La Cresia mi paria nu ’bbacanali.
La luci di candili facia a vava 33
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A facci o Generali ’nci allucia 34
Idhu guardava a Vitu 35 e ssa scialava,
Ittava a vigna chi chiantatu avia 36.
Guardava chidhi figghi di coatti,
Guardava dhi niputi di massari,
Li so’ disinni 37 furu sodisfatti,
L’avia ’nduciutu dhi luppini amari 38.
Note
1 ARCHIVIO DI STATO DI REGGIO CALABRIA (= A.S.R.C.), inventario 27, fascio 84.
2 Ibid.
3 Ibid., Lettera Vescovado di Mileto, Uffizio n° 41.
4 A.S.R.C., inv. 5, fascio 132 e ARCHIVIO PARROCCHIALE DI SAN FERDINANDO (=
A.P.S.F.), Registro Battesimi anno 1855.
5 G. RASO, Quadro statistico de’ distretti di Palmi e Gerace nella Prima Calabria Ultra, Napoli
1843, p. 30.
6 N. PORRETTI, Poema alla storia della creazione di San Ferdinando, Maddaloni 1908, p. 37.
7 ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI MILETO; B. POLIMENI, San Ferdinando e i
Nunziante, Soveria Mannelli 1988, p. 161.
8 Il primo parroco del villaggio era stato, nel 1829, D. Pietro Arecchi da Salice, il quale
fungeva anche d’amministratore dei beni del marchese Vito Nunziante. A.P.S.F. e B.
POLIMENI, San Ferdinando ..., p. 162.
9 N. PORRETTI, Poema alla storia della creazione ..., p. 37.
10 A.P.S.F., Registro Battesimi anno 1855.
11 Da un certificato di servizio rilasciato dall’Eletto di Polizia, Francesco Barbalace, e dal
parroco del sotto comune di San Ferdinando, riportato in A. MARTINO, Di la furca a lu palu, a
cura di P. Ocello, Roma 1984, p. 19; B. POLIMENI, San Ferdinando ..., 163, 165.
12 B. POLIMENI, San Ferdinando ..., 165.
13 B. POLIMENI, Andrea Orlando brigante di Monte Poro, «Calabria Letteraria», XXII
(1984), n. 10, pp. 106, 107; «Gazzetta del Sud», 1° febbraio 1985, p. 3. L’Orlando era nato a
Spilinga (CZ) il 26 settembre 1776. Aveva sposato Maria Rosa Suriano da Palmi, dalla quale
ebbe due figli: Felice e Annunziata. Quest’ultima andò sposa, nel 1842, al pittore reggino
Domenico Giordano, nipote dell’omonimo restauratore della Cappella del Sacramento del
Duomo di Reggio Calabria (B. POLIMENI, San Ferdinando ..., 161).
14 A.S.R.C. inv. 4, fascio 163. Il Bizzarro morì a San Ferdinando all’età di 86 anni.
15 M. R. VALENSISE, Per una storia delle Confraternite nella diocesi di Nicastro alla fine del
sec. XIX, «Studium», 79 (1983), 3, p. 375.
16 B. POLIMENI, San Ferdinando e i Nunziante ..., p. 50.
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17 La presenza, nell’Ottocento, di alcune famiglie marinare provenienti dalle isole Eolie ci
viene tramandata anche dai registri della locale parrocchia e da alcuni atti notarili depositati
presso la Sezione dell’ARCHIVIO DI STATO DI PALMI. Cfr. B. POLIMENI, San
Ferdinando ..., p. 110, nota 12.
18 S. PALUMBO, Immagini eoliane col sapore della storia, «Gazzetta del Sud», 9 agosto
1987, p. 3.
19 Queste deliberazioni si trovano depositate presso L’ARCHIVIO DELLA
CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA IN SAN FERDINANDO.
20 Salvatore Nunziante era nato a Tropea nel 1820, all’epoca in cui il padre, generale Vito,
aveva stabilito il suo quartiere generale in quella città essendo comandante delle truppe
borboniche in Calabria e Commissario Civile con alter ego per la Basilicata e la Calabria.
Salvatore Nunziante fu ufficiale di carriera nell’esercito di re Ferdinando II come il padre e i
fratelli. Ma, quando la monarchia capitolò, egli si ritirò a vita privata col grado di colonnello,
rifiutandosi di passare nell’esercito italiano, come, invece, fece il fratello Alessandro, e si
dedicò alla cura della sua vasta azienda agricola, a San Ferdinando. Con decreto del 5 luglio
1858 era stato insignito del titolo di Marchese di Albano. Sposò Gabriella Spiriti dei duchi di
Cosenza. Morì a Napoli il 3 gennaio 1889. Dopo la sua morte la salma fu traslata nel villaggio
di San Ferdinando dove riposa nella chiesa detta del Convento.
21 A.P.S.F., Registro matrimoni, vol. II, anni 1872/92.
22 La chiesetta era detta «Del Perdono» perché ivi si radunavano i fratelli per cantare nei giorni
di Passione l’inno del perdono a Dio che effettivamente doveva perdonarli dai peccati
commessi in passato e per cui erano stati assoggettati dalla giustizia terrena a scontare le loro
umane colpe, benché, in seguito, da servi di pena si fossero riabilitati col duro lavoro delle
bonifiche.
23 F. RUSSO, Storia della Chiesa in Calabria, Soveria Mannelli 1982, II, pp. 662, 664.
24 S. TRIPODI, La formazione delle classi sociali nell’aggregato urbano di San Ferdinando
(R.C.), San Ferdinando 1992, pp. 46, 47.
25 Mezza stonata, rauca.
26 Giocava a nascondino.
27 Il vento soffiava sulla strada le immondizie.
28 Avvolti nei mantelli.
29 La dolente schiera dei fratelli.
30 Di spine di rovi.
31 Di sospiri, di aliti.
32 Raccolti in un angolo della chiesa.
33 Illuminava le figure nella penombra.
34 Illuminava il viso del generale Vito Nunziante, il cui mausoleo si trova nella chiesetta Del
Perdono. Il marchese Nunziante aveva espresso il desiderio di essere sepolto a San Ferdinando,
cioè nel villaggio da lui fondato. Era nato a Campagna (Sa) nel 1775 e morto a Napoli nel
1836.
35 Vito, il nipote omonimo del generale, morto nel 1905 e sepolto nella stessa chiesetta di
fronte al sarcofago del nonno.
36 La comunità a cui aveva dato vita cresceva.
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37 I disegni del marchese Vito Nunziante si erano realizzati.
38 Con la sua arte, il suo savoir faire aveva addolcito, amalgamato quella gente rude, rozza.
La suddetta poesia è intitolata U perdonu e fa parte di una raccolta di versi in vernacolo dello
stesso autore pubblicati nel volume I pittaruna edito da Jason di Reggio Calabria nel 1991.
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LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
Cesare Mulè
Le confraternite del Rosario discendono direttamente dalle confraternite mariane e
domenicane. Il salterio della Madonna constava del canto dei salmi, e delle Ave e dei
Pater contati con una corda a nodi (chiamata in Francia paternotre), forse introdotta
dall’Islam attraverso la Spagna. La parola rosario sembra derivare da sertum, rosarium
come insieme di rose, roseto, florilegio, antologia.
Il passaggio evolutivo della confraternita si ha con Alano della Rupe, domenicano
bretone (1428-1475) ed alla diffusione delle sue idee e delle sue opere non rimasero
estranei i Certosini. A seguito di una visione Alano de la Roche nel 1464 introdusse il
salterio mariano nella Confraternita di Donai. Il primo testo scritto promozionale e
normativo delle confraternite risale al 1476. Nella stessa direzione si adoperarono
Giacomo Sprenger e Giovanni Di Erfordia quest’ultimo giovandosi molto della bolla
«Ea qua».
La prima confraternita rosariana sorta in Italia è quella di Venezia che risale al 1480,
seguono quelle di Firenze (1481), Cremona (1496), Ravenna, riguardo a Roma la
prima testimonianza a noi giunta è lo statuto del 1585 (quello precedente è andato
smarrito), approvato da Sisto Fabri. Si nota qui un altare completamente diverso da
quello della vecchia congregazione mariana intitolato all’Annunciazione.
In Calabria la confraternita più antica senz’altro è quella di Catanzaro sorta in seguito
alla istituzione, nel 1401, del convento domenicano ad opera di fra Paolo di Mileto e
su protezione del conte Nicola Ruffo, che concesse anche una fiera da tenere nello
spiazzo antistante la chiesa confermata il 1561 (notaio Giacomo De Pruda). Nel 1587 i
confrati adottarono la regola dell’Arciconfraternita della Minerva di Roma (dove per
qualche tempo ebbe riparo Tommaso Campanella), apprestarono un luogo separato per
le adunanze, cominciarono ad indossare sacco e mozzetta e nel 1621 costruirono
l’attuale oratorio, lasciando i locali che davano sul chiostro conventuale dei
domenicani, completato nel 1654 dalla sacrestia (notaio G. B. Granato). L’oratorio (m
10x23) fu arredato con sedili di legno su tre ordini e con l’altare della Beata Vergine.
L’aula venne decorata con pitture raffiguranti i 15 misteri e stucchi barocchi.
Infine zelatore del rosario mariano è stato Gregorio Romano nato a Costantinopoli da
padre di Stalettì e da madre greca. Morì a Catanzaro il 1° dicembre 1694 e fu appunto
ritenuto «cultor eximins». Nel 1852 Ferdinando IV accettò la carica di priore perpetuo
ed il sodalizio divenne Reale Arciconfraternita. Fu la prima e la più sontuosa e
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LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
rigogliosa confraternita catanzarese perché sostenuta dalla corporazione dei setaioli.
Le confraternite domenicane e rosarianti ebbero impetuoso sviluppo dopo la battaglia
di Lepanto.
Ma seguiamone alcune tappe significative prima di andare al tema predominante di
questo soggetto.
L’esito del fervoroso apostolato rosariante, il concorso dei domenicani e lo slancio del
ceto dirigente, determinarono il parlamento cittadino, appositamente riunito il 24
aprile 1638 nella chiesa di S. Caterina (titolo allora della Maddalena), a far voti perché
la Madonna del Rosario venisse proclamata Protettrice della città in riconoscimento
della protezione accordata dalla «Signora» in occasione del terremoto del 27 marzo
precedente che aveva gravemente squassato località della regione. Per memoria grata
veniva deliberato di allestire due feste con la partecipazione dei rappresentanti
dell’Università alle processioni: la prima domenica di ottobre e il 27 marzo.
Nel contempo si decideva di dotare la chiesa di appositi banchi e di sei sedie (il notaio
Larussa il 25 ottobre 1782 ne trascrive l’atto), nonché di ergere l’immagine di San
Vitaliano e della Madonna alla Porta di Mare.
Alla importante seduta del parlamento furono presenti il regio capitano Francesco A.
d’Aponte, i sindaci Francesco Sanseverino e Giovanni Alfonso di Martino e gli eletti
del popolo Lucio Scalfaro e Vincenzo Polimeni. Pio VI, aderendo al voto popolare e
previo parere della Sacra Congregazione dei Riti, con la bolla del 18 agosto 1776
dichiarò la Madonna del Rosario comprotettrice della città. Ottenuto il Regio exquatur,
finalmente il vescovo il 9 gennaio 1809 ne dispose l’osservanza. (Le fasi salienti di
questo evento furono trascritte dal notaio F. Tiriolo con atto del 6-2-1855).
Intanto l’accresciuto peso anche pubblico e politico della confraternita, che esercitava
un ruolo, preminente nello scenario cittadino, ed il numero esorbitante dei confrati,
dovettero provocare sensibili tensioni egemoniche all’interno del sodalizio se nel 1750
Nicola Moio, su invito del generale dell’Ordine, si prodigò per promuovere concordia
ed evitare incresciose conflittualità. I suoi tentativi non ebbero l’esito atteso e nel 1754
analogo mandato di mediazione venne affidato a Tommaso Golia.
Tempi nuovi si andavano profilando e il 28-11-1770, con atto del notaio Domenico
Larussa, venivano definiti i nuovi statuti redatti dal priore Ignazio Schipani e da p.
Paolo Rosso. In ossequio al Real Dispaccio del 29 giugno 1776, la confraternita il 14
novembre successivo li presentò al Re a firma del priore Ignazio Schipani, del
sottopriore Vincenzo Cimino, del gonfaloniere Giovanni Marincola, del segretario
Gio.Battista Felicetti e di 305 fratelli. Esaminati il 26 novembre dalla Reale Camera di
S. Chiara, furono approvati da Ferdinando IV il 19 dicembre con benevola
sollecitudine. Scritti su cartapecora furono conservati e l’evento festeggiato nel I
Centenario.
Abolite le Confraternite con dispaccio del 19 maggio 1785, per agevolarne il riordino
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LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
ma anche per sottesi motivi di controllo e di vigilanza, ed in adesione alle direttive
della Cassa Sacra del 2 settembre 1788, emanate per conseguire il loro
«ravvivamento» un altro incarto prese la via di Napoli e ottenne l’approvazione il
1789 con espresso incarico alla congrega di assistere i bambini esposti. Questa
clausola venne adempiuta con la nomina di tre balie per l’onere di 36 ducati, così il 13
gennaio 1792 perveniva il definitivo decreto della Giunta della Cassa Sacra che
consentiva la sottoscrizione del verbale di possesso e di riapertura
La dignità arciconfraternale fu concessa il 1852 anno in cui, su supplica del priore
Gaspare Le Piane, il Re Accolse di essere insignito del titolo di Priore perpetuo.
Nello stesso anno fu istituita la carica di cappellano che fu nel tempo di Giuseppe
Pupa, Giuseppe De Stasio, Gaetano Pappaianni, Antonio Giglio, Giovanni Ruffo,
Giacomo Bova, Cesare Pucci, Gregorio Caliò, Saverio Scerbo, Vitaliano Catanzaro,
Pasquale Catanzaro, Antonio Tarsia.
Il soggetto dell’iconografia delle nostre confraternite è la Madonna.
La prima immagine della Madonna risale al 1477 ed è una xilografia stampata ad
Augsburg. Si vede la Madonna assisa in trono, con il Bambino sulle ginocchia
nell’atto di distribuire corone di rose a domenicani (Sprenger), al Legato pontificio e a
Federico III. In Italia, a Venezia, abbiamo nel 1480 una Madonna alta e diritta la cui
veste semplice è adornata con piccolissimi fiori.
Spesso in Italia nella composizione figurativa appaiono San Domenico e Santa
Caterina, a partire dal secolo XV. Ma la raffigurazione più celebre è quella veneziana
di Durer (1506) che ripropone lo scenario del 1477 con personaggi di più recente
importanza e con l’accentuazione di morbidezze, di eleganze, in una atmosfera
raffinata propria della civiltà pittorica veneta.
Più in generale lo scenario è quello della Madonna delle Grazie tipizzato da Durer e
l’imposizione delle rose rende queste raffigurazioni di tipo che possiamo definire
«nordico». Le pale italiane mostrano la Madonna assisa su di una nuvola che consegna
il Rosario a San Domenico. In variante appaiono pure il Bambino e Santa Caterina. Il
prototipo è del 1521, la Vergine è seduta in trono. La corona di fiori è sostituita dalla
corona del Rosario. Una famosa Madonna del Rosario è quella di Antonello da
Messina (Museo Nazionale). Anche qui appaiono personaggi regali (Massimiliano?) e
Sisto IV. La battaglia di Lepanto e la smagliante vittoria della flotta cristiana su quella
turca segnò una svolta d’epoca nella storia occidentale ed ebbe ripercussioni anche sul
culto della Madonna. Gli equipaggi e i soldati europei ottennero onore e gloria e con
loro Giovanni I, figlio naturale di Carlo V (1545-1578) e comandante della flotta
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LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
cristiana, ma vi fu ancora l’affermazione di un personaggio a cui fu affidata la vita e la
sorte dei combattenti, una protettrice celeste: la Madonna detta «della Vittoria» da Pio
V, Michele Ghislieri (1504-1572), che il 7 ottobre, promulgò la bolla Salvatoris
Domini per «Commemoratio Sanctae Mariae de Victoria» perché «per i meriti e la pia
intercessione della sempre Vergine Madre di Dio, è stata ottenuta la vittoria contro i
turchi, nemici della fede cattolica» (E. Staid, Nuovo Dizionario di Mariologia, a cura
di S. De Fiores e F. De Meo Roma 1986). La festa solenne venne ribadita e accresciuta
l’anno successivo da Gregorio XII.
A Venezia venne dichiarato «non virtus, non arma, non Duces, sed Maria Rosarii
victores nos fecit».
La solennizzazione della Madonna della Vittoria si preparò anche a Catanzaro dove la
Confraternita del Rosario commissionò una tela raffigurante la Madonna dimostrando
particolare cura e considerazione nell’affidarne la realizzazione ad un buon pittore
gesto fatto probabilmente anche in omaggio ai confratelli e patrizi della città come i
Marincola e i Toraldo di Badolato, che all’impresa avevano partecipato.
Il dipinto, restaurato nella prima metà del secolo XIX dal confratello Domenico Diaco,
veniva esposto in caso di calamità o in occasione di grandi anniversari, tra parati di
seta e luminarie, concerti musicali all’ora del vespro e fuochi pirotecnici così come in
particolare fu fatto sotto il priorato di Leonardo Larussa essendo padre spirituale don
Domenico Correa.
Gravissimamente deteriorato, ne segnalai la necessità di pressante restauro avvenuto
sotto gli auspici dell’Assessore alla cultura del Comune, Mario Saccà, ben sostenuto
dal rettore don Salvatore Parrotta e dalla Sovraintendenza ai Beni Culturali di Cosenza
nell’anno 1984.
Dopo una fitta rete di contatti fu formalizzata l’intesa per il restauro con l’adozione da
parte della Giunta Comunale della delibera del 22 dicembre 1984 con cui, sulla scorta
di una appropriata relazione dell’Assessorato alla cultura redatta da Alfredo Lanciano
e Sandro Russo, si concedeva il contributo di 3 milioni di lire al Rettore della chiesa
del Rosario che formalmente ne aveva fatto richiesta.
Interpellata doverosamente la Sovraintendenza per i Beni Ambientali Architettonici e
Storici di Cosenza, si ebbe l’accredito dei restauratori Antonio Rava e Rosamaria
Baratta di Roma con Studio laboratorio in piazza Trinità dei Monti.
La segnalazione insistente degli intellettuali calabresi e la costante premura
dell’assessore Saccà di fatto salvarono il dipinto da una fine miseranda. A relazione di
Rava, la tela era ormai di difficile lettura. Restaurata malamente nel 1967 era ricoperta
da patina grigiastra, si era ingiallita e ossidata la vernice, la tela di supporto era
ingobbita, lacunosa e lacerata ai bordi, «la pellicola deturpata dai ritocchi e da
biopassive cadute di colore».
Il restauratore ha dato conto scrupoloso del suo lavoro condotto con perizia di
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LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
maestro; riferisco parafrasando la sua relazione: il dipinto velato su carta di riso e steso
sul telaio interinale è stato foderato con colla pasta e tela di canapa. La pulitura
eseguita con solventi non polari: la reintegrazione mediante velatura con acquarelli
Windsor e Newton e colori a vernice per restauro costituiti da pigmenti stabili agli
ultravioletti. La verniciatura è stata eseguita a pennello e poi a nebulizzazione in
vernice Retoucher della Le Franc.
Il dipinto è stato steso su di un telaio di legno stagionato e svasato.
Ora manca il segnalatore dell’umidità (che non deve superare il 65%) ma può essere
ammirato per altre centinaia di anni. La tela è oggi visibile in tutto il suo fulgore.
La Madonna è rappresentata da una giovane donna seduta.
Una corona regia ed un serto di rose sormontano il volto lungo chiomato. Il camice
bianco è coperto da una affusolata corazza decorata con motivi fitoformici, con il
braccio destro teso reca una spada su cui è avviluppato un nastro recante la scritta
«Ipsa adsum auxilio»; con la sinistra sorregge uno scudo con il Bambino Gesù che
mostra una corona del Rosario; la figura è contornata dalla scritta «His armis vinces».
Ai lati sono disposti un gentiluomo con baffi e gorgiera anch’egli protetto da una
corazza che, inginocchiato, rivolge una preghiera di ringraziamento; sull’altro lato un
prelato dalla lunga barba, in atteggiamento di preghiera. Dalla mitra a triregno e dalle
vesti (tonaca bianca e mantello nero) si arguisce che si tratta di Pio V. Il gentiluomo
può essere Giovanni d’Austria o un patrizio catanzarese.
Ai piedi, soggiogati e quasi atterrati, stanno due turchi in ricche vesti con copricapi
orientali: un alto fez e un turbante adornati da piume e fermagli.
Sullo sfondo, nello specchio di una finestrella, le due flotte contrapposte schierate in
battaglia con una disposizione assai fedele al reale.
La fattura è di genere colto, con impianto organico ed equilibrato. Dalla composizione
spira forza serena e quasi dolce. I vinti non appaiono sgomenti, sono due volenterosi
modelli con bonarie sembianze addirittura calabresi. Il Papa ricorda l’iconografia di
San Vitaliano, protettore di Catanzaro; la Madonna è una fanciulla dai grandi occhi
neri, il naso delicato, la bocca appena disegnata, il collo alto e sottile. Non vi è traccia
del nome dell’autore e della data di esecuzione.
Non azzardo avventurose attribuzioni. Colloco l’opera all’interno della cultura
pittorica italo-spagnola del secolo XVIII per alcuni riferimenti netti quali il tipo di
spada con l’elsa munita di guardia a vela e, naturalmente, gli abbigliamenti.
Dovendo fare un nome come apripista per più approfonditi studi di esperti sussurro
quello di Pietro Negrone. Procedendo nell’analisi delle figure accosto senz’altro la
Madonna al tipo guerriera, come la Maria della Libera e S. Maria di Costantinopoli,
che si distingue per il marziale coraggio mostrato di fronte al nemico. Scrive Norman
Douglas «I santi avevano da lavorare. Ogni divino protettore combatteva per la propria
città o il proprio paese ...» (Old Calabre, Martine Lecker 1915).
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LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
Il turco con il turbante abbiamo detto appare tratto da un modello locale ed ha viva
rassomiglianza (salvo che per i baffi con le punte rivolte all’ingiù) con il calabrese
Occhialì, cristiano rinnegato, che con il grado di ammiraglio comandò l’ala sinistra
della flotta turca a Lepanto, indicato da Stefano Andretta (contrariamente a Valente e
ad altri) con il nome Enldj Ali.
Il riconoscimento del gentiluomo in don Giovanni d’Austria lo ricavo dal confronto
con incisioni del secolo XVI riportate dal Barbagallo (II, p. 871 e 875); la
rassomiglianza con l’effige di una medaglia commemorativa conservata nel Gabinetto
Numismatico di Berlino è assai sorprendente. L’elsa della spada è quella dell’Infante
don Carlos in un rame di H. Cock o di Filippo II del Rubens del Prado.
D’innegabile suggestione appare la tela di Paolo Veronese raffigurante la Madonna
che riceve le chiavi bene accogliendo Giovanni d’Austria mentre in basso è raffigurata
una scena della battaglia di Lepanto.
In questo contesto figurativo pongo a maggiore comprensione dell’intelligenza
artistica dell’Autore:
Van Dyck
Ritratto di Alessandro de la Faille
(tela 1,11 x 0,97) Musei Reali di Bruxelles.
François Clonet
Ritratto di Carlo IX, re di Francia
(tela 2,22 x 1,15)
sopratutto per l’elsa.
El Greco
Il Cavaliere con la mano sul petto (1578-1580); (81 x 66) dove pongo il confronto con
le magre dita sottili e la filigrana d’oro dell’elsa della spada.
Velasquez
Ritratto allegorico di Filippo IV
(tela 3,39 x 2,67) Galleria degli Uffici, Firenze)
L’opera risale al I ciclo di El Greco ed al suo soggiorno a Toledo (1577-1584). Il
cavaliere potrebbe essere Giovanbattista da Silva, Marchese de Montemayor e
Protonotario della città.
La fisionomia del nostro gentiluomo è fortemente apparentata a quella dell’Entierro
del Conde de Orgaz di Toledo (chiesa di Sant Tourè) con in più maggiore vivezza
nello sguardo.
Azzardo un’ipotesi per individuare il nostro Autore. Pietro Bardellino rivela nei suoi
canoni stilistici una base accademica «percorsa da fermenti manieristici intensi e
qualificati» che lo accomunano a Corrado Gianquinto e a Giacinto Diana, come
annota: Raffaello Causa artisti esponenti della pittura napoletana della seconda metà
del Settecento pervasi da «maturità culturale» e caratterizzati da «particolare intensità
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di elaborazione» sospinti in una atmosfera neoclassica.
Pietro Bardellino è stato docente all’Accademia di Pittura di Napoli (che conserva
ancora un suo grande affresco) e nel suo più avanzato iter artistico ha avuto come
guida referente Luca Giordano, di cui in qualche modo può essere definito discepolo.
Il pittore napoletano Pietro Bardellino (1731-1806) eseguì per la Confraternita del
Monte del SS. Sacramento dei Nobili Spagnoli di Napoli una tela raffigurante una
Madonna della Vittoria con Pio V, don Giovanni d’Austria e Marc’Antonio Colonna
in uno scenario ovviamente legato alla battaglia di Lepanto. L’opera è sita nella
cappella dei marchesi d’Alarcon Mendoza (Casa che ebbe grandi uffici in Calabria).
Desumo queste notizie da Franco Del Buono (Calabria Letteraria, XVII, n. 7-8-9) e
dalla pregiata pubblicazione della Regia Confraternita napoletana redatta nel 1975 da
Pietro Raimondi, graziosamente postami a disposizione dall’attuale governatore conte
Giuseppe de Varga Machuca.
Il confronto diretto stilistico e dello schema iconografico a questo punto diventa
stringente e risolutivo: la nostra tela è una replica o una copia di quella napoletana?
Intenso ed efficace fu il servizio sociale dell’arciconfraternita: l’assistenza gratuita di
un medico agli ammalati, l’ausilio particolare alle ragazze «povere e oneste» e ai
bisognosi, l’insegnamento di filosofia legale ai giovani, il restauro della chiesa.
L’arciconfraternita si distinse anche per il livello e l’accuratezza delle solennità con
cui contornava i riti richiamando anche da fuori città «apparatori» (scenografi),
decoratori, musici.
Nel 1840 si svolse, sotto la cura del priore Gaspare Le Piane e del vice Ignazio Bova,
un «tributo poetico» o accademia secondo un accurato protocollo pubblicato in
opuscolo (dedicato all’intendente Gaetano Starabba) il cui introito di vendita venne
riservato ai poveri privi di abiti.
Il programma consisteva nella esecuzione di una «sinfonia a grande orchestra», nella
prolusione di Benedetto Cantalupo, giudice della gran Corte Civile delle Calabrie, nel
canto di inni e nella recita di odi e di sonetti.
In questo recital si distinsero oltre ad un coro polifonico che si esibì in canti sacri, i
poeti Gaetano Menichini, Nicola Parisio, C. Barrese, Giovanni Maria del Toro,
Giuseppe Sarda, Pietro Altimari, Giovanni Motta, lo stesso Ignazio Bova, Domenico
Giordano, Francesco Doria, Francesco Meligene Del Vecchio, Gioacchino Alfì,
Antonio Parisio di Stefano, Francesco M. Dolcino e Liborio Menichini.
Vivo e costante è stato il ricordo dell’evento guerresco e del patrocinio celeste.
L’arciconfraternita ne celebrò i fasti con appropriate manifestazioni religiose e civili
volte ad onorare i tanti calabresi accorsi sotto i gonfaloni di Giovanni I d’Austria di
cui qualche nome sopravvive. Il cronista ricorda Scipione Cavallo, Giò Ferrante
Bisballe (di nobiltà catalana), Bernardino Coco, Giò Giacomo Comparatore, Ferrante
Felletti, Giò Giacomo Francoperta e il prezioso Cecco Pisani, Giò Tommaso di
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Francia, Prospero Parisio, Camillo Comercio, Gaspare Toraldo, creato colonnello per
l’occasione, che nel 1556 al comando di 40 uomini aveva ucciso a Stilo 2 turchi e di
cui avevano scritto Tasso e Villorel. Mentre altrove si dilunga compiaciuto, su questo
punto lo storico D’Amato è tacitiano: «Si ritrovarono in questo conflitto molti patrizij,
e Cittadini Honorati di Catanzaro nel quale si segnalarono per molta bravura». Forse vi
parteciparono alcuni uomini d’arme dei Grimaldi, dei Marincola e un Francesco De
Riso, capitano della Santa Sede che combattè per la Lega.
Ma vi parteciparono ancora con la preghiera p. Arturo Lattanzi di Cropani, che predicò
a Messina agli equipaggi e ai soldati prima dell’imbarco (e al ritorno altro monaco
calabrese svolse l’omelia di ringraziamento), e il frate Giovanni Mazza di Monteleone,
lo stesso che aveva benedetto i combattenti alla partenza della flotta e che nel
convento di Napoli ebbe illuminazione dell’esito vittorioso della battaglia. Così dal
Nunzio papa Pio V ebbe per primo da un calabrese la sfolgorante notizia.
Tra le manifestazioni più solenni - nei lacerti cronachistici superstiti - quelle del 1853
con celebrazioni promosse naturalmente dal Priore.
I riti religiosi si conclusero con una accademia culturale: la dotta prolusione
dell’Intendente Francesco Morelli e l’orazione in colto latino di Giuseppe Magnotti,
presidente del Tribunale civile e socio di varie insigni accademie (tra cui quelle di
Tropea e di Firenze), costituirono la introduzione alla declamazione di componimenti
lirici di Antonio M. Lanzilli, Vincenzo Saltelli, Raffaele Piccolo e Luigi Grimaldi;
delle ottave di Giorgio Melacrinis; delle terzine d’Ignazio Davoli e dei sonetti di
Gaetano Menichini.
L’ultima grande festa per la ricorrenza della battaglia di Lepanto si svolse nel 1871.
Ce ne dà conto Giacomo Frangipane, procuratore della Confraternita in un libretto
(Tip. Lombardi, Reggio 1881) in cui dopo avere ampiamente descritto la battaglia
stese resoconto delle manifestazioni centenarie promosse dal priore cav. Leonardo
Larussa e dalla Cattedra tutta. Adornata la chiesa di lumi, drappi e fiori Alessandro
Basile, vescovo di Cassano, recitò il panegirico mentre la messa venne celebrata dal
vescovo De Franco.
Le vie cittadine furono sfarzosamente illuminate per la processione allietata dalla
banda musicale.
Frangipane ancora annota: «un pranzo di venti coperte fu dato ai poveri nel locale
della congrega assistiti da distinte dame e dai primari Confratelli».
Nel 1923 con maggiore sobrietà è il priore Giuseppe Felicetti a festeggiare la
ricorrenza.
Così in tutte le ricorrenze della fatidica giornata del 7 ottobre fu onorata l’immagine
della Madonna della Vittoria «in quell’occasione dipinta» come scrisse Giacomo
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Frangipane, tela cara alla storia della città e insigne per esito artistico, nel 1939 fu
l’unica opera figurativa della Calabria e della Lucania prescelta per la Mostra
d’Oltremare di Napoli.
La Madonna del Rosario era stata proclamata protettrice della Città nel 1638 e ritenuta
efficace scudo contro il terremoto del 1783, le razzie sanfediste del 1799, la rapacità
sanguinosa dei briganti nel 1806 («immani masnade») e l’epidemia del 1836.
Il richiamo esercitato dalla chiesa del Rosario determinò nel 1929, per zelo del cav.
Saverio Silipo, la costruzione di una nuova cappella dedicata alla martire S. Liberata.
La Madonna della Vittoria di Reggio Calabria.
Altra testimonianza pittorica della Madonna della Vittoria è a Reggio dove
naturalmente si seguì con partecipazione viva e il concentrarsi della flotta nel
dirimpettaio porto di Messina e l’esito della battaglia.
Qui sorse la confraternita domenicana nel 1571(gli Statuti furono approvati nel 1764).
Ebbene, nella città dello Stretto, in una chiesa attigua al Monastero delle Benedettine
venne eretta una pala (oggi presso il Monastero delle Salesiane) diretta da De Lorenzo
che l’attribuisce a Salvatore Rosa: «Nel basso sono in primo piano San Benedetto da
una parte e Santa Scolastica dall’altra: in mezzo ad essi battaglia ... In cielo intanto si
ha per decisa la distruzione dei Musulmani ... Di sopra è la B. Vergine col Celeste
Infante circondata di cori di Angeli (che) discendono incontro ai crociati vittoriosi o
martiri».
Il monastero era sorto per impulso dell’arcivescovo Gaspare del Fosso per fare
convenire le monache di sei piccoli conventi basiliani ormai fatiscenti ed esangui.
Bibliografia
ANONIMO, Il tributo del 1840 nobile Arciconfraternita dei rosarianti di Catanzaro, II ediz.
Tip. Francesco Togniazzi, Catanzaro 1840.
ANONIMO, Raccolta di vari componimenti pronunziati nella accademia tenuta dalla Reale
Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro il 9 novembre 1853.
V. D’AMATO, Memorie Historiche della Città di Catanzaro, Paci, Napoli 1670.
G. FRANGIPANE, La battaglia di Lepanto. Ricordo per i Fratelli dell’Arciconfraternita del SS.
Rosario di Catanzaro, Tip. G. Lombardi, Reggio 1881.
P. GERACI, Guida di Reggio 1928.
G. MEERSSEMAN GILLES, Ordo Fraternitatis Confraternitatis Confraternite e pietà dei laici
nel Medioevo III. Herder Editrice, 1977.
SPANÒ - BOLANI - GUARNA, Storia di Reggio Cal., vol. II Tip.
LOGOTETA E DE GIORGIO, La Voce di Calabria, 1957.
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LE CONFRATERNITE DEL ROSARIO
G. VALENTE, I calabresi alla battaglia di Lepanto, in Almanacco Calabrese, Ist. Tiberina,
Roma 1962.
R. CAUSA, Pittura napoletana dal XV al XIX secolo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche,
Bergamo 1961.
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IMMAGINI DI VITA CONFRATERNALE
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E
IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE 1
Maria Rosaria Valensise
Il problema dell’assistenza nasce, se così si può dire, con la crisi delle confraternite,
nel secolo diciottesimo.
È un fenomeno che riguarda non soltanto il Regno di Napoli, ma lo Stato Pontificio ed
il Lombardo-Veneto nello stesso tempo; insomma tutta l’Italia, dove «anche per
effetto delle politiche riformistiche, giuseppina, leopoldina e tanucciana, come osserva
Gabriele De Rosa, le polemiche contro le confraternite si accompagnarono più in
generale con quelle contro gli ordini religiosi, della cui utilità civile si dubitava sempre
più mentre le tendenze generali dello Stato ad assorbire o controllare la beneficenza e
l’assistenza riducevano lo spazio per l’azione delle confraternite» 2.
In realtà non mancarono, da parte della Chiesa, spinte ed iniziative per incoraggiare la
ripresa dell’associazionismo laicale la cui funzione era considerata insostituibile e per
gli aspetti spirituali e per gli aspetti pratici che la normativa racchiudeva, ma alla fine
tutto si risolse in un programma di riforme tendenti ad adeguare gli statuti alle
rinnovate esigenze della popolazione.
Tali iniziative però, essendosi nel frattempo affievolito l’entusiasmo religioso e lo
spirito associativo, non furono sufficienti a dare un nuovo impulso alle Confraternite,
le quali anzi, a Roma, con l’avvento della Repubblica Romana, in base alla legge del
18 Giugno 1798, furono soppresse 3.
Un interesse notevole presenta invece l’indagine relativa alla legislazione promulgata
alla fine del secolo XVIII nel Regno delle Due Sicilie; tale legislazione coinvolge tutte
le istituzioni ecclesiastiche ivi comprese le congreghe religiose che in base alla nuova
normativa sono costrette a rivedere gli statuti ed a rifondare la vita comunitaria
subendo, in alcuni casi, come conseguenza non prevista, un processo di
rivitalizzazione atipico rispetto al resto della penisola dove, proprio in quel periodo, le
stesse associazioni conoscevano l’inizio del declino 4.
Nel Regno delle Due Sicilie infatti la politica tanucciana aveva manifestato un
programma non dissimile da quello degli altri governi coevi tanto più che l’impatto
delle nuove ideologie aveva trovato una situazione particolarmente precaria con una
popolazione avvilita dal susseguirsi delle varie dominazioni e dal conseguente
impoverimento delle risorse economiche; una Chiesa «potente di forze temporali», una
«feudalità ancora non debellata anzi aggravata da feudatari spregevoli, una «milizia
nulla» ed ancora «codici confusi» ed una «curia vasta, intrigante e corrotta» 5.
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
Soprattutto in questo paese si sentiva la necessità di avviare delle riforme: per quanto
riguarda le istituzioni ecclesiastiche ci si proponeva essenzialmente un attacco al clero
che per il numero e per le immunità fiscali di cui godeva rappresentava l’ostacolo
principale da rimuovere per migliorare le condizioni economiche della restante
popolazione 6.
Il problema del clero venne affrontato mediante una azione sistematica tesa a ridurre il
numero e nello stesso tempo i privilegi 7, senza trascurare però la revisione degli
istituti collaterali quali gli ordini religiosi maschili e femminili, le chiese ricettizie, le
associazioni confraternali.
Il discorso delle innovazioni non fu sempre semplicissimo dal momento che si
trovarono coinvolte le autorità laiche come le autorità religiose in uno scontro di
interessi che le vide di volta in volta schierate in posizioni diverse ed apparentemente
anche contrastanti: la battaglia per il ridimensionamento delle ordinazioni sacerdotali,
per esempio, ebbe da una parte coloro che desideravano accedere al sacerdozio
sostenuti dalle rispettive famiglie, assieme ai vescovi «sensibili più alle ragioni di
prestigio che alle esigenze della pastoralità» 8, dall’altra le autorità laiche «che per
ogni prete (vedevano) ridursi l’area delle persone tassabili», parenti collaterali, ma
anche altri sacerdoti già insediati e timorosi della concorrenza 9.
Con la stessa logica la ricettizia venne difesa dai laici contro l’autorità vescovile che
ne rivendicava la giurisdizione 10, mentre una posizione particolarissima occupò il
problema delle confraternite di fronte al quale, come dice Placanica, «il governo
borbonico fu costretto a mantenere un atteggiamento duplice: da una parte avviarne il
controllo, assoggettarlo all’assenso previa approvazione degli statuti, riorganizzare
tutto questo campo con gradualità; (d’altra parte) non mortificare questi numerosi
nuclei di organizzazione laica ormai ben inseriti nella vita delle chiese, ma appunto
regolarli e riordinarli perché non solo non fossero pericolosi ma magari (diventassero
utili allo Stato e alle classi) emergenti» 11.
Pertanto nell’analisi di questo fenomeno è da considerare la singolare politica della
quale le confraternite furono oggetto, una politica che, pur attingendo alla stessa fonte
di ispirazione alla quale attingevano nello stesso periodo di tempo gli altri Stati
italiani, pur adoperando gli stessi mezzi con provvedimenti più o meno simili a quelli
che venivano presi nella rimanente parte della Penisola, si prefiggeva risultati diversi.
Non desiderava infatti spegnere drasticamente un tipo di associazionismo che se anche
aveva avuto la colpa di utilizzare per il passato, peraltro in piena legalità, l’istituto
della manomorta, aveva nello stesso tempo il merito di occupare un ruolo importante
nell’ambito della società facendosi portavoce di un messaggio di solidarietà umana
attraverso un impegno assunto sia in campo spirituale col proporsi l’elevazione morale
degli iscritti, sia in campo pratico mediante il soccorso ai bisognosi.
«L’opposizione più vera e radicale alle confraternite e agli ordini religiosi - come dice
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
Paglia - muoveva in realtà dalle nuove concezioni religiose del ’700 e dallo sviluppo
economico - sociale. Nel formarsi e nel rafforzarsi di nuovi ceti sociali, nell’aprirsi di
nuove contraddizioni all’interno dell’Ancien Regime, nel concretarsi d’una nuova
coscienza politico-sociale, nel mostrarsi di una nuova ecclesiologia, iniziavano a
maturare radicalmente quelle che erano state le strutture portanti e le forme più
evidenti e reali della chiesa della società della Controriforma» 12. Tale opposizione si
manifestava invece nello stesso periodo a Roma dove «gli influssi delle nuove idee
(...) soppiantavano le precedenti concezioni» 13.
È importante precisare perciò che la collaborazione venne richiesta nel secolo XVIII
soltanto nello Stato borbonico, mentre altrove si pensò ad escludere, sempre per motivi
ideologici, questo tipo di intervento e si cercò di ignorarne la funzione.
A Roma infatti «mentre la Riforma (cattolica) aveva favorito l’azione delle
confraternite, il sorgere di un nuovo spirito circa l’assistenza, incideva in quella
funzione statica che l’opera caritativa aveva instaurato, per il tramite di queste
associazioni per lo più, tra religiosità, assetto sociale e situazioni di bisogno» 14.
Tutto ciò si verificava malgrado alcune grosse piaghe di ordine sociale permanessero
ancora per molto tempo: «verso la metà del Settecento nello Stato Pontificio su una
popolazione di circa due milioni di abitanti, più che quattrocentomila erano mendicanti
(...) a Roma i poveri mendicanti continuavano in gran numero a riversarsi per le strade
e per le chiese sì da essere ormai insuffruibili» 15.
Nel Regno di Napoli, apportare delle riforme significò prima di tutto riorganizzare i
codici ripescando e selezionando la materia giuridica, impresa quanto mai ardua dal
momento che al tempo di Carlo III nel Regno si sovrapponevano undici legislazioni 16
ed inoltre c’era l’abitudine di diramare leggi e dispacci, man mano che venivano
emanati, su foglietti volanti, non catalogati né per materia, né per ordine cronologico
17. Lo slancio riformista fu personificato dalla figura del ministro Bernardo Tanucci
18, il più forte sostenitore del regalismo nei confronti della Santa Sede, uomo al tempo
stesso religioso e nemico della cultura enciclopedica. Fu Proprio il Tanucci ad affidare
al Gatta 19 l’incarico di raccogliere i decreti concernenti il diritto canonico, il diritto
penale e civile. La raccolta fu pubblicata a Napoli il 28 giugno 1773 dall’editore Maria
Severino Boezio con il titolo di Reali Dispacci 20. Con essa la «materia ecclesiastica»
veniva riunita in un unico volume, trascritto nelle due lingue del Regno, italiana e
spagnola e suddivisa in sessantotto capitoli o «titoli».
Alcuni di questi trattavano il problema delle congregazioni religiose 21 e
raccoglievano dispacci emanati dal 1740 al 1773, anno della pubblicazione dell’opera.
Se lo scopo principale della nuova legislazione era di controllare l’espansione del
patrimonio ecclesiastico a vantaggio dell’economia dello Stato, era chiaro che da
questo discorso non potevano essere escluse quelle istituzioni, confraternite comprese,
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
che erano nate, nella maggioranza dei casi, in virtù di una donazione da parte dei laici.
In realtà non tutte le confraternite erano di origine laicale, alcune erano di origine
ecclesiastica, altre miste, ma soltanto le prime, in base alla loro prerogativa, si
potevano prestare per una politica anticurialista. Molte di esse col passare degli anni
avevano ottenuto consensi ed avevano collezionato tante donazioni accumulando così
discreti patrimoni. Pertanto nei Reali Dispacci veniva difeso il diritto dei parenti a
subentrare nella eredità di famiglia anche se queste erano state destinate ad una
istituzione religiosa, sempre che non ci fossero altre complicazioni dal punto di vista
legale e questi patrimoni non risultassero ancora recuperabili; dal momento che
nessuna donazione fatta da laici ad ecclesiastici poteva essere considerata tale se non
era motivata da «pubblica necessità ed utilità» 22.
Qualora però ci fossero tali premesse, veniva applicato un criterio di maggiore
elasticità per favorire quelle pie istituzioni che dimostravano di svolgere una certa
funzione sociale e che per questo semplificavano i doveri dello Stato verso la
popolazione: alla congregazione dei Sacerdoti Laici sotto la direzione di S. Alfonso
Maria de’ Liguori non venne permesso di sciogliere l’ordine poiché questo risultava di
particolare importanza per il bene pubblico 23.
Il controllo delle istituzioni avveniva mediante il Regio assenso 24 che, per quanto
riguarda le confraternite, era indispensabile sia alla loro fondazione, sia alla revisione
degli statuti.
La legislazione regolava infatti la vita della confraternita dalla normativa
all’amministrazione dei beni, alle pertinenze dei vari Tribunali qualora i membri delle
varie associazioni si fossero trovati implicati in qualche contesa, alla prassi da seguire
per le cariche elettive. Sostanzialmente si cercava di sottolineare la laicità della
fondazione, motivo per cui, come si tendeva a restituire i beni accumulati durante la
vita di ciascun fratello ai suoi di famiglia, così si voleva evitare ogni interferenza da
parte dell’autorità ecclesiastica 25.
La confraternita si alimentava anche in base alle disponibilità economiche e pertanto
non erano da trascurare quegli aspetti pratici quali l’amministrazione dei beni e il
problema del bilancio che ne determinavano la vita. Le esigenze di queste associazioni
andavano dagli interventi diretti in caso di necessità della popolazione (malattia con
relativa assistenza di medici e medicinali, funerali con fornitura di casse e arredamenti
vari, cere e divise per i confratelli) agli obblighi ai quali queste erano sottoposte, di
costruire e consegnare agli iscritti il loculo al cimitero, pagare per la manutenzione
della chiesa ed eventuali locali delle riunioni, provvedere alla divisa dei confratelli.
Per tutte queste spese non erano certamente sufficienti le entrate provenienti dalla
tassazione annuale degli iscritti per cui era indispensabile poter contare su un fondo
cassa. Le rendite suscitavano gli appetiti del clero, e dal momento che la vita delle
confraternite si svolgeva a stretto contatto con la vita delle parrocchie e degli ordini
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
religiosi spesso si verificavano disordini e confusione nei bilanci: dopo aver attuato
quindi una separazione radicale attraverso la quale era possibile distinguere fin dalle
origini l’appartenenza di un determinato patrimonio, bisognava controllare
l’amministrazione perché l’obiettivo raggiunto non risultasse vanificato. Per questo
motivo potevano essere eletti amministratori soltanto i confratelli laici 26, mentre il
clero avrebbe dovuto limitarsi esclusivamente a controllare la contabilità da essi
presentata 27.
Anche per quanto riguardava gli amministratori laici però, i Dispacci prevedevano
l’approvazione regia non soltanto per potere procedere alla elezione, ma anche per
riconfermare, dopo un anno, l’elezione stessa 28. Ugualmente veniva regolata la
gestione dei luoghi più laicali 29.
Nel frattempo si voleva sganciare ogni pertinenza legale, che non fosse di ordine
esclusivamente religioso, dai tribunali ecclesiastici: essendo le confraternite
associazioni di origine laicale, avrebbero dovuto essere sottoposte alla giurisdizione
laicale 30.
Le attività pratiche delle confraternite, che in genere si concentravano sui problemi di
ordine assistenziale, venivano anch’esse regolate da una normativa: veniva proibita
per esempio ogni tipo di colletta anche se fatta a scopo di beneficenza 31, oppure
venivano precisate le formalità da mantenere in occasione di processioni o funerali 32.
I Reali Dispacci rappresentavano così un importante strumento di riforma: se lo scopo
principale della nuova legislazione era quello di controllare l’espansione del
patrimonio ecclesiastico e proteggere quindi l’economia dello Stato, tutto ciò era reso
possibile dall’obbligo, imposto anche alle confraternite, di richiedere il regio assenso,
pena l’annullamento della fondazione stessa.
L’appello portava già da sé ad un risultato positivo: si poteva registrare il numero delle
congregazioni esistenti e depennare quelle che si erano sciolte; molte infatti erano
andate spegnendosi lentamente nel corso degli anni, o perché era venuta meno una
devozione o perché c’era stata una progressiva defezione degli iscritti o perché
avevano subito delle trasformazioni per cui, pur risultando presenti nei documenti
ecclesiastici, in realtà erano inesistenti da parecchio tempo. Si determinava pertanto un
risveglio di coscienza generale dal quale veniva la spinta necessaria per riprendere il
cambio con una carica nuova, con programmi aggiornati e adeguati ai tempi. È vero
che, accanto a questo fenomeno si verificò quello opposto, soprattutto nella provincia
dove volutamente alcune congregazioni avevano preferito eludere la legge «in modo
che i membri si lucrassero qualche entrata senza ricorrere ai riti d’acquisti, o
comunque continuassero tranquillamente i vecchi rapporti con l’ambiente locale» 33,
ma sostanzialmente l’obbligo del regio assenso fu rispettato 34, in particolar modo
dopo gli anni settanta, allorché fu avviata una più solerte operazione di controllo.
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Altro obiettivo raggiunto dalla politica dei Reali Dispacci fu quello di aver separato,
rivendicando l’origine laicale delle confraternite, il patrimonio gestito da queste
associazioni, dai beni di proprietà della Chiesa.
Questo «chiarimento» portava ad alleggerire il peso della mano-morta procurando allo
Stato nuove aree imponibili a vantaggio della popolazione civile. Anche
l’amministrazione del patrimonio stesso fu affidata ai confratelli laici per evitare che
sorgessero in qualche modo degli appetiti da parte del clero. A tal fine si cerò di
mettere in ordine nel settore giuridico dove convivevano confusamente diritti
ecclesiastici con diritti laicali dando luogo a continui scontri di interesse e fu
puntualizzato quali contese dovessero cadere sotto la giurisdizione di un tribunale,
quali invece fossero di pertinenza dell’altro perché eventuali sentenze non
intralciassero o mettessero in discussione quella rivendicazione che la politica
riformista si era proposta in ordine al rafforzamento delle prerogative reali.
Tutti questi provvedimenti permettevano di raggiungere la «progressiva laicizzazione
della società nel senso voluto dalla borghesia» 35 che non desiderava certamente
distruggere l’istituzione della confraternita, ma al contrario, affrancarla da una
posizione di subordinazione nei confronti dell’autorità ecclesiastica.
Va sottolineato al riguardo che questa volontà di rinnovamento sancita dai Reali
Dispacci non dispiaceva alle congregazioni che si trovavano sovente in conflitto con
vescovi e clero 36.
Per comprendere l’attenzione che il governo tanucciano dedicò al problema delle
confraternite, bisogna tenere presente che queste coinvolgevano se non tutta la
popolazione, almeno buona parte di essa, inoltre in molti casi si configuravano come
una corporazione e perciò costituivano un piccolo centro di potere per determinate
categorie. Anche il nobilato locale veniva generalmente posto a guida delle varie
associazioni riuscendo anche per questa via ad esercitare il controllo delle classi
subalterne. Per vari motivi quindi, quali per esempio il fatto che l’istruzione
permetteva ai responsabili di garantire all’associazione una corretta interpretazione
delle norme che la riguardavano, o una difesa dei suoi diritti legali, venivano designate
per le cariche di maggiore impegno le persone colte. I benestanti poi venivano preferiti
perché potevano garantire con un eventuale contributo, la sopravvivenza del sodalizio
nei momenti economicamente più critici 37 e spesso nel Regno delle Due Sicilie la
persona istruita si identificava con il benestante. Per tutti questi motivi qualsiasi
legislazione attuata drasticamente avrebbe rischiato di diventare impopolare.
La motivazione principale però era il fatto che il problema dell’assistenza ai bisognosi
ed il culto dei morti erano ancora in mano alle confraternite laicali che alleggerivano
così i doveri dello Stato verso i cittadini, né si poteva sperare che questo sarebbe stato
entro breve termine in condizione di provvedere, considerata soprattutto l’arretratezza
delle strutture e la situazione di indigenza in cui versava.
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L’attività delle confraternite nel Regno delle Due Sicilie infatti era particolarmente
legata al culto dei morti ed a Napoli, allorché Carlo Demarco scriveva al Marchese
Fraggiani per dargli la notizia della decisione di Ferdinando IV di costruire un
cimitero al posto della fossa comune alla quale erano stati destinati coloro che
morivano all’ospedale degli Incurabili, e per chiedergli un contributo economico (il
Fraggianni occupava la carica di Delegato del Monte e Banco de’ Poveri) il problema
dei morti non risultava certamente superato:
... Per dare riparo alla infezione che si può temere dall’aria di questa capitale - scriveva
infatti il Fraggianni - dal fetore che giornalmente esala dalla nuova fossa volgarmente
chiamata Piscina dove gittansi i cadaveri di coloro che muoiono nell’ospedale degli
Incurabili, provvidamente il Re sempre intento alla conservazione della pubblica
salute dei suoi popoli ha ordinato al Governo della Casa Santa degli Incurabili di
subito e senza minima perdita di tempo comprare una certa masseria del dott. Gaetano
Campoli sita nel luogo detto il Tredici a destra della strada pubblica denominata Li
Pichiodi ed ivi, secondo il disegno del architetto cavalier Fuga, far costruire un
cimitero con tutta prestezza; acciò secondo che il suddetto architetto afferma, si
passano in alcune sepolture che prima si faranno trasportare e seppellire li cadaveri
dello Spedale degl’Incurabili, prima che sopraggiunga il caldo della seguente estate.
Perché tal opera non è solo pia, ma utile e vantaggiosa, allo stremo grado necessaria
per la conservazione della pubblica salute, il Re è stato il primo a dare un nobile
esempio della sua regal munificenza e del (sic!) zelo che nutre per la felicità dei suoi
vassalli (sic!) con aver ordinato dal suo regal Erario siano pagati à Governadori
degl’Incurabili docati quattromila e cinquecento per sevire di aiuto alla Santa Casa
nella sollecita fabbrica del mentovato Cimitero che assorbirà la spesa di circa docati
venticinquemila. Per mezzo della Segretaria di Stato e di Azienda ha comandato
parimenti che s’ingiungesse à Banchi che da essa dipendono ed anche a questa
fedelissima città, di seguire lo esemplo della maestà sua e dare per tale opera così
interessante un competente sussidio à Governadori degli Incurabili. Ed ha proposto a
una di dispacciare i medesimi ordini per li Monti e per quei Banchi che siano della
ispezione della Real Segreteria del mio carico. Perciò in esecuzione di tal Real
Comando ne prevengo V.S. Illustrissima acciò come delegato del Monte e Banco de’
Poveri disponga con i Governadori del medesimo che al Governo della Casa Santa de
gl’Incurabili sia data una competente e congrua contribuzione per il sollecito edifizio
del suddetto necessario cimitero. Come che però un’opera tale che ridondi in
vantaggio universale di questa città, il Re tuttavia non ha stimato di soggettare a
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rigorosa tassa i Luoghi più doviziosi che in essa esistono come lo avrebbero voluto i
Governadori de gl’Incurabili. Ma si è contentata Sua Maestà di risolvere che V.S.
Illustrissima come delegato della Reale Giurisdizione subitamente nel suo real nome
far debba à Supperiori o Amministradori de’ medesimi doviziosi pii Luoghi una
efficace insinuazione di contribuire qualche sussidio semplicemente caritativo e
volontario per una sola volta, a titolo di pura e gratuita limosina, per soccorrere alla
Santa Casa degl’Incurabili in tal opera così pia e cotanto vantaggiosa ed utile per la
comune salute di tutto quel pubblico con porre loro davanti agli occhi il generoso
esemplo dato da Sua Maestà per il pubblico bene.
Tanto mi occorre di partecipare a V.S. Illustrissima acciò i comandi del Re che per suo
Real ordine le ho dinotati, vengano in tutte le sue parti subito adempiuti, come Sua
Maestà comanda 38.
Si è ritenuto riportare per intero una lettera già da sé abbastanza eloquente e che non
avrebbe bisogno di ulteriori spiegazioni, perché da essa emergono due aspetti
particolarmente significativi ai fini di una migliore comprensione dei problemi sociali
del Regno delle Due Sicilie durante la dominazione borbonica: primo, la situazione di
indigenza e di miseria nella quale versava la popolazione napoletana; secondo
l’impossibilità da parte dello Stato di provvedere materialmente ad una delle esigenze
più urgenti per la città, la costruzione di un cimitero che restituisse ai morti la dignità
di essere stati uomini ed ai vivi garantisse una parvenza di igiene. Per ottenere tutto
questo il primo maggio del 1762 Ferdinando IV era costretto a chiedere non soltanto
l’intervento del Monte e Banco de’ Poveri, ma anche un contributo volontario ai
numerosi «Luoghi pii doviziosi». La costruzione del cimitero infatti prevedeva una
spesa di venticinquemila ducati, mentre il Re dal suo erario non avrebbe potuto
sottrarre più di quattromilacinquecento. La lettera sottolinea come i Governatori
dell’Ospedale degl’Incurabili avrebbero suggerito una specifica tassazione rivolta agli
Ordini Religiosi che nella città non solo abbondavano ma erano anche dal punto di
vista economico, in una posizione di privilegio» 39, ma il Re aveva preferito parlare di
«una tantum» a titolo di carità giustificando la richiesta con la pubblica utilità, facendo
esplicito riferimento alla politica anticurialista adottata a Napoli durante il periodo
tanucciano 40.
Era chiaro però che la preoccupazione da parte di Ferdinando IV riguardasse soltanto
una determinata categoria di cittadini, quella alla quale non era concesso di usufruire
di privilegi ecclesiastici e quindi della sepoltura nelle chiese, perché tali privilegi
spesso erano collegati ad antiche donazioni che solo i benestanti si erano potuti
permettere, né i poveri che finivano all’Ospedale degl’Incurabili possedevano una
cappella di famiglia. D’altra parte se il problema di un pubblico cimitero che
accogliesse tutta la popolazione si poneva nella capitale in questi termini, era
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presumibile che i paesi del Regno fossero all’epoca ben lontani dal concedersi un
simile lusso, anche perché da alcune testimonianze risulta che ancora cento anni dopo,
per l’Italia meridionale la questione non era stata risolta 41, che i funerali avevano tre
categorie 42 e che alla terza categoria veniva destinato per il trasporto al cimitero il
cavallo che il comune teneva per la raccolta della spazzatura e che per avvolgere la
salma veniva dato in prestito un drappo nero di proprietà del Comune 43.
I Reali Dispacci presentano le note usanze locali che sottolineano il diverso destino
della popolazione appartenente a classi sociali diverse, nel momento in cui vengono
date le disposizioni per la regolamentazione del culto dei morti. «... che sia lecito a
ciascuno eleggere a sé medesimo la sepoltura ove voglia, la quale elezione, se alcuno
non l’abbia fatta, debba seppellirsi o nel sepolcro de’ suoi maggiori, ovvero quando
non lo abbia privativamente nella chiesa parrocchiale, eccettone gli Impuberi, la
sepoltura de’ quali rimanga in elezione de’ loro padri; e la moglie che trovandosi non
averne fatto elezione, segua la sepoltura del marito» 44, e si comprende benissimo che
i cittadini dei quali veniva ad interessarsi la legislazione non erano certo coloro che
erano stati degenti all’Ospedale degl’Incurabili.
Per i primi vi era «la libera facultà à moribondi ed à loro congiunti ed eredi di invitare
alle esequie quanti e quali preti secolari e regolari gli piaceranno» 45, di «determinare
le strade ed i luoghi per li quali abbiano a condursi li cadaveri alla sepoltura» 46, di
farsi suonare le campane sia nell’agonia che dopo la morte e nell’esequie da
qualunque chiesa secolare o regolare che a lui ed ai suoi eredi paia e piaccia; di fare
cantare le preci o altre solennità sopra i cadaveri e di servirsi, nel funerale, della
associazione del clero secolare e regolare e di confraternite, unite o separatamente, ed
in quel numero che a ciascuno o ai suoi eredi sia a grado» 47.
In realtà lo spirito che animava i Reali Dispacci non era quello di tramandare ai posteri
i rituali della morte né tantomeno di mettere in evidenza una tradizione sociale ormai
codificata dai secoli, ma si voleva invece, anche attraverso la normativa che
riguardava il culto dei defunti, ridimensionare la prevaricazione del clero sui diritti dei
cittadini.
Su questi atteggiamenti però si avrà modo di ritornare in seguito; per il momento
interessa sottolineare come, prescindendo da una piccola percentuale di privilegiati,
nell’Italia meridionale fosse particolarmente precaria la condizione dei restanti
cittadini, che pur rappresentavano la maggioranza della popolazione stessa.
La differenza nella sepoltura fra le classi privilegiate e quelle povere non era una
caratteristica del Regno delle Due Sicilie, se Philippe Ariès nella sua analisi sul mondo
occidentale riferisce: «... I concili hanno continuato per secoli a distinguere nei loro
decreti la chiesa e lo spazio consacrato intorno alla chiesa mentre imponevano come
un obbligo la sepoltura accanto alla chiesa, salvo qualche eccezione a favore dei preti,
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vescovi e monaci e di qualche laico privilegiato: tali eccezioni si trasformano subito in
regola» 48. Agli umili spettavano invece le grandi fosse comuni: «Al di sopra dei
portici le soffitte aperte erano pieni di teschi e di ossa scarnificate, ammucchiati
all’aria aperta e visibili dal cimitero. Nello spazio fra charniers, rare le piante, spesso
rigogliosa l’erba, tanto che il parroco e la comunità si contendevano il pascolo e
talvolta i frutti. Qualche rarissima tomba visibile, qualche monumento a uso liturgico,
croce, altare, pulpito, lanterna dei morti, lasciavano scoperta e nuda la maggior parte
della carta interna. Là venivano sepolti i poveri morti, quelli che non pagavano i
rilevanti diritti di sepoltura in chiesa o sotto gli charniers, venivano pigiati dentro
grandi fosse comuni, veri e propri pozzi con una profondità di 30 piedi e una
superficie di 5 metri per 6; contenevano dai 1200 ai 1500 cadaveri e le fosse più
piccole dai 6 ai 700. Una fossa era sempre aperta, a volte due. In capo a qualche anno
(o a qualche mese) quand’erano piene, venivano chiuse e accanto se ne scavavano
altre, nella parte delle carte che era stata scavata da più tempo. Le fosse, quando
venivano chiuse, erano appena coperte di terra e negl’inverni freddi, si diceva, i lupi
non avevano difficoltà a disseppellire i cadaveri (né i lupi, né i ladri che rifornivano
nel Settecento, gli amatori di anatomia). L’uso di queste fosse probabilmente risaliva
solo al secolo XV ...» 49.
Il macabro scenario che troviamo nel Regno delle Due Sicilie pertanto, non è una
eccezione rispetto a quanto si ritrovava all’epoca nel resto dell’Europa, anzi forse si
potrebbe osare l’ipotesi di una condizione di avanguardia nel Regno, dal momento
che, da quanto risulta dalla documentazione dei Reali Dispacci, si riscontra una certa
sensibilità al problema, insofferenza per la dignità umana calpestata, e per le
condizioni igieniche nelle quali si costringeva a vivere l’intera cittadinanza.
Questa preoccupazione emerge in alcuni dispacci antecedenti alla decisione di
costruire il cimitero e che parlano di epidemie causate dalla decomposizione dei
cadaveri che avevano trovato ospitalità nelle Cappelle delle varie confraternite, ma
non erano stati perfettamente isolati dal resto della popolazione civile, dal momento
che questi «luoghi pii» erano distribuiti nelle pubbliche strade; per evitare questo
pericolo si obbligavano tutte le congregazioni a provvedere all’isolamento tramite
vetri ed inferriate alle finestre delle Cappelle e la sepoltura dei cadaveri ad una
profondità non inferiore agli otto metri 50.
Che la gestione della morte fosse legata al problema delle confraternite non era una
novità: tradizionalmente infatti queste associazioni che sorgevano con programmi
assistenziali si trovavano ad essere «tra le istituzioni più pronte a rispondere ai vari
ordini di problemi che la morte suscitava» 51, ciò non soltanto per venire in aiuto della
popolazione bisognosa, ma soprattutto per soddisfare una interiore esigenza attraverso
la pratica della carità, di espiazione delle proprie colpe e di perfezionamento spirituale
52.
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I confratelli dovevano: ascoltare la S. Messa la domenica, frequentare i Sacramenti,
prendere parte alle riunioni periodiche prestabilite, agli esercizi spirituali, alle
preghiere fatte in comunità ed alle processioni, indossando la divisa; versare una quota
annua per la celebrazione delle SS. Messe, svolgere opere di pietà, assistere
materialmente e moralmente gli ammalati, provvedere alla sepoltura dei morti, fare
celebrare le SS. Messe in suffragio delle loro anime. La Confraternita dell’Addolorata
e della Buona Morte, che opera a Nicastro, in provincia di Catanzaro, fin dal 1726,
così esorta gli iscritti:
cerchi con diligenza ciascun fratello l’accrescimento delle virtù cristiane e, fra le altre,
l’umiltà e la carità col vivere col santo timore di Dio, e lontano da ogni peccaminosa
occasione, fuggir debba le cattive conversazioni, aborrire le mormorazioni e i disonesti
ragionamenti, frequentare la Congregazione, esercitare le opere di pietà» 53, ed ancora:
«... morendo qualche Fratello o Sorella, i Fratelli debbono tutti associare il cadavere,
associati con la veste bianca e rocchetto violaceo, con candela accesa in mano che
riceveranno da’ sagrestani; e nella prima domenica di Congregazione, si canterà il
primo notturno di Morti con Laudes e responsorio; per una settimana, chi saprà
leggere sia obbligato ogni giorno a dire un De Profundis coll’orazione Pro defuncto e
quelli che non sapranno leggere debbono recitare sette corone de’ Morti; ed il Priore
procurerà di far celebrare dal P. Spirituale della Congregazione una Messa Cantata con
castellana accesa; dee inoltre far celebrare la nostra Congregazione, un anniversario
l’anno 54.
La confraternita della SS. Trinità e della Vergine del Rosario di Cittanova, in
provincia di Reggio Calabria, che riceve l’approvazione di Ferdinando IV nel 1777,
obbliga «il Priore a visitare gli infermi confratelli, ed essendo poveri (...) soccorrere
così per medicine come per altri aiuti necessari alla vita e salute di detti infermi. Come
ancora congregati poveri col parere dei suoi assistenti, possa il priore di detta
congregazione sovvenirgli discretamente nelle loro miserie ed esigenze» 55. Oppure
«tutti i congregati son tenuti ed obbligati all’accompagnamento del cadavere del
defunto Fratello e specialmente quando trovansi vagabondi per i luoghi pubblici e
chiamati dal Priore non vorranno andare debbono pagare un carlino, da celebrarsene
Messe in suffragio dell’anima del defunto e non volendo pagarlo siano, precedente la
maggioranza dei voti segreti de’ Fratelli, cessati ed espulsi dalla detta confraternita ...»
56.
Nel Regno delle Due Sicilie pertanto gli scopi morali ed assistenziali che le
confraternite si prefiggevano venivano a coincidere perfettamente con quei doveri che
lo Stato non sarebbe mai stato in grado di assolvere.
Per questo motivo, nella legislazione dei Reali Dispacci le confraternite sono presenti
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non soltanto nelle questioni di ordine giurisdizionale, ma soprattutto nei dispacci che
regolamentano il culto dei morti, allorché vengono precisate le formalità da mantenere
in occasione di processioni o funerali:
... avendo inteso il Re che nelle occasioni di esequie de’ Ministri che sono fratelli delle
compagnie della disciplina della Santa Croce, e delli Pellegrini e convalescenti,
pretendono li Ministri che li accompagnano che il Superiore e li due Assistenti di dette
Compagnie non debbano andare dietro la bara, ma cedere questo luogo alli rifferiti
Ministri che van dopo del’esequie, per onorare il defunto quando li medesimi li han
ceduta la prerogativa di portare li fiocchi della coltre, non potendo farlo con proprietà,
lasciandoli con il rifferito luogo; perché verrebbe a dividersi il Corpo della Compagnia
mi ha comandato di dire a V.S. faccia intendere alli Ministri di cotesto tribunale che
nelle occasioni di andare accompagnando l’esequie di alcun Ministro defunto, non
impediscano al Supperiore della congregazione di andare immediatamente con gli
assistenti vestiti con sacco e cappuccio appresso alla bara, affinché il corpo di quella
non resti diviso. E che, portandosi alcuni di detti Ministri li fiocchi della coltre,
potranno gli altri Ministri andare consecutivamente dopo delle esequie; la quale viene
a terminarsi dalli citati Supperiori ed Assistenti, che van dietro la bara 57.
Oltre che per le norme che regolano il comportamento della confraternita, questo
dispaccio risulta interessante per le note che ci fornisce circa le usanze locali
dell’epoca: anzitutto il posto che le confraternite dovevano occupare durante i funerali,
che era sempre oggetto di discussione in quanto serviva a classificare la confraternita
stessa agli occhi della popolazione e nell’ambito delle altre associazioni del paese 58;
poi il problema dei «fiocchi della coltre» che dovevano essere affidati ai personaggi
più rappresentativi fra coloro che intervenivano al funerale. Questa usanza che in
seguito, per tutto l’Ottocento, varrà a sottolineare la differenza di classe degli stessi
funerali 59, perdura, nell’Italia meridionale, anche se priva del significato originario,
fino ai nostri giorni. L’altra notizia che viene tramandata dal dispaccio riguarda la
divisa dei confratelli, obbligati ad intervenire «con sacco e cappuccio» 60. Inoltre,
dalle descrizioni che si trovano nei vari dispacci, possiamo ricostruire minuziosamente
come si svolgevano i funerali all’epoca, dall’orario delle funzioni al corteo, agli arredi
che venivano adoperati, alle abitudini locali, ai costi delle esequie e rilevare
l’importanza della partecipazione delle confraternite. Secondo le disposizioni dei Reali
Dispacci ogni tipo di processione «in onore di Dio e dei Santi» doveva avvenire
durante la mattinata per evitare «occasioni di risse, scandali ed altri disordini che
dissonorano la Religione medesima» 61.
Presumibilmente anche le «processioni funebri», così infatti vengono denominate le
esequie, ricadevano nella stessa normativa, dal momento che la loro regolamentazione
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viene inserita nello stesso titolo che tratta delle processioni 62.
Tutto ciò avveniva probabilmente a causa dell’ubriachezza dei partecipanti o dell’ora
tarda nella quale venivano in genere organizzati questi appuntamenti: il buio
permetteva forse alla popolazione un atteggiamento poco adeguato alle sacre funzioni.
Bisogna tenere presente però che la questione dell’orario nelle funzioni religiose ha
sempre preoccupato le autorità sia ecclesiastiche che laiche che spesso, impegnandosi
in crociate moralistiche, hanno finito per eccedere nelle precauzioni 63.
La funzione del corteo era quella di mettere in evidenza la personalità del defunto, la
popolarità acquistata durante la vita, l’appartenenza a nobili natali, il censo.
Segno di distinzione per le varie categorie era pertanto la presenza di quel clero che
non era obbligato da doveri parrocchiali e che si configurava come un omaggio alla
persona o alla famiglia del defunto, anche se tale «omaggio» veniva in genere
regolarmente retribuito 64 e la partecipazione di una o più confraternite che dimostrava
come il morto fosse stato in condizione di pagare diverse iscrizioni.
Dal momento che, al di là del sentimento religioso, l’iscrizione alla confraternita
rappresentava un piccolo investimento per garantirsi assistenza in caso di malattia,
accompagnamento funebre, maggiore solennità ai funerali, sepoltura nella cappella
della confraternita per chi non ne possedesse una di famiglia, rintocchi di campana
nelle varie chiese (ogni confraternita in genere faceva capo ad una chiesa),
celebrazione di S. Messe e preghiere in suffragio dopo la morte, i Reali Dispacci
intervengono regolamentando non solo i rapporti tra popolazione e clero 65, ma anche
quelli tra popolazione e confraternite 66 per evitare richieste eccessive di denaro ai
cittadini da parte delle varie istituzioni, sempre nell’intento di proteggere soprattutto
quei cittadini poveri che, pur avendo il diritto di aspirare ad una morte che non fosse
priva dei conforti religiosi, non avevano avuto la possibilità di pagare la quota di
iscrizione:
Essendo pervenute al Re le lagnanze de’ cittadini di costi’ intorno all’esorbitanti
somme che pretendono codesti Parochi esigere in occasione de’ Battesimi, Matrimoni
ed Esequie, Sua Maestà per dar compenso a tali querele che ha trovato in buona parte
fondate, ha risolto che V.S. faccia sentire nel suo reale nome a’ suddetti Parrochi, che
il diritto loro nel concedere le fedi di Battesimo, di Matrimonio o di altro che bisogni,
non debba eccedere carlini due, né quali s’intenda compresa la mercede per far le
necessarie diligenze e ricerche né i libri antichi. E nella celebrazione de’ Matrimoni
non passi carlini sei, senza esigere altro, per la licenza di contrarre in casa, o in altro
luogo, a tempo insolito, o per qualunque altro titolo, pretesto o colore; giacché oltre
allo essere vietato dalla tassa Innocenziana, sarebbe occasione di continue novità e
gravezze. Che inoltre non si oppongano essi parrochi alla libera volontà de’ moribondi
nello eleggere la sepoltura in quella chiesa che più lor piaccia, senza poter pretendere
dagli eredi la quarta delle cere, o altro emolumento per lo portarsi e per seppellirsi i
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cadaveri più in un luogo che in un altro; e che non diano impedimento a detti
moribondi i loro eredi d’invitare al funebre accompagnamento quanti e quali preti
secolari e regolari o Confraternite, unitamente o separatamente che vogliano e con
quella pompa che farà loro a grado, senza che ad essi competa perciò alcun diritto
proibitivo o lucro o imposizione di tassa di qualunque sorta salvo il semplice diritto
spettante al Parroco, al quale appartiene il farzoso intervento quando invitato non
ricusi intervenire fra il termine de’ Rituali ecclesiastici prescritto alla sepoltura de’
cadaveri. Il qual diritto parrocchiale moderato ed abolito ogni eccesso, non debba
oltrepassare la grana venticinque, così se i cadaveri si seppelliscono nella Parrocchiale
Chiesa come se si portino altrove, secondo lo stabilito, in moltissimi luoghi del Regno
della Maestà Sua; la quale vuole che i suddetti Parrochi in tutte le cennate occorrenze,
usando verso i poveri quella carità che al misero loro stato si conviene, si astengano di
esigere da essi cosa alcuna ... 67.
Nel frattempo però le confraternite venivano ad essere riorganizzate nel ruolo e
sostanzialmente incoraggiate a riprendere la loro attività. Questo era in sintesi il
significato della politica Tanucciana nei confronti delle associazioni laicali. Quale sia
stata la risposta di queste ultime non è facile stabilire anche perché la storia della
confraternite meridionali richiede ancora un più approfondito sondaggio archivistico
68.
Dai dati emersi finora si può ipotizzare una effettiva ripresa malgrado le limitazioni
che lo spirito conformista imponeva. Le confraternite insomma non furono indebolite
dalla legislazione tanucciana, il loro zelo caritativo non venne meno, ma al contrario,
come risulta per esempio anche da uno studio di Guglielmo Esposito, sulla ripresa
istituzionale della confraternita meridionale: «il risveglio avvenne a partire dal secolo
XVIII. La laicizzazione delle congregazioni religiose avvenuta nel clima anticurialista
degli esponenti illuministi di Napoli, della Calabria e di altre zone non fece registrare
in linea di massima uno svuotamento del senso religioso impresso dai primitivi statuti,
le sane radici di un tempo ricevettero ulteriori frutti di fervore» 69.
In pratica anche se il risultato di tale politica appare di grande rilievo, soprattutto
tenendo presente la complessa situazione sia sociale che economica nella quale il
governo si trovò ad operare, quello che colpisce non è tanto l’originalità delle
iniziative dal punto di vista della legislazione, quanto il singolare rapporto che ne
scaturisce con la popolazione, un rapporto di massima intesa, quasi di complicità, che
appariva l’unica via da percorrere per affrontare il problema dell’assistenza.
L’istituzione confraternale pertanto diventa protagonista di un progetto che travalica di
gran lunga le finalità per le quali era stata creata, abbraccia il campo religioso come il
campo sociale ed è parte integrante di un disegno politico.
Gli inizi dell’Ottocento furono, per l’Italia meridionale, sotto il profilo politico,
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abbastanza movimentati: per la caduta di Murat 70, la fine di Napoleone ed il ritorno
dei Borboni a Napoli.
Le confraternite nel Regno di Napoli si trovavano avvantaggiate dal fatto che non era
mai stato applicato il decreto di Napoleone del 1811 che ne determinava la
soppressione. Ciò era stato reso possibile a causa della linea politica scelta dal Murat
che cercava di muoversi con una certa indipendenza rispetto al cognato.
Ma lo stesso Murat aveva emanato un provvedimento che tendeva a sottoporre i luoghi
pii al controllo dello Stato ed aveva fatto sì che anche sopravvivendo, queste
istituzioni perdessero in pratica ogni autonomia.
Pertanto, solo dopo il decennio francese, si cominciò a registrare una ripresa della
confraternita, ma fu di breve durata 71. Con l’Unità d’Italia e la successiva legge per la
liquidazione dell’asse ecclesiastico (15 agosto 1867), il governo non soltanto entrò in
possesso del patrimonio e delle rendite delle chiese, ma ne danneggiò anche le
associazioni laicali, confraternite, luoghi pii, distraendoli dai loro fini religiosi e
umanitari 72. Infine la crisi che si verificò all’interno della Chiesa stessa non poteva
non coinvolgere anche le altre istituzioni, confraternite comprese. Era troppo
profonda, infatti, per poter essere attribuita soltanto alle difficoltà economiche derivate
dall’incameramento dei beni ecclesiastici.
In realtà, la situazione politica particolarmente confusa dopo il 1861, creava forti
tensioni nella popolazione per ogni argomento che, comunque, sfiorasse i rapporti fra
Chiesa e Stato e le confraternite si presentavano come l’istituzione che, più di ogni
altra, aveva sofferto delle crisi: espropriate del loro patrimonio, «rese autonome,
almeno amministrativamente, con evidente deviazione dal fine per il quale erano state
create 73, bombardate dalla politica anticlericale, controllate dai notabili massoni 74,
abbandonate dai Vescovi e guidate male dal clero, smembrate a causa delle
emigrazioni 75, piano piano di erano svuotate dei contenuti che un tempo avevano
provocato quella spinta ascensionale volta al perfezionamento morale e all’amore
verso il prossimo e, ridotte a vere e proprie «societas funericiae a scopo lucrativo» 76,
erano successivamente diminuite di numero.
Se infatti dal Seicento al Settecento si era riscontrata soltanto una leggera flessione,
ora nell’Ottocento si nota una reale contrazione.
A questo proposito resta sempre difficile da verificare non tanto lo sviluppo del
reticolato associativo quanto la sua evoluzione diacronica. Se da una parte infatti, è
possibile ripescare la data di fondazione di quasi tutte le congregazioni, rimane sempre
più problematico invece ipotizzare la fine, dal momento che spesso una associazione
entra in crisi per un certo periodo di tempo, ma poi viene ripristinata.
In generale queste associazioni, sorte intorno alle chiese con il compito di affiancare
l’opera dei sacerdoti, avevano subito, con il processo risorgimentale, un forte
sbandamento e molte di esse si erano esaurite.
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
Con l’assestarsi della situazione alcune erano ritornate a riprendere vita. Spesso, anche
durante una parentesi di stasi, le confraternite mantenevano formalmente le iscrizioni,
per cui difficilmente si riesce a distinguere un periodo di reale attività da un periodo
assolutamente inerte.
Pur sorgendo in centri diversi, le confraternite presentano alcuni elementi comuni che
consentono di delineare le principali caratteristiche: anzitutto la loro presenza
coinvolge, se non tutta la popolazione, almeno buona parte di essa; la composizione
poi risulta formata, con un’organizzazione parallela, sia da uomini che da donne,
mentre vengono esclusi i giovani che non hanno ancora raggiunto l’età della ragione,
presumibilmente perché considerati non all’altezza delle responsabilità morali
richieste dai programmi delle varie associazioni.
In genere sono gli uomini che detengono le cariche principali, da Tesoriere a Priore,
all’interno del sodalizio. Per quanto riguarda il ruolo del settore femminile delle
confraternite, si sa soltanto che esso nasce dopo la fondazione della confraternita
maschile, come diramazione di questa e che, in genere, fa riferimento agli stessi statuti
occupando una posizione subalterna sia dal punto di vista delle direttive spirituali, sia
dal punto di vista organizzativo 77.
Negli Statuti delle confraternite si può notare una omogeneità di impostazione e di
linguaggio essendo in genere essi redatti in modo che emergano inequivocabilmente
gli impegni sopratutto di ordine morale che ciascun fratello contrae aderendo al
sodalizio. Viene infatti sempre sottolineato lo scopo essenziale dell’associazione che è
quello di portare ad un più alto grado di perfezione gli associati.
Ma se, in teoria, gli statuti tendono alla perfezione morale degli iscritti, spesso
sottoponendo questi ad un esasperato esercizio di pratiche religiose, in pratica devono
confrontarsi con quella realtà religiosa che, pur non mancando di contenuti, quasi
sempre si manifesta in modo tale da entrare in conflitto con le disposizioni date dalle
autorità della Chiesa.
La proposta di una maggiore fedeltà alle regole della canonistica tridentina, anche per
quanto riguarda l’aspetto formale della fede, spesso si scontra con una religiosità
popolare da secoli radicata nel Mezzogiorno. Questa situazione viene alimentata sia da
problemi di ordine sociale (l’analfabetismo genera, per esempio, mancanza di
istruzione religiosa), sia da problemi interni alla Chiesa stessa, a causa della carenza di
vocazioni, della decadenza dei costumi, e della impreparazione del clero.
L’associazione garantisce, inoltre, quella parvenza di vita sociale che, non dobbiamo
dimenticare, nei piccoli paesi del Mezzogiorno manca completamente: dopo una
giornata di lavoro gli uomini si riuniscono all’osteria: alle donne invece non è
permesso di frequentare, oltre alla casa, se non la chiesa.
La confraternita con il progetto dell’assistenza risolve, pertanto, anche questi piccoli
problemi di ogni giorno: sottrae gli uni da compagnie non sempre edificanti, fornisce
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
alle altre la possibilità di conciliare le tradizioni locali con l’esigenza di una
socializzazione sia pure a livelli non particolarmente impegnativi.
L’unione in vita ed in morte è un’altra rilevante caratteristica delle confraternite
meridionali, ognuna delle quali realizza la sua proposta di solidarietà fra gli associati
garantendo assistenza durante la malattia e dopo la morte, preoccupandosi della
sepoltura del cadavere e della celebrazione delle SS. Messe in suffragio.
La speranza di essere oggetto di interesse anche dopo la morte esercita nei riguardi
della confraternita un fascino particolare: al conforto che ne ricava il credente, per il
significato stesso del suffragio, si aggiunge infatti l’altro tipo di conforto, forse non
meno importante per chi ha trascorso una vita nella solitudine e nell’abbandono, per
essere finalmente «pensato» da qualcuno.
La vita delle confraternite, insomma, è importante perché rappresenta la vita della
popolazione stessa, perché un funerale è più solenne con la partecipazione dei
confratelli, un processione riesce meglio se si fa in divisa. La confraternita riscatta così
dall’anonimato una popolazione semplice.
Le confraternite, nella quali confluisce un’alta percentuale della popolazione stessa,
identificandosi con essa, tendono a soddisfare le esigenze, da quelle di ordine
materiale (necessità per esempio di una parvenza di vita sociale, specialmente per le
donne, assistenza nelle malattie e nella morte, sepoltura) a quelle di ordine spirituale
(devozione, preghiera, carità, speranza).
Nella confraternita «si sta bene»condividendo la vita e i problemi degli altri, dandosi
una mano scambievolmente «alla buona», vivendo un tipo di religione più popolare
che tridentina, fatta magari più di azioni concrete che di dottrina e per questo forse non
del tutto compresa dall’autorità ecclesiastica.
Le confraternite meridionali sono dunque quel tipo di associazione che può risultare
dalla vita e dai costumi di una popolazione ancora non evoluta che nell’associazione
trova nuove forme di solidarietà, di scambio, di relazioni interpersonali, in momenti
sia felici che dolorosi.
Non a caso infatti, la confraternita entra nel paesaggio delle parrocchie e delle diocesi
in modo così rilevante e non a caso la sua trasformazione e la sua soppressione
lasciano nelle popolazioni vuoto e rimpianto.
L’attività delle confraternite del Mezzogiorno entra completamente in crisi nel periodo
post-unitario non tanto dal punto di vista «quantitativo» (gli iscritti sostanzialmente
rimangono) quanto dal punto di vista qualitativo dal momento che si ha l’impressione
che l’impegno morale che caratterizza la confraternita fin dalle sue prime forme
aggregative subisce un rilasciamento esattamente analogo a quello che si riscontra in
tutto l’ambito parrocchiale, dal clero ai fedeli.
Una motivazione particolare per spiegare questo fenomeno non esiste, ma
probabilmente esso può essere inserito nel più vasto fenomeno di crisi che colpì la
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Chiesa, soprattutto quella meridionale, subito dopo l’unificazione d’Italia 78.
Il programma di rinnovamento proposto da Leone XIII non poteva ignorare le
confraternite che, come le altre istituzioni religiose, ricevettero un nuovo impulso per
la loro rifondazione 79. Esse però non soltanto furono interpretate come l’unico punto
di riferimento laico istituzionalizzato capace di affiancare l’opera del Vescovo,
assicurandone collaborazione per il miglioramento della situazione spirituale e
dottrinale dei fedeli, ma si cercò di individuare nel carattere associativo delle stesse,
quei nuovi elementi di fermento che avrebbero portato qualche tempo dopo con la sua
trasformazione, all’avvio del movimento sociale cattolico 80.
Il fenomeno, riscontrabile a livello nazionale, risultò particolarmente marcato nel
Meridione dove era necessario sensibilizzare la popolazione cattolica per avviare il
programma proposto dalla nascente Opera dei Congressi.
Concludendo potremmo dire che le confraternite meridionali alla fine del secolo XIX
esistevano ancora in quanto numericamente presenti tanto da coinvolgere buona parte
della popolazione dei vari paesi. Si trattava però di una presenza ormai secolare e
codificata dall’abitudine delle varie località, nonché ad esigenze di vita pratica di una
parvenza di vita sociale «consentita» dalla mentalità dell’ambiente, alla calcolata
acquisizione dei diritti di suffragi dopo la morte.
L’appartenenza all’associazione non impegnava però il confratello meridionale, non
operava più in lui quella conversione interna, quell’impegno nelle pratiche religiose
che in altri secoli era stato lo scopo della fondazione delle confraternite stesse.
Note
1 Questo lavoro nasce anche dalla fusione e dalla parziale rielaborazione degli articoli:
M. R. VALENSISE, La parrocchia nella diocesi di Nicastro attraverso la Visita Pastorale di
Mons. Domenico Maria Valensise (1890-1898), «Orientamenti sociali», XXXIV (1981) N. 1,
pp. 129-143; Idem, Problemi pastorali e sociali un una diocesi calabrese attraverso l’epistolario
di Mons. Domenico Maria Valensise, Vescovo di Nicastro (1888-1902), «Sociologia» N.S.,
XIV (1982) n. 2/3, pp. 149-183; Idem, Per una storia delle confraternite nella diocesi di
Nicastro alla fine del sec. XIX, «Studium» (1983), n. 3, pp. 369-388; Idem, Diego Gatta e la
Chiesa ricettizia, «Storia e Politica», XXII (1983), n. 4, pp. 782-800; Idem, La devozione delle
anime pezzentelle» nelle confraternita della SS. Trinità e della Vergine del Rosario alla fine del
secolo XIX, «Rivista Storica Calabrese» N.S. VIII, (1987), pp. 583-591; Idem, Il problema
della confraternita nel giurisdizionalismo napoletano del secolo XVIII attraverso l’opera di
Diego Gatta, «Ricerche di storia sociale e religiosa», XVIII (1989), n. 35, pp. 141-156; Idem,
Le confraternite della diocesi di Nicastro nel periodo post-unitario: metodologia, fonti,
evoluzione diacronica, «Ricerche di storia sociale e religiosa», XIX (1990), n. 36, pp. 100-122;
L. FERRO - M. R. VALENSISE, La congrega di Maria SS. Immacolata e delle Stigmate di S.
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Francesco d’Assisi in Bagnara Calabra, «Rivista Storica Calabrese» N.S.
2 G. DE ROSA, Premessa al volume di V. PAGLIA, «La pietà dei carcerati». Confraternite e
società a Roma nei secoli XVI-XVIII, Roma 1980, p. XII.
3 Ibid.
4 M. R. VALENSISE, Il problema della ..., p. 142.
5 P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, vol. I, Istituto Editoriale
Italiano, Milano 1910, p. 51.
6 Cfr. A. PLACANICA, Chiesa e società nel Settecento Meridionale: clero, istituti e patrimoni
nel quadro delle riforme, Atti del Convegno di Potenza, D’Elia, Roma 1977, 222.
7 Sulla questione del clero A. PLACANICA, Chiesa ..., in particolare il par. 1: Il clero: dal
divieto di nuove ordinazioni alla trasformazione della sua identità sociale.
8 Ibid., p. 228.
9 Ibid.
10 M. R. VALENSISE, Diego Gatta ...
11 A. PLACANICA, Chiesa ..., p. 257.
12 V. PAGLIA, «La pietà dei carcerati» ..., p. 230.
13 Ibid.
14 Ibid., p. 230.
15 Dall’editto del Card. Caracciolo Pro Vicario datato 13 agosto 1716. Tale editto, riportato nel
volume di V. PAGLIA «La pietà dei carcerati» ..., pp. 230-231, proibisce di distribuire
l’elemosina ai poveri in chiesa e alle donne di chiedere la carità durante le ore notturne.
16 P. COLLETTA, Storia del Reame ..., pp. 45-46.
17 M. S. BOEZIO, Introduzione ai Reali Dispacci di Diego Gatta, Napoli 1773.
18 Su Bernardo Tanucci, Atti del Convegno Bernardo Tanucci statista, letterato, giurista,
Napoli, 1983-1984.
19 Sull’argomento cfr. M. R. VALENSISE, Diego Gatta ...
20 Considerata «tra le opere di codificazione più importanti del Regno», G. DE ROSA,
Pertinenze ecclesiastiche e santità nella storia sociale e religiosa della Basilicata dal XVIII al
XIX secolo, «Ricerche di storia sociale e religiosa», IV (1975), n. 78 - n. 5, p. 19.
21 Titoli III - XVII - XX - XXI - XXIV - XXXV - XXXVI - XXXVII.
22 Titolo I, Dissertazione.
23 Titolo III, Dispaccio IV, Palazzo 9 dicembre 1752.
24 Titolo II dei Reali Dispacci.
25 Titolo XXXV, Dispaccio IV, Napoli, 12 maggio 1742.
26 Titolo XXXV, Dispaccio IX, Napoli, 3 ottobre 1761.
27 Titolo XXXV, Dispaccio XV, Napoli, 21 luglio 1753.
28 Titolo XXXV, Dispaccio XIII, Napoli, 15 dicembre 1770.
29 Titolo XXXVI, Dell’amministrazione delle Chiese e dei luoghi pii laicali.
30 Titolo XXIII, Delle Cappellanie e Legati pii laicali e Titolo XXXIV: Della provvista dei
Benefici Ecclesiastici.
31 Titolo XX, Della proibizione di andare questuando in nome dei Santi, delle Chiese e dei
luoghi pii senza la licenza del Re, e Titolo XXI, Delle decime ecclesiastiche.
32 Titolo XVIII, Delle processioni, funerali e delle esequie.
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
33 A. PLACANICA, Chiesa e società ..., p. 259.
34 M. R. VALENSISE, Il problema della ..., 154, in particolare la nota 56.
35 A. PLACANICA, Chiesa e società ..., p. 261.
36 M. R. VALENSISE, Per una storia delle confraternite nella diocesi di Nicastro, cit.
37 Ibid.
38 Titolo XVIII, Dispaccio XVIII, datato Palazzo 1 maggio 1762, firmato Carlo Demarco e
indirizzato al signor Marchese Fraggianni.
39 PIETRO COLLETTA, Storia del Reame ..., p. 153.
40 Cfr. M. R. VALENSISE, Diego Gatta ...; Idem, Il problema della ...
41 Sulla situazione dei cimiteri alla fine del sec. XIX in Calabria risultano particolarmente
interessanti i rapporti dei prefetti: «... uno dei servizi che vieppiù ha richiamata la mia
attenzione è stato quello della tumulazione dei cadaveri che, pel modo come era eseguita,
tornava di gravissimo danno alla pubblica salute - riferisce il prefetto di Cosenza al Ministero
dell’Interno - dei 151 comuni, 51 soltanto erano forniti di cimitero, negli altri il seppellimento
veniva eseguito nelle chiese per tumulazione. A nulla valevano i vivi, continui e persistenti
richiami dacché alla mancanza di mezzi aggiungevasi l’altro serio ostacolo dei popolari
pregiudizi», firmava il prefetto Reichlin, in data 13 febbraio 1884 - A.C.S., Ministero
dell’Interno, Gabinetto, Rapporti dei prefetti (1882-94), busta 6 fasc. 21. Nello stesso periodo
da Reggio Calabria il prefetto Tamajo scriveva: «... un altro servizio abbandonato e che ha
dovuto richiamare la mia attenzione è quello della costruzione dei cimiteri; con rapporti
speciali mi trovo già di aver riferito ed informato il Ministero delle disposizioni date per far
cessare in un tempo più o meno breve il seppellimento dei cadaveri nelle chiese o nei cimiteri
di antico sistema. È da tenere presente che a tutto il 1882 solo 16 comuni avevano un cimitero
costruito con le norme prescritte dalla legge 20 marzo 1865 allegato C e regolarmente
approvato con R. Decreto, settembre 1874. E siccome per le deliberazioni dei Consigli
Comunali compresi quelli delle borgate i cimiteri da costruirsi erano 122, ne segue che, detratti
i 16 anzidetti ne rimanevano 106 quanti appunto sono i comuni che compongono la provincia».
Il prefetto Tamjo al Ministero dell’Interno, Gabinetto, Rapporti dei prefetti (1882-91) busta 14,
fasc. 53.
Anche a Catanzaro la situazione era solo leggermente diversa se il prefetto Movizzo riferiva:
«Un grave inconveniente si deve ancora lamentare per alcuni comuni di questa provincia nella
mancanza del regolare cimitero. Questa prefettura non ha trascurato di rinnovare al riguardo
incessanti sollecitazioni provvedendo anche d’ufficio per la iscrizione delle necessarie quote
nei bilanci comunali, ma qualora si osservi che molti fra questi Municipi hanno bilanci limitati
a tre o quattromila lire, si scorge la difficoltà di imporre loro d’un tratto la forte spesa della
costruzione di un cimitero (...) intanto mi limito ad osservare che l’inconveniente della
tumulazione nelle chiese è quasi del tutto cessato mediante ordinanze emesse dalla prefettura
prescriventi la impiombatura delle sepolture e l’impianto di cimiteri provvisori». Dal prefetto
Movizzo al Ministro dell’Interno. Datata Catanzaro 31 ottobre 1884 - A.C.S. Ministero
dell’Interno, Gabinetto, Rapporti dei prefetti (1882-94) busta 5, fasc. 18. I rapporti sono
riportati in P. BORZOMATI, La Calabria dal 1882 al 1892 nei rapporti dei prefetti, Reggio
Calabria, 1974.
42 Cfr. M. R. VALENSISE, La devozione delle ...
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
43 Ibid.
44 Titolo XVIII, Dispaccio VI, Napoli 22 giugno 1754. Il marchese Fraggianni alla Regia
Udienza di Trani.
45 Titolo XVIII, Dispaccio III, Napoli 11 novembre 1751. Il marchese Brancone al Signor
Preside ed udienza di Matera.
46 Titolo XVIII, Dispaccio IV, Napoli 17 novembre 1753. Il marchese Brancone al Regio
Governatore di Barletta.
47 Titolo XVIII, Dispaccio V, Napoli 15 dicembre 1753. Nicola Fraggianni.
48 P. ARIÈS, L’uomo e la morte dal medioevo a oggi, Bari, Laterza 1980, p. 52.
49 Ibid., p. 64.
50 «... comecché fin dal 1764, per ragion della epidemia che correa in questa capitale, si ordinò
chiudersi le finestre delle terre sante e sepolture che sporgeano fuori le pubbliche strade; da
Supperiore della Congregazione della Concezione posta nel vicolo di San Ligorio si è
supplicato al Re per la permissione di aprire le lustriere della terra santa della propria
congregazione, ad oggetto di celebrarvisi le Messe. E Sua Maestà dopo aver inteso il
Soprintendente e la Deputazione Generale della Salute, che an (sic!) rapportata la
determinazione, che sovranamente si prese à 18 marzo del 1763, di seppellirsi li cadaveri nelle
terre sante otto palmi sottoterra ben battute; è venuta a risolvere che nommeno alla
congregazione suddetta che ad ogni altra, o Luogo Pio, che avesse terre sante con lustriere che
sporgessero in mezzo alle pubbliche strade, e si volessero tenere aperte, se li conceda di poterle
aprire; ponendovisi però le vetrate fisse, e ben commesse con graticcia di ferro al di fuori, onde
non così facilmente si rompono li vetri; e ricevendosi l’obbligo penale de’ Supperiori e de’
Fratelli delle Congregazioni, o Luoghi pii non solo di non mai togliere o aprire le vetrate
suddette, e di farvi subito riporre i vetri, che mai si rompessero, ma benanche di far seppellire i
cadaveri che vi s’intromettevano, otto palmi sottoterra ben battuta, secondo la cennata regola
determinazione del 1763. Di sovrano comando partecipo a V.S. Illustrissima tale real ordine
acciò lo intimi a tutte le Congregazioni e Luoghi pii di questa Capitale, per la esecuzione;
avendone la Maestà Sua dato il corrispondente avviso al Delegato ed à Deputati Generali della
Salute, per il canale della Real Segreteria di Azienda». titolo XVIII, Dispaccio XXII, Palazzo
6, Luglio 1769. Carlo Demarco al Signor Cavaliere Vargas.
51 V. PAGLIA, La morte confortata. Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’età
moderna. Ed. Storia e Letteratura, Roma 1982, p. 43.
52 - «Le confraternite della Buona Morte - dice infatti Paglia - per lo più nascono nell’ambito
del movimento penitenziale dei secoli XIII-XIV. La sepoltura dei cadaveri intesa come rito
umiliante è un modo di espiazione volontaria delle colpe. Si tratta di una penitenza che,
liberamente compiuta, diviene meritoria. E con l’affermazione della teologia del Corpo Mistico
avvenuta in quei secoli è possibile estendere questi meriti a tutti, particolarmente ai poveri.
L’attenzione verso questi ultimi riecheggia la beatitudine promessa a coloro che seguono
l’esortazione evangelica (...). La pericope evangelica non parla, in verità, della sepoltura dei
morti, è la sensibilità medioevale ad aggiungere quest’ultima opera di carità, la settima. La
concomitanza con lo sviluppo delle Confraternite fa supporre il decisivo loro apporto nella
diffusione di questa opera di misericordia», ibid., p. 44.
53 Articolo 1 dello Statuto della Confraternita dell’Addolorata e della Buona Morte di
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
Nicastro, in P. BONACCI, S. Teodoro, il rione più antico di Nicastro, Lamezia Terme 1971, p.
86.
54 Ibid., articolo XV dello Statuto.
55 Ibid., articolo XI dello Statuto. Il decreto di erezione, con lo statuto e l’elenco dei fondatori,
Priore e confratelli, si trova presso l’ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA CHIESA DEL
SS. ROSARIO in Cittanova. È un volume in pergamena, manoscritto, in ottimo stato di
conservazione e consta di 18 pagine non numerate.
56 Ibid., articolo XII dello Statuto.
57 Titolo XVIII, Dispaccio I, Palazzo 18 aprile 1740. Il marchese Brancone.
58 «... in quei tempi era anche molto sentito il diritto di precedenza, per difendere il quale
spesso avvenivano delle lunghe dispute - dice Bonacci a proposito della Confraternita della
Beatissima Vergine Addolorata e della Buona Morte. Il diritto di precedenza consentiva a chi
lo possedeva di occupare, durante le processioni, un posto più vicino al Vescovo ed al Capitolo
della Cattedrale. Secondo le disposizioni contenute nel citato Decreto la confraternita
dell’Addolorata, come ultima arrivata, doveva porsi all’ultimo posto e quindi alla testa del
corteo ...», P. BONACCI, S. Teodoro, il rione più antico di Nicastro, Lamezia Terme 1971, p.
94. Per datare la confraternita, possiamo riprendere le parole dello stesso Bonacci che dice: «la
prima notizia sulla congrega dell’Addolorata la troviamo nella Relatio ad Limina di mons.
Domenico Angeletti nel 1726», ibid., p. 83.
59 Cfr. M. R. VALENSISE, La devozione delle ...
60 Titolo XVIII, Dispaccio I, Palazzo 18 aprile 1740. Il marchese Brancone.
61 Titolo XVII, Dispaccio II, Napoli 10 dicembre 1768. Carlo Demarco al signor Preside di
Trani. «La sperienza - dice il Dispaccio - ha fatto conoscere al Re che le processioni che si
fanno di giorno dopo pranzo in vece di riuscire di onor di Dio e de’ Santi e di essere motivi di
pietà vera e soda religione, siano occasioni di risse, scandali ed altri disordini, che dissonorano
la religione medesima. Perciò Sua Maestà ha risoluto che le processioni tutte si facciano di
mattina e non mai di giorno dopo il pranzo e mi ha comandato di prevenire a V.S. Illustrissima
acciò disponga la osservanza di questa generale real risoluzione per tutti i luoghi della sua
Provincia, con parteciparla à corrispettivi governatori e a’ vescovi e ad altri Prelati della
diocesi, per loro intelligenza; ed affinché così facciano inviolabilmente osservare da’ cleri
secolari e regolari e dalle confraternite tutte».
62 Titolo XVII, Delle processioni in onore di Dio e dei Santi, Dispaccio I, datato Napoli 10
maggio 1775 e firmato il marchese Brancone al signor Governadore di Conversano.
63 Molto tempo dopo a Nicastro, racconta Pietro Bonacci, «La Congrega di Maria SS.
Addolorata nella chiesa parrocchiale di S. Teodoro (...) soleva fare per la città due processioni
sacre con il simulacro di Maria SS. Addolorata: l’una il Giovedì Santo alla sera e l’altra il
Venerdì Santo al mattino. La prima processione intanto era diventata occasione di disordini
morali poiché profittando delle tenebre, uomini e donne manomettevano le leggi della
pudicizia», motivo per cui l’Ordinario l’aveva proibita causando una rivolta popolare. Senza
volere entrare nel merito della questione, perché non sarebbe nei limiti che il presente lavoro si
propone, riprendiamo le parole di Bonacci che dice: «non ce la sentiamo di condividere
l’opinione circa i disordini morali che sarebbero successi durante la processione serotina
annuale, fatta dalla Congrega. I partecipanti infatti erano tutti del rione e in fatto di
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IL PROBLEMA DELL’ASSISTENZA NELLA POLITICA DEL MEZZOGIORNO E IL RUOLO DELLE CONFRATERNITE
comportamento morale c’era (...) il massimo rispetto reciproco. La pesante opinione espressa
certamente in buona fede dal Vescovo del tempo, possiamo però anche spiegarcela (...) con un
concetto negativo delle congreghe, (la sua avversità) sempre per motivi morali alle funzioni
sacre che non finissero al tocco dell’Ave Maria». P. BONACCI, S. Teodoro ..., p. 96.
64 Titolo XVIII, Dispaccio XXIII, Napoli 13 febbraio 1756.
65 Titolo XVIII, Dispaccio V, Napoli 15 Dicembre 1753. Nicola Fraggianni.
66 Ibid.
67 Titolo XVIII, Dispaccio VIII, Napoli 7 giugno 1775. Il marchese Brancone al signor
Governadore di S. Antimo.
68 Sull’argomento cfr. V. PAGLIA (a cura di), La sociabilità religiosa nel Mezzogiorno: le
confraternite laicali, in «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», anno XIX (1990), N.S., n. 3738.
69 G. ESPOSITO, Per una storia delle Confraternite del Rosario in Calabria, appunti e note,
«Rivista Storica Calabrese», N.S., I (1980), n. 1, p. 151.
70 Cfr. F. CORTESE, Sbarco, cattura e fucilazione di G. Murat a Pizzo Calabro nel 1815,
Cosenza 1977.
71 M. R. VALENSISE, Le confraternte ...
72 Idem, La parrocchia nella diocesi ..., Idem, Per una storia delle confraternite ... cit.; Idem,
Problemi sociali e religiosi ...
73 F. RUSSO, La diocesi di Nicastro, Napoli 1958, p. 189.
74 Ibid., p. 189.
75 M. R. VALENSISE, Problemi pastorali ..., pp. 171-173.
76 F. RUSSO, La diocesi di Nicastro ..., p. 189.
77 M. R. VALENSISE, Per una storia delle confraternite ...
78 P. BORZOMATI, Studi storici sulla Calabria contemporanea, Chiaravalle Centrale 1972.
79 Cfr. M. R. VALENSISE, La parrocchia nella diocesi ...; Idem, Problemi pastorali ...
80 «È significativo - dice Paglia - che alla fine dell’800 nell’Archivio Segreto Vaticano il
nascente movimento sociale cattolico viene catalogato sotto la voce «confraternita». Alla
rubrica 12 sono indicate sotto la voce confraternita «le società cattoliche e i congressi». V.
PAGLIA, La pietà dei carcerati ..., p. 246.
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
Gianfausto Rosoli †
Premessa
La diffusione delle confraternite tra gli emigrati italiani all’estero, benché ancora poco
approfondita in sede scientifica, è fenomeno rilevante e indiscusso; esso rientra nel più
ampio contesto delle manifestazioni di socialità e religiosità espresse dal vasto e
complesso movimento migratorio italiano all’estero. Una qualificata ed ampia
letteratura ha approfondito ormai la natura e le caratteristiche del fenomeno migratorio
italiano, a livello nazionale e regionale, che prende piede soprattutto dopo l’Unità
italiana 1. La progressione dell’esodo, che raggiunge la sua massima intensità dopo
l’inizio del XX secolo, con oltre mezzo milione di espatri l’anno, è costante.
Dall’inizio delle rilevazioni statistiche (1876) fino alla prima guerra mondiale ben 14
milioni di italiani sono emigrati all’estero, di cui oltre la metà nelle Americhe. In
America Latina si erano già insediate importanti comunità di liguri e piemontesi, che
eserciteranno una forte influenza sulla massa dell’emigrazione di lavoro che arriverà
successivamente.
Il fenomeno delle confraternite si sviluppa e si alimenta dello stesso sostrato
dell’associazionismo italiano, che all’estero si riproduce in forme simili a quelle della
terra di origine e in numero ancora più elevato per rispondere ai bisogni accresciuti
della massa emigrata e alle sfide dell’isolamento e dello sradicamento. Si può in
sintesi ritenere che gli stessi modelli organizzativi confraternali che si sono diffusi in
Italia abbiano anche prosperato all’estero. Del resto questo parallelismo si ritrova in
tutti i campi, inclusa l’estrazione sociale degli associati, riguardante oltre ai notabili e
professionisti la gran massa di contadini e operai. Anche la problematica religiosa
registra in concreto espressioni e tensioni religiose simili a quelle sperimentate in
Italia, quali la recriminazione per lo scarso impegno spirituale dei consociati, i
contrasti con il clero circa l’indirizzo religioso delle confraternite ed eventuali
deviazioni. Non mancano certo gli aspetti originali sollecitati dalle nuove realtà
straniere o legati all’azione di una gerarchia a volte più attenta, a volte meno sensibile
verso queste società.
Nel complesso, nonostante l’importanza del fenomeno, gli studi sulle confraternite
religiose degli emigrati italiani sono assai rari, anche se non mancano cenni, specie
nella storia delle parrocchie nazionali italiane in America 2. Alla grave lacuna,
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
riscontrabile anche nella storiografia cattolica, hanno in parte rimediato alcune
ricerche di storia sociale e religiosa, condotte negli Stati Uniti e nel Brasile
meridionale in seno alle comunità di origine italiana 3. Per l’Argentina il fervore di
ricerche avviato recentemente dal CEMLA con le iniziative di conservazione del
patrimonio archivistico sta confermando, nei lavori pubblicati e presentati in occasione
di convegni, la vastità e complessità del mondo associativo italiano, sia laico che
confessionale 4. L’emergere del ruolo dell’educazione popolare - aspetto assai
importante nei processi di modernizzazione e che prospera nell’ambito delle iniziative
delle comunità etniche - non ha fatto che espandere l’ambito degli interventi
inizialmente promossi dalle società di mutuo soccorso di ispirazione mazziniana e
anticlericale e poi da quelle di ispirazione cattolica. Queste erano legate alle
congregazioni religiose dedite all’educazione, soprattutto ai salesiani, in grado di
incidere più fortemente nella società locale, anche per la loro impostazione non
separatista dal punto di vista pedagogico scolastico (al contrario delle scuole delle
società laiche) 5. Ma anche altre iniziative sono nate dal mondo confraternale, pur
differenziandosi poi nel loro sviluppo evolutivo.
In questa nota, solo esplorativa e certamente sommaria, cercheremo di tracciare un
quadro storico del mondo confraternale italiano all’estero, inserendolo nel più vasto
contesto dell’associazionismo italiano e delle tensioni sociali e culturali che hanno
percorso le comunità italiane tra l’Ottocento e i giorni nostri.
L’universo diffuso - ma difficilmente ponderabile - dell’associazionismo
cattolico all’estero
A dispetto della considerevole entità numerica e della capillare distribuzione sul
territorio, l’associazionismo cattolico degli emigrati italiani nelle Americhe non si
presenta neppure di facile quantificazione. Le ragioni sono varie e legate anche al tipo
di fonti disponibili, specie quelle ufficiali del Ministero degli esteri sulle società
italiane all’estero, che in periodo di accesa polemica tra stato e chiesa hanno di
proposito sottostimato o del tutto trascurato le associazioni con finalità religiose o
legate al mondo cattolico. Già Angelo Scalabrini, agli inizi degli anni ’90, poteva
osservare che delle 214 società italiane rilevate nelle regioni del Plata nessuna aveva
carattere religioso e tanto meno l’aveva l’unica che si denominava «Amici del
Vaticano», il cui nome era «l’opposto della sua indole» 6.
Se è difficile quantificare le associazioni di stampo cattolico attraverso la
documentazione ufficiale più nota, è possibile invece avere un’idea almeno della parte
più corposa dell’associazionismo, che in sostanza può essere fatto coincidere con il
mutualismo. Le società italiane all’estero sono state oggetto di indagine da parte del
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
Ministero degli esteri nel 1896 e nel 1908. Nella sua approfondita ricerca, Giuseppe
Prato, il primo valido studioso del fenomeno dell’associazionismo italiano all’estero,
ha analizzato le caratteristiche del fenomeno quale risultava dall’inchiesta del
Ministero degli esteri del 31 gennaio 1896. In quella data venivano rilevate 1.159
società italiane nel mondo (di cui 302 in Argentina e 427 negli Stati Uniti) per un
totale di circa 200 mila iscritti. Prato successivamente prolungava l’analisi fino al
1906, attraverso le informazioni dei rapporti consolari, riscontrando già dopo l’inizio
del secolo una tendenza alla diminuzione delle società, a seguito di fenomeni legati al
consorellismo e alla concorrenza del movimento operaio, specie in Europa 7.
Il «Bollettino dell’emigrazione» del 1908 pubblicava l’elenco delle società all’estero:
si trattava di 1.190 società italiane all’estero, in prevalenza società di mutuo soccorso
(con l’eccezione di un centinaio), con un totale di 230.000 soci. La metà dei soci si
trovava in Argentina, il che conferma, ancora una volta, la natura popolare delle
società italiane in quella nazione. Risulta confermata anche la tendenza del
mutualismo a seguire le grandi direttrici dell’emigrazione, con particolare riferimento
alle comunità stabili insediate nelle Americhe, specie in America Latina dove si
concentra circa la metà di tutte le società. Contro 171 società esistenti in Europa e le
415 in USA, si contavano allora ben 576 in America Latina. Di queste la stragrande
maggioranza (302) erano in Argentina con 124.000 soci, contro i solo 9.000 soci nel
Brasile 8.
Il recupero della socialità comunitaria secondo i modelli (organizzativi, culturali e
politici) della società di origine sembra quindi avvenire soprattutto in Argentina, dove
la base associativa è veramente ampia. E invero non è sfuggito anche agli osservatori
contemporanei il fatto di questo tempestivo e duraturo rafforzarsi dei sodalizi italiani
in nazioni straniere. Secondo le elaborazioni del Barbieri, che nel 1907 confrontava il
movimento mutualistico italiano all’estero con quello esistente in patria, il numero
medio di soci per ciascuna società era più elevato all’estero che in Italia: 192 contro
145. Anche il capitale medio per società era il doppio all’estero rispetto all’Italia (£
24.000 per società contro 12.000), così come la compartecipazione al capitale per
socio (124 contro 82). Non era azzardato avanzare l’ipotesi che l’istituzione
mutualistica fosse tipica dell’emigrazione italiana e più confacente alle sue esigenze
solidaristiche e associazionistiche. Il rapporto tra «mutualisti» e popolazione italiana,
che era calcolato dal Barbieri per il 1907 nel 28,8 per mille, risultava raddoppiato nel
caso della popolazione italiana all’estero (rapporto del 53,2 per mille), su una
popolazione emigrata allora calcolata in 4.300 mila individui 9.
In questo contesto il contributo della comunità italiana in Argentina appariva
determinante, confermato anche dal censimento argentino del 1914 (con 460
associazioni italiane e 166.000 soci contro le 250 spagnole e 110.000 soci).
Considerando i soli maschi e le aree urbane si poteva stimare che un italiano su tre era
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
membro di qualche società italiana in Argentina 10.
È evidente che questa esperienza associativa degli emigrati all’estero abbia preceduto i
fenomeni di organizzazione proletaria, verso i quali si è avuto un confluire non sempre
naturale e pacifico, anzi a volte dei conflitti. Le società più sintomatiche si rivelavano
quelle a compiaciuta impostazione regionale o campanilistica, soprattutto negli Stati
Uniti dove la componente meridionale più facilmente aveva trasferito i suoi modelli.
In America Latina, dove si era insediata una significativa quota di esuli politici, questo
non impedì l’iniziale impostazione aconfessionale e apolitica delle società, anche se
puramente formale, come è noto. Tuttavia anche questo carattere favorì il diffondersi,
soprattutto qui, di quelle società presso gli emigrati nel loro insieme, inclusi i cattolici.
Significativamente lo stesso don Bosco dava la sua adesione, nel 1865, alla società
«Unione e Benevolenza» di Rosario, in spirito di solidarietà ai suoi connazionali
emigrati, in un’epoca in cui non aveva ancora progettato l’invio dei suoi missionari in
Argentina 11.
Le forme di società diffusa, che potremmo definire di natura prepolitica, sono state
realizzate dagli emigrati in misura massiccia e tempestiva. Si può in un certo modo
ribaltare l’affermazione un po’ apodittica di Oscar Handlin, secondo cui le forme di
vita degli immigrati in America sarebbero un prodotto delle condizioni locali
americane 12. L’integrazione tra i due sistemi procede, ma la conservazione delle
strutture sociali e culturali del Vecchio Mondo nella prima fase risulta ancora
accentuata. L’assimilazione alla American way of life non è stata subito vincente e
non certo automatica, ma lungo percorsi più complessi e contorti dove la
conservazione del patrimonio di origine, per la sua funzione identitaria, può durare a
lungo.
Forme e funzioni dell’associazionismo cattolico degli emigrati.
Considerando gli emigrati italiani nelle Americhe nel secolo scorso, può essere utile
dal punto di vista ermeneutico distinguere tra aree di insediamento rurali ed urbane. In
effetti soprattutto le aree rurali delle Americhe hanno visto il rafforzarsi delle forme di
socializzazione più tradizionali e a volte scontate, ma in realtà (si badi bene) nuove per
il contesto di insediamento e di primo popolamento. Di regola esse ruotavano attorno
alle ricorrenze religiose, sia domenicali che delle maggiori solennità liturgiche, che
informavano tutti gli aspetti della vita contadina e animavano anche la comunità civile
nel suo insieme. Alcune ricerche storiche l’hanno ben delineato, sopprattutto nel caso
dell’America Latina, dove si realizzò per molti non solo la prospettiva del possesso
della piccola proprietà terriera, ma anche la ricomposizione di un tessuto sociale simile
a quello originario con tanto di chiese, di capitelli e di sacerdoti connazionali. Beozzo
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Bassanezzi ha illustrato, ad esempio, la vita della fazenda paulista scandita dalle feste
religiose 13.
Ma a ben guardare, anche in alcune enclaves urbane degli Stati Uniti, tenute insieme
dagli stretti legami paesani, le forme sociali ed associative legate più alla «paesanità»
che all’erogazione di concreti servizi sociali hanno pur sempre permesso la
sopravvivenza del dato etnico culturale con risultati non proprio così dissimili: non per
nulla la qualifica di «urban villagers» di Gans ritrae bene la condizione complessa di
convivenza di forme di vita legate al mondo rurale del Vecchio Mondo con le forme
nuove 14.
Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, è noto come nella seconda metà dell’800, si
avverta il bisogno di un rinnovamento del discorso teologico e pastorale anche verso le
masse, reso più evidente dal Concilio Vaticano I. Sotto Pio IX, per poi allargarsi
durante il lungo pontificato di Leone XIII, si affermano nuove forme di aggregazione
laicale, con una articolazione molto differenziata nei vari contesti. Nascono
associazioni, di cui fanno parte laici e sacerdoti, per la formazione interiore del
cristiano e l’imitazione delle virtù di Cristo, in opposizione ai circoli culturali colti di
ispirazione liberal borghese. Anche le Pie Unioni riconducono a nuove forme
devozionali di impostazione cristologica, in cui non mancano la spinta al servizio e
alla diaconia alla Chiesa e la fedeltà al papa 15.
L’impulso al rinnovamento della Chiesa in molte regioni dell’America si afferma
come esigenza per combattere il liberalismo e un sistema immobilista, basato in
America Latina sul patronato regio (che implicava un controllo del potere politico su
tutti gli uffici ecclesiastici, dal vescovo al sagrestano), e sulla non interferenza di
Propaganda Fide nella politica ecclesiastica locale, spesso supinamente legata al
potere politico. L’emigrazione europea di massa in America Latina e la conseguente
presenza di clero europeo per assisterla, in ultima istanza, ha rivoluzionato i rapporti di
forza, consolidando i legami con la Santa Sede, soprattutto per la presenza di molte
congregazioni religiose di tipo moderno e appena approvate dal papa. Anche lo stesso
modello di parrocchia, portato dagli emigrati costituì indubbiamente un elemento di
modernizzazione nella Chiesa locale, almeno latinoamericana, per i suoi caratteri più
dinamici e di apertura alle istanze sociali, culturali e operaie della base ecclesiale. Se
ne può trovare una conferma nella presenza salesiana in America Latina con la sua
ampia incidenza che va dall’espansione missionaria alla cultura cattolica popolare.
Pur volendoci limitare prevalentemente al mondo confraternale, è bene ricordare il
contesto attorno a cui esso nasce, si distingue e a volte si contrappone: la realtà della
parrocchia moderna. Attorno alla struttura cardine della parrocchia, ruota una pluralità
di istituzioni cattoliche, vecchie e nuove al tempo stesso. La parrocchia, tanto nel
Mezzogiorno che nel Settentrione e nelle comunità all’estero, si rivela nell’epoca
contemporanea una istituzione polivalente, agente di modernizzazione non meno che
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
di legame con la tradizione; essa è l’alveo in cui nasce o di cui si nutre una miriade di
istituzioni sociali cattoliche: devozionali e confraternali, di carità, beneficenza e
assistenziali, culturali, di svago, della buona stampa, studentesche, operaie, di impegno
missionario, e così via 16.
Specialmente nelle aree rurali dell’America Latina si afferma un ruolo nuovo del
laicato collaboratore nel messaggio di evangelizzazione, data la scarsità di clero: o
«padre leigo» del Brasile meridionale è insieme catechista, capo della comunità che
prega ma anche maestro di insegnamenti morali. Forse la scarsa propensione agli
aspetti dottrinali nella vita di alcune Chiese trae origine anche da questo elemento di
vita quotidiana. Vi è qui un ulteriore elemento di differenziazione del mondo
confraternale all’estero, in particolare per quanto riguarda l’aspetto della predicazione
laicale.
L’associazionismo devozionale e confraternale degli italiani all’estero
Nel complesso, pare di dover ritenere che il movimento confraternale all’estero sia
stato notevolmente sottostimato, o addirittura non rilevato. Tuttavia queste società si
ritrovano tempestivamente tra gli emigrati italiani e le prime confraternite sono state
determinanti nell’orientare in senso positivo la loro azione religiosa e sociale. Basti
pensare alla confraternita della «Mater Misericordiae», istituita nel 1855 a Buenos
Aires da emigrati savonesi: essa sarà determinante, nel lungo periodo, per tutte le
iniziative religiose a favore degli italiani, incluso l’arrivo dei salesiani nel 1875, la
fondazione di un Segretariato del Popolo all’inizio del secolo e infine anche di un
movimento a carattere politico, quale il Segretariato Italo-Argentino. Lo stesso dicasi
per la Confraternita della Madonna dell’Orto di Chiavari operante a Montevideo nel
1858, attorno all’istituzione assistenziale delle suore di Sant’Antonio Maria Gianelli
per il nuovo ospedale della città 17.
Il mondo devozionale e confraternale italiano all’estero, benché di assai difficile
quantificazione, ha rappresentato un fenomeno di vastissima portata che ha interessato,
seppur con diversa intensità, tutte le parrocchie di immigrati. Il filone più tradizionale,
legato alle feste e ai santi del paese di origine, ha resistito in forme più vistose. Le
confraternite dei santi patroni (ed eventualmente i comitati della festa) ne sono state
l’espressione più concreta. Ma accanto ad essi si è sviluppato un fiorire di gruppi,
meno identificabili nel nome, essendo identico alle associazioni religiose diffuse quasi
dovunque nel mondo cattolico all’estero, ma in realtà percorse da una cultura
immigrata; anche se si trattava delle congregazioni mariane, delle Società di Maria, del
S. Nome (molto diffuse negli Stati Uniti tra gli irlandesi), delle confraternite di S.
Giuseppe, del Santissimo Sacramento, della Santa Infanzia, e di numerose altre.
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
Il legame tra i soci era di tipo sostanzialmente devozionale, mirante a rinsaldare nella
ricorrenza la vita cristiana e l’adempimento dei doveri religiosi. Ma le espressioni
passavano pur sempre attraverso la cultura popolare e solidaristica propria delle
comunità emigrate, favorendo gli incontri sociali, gli scambi di favori, le occasioni per
cementare quella solidarietà quotidiana così necessaria nei primi tempi
dell’insediamento.
Alcune aree di emigrazione sono state più studiate, come nel caso del Rio Grande do
Sul e di alcune realtà parrocchiali degli USA. Ad esempio, i lavori, coordinati da
Rovilio Costa, di storia e antropologia religiosa sulle comunità italiane del Brasile
meridionale illustrano non solo il mantenimento della dimensione religiosa delle feste,
ma anche la conservazione delle credenze, degli usi, tradizioni religiose, delle
confraternite devozionali degli emigrati 18. Una importanza del tutto singolare
acquistano le feste, siano a carattere regionale o meno, per la funzione identitaria che
svolgono nei confronti del gruppo di origine.
La festa religiosa diventa quindi un topos importante da analizzare: essa non si
presenta certo immutabile, anche se scaturita dalla tradizione, ma è oggetto di continue
sollecitazioni pratiche e simboliche da parte della comunità etnica non meno che di
quella locale, conservando a volte a lungo i suoi caratteri specifici, altre volte
perdendoli in un più celere processo di assimilazione, non senza lasciare, allora, un
segno profondo nei caratteri della società locale 19 (infatti alcune delle feste più
popolari oggi nei quartieri delle metropoli americane sono la continuazione e
l’adattamento di feste patronali degli immigrati).
All’insegna della festa si verifica un intreccio inevitabile di socialità spontanea e
tradizionale, con scadenze che non sono più solo religiose o confessionali. In effetti i
processi di socializzazione obbediscono ad una stessa logica e ad una stessa funzione,
tanto nel campo strettamente religioso come in quello laico e perfino in quello
politicizzato. Le dinamiche di socializzazione sono state più intense in direzione di
alcuni settori: si pensi ai giovani e alle attività associative rivolte alla loro animazione
20.
Già nel suo saggio del 1902, lo studioso Giuseppe Prato, dopo aver elaborato una
precisa tipologia delle società italiane all’estero (e studiato gli statuti, gli
amministratori e i patrimoni), osservava a proposito delle confraternite lo stretto
legame tra religione e associazione. Sottolineava con acutezza che «il desiderio di
provvedere al culto religioso manchevole costituì dovunque uno degli incentivi più
efficaci all’esplicarsi delle attitudini istintive di solidarietà nazionale». Una
quantificazione di queste confraternite e fabbricerie, esemplificate soprattutto nella
tenace religiosità veneta in Brasile, risultava a suo giudizio difficile. Esse apparivano
nel complesso assai diffuse, come sottolineavano vari consoli nei loro rapporti. Il
console Pio di Savoia riscontrava nello stato di Santa Caterina «in ogni nucleo italiano
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
una chiesa dedicata al santo della città o del villaggio natio (48 in tutto) e mantenuta a
cura di apposita consociazione pia» 21.
Per il Nord America, a titolo di esempio, Prato citava 5 confraternite religiose a New
York, 9 a Filadelfia, 4 a Boston e altrettante a New Orleans, tutte dedicate ai santi
patroni di origine. Egli sottolineava con forza che le associazioni religiose erano state
grandemente sostenute nelle Americhe dall’opera dei missionari per gli emigranti di
mons. Giovanni Battista Scalabrini 22 come in Europa da quelli di mons. Geremia
Bonomelli. Queste società religiose rafforzavano la portata della solidarietà, anche in
senso spirituale, ed esaltavano dal punto di vista sociale il momento della festa, che in
genere coincideva con quella del santo del paese, celebrata con grande pompa e non
senza qualche esagerazione esterna, com’egli sottolineava.
Per quanto riguarda l’impegno spirituale delle confraternite italiane, non sarà difficile
trovare nei giudizi dei sacerdoti di emigrazione verso le confraternite religiose
all’estero valutazioni simili a quelle espresse in Italia da mons. Monterisi e da
numerosi altri vescovi meridionali e settentrionali 23. I giudizi severi erano dettati
dalla trascuratezza della vita spirituale dei confratelli, dall’assenteismo alle funzioni
religiose, da alcune deviazioni morali, dalla pratica religiosa mancante o saltuaria:
tutto ciò che denotava una scarsa pietà vera in rapporto all’atteggiamento festaiolo e
all’amore ai solenni riti esterni, pur motivati dalla devozione al santo patrono.
La documentazione su aspetti che risultano centrali per la conoscenza dello sviluppo
delle confraternite - quali la vita spirituale dell’associazione regolata dagli statuti, la
pietà individuale e collettiva, la formazione religiosa personale, soprattutto dei
dirigenti, il rapporto con il clero locale - risulta di difficile reperimento soprattutto per
le confraternite all’estero. Risulta arduo, quindi, tracciare una fisionomia precisa e
dall’interno di queste istituzioni e delle loro trasformazioni nel tempo. Tuttavia alcuni
episodi sono significativi della complessità e conflittualità dell’ambito religioso e dei
rapporti con il clero.
Per gli Stati Uniti emblematico è il caso della colonia italiana a New Orleans negli
anni 1890, dove si era insediata, già dopo il 1870, una consistente comunità siciliana e
dove esistevano varie società mutualistiche e confraternali (tra le più importanti quella
di S. Rosalia e della Madonna della Favara di Contessa Entellina). A giudizio del
missionario scalabriniano P. Giacomo Gambera, esse «erano presiedute quasi tutte da
persone deficienti affatto delle più elementari qualità per elevare moralmente i loro
associati». Circa le confraternite, «molte Società portano il nome del Santo Patrono del
loro paese e ne celebrano l’annua solennità, con parate dispendiose e clamorose, e con
una Messa ed anche il Panegirico. Ma poche volte le Società sono presenti in Chiesa.
Tutto incomincia e tutto finisce all’esterno» 24. Il giudizio severo si motivava con la
tiepidezza della vita religiosa e la mancanza di sostegno a portare avanti anche solo il
mantenimento di un luogo di culto proprio per la comunità italiana. Maggiore successo
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
ottenne il missionario nel campo della carità e dell’assistenza allorché, chiamata in
città nel 1892 madre Francesca S. Cabrini, si riuscì per lo zelo dinamico della santa ad
avviare, nonostante le ristrettezze e mille difficoltà, un orfanotrofio e un piccolo
ospedale per gli italiani colpiti dalle epidemie di colera. Sul piano confraternale più
religiosamente impegnato, P. Gambera promosse la Confraternita di S. Francesco delle
Sacre Stimmate con 280 soci che si impegnavano a contribuire anche alla costruzione
della progettata chiesa versando 5 o 10 soldi la settimana 25.
Nel caso della comunità italiana di Boston, attorno alla Confraternita di San Marco si
era costituito, già nel 1889, il gruppo promotore per un’assistenza religiosa degli
italiani del North End e che riuscirà a avviare la parrocchia del Sacro Cuore diretta dai
missionari scalabriniani per gli emigrati italiani» 26.
Difficoltà non dissimili sul piano della vita spirituale dei confratelli aveva trovato in
Argentina don Giovanni Cagliero, lo zelante missionario inviato da don Bosco nel
1875 a Buenos Aires per assistervi gli italiani. Il salesiano aveva trovato attorno alla
Confraternita della «Mater Misericordiae» - dotata dal 1871 di una splendida chiesa il fulcro religioso vero della comunità italiana. Ma i soci della confraternita non
brillavano per impegno religioso; e don Giovanni Cagliero colse l’occasione del suo
incarico di assistente spirituale per imporre rigorose norme di vita cristiana attraverso
un nuovo regolamento approvato dall’arcivescovo di Buenos Aires. Con questo si
avvantaggiò per ottenere un accordo per l’uso della chiesa per l’intera comunità
italiana e per le opere salesiane, ma soprattutto per attuare nel 1876 una colossale
«purga» dei confratelli non praticanti (cioè che non avevano adempiuto il precetto
pasquale), poco esemplari o ritenuti filomassoni: ne venne espulsa la maggior parte,
ben 500 su 600. Divenuti così padroni del campo, i salesiani potevano ottenere
l’amministrazione della chiesa e garantirsi una linea di rinnovamento sostenuta dalla
rielezione dell’intero consiglio della confraternita e dall’elezione del nuovo priore
Romolo Finocchio, cattolico «tutto d’un pezzo, che non aveva nessunissima paura dei
massoni» 27. Il rinnovamento spirituale della confraternita in questo caso era
testimoniato, nel 1877, da don Costamagna a don Bosco, commentando la fervorosa
vita di pietà dei confratelli divenuti quasi tutti cooperatori salesiani: «i quali ogni
mattina assai per tempo vengono alla 1.a Messa, dicono forte le loro orazioni ed il S.
Rosario e fan la loro Comunione, alla sera poi intervengono di nuovo e cantan lodi alla
«Mater Misericordiae» e le ripetono di nuovo il S. Rosario. Ma le loro preghiere son
fatte così di cuore, ma il loro esteriore è sì devoto!» 28.
La sorte toccata alla confraternita della «Mater Misericordiae» si può considerare
abbastanza eccezionale nel panorama delle numerose confraternite italiane all’estero, a
motivo della forte personalità dei primi salesiani. Ma numerose altre confraternite
nella capitale furono coinvolte nel rinnovamento spirituale e devozionale, quali quelle
del Cristo di Sestri, della Madonna di Corsignano, della Guardia di Polcevere, della
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Madonna della Valle, di N.S. di Pompei, del S. Rosario, S. Costanzo, S. Lucia, S.
Michele, S. Rocco e varie altre 29. Tridui e novene in preparazione della festa erano
predicati in continuazione dai salesiani, che diffusero grandemente anche la devozione
della Madonna della Guardia alla quale eressero un santuario a Bernal presso Buenos
Aires.
L’evoluzione delle confraternite italiane in America tra ’800 e ’900
Nelle Americhe, sia del nord che del sud, la diffusione delle devozioni degli emigranti
è stato un fenomeno capillare. I segni si ritrovano ancora nel nome delle chiese e nel
titolo delle parrocchie create dagli emigrati, nomi che riprendono soprattutto quelli
delle grandi devozioni alla Madonna delle più disparate località delle diocesi italiane.
Il secondo gruppo consistente di titoli si riferisce ai nomi dei santi venerati nei paesi
che per merito degli emigranti hanno incominciato ad essere venerati anche nei
territori americani. Alcuni di essi hanno incontrato particolare seguito da parte dei
nuovi fedeli, al punto da diventare nella religiosità popolare di qualche paese
americano i santi più amati e conosciuti, com’è il caso di S. Cono in Uruguay 30 e di S.
Gaetano da Thiene, patrono dei lavoratori e disoccupati, in Argentina. Ma
l’esemplificazione potrebbe facilmente allungarsi, confermando, oltre alla grande
popolarità dei vari S. Antonio di Padova, S. Francesco di Assisi, S. Francesco di Paola,
S. Rita ed altri, il diffuso trasferimento di modelli religiosi e devozionali all’estero
attraverso la pietà degli emigrati italiani.
Molte delle loro devozioni sono diventate, quindi, parte del vissuto religioso delle
comunità ecclesiali di accoglimento, peraltro costituite demograficamente dalla massa
di immigrati italiani o europei. Queste espressioni si sono integrate e diluite nel più
vasto alveo della religiosità locale 31. Accanto a questo fenomeno del vissuto religioso
integrato, sono sopravvissute a lungo iniziative che hanno continuato a richiamarsi al
patrono di origine e sono state animate essenzialmente da italiani e loro discendenti.
Con il passare del tempo, si osserva in questo caso una contrazione dei membri,
connessa al naturale invecchiamento delle comunità, fino all’eventuale estinzione. Per
quanto riguarda la struttura dei rapporti confraternali, si può registrare nel tempo
anche una progressiva formalizzazione dei ruoli attorno a quello che diventa sempre
più il nucleo essenziale delle società, cioè la celebrazione della festa del santo. Il loro
scopo è di attivarsi, anche religiosamente, solo in occasione della festività del santo reperendone i fondi, animando il gruppo paesano e contattando il sacerdote per la
celebrazione - per poi eclissarsi senza altri significativi impegni religiosi durante
l’anno. La sclerotizzazione del gruppo laico dirigente, che coincide con una o due
famiglie, conferisce alla festa un connotato di evento quasi parentale allargato, con il
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vantaggio della forte coesione primaria che anima questi incontri ma anche con i limiti
di espressioni religiose caratterizzate da forti sopravvivenze emotive della religiosità.
Soprattutto nelle confraternite di origine meridionale, sopravvive anche una lunga
tradizione giurisdizionale e di forte spirito laicale, tipica del Mezzogiorno. In questo
contesto il rapporto con il clero e la gerarchia ecclesiastica tende a farsi sempre più
difficile, essendo questa interessata a una moralizzazione e sacralizzazione della festa.
Questa tendenza risulta una costante che va dal secolo scorso fino ad oggi, allorché si
è riproposto, impellente anche nelle Americhe, l’impegno primario
dell’evangelizzazione pur nel recupero della religiosità popolare. Il braccio di ferro,
osservabile attraverso editti e decreti di vescovi e parroci, mira a restituire alla festa la
centralità della celebrazione religiosa, giungendo a negare, in caso contrario, il
carattere di festa religiosa autorizzata del santo. Va osservato che questa problematica
si riscontra a livello più generale, anche in Italia e, all’estero, non solo nei confronti
delle confraternite degli italiani, bensì anche di quelle tradizionali di origine coloniale.
Troviamo alcuni esempi nei decreti contro i balli e gli spettacoli pubblici in occasione
delle feste patronali: tipico è l’editto del vescovo di Santa Fe, Argentina, mons. Juan
Augustin Boneo, del 19 luglio 1927, che proibisce balli e altri spettacoli contrari alla
morale pubblica in occasione delle feste patronali e altre solennità del culto cattolico,
«habiendose introducido en algunas Colonias y Pueblos de esta Diócesis la mala
costumbre de valerse de la celebración de fiestas patronales». Si fa anzi obbligo di
accordarsi con i sindaci perché nei programmi delle feste «no figuren bailes ni otros
espectaculos, que profanen y ofenden la santitad y majestad del culto católico», pena
la soppressione della solennità esteriore 32.
Sul versante della socialità, le congreghe nelle comunità italiane, sia nel Nord che nel
Sud America, sono sempre più sollecitate a venire incontro a tradizionali carenze dei
contesti di accoglimento e al radicato bisogno di considerazione e rispetto sociale da
parte degli emigrati. Questo si esprime soprattutto nell’importante rito di passaggio
costituito dalle solenni esequie, garantite da vincoli societari. La degna celebrazione
dei funerali e la decorosa sepoltura, nell’ordine simbolico e reale - come proiezione
dei propri valori religiosi e della considerazione dell’individuo da parte della sua
comunità - assume una importanza sociale primaria. Si può osservare nelle
confraternite e società etniche un rilancio, nei primi decenni del XX secolo, di queste
funzioni garantite dalle norme statutarie di stampo mutualistico contro il versamento
delle quote di soci 33. Il Panteón, come viene chiamato in Argentina, o cappella
sociale, oppure il loculo collettivo per i confratelli costituiscono l’ambizione costante
di ogni italiano all’estero che contrasta con la trascuratezza delle sepolture locali. Oltre
alle esequie, la cura medica in caso di malattia rappresenta un assillo importante per
molti emigrati, soprattutto nei contesti in cui le strutture sanitarie, le cure mediche
(come nel caso dell’America Latina) e le visite domiciliari erano inadeguate.
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Perfino negli Stati Uniti, si può osservare il consolidarsi di società e confraternite il cui
scopo principale è la cura in caso di malattia e l’impegno delle esequie solenni. Nella
sola cittadina mineraria di Denver, Colorado, dove all’inizio del secolo si era formata
una comunità italiana di qualche migliaio di abitanti, troviamo alcune di queste società
di stampo religioso a base mutualistica. La società di S. Antonio di Padova, fondata
nel 1901, si articola sempre più negli anni ’20 come società di mutuo soccorso i cui
soci, contro il pagamento di $ 2 al mese, riceveranno in caso di malattia un contributo
di $ 1 per la prima settimana e comunque non superiore ai $ 60 per i cronici accertati,
e in caso di morte un assegno di $ 800 agli eredi 34.
Le donne italiane risultano abbastanza attive in queste forme di associazionismo
funzionale. Nel 1925 viene fondata a Denver, su iniziativa di alcune gentildonne
italiane della città, la Società di S. Cecilia, il cui scopo principale, contro il pagamento
della quota, era di provvedere alle esequie solenni delle associate: una S. Messa con
tre sacerdoti, una corona di fiori e il percorso in automobile per le «ufficialesse» della
società 35. Lo statuto pone l’accento sugli adempimenti formali più che sulla
condizione spirituale delle socie o sulla partecipazione religiosa. La formalizzazione
dei ruoli è da mettere in collegamento anche con il processo generale di
americanizzazione degli italiani che porta ad adottare modi e comportamenti della
società ospite, spesso, rigidamente codificati in by-laws e norme di procedura.
Ben 58 donne italiane di Denver, animate dalla venerazione verso la santa degli
emigranti, Francesca S. Cabrini (che aveva vissuto a Denver e verrà canonizzata nel
1946), fondano nel 1923 la società di mutuo soccorso Frances X Cabrini, il cui scopo
principale era l’assistenza mutua soprattutto verso gli ammalati nel contesto del
miglioramento dei rapporti e del benessere delle socie, considerate come «members of
a happy family» 36. Nella promozione delle varie iniziative (dei parties per raccogliere
fondi, gruppi per la visita alle ammalate), non si riscontrano proposte di particolari
pratiche spirituali. Sembra quindi prevalere l’attenzione verso impegni specifici di
natura sociale, quali l’assistenza sanitaria o la garanzia di esequie dignitose e solenni
nel rito cattolico.
Le confraternite italiane all’estero nel secondo dopoguerra
Appena terminato il secondo conflitto mondiale, dopo la parentesi fascista che aveva
visto prevalere le tendenze restrizioniste, l’emigrazione italiana riprende con caratteri
di esodo di massa, soprattutto nel primo decennio. Ad una prima emigrazione dalle
regioni settentrionali fa seguito e prevale l’emigrazione meridionale, che costituisce in
alcuni paesi la componente fortemente maggioritaria (per l’Argentina su circa mezzo
milione di italiani entrati tra 1946-1960, quasi l’80% è costituito da meridionali e ben
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il 30% da calabresi). Per effetto dell’arrivo dei nuovi flussi le comunità italiane
all’estero hanno l’opportunità di ringiovanirsi, mentre riprendono forme di socialità
che prima languivano. Anche sul piano della religiosità, è ormai il mondo meridionale
quello destinato a prevalere e a dare il tono alle comunità emigrate.
Le confraternite religiose italiane all’estero vedono nel secondo dopoguerra un
momento di rilancio che sembra durare a lungo fino agli inizi degli anni ’80. Questa
particolare stagione appare favorita dai fattori interni di una forte compattezza del
gruppo primario. Pur non disponendo di molti lavori sul mondo confraternale degli
emigrati per questo periodo, abbiamo però, nel caso dell’Argentina, una importante
ricerca condotta dal CEMLA nel 1988 sulle confraternite italiane a Buenos Aires 37.
Il quadro che ne risulta è assai interessante e originale e permette una serie di confronti
anche con la realtà italiana. L’indagine del CEMLA ha riscontrato nell’area di Buenos
Aires 44 confraternite italiane, costituite con lo scopo dell’organizzazione della festa
del santo. La denominazione denota una prevalente estrazione meridionale, con 17
confraternite originarie dalla Campania, 12 dalla Calabria e 5 dal Molise. Anche per
quanto riguarda l’epoca di fondazione, meno di un quinto sono le confraternite
anteriori al 1945, mentre il grosso ha visto il suo sorgere nel ventennio successivo e 11
ancora dopo il 1976: segno ulteriore che la festa patronale costituisce tra gli emigrati
un fattore di aggregazione sorprendentemente forte e duraturo nel tempo.
Il tipo di organizzazione che presentano queste confraternite è semplice ed arcaico,
impostato secondo i modelli tradizionali importati dal paese d’origine e con uno stretto
controllo da parte dei laici fondatori. Inoltre oltre la metà delle confraternite non ha
una vera e propria registrazione dei soci, il cui numero rimane impreciso;
atteggiamento peraltro diffuso anche presso le società di mutuo soccorso. Per quanto
riguarda il livello di partecipazione, il 63% delle confraternite (28 su 44) hanno
un’assemblea dei soci e un 20% registrano ancora una discreta partecipazione. Il 40%
delle confraternite ha inoltre una sede propria, di regola presso la casa del presidente.
Circa il gruppo dirigente, vi è una certa sclerotizzazione dell’élite, confermata dalla
scarsa rotazione nelle cariche direttive: infatti il 18% è in carica da vent’anni.
Il rapporto con il clero, sia della stessa origine etnica che della Chiesa locale, continua
ad essere problematico, nonostante l’indubbia domanda di religiosità, anche se spesso
elementare e non aggiornata. Una certa parte del clero non partecipa alla festa e si
oppone a certe manifestazioni esterne e in particolare all’uso dei fuochi di artifizio,
che risultano invece un elemento fondamentale nella realizzazione della festa,
all’inizio o alla fine della stessa. Alcuni sacerdoti partecipano con una certa difficoltà e
dopo le insistenze dei comitati della festa; in genere manca un collegamento organico
con la parrocchia locale. Altri sacerdoti infine mantengono un rapporto con la
confraternita e il comitato della festa, rispettandone le tradizioni devozionali e
cercando di purificarle ed elevarle.
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
Per quanto riguarda l’osservanza dei doveri religiosi, solo un 30% dei membri delle
società possono essere considerati come fedeli praticanti, un altro 30% sono da
considerarsi come saltuari o «pasqualini». Una buona parte è quindi sostanzialmente
estranea alla vita della Chiesa e non ricerca collegamenti con altre espressioni della
pratica religiosa.
Un approfondimento dei comitati delle feste dei calabresi a Buenos Aires in onore
della Madonna ha portato a rilevare, alcuni anni or sono, una quindicina di feste e di
relativi comitati; in particolare le feste, originarie anche di paesini, sono della
Madonna delle Grazie di Roccella Jonica, di S. Maria delle Nevi di Zungri, S. Vergine
della Serra di Montaldo Uffugo, della Madonna della Quercia di Visora di Conflenti,
dell’Achiropita di Rossano Calabro, di S. Maria del Pettoruto di S. Sosti Lattarico, di
Madonna del Rosario di Bonifati, di S. Maria del Soccorso di Monterosso Calabro, del
Carmine di Filogaso, del Rifugio di Acquappesa, di S. Maria della Montagna di
Galatro. Le celebrazioni sono fatte in corrispondenza a quelle dei paesi. E in questa
particolare sintonia, si ritrovano anche paesani e connazionali e gente del posto, sotto
l’egida materna tipica delle feste mariane che invita ad un impegno di vita spirituale e
ad una maggiore integrazione umana. Per il resto anche queste feste mantengono i
caratteri complessi delle celebrazioni sacre e insieme profane, occasione di
ostentazione e prestigio da parte dei notabili del comitato e resistenza a una riforma
religiosa della festa 38.
Un quadro simile alla situazione delle confraternite italiane a Buenos Aires, è
riscontrabile anche nella città di Toronto in Canada, dove si concentra una grande
comunità italiana di circa 300.000 persone, in buona parte di origine meridionale. Alla
fine degli anni ’80 operavano a Toronto una settantina di cosidette associazioni del
santo o comitati delle feste, le cui denominazioni denotano chiaramente l’origine
meridionale. Di una derivazione calabrese parlano i comitati di S. Francesco di Paola,
S. Rocco, S. Antonio, S. Giovanni di Gizzeria, S. Donato, Madonna della Serra,
Madonna di Portosalvo, S. Maria della Catena, Madonna di Butturitti, Santa Croce
Santonofrese, di Serra San Bruno e di S. Onorio. Quello che sorprende è l’istituzione
recente delle società, dal momento che gran parte sono degli anni ’70 (momento di
recupero della religiosità popolare) e varie perfino degli anni ’80.
L’origine è prevalentemente opera spontanea di qualche gruppo di laici o di un
ristretto comitato della festa. È qui dove la radicata tradizione laicale delle
associazioni meridionali crea un rapporto non sempre facile con il clero e
l’organizzazione della parrocchia locale, che risulta tuttavia elemento centrale in
questa Chiesa, dal momento che la mancata autorizzazione e riconoscimento della
Curia arcivescovile può comportare la proibizione della processione da parte delle
autorità civili locali. Già nel 1974 la Commissione Pastorale Italiana preparò un
rapporto sulle prolifiche feste patronali, nell’intento di disciplinare il fenomeno e
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valorizzare la religiosità popolare. Veniva stabilita l’indicazione pastorale
fondamentale, secondo cui la festa andava celebrata nella comunità parrocchiale, si
introduceva la necessità dell’approvazione della competente autorità diocesana. Con
una lettera del vicario episcopale, nel 1976 si veniva a dare alle feste una impostazione
precipuamente disciplinare e organizzativa, stabilendo un tetto massimo di tre
processioni l’anno per ogni parrocchia, esigendo l’approvazione un anno prima e
raccomandando che le celebrazioni avessero carattere religioso e non connotati
commerciali 39.
Qualche anno dopo, nel 1981, una équipe di ecclesiastici e laici preparò una bozza di
documento base sulla celebrazione delle feste dei santi con riflessioni
sull’insegnamento del Magistero in materia e alcune indicazioni pastorali di recupero e
valorizzazione di queste celebrazioni 40. La richiesta della autorizzazione diocesana
non ha mortificato il fenomeno, visto che il numero delle feste dei santi autorizzate è
cresciuto da 59 nel 1981 a 65 nel 1988. Tuttavia sono numerose anche le feste che
vengono celebrate fuori della parrocchia, in una sala o in un parco pubblico o
chiamando dei sacerdoti dai paesi di origine per una celebrazione religiosa.
L’impressione comune dei sacerdoti, sia italiani (vi sono una quarantina tra parrocchie
e cappellanie italiane) che locali, è che si tratti dell’ultimo stadio, pur ancora vibrante e
poliforme, di un fenomeno in estinzione per delle comunità che stanno invecchiando
rapidamente e che sono sempre più proiettate verso i quartieri periferici che rompono
gli antichi legami.
Le feste autorizzate hanno di regola una preparazione religiosa attraverso un triduo o
altro e in particolare si esprimono nel momento centrale della celebrazione della
Messa solenne, seguita dalla eventuale processione. Il giudizio complessivo dei
sacerdoti verso le feste patronali non è quindi sostanzialmente negativo; tuttavia le
valutazioni più severe riguardano, ancora una volta, lo scarso impegno religioso e
spirituale degli aderenti, la carenza di purificazione interiore, il ridotto ricorso al
sacramento della riconciliazione, come annota un parroco, il marcato legame con
espressioni simboliche arcaiche, ormai lontane dalla sensibilità e comprensione dei
figli nati in terra straniera (come l’appendere i dollari alla statua durante la
processione, il barcollare della stessa, le bancarelle; a differenza di Buenos Aires
mancano i fuochi d’artifizio). L’aspetto sociale della festa sembra emergere in tutta la
sua centralità, come esigenza ed espressione dell’incontro di una comunità che si
ritrova emotivamente e culturalmente soprattutto in quelle occasioni. Come osserva un
sacerdote italiano, «ciò che importa è lo stare insieme e la statua del santo ne è un
pretesto» 41.
L’evento sociale più rilevante è il pranzo sociale per alcune centinaia di persone, sia
all’aperto nella bella stagione che in un grande salone, spesso proprio quello
parrocchiale. Qui la dimensione confraternale e societaria si espande ancora più ai
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corregionali, ai connazionali ed altri. Ma anche in questo caso non mancano iniziative
di solidarietà, come raccolte di fondi per i poveri o per le necessità suggerite dalla
parrocchia.
In sostanza, anche per il periodo recente le confraternite e le feste italiane all’estero si
presentano come un interessante crocevia di manifestazioni, interessi e bisogni dei
fedeli ed offrono utili considerazioni di natura comparativa sulle trasformazioni sociali
e religiose che le comunità emigrate stanno subendo in rapporto al costume italiano. In
fondo le festività, specie a matrice popolare, ripropongono gli antichi dilemmi tra
sacro e profano che l’uomo vive in maniera acuta in questo volgere di secolo nel
trapasso al postmoderno, con le lacerazioni e le ambiguità che lo contraddistinguono
ancor più oggi, con i bisogni di purificazione interiore, la ricerca di una più vasta e
umana socialità e la diffusa tensione verso il religioso.
Note
1 E. SORI, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna
1979; G. ROSOLI (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana, 1876-1976, CSER, Roma
1978.
2 Vedi la bibliografia relativa a religione e emigrazione in G. TASSELLO, Religione ed
emigrazione: una selezione bibliografica, «Studi Emigrazione», n. 76, 1984, pp. 439-532.
In particolare sugli Stati Uniti, cfr. S. TOMASI-E. STIBILI, Italian Americans and religion
Center for Migration Studies, New York 1978; S. TOMASI (ed), The religious experience of
Italian Americans, New York AIHA; Idem, Piety and power. The role of Italian parishes in the
New York metropolitan area, Center for Migration studies, New York 1975; G. POZZETTA,
The parish in Italian American religious history, in Scalabrini tra vecchio e nuovo mondo. Atti
del convegno storico internazionale (Piacenza, 3-5 dicembre 1987), a cura di G. Rosoli, Centro
Studi Emigrazione, Roma 1989, pp. 481-489; G. MORMINO, G. POZZETTA, Italian
immigrants and the American Catholic church. A parish perspective, «Studi Emigrazione», n.
93, 1989, pp. 95-107.
Vedi inoltre R. ORSI, The Madonna of 115th Street. Faith and community in Italian Harlem,
1880-1950, Yale University Press, New Haven 1985; G. MORMINO, The church upon the
hill: Italian immigrants in St. Louis, Missouri, «Studi Emigrazione», n. 66, 1982, pp. 203-224.
Cfr. i vari contributi in S. TOMASI (ed), The religious experience ..., e R. MILLER-T.
MARZIK (eds), Immigrants and religion in urban America, Temple University Press,
Philadelfia 1977; S. TOMASI, L’assistenza religiosa agli italiani in USA e il Prelato per
l’emigrazione italiana: 1920-1949, «Studi Emigrazione», n. 66, 1982, pp. 167-190.
3 Vedi ora il repertorio di tutta la letteratura sul Rio Grande do Sul curata da R. COSTA, I.
MARCON, Imigração italiana no Rio Grande do Sul. Fontes historicas, EST-Fondazione G.
Agnelli, Porto Alegre 1988, e in particolare A. BATTISTEL-R. COSTA, Assim vivem os
italianos, 3 voll. (con numerose storie di vita), EST-Fondazione G. Agnelli, Porto Alegre 1981file:///C|/Documenti/CONFRATERNITE/Vol_2/Testi_2/C19_rosoli.htm (16 of 20) [25/11/02 9.45.45]
CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
1983, L. DE BONI-R. COSTA, Os italianos do Rio Grande do Sul, EST, Porto Alegre 1979.
4 F. DEVOTO, Las sociedades italianas de ayuda mutua en Buenos Aires y Santa Fe. Ideas y
problemas, «Studi Emigrazione», n. 75, 1984, pp. 320-342 e L. FAVERO, Le scuole delle
società italiane di mutuo soccorso in Argentina (1866-1914), ibid.., pp. 343-380, pubblicati
anche in F. DEVOTO, G. ROSOLI (a cura di), La inmigración italiana a la Argentina, Biblos,
Buenos Aires 1985. Ora i saggi più importanti sono raccolti in F. DEVOTO, Estudios sobre la
emigración italiana a la Argentina en la segunda mitad del siglo XIX,, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1991.
Sulla problematica religiosa in Argentina vedi anche i numerosi contributi presentati ai
convegni promossi dal CEMLA, Inmigración y religión en America Latina (1848-1930),
Buenos Aires, 14-16 luglio 1988 e El patrimonio religioso de la colectividad italiana en
Argentina, Buenos Aires, 21-22 agosto 1989. Cfr. Ora il volume a cura di N. AUZA, L.
FAVERO, Iglesia e inmigración, CEMLA, Buenos Aires 1991.
5 C. FRID DE SILBERESTEIN, Mutualismo y educación, en Rosario: las escuelas de la
Unione e Benevolenza y de la Sociedad Garibaldi (1874-1911), «Estudios Migratorios
Latinoamericanos», n. 1, 1985, pp. 77-97; Idem., Educación e identidad. Un análisis del caso
italiano en la provincia de Santa Fe (1880-1920), in F. DEVOTO-G. ROSOLI, L’Italia nella
società argentina. Contributi sull’emigrazione italiana in Argentina, CSER, Roma 1988, pp.
266-287.
6 A. SCALABRINI, Sul Rio della Plata. Impressioni e note di viaggio, Ostinelli, Como 1894,
p. 462.
7 Le società italiane all’estero, «Bollettino del Ministero Affari Esteri», 1896, pp. 457 s.; G.
PRATO, La tendenza associativa fra gli italiani all’estero nelle sue fasi più recenti «Riforma
Sociale», XIII, 16, 1906, pp. 723-765.
8 Le società italiane all’estero nel 1908, «Bollettino dell’Emigrazione», n. 24, 1908, pp. 1-147.
9 L. BARBIERI, Il mutualismo nella emigrazione italiana, «In Marcia», Milano, 1910, cit. da
E. FRANZINA, Le culture dell’emigrazione: immagini di «nuovo mondo» in Italia e forme di
socializzazione dei lavoratori italiani all’estero, in La cultura operaia nella società
industrializzata, F. Angeli-Maison des Sciences de l’Homme, Milano 1985, pp. 279-338, in
specie 330-331 e tabella finale.
10 Le ricerche sulle associazioni italiane in Argentina, già impostate da Baily, si sono
ulteriormente arricchite anche di analisi comparative (F. Devoto-A. Fernandez) e di valenze
politiche (Cibotti): S. BAILY, Las sociedades de ayuda mutua y el desarrollo de una
comunidad italiana en Buenos Aires, 1858-1918, «Desarrollo Económico», n. 84, 1982, pp.
485-514; L. PRISLEI, Immigrantes y mutualismo. La sociedad italiana de socorros mutuos e
instrucción de Belgrano (1879-1910), «Estudios Migratorios Latinoamericanos», n. 5, 1987,
pp. 29-55; A. BERNASCONI, Inmigración italiana, colonización y mutualismo en el Centronorte de la provincia de Santa Fe; F. DEVOTO-A. FERNANDEZ, Asociacionismo, liderazgo y
participación en dos grupos étnicos en areas urbanas de la Argentina finisecular. Un enfoque
comparado; E. CIBOTTI, Mutualismo y política en un estudio de caso. La Sociedad «Unione e
Benevolenza» en Buenos Aires entre 1858 y 1865, in F. DEVOTO-G. ROSOLI, L’Italia nella
società ..., pp. 178-189, 190-208, 241-265.
11 Cit. in G. ROSOLI, Impegno missionario e assistenza religiosa agli emigranti nella visione e
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
nell’opera di don Bosco e dei Salesiani in F. TRANIELLO (a cura di), Don Bosco nella storia
della cultura popolare, SEI, Torino p. 294.
12 O. HANDLIN, Gli sradicati, Ed. Comunità, Milano 1958, p. 248.
13 M.S. BEOZZO BASSANEZI, Familia colona: italianos e seus descendentes numa fazenda
de cafe paulista, 1895-1930, in G. ROSOLI (a cura di), Emigrazioni europee e popolo
brasiliano, CSER, Roma 1987, pp. 272-292, tab. delle festività a p. 280.
14 H. GANS, The urban villagers. Group and class in the life of Italian-Americans, Free Press,
Boston 1962; W. FOOTE WHYTE, Street corner society. The social structure of an Italian
slum, University of Chicago, Chicago 1943.
15 S. TRAMONTIN, Un secolo di storia della Chiesa, 2 voll., Studium, Roma 1980, II, pp. 55132; L. HERTLING, Storia della Chiesa, Città Nuova, Roma 1981.
16 Seminario sulla storia della parrocchia in Italia nell’età contemporanea, «Sociologia»,
maggio-dic. 1979, pp. 3-38; La parrocchia in Italia nell’età contemporanea. Atti del II Incontro
seminariale di Maratea (24-25 settembre 1979), Napoli, 1982; P. BORZOMATI, Chiesa e
società meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Studium, Roma 1982; P.
STELLA, La religiosità vissuta in Italia nell’800, in Storia vissuta a cura di J. Delumeau e F.
Bolgiani, SEI, Torino 1985, pp. 753-771.
17. D. RUOCCO, L’Uruguay e gli italiani, Società Geografica italiana, Roma 1991, pp. 125126.
18 G. BAREA, La vita spirituale nelle Colonie Italiane dello Stato; G. M. BALEN, Opera di
Sacerdoti e Congregazioni italiane nel progresso religioso, nello sviluppo dell’arte,
dell’istruzione e dell’assistenza dello Stato, in Cinquantenario della Colonizzazione italiana del
Rio Grande do Sul, Liv.do Globo, Porto Alegre 1925, pp. 55-192; C. A. ZAGONEL, Igreja e
imigração italiana. Capuchinhos de Saboia: um contributo para a Igreja no Rio Grande do Sul
(1895-1915), EST, Porto Alegre 1975; I. FOCHESATTO, Descrição do culto aos mortos entre
descendentes italianos no Rio Grande do Sul, EST, Porto Alegre 1977; V. B. PISANI
MERLOTTI, O mito do padre entre descendentes italianos, Porto Alegre 1979; A. I.
BATTISTEL, Colonia italiana, religião e costumes, EST, Porto Alegre 1981.
19 Sulla prospettiva religiosa e sociologica della festa, cfr. A. NESTI, Festivo e
modernizzazione, «Rassegna di Teologia», 29 n. 2, 1988, pp. 166-190 e n. 3, pp. 265-280. Cfr.
anche G. A. COLANGELO, Aspetti della pietà degli emigrati meridionali, «Studi
Emigrazione», n. 93, 1989, pp. 109-124.
20 Sugli imprestiti religiosi nella cultura laica, cfr. S. PIVATO, L’anticlericalismo «religioso»
del socialismo italiano fra Otto e Novecento, «Italia Contemporanea», n. 154, 1984, pp. 29-50;
E. DE CLEVA, Anticlericalismo e religiosità laica del socialismo italiano, in Prampolini e il
socialismo riformista, vol. 1, Roma 1979, pp. 259-279. Il moltiplicarsi e, spesso, il
frazionamento delle organizzazioni religiose e la funzione dei gruppi giovanili sono ben
evidenziati nelle ricerche per gli USA da Vecoli e Mormino: R. VECOLI, Italian religious
organizations in Minnesota, e G. MORMINO, The church upon ..., «Studi Emigrazione», n. 66,
1982, pp. 191-202 e 203-224.
21 G. PRATO, Le società di mutuo soccorso all’estero, «Riforma Sociale», IX, 12, 1902, pp.
852-854.
22 Cfr. la fondamentale ed esauriente biografia di Scalabrini e degli inizi della sua
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
congregazione di M. FRANCESCONI, Giovanni Battista Scalabrini vescovo di Piacenza e
degli emigrati, Città Nuova, Roma 1985.
23 P. BORZOMATI, Chiesa e società meridionale ...
24 G. GAMBERA, Memorie, Archivio Generalizo Scalabriniano, 1558/3.
25 G. ROSOLI, L’emigrazione siciliana tra ’800 e ’900 e l’azione della Chiesa, in P.
BORZOMATI (a cura di), Chiesa ed emigrazione a Caltanisetta e in Sicilia nel Novecento, Ed.
del Seminario, Caltanissetta 1988, pp. 39-65; F. DE MARIA La Madre Francesca Saverio
Cabrini, Torino, 1928; G. DALL’ONGARO, Francesca Cabrini, la santa che conquistò
l’America, Rusconi, Milano 1982.
26 SACRED HEART CHURCH, Venticinque anni di missione fra gli immigrati italiani di
Boston, Ma.: 1888-1913, Santa Lega Eucaristica, Milano 1913.
27 Memorie Biografiche di S. Giovanni Bosco, vol. XII, in G. ROSOLI, Impegno missionario
..., p. 308.
28 Ibid.
29 Vedi la lista in Religión e Inmigración en la Arquidiócesis de Buenos Aires. Datos
estadísticos, octubre de 1907, Buenos Aires, 1907. Cfr. pure G. ROSOLI, Le organizzazioni
cattoliche italiane in Argentina e l’assistenza agli emigrati italiani, «Studi Emigrazione», n. 75,
1984, pp. 381-408; E. SCARZANELLA, Italiani d’Argentina. Storie di contadini, industriali e
missionari italiani in Argentina, 1850-1912, Marsilio, Venezia 1983.
30 C. ZUBILLAGA, Religiosidad, devociones populares e inmigración italiana en Uruguay,
1991, ora in AA. VV., L’emigrazione italiana e la formazione dell’Uruguay moderno, Ed.
Fondazione G. Agnelli, Torino pp. 121-170.
31 G. ROSOLI, Devozioni popolari e tradizioni religiose degli emigrati italiani oltre oceano, in
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, La preghiera del marinaio. La fede e il mare nei
segni della Chiesa e nelle tradizioni marinare, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma
1992, pp. 872-893.
32 Cit. in E. STOFFEL, Las prácticas religiosas católicas en la «Pampa gringa» santafesina
(1860-1930), Secretaria de Cultura, Rafaela 1991.
33 A. BERNASCONI, Le associazioni italiane nel secondo dopoguerra: nuove funzioni per
nuovi immigrati?, in G. Rosoli (a cura di), Identità degli italiani in Argentina. Reti
sociali/Famiglia/ Lavoro, Studium, Roma 1993, pp. 319-340.
34 By-laws, Constitution and Rules of Mutuo Soccorso S. Antonio di Padova Society, Founded
January 17, 1901, Reincorporated May 27, 1932 in Denver, Colorado.
35 Statuto e regolamento della Società Santa Cecilia, fondata il 1° gennaio 1925, Denver,
Colorado, 1925.
36 Mutual Benefit Society of St. Frances Xavier Cabrini, Founded on the 6th day of May, 1932
in Denver, Colorado (Denver, 1943).
37 A. BERNASCONI, Cofradias religiosas e identidad en la inmigración italiana en Argentina,
«Estudios Migratorios Latinoamericanos», v., n. 14, pp. 211-224.
38 G. ROSOLI, Feste mariane dei calabresi in Argentina, in S. Maria di Polsi. Storia e pietà,
Laruffa Ed., Reggio Calabria 1990, pp. 403-416.
39 Archdiocese of Toronto, Pastoral Letters, Communications, April 25, 1976, pp. 186-188.
40 Processions and Feasts, Archidiocese of Toronto, Pastoral Letters, Communications, April
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CONFRATERNITE ED EMIGRAZIONE
15, 1981, pp. 725-729.
41 Ricerca sulla celebrazione delle feste religiose nella comunità italiana di Toronto, York
University-Italian Pastoral Commission, Toronto 1990 (inedita).
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STATO BORBONICO TANUSTATO BORBONICO TANUCCIANO ED ...LI ED ECONOMICICCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE
STATO BORBONICO TANUCCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE.
ASPETTI GIURIDICI, SOCIALI ED ECONOMICI
Enrica Delle Donne
1. Aspetti giuridici delle confraternite
Lo studio delle confraternite sotto l’aspetto giuridico è risultato complesso e non privo
di ostacoli, invero si sono riscontrate difficoltà nel determinare la natura giuridica di
tali enti sia per la molteplicità dei lori scopi, sia per la costituzione del loro patrimonio.
Considerate come associazioni di fedeli che si prefiggevano il raggiungimento di scopi
religiosi, di culto, esse ricadevano sotto l’ingerenza dell’autorità ecclesiastica; nel
contempo, poiché esistevano come semplici associazioni o enti morali, esse erano
sottoposte alla sorveglianza ed alla approvazione del potere politico. Riscontrandosi in
dette istituzioni il doppio carattere di enti religiosi e laicali, furono inevitabili i conflitti
di giurisdizione tra il potere laico ed ecclesiastico. Si ebbero pure frequenti
controversie sulla natura di tali associazioni, ritenute ecclesiastiche o laicali soprattutto
allorché si doveva stabilire la prevalenza del fine, che per alcune confraternite era di
beneficenza e mutuo soccorso, mentre per altre era essenzialmente volto all’esercizio
del culto in aiuto delle parrocchie.
Anche la diversa costituzione economica diede alle confraternite un duplice carattere,
poiché in alcune confraternite vi era un patrimonio stabile e redditizio, in altre erano le
semplici oblazioni dei confratelli a far fronte agli obblighi imposti dallo statuto.
La ricerca della natura giuridica delle confraternite si rese ancora più difficile, allorché
si volle studiare l’origine storica di esse, rinvenuta da alcuni studiosi nelle antiche
gilde germaniche, che si convertirono al cristianesimo, da altri in alcune forme di
collegi e sodalizi romani 1.
Da alcuni studiosi le confraternite furono considerate come corporazioni di diritto
pubblico, mentre per altri esse ebbero un carattere puramente privato, perché collegate
all’istituto giuridico dell’affratellamento 2 che era alla base delle antiche gilde
nordiche, sorte verso la fine del secolo VIII, a difesa degli interessi economici delle
categorie sociali che rappresentavano. Allorché la parentela non fu sufficiente a
tutelare l’individuo, le associazioni preesistenti si trasformarono in gilde protettive, e
per ricordare i rapporti di parentela apparvero i nomi di confraternitates, fraternitates 3.
Le gilde furono avversate e condannate dai concili, finché non si trasformarono in
istituzioni religiose e si rivestirono di forme ecclesiastiche 4. Affermò il Muratori che
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STATO BORBONICO TANUSTATO BORBONICO TANUCCIANO ED ...LI ED ECONOMICICCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE
le gilde divennero «piae laicorum confraternitates permittente rege institutae et ab
episcopo, cuius ditioni suberant, confirmatae» 5.
Nel Medioevo questi sodalizi si denominavano frateria, confrateria, confratria,
fraternitas, sodalitates, collecta, sodalitium, gilde, gelde, gildonie, galdenie. Nel
Veneto, in Lombardia esse presero il nome di schola, scuola, suffragi, sovvegni,
mentre nel napoletano furono chiamate estaurite o staurite, congreghe, altrove
compagnie, congreghe, congregazioni e centurie 6.
I primi canoni generali relativi alle confraternite si trovano nel concilio di Trento
(1545-1563), che le sottopose al pari delle opere pie all’autorità del vescovo. Il
vescovo aveva il diritto di conoscere, riformare e correggere gli abusi che si fossero
verificati nelle confraternite, di chiedere il rendiconto dell’amministrazione delle loro
rendite. Inoltre aveva il diritto di censurare i confratelli, che si fossero resi colpevoli di
gravi disordini sia nell’amministrazione delle rendite,che nell’esercizio dei loro doveri
di religione 7.
La legislazione del regno di Napoli non accettò la distinzione ecclesiastica tra opere
pie laicali ed ecclesiastiche. Le opere pie si vollero mantenere laicali giuridicamente e
di fatto, escludendone il clero.
Invero nell’accezione laica erano ritenute opere pie quelle che avevano scopo di
beneficenza o di culto, ed erano amministrate almeno in parte da laici. Le confraternite
furono considerate nel regno di Napoli «ab antiquo» tra le opere pie laicali e furono
sottoposte all’autorità civile, che provvide a regolare i privilegi speciali di ciascuna
confraternita e il diritto di riunione. Si stabilirono norme precise per evitare che le
confraternite fossero strumento di opposizione al potere politico. Pertanto, tutta la
legislazione sulle confraternite, antecedente il periodo borbonico tanucciano, non ebbe
carattere etico-giuridico, l’obbiettivo era piuttosto quello di tutelare la sicurezza dello
Stato.
Con decreto regio si vietò espressamente che i laici facessero parte della confraternita
dei Bianchi, istituita a Napoli nel 1519, poiché si riteneva che la suddetta confraternita,
composta da persone influenti, potesse diventare pericolosa per lo Stato 8. Inoltre si
vietò a tutti i confratelli di portare, durante le processioni, le armi di cui disponevano
per evitare le frequenti risse 9. Penalità erano previste per coloro che avessero vestito
indebitamente il sacco della confraternita dei Bianchi e degli Azzurri di Messina, dei
confratelli di S. Giovanni di Catania e dei Bianchi di Trapani 10. Fu vietato il
travestirsi da confratello per il carnevale 11, e furono stabilite norme che
regolamentavano la pratica dell’elemosina di confratelli 12.
Sebbene le confraternite meridionali fossero state considerate, come afferma lo
Scaduto, ab antiquo tra le opere pie laicali, occorre evidenziare che la maggioranza di
esse si era costituita senza l’approvazione regia, e che la mancanza di essa non le
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aveva rese incapaci di adunarsi, acquistare e possedere 13. Inoltre il principio della
laicità, che doveva caratterizzare gli istituti confraternali del regno, era stato
compromesso dalla ingerenza degli ordinari che, fino a tutta la prima metà del XVIII
secolo, esercitarono su di esse quella autorità loro conferita dal Concilio tridentino.
Invero era l’ordinario che dava disposizioni sulla gestione del patrimonio
confraternale, invigilava sulla disciplina dei confratelli e comminava pene a carico di
coloro che si fossero resi colpevoli di gravi inadempienze, sia nella pratica religiosa
che nella amministrazione delle rendite.
Allorché il governo borbonico-tanucciano inaugurò una politica regalista ed
anticurialista, non furono accolte le disposizioni del Concilio di Trento, e si sviluppò
tutta una legislazione sul diritto di associazione delle confraternite, che poneva innanzi
tutto il principio che solo la potestà del principe poteva «canonizzarle per collegi leciti
e permetterle nello Stato» 14.
Con il Concordato del 1741, tra Carlo III di Borbone e la S. Sede, fu limitato il diritto
di visita dell’Ordinario sulle confraternite «quoad spiritualia tantum» 15. Il vescovo
poteva destinare persona che fosse intervenuta alla revisione dei conti delle
confraternite, detta persona doveva intervenire omnino gratis, e senza interesse del
luogo pio. Qualora dopo aver fatto l’esame e revisione dei conti gli amministratori
fossero risultati debitori, essi erano ammoniti, «significati», e l’esecuzione della
«significatoria» era fatta dal giudice laico, se le persone erano laiche, e da un giudice
ecclesiastico se le persone erano ecclesiastiche. Si stabiliva inoltre che un tribunale
misto, da erigersi a Napoli, doveva «invigilare», sopraintendere sul rendimento dei
conti delle confraternite, decidere sulle liti che potevano insorgere, e nel contempo
sorvegliare sull’uso delle rendite che dovevano essere usate «secondo la natura e gli
obblighi di ciascuna di esse confraternite» 16. La legislazione tanucciana, oltre che
regolare le competenze dell’Ordinario, rivendicò il diritto dello Stato di conferire alle
confraternite la personalità giuridica con i rispettivi diritti. Fu chiesta per l’istituzione
di ogni confraternita l’approvazione regia, senza la quale non poteva sussistere
nemmeno come libera associazione. Gli statuti di ogni confraternita erano sottoposti
all’esame da parte dei pubblici poteri, ed erano modificati qualora fossero stati
riscontrati in essi principi contrari alle leggi ed al diritto pubblico 17.
La sola approvazione dello statuto non fu ritenuta sufficiente, invero il governo
richiese anche l’approvazione della stessa istituzione 18; pertanto le confraternite del
regno dovevano avere l’assenso regio sia nell’atto di fondazione che nello statuto 19.
Nessuna istituzione del regno poteva fondarsi senza l’assenso del sovrano, che
comunque aveva il potere di sopprimerla 20; inoltre alle confraternite non autorizzate
fu vietato il diritto di acquistare e di possedere 21.
Ma avendo alcune confraternite dimostrato resistenza a munirsi del regio assenso, e a
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modificare le regole degli statuti, il governo giunse perfino alla soppressione di una
confraternita sprovvista di regio assenso 22. D’altra parte il governo, consapevole che
l’istituzione confraternale si manifestava comunque necessaria alla vita socioeconomica del regno, attuò una politica più tollerante nei confronti delle confraternite.
Si riteneva che abolendo le confraternite «andava a perire una moltitudine di popolo»,
soprattutto in quei luoghi ove mancavano gli ospedali ed altre opere pubbliche. Senza i
soccorsi organizzati dalle confraternite si sarebbero trovati in difficoltà i molti «artieri
e contadini» che, affermava il sovrano, erano «la gente quanto più negletta, tanto più
necessaria». Coloro che vivevano alla giornata non avrebbero avuto modo alcuno di
sostenere se stessi e le loro famiglie.
Inoltre il sovrano riteneva che molti, per le spese delle esequie e dei funerali, ai quali
supplivano le confraternite, sarebbero stati «da taluni poco pii ecclesiastici spogliati
delle loro sostanze» 23.
Fu senz’altro la constatazione dei molti aiuti civili procurati dalle confraternite alle
popolazioni del regno, quali i soccorsi diurni in caso di infermità (medici e
medicamenti), la esecuzione dei funerali, le istituzioni collaterali, quali i monti dei
maritaggi ed i monti frumentari 24, a spingere lo stato borbonico a concedere, in via di
grazia, che le confraternite, sebbene prive di regio assenso, potessero radunarsi
nell’oratorio ed esercitassero gli atti di pietà, vietando però che si facessero elezioni di
cariche, preminenze e dignità 25. Si concedeva solo l’elezione di colui che doveva
riscuotere le loro volontarie elemosine ed i contributi mensili, per sopperire ai bisogni
del luogo pio 26.
Con dispaccio regio si prescrisse un termine definitivo per munirsi dell’assenso
sovrano, e si vietarono le riunioni di confraternite finché non avessero ottenuta
l’approvazione regia 27. Ma, nonostante le minacce di scioglimento, le confraternite
non si sottoposero all’autorità regia che, per non inasprire i rapporti, preferì accordare
gratis la sanatoria alle confraternite che avevano l’assenso regio sulle regole, ma non
sull’atto di fondazione 28.
Provvedimenti molto energici, e privi di tentennamenti, furono invece attuati dal
governo borbonico per regolamentare il rapporto tra confraternite ed autorità
ecclesiastica. Fu proibito agli ecclesiastici di iscriversi alle confraternite come
semplici soci, e fu concessa l’iscrizione solo per usufruire delle indulgenze e delle
altre grazie spirituali, con l’espresso divieto di esercitare il diritto elettorale attivo e
passivo 29 e di assistere alle adunanze elettorali 30.
Particolare attenzione il governo rivolse all’autorità che gli ordinari esercitavano nelle
confraternite, e fu creata una apposita legislazione che ne regolava il rapporto. Con
rescritto del 13 febbraio 1745 il governo stabilì che l’Ordinario del luogo non aveva
alcun diritto sul governo ed elezione degli officiali e razionali delle confraternite,
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eccetto la facoltà di visitarle in quanto allo spirituale, e a nominare un ecclesiastico,
che fosse intervenuto gratis, coi razionali laici, alla revisione dell’amministrazione 31.
Inoltre si affermò che né l’Ordinario, né la Corte di Roma potevano ingerirsi nella
vendita ed alienazione dei beni delle confraternite, anche se fossero state fondate con il
loro assenso ed approvate dalla loro autorità 32.
Con il successivo rescritto del 21 luglio 1753 si determinò che nelle confraternite,
allorché vi fossero stati ecclesiastici ad amministrarle e governarle, costoro dovevano
immediatamente desistere dall’incarico, e lasciarle agli officiali laici, che, eletti dai
confratelli collegialmente adunati, prendevano possesso delle loro cariche, senza
conferma ed altre ingerenze dell’Ordinario. Parimenti si dichiaravano nulle le vendite
ed alienazioni dei beni fatti con l’assenso dell’Ordinario, e senza le forme giudiziali
del magistrato laico, ritenuto privativo giudice competente 33. Si ordinava pure che i
confratelli ecclesiastici dovevano astenersi dall’intervenire nella elezione degli
officiali 34, e che, facendosi l’elezione degli officiali nella persona di ecclesiastici,
l’elezione era da ritenersi nulla 35.
Gli amministratori o officiali delle confraternite, terminato l’anno della loro
amministrazione, dovevano «rendere i conti», e potevano essere confermati solo con la
licenza del re 36.
Successivamente furono stabilite nuove istruzioni sulla amministrazione dei luoghi pii
e quindi sulle confraternite, la cui attività economica si volle sottoporre all’ispezione
di un tribunale misto di ecclesiastici e laici 37.
Fu stabilito che non era permesso permutare, censuare o altrimenti alienare nessun
fondo o cespite senza l’approvazione del tribunale misto, e col consenso di due
incaricati della cura fiscale, sotto pena della «nullità ed invalidità dell’atto» 38.
Per volere regio tutti gli affitti dei beni di confraternite si dovevano fare precedente
emanazione di bandi, sotto l’asta fiscale e con accensione di candela, a persone
ritenute idonee, che si obbligavano «penes acta» della corte locale 39. Si volle pure
regolare la vendita di armenti e di greggi, e si stabilì che la somma ricavata fosse resa
nota dagli amministratori al tribunale misto, «per impiegarsi il danaio colla regia corte,
al quale oggetto si chiedeva il reale oracolo».
Lo stesso procedimento si voleva che si attuasse nella restituzione di capitali dati dalle
confraternite a censo consegnativo, ossia redimibile 40. Lo Stato volle pure evitare che
i beni delle confraternite fossero sottratti per incuria o per frodi, pertanto stabilì che il
contratto di affitto dei beni delle confraternite non fosse stipulato tra gli stessi
amministratori delle confraternite, oppure a persone da loro interposte o congiunte,
fino al terzo grado di consaguinità, ed al primo di affinità. Si volle pure evitare di
affittare «per meno del regolare», «sotto la pena che le stesse leggi, e l’arbitrio dei
giudici stabilivano» 41.
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STATO BORBONICO TANUSTATO BORBONICO TANUCCIANO ED ...LI ED ECONOMICICCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE
Per disposizione regia la rendita delle confraternite doveva essere depositata nella
«cassa»; l’elezione del cassiere, fatta tra il numero dei confratelli, doveva ricadere «su
qualche benestante e probo soggetto» 42. Qualora fosse accaduto abuso da parte del
cassiere ne rispondevano i confratelli che lo avevano prescelto, oppure gli officiali
della comunità, se la scelta fosse spettata ad essi 43. Gli stessi cassieri erano incaricati
all’esazione delle rendite, pertanto gli affittuari erano obbligati a pagare il canone nelle
mani del cassiere, sotto pena di duplicato pagamento 44.
Si affermava inoltre che il tribunale misto era tenuto a riferire al re il danaro che si
trovava depositato in ciascuna «cassa» delle confraternite, ed attendere per
l’utilizzazione le sovrane disposizioni 45. Gli amministratori delle confraternite
dovevano trasmettere al cassiere una nota legale, esatta e fedele di tutte le rendite e
crediti, con la scadenza del tempo in cui maturavano i pagamenti.
Terminato l’anno dell’amministrazione, e dato il possesso ai nuovi amministratori,
dopo un mese perentorio gli amministratori ed il cassiere dovevano rendere conto
dell’amministrazione davanti ad un razionale «onesto e capace», che trasmetteva
«l’esito» ai nuovi amministratori, i quali a loro volta dovevano riferire al tribunale
misto 46.
Ma siffatta legislazione borbonica sulle confraternite non trovò facile ed immediata
applicazione, invero nella nostra ricerca abbiamo constatato che ancora alla fine del
XVIII secolo alcune confraternite si rivolgevano all’autorità dell’Ordinario, sia per
ottenere l’autorizzazione alla fondazione della confraternita 47, sia per l’approvazione
dei contratti che stipulavano 48, sia per la risoluzione di controversie che sorgevano
con gli affittuari e con i censuati 49. D’altra parte vi furono confraternite che, in
riferimento alla nuova legislazione, si ribellarono all’ingerenza nella loro
amministrazione degli Ordinari del regno 50.
2. Aspetti sociali delle confraternite
L’aspetto devozionale, liturgico ed assistenziale svolto nel medio evo e nell’età
moderna dalle confraternite laiche, ecclesiastiche e miste 51, i rapporti che queste
associazioni ebbero con le autorità ecclesiastiche, l’influenza che nel loro sviluppo
esercitarono gli ordini religiosi dei francescani e dei domenicani, sono stati temi che
hanno formato oggetto di accurati studi.
Alcuni storici hanno affermato che le confraternite si svilupparono a somiglianza delle
corporazioni medioevali di arte e mestieri e fratellanze artigiane tanto che, a dirla con
Meersseman, la linea divisoria tra corporazioni e confraternite non appare a prima
vista dai documenti 52.
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STATO BORBONICO TANUSTATO BORBONICO TANUCCIANO ED ...LI ED ECONOMICICCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE
In questo raffronto tra confraternite e corporazioni altri storici, pur non disconoscendo
nelle confraternite «la presenza di una effettiva e spesso determinante tendenza
corporativa», hanno invece evidenziato il diverso impulso morale e religioso che era
alla base degli statuti delle confraternite. Scrive a tal proposito l’Orioli che «anche
nelle congregazioni meno aperte sul piano dell’attività caritativa le norme statutarie
rivelano nel loro insieme la consapevolezza nei confratelli che l’amore verso Dio si
accompagna con imprescindibile complementarietà all’amore verso il prossimo,
mentre le fredde ed aride disposizioni presenti nelle regolamentazioni delle
corporazioni delle Arti tradivano la loro funzione di salvaguardia del socio e di
protezione prettamente economica dei propri interessi» 53.
Dopo il grande vuoto degli ordini mendicanti, le confraternite medioevali sono state
considerate «un’arma di cui la chiesa si servì per avvicinare a sé i fedeli contro gli
eretici e contro i ghibellini» 54, esse diedero un contributo alla lotta contro
l’impoverimento dei valori liturgici e devozionali, ed ostacolarono il decadimento
della vita sacramentaria 55.
Nel XIII secolo infatti, a seguito dello sviluppo dei movimenti ereticali, si diede
impulso, in contrapposizione a questi, alla formazione di confraternite composte di
laici e chierici, in vista di condurre una lotta più decisiva contro quei movimenti, come
la compagnia dei Crociati o Crucesignati, istituita da Pietro Martire 56. Altre
confraternite sorsero per difendere e diffondere il culto eucaristico ed il culto della
Vergine, contrapponendosi alle correnti ereticali che contestavano la validità dei
sacramenti e la devozione alla Madonna, rivalutata e ripristinata dall’ordine
domenicano il quale diede vita alla confraternita del Rosario 57.
Spinti dalla predicazione dei frati e da un desiderio di espiazione, le confraternite dei
disciplinati ostentarono manifestazioni di penitenza e di flagellazione, cui si
sottoponevano per la credenza di dover placare l’ira di Dio. Il fenomeno penitenziale,
che si era manifestato nella seconda metà del XIII secolo 58, riprese nell’anno 1399 col
moto dei Bianchi, cosiddetto dal colore del sacco che era usato dai penitenti 59.
Con l’umanesimo questi movimenti penitenziali si attenuarono, e le confraternite,
promosse dai predicatori francescani e domenicani, si volsero ad assumere il compito
di svolgere opere di assistenza e di carità, conservando tuttavia la loro funzione di
richiamo e coinvolgimento a condurre una vita secondo uno spirito cristiano, in
osservanza dei comandamenti della chiesa 60. La loro religiosità acquistò una
impostazione operativa anche nel secolo successivo, allorché il Concilio di Trento le
sottopose al controllo del potere ecclesiastico, perché dessero esecuzione a tutte le
disposizioni stabilite per il culto di Dio, per la salute delle anime e per il sollievo dei
poveri 61.
Numerose confraternite, ispirate o assistite dagli ordini religiosi, si dettero a svolgere
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opere di soccorso ai poveri, assistettero spiritualmente e concretamente gli ammalati,
istruirono i fanciulli e gli adulti nella dottrina cristiana, promuovendo in pari tempo la
frequenza al sacramento dell’eucaristia. «Dal loro seno furono ricavati i fondi per la
istituzione di asili, di ricovero, di “lavorerii” femminili, per riparare ed abbellire chiese
ecc.» 62.
L’analisi storica delle confraternite sotto l’aspetto devozionale, liturgico e caritativo è
stata ampiamente svolta dalla più moderna storiografia, che ha rivolto la sua ricerca
anche all’aspetto sociale delle confraternite. Metodi e criteri per una storia sociale del
mondo confraternale sono stati messi a confronto, per uno studio sulle confraternite in
Italia tra medioevo e rinascimento 63, nella consapevolezza che la ricerca delle
strutture confraternali deve essere oggetto di uno studio organico, per porre l’analisi
storica sul piano di una maggiore serietà scientifica 64.
È indubbio che le confraternite rappresentarono il più ampio, massiccio e duraturo
fenomeno aggregativo, e la validità e l’approfondimento di uno studio storico delle
chiese, delle parrocchie, delle cappelle non può prescindere dallo studio delle
confraternite, come pure la storia urbana, sociale ed economica e la storia della pietà,
della sensibilità religiosa, trovano sicuri riferimenti nello studio dell’istituzione
confraternale. Su tale linea di metodo la scuola storica francese, ed in particolare
quella di sociologia religiosa, ha sottolineato che le confraternite, oltre che stimolare la
devozione, l’assistenza reciproca, hanno creato nelle associazioni aperte l’incontro di
classi e di professioni, come pure hanno fortificato i legami corporativi e religiosi tra
gli abitanti di un quartiere 65. Inoltre hanno rappresentato un contributo importante ai
fini dello studio delle istituzioni della sociabilità rurale, senza peraltro tralasciare
l’analisi del contenuto religioso, devozionale e caritativo 66.
Sollecitata dalla nuova problematica storiografia, la nostra ricerca sulle confraternite
meridionali, durante il periodo borbonico-tanucciano, ha rivolto la sua attenzione alla
individuazione delle componenti sociali e di classe che costituirono le confraternite,
nonché al fenomeno di integrazione derivante dall’adesione al corpo confraternale.
Nel contempo si è pure avvertita l’esigenza di dare inizio ad una ricerca sull’esercizio
dell’attività economica svolta dalle confraternite, perché si è dell’avviso che una
approfondita analisi del patrimonio e della gestione patrimoniale delle confraternite
possa chiarire la funzione economico-sociale svolta da tali associazioni nella società
napoletana del XVIII secolo.
Da una approfondita ricerca documentaria si evince che l’aggregazione alla
confraternita avveniva attraverso una scrupolosa selezione; requisiti ben precisi erano
richiesti a colui che voleva entrare a far parte di una confraternita. Per statuto si
vietava espressamente l’aggregazione di persone che avessero esercitato «arte e
impieghi vili», come «bottegaro, tavernaro, venditore di vino»; oppure si affermava
che alla confraternita non fossero intervenute determinate categorie sociali come
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dottori di legge, sacerdoti oppure nobili. Il confratello, oltre che appartenere alla classe
sociale che costituiva la confraternita, doveva essere di buona vita e costumi,
vietandosi espressamente l’ammissione a colui che fosse dedito al gioco delle carte,
che fosse stato infamato di concubinato, di furto e di altri delitti considerati «enormi».
Tuttavia talora la confraternita dimostrava la sua indulgenza ammettendo tali persone
solo «se avessero da molto tempo mutato arte o mestiere e fossero assunte con
esemplarità di vita» 67.
Alcune confraternite erano riservate ai notabili, esse accoglievano esclusivamente
nobili, gentiluomini e proprietari 68, acquisivano talora il titolo di arciconfraternite per
il loro carattere di confraternite principali, a cui si coordinavano altre confraternite con
uguale scopo. Dalla ricerca documentaria risulta che le arciconfraternite non furono
aliene da indulgenze e privilegi; invero talora erano indipendenti dalla curia vescovile
sul loro funzionamento, e godevano del diritto di precedenza sulle altre confraternite.
Oltre questi privilegi di natura ecclesiastica le confraternite ebbero accordati anche
privilegi di natura temporale, quale la periodica amministrazione della giustizia 69.
Talora era proprio il sovrano che con regi exequatur convalidava ed aggiungeva altri
privilegi, incrementando anche il patrimonio immobiliare con donazioni e lasciti 70.
Tali confraternite, riservate ai notabili, si diffusero sia nelle città che nei piccoli centri
del regno, ed avveniva anche che arciconfraternite aventi sedi in città anche molto
distanti tra loro, si aggregassero allo scopo di godere di quei maggiori privilegi di cui
l’una e l’altra arciconfraternita fosse stata investita. Si può annoverare ad esempio il
caso della Arciconfraternita dell’Immacolata della città di Catanzaro, che si aggregò
con l’Arciconfraternita Mortis et Horationis di Roma e con l’Arciconfraternita
dell’Immacolata della città di Napoli 71.
Oltre le confraternite dei notabili, si annoveravano le confraternite composte da
membri esercenti una determinata attività professionale e di mestiere. Queste
confraternite, che possiamo definire professionali, erano di natura laicale, ed i
confratelli che ne facevano parte si raggruppavano intorno al culto di un santo, che
talora rappresentava il protettore della categoria cui appartenevano. Tale fenomeno di
associazionismo, derivante da quello più antico delle corporazioni medioevali, da cui
pure si distingueva, si caratterizzava, ancora nel XVIII secolo, per l’obbiettivo dei
confratelli di promuovere la difesa e la tutela dei propri interessi di categoria, e nel
contempo di promuovere l’esercizio del culto e delle attività caritative ed assistenziali.
Nella città di Napoli il ceto degli «artisti» era riunito nella confraternita sotto il titolo
della natività della Vergine, sita nella Chiesa di Santa Brigida, fondata dai padri
dell’Oratorio (1695). I calzaioli (fabbricanti di calze) si riunivano nella congrega di S.
Andrea, presso la Chiesa di S. Pietro del XII secolo, i calzolai ed i pianellari erano
raggruppati nella congregazione di S. Crispino e S. Crispiniano (1591). Gli
«accannatori di legna» avevano la cappella «della maestria degli accannatori». La
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congregazione di S. Maria della Buonanovella riuniva coloro che esercitavano la
«magnifica» arte della lana (1783) della città di Aquila, ove si annoveravano anche le
confraternite dell’«arte» dei barbieri e parrucchieri (1791), dell’arte dei falegnami
(1755), dei maestri delle arti di maniscalco, di quelle grossolane e sottili di ferro, degli
ottonari, stagnari e calderari. Ad Aversa era stata fondata la congregazione dell’arte
dei sartori, sotto il titolo di S. Michele Arcangelo, nella chiesa cattedrale (1763). I
calzolai erano riuniti nella congregazione di S. Crispino e S. Crispiniano. La
confraternita degli artisti (sartori, fabbricatori, barbieri, bottari ed altri), sotto il titolo
della Madonna della Visitazione, riuniva i cittadini di Brindisi.
Nella città di Salerno erano state fondate confraternite che riunivano il ceto dei bastari
nella chiesa di S. Benedetto piccolo (1619), il ceto dei bottari, fruttivendoli, venditori
di vino sotto il titolo di S. Martino (1795). Vi erano inoltre due congregazioni di
calzolai (1589-1672) e due congregazioni di «complateari e magazzinieri della piazza
della dogana del grano» (1628-1763). La confraternita della drapperia era composta da
ventiquattro sartori, sotto il titolo del SS. Salvatore (1793). Pure nei piccoli centri delle
diocesi, nei «casali» e nelle «terre» del regno, le confraternite professionali si
svilupparono e raggrupparono gli artigiani del posto 72.
Durante le assemblee i confratelli discutevano dei loro problemi di categorie e
prospettavano idonee soluzioni, come i confratelli della confraternita dell’arte della
lana sotto il titolo di S. Matteo in Pellezzano, nella diocesi di Salerno, per l’elezione di
un degnissimo e dottissimo avvocato, il quale doveva patrocinare le cause di detta
confraternita «per i vari litigi che occorrevano continuamente nei mercati per ragione
dell’arte» 73.
Non sempre le confraternite professionali erano riservate ai soli associati appartenenti
ad una determinata categoria professionale o di mestiere, ma si danno anche casi di
confraternite nei cui statuti non era ritenuto prevalente lo scopo di difesa di un solo
interesse professionale, ma esse erano interprofessionali in quanto aggregavano
membri appartenenti a diversa estrazione sociale ed a diverse categorie professionali.
Tuttavia anche in seno a queste confraternite interprofessionali si organizzarono,
talora, nell’interno, gruppi di confratelli che esercitavano la stessa professione e lo
stesso mestiere, al solo scopo di tutelare meglio i propri interessi di categoria. Invero
nella confraternita del Rosario della città di Catanzaro, pur essendovi raggruppati
confratelli di diversa estrazione sociale, e di mestieri quali «nobili, civili e artisti», si
costituì la corporazione separata dei tessitori di seta, con cappella propria, insegna
propria e con speciale vessillo e mozzetta rossa 74.
Anche nel regno di Napoli si ebbe la formazione di confraternite cosiddette miste, che
raggruppavano insieme laici ed ecclesiastici. Dobbiamo ritenere che, a base di queste
forme di confraternite, vi sia stata l’esigenza prevalente di raccogliersi intorno al culto
di un santo, ed anche di difesa della chiesa e della fede dai movimenti ereticali. Tali
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confraternite nel XVIII secolo subirono maggiormente l’attenzione del potere civile
che, in questo periodo di acceso giurisdizionalismo, mirava soprattutto a sottrarre le
associazioni di laici, costituite anche per fini di culto, da ogni ingerenza o preminenza
dell’autorità ecclesiastica. Pertanto, come già si è innanzi affermato, si dispose che il
clero non potesse più farne parte, e che i religiosi già iscritti potessero svolgere
soltanto l’esercizio del culto, abbandonando la gestione e l’amministrazione della
confraternita.
Si ritiene da alcuni storici che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, abbia
avuto inizio il declino dell’istituzione confraternale. Nel regno di Napoli, anche se può
affermarsi che non vi sia stata quell’espansione e sviluppo avutosi nei secoli
precedenti, tuttavia le confraternite rimasero in vigore non per pura sopravvivenza, ma
anzi rivolgevano ancora petizioni al sovrano per ottenere privilegi e preminenze.
Anche il numero esorbitante di statuti di confraternite che chiedevano l’assenso regio,
sta a testimoniare la piena vitalità dell’istituzione confraternale. Nella sola capitale del
regno ben 205 confraternite presentarono il loro statuto al sovrano per ottenere
l’assenso regio; nello stesso periodo operavano nella capitale 134 associazioni di
corporazioni. L’impartizione dell’assenso regio sui singoli statuti era preceduta da
relazioni compilate dal cappellano maggiore, ed inviate a sua maestà. Nell’archivio di
Stato di Napoli si trovano depositati trentuno fasci, contenenti quasi quattromila
fascicoli di statuti di corporazioni e congregazioni ed altri enti civili ed ecclesiastici.
Questa preziosa documentazione è risultata utile anche ai fini di una ricerca sulla
quantificazione del fenomeno confraternale, tuttavia tale fonte non è da ritenersi
sufficiente, perché non tutte le confraternite chiesero l’assenso regio; inoltre il
confronto con altre fonti, quale il catasto onciario, ha rivelato, talora, la presenza di
confraternite non elencate nella documentazione suddetta.
Quantificare le confraternite esistenti nei vari centri del regno di Napoli è senz’altro un
dato costruttivo ai fini di un discorso socio-religioso, tuttavia riteniamo che tale
quantificazione non implichi la pretesa di una ricostruzione esaustiva delle
confraternite del regno.
La nostra ricerca si è rivolta all’area geografica del Principato Citeriore, e le fonti
esaminate e messe a confronto ci hanno consentito di effettuare una prima ubicazione
delle confraternite, e nel contempo di porre l’avvio ad una serie di quesiti, quale il
rapporto esistente tra sviluppo confraternale e popolazione e tra sviluppo confraternale
ed attività produttiva.
Ancora è stato possibile stabilire quali furono le confraternite che ebbero maggiore
sviluppo, ovvero quante furono le confraternite fondate sotto il titolo di un santo
protettore di una categoria professionale, e quante furono le confraternite legate al
culto eucaristico ed al culto mariano.
Nella provincia del Principato citeriore, nella zona denominata costa, che
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comprendeva la diocesi di Salerno, Sarno, Nocera, Cava, Trinità della Cava,
Castellammare, Ravello, Lettere, Minori, Amalfi, Capri, Acerno, sono state
individuate 257 confraternite su una popolazione che raggiungeva il 268.705 abitanti
75.
La diocesi di Salerno con 142 luoghi sotto la sua giurisdizione vescovile, divisi in 16
dipartimenti detti Carte, di cui 13 nella provincia di Salerno e 3 nella provincia di
Montefusco, costituiva, senza dubbio, una vasta diocesi con una popolazione
complessiva di 92.340 abitanti 76.
Nella diocesi operavano alla fine del XVIII secolo 122 confraternite, con una
concentrazione maggiore nei centri economicamente più sviluppati. Invero a Solofra,
terra della provincia di Montefusco, ma appartenente alla diocesi di Salerno, erano
state istituite ben 14 confraternite, mentre la popolazione raggiungeva solo 6.300
abitanti. Solofra era il centro economicamente più florido della provincia, invero gli
abitanti battevano l’oro e l’argento, rifornendo tutto il regno di Napoli e lo stato
romano, inoltre vi erano importanti fabbriche di pellame e di pergamene 77. Questa
concentrazione confraternale nella città di Solofra rappresenta, a nostro avviso, un
dato sintomatico a conferma del rapporto tra sviluppo della istituzione confraternale e
mondo produttivo. Tuttavia non si vuole sostenere o proporre una tesi meramente
riduttiva, che voglia connettere lo sviluppo del fenomeno confraternale allo sviluppo
economico delle terre del mezzogiorno, proprio perché l’espansione dell’istituzione
confraternale fu, come si è evidenziato, molto più complessa in quanto molteplici
furono i fattori che vi concorsero.
Scriveva il Galanti che Salerno, capoluogo della Provincia Citeriore, «se va priva di
arti e di commercio ha molti monasteri; dodici monasteri di monaci, sette sono di
monache e di questi due sono conservatori» 78. Il clero secolare era ordinato in ben
diciassette parrocchie, oltre il duomo, mentre la popolazione raggiungeva solamente i
9.000 abitanti 79.
L’istituzione confraternale ebbe la sua espansione nella città, e fu largamente
rappresentativa dei ceti sociali e del clero locale. Secondo alcuni dati vi erano nella
città di Salerno, alla fine del XVIII secolo, 15 confraternite sotto il titolo di santi
protettori, ma da altre fonti è emerso un maggiore incremento dell’istituzione
confraternale, per cui si possono annoverare ben 27 confraternite 80.
Nelle confraternite si rispecchiava la situazione socio-economica e religiosa della città.
Salerno era stata ritenuta erroneamente una città commerciale, perché il suo sviluppo
commerciale, paragonato con quello degli altri paesi europei, era da ritenersi
«miserabile» 81. La fiera che si teneva a settembre, considerata la prima del regno, in
quanto vi si commerciavano generi stranieri, creava, invece, un commercio in gran
parte passivo, non esercitando gli abitanti in tale settore alcuna attività commerciale;
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essi erano puri spettatori perché «si accontentavano di locare nella fiera le loro case ai
negozianti di Napoli e del Regno» 82.
La vita commerciale cittadina era centrata sul traffico del grano. Salerno era
considerata l’emporio del grano, che era venduto, in tre mercati settimanali, ai paesi
situati nella costiera amalfitana, che ne erano privi. Tuttavia il grano posto in
commercio non era quello prodotto nella pianura di Salerno e di Eboli «leggero e di
poca durata», ma proveniva dal Principato Ulteriore, soprattutto dalla città di Avellino
che, a sua volta, lo riceveva dalla Puglia. Inoltre va evidenziato che la mancanza di
strade idonee al trasporto della merce aveva reso il traffico di grano difficile, anzi
soprattutto d’inverno diveniva addirittura molto raro 83.
Lo scarso sviluppo commerciale aveva creato nella città soprattutto la nascita di un
ceto di artigiani, e di pubblici esercenti, e furono queste le categorie più largamente
rappresentate nelle locali confraternite cosiddette professionali ed interprofessionali.
Legata al traffico del grano fu la confraternita laicale dei «complateari ed i
magazzinieri della Piazza della dogana del grano» 84, mentre «i bottegari, i
fruttivendoli, i venditori di vino si riunivano nella confraternita di San Martino e di
Santa Maria dell’Assunta, i «sartori» nella confraternita del Santissimo Salvatore. I
calzolai confluivano nelle confraternite di San Crispino e San Crispiniano, ed i
venditori di pesce nella confraternita di Santa Maria del Soccorso. Il ceto nobiliare
cittadino era rappresentato nella confraternita di San Antonio da Padova 85. Anche il
clero secolare e regolare aveva una propria organizzazione confraternale; il capitolo
della cattedrale era riunito in una propria confraternita, mentre la confraternita di Santa
Maria della Purità raccoglieva gli ecclesiastici secolari della città. Gli ordini religiosi
dei domenicani e degli agostiniani avevano confraternite presso i loro conventi, e
attraverso le confraternite cosiddette «miste» essi si univano ai laici che, in tal modo,
operavano attivamente con i padri missionari 86. Particolare diffusione ebbero nella
città le confraternite legate al culto mariano: S. Maria della Consolazione (1782), S.
Maria della Purificazione (1768), S. Maria della Purità (1798), S. Maria del Soccorso.
Ed ancora la confraternita della Immacolata Concezione (1762), del Rosario (1795),
della Vergine addolorata, del Carmelo, dell’Assunta, di Santa Maria dei Sette dolori.
Queste confraternite di devozionismo mariano, diffuse dai predicatori redentoristi, che
esaltavano le glorie di Maria e la sua funzione per la salvezza dell’anima, erano,
talora, legate alle confraternite dei morti, dette anche monte dei morti, che sorgevano
sotto il titolo della Vergine Addolorata, di Santa Maria dei sette dolori, oppure sotto
altra invocazione che rievocava la devozione alla Madonna per una buona e santa
morte 87. Soprattutto in queste confraternite di culto mariano in ordine alla buona
morte, l’istituto confraternale assunse un ruolo spiccatamente religioso e
prevalentemente devozionale, unendo i confratelli alle sorelle, ed accumunando
confratelli di diversa estrazione sociale, che avevano il comune intento di glorificare la
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Madonna e prepararsi alla buona morte.
Le città vescovili di Cava, Sarno, Nocera erano i centri con maggiore concentrazione
demografica. La città di Nocera, che aveva sotto la sua giurisdizione vescovile la sola
«terra» di Angri, era un aggregato di 25 casali con una popolazione che raggiungeva i
25.162 abitanti. Nella città di Cava, formata da 36 casali, vi erano 23.630 abitanti,
ritenuti «industriosi e perciò ricchi» 88. Erano fiorenti le fabbriche di cotone e di lino,
mentre erano decadute le manifatture di seta per l’abolizione in Napoli del dazio
doganale; inoltre la popolazione coltivava con diligenza il terreno, sebbene sterile e
pietroso 89. La città di Sarno, composta da tre quartieri, aveva sotto la sua
giurisdizione vescovile le terre di San Marzano, San Valentino, Striano ed il casale di
Casatuoro. La popolazione nella sola città raggiungeva i 12.000 abitanti, che avevano
trovato il loro sbocco occupazionale nelle due fabbriche di carta da scrivere e nella
ramiera.
In queste città vescovili le confraternite non ebbero uno sviluppo proporzionato alle
condizioni socio-economiche e demografiche, invero a Nocera si annoverarono
quindici confraternite, solamente quattro confraternite a Cava, ed otto confraternite a
Sarno. Che non vi fosse stata connessione tra incremento demografico e sviluppo
confraternale si evince anche dalla notevole presenza di confraternite in centri a
bassissimo sviluppo demografico, come Agerola, città regia nella diocesi di Salerno,
che aveva ben tre confraternite su una popolazione di appena 299 abitanti.
Alla fine del XVIII secolo nel Principato Citeriore il maggiore sviluppo confraternale
si ebbe nella diocesi di Salerno, che aveva una popolazione di 92.340 abitanti, e
registrava 122 confraternite distribuite in 40 centri. Al contrario la diocesi di Capaccio,
la più estesa del Principato Citeriore, ebbe una espansione confraternale molto più
contenuta, invero nei 108 centri, che erano sotto la sua giurisdizione vescovile, con
una popolazione di 126.929 abitanti, le confraternite furono 99 e si svilupparono in 61
centri 90.
Dopo una accurata ricerca sulla distribuzione delle confraternite nelle terre del
Principato Citeriore, possiamo giungere alla formulazione di dati che valgono a dare
un quadro di insieme dello sviluppo dell’istituzione confraternale. Ci auguriamo che al
più presto l’indagine si estenda anche ad altre regioni, per giungere ad una più ampia e
complessa valutazione del fenomeno confraternale in tutto il regno di Napoli.
Alla fine del XVIII secolo su una popolazione che nel Principato Citeriore, era di
508.374 abitanti distribuiti in 332 centri tra città, terre, terre regie, casali e casali regi,
abbiamo potuto individuare e localizzare 460 confraternite che ebbero nelle diocesi la
seguente ripartizione:
DIOCESI DEL PRINCIPATO CITERIORE
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STATO BORBONICO TANUSTATO BORBONICO TANUCCIANO ED ...LI ED ECONOMICICCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE
Popolazione
diocesi
Confraternite
REGIONE COSTA
Salerno arcivescovato
92.340 122
Sarno vescovato
15.812 12
Nocera vescovato 30.172 18
Cava vescovato
48.034 31
Trinità della Cava 18.623 16
Castellammare vescovato
13.576 3
Ravello vescovato 3.300 6
Lettere vescovato 10.400 8
Minori vescovato 2.200 2
Amalfi arcivescovato 27.779 33
Capri vescovato
3.900 1
Acerno vescovato 2.569 5
REGIONE DEL CILENTO
Capaccio vescovato 126.929
Policastro vescovato 24.546 24
99
REGIONE DEL VALLO DI DIANO
Campagna vescovato
Marsiconuovo vescovato
S. Lorenzo della Padula
12.987 21
15.581 9
1.792 =
PAESI DIPENDENTI DA DIOCESI
FUORI PROVINCIA
Diocesi Conza (17 terre)
Diocesi di Nola (Scafati)
38.596 31
2.391 1
PAESI ESENTI DA DIOCESI
10.753 5
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STATO BORBONICO TANUSTATO BORBONICO TANUCCIANO ED ...LI ED ECONOMICICCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE
TOTALE ABITANTI DEL PRINCIPATO CITERIORE:
CONFRATERNITE:
459
508.374
Nel Principato Citeriore le confraternite connesse al culto mariano ebbero il maggiore
sviluppo, invero abbiamo potuto rilevare la presenza di ben 187 confraternite mariane,
con una prepotenza di confraternite sotto il titolo del Santissimo Rosario, cui
seguirono, in ordine di sviluppo, le confraternite dell’Immacolata Concezione, della
Vergine Addolorata, di S. Maria delle Grazie, di S. Maria del Carmine, della
Santissima Annunziata.
Rilevante anche il numero di confraternite legate al culto eucaristico, di cui abbiamo
accertato la presenza di 77 confraternite, con un maggiore sviluppo di confraternite del
santissimo Sacramento, seguite dalle confraternite del Corpo di Cristo, dello Spirito
Santo e della Santissima Trinità.
Alla preparazione della buona morte, erano dedite le 33 confraternite del monte dei
morti; esse, per la diffusione che ebbero nel Principato, furono immediatamente
successive alle confraternite legate al culto eucaristico.
La ricerca documentaria sulle confraternite è apparsa importante non solo al fine
dell’accertamento dello sviluppo in termini quantitativi dell’istituto confraternale,
quanto piuttosto per il fatto che si è potuto rilevare, come già innanzi si è evidenziato,
quale grado di potere abbiano ad un certo punto raggiunto alcune confraternite, tanto
da poter competere e trasgredire le direttive della pubblica autorità. Ben vero è che
dalla ricerca è emerso anche come talora le confraternite ebbero la capacità e la forza
di potersi sostituire allo Stato nell’esercizio di funzioni sociali, che per loro natura
dovevano ritenersi riservate all’autorità statale, quali la organizzazione di ospedali,
monti di maritaggi e tutta un’opera di assistenze e beneficenze nei riguardi dei meno
abbienti 91.
Fu proprio rilevante ruolo sociale svolto dalle confraternite del regno ad indurre il
governo borbonico, che era per sua natura animato da un forte giurisdizionalismo, a
ricercare una legislazione che, come si è già evidenziato, servisse a limitare o quanto
meno a sottoporre alla sua sorveglianza l’attività delle confraternite. Non fu facile
comunque stabilire i criteri legislativi di regolamentazione delle confraternite proprio
per la reazione, a volte molto decisiva, opposta da quelle confraternite formate da
notabili e ricchi borghesi, che costituirono una forza sociale contro cui al sovrano non
fu facile opporsi 92.
3. Beni confraternali e loro amministrazione
file:///C|/Documenti/CONFRATERNITE/Vol_2/Testi_2/C20_delledonne.htm (16 of 36) [25/11/02 9.46.33]
STATO BORBONICO TANUSTATO BORBONICO TANUCCIANO ED ...LI ED ECONOMICICCIANO ED ISTITUZIONE CONFRATERNALE
Nel secolo XVIII nel regno di Napoli le confraternite avevano una posizione
economica alquanto eterogenea. Alcune confraternite provvedevano a far fronte agli
obblighi imposti dagli statuti con le semplici oblazioni e con la retta versata dai
confratelli. Invero nelle regole confraternali si affermava espressamente che l’ufficio
del cassiere era «l’introitare» le volontarie offerte e le limosine dei devoti fedeli,
giacché la confraternita non possedeva rendite 92. Anche nella approvazione delle
regole di confraternite si dichiarava che «la confraternita non aveva rendite, né veruna
possessione, pertanto essa poteva sostenere solamente le spese di cura, di messe ed
altri suffragi» 94.
Accanto alle confraternite che dichiaravano la loro precarietà economica, vi erano
confraternite dotate di un patrimonio immobiliare da cui ricavavano frutti e rendite.
Questa disparità economica era legata alla posizione finanziaria e sociale dei singoli
congregati, inoltre va aggiunto anche che spesso le confraternite erano gratificate con
donazioni e lasciti da parte di ecclesiastici e laici 95 i quali accrescevano il patrimonio
mobiliare ed immobiliare dell’associazione stessa.
I fedeli donavano alla confraternita del luogo in cui risiedevano le proprie sostanze,
con ingiunzione che, costituito con quei valori un fondo perenne, se ne erogassero i
redditi nelle opere di beneficenza contemplate dagli statuti.
A volte il testatore donava alla confraternita un capitale da darsi in elemosina, «tramite
bussola», ad una figliola nubile e povera di un casale, iscritta alla confraternita; oppure
si stabiliva nel testamento che in un determinato giorno dell’anno, corrispondente ad
una festività religiosa, il priore avesse fatto un pranzo «ad un fanciullo», ad una donna
ed un uomo poveri» 96.
Talora avveniva che proprio i confratelli facessero lasciti di immobili e di somme di
danaro alle confraternite cui appartenevano, con l’obbligo di celebrare messe in
suffragio della loro anima.
I «pesi forzosi», che rappresentavano le spese cui erano sottoposte le confraternite,
erano, per talune di esse, di modesta quantità, a volte addirittura irrisorie rispetto alla
ricchezza incamerata 97.
La gestione economica era estesa a tutti i membri della confraternita, infatti le
decisioni sulla utilizzazione dei beni confraternali erano collegiali: ogni confratello in
assemblea esprimeva il proprio parere sulla utilizzazione e fruttificazione dei beni
appartenenti alla confraternita. L’amministrazione era invece riservata, per 
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NFRATERNITE RELIGIOSE IN CALABRIA E NEL MEZZOGIORNO