1
Meridionali e Resistenza
Il contributo del Sud alla lotta di
Liberazione in Piemonte
1943-1945
A cura di Claudio Dellavalle
Presidente dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza
e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”
3
indice
Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Due storie esemplari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tante storie, una storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Profili di alcuni comandanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I caduti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Luoghi di memoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nella resistenza in città . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I deportati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Memorie partigiane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nella letteratura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il dopoguerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Appendice. Elenco dei partigiani meridionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p. 5
p. 7
p. 9
p. 13
p. 21
p. 30
p. 34
p. 37
p. 41
p. 43
p. 46
p. 48
p. 51
5
Presentazione
Questo pubblicazione è stata realizzata con il contributo di tutti gli Istituti della Resistenza
del Piemonte ed ha come obiettivo di promuovere una ricerca sull’apporto di quei giovani e
meno giovani del Sud Italia che fecero parte con ruoli e responsabilità diverse del movimento di
Liberazione nella nostra regione. Le celebrazioni per il 150 anniversario dell’Unità d’Italia,
che in Piemonte hanno avuto un’eco particolarmente intensa ed estesa, hanno ridato spinta ad
una riflessione sul complesso rapporto nord sud che ha caratterizzato la storia del nostro paese.
L’insieme di questi approfondimenti ha certamente accresciuto la conoscenza delle vicende del
percorso unitario e la consapevolezza dei problemi, che l’hanno caratterizzato. La mostra
“Fare gli Italiani” ospitata alle OGR di Torino ha rappresentato bene questo percorso, le scelte
compiute, le difficoltà superate e le questioni ancora aperte. La discussione che ha accompagnato
le molte iniziative locali e nazionali ha segnato dei punti significativi di approfondimento, di
conoscenza, in qualche caso anche di polemico confronto, sempre accettabile quando aiuta a
vedere strade e approcci nuovi; meno quando, e qualche caso c’è stato, l’ interpretazione nello
sforzo di affermare sconvolgenti novità, si rivela tanto clamorosa sul piano mediatico quanto
debole sul piano della ricerca.
Va tuttavia segnalato che il passaggio per molti versi epocale del 1943-1945 rispetto alla
tematica unitaria è risultato sfocato, condizionato negli esiti da alcune scelte limitative sia
nelle risorse sia nella progettazione per un’esplicita volontà politica di contenere quegli aspetti
del discorso unitario che avrebbero potuto proiettarsi in avanti verso tempi a noi più vicini.
La nostra regione si è sottratta a questo condizionamento promuovendo a conclusione delle
manifestazioni per l’unità d’Italia il convegno tenutosi a Torino, nella sede del Consiglio
regionale, il 24-25 novembre 2011, Un secondo Risorgimento? La Resistenza nella
ridefinizione dell’identità regionale , di cui recentemente sono usciti gli atti con il titolo
Resistenza e autobiografia della nazione. In linea con queste iniziative e facendo
tesoro delle discussioni sviluppate in quelle sedi si è pensato di provare a riprendere il discorso
sull’apporto del meridione d’Italia a quello che precocemente, e soprattutto le componenti
moderate, avevano definito come il secondo Risorgimento. Non che nel tempo siano mancati
riferimenti, studi, approfondimenti su questo o quell’aspetto della presenza di meridionali
nelle attività della resistenza, né sono mancati i riferimenti a personaggi di primo rilievo sia
per l’attività politica, sia per l’attività militare. Ma uno studio di insieme che faccia percepire
la dimensione del fenomeno e la sua articolazione dentro le formazioni partigiane e dentro la
società piemontese del tempo non è ancora disponibile. Di qui l’idea di questa pubblicazione
che vuole segnalare da un lato alcuni termini della questione, fornire qualche dato e indicazione
di percorso, ricordare qualche personaggio, stimolare qualche curiosità, il tutto nella speranza
di poter dare avvio ad un processo virtuoso che porti a imboccare la strada della ricerca.
Coinvolgendo le risorse degli Istituti piemontesi che sono disponibili, avendo già elaborato alcuni
6
fondamentali strumenti di ricerca, e soprattutto cercando la disponibilità di enti locali e istituti
culturali del nostro Meridione con cui provare a superare le difficoltà che ogni impresa di
ricerca comporta. L’obiettivo è dunque mettere in chiaro una pagina importante della nostra
storia. A questo obiettivo si rifanno anche gli elenchi di nomi riportati a fine libretto: si è
voluto dare nome e cognome a tante, tantissime persone che in quella storia si sono ritrovate, che
hanno pagato prezzi elevati a quelle scelte, alcuni, molti, il prezzo più alto possibile. Nei loro
confronti tutti noi abbiamo un enorme debito di riconoscenza, che speriamo sia pure in piccola
parte di poter riconoscere almeno sul piano della memoria.
Roberto Placido
Vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte
7
Introduzione
Migliaia di giovani provenienti dalle regioni del sud d’Italia hanno partecipato alle
vicende della resistenza piemontese con ruoli diversi: da quelli di primo rilievo nel
comando e nella guida del movimento ai più oscuri e semplici militanti. Quella
scelta ha comportato costi elevati, sacrifici per tutti e per molti anche il prezzo
della vita. Le loro storie sono poco conosciute. Per tante ragioni: le difficoltà
del dopoguerra, il ritorno nelle famiglie che avevano lasciato anni prima e di cui
non sapevano nulla, la fatica quotidiana per sopravvivere in un’Italia impoverita
dalla guerra, la ricerca di un lavoro. Inoltre il clima politico di quegli anni,
condizionato dal più generale clima della guerra fredda, rese presto difficili le
cose per chi aveva compiuto la scelta di portare le armi per la libertà del proprio
paese. Non si può dire che siano mancati i tentativi di ricordare ed elaborare
quell’esperienza: memorie di singoli, alcune di notevole qualità, ed anche risultati
di ricerca interessanti su aspetti specifici. È tuttavia mancata una visione di
insieme per cui sia lo sguardo da nord, sia quello da sud non sono riusciti a
farne cogliere la rilevanza e collocarla nella sua giusta dimensione né nella storia
della resistenza italiana, né nella storia del nostro paese. Ancora recentemente le
discussioni alimentate dal 150° anniversario dell’unità d’Italia non hanno dato
risalto a quelle che è forse una delle esperienze più significative del rapporto
nord sud dall’unità in poi. L’esperienza certo di una minoranza, ma per qualità
e anche per quantità un passaggio di primo rilievo all’interno del percorso di
rifondazione che l’Italia conosce negli anni della guerra e del dopoguerra.
Sulle ragioni di questa scarsa attenzione ci sarebbe molto da riflettere e da
fare. Questo iniziale contributo che la Regione Piemonte e gli Istituti storici
della Resistenza piemontesi offrono alla riflessione pubblica e all’attenzione di
persone, enti locali ed enti culturali interessati, soprattutto nelle nostre province
meridionali, ha come obiettivo primario quello di non lasciare cadere nell’oblio
pagine importanti di una memoria collettiva, e di dimostrare che pure a distanza
di molti anni da quegli eventi è possibile trovare il modo per avvicinarli e farli
entrare a pieno titolo nella nostra comune storia.
Nelle pagine che seguono vengono presentati alcuni spunti, suggeriti alcuni
percorsi senza pretesa di completezza, per ritornare su quelle vicende e per
segnalare insieme il significato e l’importanza di completare un lavoro di
conoscenza come un atto dovuto nei confronti di migliaia di italiani del nostro
sud e dell’intero paese.
9
Due storie esemplari
Nunziato di Francesco, per tutti Nunzio, nasce a Linguaglossa (CT) un paese alle falde dell’Etna, in una famiglia contadina(1). Nunzio ha 19 anni quando
nell’aprile 1943 viene chiamato a fare il servizio militare dallo stato fascista ed è
assegnato come recluta artigliere in una caserma della Venaria Reale, il comune
che dista una decina di chilometri da Torino e in cui c’è una splendida residenza
sabauda. Con lui nel reparto ci sono una ventina di reclute di origine siciliana.
Nella tormentata estate del 1943 la solidarietà tra “paesani”, lontani più di mille
chilometri da casa, è l’unico elemento di conforto per attenuare le preoccupazioni e l’ansia per la sorte delle famiglie. Con lo sbarco degli Alleati il 10 luglio del
1943 la Sicilia diventa territorio di guerra; le comunicazioni si interrompono e le
informazioni su quanto succede nell’isola si fanno rade e confuse. La caduta del
fascismo e la nascita del governo Badoglio non comporta modificazioni significative per la vita delle reclute. Anche il dramma dell’armistizio dell’8 settembre
arriva in forma attutita nella caserma di Nunzio. Solo il 10 di settembre, quando
la minaccia di arresti e di deportazione che i tedeschi compiono nei confronti dei
militari italiani si fa concreta, l’agitazione tra le reclute cresce mentre i comandi,
privi di indicazioni, non sanno cosa fare. Il pericolo ormai incombente spinge i
soldati a fuggire, come succede in migliaia di altre analoghe situazioni nel territorio nazionale. Ma il “tutti a casa” che sintetizza l’esito fallimentare della gestione
dell’armistizio e che porta allo sfascio l’esercito e lo stato italiano, ha un significato diverso a seconda della possibilità che i soldati sbandati hanno di tornare
in famiglia. Una possibilità concreta per chi vive nel centro nord; un’impresa
impossibile per chi ha casa e famiglia a sud della linea lungo cui si scontrano gli
eserciti alleati e l’esercito tedesco che li contrasta. Per i soldati meridionali si apre
una fase difficile, di cui ci dà conto Nunzio, che rievoca così le incertezze di quelle giornate e l’abbandono della caserma la sera del 10 settembre: «I due ufficiali
sono travolti e centinaia di giovani abbandonano la caserma. Quelli del nord e del centro Italia
hanno la speranza di raggiugere le famiglie; per noi del sud e per i residenti nelle isole in particolare l’impresa si presenta disperata. Cala intanto la sera ed essendo stato ordinato il coprifuoco
è altrettanto rischioso restare allo scoperto. Mentre discutiamo sulle decisioni da prendere, si
avvicina un signore anziano in bicicletta: è palermitano da anni residente a Venaria».
È il primo di molti incontri tra Nunzio e molte persone che offriranno un’ospitalità
generosa agli sbandati. Il signore siciliano ospita per la notte Nunzio, il suo amico
Emmi e i venti paesani che hanno abbandonato la caserma. Il giorno seguente il
gruppo si divide in gruppetti per non dare troppo nell’occhio: ciascuno avrà un suo
percorso, segnato da fattori imponderabili e da vicende umane insieme simili e però
10
differenziate. La vicenda di Nunzio e del suo amico è in qualche modo esemplare.
Troveranno ospitalità in una cascina nei pressi di Venaria, contadini tra contadini.
Si faranno assumere dalla TODT l’organizzazione voluta dai tedeschi per utilizzare
la manodopera italiana, e quando non sarà più possibile restare senza mettere in
pericolo la propria vita e quella delle persone che li ospitano, si sposteranno, grazie
a un contatto con la rete antifascista, nelle valli del pinerolese dove era già attivo un
gruppo di partigiani al comando di un ufficiale siciliano, Pompeo Colajanni (Barbato). Nunzio incomincia così la sua militanza partigiana tra i garibaldini; diventerà un
capace comandante di distaccamento fino a che verrà catturato dai tedeschi nell’ottobre 1944 e deportato prima a Mauthausen e poi a Gusen II. Riuscirà a sopravvivere
nell’inferno del lager e alla liberazione potrà tornare a Torino, dove verrà curato. Finalmente dopo tre anni potrà tornare in Sicilia dove per il resto della sua vita operosa
e impegnata manterrà viva come lezione di emancipazione e di solidarietà l’esperienza straordinaria vissuta in Piemonte.
In parallelo alla storia drammatica di Nunzio Di Francesco segnaliamo la vicenda
di Michele Ficco, immigrato di prima generazione, che in qualche modo rappresenta uno dei tanti percorsi di giovani
meridionali immigrati e che si ritroveranno a fare le loro scelte per alcuni
aspetti in modo simile ai giovani militari meridionali sorpresi in Piemonte
dall’armistizio, ma con modalità diverse perché già inseriti nel contesto
della società piemontese.
Michele Ficco nasce a Cerignola in
provincia di Foggia il 2 gennaio 1923.
La famiglia numerosa si trasferisce nel
1929 prima nelle vicinanze di Torino,
a Nichelino e poi in città in Barriera di
Nizza, in un quartiere operaio sorto
attorno alla grande fabbrica del Lingotto. A 19 anni Michele entra in fabbrica alla Fiat come tornitore e viene
assegnato all’officina 19 della Mirafiori, dove è raccolta l’èlite degli operai
di mestiere della grande azienda. Ma
poco dopo viene chiamato alle armi
come artigliere e assegnato al 3° RegNunzio Di Francesco a Venaria Reale.
gimento di artiglieria celere nella ca-
11
Sede della IV Brigata al Montoso.
serma Baggio di Milano. Qui lo sorprende l’8 settembre e a fatica riesce a sottrarsi
alla cattura da parte dei tedeschi che occupano la città.
“Abbiamo scavalcato il muro di cinta e ci siamo dispersi per la zona. Alcuni amici di Gallarate mi avevano accompagnato a Domodossola per farmi passare in Svizzera, ma ero titubante
se varcare o meno il confine. Sono rimasto un paio di giorni a Domodossola, pensando a mia
madre, sola a casa con diversi fratelli. Mio padre era sceso in Puglia a prendere le due figlie più
giovani, ed era rmasto bloccato dalla guerra, al di là del fronte, con noi dall’altra parte, mia
mamma con quattro figli. Allora sono tornato a casa a Torino ...”
Michele rientra in fabbrica finchè i bandi della Repubblica sociale non lo chiamano a prendere servizio nel nuovo esercito fascista. Trascorso qualche tempo
inattivo in caserma, decide di disertare e in febbraio 1944, attraverso un contatto
della sua fabbrica sale in montagna tra le formazioni della Val Sangone, una valle
a ovest di Torino. La banda di cui fa parte ai Morelli cresce rapidamente e avrà
come comandante il marchese Felice Cordero di Pamparato (il Campana), un
ufficiale monarchico e antifascista, che guiderà la brigata fino alla sua morte per
impiccagione a Giaveno il 17 agosto 1944. Il comando della formazione passerà
al comando del professore universitario e medico Guido Usseglio (il Prufe) e
come tutte le formazioni della Val Sangone avrà una intensa attività militare per
contrastare tedeschi e fascisti, che non potevano accettare che una valle così vi-
12
cina a Torino fosse controllata dai partigiani. Michele si distinguerà per coraggio
e capacità così da assumere il comando di una delle cinque squadre della brigata.
Il violento rastrellamento della fine di novembre 1944 costringerà le formazioni
a scendere in pianura, a suddividersi e a mimetizzarsi. Michele rientra per un
periodo in città nascosto in varie case. Ristabiliti i contatti si decide di spostare il
grosso della formazione nel Monferrato, nel territorio di Chieri, dove la Brigata
si riorganizza, cresce di numero e per l’attività del comandante Usseglio si costituisce in Divisione legata a Giustizia e libertà. La nuova formazione che prende
il nome di Campana in onore del suo primo comandante, parteciperà alla liberazione di Torino, occupando in centro città la sede del fascio, il Palazzo che da
allora sarà per tutti Palazzo Campana e che diventerà la sede dell’Università nota
per le vicende del movimento studentesco torinese nel ’68 .
Michele riprenderà il suo mestiere in fabbrica finché verrà chiamato, in seguito
ad una vicenda che aveva coinvolto un suo partigiano, dal questore di Torino,
Giorgio Agosti, a svolgere attività presso il gabinetto della questura. Riprenderà
gli studi e infine si dedicherà ad attività commerciali, mantenendo sempre i collegamenti con i compagni di quella che era stata per lui una scelta di vita.
Ficco Michele (a sinistra e in divisa) accanto a Guido Usseglio
13
Tante storie, una storia
La vicenda di Nunzio e di Michele non sono che due esempi dei percorsi che
migliaia di altri ragazzi si trovarono ad affrontare. Percorsi intrecciati, ma differenziati rispetto ai quali si possono indicare alcuni esiti immediati e più frequenti:
la cattura e la deportazione come IMI nei campi di raccolta in Germania; l’occultamento presso famiglie piemontesi, soprattutto nelle campagne, dove una parte
di loro trova rifugio e sostituisce le braccia che la guerra ha portato via; l’entrata
nelle formazioni partigiane o la presentazione ai comandi tedeschi e fascisti. Va
subito detto che questi possibili esiti possono evolvere nel tempo in situazioni
assai diverse e mutevoli in relazione allo stato di precarietà e incertezza che caratterizza la condizione degli sbandati.
Ma il dato che si vuole sottolineare è che questa complessità di percorsi comporta per tutti i giovani, ed in modo ancora più pesante per i giovani meridionali
sbandati, un elemento di rischio più elevato rispetto ai compagni di origine centro settentrionale perché nel contesto in cui si muovono hanno meno strumenti
e risorse, a cominciare dalle relazioni personali e famigliari, per ridurre il rischio
che ogni scelta comporta.
Nelle pagine seguenti cercheremo di offrire alcuni dati per avvicinare il fenomeno complessivo e poi fornire alcuni esempi di questi destini incrociati.
Iniziamo col definire un po’ meglio i contorni di un’esperienza collettiva e le
condizioni del contesto in cui essa avviene.
Il caso piemontese
La presenza numerosa di meridionali nelle fila delle formazioni partigiane piemontesi va messa in relazione alle vicende che caratterizzarono la crisi delle
forze armate italiane come conseguenza del fallimento della guerra parallela a
fianco della Germania di Hitler e soprattutto come esito della gestione disastrosa
dell’armistizio all’8 settembre. Sostanzialmente abbandonate al loro destino dal
re e dal governo le forze armate italiane entrarono rapidamente in crisi e, salvo
rari casi, non furono in grado di opporsi al piano di neutralizzazione prima e di
cattura poi che i tedeschi perseguirono con decisione sia in Italia sia sul fronte
dei Balcani. Un numero rilevantissimo di militari, circa 650 mila, fu disarmato e
avviato ai campi di raccolta in Germania. Classificati come IMI, cioè non come
prigionieri militari, ma come internati militari, figura giuridicamente non definita, in larga parte si rifiutarono di riprendere la guerra a fianco dei tedeschi e con
la Repubblica Sociale, ultima versione repubblicana dello stato fascista. Va però
ricordato che un numero forse altrettanto rilevante di militari si sottrasse alla
14
cattura e in buona parte si nascose, in parte ritornò a casa, in parte riprese le armi
per continuare la guerra ma ora contro tedeschi e fascisti.
Il caso piemontese presenta dei tratti che in qualche modo ricalcano le situazioni che tutti i militari vivono nelle giornate dell’8 settembre. Le truppe dislocate
nelle caserme in territorio piemontese, in parte come presidio del territorio, in
parte raccolte nei centri di addestramento, sono numerose anche se difficili da
quantificare. A queste truppe però si aggiunge la massa rilevante delle 7 divisioni
che fanno parte della 4^ Armata e che vengono sorprese dall’armistizio mentre
si stanno trasferendo dalla Francia in Italia: una parte consistente viene catturata
dai tedeschi sia in territorio francese, sia in territorio italiano (circa 50 mila), un
numero minore (circa 20 mila) riesce a sottrarsi alla cattura. Tra questi molti meridionali, che in parte seguono alcuni dei loro ufficiali nelle prime precarie forme
di difesa e di resistenza, in parte si disperdono nelle campagne piemontesi. Di
questi una parte significativa entrerà nelle formazioni partigiane, una parte infine
risponderà per scelta o per necessità ai bandi della Repubblica Sociale Italiana, il
nuovo stato fascista che prende vita, per volontà di Hitler e sotto la guida politica
di un Mussolini poco motivato, verso la fine di settembre.
Va infine segnalato un ulteriore elemento, ossia la presenza nel movimento di
resistenza di una quota importante di immigrati meridionali e di figli di immigrati
meridionali arrivati durante il fascismo nelle province piemontesi con le famiglie
in cerca di lavoro, attirate soprattutto dalla domanda di manodopera delle industrie, in particolare della grande industria dell’area torinese.
Quanti sono?
Una prima domanda riguarda dunque l’entità del fenomeno che possiamo valutare grazie al database costruito con la collaborazione di tutti gli Istituti di storia
della resistenza del Piemonte. Il database dedicato a Partigianato piemontese e società
civile raccoglie una grande quantità di informazioni tra cui quelle relative alla nascita o alla residenza(2).
Questi due indicatori, nascita e residenza, individuano i partigiani meridionali
che risiedono al sud, che stanno svolgendo il servizio militare in territorio piemontese e che, sbandati all’8 settembre non hanno potuto tornare a casa. Le
province di nascita e residenza considerate sono quelle liberate dagli Alleati e che
poco dopo l’armistizio saranno separate dal resto d’Italia occupato dai tedeschi
dalla linea del fronte, la cosiddetta linea Gustav. Il territorio in esame corrisponde quindi a sei regioni: Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia a cui va
aggiunta la Sardegna, anch’essa liberata nello stesso periodo.
Un secondo insieme di meridionali si ottiene considerando l’indicatore della
provincia di nascita nelle sei regioni meridionali indicate e quello della residen-
15
Linea Gustav. Ottobre 1943
za collocata in una delle province piemontesi (Alessandria, Aosta, Asti, Cuneo,
Novara, Torino, Vercelli): si ricomprendono così quei partigiani originari delle
regioni meridionali e che risiedono già in Piemonte all’8 settembre 1943.
Nell’insieme i meridionali che a vario titolo militano nelle formazioni piemontesi e ottengono il riconoscimento dalla Commissione piemontese superano le
6 mila unità, (si escludono per ora i dati relativi all’area novarese e all’area ligure
piemontese, che aumenterebbe il dato complessivo di diverse centinaia di unità
portando la cifra complessiva attorno ai 7 mila uomini).
Va subito segnalato che il riconoscimento è differenziato secondo le categorie che
la Commissione piemontese individua sulla base della legislazione emanata nel
1945. Il numero dei partigiani combattenti, che include anche i caduti, i feriti, gli
invalidi e i mutilati secondo i dati della Commissione Piemontese supera i 3.500,
mentre i partigiani benemeriti sono circa 1.300 e i patrioti sono più di 1.250.
16
Provincia
Agrigento
Caltanissetta
Catania
Enna
Messina
Palermo
Ragusa
Siracusa
Trapani
Sicilia totale
Partigiani
159
93
183
76
146
245
64
64
103
1133
Caduti
15
12
26
8
15
32
2
7
9
126
Feriti
4
3
5
5
1
7
2
2
2
31
Invalidi
2
2
2
1
1
2
1
Mutilati
1
1
2
Benem.
32
34
76
38
68
106
14
33
30
431
Patrioti
48
38
64
41
73
89
33
28
38
452
Totale
261
183
358
169
304
483
118
134
182
2192
11
8
Catanzaro
Cosenza
Reggio Calabria
Calabria totale
140
121
245
506
22
14
35
71
1
3
5
9
1
1
49
37
79
165
42
45
74
160
256
220
443
917
2
3
2
3
Matera
Potenza
Basilicata totale
22
74
96
5
12
17
1
1
2
2
11
48
59
4
31
35
44
167
211
1
1
Bari
Brindisi
Foggia
Lecce
Taranto
Puglia totale
222
61
148
58
49
538
31
8
21
8
6
74
3
4
1
1
2
3
6
126
37
120
29
21
333
118
37
75
38
32
300
505
146
368
134
111
1264
Avellino
Benevento
Caserta
Napoli
Salerno
Campania totale
89
45
64
206
103
507
12
9
7
36
21
85
1
1
5
3
9
31
17
31
95
62
236
29
18
19
107
38
211
163
91
123
455
229
1061
Cagliari
Nuoro
Oristano
Sassari
Sardegna totale
75
33
15
82
204
8
9
1
1
1
3
1
1
3
1
1
31
13
6
30
80
36
17
7
38
98
152
73
30
162
417
10
27
TOTALE
2984
400
58
31
28
1304
1256
6062
1
1
5
1
4
2
8
1
2
8
2
2
1
2
2
5
1
17
Se si guarda la distribuzione per comune di nascita si osserva che l’apporto più
rilevante è dato dalla regione Sicilia, che copre circa un terzo della cifra complessiva, a cui seguono Puglia, Campania e Calabria con cifre vicine e infine
Sardegna e Basilicata. Ovviamente nel considerare l’apporto di ciascuna regione
andrebbe tenuto conto della popolazione, dei programmi di reclutamento delle
Forze armate, della distribuzione territoriale nei vari corpi in Italia e sui fronti di
guerra (Francia, Balcani, Grecia e Isole dell’Egeo). Va anche valutato il fatto che i
partigiani che provengono dalla regione Campania e in particolare dalle province
più a nord sono in numero inferiore rispetto a regioni altrettanto popolose perché una parte consistente dei giovani militari sbandati riescono a rientrare a casa
nelle giornate successive all’8 settembre prima che lo stabilizzarsi della linea del
fronte chiuda ogni possibilità.
Infine andrebbero considerati i partigiani che sono di origine meridionale nel
senso che nascono in territorio piemontese dal famiglie emigrate dal sud, per
lo più dopo la prima guerra mondiale. In questi casi il data base non ci fornisce
elementi per poterli selezionare con sicurezza, ma è certo che si tratta di un
numero consistente, che svolge un ruolo importante nelle vicende resistenziali
piemontesi sia nelle formazioni partigiane, sia negli organismi resistenziali della
città. Sulle vicende di questi, di cui si forniranno alcuni esempi, la ricerca dovrà
procedere con altri strumenti.
Distribuzione nelle formazioni partigiane
Nella tabella che segue consideriamo come i partigiani meridionali si siano distribuiti nelle formazioni a seconda dell’orientamento che queste assunsero, tenendo conto che l’orientamento di cui si parla riguarda, prevalentemente, ma non
sempre totalmente, i quadri di comando. Il che spiega il numero elevato di chi
non esprime un orientamento. In termini un po’ approssimativi si può dire che
le formazioni che si definiscono Autonome e di Rinnovamento, pur con diverse
varianti, si riconoscono nel principio di lealtà verso la monarchia e quindi nel
giuramento prestato al re; le GL (Giustizia e libertà) fanno riferimento al Partito d’Azione, le Garibaldi al Partito Comunista Italiano, le Matteotti al Partito
Socialista. Il CMRP è la struttura militare del comando regionale a cui fanno
riferimento tutte le formazioni piemontesi. Va segnalato che poiché non per
tutti i partigiani è disponibile l’appartenenza finale, i dati complessivi risultano
inferiori alle cifre della prima scheda, (si potrebbero in buona parte recuperare
attraverso un lavoro di ricerca e comparazione). Inoltre va segnalato che l’attribuzione di un partigiano ad una formazione non implica affatto l’ adesione al
colore politico di riferimento della formazione. In linea generale si può dire che
l’entrare in una formazioni costituisce per tutti, in particolare per i più giovani un
18
percorso di formazione alla politica, ma non sempre e non allo stesso modo un
percorso di formazione partitica. Mentre certamente si riscontra mediamente in
tutti i partigiani un marcato spirito di appartenenza del singolo alla formazione
in cui ha militato.
FORMAZIONI
Sicilia
Calabria
Basilicata
Puglia
Campania
Sardegna
TOTALE
Dato
mancante
371
189
39
189
159
76
1023
Autonomi
231
112
27
105
124
43
642
Matteotti
88
27
6
38
29
11
199
Garibaldi
376
158
30
201
182
79
1026
GL
173
72
10
82
96
20
453
Rinnov.
67
33
4
12
19
135
CMRP
3
1
1
4
4
10
23
TOTALE
1309
592
117
631
613
(+1) CLN
239
3501
(+1) CLN
Dunque le maggiori presenze di partigiani meridionale si registrano nelle formazioni Autonome e nelle Garibaldi. Una descrizione più dettagliata implicherebbe una rivisitazione dell’intera resistenza piemontese, poiché sono molti
i fattori che agiscono nel differenziare le esperienze : spesso le presenze si
addensano in una formazione anziché in un’altra per ragioni diverse come il
prestigio e la capacità di iniziativa di un comandante o la vicinanza a gruppi di
partigiani che possano accogliere i militari sbandati, oppure in ragione di contatti che si producono nel corso del tempo attraverso la rete degli antifascisti o
attraverso la rete delle amicizie.
Per esemplificare i flussi di entrata nelle formazioni partigiane si può fare riferimento al campione costituito dall’area biellese e vercellese, la I Zona operativa piemontese, elaborato dall’Istituto di Varallo. Si tratta di dati indicativi,
ma che segnalano quanto i percorsi siano complessi perché possono avere nel
tempo notevoli differenze.
Il flusso significativo di meridionali in entrata nel corso dell’estate 1944 è il risultato della capacità del movimento di resistenza di attrarre nuove adesioni.
Così ad esempio, avviene per l’inserimento di un gruppo di ufficiali meridionali
in una formazione garibaldina del Biellese, segnalato dall’Istituto di Varallo. Nei
19
quadri di comando di questa formazione garibaldina, la XII Divisione “Nedo”
che opera nel Biellese orientale, ritroviamo a stretto contatto con il commissario
politico Francesco Moranino (Gemisto) alcuni partigiani che erano stati ufficiali
di complemento del regio esercito. Erano giunti nel Biellese orientale al seguito di un reparto della IV Armata che dopo l’armistizio si era fermato presso
lo stabilimento tessile Giletti di Ponzone, dove aveva depositato le armi prima
di sciogliersi. Per diversi mesi questi ufficiali erano rimasti nascosti non condividendo l’orientamento politico delle formazioni della zona e solo nel giugno
1944 superarono le diffidenze e accolsero la proposta di coinvolgimento offerta
dai comandi partigiani, in particolare da Moranino, allora comandante della 50°
Brigata Garibaldi alle prese con la rapida crescita delle formazioni. Tra i militari
sbandati c’era il sottotenente di fanteria Carlo Gasparro, nato a Vibo Valentia il
4 novembre 1920, destinato a diventare, con il nome di battaglia “Spartano”, il
comandante della piazza di Vercelli nei giorni successivi alla Liberazione, dal 26
aprile al 9 maggio 1945. Spartano aveva un fratello, Domenico, nome di battaglia “Spavento”, sfollato da Milano,
che, arrestato dai fascisti, fu fucilato
a Vercelli il 5 gennaio 1945.
Nel primo dopoguerra Gasparro entrò in polizia come dirigente
dell’Ufficio Indagini della Procura di
Vercelli; raggiunto da un mandato di
cattura nel quadro della vicenda giudiziaria che portò a processo Moranino, si rese latitante fino alla revoca del mandato di cattura nel 1951.
Intraprese successivamente l’attività
di imprenditore risiero nello stabilimento sito ai Cappuccini di Vercelli.
Morì nel 1996.
Con Spartano entrarono a far parte del comando della 50° Brigata da
cui sarebbe nata la XII Divisione
Garibaldi “Nedo”, Elio De Domenico (Aiace) e Emanuele Esposito
(Sbarazzino). Il primo, sottotenente
di artiglieria, era nato a Palmi (RC)
il 22 luglio 1921 ed era compagno Il sottotenente Carlo Gasparro. Archivio fotografico Ludi studi di Spartano alla facoltà di ciano Giachetti – Fotocronisti Baita
20
giurisprudenza di Messina. Dopo aver organizzato il servizio di intendenza
divisionale, era stato nominato vicecomandante della 110 Brigata; il secondo
era nato a Brusciano (NA) il 3 gennaio 1920 ed era sottotenente di aviazione,
residente a Castellammare di Stabia (NA); terminò l’esperienza resistenziale
come capo di stato maggiore della 110 Brigata Garibaldi “Elio Fontanella”
(Lince). Insieme a loro erano entrati nel comando militare partigiano altri ufficiali sbandati, tra cui il romano Giorgio Perricone (Beduino).
Dopo qualche difficoltà di inserimento, soprattutto perché l’ambiente partigiano
era composto quasi esclusivamente da persone del posto che comunicavano tra
loro nel dialetto locale, ebbero presto incarichi di responsabilità, per la loro preparazione militare, contribuendo ad attuare la trasformazione delle formazioni
partigiane, cresciute notevolmente di numero, rispondendo con successo all’esigenza di organizzare i servizi secondo regole disciplinari più definite rispetto alla
struttura della banda.
49
Note
(1) Il racconto di Nunzio Di Francesco (Il costo della libertà. Memorie di un partigiano combattente superstite da Mauthausen e Gusen II, editore Bonanno, Catania
2007) è tra le testimonianze più interessanti sia per la complessità delle vicende vissute, sia per la capacità dell’autore di rielaborare le sue esperienze.
(2) Il data base del partigianato piemontese è stato realizzato dagli Istituti piemontesi di storia della resistenza grazie al sostegno della Regione Piemonte in occasione del Cinquantesimo anniversario della Liberazione. La fonte
primaria sono state le schede predisposte dalla Commissione piemontese
per il riconoscimento dell’attività partigiana nel dopoguerra. Sulla documentazione e per una breve sintesi del lavoro svolto cfr. Claudio Dellavalle, Partigianato piemontese e società civile, in “Il Ponte”, numero monografico dedicato a Resistenza. Gli attori, le identità, i bilanci storiografici, a. 51, n.
1, gennaio 1995, pp. 18-35. Il data base è consultabile all’indirizzo: http://
intranet.istoreto.it/partigianato/default.asp. Le schede di sintesi riportate
nel testo sui partigiani meridionali, sulla distribuzione tra le formazioni
nonché gli elenchi riportati in Appendice provengono da questo data base.
Esiste un secondo data base ricavato dalla documentazione dalla Commissione regionale lombarda per i partigiani operanti in Val Sesia Ossola
Cusio e Verbano e Novarese, e che smobilitarono a Milano. Da questo
data base provengono gli elenchi relativi ai partigiani siciliani riportati in
Appendice, elaborati dall’Istituto storico della Resistenza e della società
contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola con sede a
Novara. Sui partigiani siciliani si veda anche il lavoro di Carmela Zangara,
Per liberar L’Italia. I siciliani nella Resistenza (1943-45), Edizioni La Vedetta,
Associazione Culturale “I. Spina”, 2007; in specifico sui caduti siciliani in
Piemonte si veda anche l’indice-estratto di questo volume pubblicato sul
sito dell’Istituto Siciliano per la Storia dell’Italia Contemporanea: http://
www.italia-liberazione.it/ita/viewpubblilocale.php?id=207&rete=83.
Infine è da citare il data base relativo alle formazioni partigiane operanti
a cavallo del confine ligure piemontese e che smobilitarono per lo più
a Genova. Su questa specifica area va segnalato il lavoro svolto per iniziativa dell’Istituto Calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia
contemporanea da due ricercatori, Rocco Lentini e Nuccia Guerrini, I
partigiani calabresi nell’Appennino ligure-piemontese, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996. La ricostruzione delle vicende delle formazioni partigiane di
quest’area è completata con gli elenchi e brevi biografie dei partigiani
calabresi in esse attivi.
50
(3) Sulla deportazione dalle regioni meridionali vedi di Aldo Borghesi, Sardi
nella deportazione e di Giovanna D’Amico, La deportazione dei siciliani, in Il
libro dei deportati, a cura di B. Mantelli e N. Tranfaglia, ricerca promossa da
ANED Nazionale, vol. II, Deportati, deportatori, tempi, luoghi, (a cura di B.
Mantelli), Mursia, Milano, 2010, pp. 716-751 e pp. 752-777.
Scarica

Leggi l`estratto della pubblicazione a cura di Claudio Dellavalle