la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 23 NOVEMBRE 2014 NUMERO 507
Cult
La copertina. A beautiful mind, scienziati superstar
Straparlando. Salvadori: “La mamma e il Pci”
La poesia. Gli amori perduti di Amalia Rosselli
Crepax
inedito
© ARCHIVIO CREPAX E GUIDO CREPAX
“Negli ultimi
mesi di vita
mio padre
temeva
che la sua Valentina
potesse
non piacere più”
Spuntano
dai cassetti di casa
le storie disegnate
dal grande fumettista
e fino a oggi mai viste
Il figlio Antonio
e Umberto Eco,
fan della prima ora,
ce le raccontano
in anteprima
ANTONIO CREPAX
e UMBERTO ECO
L’attualità. Fiori, mare, ulivi. La Liguria prima del fango e del cemento L’anniversario. Io e Sciascia nel giorno della civetta
Spettacoli. Dario Argento e i suoi fratelli, quando l’Italia fa paura L’incontro. Elio e le Storie Tese: “Perché ci chiamiamo così?”
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LA DOMENICA
DOMENICA 23 NOVEMBRE 2014
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La copertina. Crepax inedito
Matite colorate, tratto fitto e i suoi autori
più amati: Kafka, Schnitzler, D’Annunzio
Negli ultimi anni di vita il disegnatore
milanese continuò a inventare storie
nonostante la malattia.Eccone alcune
ANTONIO CREPAX
«H
O UN CARATTERE MANIACALE: passioni for-
tissime, dedizioni assolute, amori travolgenti, finché all’improvviso... stacco, mi raffreddo, metto tutto da parte.
L’ho fatto spesso, ma coi fumetti, con
Valentina, non ci riesco...». È probabilmente per questa dichiarata incapacità di smettere che, anche negli ultimi
anni della sua vita, nonostante i problemi di salute avessero irrigidito la
fluidità del suo tratto e la memoria gli
facesse perdere il filo della narrazione,
mio padre ha testardamente continuato a disegnare storie.
Non deve essere stato facile per il suo sempre vigile senso critico, credendo in cuor suo
che non avrebbe trovato editori disposti a pubblicare quei lavori. Per questo, ha cercato
agganci narrativi sicuri nei libri che aveva più amato, riprendendo lo stile dei suoi esordi giovanili: le matite colorate, il tratto fitto e insistito, quasi un ritorno all’espressionismo, un ritorno al passato.
Per ragioni opposte, noi famigliari, che rendendosi conto all’ultimo che forse il
ancora ricordiamo con dolore quel difficile tempo non gli sarebbe bastato. Come Il caperiodo, abbiamo faticato molto a lasciare stello di Kafka, rimasto incompiuto, o Dopche anche quegli ultimi lavori uscissero dal- pio sogno, ispirato al romanzo di Schnitzler
la sua casa. Tante cose avevamo rimosso di ma indubbiamente influenzato anche dal
quegli anni, perché intimamente legate al- film di Kubrick, Eyes Wide Shut, o ancora Il
la sua prematura, anche se annunciata, piacere di D’Annunzio, la sua ultima fatica.
scomparsa. Piccole e grandi storie, talvolta E poi curiosi esperimenti, come Valentina
incomplete. Come la visionaria Il sogno del- storie incrociate, dove rimescola le pagine
la moda, dove Valentina dialoga con sen- di quattro tra le sue storie più riuscite, con
sualissime modelle in uno scenario surrea- Valentina che ripensa e commenta alcuni
le, con i volti degli stilisti che affiorano dal- momenti chiave delle sue passate avventule rocce. Ma anche adattamenti di romanzi re. Quasi a sincerarsi che proprio lui era stache da tempo avrebbe voluto illustrare, to capace di concepirle. Idee creative che
ancora aveva, ma che spesso non riusciva a
sviluppare come avrebbe voluto.
Tante di queste pagine non ricordavamo nemmeno più di averle. Sono riaffiorate dal suo magico armadio insieme al senso della sua silenziosa battaglia per tornare a essere quello che era, continuare nella sua missione di autore. Ed è stata forse
questa rinnovata voglia di onorare il suo
impegno con il fumetto, la molla che ci ha
fatto decidere di pubblicare Inedito, primo capitolo di una nuova stagione editoriale delle opere di Guido Crepax, che ci auguriamo possa offrire qualcosa di nuovo e
inaspettato sia ai suoi vecchi lettori sia a
chi ancora non conosce il resto del suo lavoro, stimolando in loro una voglia di scoprirlo, partendo proprio dalla fine.
Inedito arriva in un momento importante per noi che da circa dieci anni tuteliamo e promuoviamo il ricco patrimonio
di immagini e contenuti lasciatoci da nostro padre. Fino ad oggi, abbiamo realizzato mostre, curato riedizioni di molte sue
storie, sviluppato oggetti di moda e di design, puntando sempre sui suoi lavori più
conosciuti, sulle sue creazioni più valide e
attuali. Per tanti anni abbiamo volutamente tenuto nel cassetto queste sue ultime storie, credendo che così ne avremmo
preservato la memoria. Il prossimo anno
sarà il cinquantesimo anniversario di Valentina. Oltre a Inedito, ci saranno molte
sorprese per tutti i suoi lettori appassionati: dal gioco dedicato a Valentina, che non
è mai riuscito a realizzare in vita, a un’originale mostra per raccontare quei meravigliosi anni che hanno visto la nascita di Linus e di quel personaggio così innovativo
nel campo del fumetto.
Inedito è dunque sorto da questa decennale riflessione sul lavoro di nostro padre,
pensandolo sempre più non solo come il
creatore di Valentina, ma come un autore
da leggere in tutta la sua interezza, mostrandone anche gli aspetti più segreti, i laI DISEGNI
vori più oscuri, i momenti più difficili. È coIN QUESTE PAGINE IMMAGINI TRATTE DA “SCAMBIO
me se si chiudesse uno di quei cerchi che a
IMPREVISTO” DI GUIDO CREPAX (1933-2003, FOTO SOPRA).
lui piacevano tanto, nella sua continua inIN COPERTINA “L’AMICO CONOSCIUTO”, PER CELEBRARE
dagine sul tempo che passa. Adesso che lo
IL COMPLEANNO DI VALENTINA CHE, IN OMAGGIO
abbiamo fatto, ci sentiamo più leggeri.
L’ultima
Valentina
RTV-LA EFFE
DOMANI SU RNEWS (ORE 13.45
E 19.45, CANALE 50 DEL DT
E 139 DI SKY) ANTONIO CREPAX
RACCONTA LE TAVOLE INEDITE
DISEGNATE DA SUO PADRE
ALLA MOGLIE LUISA, CREPAX FECE NASCERE A NATALE
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DOMENICA 23 NOVEMBRE 2014
Il fumetto
che anticipò
il cinema
UMBERTO ECO
NCHE a rivedere il Crepax
inedito si rivivono tutte le
emozioni che ci avevano
assalito quando lo avevamo
scoperto. E non solo
rievocare i sentimenti di sorpresa ed
entusiasmo con cui avevamo accolto su
Linus le sue prime storie a fumetti, La
curva di Lesmo e subito dopo I
sotterranei, con quegli abitanti del
sottosuolo e la loro lingua vagamente alla
Ulfila (“Tòitatnan màtnan nìmen
màutia…ìh, màkla hàuhtsa màtna, qèda
tai wèit bràukjan lebanraumnan!”) che ci
aveva procurato non poche ansie
glottologiche. Per poi arrivare
all’apparizione dapprima timida poi
sfolgorante di Valentina.
In realtà il mio primo incontro con il
disegno di Crepax risaliva a sei anni
prima. Niccolò Castiglioni aveva
pubblicato da Ricordi un piccolo ma
affascinante libretto, Il linguaggio
musicale, e subito gli avevo chiesto chi gli
aveva disegnato la copertina. Nulla di
speciale, in verità, due musici pitagorici
che per realizzare i suoni della gamma
battevano, come vuole la tradizione, su
campanelle di diverso formato e
bicchieri variamente riempiti d’acqua.
Ma l’eleganza, la sicurezza del tratto, la
novità della prospettiva, mi avevano
colpito. Non mi ricordavo di nessuno che
in Italia disegnasse così bene dopo
Gustavino.
Però nessuno si aspettava il “salto”
compiuto coi fumetti di Linus.
Con Crepax cambiava il senso del tempo
nel fumetto, ovvero il rapporto tra spazio
e tempo. Senza citare il Laocoonte di
Lessing, già esistevano arti dello spazio
capaci di suggerire il trascorrere del
tempo. Un primo modo, consiste nel
fissare l’istante, come avviene con
un’Annunciazione del Lotto dove in
mezzo alla stanza appare un gatto in atto
di balzare e, fissato così com’è in un
istante singolo, quel gatto ci suggerisce
una parabola, un movimento da lato a
A
IL LIBRO E LA MOSTRA
“INEDITO” DI GUIDO CREPAX
(EDIZIONI BD, 192 PAGINE,
20 EURO) SARÀ DISPONIBILE
DA DOMANI NELLE FUMETTERIE
E DA MERCOLEDÌ NELLE LIBRERIE.
VENTI TAVOLE ORIGINALI INEDITE
SARANNO POI IN MOSTRA
A LA SPEZIA DAL 12 DICEMBRE
AL 31 GENNAIO 2015
PRESSO LO SPAZIO 32
DELLA FONDAZIONE CARISPEZIA
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lato, e al tempo stesso l’istantaneità del
fatto miracoloso. L’altro modo è di
mettere in serie una sequenza d’istanti
diversi, come nei vari episodi
dell’Invenzione della Croce di Piero ad
Arezzo. Con quell’artificio, che si trovava
già anche in molte raffigurazioni
medievali, i pittori inventavano il
cinema, con qualche secolo d’anticipo, e
col cinema prefiguravano il fumetto.
Ma con molte sequenze di immagini
medievali e rinascimentali il tempo
veniva evocato anche fisicamente,
perché chi guardava era costretto a
muoversi da un lato all’altro del quadro
o, come in Arezzo, a passeggiare da un
punto all’altro della chiesa. Con il cinema
il tempo interviene di fatto, perché il film
si svolge nel tempo come un’opera
musicale, anche se nel tempo mostra
porzioni di spazio. Invece il fumetto, non
disponendo di un discorso che si dipana
nel tempo, lo fa dipanare nello spazio,
inquadratura dopo inquadratura, ma
chiede al lettore di far passare il tempo,
mentre passa da un’inquadratura a
un’altra.
Nel fumetto il lettore collabora ancor più
che al cinema perché deve riempire spazi
e tempi vuoti tra vignetta e vignetta. Nel
cinema qualcuno vibra un pugno e di
solito si segue tutto il movimento sino
all’impatto con un corpo altrui, e la
caduta del colpito. Nel fumetto in una
prima inquadratura si vede qualcuno
che sta per vibrare un pugno e nella
seconda l’avversario già a terra. Siamo
sicuri che sia a terra in virtù di quel
pugno che non abbiamo visto andare a
buon fine? Di solito non ci pensiamo un
istante, ne siamo sicuri, ma questa
sicurezza richiede un lavorio mentale
rapidissimo, implicito, un abito assunto
da un lettore che ha già introiettato il
linguaggio del cinema e sa immaginare
quello che il cinema potrebbe avergli
detto.
Così lavorava dunque il fumetto prima di
Crepax, sequenzialmente. L’evento
rappresentato nell’inquadratura
successiva veniva temporalmente dopo
quello dell’inquadratura precedente.
Invece le inquadrature di Crepax,
quando rappresentavano sequenze
temporali di eventi, lo facevano in modo
metonimico, sempre un particolare
minimo per il tutto, un baluginare di
eventi infinitesimali che suggerivano
uno spazio di tempo, una tensione, e che
si qualificavano come tali anche per la
singolare sintassi dell’impaginazione,
apparendo in strisce di dimensioni
minori delle altre, per inquadrature
minuscole, per suggerire che dovevamo
leggerle come un succedersi convulso di
momenti. Ma in altri casi due
inquadrature potevano suggerire non
passaggio di tempo, bensì
contemporaneità, come se il lettore
voltasse rapidamente la testa e da una
parte e dall’altra di una scena, cogliendo
nello stesso istante due particolari
diversi.
La grande innovazione di Crepax, quella
che ci aveva colpito sin dagli inizi, non
era tanto dovuta alla maestria del
disegno o all’invenzione romanzesca
(molti sanno disegnare e molti
inventano vicende romanzesche)
quanto alla nuovissima sintassi
dell’impaginazione (la quale oltretutto
obbligava il disegno ad adeguarsi al suo
ritmo e farsi più nervoso – e più nervose
rendeva le storie). Ma direi di più:
occorreva persino saper anticipare il
cinema. Perché molte tecniche di
Crepax, e primo tra tutto quel suo
“montaggio sconnesso”, saranno tipici
della nouvelle vague, ma se andiamo a
vedere le date Crepax giocava d’anticipo,
sia pure di un anno o pochi mesi.
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L’attualità. Paradisi perduti
Fiori, ulivi e liberty. Fu l’house organ della Sasso, primo in Europa,
a creare un secolo fa l’immagine della Liguria oggi sommersa
dal fango e dal cemento. Uno scrittore ne ripercorre la storia
L’invenzione
dellaRiviera
GIORGIO BERTONE
GENOVA
V
ISTO DAL RIGHI, sulle alture di Genova, in una tregua delle cata-
strofi pluviali, così simili ai monsoni, l’azzurro del Golfo e delle due Riviere mi appare invaso da osceni laghi d’acque giallomarrone, che ogni fiume o torrente erutta, insieme con i detriti, in mare. Ricostruire a braccia, pala e ruspe, sì, che forza
d’animo, ricostruire è anche un esercizio della memoria collettiva. Le Riviere che convergono nella capitale — quella di
Ponente e quella di Levante: quasi solo in Liguria si usano termini da carta nautica — sono diventate nel Novecento un paesaggio riconoscibile, fatto di pietre, ulivi, coste rocciose e scoscese in un mare profondissimo e calvo, privo di mediazioni insulari, solo tre isolotti e lo scoglio di Bergeggi. Una sorta di
brand image che racchiude la terra e il lavoro di pescatori (pochi) e contadini (tanti), di produttori industriali di quello che si chiama oggi l’agroalimentare, ricollegato tardivamente
allo stile e dieta mediterranea: farina e pasta (Agnesi), latte e lattine, e olio, olio dovunque.
Storia del primo Novecento, che ripercorro sulle belle slides inviatemi dalla Fondazione
che si intitola a quel Mario Novaro, uno dei proprietari della Sasso, la cui rivista, La Riviera
Ligure, da lui diretta dal 1910, contribuì formidabilmente all’invenzione della Riviera. Il “foglio unto”, come veniva chiamato, era distribuito gratuitamente ai clienti della ditta, fino a
raggiungere le centomila copie, firmato agli inizi (1895) da “Paolina Sasso e Figli”, già con
una grafica, elementare, ispirata ai luoghi della costa (Oneglia e Capo Berta). La Riviera era
stata già inventata nel pieno dell’Ottocento dagli anglosassoni, e il patriota e latifondista di
ulivi in quel di Taggia, Giovanni Ruffini, aveva servito subito un romanzo, Il dottor Antonio,
scritto in inglese per gli inglesi (Edimburgo, 1855). Si trattava di reinventarla a uso degli
italiani. Il paradosso sta nel fatto che il progetto di Novaro, filosofo e poeta in proprio, si intrecciò con il destino di una personalità fortissima ma diversa anche ideologicamente. E oggi che per il centenario si rilegge Il peccato di Giovanni Boine (1914, La Voce di Prezzolini,
ma a puntate sulla Riviera già dal ‘13), un romanzo sperimentale, concitato come una burrasca di libeccio, si vede bene che Boine diede un apporto tutto suo, antiottocento, pronto
per distruggere il pittoresco. E il muro del Convento delle Carmelitane al Monte Calvario
(Porto Maurizio), dove sta la monaca novizia dalla bellissima voce canora, di cui s’incanta il protagonista, è già infitto di cocci
aguzzi di bottiglia. Agrario senza terra, bibliotecario senza biblioteca, traduttore lodato ma inedito, volontario per la guerra subito riformato, Boine si avvicinò a Novaro:
“Novaro è un simpaticissimo uomo. Sono an-
dato a trovarlo. Sono entusiasta di questa
gente che dà cinque o sei ore al commercio e
poi legge Hobbes e ride di Croce”.
Garantiva la rigogliosa e duratura attività
della rivista proprio la pubblicità dell’olio e
la munificenza di Novaro. Non proprio uno
sponsor, come disse Sanguineti. L’Olio Sasso era poi pubblicizzato sulle ferrovie e — si
tramanda oralmente — in un grande cartellone che nello stretto di Gibilterra salutava i
migranti, accompagnandoli nei loro irrinunciabili consumi. Nella prospettiva di Boine l’olio di raffineria industriale (i primi impianti al mondo) uccideva la campagna e i
proprietari terrieri, come spiegò in un testo
capitale, La crisi degli olivi in Liguria (La Voce, 1911). Ma oggi si può dire che i tanti nuovi oleari e pastai realizzavano in un luogo
geografico non casuale una nuova industria
soft di cui beneficiarono poi i tanti lavoratori fino a pochi decenni fa, prima della crisi,
nel loro tipico doppio lavoro: operai in fabbrica per otto ore, come i nostri nonni, il mio
proprio alla Sasso, e il resto a coltivare l’orto
e gli ulivi, con magari una terza occupazione
saltuaria di pescatori d’anguille in torrente
e di polpi tra scogli.
Tutto ciò prima che la Liguria vendesse
gran parte dell’anima al Lucifero del cemento. L’opera da Belle Epoque di conciliazione di paesaggio e industria sulla base di
un territorio reale in trasformazione fu anche uno specchio incantato, un poco illuso-
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PER GENTILE CONCESSIONE DELLA FONDAZIONE NOVARO
DOMENICA 23 NOVEMBRE 2014
LE ILLUSTRAZIONI
SONO TRATTE DA “LA RIVIERA LIGURE” IL CUI ARCHIVIO
È CONSERVATO DALLA FONDAZIONE NOVARO
(FONDAZIONENOVARO.IT). UNA RICERCA E DIGITALIZZAZIONE
IN CORSO SU QUESTA E ALTRE RIVISTE DEL NOVECENTO
SI STA SVILUPPANDO IN UN CONSORZIO DI UNIVERSITÀ
(NORMALE DI PISA, UNIVERSITÀ DI GENOVA, SIENA, UDINE):
CAPTI.IT (CONTEMPORARY ARCHIVES PERIODICAL TEXTS
ILLUSTRATION). UNA BELLA COLLEZIONE DI LATTINE D’OLIO
LITOGRAFATE SI TROVA INVECE AL MUSEO DI CHIUSANICO (IM).
MENTRE IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DE “IL PECCATO”
DI GIOVANNI BOINE È DA SEGNALARE L’EDIZIONE 2014
A CURA DI F. BARRICALLA (MATISKLOEDIZIONI.COM)
rio. L’antologizzatore e redattore della rivista riuscì comunque a infilare nelle casse dell’Olio spedito solo e direttamente ai clienti
(come tutti i produttori allora, e oggi solo la
“Fratelli Carli” e altre Case, tutte attentissime al family brand) i nomi più famosi e quelli d’avanguardia. Perché pagava bene, in soldi o in “olio buono”. Di qui l’eterogeneità degli ospitati: Pirandello, Deledda, Di Giacomo, Pascoli, Capuana, Soffici, Papini, Sbarbaro, Ungaretti, Savinio, Palazzeschi. Ma
l’impresa di dar vita a uno dei primi house organ in Europa, sintetizzato in un logo topografico, non sarebbe riuscita senza l’apporto della pittura e della grafica. Quella più
avanzata e alla moda: il Liberty. Bello e pronto per annettere all’estetica il nuovo volto
della tecnologia industriale e già affermato
nelle Riviere con la costruzione degli hotel
ispirati alle “villes d’eaux”. Novaro ingaggiò
due campioni, Plinio Nomellini e Giorgio
Kienerk. Al secondo affidò il lettering e la copertina. Boine non apparteneva per nulla al
Liberty, semmai all’espressionismo europeo, e neppure Novaro, poeta in proprio. In
parte il destino dei due rimase comunque legato, come testimonierà a morte avvenuta
(di tisi a trent’anni, 1917) Montale: “È morto Giovanni Boine!!! Questa notizia mi ha fatto male. Per l’avanguardia (parlo della parte seria di essa) il danno è incalcolabile (…).
La Riviera Ligure ne resta come diminuita”
(Quaderno genovese). Ma di fronte ai nuovi
imprenditori, quella di Boine era una ideologia conservatrice, patita sulla propria pelle:
“Si vende qui su in vallata, a dieci chilometri
dal mare, sopra Porto Maurizio, la casa di
mio nonno”. Il luogo è Dolcedo, capitale degli antichi frantoi artigianali, che cedevano
ai frantoi industriali onegliesi: “I frantoi in
vallata non lavorano più; son chiusi in gran
parte, ma i magazzini dei negozianti al mare, le giarre, i pozzi, i truogoli dei negozianti
al mare sono pieni, son colmi”. “Botti rigonfie, botti di olio non nostro che ha nome di nostro” (sempre La crisi degli olivi). Perché
l’industria compra da tutte le coste del Mediterraneo, anche se oggi è più attenta a differenziare i label richiesti dai consumatori
italiani e foresti.
Da quell’ideologia derivano le pagine
aspre su un paesaggio duro, esente da sfumature psicologhe e sentimentali, semmai
legato a una “razza”: “Terreno avaro, terreno insufficiente su roccia a strapiombo, terreno che franerebbe a valle e che l’uomo tiene su con grand’opera di muraglie e terrazze. Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per
quanto i nostri padri, pietra su pietra, hanno
con le loro mani costruito”. Una terra a gradoni, terrazzamenti, maxei (muri), in basso
coltivate a orti, pomodori, fave e fiori, poi a
ulivi, più su a grano e patate, ancora negli anni Cinquanta. E dove non ci sono più né ulivi,
né castagni, né capre, né uomini, ancora fasce antiche, abbandonate.
Anche a Genova poco distante dal centro
e dall’industria pesante, fino a pochi decenni fa, prima dell’anno domini della speculazione edilizia. Anche attorno al sempre terribile Fereggiano che scarica la sua furia nel
Bisagno, bloccato dallo scirocco, c’erano fa-
sce e orti mi raccontava un anziano proprietario di un laboratorio di serramenti, nei primi del novembre 2011 subito dopo l’alluvione assassina, mentre cercavamo di avvitare
i giunti di plastica di una tubatura di pvc nero da un pollice e mezzo per riattivare l’acqua potabile, stando tutti e due a cavalcioni
di quel torrente che pochi giorni dopo lo straripamento era già ridotto a un rigagnolo largo quanto la divaricazione delle nostre gambe. Erano tutti orti, mi descriveva, mentre
guardavo dal basso in alto la configurazione
di isometriche costituita da palazzoni, enormi pareti verticali, affiancati da brevi spiazzi asfaltati per le auto, poi un muraglione
verticale di cemento, una ridottissima intercapedine e, più sotto, un altro condominio-caserma, a chiudere tutti insieme come
cospirati sull’alveo stretto del torrente.
Oggi però, qui dall’Alpicella (Capo Berta), luogo di passeggio di quelli della Riviera
(alcuni dei loro manoscritti erano pieni di
aghi di pino) dove nelle giornate limpide di
Maestrale si vede a Levante fino al Tino e a
Ponente fino all’Esterel, pare che la Corrente prevalga. La Corrente del Golfo che attraversa l’Atlantico, si infila in Gibilterra e poi
risale l’Italia verso Nord a lustrare l’arco delle due Riviere da Est a Ovest, mi sembra riprendere forza, meno intersecata dal fango
vomitato dai fiumi. Mi pare che il mare cominci a riprendere l’azzurro brillante.
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L’anniversario. Cose loro
PARIGI 1979,
LEONARDO SCIASCIA
CONCEDE
UNA LUNGA INTERVISTA
A UN SUO AMMIRATORE
DOCENTE DI ITALIANO
A LONDRA.
CHE SOLO ORA,
A VENTICINQUE ANNI
DALLA MORTE
DELLO SCRITTORE,
PERMETTE
CHE SIA PUBBLICATA.
ECCOLA
THOMAS BALDWIN
eonardo Sciascia, il titolo del suo libro, Il
giorno della civetta, risulta un po’ strano.
Lo storico Mack Smith si è chiesto se gli
italiani stessi possano capirlo, anche se
l’epigrafe è tratta dall’Enrico VI. Come
spiega lei quel titolo?
«Quando uno ha difficoltà a trovare un titolo può aprire a caso o la Bibbia o Shakespeare, e lo trova. Io ho fatto l’operazione con Shakespeare ed è venuta fuori questa frase: “come la civetta quando il giorno compare”».
L
© FERDINANDO SCIANNA/MAGNUM/CONTRASTO
«La civetta è un animale notturno, invece questa specie di società segreta che è la mafia, una società diciamo notturna, in Sicilia agisce di giorno».
Il titolo è quindi una chiave di lettura? Un titolo importante?
«I titoli sono sempre importanti, e questo mi pare che dia anche misteriosamente e ambiguamente il senso del libro. La civetta, animale notturno, diventa animale diurno, in Sicilia: una
metafora. Il giorno della civetta coglie la mafia nel trapasso, da
mafia di campagna, mafia rurale, a mafia urbana. È stato scritto
nel momento in cui la mafia attraversava questa evoluzione. Ora
l’evoluzione c’è già stata: il tipo don Mariano Arena-Genco Russo, non esiste più. Oggi il capomafia è una specie di burocrate».
Se lei dovesse aggiungere qualcosa, diciannove anni dopo
aver scritto il libro, cosa aggiungerebbe?
«Non aggiungerei nulla, non cambierei assolutamente nulla
di quello che ho scritto allora, perché la mafia esiste ancora con
la stessa struttura di allora: anzi il fenomeno si è allargato ed è arrivato al Nord Italia. Il sistema mafioso ormai vige in tutta Italia».
Non c’era allora la speranza che le cose, in Sicilia, fossero cambiate dopo il tentativo di repressione da parte di Mori?
«Sotto il fascismo la repressione di Mori funzionò perché due
mafie non potevano convivere. Il fascismo è una specie di mafia,
una mafia “grande” non poteva tollerare la minore. Con la caduta del fascismo e con l’arrivo degli americani, la mafia è risorta».
La mafia riuscirà a sopravvivere?
«Mah, fino ad oggi, sopravvive».
Nelle sue opere lei insiste sulla storia, e mette molta cura nel
verificare i fatti attraverso i documenti del tempo. La storia come tema non è ancora presente nel Giorno della civetta.
pedusa, di questa follia. La Sicilia è inverosimile, in un certo senso: è vera, ma è inverosimile».
Ma di quali verifiche dispone lei?
«Nella vita stessa siciliana, nel modo come si è svolta la stessa
storia siciliana per secoli c’è dell’inverosimiglianza. È inverosimile la sopravvivenza di questo popolo, con tutto quello che ha
subito. Eppure sopravvive, è sempre vivo».
È per questo che ha scelto di contrapporre il capitano Bellodi
ai vari rappresentanti della mafia?
«Sì, Bellodi rappresenta per me il simbolo dell’Italia che esce
dal fascismo con una coscienza antifascista, con la coscienza di
volersi rinnovare, rappresenta il simbolo della Resistenza».
E perché Bellodi è un carabiniere dell’Italia settentrionale?
«Era un’idea, un’idea di Parma, molto antifascista, molto resistenziale. Non è un personaggio, è un’idea».
Lei condivide l’idea che alla fine niente si può cambiare?
«Difatti non è cambiato niente dal 1961 ad oggi. Nel 1973 hanno pubblicato gli atti della Commissione parlamentare antimafia che sono un esercizio di filologia».
Il giorno della civetta è un giallo?
«Sì, e l’adopero naturalmente questa tecnica. Amo uno scrittore come Graham Greene perché adopera sempre questa tecnica del giallo, anche quando parla di drammi interiori. Ma l’adopera anche Dostoevskij. Praticamente tutti gli scrittori che si
fanno leggere hanno, in certo modo, adottato la tecnica del giallo. Io l’ho fatto sempre».
È anche un giallo impossibile?
«Lei vuol dire un giallo senza soluzione? Poiché il giallo comporta sempre una soluzione. Invece nei miei non ce n’è. Sul piano
dell’intelletto sono soddisfacenti e insoddisfacenti al tempo stesso. Lì ci vuole anche un po’ di ironia,
perché il giallo, in effetti, quando si arriva alla fine
dà soddisfazione. Però al tempo stesso si rimane insoddisfatti perché cessa con la soluzione l’interesse: è finito. Il giallo senza soluzione poi è insoddisfacente del tutto perché ci lascia nel dubbio. Come andrà a finire? Però questo è un libro che serve
ancora per il fatto stesso che non esiste soluzione».
Nel Giorno della civetta chi ha commesso il delitto lo si sa abbastanza presto. Continuare il
racconto è una questione di tecnica, quindi?
«Ho continuato con la tecnica del poliziesco. Solo che non finisce con
la soddisfazione di assicurare il colpevole
alla giustizia».
In questo senso si
potrebbe parlare
di pessimismo?
«Sì, questa è una
forma di pessimismo.
Il giallo si segue con
interesse perché si vuole sapere come va a finire. Nei gialli – diciamo così – che scrivo io non si va a finire».
Dalla descrizione dell’ambiente locale si può allargare il discorso del potere alla corruzione nazionale o internazionale?
«In quel momento a me interessava dare una rappresentazione della mafia siciliana per un motivo di polemica, di denuncia,
di dovere civile, da cittadino siciliano che vuole reagire a questo
fenomeno e ne fa una denuncia. Ma con gli anni questo è diventato metafora del potere. Per me è difficile dire cosa io intendessi, diciannove anni fa, quando lo scrissi, direi al di fuori della denuncia. Ma ora vedo che il libro può essere letto in una chiave in
cui si può riconoscere un francese, un inglese, e magari un americano. Allora, per me quello che era un problema limitato alla
realtà siciliana con gli anni è diventato un’altra cosa. Questa è la
sorte di tutti i libri. Per parlare di un grande esempio credo che effettivamente Cervantes quando scrisse il Don Chisciotte intendesse fare la satira di questo mondo che si infatuava delle storie
cavalleresche. Ma con gli anni quello è diventato il libro dell’anima spagnola, ed è diventato una favola, un emblema di un mondo ideale. Il chisciottismo è diventato come una persecuzione,
una ricerca di idealità. Ho fatto il paragone per dire che cosa è un
libro, e che cosa diventa al di là delle intenzioni dell’autore».
Il giorno
della civetta
e diMr.Baldwin
L’ANNIVERSARIO E LE IMMAGINI
IN OCCASIONE DEL VENTICINQUENNALE
DELLA MORTE DI LEONARDO SCIASCIA
(RACALMUTO 1921-PALERMO 1989)
ADELPHI PUBBLICA IL TOMO I
(“INQUISIZIONI E MEMORIE”) DEL VOLUME II
DELLE SUE OPERE (A CURA DI PAOLO
SQUILLACIOTI, 1432 PAGINE, 75 EURO).
ENTRAMBE LE FOTOGRAFIE DI QUESTE
PAGINE SONO DI FERDINANDO SCIANNA:
IN QUELLA GRANDE SCIASCIA È RITRATTO
NEL GIARDINO DELLA SUA CASA
DI RACALMUTO; IN QUELLA PICCOLA,
È INSIEME A TOM BALDWIN, A PARIGI,
IL 19 MAGGIO 1979 PRIMA DELL’INTERVISTA
CHE QUI PUBBLICHIAMO
«Non è un libro propriamente storico. Però è un libro in cui si
raccoglie tanta storia, insomma. È un presente che è spiegato da
tanto passato. Si muove sulla cronaca, direi. Però anche la cronaca è destinata a diventare storia. La cronaca è storia in potenza,
in fieri. Domani sarà storia la cronaca di oggi».
Pensa ai riferimenti al fascismo, al prefetto Mori, al separatismo e a ciò che rappresentava a quel tempo?
«Sì, ci sono riferimenti alla storia recente della Sicilia, che va
dal fascismo al dopoguerra, al rinascere dei partiti, all’aggregazione, dentro questi partiti, della mafia, che prima era stata separatista, e poi è diventata democristiana. E la mafia che prima
puntò sul separatismo e poi puntò sulla Democrazia cristiana,
capì che l’avvenire sarebbe stato della Dc, del partito dei cattolici. Dapprima la mafia, con la protezione degli Stati Uniti, pensò
che la Sicilia si potesse separare dall’Italia e quindi fu separatista.
Quando invece, dopo l’arresto dei due leader del separatismo, la
mafia si accorse che lo Stato italiano viveva ancora, e che era il
vecchio Stato unitario, allora passò alla Dc».
Lei scrive che la Sicilia “è tutta una fantastica dimensione: e
come ci si può star dentro senza fantasia”. Quale senso hanno
le parole fantasia e fantastico legate alla sua isola?
«Nel senso che è una realtà difficile ad afferrarsi, difficile a porsi in termini reali. C’è come una follia e ne ha parlato anche Lam-
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E alla fine
mi invitò a cena,
chez Maxim
CONCETTO VECCHIO
© FERDINANDO SCIANNA/MAGNUM/CONTRASTO
«L
EI È LO SCRITTORE JAMES BALDWIN, vero?».
«Veramente no, sono Tom Baldwin,
insegno italiano a Londra».
Tutto ebbe inizio con un equivoco tra
Leonardo Sciascia e il giovane docente
precario con cui durava un epistolario da quasi tre anni.
«Non fa niente», tagliò corto Sciascia. «Tra qualche giorno
sarò a Parigi: perché non mi raggiunge lì, così finalmente ci
conosciamo?». Baldwin a fatica mise insieme i soldi per il
volo, supplicò un’amica di ospitarlo, e un sabato
pomeriggio, il 19 maggio 1979, se lo ritrovò davanti lo
scrittore-mito. Voleva intervistarlo. «Venga a trovarmi
domani in albergo, al Vernet». L’incontro durò oltre tre
ore, il tempo di quattro musicassette da quarantacinque
minuti. Ora, nel venticinquesimo anniversario della morte
di Sciascia, scomparso il 20 novembre 1989, questo
dialogo mai pubblicato emerge dai cassetti di Baldwin.
Una riflessione su Il giorno della civetta, il romanzo più
letto di Sciascia; sulla Sicilia, sulla mafia, sul destino che i
libri importanti assumono oltre le intenzioni del loro
autore. Baldwin trema, quando rispolvera quei giorni
lontani. «Scoprii Sciascia nel 1976, lo leggevo ai miei
studenti, un giorno gli scrissi una lettera, arrivò la sua
risposta, di tanto in tanto ci scambiavamo delle
impressioni. Nel 1978 andai appositamente in Sicilia con la
mia futura moglie, mi spinsi fino a Racalmuto, e poi in viale
Scaduto, a Palermo, dove Leonardo abitava, ma sempre mi
mancò il coraggio di cercarlo. Avevo paura di fargli le
domande sbagliate. Lui a un certo punto mi diede il suo
numero di telefono, era quello dell’ufficio di Sellerio, “mi
trova qui ogni pomeriggio”. Per iscritto gli espressi il
desiderio di conoscerlo, volevo pubblicare Il Giorno della
civetta in Inghilterra, un’edizione italiana per studenti,
corredata da un’intervista all’autore. Suggerii al direttore
dell’Istituto italiano di cultura di Londra d’invitarlo per
una conferenza, ma mi rispose che lo stavo
compromettendo. Una sera arrivò la sua telefonata: mi
invitava a Parigi».
Il sabato lo trascorse all’università , dove si teneva un
seminario. Lo scrittore che aveva fatto conoscere la mafia
al mondo sedeva al tavolo dei relatori, certi studiosi gli
ponevano domande lunghe dieci minuti a cui talvolta
Sciascia rispondeva con un laconico «può darsi».
All’indomani il portiere dell’hotel pregò Baldwin di
accomodarsi in una stanza e qua rimase in paziente attesa:
«Dall’altra parte del muro sentivo un uomo tossire. Dopo
un’ora capii che ero finito nella stanza sbagliata. Quando
mi vide estrarre il mangianastri mi disse bonario: “Un
buon giornalista non ha bisogno di un registratore”. Ma io
non ero un giornalista». Sciascia si rivelò diverso da come
Tom se l’era immaginato. «Non aveva le albagie del grande
scrittore, era rimasto il maestro di Regalpetra che
pazientemente spiegava. Mi sciolsi. Fumava senza requie.
La stanza era avvolta in una nuvola spessa di fumo. Mi
domandò: “Lei ha impegni per pranzo?”. Non ne avevo.
“Andiamo al Maxim’s, ci andava Hemingway”. Mi toccai i
pochi spiccioli che serbavo in tasca: nove franchi,
bastavano per un hot dog. Sciascia pagò per tutti».
Nel maggio del 1979 Sciascia è alla vigilia della sua
elezione al Parlamento europeo e al parlamento italiano.
Ha da poco pubblicato con Sellerio L’Affaire Moro,
vendendo subito centoventimila copie, e rotto con il Pci.
«Voglio andare a vedere certe facce» annuncia a Baldwin. Il
docente torna a casa, febbrilmente sbobina tutto il
dialogo, riempiendo decine e decine di pagine, ma il libro
per studenti inglesi, per complicate ragioni, non vedrà mai
la luce. Una parte di quel colloquio – sempre la stessa –
venne poi pubblicata sul magazine dell’Association of
Teachers of Italian Journal nel 1980, e quindi ripresa dal
periodico Rassegna siciliana di storia e cultura (agosto
1998), dal bimestrale Lo stato delle cose (dicembre 1998),
e nel 2011 dal sito Contessa entellina, in sette puntate. Ma
Baldwin il capitolo su Il giorno della civetta l’ha tenuto
gelosamente coperto per tutti questi anni, nella speranza,
prima o poi, di una pubblicazione. Ora, grazie alla
mediazione del nipote di Sciascia, Vito Catalano, anch’egli
scrittore, questo documento vede finalmente la luce.
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Spettacoli. Facciamo paura
Nessuno prendeva sul serio i nostri film “orrorifici”
tanto che nei Sessanta si sceglievano titoli e attori
stranieri. Eppure il gotico all’italiana ha fatto scuola
E, tremate, sta tornando.Per il momento in libreria
DANZA MACABRA (1964)
L’ORRIBILE SEGRETO DEL DOTTOR HITCHCOCK (1962)
TOBY DAMMIT (1967)
LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO (1976)
Italian
horror
picture
show
LA FRUSTA E IL CORPO (1963)
I VAMPIRI (1957)
IL BOIA SCARLATTO (1965)
TERRORE NELLO SPAZIO (1965)
EMILIANO MORREALE
C
OSA C’ENTRIAMO NOI ITALIANI CON L’HORROR e con il gotico? Davvero quella tradizione di castelli, spettri,
vampiri, licantropi è legata ai brumosi scrittori
del Nord e ai registi loro figli? Scriveva già Leopardi, in piena epoca romantica: “troppo è
noto che nessuna delle tre grandi nazioni
che, come dicono i giornali, marchent à
la tête de la civilisation, crede agli spiriti meno dell’italiana”. Tant’è che
gli scapigliati (e perfino il giovane
Verga) cercarono di ammodernarsi abbeverandosi a un immaginario nordico di vampiri e spettri. La narrativa e il cinema gotici sembrano comunque, da noi, merce d’importazione. Il cinema tedesco è l’espressionismo, quello italiano il neorealismo, si dice. Fino agli anni del boom, a spulciare alla ricerca di
un fantastico italiano al cinema, troviamo solo sporadiche bizzarrie: un Mostro di
Frankenstein muto, una specie di Dottor Jeckyll di Alessandro Blasetti (Il caso Hal-
ler), le esercitazioni “alla Poe” dei giovani
dei Cineguf (Il cuore rivelatore, 1934, di Monicelli, Lattuada, Cesare Civita e Alberto
Mondadori), Malombra di Mario Soldati.
Ma la vera moda dei gotici italiani, nella prima metà degli anni ’60, si apre sulla scia dei
successi della casa inglese Hammer, quella
dei film a colori con Peter Cushing e Christopher Lee. Il capostipite è La maschera del
demonio (1960) di Mario Bava, tratto da un
racconto di Gogol’: oggi il film è considerato
un classico del cinema italiano, e il suo autore il maestro del genere. L’altro grande
nome, Riccardo Freda, aveva girato qualche anno prima I vampiri (1957), cui Bava
aveva collaborato; ma il film era andato male proprio per il pregiudizio nazionale: nessuno voleva andare a vedere un film “orrorifico” (come si diceva allora) con attori e re-
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Da Satana
agli Zombi
RAPSODIA SATANICA
NINO OXILIA, 1917
MALOMBRA
MARIO SOLDATI, 1942
I VAMPIRI
RICCARDO FREDA, 1957
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CALTIKI, IL MOSTRO IMMORTALE
RICCARDO FREDA, 1959
LO SPETTRO
MARIO BAVA, 1963
UN ANGELO PER SATANA
CAMILLO MASTROCINQUE, 1966
PROFONDO ROSSO
DARIO ARGENTO, 1975
LA MASCHERA DEL DEMONIO
MARIO BAVA, 1960
DANZA MACABRA
ANTONIO MARGHERITI, 1963
TOBY DAMMIT
FEDERICO FELLINI, 1967
LA CASA DALLA FINESTRE CHE RIDONO
PUPI AVATI, 1976
LYCANTHROPUS
PAOLO HEUSCH, 1961
LA DONNA DEL LAGO
LUIGI BAZZONI E FRANCO ROSSELLINI, 1965
UN TRANQUILLO POSTO DI CAMPAGNA
ELIO PETRI, 1968
ANIMA PERSA
DINO RISI, 1977
SEDDOK- L'EREDE DI SATANA
ANTON GIULIO MAJANO, 1961
AMANTI D'OLTRETOMBA
MARIO CAIANO, 1965
L’UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO
DARIO ARGENTO, 1970
SUSPIRIA
DARIO ARGENTO, 1977
I TRE VOLTI DELLA PAURA
MARIO BAVA, 1963
OPERAZIONE PAURA
MARIO BAVA, 1966
IL GATTO A NOVE CODE
DARIO ARGENTO, 1971
ZOMBI 2
LUCIO FULCI, 1979
L’UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO (1970)
SEDDOK - L’EREDE DI SATANA (1961)
AMANTI D’OLTRETOMBA (1965)
Grazie Mario Bava,
mio spirito guida
DARIO ARGENTO
OPERAZIONE PAURA (1966)
RAPSODIA SATANICA (1917)
O COMINCIATO MOLTO PRESTO, da
adolescente, a crearmi un pantheon
personale in cui collocare gli idoli che
sono stati imprescindibili per la mia
formazione, umana e intellettuale. Ma
dirigere film thriller e horror, aver fondato su di essi
la propria carriera, non significa stare per forza nel
solco del genere. Significa spaziare, allontanarsi dalle
voci consonanti per imparare da quelle differenti. E
dunque la nouvelle vague che da ragazzo mi regalò
un luogo in cui poter correre e sognare,
l’espressionismo tedesco e le sue atmosfere cupe,
Fritz Lang (che omaggiai in 4 mosche di velluto
grigio: cambiai nome a una via di Roma e la tramutai
in “via Fritz Lang”), e poi Alfred Hitchcock maestro di
tutto, di racconto, di rigore, di pensiero, e Ingmar
Bergman — che purtroppo oggi non ha il
riconoscimento che meriterebbe — grazie a cui
compresi all’istante che cosa significasse la parola
“genio”. Venendo all’Italia, ho avuto la fortuna di
lavorare giovanissimo con Sergio Leone: lui per
primo mi ha fatto capire la centralità della macchina
da presa in un film. Il suo cinema era innanzitutto
parlare di cinema, pensarlo, farlo entrare nei
ragionamenti, e solo dopo scriverlo, dirigerlo. Era
molto facondo nel raccontare i movimenti di
H
macchina, perché per lui la macchina da presa era un
feticcio, un mito. Un altro che mi ha lasciato
un’impronta indelebile è stato Michelangelo
Antonioni: le sue architetture, il suo controllo, sono
materiale prezioso che porto sempre con me. Per un
certo periodo ho amato moltissimo anche Federico
Fellini: la sua libertà nel racconto, il modo in cui
intrecciava le storie...
Ma se devo pensare al cinema di genere c’è un nome e
un cognome da fare: Mario Bava. Un maestro, una
persona con uno sguardo unico. Tutti ricordano la
figura del grande artigiano, ma a me piace ricordarne
piuttosto l’inventiva, la mente vulcanica nel trovare
soluzioni sempre nuove e spiazzanti.
È impossibile elencare tutti i miei idoli, e anche se
alcuni di loro non sono intervenuti direttamente nel
mio modo di fare cinema, a ciascuno devo qualcosa.
Mi hanno tenuto compagnia nei periodi felici e in
quelli meno felici, sono stati compagni di gioco,
occasioni di riflessione, momenti di autocritica o di
semplice svago, di avventura e di sogni. Senza di loro,
io non ci sarei: la mia gratitudine è dunque
sterminata. Il maestro ti capita mentre vivi: quando
entri in sala e rimani travolto dalle immagini che vedi
sullo schermo, quando diventi un tutt’uno con la
storia raccontata, allora puoi star certo di averne
conosciuto uno. Per noi cineasti ci sono alcuni
momenti precisi, mentre siamo sul set, in cui i film
che abbiamo amato, le persone che hanno diretto
quei film, vengono a farci visita, e ci guidano come un
faro. I maestri arrivano e mi parlano, mi
suggeriscono e talvolta mi rimproverano persino:
indicano la strada da seguire. Tutti, tutti loro, sono i
benvenuti.
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MOLTO PRIMA
DI DARIO ARGENTO
ANCHE BLASETTI,
SOLDATI, FELLINI
O MONICELLI
SI CIMENTARONO
NEL GENERE.
CHE DA NOI AVEVA
UN TOCCO MELÒ,
PIÙ EROTICO,
FOLLE E PERVERSO
PIENO DI SADISMO
E ROMANTICISMO
ZOMBI 2 (1979)
gista italiani. Così, dal film successivo Freda
si firmò Robert Hampton e mise pseudonimi anglofoni a tutti, inaugurando un trucco
che sarà ripreso subito dagli spaghetti western. Va detto che i gotici italiani, in realtà,
da noi incassavano comunque poco. La loro
esistenza era garantita spesso dal mercato
estero, e in particolare da quello americano,
dove i film girati a Bracciano o ai Parioli uscivano, magari rimontati, nei drive in con titoli fantasiosi. E agli spettatori d’oltreoceano quegli horror sembravano in tutto e per
tutto anglosassoni (anche perché spesso a
interpretarli erano attori come Christopher
Lee, Barbara Steele o Boris Karloff), anche
se c’era qualcosa di diverso, di più erotico e
folle. Era un universo strano, che attrarrà registi come Fellini (il suo bellissimo Toby
Dammit, è del 1968), e influenzerà molto ci-
I TRE VOLTI DELLA PAURA (1963)
nema americano e non. Un universo, a guardarlo oggi, imparentato con certi elementi
della cultura di massa dell’epoca, come il fumetto nero alla Diabolik, ma soprattutto figlio di una tradizione di passioni perverse,
di bellezze e bizzarrie.
Dagli appassionati e dalle fanzine, il genere è poi passato nelle mani di studiosi universitari. E, oltre al ruolo di questi film nel sistema dei media dell’epoca, è venuto fuori
anche un versante tutto nazionale. I gotici
degli anni ’60 ci appaiono oggi mélo travestiti, e testimonianze dello spaesamento di
una generazione di autori di cinema maschi
di fronte a figure femminili che cambiano.
Film pieni di sadismo e romanticismo, di attrazione e paura per le donne, vittime o streghe, vere protagoniste del genere come mai
era stato fino ad allora.
5 BAMBOLE PER LA LUNA D’AGOSTO (1970)
Oggi si ha l’impressione che questa tradizione potrebbe tornare, non solo in libreria
dove viene riscoperta e celebrata da vari volumi. Mentre i francesi hanno provato con
Les Revenants a lanciare una serie tv horror
di altissimo livello, chiamando a collaborare alla sceneggiatura lo scrittore di successo Emmanuel Carrère, in Italia dopo il noir
alla Gomorra potrebbe essere il turno del
gotico. E Joe Dante, leggendario regista di
L’ululato e Gremlins, dopo aver omaggiato
Bava nel suo ultimo film Burying the Ex, si
aggira per la capitale in cerca dei luoghi del
suo prossimo Ombra amor, annunciato come una specie di Romeo e Giulietta tra licantropi e vampiri in una Roma sotterranea. In Italia, ancora una volta, non c’è gotico senza melodramma.
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I LIBRI
DA SINISTRA, “GOTICO ITALIANO” DI STEVEDELLA CASA
E MARCO GIUSTI (CSC, 143 PAGINE, 10 EURO),
“L’HORROR ITALIANO” DI SIMONE VENTURINI
(DONZELLI, 163 PAGINE, 19,50 EURO) E “PAURA”
DI DARIO ARGENTO (EINAUDI, 200 PAGINE, 18,50 EURO):
TUTTI DA POCO IN LIBRERIA
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LA DOMENICA
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Next. Angeli custodi
Mimo baby monitor
L’ossessione di ogni buon neogenitore
è sapere in ogni istante come sta il bebè
Occasione ghiotta per l’industria hi-tech
Che tra body, bracciali e biberon ricoprirà
i nostri bimbi di sensori tranquillizzanti
IL BODY
UNA PICCOLA TARTARUGA
DI PLASTICA NASCONDE
MINI SENSORI
PER BATTITO CARDIACO
E MOVIMENTI NEL SONNO
SERGIO PENNACCHINI
«L
A PARTE PIÙ DIFFICILE della vita di un neo genitore non sono le notti insonni, i pannolini o i biberon. La cosa più
complicata è che non saprete mai esattamente cosa
succede a vostro figlio, cosa significa quel pianto continuo. Per questo abbiamo creato Mimo». Carson Darling è un giovane americano con una laurea in ingegneria al Mit di Boston e un’idea fissa in testa: usare la
tecnologia per migliorare la vita dei nostri bambini. La
sua startup, Rest Devices, è stata tra le più nominate
tra i corridoi del Las Vegas Convention Center durante l’ultimo Consumer Electronic Show, la fiera di tecnologia più importante del mondo. Il merito è di un piccolo body per neonati, con una tartarughina verde di plastica che spunta da un lato. «Lì dentro abbiamo inserito diversi sensori capaci di misurare, ad esempio, temperatura, battito cardiaco e di
accorgersi dei movimenti che fa il bambino durante il sonno», ci spiega nel frastuono della kermesse americana. Tutti i dati vengono raccolti e inviati in tempo reale allo smartphone del genitore, che così in qualunque momento può sapere se c’è qualcosa che non va.
Ogni anno solo negli Stati Uniti muoiono più di duemila neonati per la cosiddetta “Sindrome da
morte improvvisa”, un evento di cui ancora non sono chiare le cause e che costituisce una grande
fonte di angoscia per i neogenitori. Prodotti come Mimo possono dare una mano?
«Possono aiutare ad accorgersi prima di un possibile problema, perché l’app manda un allarme in caso ci sia qualcosa che non va. Ma non possono e non
devono sostituire la consultazione di un medico», prosegue Carson Darling. Un parere simile a quello di Ana Burica, fondatrice di IDerma e crea-
Smart baby scale
LA BILANCIA
SEGUE LA CRESCITA DEL BIMBO,
DA ZERO A OTTO ANNI.
SI PUÒ CONNETTERE
ALLO SMARTPHONE E MANDA
I DATI AL PEDIATRA
Sproutling
Ubooly
IL BRACCIALE
IL PELUCHE
HA SENSORI E TELECAMERA.
ANALIZZA LO STATO DI SALUTE
DEL BAMBINO E ANCHE QUELLO
DELLA CAMERA IN CUI DORME
O GIOCA
UN GIOCATTOLO HI-TECH:
BASTA INFILARCI DENTRO
IL TELEFONO PER VEDERE
SULLO SCHERMO GLI OCCHI
DI UBOOLY PRENDERE VITA
Smart
babies
Connessi, guardati e analizzati h 24
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Sleevely
Tiggly
IL PORTA BIBERON
LE FORMINE
REGISTRA POPPATE, DURATA
E FREQUENZA E CONSIGLIA
AI GENITORI SE FARLO
MANGIARE ANCORA OPPURE NO.
PER ADESSO È UN PROTOTIPO
INTERAGISCONO CON APP
PER IPAD O ANDROID,
DANDO AL BIMBO STIMOLI
PER IMPARARE
FORME E COLORI
Ugrow baby
LA TELECAMERA
TIENE SOTTO CONTROLLO
IL BAMBINO E LA STANZA, GRAZIE
A SENSORI CHE REGISTRANO
LA TEMPERATURA AMBIENTALE.
FUNZIONA ANCHE AL BUIO
trice di Teddy the Guardian, un orsetto di peluche con sensori per controllare lo stato di salute
del bambino mentre gioca. Anche qui i dati finiscono sullo schermo del vostro cellulare, con
un’applicazione che vi avverte se il bimbo ha valori fuori dalla norma, se ha giocato troppo o se
ha avuto sonni burrascosi. «Attenzione però:
una ricerca su Google non trasforma nessuno in
medico. Certe valutazioni è meglio lasciarle ai
professionisti. Ma questo non significa che non
si possa utilizzare l’innovazione per proporre
servizi più efficienti e all’avanguardia», racconta.
Teddy the Guardian e Mimo sono in ottima
compagnia. La rivoluzione smart che sta infilando sensori e connessioni wifi in oggetti di uso
comune, non più solo telefoni ma anche bracciali, orologi o vestiti, sta trovando un nuovo
terreno di conquista anche negli accessori per
bambini. Sproutling, ad esempio, è una specie
di bracciale smart per neonati. Si mette al piede
e misura battito, temperatura del bambino e
della stanza, livello di luce. Un modo per assicurarsi che l’ambiente in cui vive il neonato non
sia mai troppo freddo o troppo caldo, due fattori che possono portare a possibili problemi. S’in-
tegra con una telecamera per vedere cosa fa il
nuovo arrivato anche quando siamo lontani. I risultati vengono inviati a un’applicazione che i
creatori assicurano essere molto attiva: se c’è
un problema vi avverte subito sul vostro
smartphone. Un’idea che ha convinto non solo
mamme e futuri genitori, ma anche alcuni fondi d’investimento: a meno di una settimana dalla nascita, Sproutling aveva già raccolto oltre
2,5 milioni di dollari da investitori privati.
Insomma, questo è un mercato che fa gola a
molti. Ci sono però altri fattori importanti per la
crescita del bimbo. Ad esempio, il cibo. Capire
se il bambino ha mangiato abbastanza, soprattutto se fate allattamento naturale, è difficile:
per essere certi che tutto vada per il verso giusto bisogna pesarlo. Magari con la Smart Kid
Scale di Withings: una bilancia precisa al grammo e capace di seguire il vostro bambino per tutta la sua crescita, da quando è un neonato fino a
otto anni. Misura il peso, lo analizza e, se volete,
condivide i dati raccolti anche con il vostro pediatra. Sleevely è un contenitore smart per biberon che vi dice con precisione quanto il bimbo ha mangiato e se ha soddisfatto il suo fabbisogno giornaliero. Ma c’è anche chi, oltre alla sa-
lute del fisico, pensa pure a quella del cervello:
ci sono tanti giochi smart pensati per i più piccoli, studiati per facilitare l’apprendimento e lo
sviluppo delle facoltà cognitive. Come Tiggly,
forme colorate di plastica, c’è il quadrato, la stella o il cerchio, che interagiscono con lo schermo
del vostro tablet grazie all’applicazione dedicata. Se invece volete sapere quello che sta facendo vostro figlio mentre guardate un film, c’è la
nuova telecamera di Philips, che oltre ad avere
sensori per la temperatura è compatibile anche
con i nuovi televisori del marchio olandese: potrete avere sotto controllo il bimbo anche mentre guardate un film. «Il problema è usare questi dispositivi nel modo giusto. Non devono essere una scusa per fare di meno, ma un modo per
essere più efficienti in ciò che già fate», conclude Ana Burica. Ma siamo solo agli inizi: nel prossimo futuro l’innovazione potrebbe realmente
stravolgere il modo in cui ci prendiamo cura dei
neonati. Dai pannolini intelligenti che fanno in
tempo reale l’analisi delle urine a un piccolo dispositivo che permette di controllare il sangue
direttamente su iPhone, il futuro della medicina fai-da-te è sempre più hi-tech.
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Teddy the guardian
L’ORSACCHIOTTO
RIESCE A MISURARE LA SALUTE
DEL BAMBINO MENTRE GIOCA.
DALL’IDEA DI DUE STUDENTESSE
UNIVERSITARIE, ARRIVERÀ
A BREVE NEI NEGOZI
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Sapori. Veri
RAPPORTO
PRIMORDIALE
QUELLO TRA UOMO
E CARNE. MA OGGI
LA QUESTIONE
SI È FATTA MOLTO
RAFFINATA.
ALLEVAMENTO,
MATURAZIONE,
AROMI, COTTURA:
UN DOCUMENTARIO
FRANCESE
SPIEGA
COME E DOVE
OTTENERE
E GUSTARE IL TOP
DELLA QUALITÀ
10
ristoranti
Stoccolma
AG
Al secondo piano
di un opificio dismesso,
una grande sala,
con frigorifero-macelleria
in bella vista. In menù, le migliori
carni europee, chianina
compresa. Specialità entrecôte
Razza: Chianina
KRONOBERGSGATAN 37
STOCCOLMA
TEL. (+46) 8-4106810
Lima
OSSO
La carniceria y salumeria
di Renzo Garibaldi
propone degustazioni
di carni grigliate con diversi
gradi di frollatura,
da uno a quasi sei mesi.
Irresistibili i mini-hamburger
Razza: Criollo
TAHITÍ 175
LA MOLINA (LIMA)
TEL. (+51) 1- 3681046
Parigi
La catena
Si chiama “Carnivore” il più celebre
ristorante di carne in Africa. Oltre
quattrocento posti a sedere all’aria
aperta, carni infilzate su lance Masai,
cotte su griglie immense, servite
su piatti di ghisa. Gli animali (bovini,
giraffe, struzzi, coccodrilli), vengono
allevati in una fattoria a pochi km
da Nairobi. Altre sedi di “Carnivore”
a Johannesburg e al Cairo
ATELIER VIVANDA
Si mangia sui ceppi
di macelleria in questo piccolo
locale, dove carni rosse
e bianche sono accompagnate
dalle straordinarie patate
à la Vivanda,
spadellate con grasso d’oca
Razza: Charolaise
18 RUE LAURISTON
PARIGI
TEL. (+33) 1-40671000
Bilbao
La scuola
È nata a Casalecchio di Reno la prima
scuola italiana di cucina sulla griglia.
A dirigere l’Accademia dei signori
del barbecue, il bolognese Gianni
Guizzardi, storico importatore
di apparecchi per la cottura “al fuoco”
da tutto il mondo. Nei corsi
si insegnano le tecniche di cottura,
ma anche a scegliere e preparare
i diversi tagli di carne
ETXEBARRI
Sui tavoli del più famoso asador
di Spagna arrivano uova,
formaggi, acciughe, verdure,
cotte su braci profumate
grazie a legni diversi.
Magnifici il filetto galiziano
e il manzo di Kobe
Razza: Kobe
PLAZA SAN JUÁN 1
APATAMONASTERIO (BILBAO)
TEL. (+34) 946-583042
Mons (Belgio)
La razza
Il manzo di Kobe appartiene alla razza
Kuroge Wagyu, protetta da un registro
ufficiale che ne vieta anche
l’esportazione. Selezione genetica
e particolari condizioni di allevamento
concorrono alla produzione di carni
con sottilissime infiltrazioni di grasso
“buono” (colesterolo dimezzato),
valutate in numeri crescenti, da 1 a 5.
Prezzo fino a mille euro al chilo
LA TABLE DU BOUCHER
Luc Broutard ha scelto
il grande Joël Robuchon
come maestro
per gli approvvigionamenti
delle carni, che spaziano
dal Black Angus alla Holstein
fino al vitello di Takayama
Razza: Aberdeen Angus
RUE D'HAVRÉ 49
MONS
TEL. (+32) 65-316838
Mondo steakhouse.
Da New York ad Arzignano
viaggio alla ricerca
della bistecca perfetta
LICIA GRANELLO
“L
A PRIMA VOLTA che uscirono insieme, l’Ex-
Atleta portò l’Attrice Bionda alla Villars
Steakhouse di Beverly Hills. Lì cenarono, dalle otto e dieci alle undici. Seduti a
un tavolo che sprigionava un alone di luce sfavillante. I clienti della Villars
Steakhouse, uno dei ristoranti più esclusivi di Beverly Hills, non volendo apparire indiscreti, preferirono osservare
quella coppia di celebrità sbirciandola di
tanto in tanto in uno dei numerosi specchi del locale”. In Blonde, la scrittrice
newyorchese Joyce Carol Oates racconta la storia d’amore tra Joe Di Maggio e Marilyn Monroe. Due stelle del firmamento americano: lui ammiratissimo campione
di baseball, lei l’attrice più desiderata. Dove divorarsi con gli sguardi e le parole, se
Repubblica Nazionale 2014-11-23
la Repubblica
DOMENICA 23 NOVEMBRE 2014
New York
KEENS STEAKHOUSE
A due passi dall'Empire,
è la rivale storica
di Peter Luger's (Brooklyn).
Novantamila pipe decorano
i soffitti delle sale dove gustare
la bone-in prime rib
con patate e uovo alla piastra
Razza: Angus
72 WEST 36TH STREET
NEW YORK
TEL. (+1) 212-9473636
Osaka
WADAKIN
Shigeru Matsuda seleziona
e prepara straordinari
tagli di carne a partire
da bestiame allevato
con i principi dei migliori
allevamenti giapponesi,
a base di erba, birra e massaggi
Razza: Matsusaka
1878 NAKAMACHI
MATSUSAKA (OSAKA)
TEL. (+81) 598-211188
Londra
CUT
Dopo Los Angeles e Dubai,
Wolfgang Puck ha aperto
tre anni fa all’interno
del 45 Park Lane Hotel
in Myfair. Le bistecche crude
arrivano al tavolo
avvolte nei panni per la scelta
Razza: Hereford
45 PARK LANE
LONDRA
TEL. (+44) 20-7499545
BUENOS AIRES
non al tavolo di una super bisteccheria? Il rapporto gastroculturale tra uomo e carne arrostita è il più antico del mondo. Il fuoco rappresenta il primo medium tra un
bisogno ineludibile — mangiare — e la sua evoluzione. Fino a un attimo prima, il cibo è solamente crudo. Lo sdoppiamento della scelta è un passaggio straordinario
nella storia dell’Umanità. “Il crudo e il cotto”, scrive Claude Lévi-Strauss, uno dei padri dell’antropologia, rappresenta perfettamente il passaggio da natura a cultura,
da livello animale a livello umano, con tutto quello che ne consegue. Dove il rapporto
con l’esplorazione e la conquista vibra più forte — America in primis — essere uomo e occuparsi del barbecue è un tutt’uno, che tu sia un infermiere disoccupato o il
presidente degli Stati Uniti. Allo stesso modo, i luoghi deputati al consumo di bistecche e tagliate hanno un che di rituale, affettivo, necessario. Perfino per il più
amato fuoriclasse del baseball. Certo, non tutte le steakhouse sono uguali. Due scuole di pensiero, una più rude e in qualche modo pionieristica, l’altra elegante e formale. Da una parte, piastrelle, foto d’antan e celle frigorifere in bella mostra, dall’altra specchi, camini e boiserie, come nei più esclusivi club inglesi. Nelle prime, i
quarti di manzo appesi dietro gli spessi vetri termici danno il senso della filiera cortissima allevamento-macello-cucina del ristorante. Nella seconda, l’affidamento è
totale e si esprime nella scelta di tagli e razze sul menù. Ma belle o brutte che siano,
a fare la differenza davvero è la qualità delle bistecche. Che nel mondo sempre meno meat oriented stanno diventando un lusso da coltivare con misura golosa.
A metà tra ricerca e snobismo, la frollatura delle carni è diventata dirimente
quanto il lievito-madre nelle pizze, con il limite spostato sempre più indietro nel
tempo. Se dieci anni fa il toscano Dario Cecchini stupiva il mondo lasciando cosce e
girelli nelle «celle di meditazione» per quattro, cinque settimane, oggi lo svedese
Magnus Nilsson porta nei congressi gastronomici internazionali più importanti la
realtà dei suoi filetti maturati fino a nove mesi, grazie alla selezione genetica e all’allevamento all’aperto con erbe e fieni bilanciatissimi. In questo modo le carni diventano così sode e prive di umidità da reggere riposi prolungati, sviluppando profumi di sottobosco, formaggi stagionati, affumicato, e morbidezze impensabili. Nel
piatto, nemmeno una stilla di sangue. Se provate con le bistecchine del supermercato, il risultato sarà molto differente.
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ELENA
Dedicata a Elena Peña Unzué,
la sposa che ricevette
in dono La Mansión - oggi
sede del Four Season - propone
parrilladas con carni in arrivo
dai migliori allevamenti
estensivi nelle pampas
Razza: Shorthornes
FOUR SEASONS HOTEL POSADAS1086/88
BUENOS AIRES
TEL. (+54) 11- 43211200
Vicenza
DAMINI & AFFINI
I fratelli Damini
gestiscono la prima
macelleria-ristorante
con stella Michelin.
La carne - razza Limousine arriva da un singolo allevamento
lombardo a filiera controllata
Razza: Limousine
VIA CADORNA 31
ARZIGNANO (VI)
TEL. 0444-452914
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Nell’atelier
macelleria
di Yves-Marie,
star del filetto
ANAIS GINORI
PARIGI
NA SFILZA di côte de boeuf, le
U
bistecche con l’osso, esibite
in vetrina nei diversi “cru”:
40, 60, 80 giorni. Yves-Marie
Le Bourdonnec è convinto
che si possa affinare la carne come si fa
con il vino o i formaggi, procedendo a un
invecchiamento che non solo porta
tenerezza ma esalta e rivela i sapori. «A un
certo punti si sente il miele, la nocciola». E
attenzione a non chiamarla semplice
frollatura, se non volete offendere il
boucher-star. «La frollatura rovina la
carne, la maturazione invece la valorizza»
spiega Bourdonnec. La Boucherie
Lamartine è stata dichiarata monumento
nazionale: vecchie insegne inizio
Novecento, bancone in marmo. Qui c’è
tutto ciò che un carnivoro può sognare: le
patriottiche Limousine, Charolaise, ma
anche altre razze venute dall’estero. «I
francesi pensano di aver inventato gli
allevamenti, ma sono gli inglesi i veri
pionieri». E quindi da Le Bourdonnec si
viaggia oltre Manica, con Hertord,
Highlands, Angus, ma anche in Svizzera
con la Simmental, o in Giappone con il
Wagyu, un manzo nutrito con cerali e vino
rosso bio, venduto alla non modica cifra di
180 euro al chilo. Si torna in Francia con il
re del pollo, quello di Bresse, ma anche il
tacchino di Kerguilavant, in Bretagna,
dove Le Bourdonnec è nato. Per le
prossime feste molti clienti hanno già
prenotato l’agnello invecchiato con il
whisky Nikka Pure Malt Black e un infuso
di ginepro, timo, rosmarino e pepe. Dietro
al bancone, c’è Marie-Flore Keumegne.
«Qui non si ha l’impressione di essere in
una macelleria — racconta — ma in un
atelier di artisti». La macellaia di origini
camerunesi, ex studentessa di scienze
politiche, ha inventato delle salsicce alle
erbe con un pizzico di miele per togliere
l’acidità. L’indirizzo di avenue Victor
Hugo, XVI arrondissement, è una delle
tre macellerie a Parigi di Le Bourdonnec
che ha iniziato nel 1987, a diciannove
anni, con “Il Couteau d’Argent”, il coltello
d’argento, ad Asnières, nella banlieue.
Ormai lui è un celebrità nazionale,
fornisce i migliori ristoranti, ha vinto tutti
i premi possibili, in particolare con alcune
specialità: côte de boeuf invecchiate nei
vari procedimenti oppure hamburger
tagliato al coltello con muscolo e grasso.
Ha ispirato anche un romanzo, Comme
une bête, di Joy Sorman, una sorta di
manifesto dei carnivori in risposta al
vegetariano Se niente importa di
Jonathan Safran Foer. Ed è protagonista
nel documentario appena uscito di Franck
Ribière, Steak Révolution, dove si va alla
ricerca dei migliori allevamenti, macellai
e cuochi del mondo per scoprire cos’è
davvero la buona carne, come la si ottiene
e dove la si trova. «Il segreto è il rapporto
con l’allevatore» racconta Boudonnec che
visita periodicamente i suoi fornitori,
sviluppando nuovi incroci di razze,
tecniche di alimentazione. Si definisce
«ecologista» perché il consumo di carne
deve essere «poco ma buono».
E quindi a caro prezzo.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 23 NOVEMBRE 2014
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L’incontro. Stonati
IL PRIMO
CONCERTO
FU NEL 1980
PER I CAF,
I COMITATI
ANTIFASCISTI
PECCATO CHE
QUALCUNO
SCRISSE:
ELIO SUONA
PER I COMITATI
FASCISTI
Milano è allagata. Nello studio di registrazione Jantoman traffica con
le tastiere. Civas controlla il Lambro. Meyer è sparito. Rocco Tanica (da
Roma) assicura che “Sanremo non è tutto un magna magna”. Faso ricorda i primi concerti “pagati con una birra e una pizza (piccola però)”.
E Elio, deus ex machina, tenta invano di ricordare come nacque il nome del gruppo più stralunato d’Italia: “Politecnico, lezione di analisi,
avremo avuto tra i venti e i indaffarato in studio. Il “pianolista” Rocco Tanica (“detto Sergio Conforti ma non
sveleremo perché”, ridono) lo incontrerò al mio ritorno a Roma: «Faccio parte della commissione che sceglie le canzoni per Sanremo: ne abbiamo ascoltate seicentocinquanta e posso assicurare che non è tutto un magna magna come vorrebbe la
trent’anni, l’età in cui i genitori vulgata
popolare a volte avvalorata anche da noi».
Ogni artista ha il suo stile: i rapper vestono firmatissimo con orride catene d’oro,
rockstar amano i giubbotti di pelle e gli occhiali scuri che, come cantava Battiato,
vogliono che tu vada a lavorare....” leconferiscono
“carisma e sintomatico mistero”, gli Elii per restare fedeli al loro mito
Elio
e le Storie
Tese
LUCA VALTORTA
MILANO
F
LASHBACK. Il pianoforte di Rocco Tanica galleggia. Quello su cui da bam-
bino suonava quando Elio veniva a casa sua a trovare il fratello maggiore Marco, suo compagno di classe. L’acqua del Seveso è entrata nella casa dei genitori e non ha risparmiato neanche quello, la cosa a cui teneva
di più. Piove. Piove. Piove. Spacciatori di ombrelli abusivi (coro: “Italia sì,
Italia no”) attendono festanti i disgraziati che escono dalla metropolitana di Piazza Udine, Lambrate. Breve tragitto in macchina, palazzina gialla tra officine e sfasciacarrozze, citofonare Ukapan. «Ieri siamo stati tutto il tempo a guardare fuori
dalla finestra: se il livello del Lambro si alza ancora siamo fottuti anche qui in studio», dice Davide Civaschi, chitarrista di pregio, che gli affezionati conoscono come
Civas o Cesareo. Siamo nel cuore del potente impero di Elio e le Storie Tese, la loro
etichetta/studio Ukapan: «Il nome viene da Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu,
il nostro primo album», spiega Elio (all’anagrafe Stefano Belisari), «abbiamo sempre fatto titoli semplici perché aiuta a vendere dischi». Dentro la palazzina solo cose essenziali: i trofei, le spade jedi di Star Wars che si illuminano e fanno rumore
quando si toccano durante la battaglia, il tavolo del Subbuteo, le sale prove e di registrazione e poi la stanza per «raccogliere le idee» piena di computer e la sala “vulves” dove stanno Chiara e Cristina, le sacre vestali che custodiscono i più reconditi
segreti del “complesso misterioso”. Ovvero quello strano oggetto caduto nel nostro
paese che dai primi anni ’80 riesce a prendere per i fondelli gli italiani e i loro luoghi
comuni colpendo senza pietà a destra e a sinistra, triturando l’odiata disco music
ma anche gli stereotipi dell’amato rock, le icone nazionalpopolari ma anche il concertone del Primo Maggio, i “bellimbusti” figli del berlusconismo e i bonghisti fricchettoni del Parco Sempione, hippie degenerati fuori tempo massimo «e fuori tempo proprio nel senso che, come dice la canzone, sono totalmente incapaci di andare a
tempo», chiosa Faso (al secolo Nicola Fasani). Sono anche ecologisti (hanno fatto
una lunga, infruttuosa lotta per salvare
dalla speculazione il “bosco di Gioia”
NON SI È MAI CAPITO SE ABBIAMO
VINTO O NO SANREMO: A ME HANNO
DETTO CHE ERAVAMO NOI I PRIMI
POI PARLANDO CON RON E TOSCA ANCHE
A LORO HANNO DETTO LA STESSA COSA
nel cuore di Milano) e a loro modo impegnati e idealisti: «Le ragazze dello studio
per un bel po’ continuavano a girarci inviti
per eventi mondani a cui nessuno ha mai risposto finché si sono rassegnate: nonostante quello che può sembrare, i-n-c-r-e-di-b-i-l-m-e-n-t-e non siamo un gruppo
trendy», dice Faso. Christian Meyer (il batterista) non si sa dove sia, mentre Jantoman (ovvero Antonello Aguzzi, tastiere) è
vestono invece scazzatissime felpe, maglioni fuori moda, jeans sconosciuti, giubbotti e camicie dai colori improbabili. Come non amarli anche solo per questo? Cerchiamo verità su alcuni fatti che restano dubbi. Per esempio, esiste una data di nascita ufficiale? «Esisterebbe ma è stata tramandata solo oralmente e quindi nessuno se la ricorda più» dice Elio con aria rassegnata. «Comunque la prima esibizione,
ce l’ho in mente perché c’ero solo io, è stata a un Festival dei Caf a Milano», ci tiene
a precisare. I Caf, ovvero Comitati antifascisti? «Sì, naturalmente quando lo dissi ai
tempi, un tuo collega scrisse “al festival dei Comitati Fascisti” procurandoci non pochi problemi». Data? «Sarà stato il 1980, eravamo un trio e io ero allora ero chitarrista-cantante. Gli altri elementi sono conosciuti solo ai nostri fedelissimi: Zuffellato alla batteria e Cortellino al basso, sua unica esibizione. Era una cosa nata sui banchi di scuola: nella mia classe c’erano Mangoni (il supergiovane, personaggio delirante e stonatissimo che impreziosisce le esibizioni degli Elii e che nella vita fa l’architetto di grido, ndr) e Marco Conforti, fratello maggiore di Tanica, che quando
andavo a casa sua suonava sempre il pianoforte». Quello che ora galleggia. E Davide/Cesareo? «Suonavo in un altro gruppo ma Elio mi ha chiamato come guest star
per un assolo di chitarra in una cover di Flashdance». Da lì non si è più mosso. I riferimenti musicali erano già altissimi: Flashdance, Ramaya, Born To Be Alive... Ancora Elio: «Mi sono diplomato in flauto traverso alla scuola civica, poi mi sono iscritto a ingegneria. Il nome del gruppo è nato durante le lezioni di analisi al Politecnico: scegliemmo quello che ci sembrava particolarmente brutto». Nessun riferimento alle “storie tese” degli Skiantos? «Forse avevo sentito il loro disco, però io
pensavo ai milanesi, sempre schizzati. Tesi, appunto». C’era rivalità con loro?
«Adesso si può anche dire: era un gioco molto tra noi, una guerra tra bande rivali».
Una volta avete suonato insieme e Freak Antoni vi ha sfidato a mostrare le chiappe
al pubblico. «Cosa che abbiamo fatto con soddisfazione: Freak era un genio. Tornando a Milano, ai nostri esordi c’era molto fermento e locali in cui suonare: il Magia, il Tangram, le Scimmie, lo Zelig. C’era pubblico e la possibilità di mettersi in luce ». Pagavano? Faso: «Agli inizi una pizza e una birra. Piccola». Elio: «In un posto
che si chiamava “Il mulino della frega” volevano menarci. Cantavamo Alfieri un testo che finisce con “siamo una banda di bastardi/ stasera ad esempio noi incassiamo/ e voi ve la picchiate dentro al...” si può dire culo sulla Domenica di Repubblica?».
Quanti anni avevate? «In media tra i venti e i trenta. L’età in cui i genitori cercano
di dissuaderti dal fare il cantante». Cesareo: «Infatti io ho fatto undici anni da impiegato». Elio: «Io ero studente fuori corso a ingegneria». Faso: «Io a filosofia». Cesareo: «Tu facevi le squadre del Subbuteo». Elio: «Non lo abbiamo considerato un lavoro vero fino al secondo disco: duecentomila copie vendute. Era dura: suonavi e poi
al mattino dovevi prendere un treno all’alba e andare a lavorare. Mi ricordo che dicevo: “Madonna, speriamo che vada bene così posso fare solo il musicista. Anche se
poi scopri che non è che, come pensano molti (e allora anch’io), i musicisti non la-
FREAK ANTONI UNA VOLTA SUL PALCO
CI INVITÒ A MOSTRARE LE CHIAPPE, COSA
CHE FACEMMO CON SODDISFAZIONE: LUI ERA
UN GENIO E AVREMMO VOLUTO FARE ALTRE
COSE INSIEME MA NON C’È STATO IL TEMPO
vorino». Oggi siete milionari? Elio: «Abbiamo sempre sbagliato i tempi e, per esempio, quando ci fu il nostro maggior successo sanremese non avevamo il disco pronto e quindi anche noi come cantavamo in Alfieri... E oggi che i dischi non si vendono
più bisogna inventarsi mille cose per sopravvivere: teatro, tv. Rimaniamo un gruppo di nicchia». Alla fine avete vinto o no il Sanremo 1996 con La terra dei cachi? Elio:
«Non l’abbiamo capito: sono stato interrogato dal giudice e mi hanno detto che eravamo arrivati primi. Poi ho parlato con Tosca (Ron e Tosca sono stati i vincitori ufficiali di quell’edizione, ndr) e anche a lei avevano detto la stessa cosa. Quindi boh...».
Flash forward. Roma, il giorno dopo. In un hotel vicino alla stazione Rocco Tanica mi fa
ascoltare una puntata del suo surreale Tg
Tanica per la trasmissione di Raidue
Quanto manca. Parliamo del nuovo disco che esce il 25 novembre: «Sono ben
tre cd. Più un un dvd con tutti i nostri videoclip e piccole chicche. Come le estenuanti sessioni di trucco quando ci siamo
travestiti da Rockets o le registrazione del
1992 con il celebre Coro delle voci bulgare che diede origine al Pippero». Le signore erano consce di quello che stavano cantando? «Assolutamente sì». Tu sai per caso da dove viene il nome Elio e le storie tese? «Elio ha sempre dato risposte diverse
e a volte contrastanti. Una volta ho cercato di farmi bello dando una spiegazione
per come la sapevo da lui, alla fine mi si avvicina: “Ti devo confidare che non è così: il
vero motivo non l’ho mai detto”. Quindi a
tutt’oggi io non lo so». Forse neppure Elio.
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