Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB - Roma
R I V I S TA PE R L A S C U O L A D E L L A D I O C E S I D I RO M A
Editoriale: Una duplice consegna
Il profilo teologico degli Istituti
Superiori di Scienze Religiose:
modelli, configurazioni, prospettive
Il quotidiano scuola di vita?
Fare cultura nel chiaroscuro dei media
Il vantaggio educativo dell’IRC (IV Parte)
Obiezione di coscienza: conflitti di valori
nel rapporto tra etica e diritto
“Le” laicità e “la” laicità nella prospettiva europea
PIO XII: i silenzi e il chiasso
Le opere e i giorni
Un viaggio in Giappone
Lettere per pensare
Programmiamo anche le verifiche
Pronte le ricostruzioni per gli IDR
in ruolo dal 2005/06
Diario scolastico
Il Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio
4/2008
Religione
Scuola
Città
Religione Scuola Città
RIVISTA PER LA SCUOLA
DELLA DIOCESI DI ROMA
Anno XIII (2008) n. 4
Sommario
EDITORIALE
Manlio Asta Una duplice consegna
3
Direttore responsabile
Angelo Zema
Direttore
di Giuseppe Lorizio Il profilo teologico degli Istituti
Consiglio di redazione
Carmine Brienza - Giuseppe Iovino
Filippo Morlacchi - Alessandro
Tarzia - Grazia Palma Testa
Pasquale Troìa
Immagini e didascalie
Pasquale Troìa
Registrazione
Tribunale di Roma
Autorizzazione n. 137
del 11.04.1994
Gianpiero Gamaleri Il quotidiano scuola di vita?
Dino Boffo Fare cultura nel chiaroscuro dei media
Stampa
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00148 Roma
Finito di stampare nel mese di
gennaio 2009
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12
Teodora Rossi Il vantaggio educativo dell’IRC (IV Parte)
19
Carlo Cardia Obiezione di coscienza: conflitti di valori
26
nel rapporto tra etica e diritto
Progetto grafico e
impaginazione
Studio PardiniApostoliMaggi
www.pardiniapostolimaggi.it
6
Superiori di Scienze Religiose:
modelli, configurazioni, prospettive
Manlio Asta
Giuseppe Dalla Torre “Le” laicità e “la” laicità nella prospettiva europea
33
TUTTA UN’ALTRA STORIA
Federico Corrubolo PIO XII: i silenzi e il chiasso
39
LE OPERE E I GIORNI
di Pasquale Troìa Le opere e i giorni
Un viaggio in Giappone
43
58
LETTERE PER PENSARE
a cura della Redazione Lettere per pensare
60
A CLASSI APERTE
Caterina Basile Programmiamo anche le verifiche
Massimiliano Ferragina
63
NOTIZIE LEGALI E SINDACALI
Angelo Zappelli Pronte le ricostruzioni per gli IDR
67
in ruolo dal 2005/06
DIARIO SCOLASTICO
di Filippo Morlacchi Diario scolastico
71
MATERIALI E DOCUMENTI
Il Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio
76
Editoriale
Q
Questo è l’ultimo editoriale che firmo come direttore dell’Ufficio per la
pastorale scolastica e l’insegnamento della religione cattolica del Vicariato di Roma. La fedeltà alla Chiesa, che, pur nella mia fragilità, ha
caratterizzato la mia vita sacerdotale, mi induce, dopo 17 anni di servizio, ad accettare l’invito del Cardinale Vicario ad assumere la responsabilità pastorale della comunità parrocchiale di San Ponziano a
Roma. Questo editoriale, pertanto, avrà la caratteristica di un saluto,
di un ringraziamento e di un augurio: toccherà ad altri, qualora lo si
riterrà opportuno, tracciare un bilancio del cammino che la rivista ha
compiuto in questi anni.
Saluto e ringrazio, per primi, tutti gli insegnanti di religione della diocesi di Roma: il loro apporto, prezioso e indispensabile, per la presenza della Chiesa nel campo difficile, delicato e decisivo dell’educazione scolastica non sarà mai abbastanza
valutato e apprezzato. Vi ringrazio tutti e
vi esorto a vivere in maniera sempre più
intensa quella triplice fedeltà che è la caratteristica professionale, umana e cristiana (c’è differenza?) dell’IdR: ai ragazzi,
alla scuola e alla Chiesa.
Ringrazio tutti coloro che direttamente hanno lavorato perché questa
rivista acquistasse sempre più la capacità di essere, non solo espressione
degli insegnanti di religione della Diocesi di Roma, ma anche voce autorevole nel dibattito culturale, teologico e pedagogico che si svolge nel
Paese e nella Chiesa. L’augurio è che ciascuno di noi sappia, con il suo
lavoro, la ricchezza delle sue doti, la generosità del suo cuore e l’appor-
Una
duplice
consegna
3
to della sua intelligenza, dare un contributo alla missione evangelizzatrice della Chiesa.
La Chiesa di Roma è impegnata da qualche anno a porre al centro
della sua azione pastorale il problema e l’impegno educativo: la lettera
di Benedetto XVI alla Diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione e la recentissima lettera «Educare alla speranza» del card. Agostino Vallini a tutti gli educatori scolastici ne sono il segno più evidente,
ed offrono lungimiranti indicazioni per un cammino futuro. ‘Investire
in formazione’ appare sempre più come il compito prioritario della
Chiesa e della società intera. Tutti siamo chiamati ad essere coinvolti
in questa comune impresa, che risponde ad un bisogno non più rinviabile dei giovani del nostro tempo.
Le comunità cristiane sono chiamate a ridare valenza formativa alla
catechesi e la scuola è chiamata a vivere se stessa come ‘comunità
educante’. Per questo, riprendendo le parole di Sua Eccellenza Mons.
Nosiglia, nell’Assemblea degli IdR della Diocesi di Roma del 26 settembre 1991, presso la Pontificia Università Lateranense, ribadisco
la mia convinzione: «i docenti di religione, i catechisti e animatori
Pier Augusto BRECCIA, 1943, La stanza di Pandora, 2006 (nel 2004 pubblica il suo libro-manifesto Introduzione alla pittura ermeneutica).
Ogni ultimo giorno dell’anno ci sovrasta l’interrogativo: come sarà il prossimo? Un
vaso di Pandora? Un libro chiuso che l’astrologo ha intravisto prima per noi? Certo il
vaso di Pandora evoca il mito… ed ancora oggi levare il coperchio a certe situazioni
potrebbe comportare incalcolabili e ingestibili conseguenze. Nessuno vorrebbe mai
aprire questo vaso contenente i mali. Ma c’è sempre qualcuno che lo apre per sé e poi
ne riversa tutti i mali sul mondo. È importante che tutti ammettano – e non è facile –
che in ognuno c’è un piccolo vaso di Pandora al quale potremmo togliere il coperchio, senza dare alla
speranza nemmeno il tempo di fuoriuscire, visto che il mito la colloca proprio in fondo in fondo al vaso. Addirittura ogni individuo per noi potrebbe essere un vaso di Pandora. Come ogni anno nuovo,
ogni alterità e ogni novità, ogni diverso da noi, e forse anche noi stessi.
Nell’immagine di P. A. Breccia, la policromia della stanza (più che il solo vaso) di Pandora esprime la
polivalenza e la pluralità della curiosità rispetto a ciò che il vaso potrebbe contenere. L’opzione futura
non sarà più togliere o meno il coperchio al vaso dei mali che albergano nella storia, ma affrontare
quei mali con la speranza, che è in fondo al cuore di ogni uomo.
4
di gruppi, gli educatori nell’ambito delle parrocchie o delle varie
realtà ecclesiali devono trovare modi e forme di conoscenza, di comune collaborazione dentro un progetto organico di pastorale, sempre rispettando ovviamente le specifiche proprie della scuola e delle singole
realtà locali». La ‘parola magica’ che oggi viene usata, ossia la metafora della ‘rete’, che esprime in altro modo la nostra idea di comunione, deve essere l’orizzonte nel quale muoversi: l’impegno comune
per l’educazione deve far convergere in un progetto pastorale comune
la comunità cristiana.
Per i prossimi anni, vorrei affidare ancora agli insegnanti di religione
di Roma il compito di rendere tutti sempre più consapevoli del contributo decisivo che l’IRC dà alla scuola, soprattutto per alcuni aspetti che
meno erano presenti 20 anni fa e che ora sono particolarmente richiesti. Mi riferisco in particolare al duplice impegno di far maturare in
ogni alunno un’identità accogliente, e di educare alla passione per la
verità: proprio perché è inevitabile per ogni IdR porre la questione della verità del Vangelo di Gesù Cristo, nella matura coscienza di sé e nel
confronto aperto e costruttivo. Questo duplice mandato rappresenta la
sintesi di quanto mi sono impegnato a realizzare, facendo del mio meglio, per una scuola migliore e una Chiesa a servizio dell’uomo nell’ascolto della volontà di Dio.
Fortemente radicati nella fede della Chiesa, fedeli al nostro impegno
battesimale, il mio augurio è che sappiamo essere testimoni credibili
del Vangelo, ovunque il Signore lo chieda, con il cuore e la mente aperti ai bisogni delle persone che incontriamo, sempre umili e sereni.
Manlio Asta
5
Il profilo teologico degli Istituti
Superiori di Scienze Religiose:
modelli, configurazioni, prospettive
di Giuseppe Lorizio
tentativo di pensare ed esprimere il mi«Sinfonia vuol dire accordo. Un suono. Diverstero di salvezza, rivelato in Gesù Crisi strumenti suonano. Diversi strumenti suosto e fedelmente custodito dalla Chiesa,
nano insieme. Una tromba basso non è un
in rapporti ai multiformi sviluppi negavioloncello, un violoncello non è un fagotto.
tivi e positivi, di una cultura sempre
Il contrasto fra gli strumenti deve essere il più
più planetaria e al
netto possibile, in
contempo frammenmodo che ciascuno
tata, così da evangemantenga il suo timL’articolo riproduce l’intervento pronunlizzarla dal di dentro
bro inconfondibile. Il
ciato dal prof. Lorizio, preside dell’ISSR
e non in forma giucompositore deve scri«Ecclesia Mater» e membro del Servizio
stapposta o superfivere la parte in modo
Nazionale per gli Studi Superiori di Teolociale» (A. S COLA in
tale che il timbro di
gia e di Scienze Religiose, al Convegno su
ogni strumento ragRivista di Teologia
“La nuova frontiera per gli Istituti: la teogiunga il suo massimo
49 (2008) 12).
logia si insegna al futuro” (Castellammare
effetto […]. Per poter
b) Poiché la figura sodi Stabia, 1 ottobre 2008). Il teologo sugesprimere tutta la ricpra descritta appargerisce di valorizzare la specificità degli
chezza dei suoni che il
tiene alla teologia
Istituti
di
Scienze
Religione,
che
non
devocompositore sente
tout court e quindi
no essere dei doppioni delle Facoltà teologidentro di sé, l’orchenon sarebbe specifica
che né limitarsi a fornire una infarinatura
stra deve essere pluradel sapere teologico
teologica di base. La loro specifica vocaziolistica» (H. U von
proprio degli ISSR,
1
ne è quella di essere luoghi di frontiera, con
Balthasar) .
essa invece andrebbe
disegnata nella forma
una solida teologia alle spalle e una specia«Non più [del]la
L’attuale dibattito inle interazione con il contesto culturale, stogrande cattedrale, ma
torno alla fisionomia
rico e territoriale in cui agiscono.
forse di un edificio
del sapere teologico
snello e moderno che
in relazione agli ISSR
costruisca una ‘Introduzione al cristianeregistra la compresenza di due “scuole di
simo’ nelle sue essenziali strutture di bapensiero” differenti, rispetto alle quali mi
se, e poi un primo tentativo di abilitaziosembra necessario aprire un confronto critine alla sua trasmissione nel campo didatco e tentare la ricerca di una “terza via”:
a) La capacità degli ISSR di proporre
tico e pastorale» (F. G. BRAMBILLA in
«studi teologici capaci di offrire quel
Teologia 33 (2008) 182).
1
6
H. U. VON BALTHASAR, La verità è sinfonica. Aspetti del pluralismo cristiano, Jaca Book, Milano 19713, p. 7.
I modelli, le configurazioni, le prospettive ma anche le aspettative di quello che è il profilo teologico degli ISSR oggi è regolato dall’Istruzione sugli ISSR pubblicato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica (28 giugno 2008), ora visibile anche in rete
(www.vatican.va - Curia romana - Congregazioni - Educazione cattolica). La lettura di
questa Istruzione è utile per i Colleghi che insegnano ma ancora stanno completando
gli studi teologici negli ISSR, per chi vi insegna e per chi ha ancora a cuore ‘il destino’
della formazione teologica dei “fedeli laici” in Italia.
L’Istruzione è così articolata: I: FISIONOMIA DEGLI ISSR: 1. Finalità e promozione degli
ISSR; 2. Autorità Accademiche; 3. Docenti; 4. Studenti; 5. Ordinamento degli studi; 6.
Gradi accademici. 7. Sussidi didattici ed economici. – II. PROCEDURA PER L’EREZIONE
DI UN ISSR. – III. NORME FINALI.
Se “la verità è sinfonica” (von Balthasar),
anche gli strumenti devono essere in sinfonia e suonare con-cordi. Lo strumento
musicale più liturgico è l’organo: una piccola orchestra di fiati, dove ogni canna ha
un suo timbro e suona come un flauto, un
oboe, un violino… così come si possono
vedere in quelle piccole manopole che li
attivano (i registri). Chi sa che cosa cerchiamo per primo nelle chiese! A volte non
ci accorgiamo che alle nostre spalle (ma
spesso nel transetto) si ergono organi storici che annunciano con la loro presenza voci sinfonie di antiche e recenti liturgie. E
spesso intendono fare della musica e del
canto un invito alla formazione e all’educazione cristiana, così come quando sugli
organi e sui clavicembali si trovano scritte
come «Audi vide et tace si vis vivere in pace», «Soli Deo gloria», «Sine scientia ars
nihil est», «Indocta manus noli me tangere», «Chorde voce et organo Christo canamus gloriam». Che gli ISSR e i loro protagonisti siano organi di verità sinfonica!
(Lo strumento nell’immagine è il più antico organo del mondo ancora utilizzabile,
1400 circa: chiesa di Notre-Dame di Valère a Sion, Svizzera. È un organo “a nido di
rondine”, con la cui forma si è voluto evocare un altare; le due ante laterali ricordano eventi evangelici (così che il canto e la
musica possano cantarli e raccontarli); i
merli che sovrastano le due torrette riprendono il tema della “fortezza di Sion”, presente su tutta la facciata occidentale della
chiesa stessa in un paese che si chiama anche Sion).
7
c) La “terza via” che da parte nostra proponiamo si avvale dell’immagine della
“frontiera”, a partire dalla presa d’atto
di alcune peculiarità disciplinari e dei
luoghi e dei destinatari-interlocutori
propri degli ISSR rispetto alle Facoltà
Teologiche presenti sia nelle Università
pontificie che sul territorio nazionale
(cfr l’articolo di F. Mastrofini su Settimana 20/03/2008, n. 13, p. 3). Si tratta di una sottolineatura che da un lato
riguarda non tanto la “teologia per laici” quanto la “laicità della teologia” e
d’altra parte la possibilità di esprimere
il sapere teologico accademico extra
moenia, in un contatto diretto con la
cultura del territorio e del contesto ecclesiale in cui ogni ISSR si situa. Non si
tratta di un’alternativa rispetto alle precedenti posizioni, ma della necessità di
accogliere entrambe le istanze e di articolarle adeguatamente in riferimento al
nostro compito. In questa prospettiva
alla Facoltà teologica è chiesto di guardare a quanti operano negli ISSR come
ai propri soldati al fronte e quindi a
supportarli adeguatamente nel loro arduo compito, non privo di rischi; agli
Istituti di fornire un equipaggiamento
agile e non appesantito, ma al tempo
stesso efficace per fronteggiare le sfide
che il contesto socio-culturale ed ecclesiale di volta in volta propongono alla
fede e al suo pensarsi.
ombra il carattere prismatico dell’esperienza credente e della verità che in essa si
esprime. L’immagine di riferimento sarà
allora quella della “verità sinfonica” nella
prospettiva della pluralità delle forme di
razionalità chiamate ad articolarla. E, in
tale orizzonte, la necessaria formazione
teologica di base (istanza avanzata da
mons. Brambilla) si ispirerà ad un momento fondativo-dinamico capace di fronteggiare la ricorrente tentazione fondamentalista, che tende a diffondersi anche
nei nostri ambienti cattolici. In questo
senso la teologia costituisce il punto prospettico (direttore d’orchestra), ma può
avanzare tale pretesa solo se è capace di
“riconoscere” le diverse forme di razionalità che i saperi esprimono e d’altra parte
gli ISSR possono diventare un luogo importante nel quale concretamente si manifesta il riconoscimento della razionalità
teologica da parte delle altre forme del sapere in essi operanti. «Che cosa sta succedendo in realtà un po’ dovunque? Non si
sopporta più la visione unitaria delle cose,
secondo la quale ognuno con il suo compito e con il suo carisma rappresenta solo
una parte di questa unità, e si sommerge il
tutto nella parte. Si rifiuta la sinfonia e si
esige l’unisono […]. La grande musica è
sempre drammatica, crea continuamente
delle tensioni e le risolve a un livello più
alto. La dissonanza però non è cacofonia»
(H. U. von Balthasar)2.
1. Questa prospettiva teologica instaura di
fatto una duplice distanza da un lato nei
confronti del modello neo-scolastico, ancora ricorrente in ambito cattolico (prevalentemente a livello filosofico), sia rispetto
ad orientamenti teologici inclusivisti della
ragione nella fede o tendenti a mettere in
2. L’attenzione alla dimensione contestuale
del sapere teologico (che anima l’istanza
avanzata dal card. Scola) si scontra oggi a
mio avviso con un duplice timore, che, per
quanto giustificato, se enfatizzato, può
produrre un vero e proprio bloccaggio culturale in relazione alla valenza pubblica
2
8
Ib., p. 12.
che un qualsiasi sapere riconosciuto (quindi anche quello che nasce e si sviluppa dalla fede) non può non perseguire.
La prima forma di timore si esprime in
rapporto all’eventualità di una “cattura
mondana” della teologia, quando essa si lasciasse guidare non più dalla Parola che
salva, ma dalle circostanze e dalle istanze
contestuali con cui è chiamata ad interagire. Un tempo c’era anche chi riteneva che
le cosiddette teologie contestuali attentassero il carattere unitario del sapere della fede, alimentando la frammentazione, già
fortemente espressa nella diversità delle
specializzazioni e degli ambiti disciplinari
costituenti tale sapere. Oggi che il contesto
sarebbe quello del villaggio globale, dal
quale anche la teologia sarebbe chiamata a
superare le esasperate differenziazioni, resta il dubbio che da scienza di Dio e della
sua parola, una teologia che inseguisse il
contesto socio-culturale, possa trasformarsi
in scienza del mondo e delle sue espressioni, non senza la possibilità di una pericolosa deriva ideologica, vuoi nel senso di costituire una funzione intellettuale di appoggio alla dinamica globalizzante e alle
sue scelte economiche, sociali e politiche,
vuoi nella direzione opposta di alimentare
l’avversione viscerale ed anche ideologicamente strutturata alla globalizzazione.
La seconda forma di timore che rischia di
impedire alla teologia di svolgere un’adeguata funzione pubblica, per potersi considerare a pieno titolo “cittadina” e non solo
“ospite” nel villaggio globale, riguarda la
possibilità di una “cattura ecclesiastica” del
sapere della fede. Dato il suo carattere confessionale e il suo costitutivo legame con la
comunità credente e con l’autorità della
chiesa, la teologia rischierebbe di perdere
ogni diritto di cittadinanza, qualificandosi
come una forma di sapere parziale, privato
e a servizio di un potere non da tutti rico-
nosciuto. Pertanto al teologo in particolare
andrebbe applicata, dopo la caduta delle
ideologie, la forma dell’intellettuale organico di gramsciana memoria. E d’altra parte un sapere al quale sembrerebbe preclusa
la libertà di pensiero nulla avrebbe da proporre alla città e al suo pubblico, né avrebbe alcuna possibilità di avanzare pretese di
pubblicità.
Da queste due forme di timore nasce e si
alimenta quella autoreferenzialità del sapere teologico, che compromette radicalmente la sua comunicazione e naturalmente il dialogo e il doveroso confronto
con altre forme di conoscenza strutturata
presenti nell’areopago contemporaneo. La
duplice, reciproca, appartenenza della teologia alla Chiesa e al mondo (alla città) e
della Chiesa e del mondo alla teologia non
può al contrario che condurre all’affermazione della non autoreferenzialità del sapere teologico.
A questo proposito mi pare utile una riflessione a partire dai termini “scienze” e
“religiose”, presenti nella titolazione dei
nostri Istituti, che si interroghi sia sul sostantivo e sul suo significato oggi e in relazione al sapere teologico, sia sull’aggettivo
e sulla sua intrinseca problematicità (anche
teologica).
3. Dato il carattere “misto” o “ibrido” del
nome delle nostre istituzioni, mi sembra
importante richiamare:
a) la necessità di una teologia capace di
disegnarsi secondo una modellistica veramente scientifica, in modo che si renda evidente il suo carattere pubblico e
strutturato;
b) la percezione della forma della “razionalità teologica” in rapporto alle altre
forme di razionalità presenti nei nostri
9
piani di studio, ma anche nel dibattito
contemporaneo.
Un’operazione come quella indicata da Benedetto XVI nel senso di “allargare la nostra razionalità”, mi sembra possibile ed efficace solo se si tengono in conto le diverse
forme di razionalità che ciascun ambito
del sapere sviluppa, nella propria legittima
autonomia e con propria peculiare metodologia. L’attuale areopago epistemologico
offre delle inedite rappresentazioni, che
consentono a chi coltiva il sapere credente
di scorgere e cogliere delle tracce di ulteriorità, attraverso le quali si può sapientemente operare per l’allargamento della razionalità stessa sopra auspicato. Il contributo specifico degli ISSR a questo lavoro,
soprattutto di ricerca, mi sembra di poterlo intravedere concretamente su un triplice
fronte:
a) quello dell’elaborazione del rapporto fra
teologia e scienze umane e le forme di
razionalità che ciascuna di esse esprime;
b) quello dell’attenzione alla storia del territorio in cui l’Istituto di situa, evitando
tuttavia per quanto possibile la tentazione localistica;
c) quello della sperimentazione e dell’elaborazione teologico-pastorale delle forme di
religiosità presenti nei nostri contesti.
4. Si tratta di “tracce” che vanno individuate e seguite abitando la frontiera del
luogo in cui opera l’ISSR nel quale lavoriamo, in modo da progettare opportuni itinerari di ricerca, in collaborazione con istituzioni e strutture presenti sul territorio e
al tempo stesso con lo sguardo al contesto
“globale” nel quale comunque crediamo,
pensiamo ed insegniamo. Tutto questo è
compito della Facoltà di Teologia, con la
10
quale l’ISSR collegato dovrebbe condividere il “modello” di sapere che vi si attua, ma
esso può svolgere un ruolo che definirei di
attenzione e di stimolo:
- attenzione e coinvolgimento in quei
progetti di ricerca che la Facoltà propone, alle pubblicazioni che produce, alle
linee teologiche che vi emergono;
- stimolo all’attuazione di ricerche strutturate nell’ISSR stesso in sinergia con
istituzioni e strutture accademiche e
culturali presenti sul territorio.
Non si tratta di organizzare serie di “eventi”, ma di mettere in moto dei processi di
conoscenza che solo a medio e lungo termine potranno dare dei risultati significativi. Nell’economia della struttura accademica di appartenenza si tratta di distribuire ambiti e compiti in modo che non si
realizzino doppioni e non si lascino scoperti fronti importanti e imprescindibili
per l’attuale dibattito tra fede e cultura, fede e scienza… Ma anche sarà necessario
un adeguato discernimento, negli organi
preposti, intorno a iniziative che vanno
promosse o create, e attività che sarebbe
meglio chiudere per destinare ad altro risorse umane ed economiche sempre limitate e comunque necessarie.
Da parte della Facoltà si tratta di vedere gli
ISSR come una risorsa per la teologia che
in essa si fa e si insegna.
5. Lo scenario descritto non può non riguardare in primo luogo la figura del docente e la sua professionalità, nonché la didattica che nell’ISSR va attuata. Come si
può facilmente dedurre da quanto detto,
non si tratta di offrire un sapere teologico
di secondo livello rispetto a quello che si
insegna nella Facoltà (ed anche in questo
senso non ha torto mons. Brambilla quando dice che quelli descritti sono compiti di
tutta la teologia ovunque si faccia e si inse-
gni). Neppure la trasmissione del sapere
della fede può limitarsi ad un semplice travaso dottrinale dei contenuti della fede
dalla testa e dal cuore del docente a quelli
dei discenti. Si è giustamente parlato di
“eccellenza” del sapere che dobbiamo trasmettere nei nostri Istituti.
Pertanto sono in gioco:
a) la professionalità del docente e la sua
preparazione, che dovrà continuamente
aggiornarsi e ripensarsi in relazione a
quanto accade nella Facoltà di appartenenza e, ove essa fosse carente, in altre
strutture accademiche;
b) la necessità di partecipare a ricerche
strutturate e condivise, in quanto non
è più pensabile un serio lavoro teologico in forma individuale ed autoreferenziale.
Conclusione: ciascun Istituto non deve, né
può fare tutto, ma nascere e lavorare nella
prospettiva della “rete”, dove l’aspetto comunicativo è essenziale, a) ad intra con
tutte le realtà connesse con la Facoltà di
appartenenza (e non solo); b) ad extra con
le presenze significativamente culturali del
proprio “bacino d’utenza”, se non facilmente identificabili in istituzioni, non di
rado rinvenibili in persone che abbiano
competenze riconosciute nel proprio ambito di ricerca, per poterle valorizzare sia in
iniziative produttive, sia come interlocutori di confronto dialettico fra la prospettiva
del pensare credente e quella di altre appartenenze religiose e non. Non andiamo
sempre alla ricerca del grande nome conosciuto in ambito nazionale, che magari viene a propinarci cose già dette e ridette,
scritte e rifritte, ma cerchiamo di incontrare e coinvolgere quanti nel nostro contesto
più immediato lavorano seriamente e con
frutto nei settori che maggiormente ci riguardano.
«Quando si ascolta della musica – scriveva
J. A. Möhler – alcuni la gustano nell’impressione generale che essa suscita, nella fusione armonica dei vari toni, degli strumenti e delle voci; altri, invece, percepito l’insieme, lo scompongono nei suoi singoli elementi e sanno dire con precisione da quali
suoni particolari sia prodotta l’armonia, e
secondo quali leggi essa si svolga. Il mistico
gode dell’accordo armonioso e sublime che
è il cristianesimo nella sua totalità, nella sua
vita intima; vive nella contemplazione, in
un godimento spirituale immediato; e penserebbe di interromperlo, di svuotarlo o
profanarlo, se dovesse sottoporlo ad analisi.
Il teologo speculativo, invece, si propone
proprio questa analisi; ma è necessario che
egli abbia già percepito l’armonia, altrimenti
parlerebbe di ciò che non conosce, cioè non
saprebbe che dire. Proprio in questo elemento consiste l’unità dei due»3.
Laddove il quotidiano impegno accademico porge a noi e ai nostri studenti segmenti di verità, che i diversi ambiti del sapere
inseguono ed indagano, il nostro lavoro di
accompagnamento spirituale e pastorale
dovrebbe far sì che noi stessi e le persone
che ci sono affidate percepiscano quell’unità armonica, o sinfonica, del vero, altrove frammentato e sezionato, ma pur sempre presente e vivo. Compito decisamente
arduo in un momento come il nostro, nel
quale sembrano prevalere le dissonanze,
ma anche di estrema urgenza perché non
ci si rassegni alla cacofonia.
J. A. MÖHLER, L’unità della Chiesa cioè il principio del cattolicesimo nello spirito dei Padri della Chiesa dei primi tre secoli, Città
Nuova, Roma 1969, pp. 170-171.
3
11
Il quotidiano scuola di vita?
Fare cultura nel chiaroscuro dei media
Gianpiero Gamaleri – Dino Boffo
Lo scorso 4 dicembre 2008 si sono celebrati i 40 anni dalla fondazione del quotidiano cattolico
«Avvenire». In vista di questo anniversario, il 5 novembre scorso presso il Palazzo Lateranense si è
svolto un dibattito, presieduto dal card. Vicario Agostino Vallini e organizzato dagli uffici del Vicariato di Roma per la Scuola e per le Comunicazioni Sociali. Il prof. Gianpiero Gamaleri, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Roma Tre, e Dino
Boffo, direttore di Avvenire, hanno pronunciato i loro interventi davanti ad un folto pubblico,
composto in larga misura da IdR. Riportiamo la parte centrale dei due contributi (il testo completo è disponibile su www.diocesidiroma.it/scuola). Il sociologo descrive come è cambiata negli ultimi anni la fruizione dei mezzi di comunicazione in Italia e in Europa, e suggerisce una proposta
di “media education” che potrebbe interessare gli IdR. Il direttore racconta il “suo” giornale, dalla
parte di chi lo scrive, invitando ad un uso sempre più consapevole, maturo e diffuso degli strumenti di (in-)formazione cattolici.
Le “diete mediatiche” giovanili in
Italia e in Europa
Gianpiero Gamaleri
Per cogliere l’accoglienza che i media cattolici possono avere nella scuola e più in generale nella formazione dei giovani, è quanto
mai utile fare riferimento all’ultima ricerca
dell’UCSI – Unione Cattolica Stampa Italiana – e del Censis, il noto istituto di ricerche
sociali, sulle cosiddette “diete mediatiche”
dei giovani in Italia e in Europa.
Il primo dato da cui prendere le mosse è
l’aumento generalizzato nell’impiego di tutti
i media, a cominciare dal cellulare, che è
praticamente usato da tutti i giovani (il
97,2%), mentre il 74,1% di loro legge almeno un libro all’anno (esclusi ovviamente i testi scolastici) e il 62,1% più di tre libri.
Riguardo i giornali, il 77,7% dei giovani
legge un quotidiano una o due volte alla
settimana (erano il 59,9% nel 2003), mentre il 57,8% legge almeno tre giornali alla
12
settimana. I periodici hanno una utenza
complessiva pari al 50% dei giovani (era il
44% nel 2003).
Il maggior balzo in avanti è nell’uso di Internet da parte dei giovani italiani tra i 14 e i
29 anni: tra il 2003 e il 2007 l’utenza complessiva (uno o due contatti alla settimana) è
passata dal 61% all’83% dei giovani, e l’uso
abituale (almeno tre volte alla settimana) dal
39,8% al 73,8%.
La flessione che si registra nell’uso della televisione tradizionale (dal 94,9% all’87,9%) è
ampiamente compensata dall’incremento
conosciuto in questi anni dalla Tv satellitare
(dal 25,2% al 36,9% dei giovani).
Le differenze di genere si sono notevolmente
ridotte, ma non annullate. Nell’utenza complessiva dei media (frequenza settimanale di
una o due volte), le femmine ascoltano di
più la radio (il 90,3% contro l’83,1% dei
maschi) e leggono di più i periodici (il
55,2% contro il 45,3%), i maschi invece
leggono di più i quotidiani (80,4% contro il
74,6% delle ragazze) e guardano di più la Tv
satellitare (il 39,9% contro il 33,6%).
Più marcate appaiono invece le differenze legate alle diverse fasce d’età. I giovanissimi,
tra i 14 e i 18 anni, sono i più voraci consumatori di media, ma con due importanti eccezioni: quotidiani e radio. Se il dato relativo all’ascolto della radio riferito a tutti i giovani è in aumento (gli utenti complessivi sono passati dall’82,8% all’86,5%), nella fascia
14-18 anni è in calo al 78,9%. Sono le stesse
funzioni e tecnologie del linguaggio radiofonico ad essere profondamente mutate, perché la «colonna sonora» della giornata di un
adolescente si compone ormai di pod-cast e
download di mp3 dalla rete, telefonini e lettori usati anche come apparecchi radio, playlist scambiate attraverso i blog.
Il commento del Rapporto ai dati presentati
è il seguente: «Questo è un esempio della
tendenza al nomadismo e al disincanto che
caratterizza l’esperienza di vita delle giovani
generazioni nel mondo digitale, nel quale si
passa da un mezzo all’altro senza badare
troppo alla sua natura. È aumentato il numero dei media ed è sempre più difficile tracciare un confine tra i media, grazie soprattutto
al ruolo di Internet. I giovani si trovano a loro agio in questo contesto e hanno elaborato
strategie di adattamento. La molteplicità dei
media a disposizione li spinge a passare da
uno all’altro – ha detto in particolare Giuseppe Roma, direttore generale del Censis –
secondo un nomadismo mediatico che si accompagna al disincanto dovuto all’assenza di
una vera prospettiva gerarchica tra i media».
I consumi mediatici dei giovani sono quindi
molto ricchi e articolati, prevedono il contatto non solo con i nuovi media (Internet e
cellulari), ma anche con i più antichi (libri e
quotidiani), senza però attribuire importanza decisiva a nessuno di essi (è indifferente
informarsi tramite i quotidiani, la televisione o Internet).
I giovani italiani assomigliano ai giovani europei, ma non sono del tutto uguali. Ovunque si fa un grande uso del telefonino, ma
solo in Italia il 96,5% dei giovani lo adopera
in maniera davvero abituale. Negli altri paesi
gli utenti abituali oscillano tra l’89,3% della
Germania, l’83,9% della Gran Bretagna,
l’83,7% della Spagna, per scendere al 73,8%
della Francia.
Per i giovani inglesi e tedeschi Internet riveste
un ruolo ancora più importante che in Italia,
visto che l’uso abituale della rete raggiunge il
77,7% in Gran Bretagna e il 76,5% in Germania (contro il 73,8% in Italia). I ragazzi
spagnoli e francesi non solo usano meno Internet (rispettivamente il 69,5% e il 65,7%),
ma leggono anche meno libri dei coetanei europei: almeno tre libri all’anno per il 43,3%
degli spagnoli e il 48,1% dei francesi, rispetto
al 60,7% dei tedeschi, al 62,1% degli italiani
e al 64,5% dei britannici.
La presenza dei media di ispirazione cristiana e in particolare di Avvenire deve tenere
conto del contesto sopra delineato e deve
quindi ispirarsi a una “strategia” che faccia
breccia nelle abitudini di consumo dei media acquisite dai giovani
L’incontro con gli ambienti reali: la pubblica opinione, la “media education”
L’iniziativa dei cattolici sul fronte della comunicazione non è data soltanto da media destinati a un pubblico generico, ad esempio con
la diffusione del giornale attraverso l’edicola.
Il mondo cattolico è costituito da un tessuto
di ambienti reali con cui è possibile interagire: scuole, parrocchie, i movimenti, ecc.
In particolare dobbiamo pensare alla proposta di lettura del quotidiano in classe e alla
conseguente attenzione alle forme espressive
del linguaggio giornalistico.
L’approccio alla lettura critica può costituire
la direttrice dell’utilizzo dei giornali a scopo
didattico, in particolare rispetto all’obiettivo
13
di comprendere i significati della parola e
acquisire la necessaria consapevolezza nell’utilizzo del linguaggio e della comunicazione.
La proposta del quotidiano allarga le possibilità di approccio ai testi, con una molteplicità di forme e strutture che non può che
giovare alla capacità di comprensione e articolazione linguistica.
Educare a leggere il giornale vuol dire educare a comprendere i testi, e, attraverso di
essi, la realtà, imparando a riconoscere la natura, la struttura e le funzioni del messaggio,
le forme linguistiche utilizzate, gli effetti attesi sui destinatari.
Un quotidiano non va solo letto, ma anche
interpretato. A tale fine, è utile seguire un
percorso didattico che faccia del giornale un
oggetto di studio, che va scomposto, ricomposto, analizzato nelle sue strutture portanti,
interrogato e ricondotto al progetto comunicativo che ne determina i contenuti, le
forme, le scelte editoriali. In definitiva, siamo nel panorama della costruzione della conoscenza preconfezionata. Della ricercaazione tale iniziativa presenta infatti alcune
peculiarità: la messa in circolo di teoria e
prassi (il momento della ricerca è insieme
momento di intervento educativo), la simultaneità di ricerca e formazione, la partecipazione del gruppo alla ricerca.
A livello generale, si può impostare un percorso didattico che preveda una prima, ampia fase di educazione alla decodificazione
delle notizie – pars destruens –, e una seconda fase di educazione alla codificazione e alla
produzione di messaggi – pars construens –.
La prima parte, dedicata allo sviluppo della
capacità di lettura e decifrazione dei testi,
potrebbe avvantaggiarsi dell’uso di griglie
analitiche di scomposizione delle sezioni del
giornale, per cogliere la specificità dell’utilizzo dei codici linguistici, grafici e strutturali
con lo scopo di educare al metodo, piuttosto
che alla memorizzazione di schemi e nozio14
ni. L’approccio è globale in quanto il quotidiano fa uso simultaneo di codici variegati,
che vanno dal verbale, al grafico, all’iconico.
Si parte dall’analisi degli elementi costitutivi
di un quotidiano, dal punto di vista dei contenuti – notizie, fonti, stesura, tipologia di
articolo, linguaggio – e delle forme – formato, impaginazione, titolazione, immagini,
sezioni –, per arrivare alla scomposizione dei
supplementi, della pubblicità e dello spazio
riservato al lettore («il vero padrone del giornalista», secondo la celebre definizione di
Montanelli). Si tratta poi di insegnare un
metodo di lettura del quotidiano: come nasce una notizia, come analizzare un articolo,
quali sono le sezioni canoniche del quotidiano, quale spazio può ritagliarsi la carta stampata in concorrenza con la Tv e Internet.
La seconda parte segna il passaggio dalla decodifica alla produzione e si concretizza
principalmente in queste attività:
- la scrittura di brevi testi su un argomento
considerato nella lettura in classe
- l’analisi comparativa della medesima notizia, del punto di vista della testata, della
composizione della prima pagina, secondo l’ottica di diversi quotidiani
- l’adozione secondo la nuova normativa per
la prima prova dell’Esame di Stato delle
modalità di scrittura dell’articolo di giornale, per l’ argomento di attualità, e del
saggio breve, per l’ argomento specialistico: letterario, filosofico, storico, scientifico
- la produzione di un giornalino scolastico
a livello d’Istituto, in virtù della possibilità
concessa dall’autonomia di organizzare la
didattica in senso transcurricolare e superando la distinzione tra gruppi-classe.
Si potrebbe anche proporre agli studenti una
scelta antologica di articoli di giornale entrati nella storia del giornalismo per l’importanza dell’autore o della notizia stessa: si
tratta di vertici dove il giornalismo si coniuga alla letteratura.
Quaranta anni di Avvenire
Dino Boffo
Tante notizie, scarsa conoscenza
Una luce: mai come nella nostra epoca abbiamo avuto accesso a tante informazioni, e
così tanto veloci, che si sovrappongono. Per
un caporedattore è già un’impresa soltanto
leggere e comprendere i titoli – i soli titoli –
dei lanci d’agenzia che affollano lo schermo
del pc. Eppure, quelle notizie un cittadino
qualsiasi può rintracciarle da solo sul web.
Ma che cittadino è? Quanto tempo ha a disposizione? Quali abilità per districarsi in
quel mare magnum? L’accesso a tantissime
informazioni non è di per sé garanzia di libertà d’informazione, né di maggiori conoscenze. Siamo storditi, se non travolti. Il paradosso – l’ombra, nel nostro gioco di chiari
e di scuri – è che non la conoscenza, ma l’ignoranza sembra talora avanzare. E non la
passione per la verità, per il pensiero critico,
per la partecipazione; ma l’indifferenza, i
luoghi comuni, il relativismo pratico, ossia
l’incapacità a distinguere il vero dal falso, il
bene dal male.
Non verità ma punti di vista
Dovrebbe essere una luce: il palcoscenico
dell’informazione è finalmente aperto a tutti, anche alla gente comune che si riconosce
nell’inesperto di talento. Ma sì, tutti hanno
il diritto di pronunciarsi su tutto. È questa
la democrazia? Può accadere che trattando
di astrofisica il parere dell’astrofisico sia fatto seguire da quello del trionfatore dell’Isola
dei Famosi o della Talpa, e che entrambi gli
interventi abbiano pari autorevolezza. Invece dovremmo avere il coraggio di dire che
no, soltanto l’astrofisico è, nel suo campo,
autorevole. Ma appunto questo è il “relativismo pratico”, quotidiano, che si sta insinuando nel costume, inquinando il nostro
modo di pensare. Non ci sono verità ma soltanto punti di vista. Non ci sono questioni
serie, interroganti, rispetto alle quali prendere posizione in modo inequivoco, ci sono
solo controversie, tra le quali palleggiare, un
giorno ospitando un’opinione e il giorno
dopo sostenendo quella contraria, senza mai
pagare dazio. In questo modo, però, non si
costruisce alcuna opinione pubblica forte e
motivata. Non c’è più confronto, ma soltanto emotiva contrapposizione. Ognuno
urla il suo momentaneo punto di vista e “ha
ragione” chi sa urlare più forte, o chi fa l’alleanza più chic. È vero che spesso la verità è
sfuggevole e si costruisce a poco a poco, ed
è sempre bene lasciare un margine al dubbio e alla sfumatura. Ma la verità c’è, il problema è che i nostri mezzi per svelarla sono
spesso insufficienti. Amava ricordare Norman Mailer: «Pretendere di dire la verità e
tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven
con un’ocarina. Lo strumento non è molto
adatto». Io credo in realtà che oggi abbiamo
a disposizione non un’ocarina ma una discreta orchestra… Sbagliato tuttavia scambiare la nostra insufficienza, in strumenti e
suonatori, con l’inesistenza della verità. Ed
è sbagliato dare a noi stessi l’alibi che ci autorizza a enfatizzare alcuni fatti e a nasconderne volutamente altri, come accade più
spesso di quanto possiate immaginare, e da
giornalista lo dico con vergogna. Benedetto
XVI parla di «dittatura del relativismo»1. Ieri potevo chiedermi se nell’espressione egli
volesse includere anche quanto accade sui
media. Oggi, cioè dopo il messaggio per
«Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo,
cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni.
Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il
proprio io e le sue voglie»: J. RATZINGER, Messa pro eligendo pontifice, 19 aprile 2005.
1
15
La scuola è quotidianità che ricostruisce il passato e progetta il futuro. E non può farlo se
non documentando ciò che è avvenuto per ipotizzare ciò che può essere prefigurato e programmato nel futuro. La documentazione della
contemporaneità, quella vissuta in prima percezione dagli studenti, può avere diverse prospettive: quella centripeta che tutto fa orbitare intorno alla scuola, quella centrifuga che usa la
scuola per altro e quella che consapevolizza la
quotidianità scolastica nel contesto della quotidianità degli altri che vivono e lavorano mentre
gli studenti vivono e lavorano a scuola. In questa prospettiva, i giornali (quelli che riflettono
la/sulla quotidianità) sono una componente
imprescindibile di documentazione.
Quali giornali? Tutti ed ognuno. Tutti ne hanno diritto ed ognuno di noi ha diritto al proprio. Avvenire è “il quotidiano dei vescovi italiani” (come lo qualificano i massmedia) o il
l’ultima giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, ne sono sicuro. Se non è una
dittatura, quella del «relativismo mediatico», poco ci manca.
Ombre e luci in casa cattolica
E noi cattolici, come ci collochiamo, più
alla luce o più nell’ombra? Ho da darvi notizie buone e notizie cattive, o almeno tristi. Buone: con il passo sicuro del montanaro, dicevo, Avvenire cresce. In copie, ed è
importante. Ma mi auguro anche, e spero
non sia un’illusione ottica, in credibilità e
16
autorevolezza. Non siamo però – anche
questo va detto – quel quotidiano tanto
popolarmente diffuso che il fondatore Paolo VI avrebbe voluto. Per lui Avvenire
avrebbe dovuto competere con i primi per
tiratura. Non faceva i conti, il grande Papa,
con l’autolesionismo persistente dei cattolici doc, in particolare dei membri di movimenti e associazioni: come potranno essere
i promotori capillari di una cultura pubblica di ispirazione cristiana, destinata ad essere per lo più alternativa, se non si premurano di dotarsi dello strumento di lavoro
quotidiano dei cattolici o meglio “di ispirazione
cattolica”? O un quotidiano mediante il quale i
cristiani (cattolici) interpretano la quotidianità
alla luce del Vangelo e dei valori cristiani attualizzandoli nelle vicende quotidiane per un avvenire più umano e cristiano?
Una risposta è possibile grazie alla sua lettura
(almeno su ww.avvenire.it) e alla conoscenza
anche dei suoi Inserti & supplementi e dei suoi
diversi ambiti di cronaca e di riflessione. Sono
documenti e strumenti didatticamente fruibili
(per ogni ordine e grado di scuola: per la scuola
primaria, l’inserto bisettimanale «Popotus» rimane un capolavoro insuperato) e lo sono sia a
livello di idee (sulla famiglia: «Noi genitori e figli» ed «è famiglia»; sulla società, sulle parrocchie, sui giovani, sul mondo del lavoro…), sia
di approfondimenti tematici (vedi «Agorà»), sia
a livello artistico e iconografico (vedi «Luoghi
dell’Infinito»).
basilare per documentazione e controinformazione? Il nostro Popotus è l’unica impresa editoriale per bambini e ragazzi, ed è incredibile che non ci provino nemmeno coloro che si vantano di diffondere capillarmente il quotidiano nelle scuole. Purtroppo non solo non nasce nulla di nuovo per i
nostri figli, e per il loro diritto ad essere
informati come noi adulti, ma qualcosa finisce. A dicembre uscirà l’ultimo numero
di Ciao amici, storico mensile dell’Università cattolica prima e del Messaggero di
sant’Antonio poi. Una perdita grave.
Scuola di vita?
Rimane l’ultima domanda. Il quotidiano
scuola di vita? Sì, lo può essere, una scuola di
vita. Per quanto ci riguarda, questo dipende
anche dai nostri lettori: e non vi sembri un
parlare profittevole, il mio. Giro abbastanza
per le diocesi, e non è raro che raccolga incoraggiamenti critici, talora anche molto critici, ma questo non spaventa mai. Stupisce
un tantino di più quando le obiezioni sono
del tipo: su Avvenire manca la cronaca locale, oppure mancano le cronache sportive…
Ora, a parte che su Avvenire queste non
17
mancano (e quanto meno Romasette lo prova), lasciatemi almeno sottovoce obiettare:
perché non valutiamo anzitutto quello che
c’è, quello che viene offerto e che per buona
parte è – ahìnoi – in esclusiva? Quello che
c’è e altrove non si trova? […] Va da sé che
non è mai perfetto, il giornale, mai: in poche ore è un’opera d’arte che va improvvisata sulle sabbie mobili. Ma vi assicuro che
tutto esiste e tutto si fa per produrre qualcosa che, da un lato, regga il confronto e non
faccia sfigurare la «ditta», e dall’altro aiuti ad
acquisire una mentalità in grado di condurre
in proprio una analisi, di formulare in proprio un pensiero, di porgere in autonomia
una parola, un contributo. Lo confesso: sapete che cosa seduce del lavoro in Avvenire?
Il contribuire a creare un cattolicesimo nuovo, informato e reattivo, umilmente presente nelle pieghe del Paese ma anche fieramente audace nel tentare risposte adeguate ai
tempi. Un cattolicesimo quel tanto anticonformista e impertinente da rendere rimarchevole il Vangelo nel vissuto di un popolo: per questo lo volle quel grande Papa e
quel grande italiano che fu Paolo VI. Ricordo: mancavano vari anni al mio approdo in
Avvenire, quando un giorno mi capitò di
sentir dire dal professor Lazzati: due sono le
istituzioni nevralgiche per il futuro del cattolicesimo italiano, l’Università cattolica e il
quotidiano cattolico. Grazie a queste – aggiungeva – noi formiamo le leve da mettere
a disposizione del Paese.
Concludendo. Scriveva un grande giornalista nelle settimane scorse: «Si può vivere
senza giornali? Certo, così come si può vivere senza teatro, senza Eschilo e Shakespeare,
o senza opera lirica, senza Mozart e senza
Rossini. Ma un mondo senza Eschilo e senza Shakespeare, senza Mozart e senza Rossini, e senza giornali di carta e inchiostro sa2
Giuliano Ferrara, sul Foglio del 3 ottobre 2008.
18
rebbe un modo più povero, più triste, più
piatto, più scemo»2. Mi domando: si può fare il prete, insegnare religione, fare il responsabile di movimento, essere un politico di
ispirazione cristiana senza documentarsi anche su Avvenire? Senz’altro sì, ma vuoi mettere qual è la capacità di presa con uno strumento, precario e imperfetto finché si vuole,
ma unico per miscelatura e interessi, per
chiavi di lettura e collegamenti? Sto un po’
esagerando, lo so. Ma non troppo, e voi
questo lo immaginate. Se no, che vi avremmo disturbati a fare, stasera? Scriveva Angelo Narducci, storico direttore di Avvenire:
«Noi ci ostiniamo a lavorare come artigiani
sulla parola, perché sia onesta, perché non
tradisca, perché corra, in qualche modo liberante, sulle labbra e nasca da coscienze illuminate, severe e semplici. Non cerchiamo il
successo, ma interlocutori. Quella cosa povera che sono le parole vogliamo che sia la
nostra grande ricchezza, la grande ricchezza
dell’uomo». Grazie, grazie davvero.
Il vantaggio educativo dell’IRC
(IV Parte)
di Teodora Rossi
B. SEZIONE DIDATTICA (segue)
che permette di suscitare piacevolmente l’interesse per la tematica in relazione alla definizio1. Esemplificazioni tipologiche per il triennio1
ne e in relazione al rapporto anima-corpo, ma
anche di cominciare a
Le tipologie didattiperimetrare gli ambiti
che che vengono pronei quali la concezioTermina in questo fascicolo la pubblicazioposte presuppongono
ne classica di persona
ne delle riflessioni sulla didattica dell’IRC
e rispecchiano le lie delle sue facoltà spesviluppate da Teodora Rossi. Dopo aver prenee programmatiche,
cifiche sono maggiorsentato alcuni percorsi didattici per il biencostituendo, al crocemente sfidati dal pronio superiore nel numero precedente, vengovia tra obiettivi forgresso tecnologico. Il
no stavolta formulate tre impegnative ma
mativi e cognitivi,
film riflette le risulstimolanti proposte per il triennio, cui fa seun’intenzionalità di
tanze degli studi speguito una riflessione critica sullo spinoso tefondo che converge,
cialistici sulle operama della valutazione. Sull’argomento «vaper il triennio della
zioni tipicamente ed
lutazione», di scottante attualità, rimanSecondaria di seconesclusivamente umadiamo anche alla rubrica “A classi aperte”.
do grado, attorno ai
ne, attribuite provocaseguenti poli:
toriamente ai cyborg.
- l’identità (per il terzo anno)
Una volta stimolato l’interesse e analizzato il
- la moralità (per il quarto anno)
film con le opportune griglie di valutazione,
- la cultura (per il quinto anno)
il percorso didattico affronta i contenuti tematici, non solo essenziali ma anche ad ampio spettro, per predisporre alla comprensioIII ANNO
Percorso didattico: la definizione di persone e al confronto della tradizione personalina nella tradizione cristiana e le sue implista con altre visioni della persona umana.
cazioni nell’attuale società interculturale”
Nella mappa, proposta di seguito in forma
L’attività didattica, espressa in forma di
grafica, si parte dal dato della tradizione anmappa concettuale, mira a situare la definitica (Dato di partenza), con la definizione
zione di persona sviluppata dalla tradizione
etimologica e storica di “persona” nella culdi pensiero cristiana nell’ambito dell’attuale
tura greca, per proseguire con le due definicultura scientista.
zioni miliari della tradizione filosofica meDetta attività inizia con una sollecitazione
dioevale, quella di Boezio e quella di S.
motivazionale, che è costituita dalla visione
Tommaso d’Aquino, che la riprende, fondendo motivi aristotelici concernenti le opedel film L’uomo bicentenario, diretto da C. Corazioni tipiche dell’essere personale.
lombus e basato su un racconto di I. Asimov,
1
La parte di esemplificazioni tipologiche relative al biennio sono già state pubblicate nel numero precedente.
19
MAPPA CONCETTUALE
Dato di
partenza
Problematizzazione
Percorso filosofico- Percorso biblicoantropologico
teologico
Confronto
interculturale
Visione
greca
Sfide bioetiche
Dimensione
corporale
Anima
Corpo
nella tradiz.
occidentale
Emergentismo
Definizione
di Boezio
Trapiantologia
(trap. testa-tronco)
Dimensione
spirituale
(Libertà
Volontà
Intelletto)
Dimensione
di mistero
della tradiz.
orientale
Riconoscimento
dei diritti
umani
Definizione
di Tommaso
d’Aquino
La persona negli
stati di confine
Relazione
Robotica
Apertura
all’Assoluto
Dignità
Cittadinanza
N.B.: Nella mappa concettuale vengono segnalati i possibili punti di contatto tra i diversi filoni, ad
esempio la dimensione spirituale con le sue prerogative di libertà, volontà e intelletto, in rapporto da
una parte al problema dell’identità nel problema bioetico del trapianto, e dall’altra parte alla prospettiva di mistero della tradizione teologica orientale.
Si prosegue, poi, con un secondo filone (Sfide bioetiche) che approfondisce la presentazione degli aspetti che vengono messi in crisi dall’attuale sviluppo biotecnologico, con
particolare riferimento: al trapianto testatronco e alla questione dell’identità; agli stati di confine tra coscienza e interruzione della relazione interpersonale e con l’ambiente;
ed infine alla robotica, che simula in modo
sempre più sofisticato le funzioni cerebrali e
i comportamenti umani.
Segue un terzo insieme che sviluppa gli
aspetti filosofici e antropologici, riprendendo
i concetti-chiave della tradizione personalista
cristiana (Percorso filosofico-antropologico), e
affronta gli ambiti della corporeità, della spiritualità e delle sue operazioni fondamentali,
della relazione (con sé, con il mondo, con gli
20
altri), e dell’apertura all’Assoluto come capacità di trascendenza unica dell’essere umano,
che ne fonda anche la dignità.
Si passa, quindi, all’ambito successivo (Percorso biblico-teologico), che a partire dal dato
biblico della creazione, segue le due diverse
accentuazioni della tradizione teologica e spirituale occidentale e di quella orientale (la
prima impastata di pensiero filosofico ellenistico, mentre la seconda più tendenzialmente
mistica), al fine di sottolineare l’intangibilità
della persona non a partire dalle sue prerogative fenomeniche, bensì dalla sua origine e
dalla sua chiamata soprannaturale ed eterna.
Infine, l’ultima fase del percorso (Confronto
interculturale) apre al confronto e al dialogo
tra le concezioni più recenti che definiscono
la persona e ne tutelano l’intoccabilità, la
teoria dell’emergentismo, la prospettiva politica con lo sviluppo e la fondazione dei diritti umani, la prospettiva culturale e il riconoscimento della cittadinanza alle minoranze di tradizione non occidentale.
Terminata l’analisi della mappa, si può procedere ad alcuni approfondimenti teoretici,
fase che coincide con una valutazione iniziale
dell’apprendimento degli alunni attraverso la
definizione dei termini fondamentali che
cerchi di integrare trasversalmente i contenuti esposti. Una possibile modalità di verifica
prevede un breve test a risposta aperta sulla
definizione dei termini cruciali (Anima, Corpo, Relazione, Identità, Mistero, Trascendenza, Dignità, Diritto), seguito dalla lettura antologica di alcuni autori maggiormente significativi non solo del dibattito sulla persona,
ma dell’attuale panorama scientifico, filosofico, religioso. Le letture proposte per gli approfondimenti possono essere le seguenti:
- Rappresentante del mondo scientifico:
J.R. SEARLE, Mente, Linguaggio, Società,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2000;
- Rappresentante del mondo filosofico: J.
MARITAIN, L’uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1975;
- Rappresentante del mondo teologico
orientale: T. SPIDLIK, L’idea russa. Un’altra visione dell’uomo, LIPA, Roma 1995;
- Rappresentante della cristianità: BENEDETTO XVI, La persona è il cuore della pace.
Messaggio del Pontefice per la Giornata
Mondiale della Pace 2007, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007.
A seguito della lettura può essere collocata
una valutazione intermedia (verifica in forma di dibattito). La valutazione finale può
essere costituita dalla disamina degli aspetti
conciliabili e di quelli, invece, contrapposti
delle diverse visioni dell’uomo. La verifica si
può effettuare in forma di dibattito per evidenziare la valenza della teoria personalista –
che impone il rispetto della persona al di là
di ogni appartenenza etnico-religiosa – nell’attuale configurazione mondiale.
IV ANNO
GENERI DIDATTICI:
La Quaestio Disputata
Si ripropone l’uso di un genere filosofico in
auge nelle facoltà di teologia e di arti liberali
delle università medioevali, quello della
quaestio disputata, che trova mirabile espressione nell’opera di S. Tommaso d’Aquino,
celebre autore della Summa Theologiae, appunto articolata come una serie di dispute.
La peculiare attitudine di questo metodo
fondamentalmente dialettico – sia nell’analisi che nell’argomentazione delle diverse posizioni in merito ad un tema – lo configura
come particolarmente adatto alle classi di
quarto anno, per il quale si è focalizzato il
concetto-guida della moralità.
Concretamente, le fasi attuative di questo
genere didattico sono:
- lezione frontale sul metodo dei Topici di
Aristotele;
- scelta di un tema a risposta aperta, che
ammetta cioè risposta negativa o affermativa anche in seno alla Chiesa Cattolica (ad esempio: sugli sport rischiosi; sulla
partecipazione di minori a film violenti;
sul “preferential treatment”; sulla presenza
di sacerdoti e religiose in programmi televisivi di intrattenimento; ecc.);
- divisione della classe in due gruppi (selezione effettuata sulla base delle competenze oppure tramite sorteggio) per il
confronto dialettico;
- lettura e approfondimento di testi inerenti il tema da parte dei due gruppi;
- stesura ed esposizione della quaestio. L’esercitazione sviluppa tutte le parti della
quaestio:
• videtur quod sic (le argomentazioni a
favore della tesi contraria a quella che si
21
vuole dimostrare) che precedono la determinazione della dottrina sostenuta;
• determinatio magistralis (la dottrina
del maestro proposta e argomentata)
in ordine alla soluzione di un problema teoretico;
• resolutio ad obiecta (le contro-argomentazioni ad ogni obiezione formulata nella parte del videtur quod sic),
elaborata sulla base delle regole della
corretta argomentazione proposte da
Aristotele nei suoi scritti di logica, e
diffuse proficuamente nel medioevo
attraverso i vari commenti ai Topici.
La novità dell’esercitazione consiste, pertanto, sia nel metodo che nell’individuazione di
temi di grande attualità nel panorama morale attuale e ancora privi di una soluzione ufficiale unanime in seno al pensiero cristiano
e giuridico in genere. Tali requisiti favoriscono negli studenti un pensiero creativo sul
piano delle argomentazioni, ma rigoroso sul
piano della posizione dottrinale finale.
Infine, si può condurre la simulazione della
disputa medioevale a livello interdisciplinare volgendo tutto il testo, elaborato inizialmente in lingua italiana, nella lingua latina.
V ANNO
Unità di apprendimento:
mythos e logos nel dibattito intra- ed extraecclesiale contemporaneo
Introduzione
La presente UdA, partendo dall’ampia preparazione di base delle classi del quinto anno e dalla capacità degli alunni di rielaborazione personale, mira ad una ricognizione
della valenza culturale del binomio Mythos e
Logos alla luce della storia e degli sviluppi
teoretici contemporanei.
1. Dati identificativi
- Tipo di scuola: Liceo Classico
- Classe: Ultimo anno
22
2. Obiettivi
- OSA: Individuare gli snodi concettuali del
dialogo fra sapere filosofico e sapere teologico
- Obiettivo cognitivo specifico: Riconoscere i nodi fondamentali del dibattito intra-ecclesiale nella loro valenza confessionale e nel loro impatto extra-ecclesiale
- Obiettivo formativo specifico: Prendere
coscienza della complessità delle dinamiche epistemologiche del discorso di fede
e del confronto Chiesa-cultura
3. Tempi
- 7 lezioni di un’ora ciascuna
- 2 ore per la verifica
4. Motivazione
- Visione del film: Mission (regia di R.
Joffé; attori: R. De Niro, J. Irons). Lettura provocatoria di alcune testimonianze
di vita dei missionari.
Trama: il missionario gesuita Gabriel convince una tribù di indios a vivere nella missione situata ai confini fra Argentina e Brasile. A questi si aggrega Rodrigo Mendoza, ex
mercante di schiavi. Per motivi diplomatici
la comunità religiosa diventa un fattore di
disturbo fra Spagna e Portogallo e i viceré
chiedono al Vescovo di chiudere la missione.
Mendoza allora organizza la resistenza armata contro le truppe mercenarie spagnole.
5. Sequenze di Apprendimento
- Analisi del film:
* personaggi, messaggi e meta-messaggi
(rabbia, vendetta, perdono, espiazione)
* tematiche (fede, amore, inculturazione, violenza)
Lettura delle testimonianze:
* problematizzazione
* attualizzazione
Trattazione del tema del rapporto fra mythos
e logos nella prospettiva cristiana:
Tante mani di bambini, una sola mano di adulto.
Tutte queste piccole mani si appoggiano su quella
dell’adulto ed esprimono la gioia dell’incontro. Qui
siamo in un contesto africano, ma oggi anche nelle
nostre scuole tante mani hanno questi colori. Educare non è anche condurre per mano e tirare fuori da
ogni bambino la sua identità, onorandolo e consapevolizzandolo del patrimonio culturale e religioso di
cui è erede? Darsi la mano non è il primo gesto di
incontro? Come l’offrire una mano ‘disarmata’ che
fuorisce dal proprio campo corporeo e si inoltra nel
limite di quello dell’altro, stabilendo una continuità
e un ponte di relazione. Anche quando si dà la mano
in modo formale. Le mani educano, insegnano… soprattutto lo fanno le Colleghe della scuola dell’Infanzia e della Primaria: con le mani giocano, costruiscono, accarezzano, guidano, indicano il da fare e
l’agire comune… spesso costituiscono l’unità visibile
e operativa per far apprendere. Le mani sono uno
strumento per ‘avvantaggiarsi’ educativamente. Che
anche le opere delle nostre mani siano verità [emèt] e
giustizia [mishpat] (cfr Sal 111, 7), come quelle di
Colui che «ha disegnato [Gerusalemme ed Israele]
sulle palme delle sue mani» (Is 49, 16).
* forme di linguaggio mitico-religioso
* la razionalità del Cristianesimo
Analisi di alcuni testi:
* Enciclica Fides et Ratio di Giovanni
Paolo II
* Discorso di J. Ratzinger alla Sorbona:
«Verità del Cristianesimo?» (in Il Regno 5/2000, pp. 190-195)
6. Metodi
- Lezione frontale
- Sussidio audiovisivo
- Discussione comune
- Approfondimenti testuali
7. Verifica
- Attività di gruppo
- Analisi dei brani esaminati
2. Soluzioni valutative
Il modello didattico valutativo costruttivista
di J. Piaget – S. Bruner – H. Gardner (che
con quello personalista condivide la centra-
lità della persona), pone l’accento sul “come” dell’apprendimento e l’enfasi sull’autocorrezione e ri-programmazione del proprio
intervento da parte dell’alunno, pertanto si
presta in modo peculiare al profilo dell’IRC,
che ha a che fare più da vicino con la competenza formativa del “saper vivere”.
In prospettiva diacronica, nel primo anno del
biennio e in assenza di conoscenza previa
della classe, la valutazione specifica si può effettuare attraverso verifiche di lavori di gruppo, per quanto riguarda l’orale (che permettono un approccio “collettivo” alla valutazione e perciò sdrammatizzante), e test scritti
sotto forma di questionari chiusi e di commento personale. Nel secondo anno, i test
scritti lasciano maggiore spazio alla riflessione personale e alla sintesi culturale di cui gli
alunni si vanno appropriando, mentre l’orale
resta ancora frutto di lavoro svolto insieme;
si comincia a promuovere l’iniziativa di ricerche e approfondimenti, tuttavia ancora lasciata al singolo. Pertanto, all’interrogazione
23
tradizionale, si affiancano le verifiche scritte,
i test strutturati o semistrutturati, i temi. La
valutazione nel corso del triennio è effettuata, invece, attraverso verifiche costituite dalla
rielaborazione individuale dei contenuti, dalla partecipazione alle discussioni, dall’interazione durante le spiegazioni. Permangono i
lavori in gruppo e i test scritti, lasciando spazio sempre crescente all’elaborazione personale. Viene ovviamente valutata anche la
confezione di ricerche o la stesura di contributi, proposta talvolta dagli alunni più motivati. Pertanto, all’interrogazione tradizionale
si sostituisce tendenzialmente la verifica
informale, la riproposizione didattica dei nuclei studiati ad opera degli stessi alunni.
In prospettiva sincronica, la valutazione viene
intesa come un processo reticolare, in cui
l’accento viene posto ora sulle capacità, ora
sulle conoscenze, ora sulle competenze, secondo il profilo disciplinare peculiare dell’IRC. Pertanto, come elementi formali vengono considerate:
- le capacità = concettualizzazione, rielaborazione e critica;
Elementi formali
CAPACITÀ
Conoscenze
Competenze
Elementi formali
Capacità
CONOSCENZE
Competenze
Elementi formali
Capacità
Conoscenze
COMPETENZE
24
- le conoscenze = possesso di informazioni e
nozioni disciplinari generali e specifiche;
- le competenze = linguaggio tecnico disciplinare; motivazione autonoma all’apprendimento; ri-programmazione del
proprio intervento.
E, come elementi non formali:
- l’atteggiamento in classe = relazioni empatiche, capacità di inibizione semantica
nelle discussioni
- l’interesse e la partecipazione al dialogo
educativo = interazioni costruttive e solidali, curiosità intellettuale
- l’integrazione e l’uso delle conoscenze =
applicazione delle conoscenze al contesto
e inserimento nel tessuto culturale.
Nel prospetto valutativo proposto di seguito
sono messi in evidenza, nelle tre fasi della
valutazione, gli elementi formali e quelli
non formali, con un’avvertenza importante
per quanto riguarda gli elementi formali,
che la valutazione tende a prediligere:
1. in fase iniziale, le capacità dell’alunno;
2. in fase intermedia, le conoscenze;
3. in fase finale, le competenze.
VALUTAZIONE INIZIALE
Elementi non formali
- Scolarizzazione
- Attenzione
- Disponibilità
Tipologia di verifiche
A. Questionari aperti
B. Questionari chiusi
VALUTAZIONE INTERMEDIA
Elementi non formali
Tipologia di verifiche
- Interesse
A. Analisi di testi
- Partecipazione
B. Commenti
C. Elaborati scritti
D. Interventi informali
E. Approfondimenti tematici
VALUTAZIONE FINALE
Elementi non formali
- Integrazione
- Uso delle conoscenze
Tipologia di verifiche
A. Questionari sul problem solving
B. Case studies
3. Epilogo
A conclusione di questo breve percorso, che
riflette ad un tempo le istanze ideali dell’insegnamento e l’esperienza pratica, è possibile
tratteggiare alcune osservazioni che configurano l’IRC come una disciplina “di senso” per
statuto e, dunque, parte essenziale di una formazione integrata degli alunni. L’IRC possiede molte frecce al suo arco per portare il
proprio contributo al superamento del deficit valoriale che l’attuale società registra e del
quale paga un alto prezzo in termini di autorevolezza anche nella trasmissione generazionale dell’etica. In primo luogo, per l’elevato
standard noetico che ne caratterizza le metodologie e i contenuti, e l’intrinseco potenziale dialogico che è in grado di sprigionare
giacché affronta, proprio in quanto disciplina di senso, temi che passano spesso per gli
ambienti emotivi del vissuto dell’alunno prima che in quelli squisitamente e più “pacatamente” cognitivi. La circostanza ha una
valenza educativa forte perché interpella l’alunno anche come persona.
In secondo luogo, l’IRC, tematizzando il fenomeno della religione e delle religioni, porta l’attenzione su quello che è un elemento
di indubbia complessificazione delle dinamiche sociali, dei processi di civilizzazione e
delle interpretazioni culturali della storia
dell’umanità e del mondo. In quanto sistemi
di significato molto antichi, le religioni costituiscono comunque un orizzonte imprescindibile di comprensione e di confronto
dei fenomeni contemporanei. Tale caratteristica addestra alla decodifica del reale, cosmico e storico.
In terzo luogo, l’IRC, pur contribuendo alla
fisionomia culturale della personalità dell’alunno e ampliando il suo bagaglio di conoscenze oggettive, presenta concetti che più
facilmente che in altre discipline possono essere interiorizzati per il sé, e non ri-spesi immediatamente a fini valutativi.
Il vantaggio educativo dell’IRC si trasforma,
allora, in privilegio euristico, perché individua possibili approdi di una revisione del progetto educativo della scuola in quanto agenzia
educativa. È evidente, infatti, che l’IRC non
prende in prestito contenuti valoriali, ma li
possiede come contenuti noetici, contribuendo ad “educare a” e a tener desto il dibattito, la condivisione e la critica degli
alunni sui medesimi valori, contribuendo a
far maturare nell’alunno l’interpellanza etica. D’altra parte, l’IRC riconosce l’autonomia e l’assolutezza dei valori che presenta,
non rendendoli funzione del sociale e svincolandoli dalla logica del mero orientamento professionale. Il successo dell’impresa scolastica, infatti, non dovrebbe essere esclusivamente desunto dagli standard sociali, ma
attingere a quel carattere di profeticità e di
idealità che resta larga porzione dell’educazione, e che all’interno del curriculum scolastico è indubbiamente rappresentato dall’IRC. Assolutezza che riconosce anche al
suo interlocutore centrale che è l’alunno:
egli non è soltanto soggetto scolastico, ma
persona, non è solo utente, ma soggetto di
diritti, essere dotato di una dignità che trova
nelle religioni, e in modo particolare nel
Cristianesimo, fondamento incondizionato
e non manipolabile.
25
Obiezione di coscienza: conflitti di
valori nel rapporto tra etica e diritto
di Carlo Cardia
deve semplicemente registrare ciò che avvieRifiuto e ricerca dell’etica
ne nella società, senza poter intervenire con
Prima di affrontare l’obiezione di coscienza
una propria impostazione sia pure originale.
in ambito bioetico, è necessaria una premesD’altra parte, però, quando si verificano episa di carattere generale, che riguarda l’evolusodi che tradiscono una qualche decadenza
zione del rapporto tra etica e diritto, ed in
della nostra società, è fortissimo il richiamo al
particolare una contraddizione che stiamo
rispetto di codici deonvivendo quasi senza
tologici, all’esigenza
accorgercene. Da un
Il Corso di aggiornamento «L’IRC e le sfide
che vengano puniti
lato, sentiamo dire
della
bioetica:
laicità,
religione,
biopolitiesemplarmente quansempre più spesso che
ca» (vedi in questo fascicolo p. 72s) ha ofti sono venuti meno
non c’è rapporto tra
ferto contributi di riflessione degni di ama principi etici eleetica e diritto. Per alpia diffusione. Riproduciamo una parte
mentari, e l’etica torcuni è ormai quasi
Cardia,
dodel
prof.
Carlo
della
relazione
na in primo piano
un luogo comune afcente all’università Roma Tre, che è stato –
proprio come fondafermare che lo Stato
tra l’altro – uno dei negoziatori del Conmento del diritto. Ad
non può farsi portacordato del 1984 nonché l’estensore della
esempio, in occasiotore di alcun princi“Carta
dei
valori
della
cittadinanza
e
delne dei più gravi scanpio etico, nei rapporl’integrazione”, approvata con Decreto del
dali finanziari sono
ti interpersonali, nelMinistro dell’Interno nel 2007 (cfr RSC
corsi fiumi di parole
le famiglia, nelle nor3/2007, pp. 74-81). Dopo aver chiarito la
contro gli egoismi
me che regolano l’i“distinzione
senza
separazione”
tra
etica
e
dei finanzieri, l’avinizio e la fine della
diritto, viene messo in rilievo che l’obieziodità delle banche, lo
vita. Vi sono addiritne di coscienza, specialmente su materie
scarso senso etico detura impostazioni peancora giuridicamente poco regolate come
gli operatori, e via di
nalistiche per le quali
la
bioetica,
può
costituire
non
solo
una
doseguito. Perfino se
se è vero che i codici
verosa tutela delle opzioni etiche del singoemerge uno scandalo
di tutto il mondo
lo, ma anche un elemento decisivo per tenenel mondo del calcio,
puniscono l’omicire aperto il dibattito e forse imprimere una
si hanno forti reaziodio, tale previsione
direzione
diversa
alla
futura
legislazione.
ni contro gli arbitragnon avrebbe nulla a
Gli atti integrali del corso sono scaricabili
gi infedeli, le colluche vedere con il codal sito www.diocesidiroma.it/scuola.
sioni tra arbitri e somandamento o con
cietà calcistiche, gli
l’imperativo etico del
non uccidere. Più in generale, nelle discusintrecci immorali tra manager, arbitri, giorsioni che riguardano i rapporti interpersonanalisti e altri soggetti. In Italia si è verificato
li, i confini della vita, la ricerca scientifica, si
perfino il caso di autorità politiche che hanpone una pregiudiziale per la quale il diritto
no chiesto alle chiese di ricordare ai propri
26
fedeli che il pagamento delle tasse non è soltanto un obbligo di legge, ma ha un preciso
fondamento morale. In altre parole, il bisogno che la legge sostenga la società, traducendo in norme valori e principi di moralità, si ripresenta di continuo, e spesso a sostenere il rapporto tra legge e morale sono le
stesse persone che in ambito bioetico sostengono la tesi opposta.
È giusto segnalare ancora un ambito dell’ordinamento giuridico nel quale l’impostazione etica sta provocando notevoli trasformazioni. Mi riferisco a quelle norme che tendono ad accrescere progressivamente la tutela della vita animale, e che si fondano su un
preciso e benefico sentimento di benevolenza e di compassione verso le esistenze non
umane. Forse non tutti sanno che oggi è
possibile chiamare i vigili del fuoco per far
scendere un gatto da un albero, perché è salito troppo in alto e non riesce a scendere da
solo. E troviamo tante leggi contro la violenza, le sevizie, agli animali, che ci ricordano
che dobbiamo ancora ingentilirci, civilizzarci, elevarci sul piano etico e giuridico, e che
questi due piani sono interdipendenti. C’è
quindi un problema che dobbiamo porci.
Come mai, quando trattiamo argomenti decisivi per la vita collettiva come la famiglia,
la tutela della vita, si erge un muro, si afferma che il diritto non ha nulla a che vedere
con la morale, che questa è un fatto individuale, e ognuno può agire come meglio gli
aggrada? È un interrogativo che non si può
eludere, e che fa intravedere un uso del tutto
strumentale del rapporto tra etica e diritto,
che viene utilizzato quando fa comodo e negato quando non interessa più.
Diritto ed etica: un rapporto dialettico
Ciò che va affermato con molta nettezza è
che il diritto non coincide con l’etica, ma non
è affatto separato. Il diritto ha la sua radice
fondamentale nell’etica, perché ha radice
nella giustizia, ma segue poi una logica che
guarda al bene collettivo, per trarne benefici
più generali. L’esempio dell’omicidio è illuminante. La punizione dell’omicida ha un
fondamento etico ineliminabile, e lo è ancor
più in una società nella quale sono scomparsi gli schiavi (che si potevano uccidere), è
stata proibita l’eliminazione di quanti nascono deformi o handicappati, e nella quale
tutti hanno il diritto alla vita. La punizione
dell’omicida ha anche un’altra valenza etica
perché la pena (lo dicono tante Costituzioni
e Dichiarazioni sui diritti umani) deve tendere alla rieducazione del reo. Ma come si
rieduca una persona se non mirando alla ricostruzione di un tessuto morale minimo?
Però il diritto non coincide con l’etica. Perché non esprime un giudizio che riguarda
direttamente l’interiorità della coscienza e a
volte può addirittura mandare impunito il
responsabile di uno o più delitti. Quando il
reo collabora con i giudici, e aiuta a catturare i suoi complici, che potrebbero delinquere ancora, la legge fa una valutazione autonoma e può giungere a non colpire il colpevole pur di assicurare alla giustizia altri colpevoli e prevenire altri crimini. A guardar
bene, anche dentro questo indirizzo normativo c’è una logica etica stringente (rivolta
alla collettività), ma certamente il diritto
agisce in autonomia e con valutazioni che
sono discutibili e perfettibili. Altre volte il
diritto interviene in modo indiretto, con politiche (e norme) di incoraggiamento o scoraggiamento su questioni che stanno metà
strada tra privato e pubblico, tra personale e
sociale. La droga, l’alcool, lo stile di vita che
ciascuno sceglie, sono questioni personali,
sulle quali una determinata concezione etica
può avere idee precisissime. L’etica buddista
più rigorosa è severissima verso tutto ciò che
eccita e sconvolge la personalità individuale
e proibisce quasi tutto. Altre etiche sono
contrarie alla droga, qualcuna anche all’al27
Sogno dei Magi, Battistero di Firenze, dedicato ai re Magi, mosaici XIII secolo.
I Magi, si sa, erano tre perché portavano tre doni; e sono chiamati re perché i loro doni erano regali per chi li faceva e per chi li riceveva. Tre personaggi in piena sintonia tra di loro ma in assoluta dissonanza con l’ambiente che
hanno raggiunto dopo un viaggio non certo breve. E la maggiore dissonanza era nella relazione delle loro identità
con quelle dei personaggi che incontrano… ed anche nella loro stessa finalità del viaggio: non si era mai sentito
dire che un re (anzi tre) andasse alla ricerca di un altro re perché intendeva riconoscerlo superiore a se stesso. E per
cercarlo lo chiedono ad un altro re (Erode) pensando che anche lui debba fare altrettanto, anzi ancora di più visto
che “è scritto” che questo Re dei Re deve nascere nel territorio che Erode governa. Dalle loro azioni come potrebbe essere qualificata la coscienza di questi Magi? Autentica. Ma quanti altri re avrebbero testimoniato una coscienza in obiezione, come la loro? E con loro sarebbero stati concordi?
La scena dell’immagine è insolita per i Magi: abituati come siamo a pensarli lontani dalla grotta fino all’Epifania
quando davanti al “Re nel presepe” professano la loro fede realizzando quanto la loro coscienza li ha autenticamente sostenuti in tutta la ricerca. In questa immagine musiva i Magi riposano. In modo regale: e la regalità non
emana da quel po’ di corona o di copricapo regale, ma dalla geografia del loro corpo reclinato e con una mano
sulle ginocchia per ricordare la loro autorità. Ora concedono al corpo il riposo a cui ha diritto. Ma è un riposo visitato in sogno da chi convalida le loro scelte di coscienza ed annuncia loro (in alto l’angelo messaggero) che devono continuare ad essere fedeli alla propria coscienza e andare avanti perché Dio protegge gli uomini di buona volontà (di autentica coscienza) anche quando si oppongono a chi pretende di rappresentare e interpretare la coscienza di tutti (dimenticando spesso la propria!). Questo sogno è una loro garanzia. Ed è il sogno che avvalora il
loro sogno di obiettori. In fondo tutti gli obiettori di coscienza sono dei sognatori che con la loro testimonianza
anticipano quei valori che il diritto codificherà e l’etica stessa riconoscerà pubblicamente.
28
cool, tutte proibiscono gli eccessi. Ma anche
un’etica laico-salutista può essere rigorosa
come un’etica confessionale e ancor più. Ci
sono diete che fanno impallidire i sacrifici
dei mistici del passato, i loro digiuni, le loro
mortificazioni.
Un difficile equilibrio
Il diritto non può fare un suo decalogo in
queste materie, ma deve cercare un equilibrio sui singoli argomenti in funzione della
loro incidenza sociale e misurare in proporzione i propri interventi. Sulla droga lo Stato non è indifferente ma cerca in tanti modi
di scoraggiarne l’uso: con la repressione dello spaccio, con la definizione della modica
quantità, con l’educazione antidroga nelle
scuole, con le sanzioni penali o amministrative nei casi più gravi, con l’incentivazione
dei centri di recupero, e via di seguito. Sono
equilibri complessi, mutevoli, ma certo la
legge non può inalberare la scritta “libera
droga in libero Stato” perché ciò comporterebbe il divorzio vero tra etica e diritto, con
tutti i danni personali e sociali conseguenti.
In forme più lievi lo Stato interviene contro
l’alcoolismo (più tasse per gli alcolici, divieto di propaganda, ritiro della patente, orari
per la loro vendita, ecc.). Addirittura, in alcuni Stati si stanno proponendo politiche e
misure per scoraggiare gli obesi, così eccedendo nell’innesto di principi morali nell’ordinamento giuridico. Il paradosso dei
paradossi lo registriamo in molti paesi occidentali, dove lo Stato organizza e gestisce la
vendita del tabacco ma avverte i consumatori dei rischi gravissimi che si corrono fumando.
Da questi, e mille altri esempi, si ricava che
l’intreccio tra etica e diritto è continuo e
ineliminabile, e che il legislatore è sempre alla ricerca di un equilibrio tra i due piani per
favorire l’affermazione di determinati principi, senza ledere gli spazi di libertà individua-
le che non possono essere eccessivamente ristretti. E d’altronde i grandi maestri del diritto hanno sempre indicato nel cordone
ombelicale tra etica e diritto il fondamento
vero dell’organizzazione di una società. Norberto Bobbio negava risolutamente che il diritto servisse soltanto ad evitare che uno facesse danno agli altri. Montesquieu parlava
dello “spirito delle leggi” per indicare quel
progetto di società che sottostava alla costruzione di un ordinamento giuridico. Ma
Bobbio, insieme a Tommaso Perassi, Giuseppe Capograssi e tanti altri, sosteneva che
il diritto, così come recepiva i cambiamenti
del costume, dovesse anche indirizzare,
orientare, le azioni degli uomini e le grandi
scelte della loro vita.
La novità dell’obiezione di coscienza in materia bioetica
In questo rapporto essenziale tra etica e diritto trovano fondamento le obiezioni di coscienza in ambito familiare, scientifico, e
bioetico, dal momento che alcune legislazioni nazionali stanno modificando nel profondo equilibri che investono valori come la famiglia, la tutela della vita, dei minori, di chi
non ha coscienza e capacità di autodifesa.
Per questo motivo, l’obiezione di coscienza in
materia bioetica, e di rapporti familiari, costituisce la novità più autentica e rilevante
dell’epoca contemporanea, e sembra destinata
a svolgere un ruolo prospettico e dinamico
da diversi punti di vista. Essa riguarda una
molteplicità di settori dell’ordinamento giuridico, e coinvolge una varietà di soggetti
come mai era accaduto prima. Tuttavia, se
da un punto di vista giuridico l’obiezione in
materia bioetica si mantiene dentro lo schema del conflitto tra coscienza individuale e
diritto positivo, nei fatti può svolgere una
funzione più complessa di quella rilevabile
dal numero e dalla somma degli obiettori.
Anche per altre forme di obiezione di co29
scienza si registra un ruolo dinamico che va
oltre il conflitto soggettivo e specifico sollevato dall’obiettore. Così è avvenuto, lo si è
visto, per l’obiezione di coscienza al servizio
militare che ha favorito la riflessione sul ruolo del militarismo e del bellicismo nella cultura e nella politica di un determinato Paese,
ed ha contribuito a significativi cambiamenti di mentalità, oltre che ad una modifica
della stessa politica in campo militare. Così
sta avvenendo, con maggior fatica, per l’obiezione di coscienza nei confronti delle pratiche di vivisezione che cerca di diffondere
una cultura più attenta, potremmo dire
compassionevole, per le esigenze e i diritti
delle specie animali. Altrettanto può avvenire per quell’universo di obiezioni di coscienza che si sta affermando in materia bioetica,
soprattutto per il fatto che gli equilibri normativi sull’argomento sono ancora in fase di
formazione e di stabilizzazione, e restano
soggetti a possibilità di cambiamento notevoli e importanti.
Il ruolo dinamico e sociale svolto dall’obiezione di coscienza
Per comprendere questa considerazione bisogna partire dal fatto che le trasformazioni
che si stanno determinando a livello scientifico, sanitario, e nei rapporti familiari, hanno una dimensione epocale, o perché seguono a possibilità scientifiche e tecnologiche
prima inesistenti, o perché mettono in discussioni equilibri psicologici e culturali che
affondano le radici nella più lontana storia
dell’uomo. Bisogna allora essere consapevoli
che le obiezioni di coscienza nei confronti di
una serie di ipotesi (sperimentazione su embrioni, clonazione, maternità surrogata, eutanasia, suicidio assistito, adozione per coppie non eterossessuali, e via di seguito) sono
certamente da considerare, ed esaminare,
ciascuna nella propria specificità. Tuttavia,
come altre forme di obiezione, esse costitui30
scono non di rado espressione del rifiuto
complessivo di un indirizzo culturale e sociale
relativista che tende a declassare valori come
quelli della vita, del diritto alla genitorialità
naturale, o addirittura all’equilibrio derivante dalla doppia figura genitoriale, del diritto
all’assistenza nei momenti di maggiore difficoltà dell’esistenza, e via di seguito. Non è
un caso che il riconoscimento dell’obiezione
di coscienza scaturisce oggi quasi automaticamente ogni qualvolta in un Paese si adottino normative in questo campo, anche
quando queste normative seguono criteri
equilibrati come quelli presenti dalla Legge
italiana del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Sembra quasi si abbia la
consapevolezza che si sta superando la soglia
di un consenso che non è più generale, e si
stiano introducendo possibilità e diritti che
collidono con valori fondamentali ai quali la
società è ancorata saldamente. Quanto questo sia vero lo possiamo dedurre, tra l’altro
da due elementi. Dal fatto che il novero degli obiettori di coscienza si va moltiplicando
in settori come quelli medici, scientifici, della ricerca, nei quali l’obiezione di coscienza
era prima quasi sconosciuta. E dal fatto che
le leggi che contengono la previsione dell’obiezione di coscienza sono introdotte in un
contesto di conflitto culturale che non accenna a diminuire in diverse parti dell’Occidente.
Ciò sta a significare che la legislazione approvata può non costituire l’approdo definitivo dell’ordinamento su quel determinato
argomento. E che l’opposizione che viene
espressa dal singolo, oltre ad essere rappresentativa della coscienza individuale, esprime un disagio sociale più ampio, anche perché lo stesso legislatore avverte di addentrarsi in materie non ancora definite, né scientificamente né culturalmente. Ne deriva che
l’obiezione di coscienza può svolgere non soltanto il suo tradizionale, e fondamentale,
ruolo di testimonianza di determinati valori,
ma anche un ruolo dinamico capace di incidere nell’evoluzione sociale ed ordinamentale, e
di anticipare modifiche, riforme, evoluzioni
normative e societarie di grande importanza.
Alcuni esempi
Si può fare qualche esempio per comprendere meglio questo profilo delle nuove forme di obiezione. Il primo settore ad essere
coinvolto è quello della ricerca scientifica,
in ragione delle possibilità che oggi si aprono agli uomini in termini di sperimentazione, di utilizzazione della strumentazione
tecnologica, di creazione di nuove ipotetiche forme di vita. Se si considera una delle
obiezioni più importanti, quella nei confronti della sperimentazione sugli embrioni,
si potrà notare che la polemica più aspra riguarda l’utilità di questa sperimentazione
per ottenere risultati validi a fini medicofarmacologici. E si rileva facilmente che i ricercatori obiettori non soltanto rifiutano di
prender parte a questa sperimentazione, ma
sovente si impegnano per dimostrare che
determinati risultati si possono raggiungere
attraverso la ricerca su altri tipi di cellule
che non siano quelle embrionali. Si può immaginare che, una volta dimostrata la inutilità della sperimentazione sugli embrioni
questa cesserebbe di essere praticata, con il
conseguente esaurimento dell’obiezione di
coscienza? È una ipotesi da non escludere
proprio perché la comunità scientifica è sul
punto profondamente divisa.
Una funzione altrettanto dinamica potrebbe
essere svolta dagli obiettori di coscienza (ma
non solo da essi) per evitare il ricorso all’interruzione della gravidanza. Si è ricordato
prima che, pur in quadro di ambiguità non
privo di ipocrisie, alcune leggi affermano come prioritaria (e comunque importante) la
prevenzione dell’aborto, nel senso che è necessario diffondere le informazioni necessa-
rie in tema di sessualità, ed informare specificamente i soggetti interessati delle possibilità che la legge e la società offre per evitare
il ricorso all’aborto. È noto, però, che il
campo della prevenzione è tra quelli meno
attuati, e che nei confronti degli interventi
che in qualche modo favoriscano la scelta
contraria all’aborto si attiva una sorta di pregiudiziale ideologica che vede in essi altrettanti strumenti di pressione psicologica sulla
donna. Siamo di fronte ad una spazio tuttora aperto alla discussione, anche polemica, e
nei confronti del quale sono possibili cambiamenti di opinione, mutamenti legislativi.
E nel momento in cui l’obiezione di coscienza si propone come testimonianza di
una possibilità alternativa alla scelta abortiva, essa potrebbe svolgere una significativa
funzione di stimolo, di proposta, e di intervento per realizzare quella prospettiva di
prevenzione che pure la legge prevede.
Un ruolo altrettanto dinamico possono svolgere, oggi ed in prospettiva, gli obiettori di
coscienza (non solo essi naturalmente) in
quegli ordinamenti che hanno legittimato,
più o meno ampiamente, le pratiche eutanasiche. Dal momento che essi appartengono a
quelle strutture sanitarie nelle quali si applicano le normative che consentono di porre
fine alla vita di determinate persone, gli
obiettori possono agire dimostrando nei fatti che esiste un’alternativa, medica e umana,
diversa da quella eutanasica, mediante la
creazione di ambienti e strumenti che favoriscano l’alleviamento della sofferenza, l’accettazione di una conclusione naturale e non
indotta della vita, la partecipazione dei familiari alle ultime fasi di esistenza. Si tratta, come si vede, di una concezione più dinamica
dell’obiezione di coscienza, che non si limita
alla testimonianza individuale ma si impegna a dare visibilità e concretezza a quei valori che sono alla base della sua insorgenza.
Ancor più questa funzione propositiva del31
l’obiezione di coscienza può essere svolta in
quei Paesi nei quali si è giunti ad accettare
l’eutanasia per i minori malati o per adulti
alienati, o il suicidio assistito. La elaborazione, e la attuazione, di una cultura della vita
nel senso appena indicato riguarda, ovviamente, tutto il mondo e tutti coloro che
non accettino la deriva eutanasica della società contemporanea. Tuttavia, riferita agli
obiettori di coscienza dei paesi nei quali tale
deriva è stata conseguita, essa sta a significare una cosa abbastanza importante. E cioè il
fatto che non bisogna dare per scontato che
quando in un determinato ordinamento viene approvata una legge che legittima l’eutanasia, la svolta sia da considerarsi irreversibile, e altro non resti che una obiezione di coscienza di tipo resistenziale.
Tenere vivo il dibattito
Una ulteriore spinta in questa direzione può
derivare da quelle strutture, di ricerca, sanitarie, di assistenza, che (sulla base del principio dell’obiezione di coscienza collettiva, o
strutturale) in linea di principio non attuano piani di ricerca scientifica ai quali sono
contrarie per motivi morali o religiosi, o
non sono disponibili alle pratiche abortive,
o eutanasiche, o a dare in adozione minori a
coppie dello stesso sesso. Queste strutture,
nelle quali operano soggetti individuali che
sarebbero (o sono) obiettori di coscienza anche dal punto di vista soggettivo, hanno una
maggiore possibilità di realizzare una prospettiva alternativa nei diversi ambiti appena ricordati, e possono fungere da elementi propulsori per far sviluppare il dibattito culturale, per offrire strumenti di riflessione e di
conoscenza per il legislatore, per consentire
comunque agli individui di percorrere un
cammino diverso rispetto che potrebbe portare all’aborto, all’eutanasia, al suicidio assistito, e via di seguito.
L’obiezione di coscienza dunque non si
32
esaurisce, per le singole fattispecie, nelle posizioni individuali dell’obiettore, ma costituisce la base per un possibile futuro cambiamento di mentalità e di legislazione nelle materie
specifiche. L’obiezione di coscienza all’aborto, all’eutanasia, al suicidio assistito, alla
sperimentazione sugli embrioni, possono
concretarsi in un diverso modo di aiutare la
donna a proseguire la gravidanza, in un diverso modo di assistere i malati, in un modo
autentico di aiutare chi sta per rivolgersi ad
ipotesi suicidarie, e via di seguito. L’obiezione di coscienza, in questa prospettiva, non
costituisce più l’ultima spiaggia dell’ordinamento che consente alla minoranza che
obietta, ma rappresenta un punto di riferimento per tenere vivo il dibattito sulle modalità con le quali la legge può tutelare la vita
(e altri valori connessi) anziché cedere alla
deriva individualistica che alcuni ritengono
pressoché inevitabile. È opinione frequente
che ciò che fa oggi l’Olanda domani faranno
tutti i Paesi, e che una volta approvata una
legge sull’eutanasia non si torna più indietro. Non si deve cedere a questo fatalismo:
una certa tendenza relativistica odierna corrisponde anche ad una fase storica che può
conoscere inversioni di tendenza. Le obiezioni di coscienza possono svolgere, quindi, una
funzione che si proietta nel futuro.
“Le” laicità e “la” laicità
nella prospettiva europea
di Giuseppe Dalla Torre
ci), per avvicinarsi il più possibile all’obbiet1. Ambiguità di un termine
tivo della neutralità – meglio: della imparÈ nota la polisemia dei termini “laico” e
zialità – dinnanzi alla pluralità di posizioni.
“laicità”. Difatti si tratta di termini utilizzati
Giova notare che dal
nel linguaggio ecclepunto di vista formale
siastico e che nel corIl
prof.
Dalla
Torre,
rettore
dell’Università
questo obbiettivo è
so dei secoli hanno
Lumsa, è intervenuto al Corso di aggiorstato, ad oggi, presmantenuto, nella teonamento «L’IRC e le sfide della bioetica:
socché pienamente
logia e nel diritto calaicità, religione, biopolitica» con una reraggiunto dai Paesi
nonico, il loro signilazione
sul
tema
della
laicità,
su
quale
di tradizione cattolificato originale. Ma
vanta numerose pubblicazioni (recenteca – Francia, Italia,
tali termini hanno
mente: Dio e Cesare. Paradigmi cristiani
Spagna, Portogallo,
conosciuto dal medella modernità, Città Nuova, Roma
Irlanda, Austria ecc.
dioevo una trasmi2008).
Dopo
aver
chiarito
le
motivazioni
– e meno dai Paesi
grazione nel linguagetimologiche e storiche che stanno alla base
non cattolici: il Regio secolare, che atdella polisemia del termine, il giurista degno Unito, i Paesi
traverso varie fasi – le
scrive i caratteri della laicità “sana” o “poScandinavi (e fino a
controversie mediesitiva”,
rilevando
che
la
necessità
di
uno
pochi anni fa l’Olanvali tra potere ecclespazio pubblico laico si manifesta oggi
da) sono ancora Paesiastico e potere polipiuttosto nell’ambito (bio-)etico, con le sue
si confessionisti.
tico, l’umanesimo, la
questioni complesse ed emergenti, che nelNell’Unione Euronascita delle scienze
l’ambito
della
libertà
religiosa,
ormai
sopea solo la Grecia rinaturali, l’illuministanzialmente garantita (quanto meno in
mane formalmente e
smo – li hanno infine
ambito europeo).
sostanzialmente uno
condotti alla odierna
Stato confessionista.
pluralità contradditE tuttavia, fatte alcune eccezioni, non c’è
toria di significati, di cui espressione estrema
dubbio che nei vari Stati europei si è perveè la laicità come espressione di laicismo.
nuti a sostanziali, ancorché diverse forme
di laicità dello Stato e delle istituzioni pub2. Una pluralità di esperienze
bliche. Da questo punto di vista non credo
Lasciando cadere le interpretazioni estreme,
che possa rilevarsi, nel concreto dell’espeideologiche, della laicità (esemplare la laïcité
rienza giuridica, una differente situazione –
de combat francese), bisogna riconoscere che
quanto a libertà ed eguaglianza senza ditra Ottocento e Novecento nei diversi Paesi
stinzione di religione – ad esempio tra il
europei vi è stato un processo teso ad emancittadino francese, la cui Costituzione procipare i pubblici poteri e le pubbliche istituclama apertamente all’art. 2 che la Francia
zioni da qualificazioni confessionali (Stati
è una Repubblica laica, ed il suddito di sua
confessionisti) o ideologiche (Stati ideologi33
Lapidazione di Geremia, miniatura XI secolo, Biblioteca Laurenziana, Firenze.
Quella della laicità non è una categoria né una condizione anticotestamentaria. Ma se assumiamo alcuni comportamenti come ‘laici’ nella misura in cui esprimono una autonomia fedele e una fedeltà autonoma, Geremia è uno
di quei profeti ‘laici’. La sua fedeltà a Dio è adulta, la sua autonomia dal potere è assoluta. Fino a diventare icona
di questa sua fedeltà e autonomia, di questo suo dare a Dio ciò che ha origine da Dio ed alle istituzioni (israelite
e/o straniere) ciò che è loro specifico, facendosi carico della sua vocazione di profeta e della sua responsabilità ‘civile’ e religiosa. Geremia parla con le parole di Dio ma le valorizza nell’interpretare la situazione sociale, religiosa e
politica del suo tempo. Si assume la responsabilità di queste interpretazioni e ne paga le conseguenze. Anche questa è la sua ‘laicità’. Geremia non lamenta un’esistenza sofferente a causa di Dio, ma a causa degli uomini non fedeli a quanto dichiarano, dei quali lamenta l’incoerenza, la miopia, l’autoreferenzialità, l’infedeltà tra il pubblico e
il personale…
In questa miniatura la ‘laicità’ di Geremia è in quelle braccia alzate al cielo e quella di Dio è nella sua mano che
invade il temporale e protegge Geremia, preservando il mondo dai suoi “protettori”. La laicità è nella reciproca responsabilità ad essere fedeli, ad ogni costo, rispondendo reciprocamente delle proprie azioni, anzi assumendole
come proprie pur di salvaguardare chi ha creduto in te.
34
Maestà britannica, che pure vive in uno
Stato formalmente confessionista (anglicanesimo).
Dunque si può parlare di “le laicità” e di “la
laicità” in un doppio senso:
- da un lato per indicare, negativamente,
delle espressioni di laicità solo formale,
che sono in realtà dei laicismi, e che si
distinguono dall’autentica laicità e si
contrappongono ad essa;
- dall’altro lato per indicare, positivamente,
il fatto storico che l’obbiettivo dell’autentica laicità è stato raggiunto da vari
Stati attraverso percorsi culturali, politici
e giuridico-istituzionali diversi.
3. La laicità sottesa alla Costituzione italiana
Anche l’Italia ha conosciuto un percorso suo
proprio, per certi aspetti del tutto originale,
nell’avvicinarsi progressivamente all’obbiettivo di una sana laicità: dallo Statuto albertino del 1848, all’evolversi dell’ordinamento
verso forme di una laicità-laicismo, alla parziale ed ambigua “riconfessionalizzazione”
operata dal fascismo, al processo attuativo
della Costituzione nei valori ad essa sottesi.
Al riguardo giova ricordare che la Costituzione italiana non contiene una disposizione
che qualifica lo Stato dal punto di vista religioso, ma come ha bene affermato la Corte
costituzionale in una giustamente famosa
sentenza, la n. 203 del 1989, il principio di
laicità è sotteso alla Costituzione in rapporto
ad una serie di disposizioni costituzionali
(artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20). Ad avviso della
Corte, il principio di laicità quale emerge da
detti articoli «implica non indifferenza dello
Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello
Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale
e culturale». Con specifico riferimento alla
questione dell’insegnamento di religione
cattolica nelle scuole pubbliche, previsto dal
Concordato, la Corte precisava nella mede-
sima decisione che «il genus («valore della
cultura religiosa») e la species («principi del
cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano») concorrono a descrivere l’attitudine laica dello Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati ed
astratti di estraneità, ostilità o confessione
dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete
istanze della coscienza civile e religiosa dei
cittadini».
La giurisprudenza della Corte costituzionale
in questo modo non solo ascriveva il principio di laicità tra i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale, ma veniva anche
a definirne i particolari ed originali caratteri
che esso ha nella Costituzione italiana, e che
lo distinguono da altre connotazioni che il
principio ha assunto, nel divenire della storia, in altri ordinamenti. Vale a dire, per usare espressioni del Paese che più si è cimentato – e tormentato – al riguardo, la Francia:
la laïcité de combat, cioè il vero e proprio laicismo; la laïcité-séparation, cioè la laicità come separazione; la laïcité-apaisée, cioè la laicità non conflittuale; la laïcité-neutralité,
cioè la neutralità rispettosa; la laïcisation de
la laïcité, cioè la laicità de-ideologizzata; fino
alla laïcité de l’intelligence, cioè quella laicità
comprensiva del fatto religioso che marcatamente emerge da interventi dell’attuale Presidente della Repubblica francese Nicolas
Sarkozy, soprattutto nel discorso pronunciato nella sala della Conciliazione del Palazzo
del Laterano il 20 dicembre 2007, in occasione del conferimento del titolo di “protocanonico d’onore” del capitolo della Basilica
lateranense.
4. I parametri della laicità positiva
Ci sono parametri sui quali misurare l’autentica, sana laicità dello Stato? La domanda
non è inutile o retorica, vista la pluralità di
35
significati, del tutto diversi e talora persino
contradditori, che il termine laico ha ormai
assunto nella società contemporanea, al
punto da rendere sempre più difficile comprendere che cosa sia uno Stato laico.
A me pare che, per parlare di autentica laicità dello Stato, debbano ricorrere alcuni requisiti.
Innanzitutto un’idea di sovranità che non
giunge a svincolare lo Stato dal doveroso riferimento alle norme morali oggettivamente
intese ed ai diritti umani quali incarnazione
del diritto naturale; ma che al tempo stesso
non si estenda fino alla pretesa di disciplinare anche ciò che attiene all’ordine spirituale.
La sana laicità dello Stato comporta poi la
sussistenza nell’ordinamento statale di un favor religionis, concepito non come disfavore
per la non credenza ma quale orientamento
dell’ordinamento caratterizzato dal considerare i valori religiosi come riferimenti di segno
positivo, degni di considerazione e di protezione giuridica. La religione, in altre parole,
deve essere avvertita quale fenomeno da proteggere e favorire, di cui è riconosciuta come
legittima ed irrinunciabile la presenza nello
spazio pubblico.
Uno Stato autenticamente laico, inoltre, assicura la piena libertà religiosa: individuale,
collettiva ed istituzionale. Questa libertà deve essere prevista non solo in termini negativi, cioè come mera immunità da coercizioni
esterne in materia di coscienza, ma anche in
termini positivi, il che significa impegno da
parte delle istituzioni pubbliche di rimuovere gli ostacoli – di natura giuridica, culturale, sociale ecc. – che in concreto dovessero
impedirne l’esercizio. Lo Stato laico deve allo stesso tempo tutelare l’eguaglianza di trattamento giuridico tra individui, cittadini o
meno, evitando che possano darsi discriminazioni dovute alla credenza.
Per quanto riguarda in particolare le diverse
comunità religiose poi, il principio di egua36
glianza che caratterizza uno Stato autenticamente laico ammette la possibilità di una
qualche disciplina giuridica differenziata, al
fine di salvaguardare le differenti identità,
ma deve comunque preoccuparsi che tutte
godano effettivamente della stessa misura di
libertà.
Infine uno Stato che voglia essere laico e
non laicista, cioè ideologico, deve conoscere la distinzione tra ordine religioso ed ordine politico, il che significa effettiva autonomia delle realtà terrene dalla sfera ecclesiastica (ma non dall’ordine morale). No,
dunque, al confessionismo di Stato; ma no
pure allo Stato etico o ideologico. Si deve
notare che la distinzione è cosa diversa dalla separazione, che può significare ignoranza della religione e sua riduzione nel privato o, peggio, nel chiuso della coscienza individuale.
In particolare la laicità autentica non rifugge,
ma postula una sana collaborazione fra lo Stato
e la Chiesa posto che entrambi, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione
personale e sociale delle stesse persone umane.
Giova notare che questi parametri sembrano
coincidere con l’idea di “sana laicità dello
Stato”, di cui parlava Pio XII, o di “laicità
positiva”, di cui parla Benedetto XVI (in particolare nel suo recente viaggio in Francia).
5. I nuovi contesti della laicità
Bisogna tuttavia riconoscere che la problematica della laicità tende a porsi, oggi, in
contesti del tutto diversi.
Come s’è detto, quasi tutti i Paesi europei,
per vie diverse e con assetti giuridico-istituzionali differenti, si sono più o meno accentuatamente avvicinati ad un paradigma di
sostanziale laicità. La libertà religiosa individuale, collettiva ed istituzionale è pressocché
ovunque una meta conquistata; lo stesso dicasi per l’eguaglianza senza distinzioni di
credo religioso.
Il fatto è che il problema della laicità si sposta su altri terreni, rispetto a quello religioso,
e nei confronti di altri poteri, rispetto a
quello tradizionale dello Stato.
Dal primo punto di vista, che potremmo
dire oggettivo, mi pare di dover notare che
il problema della neutralità-imparzialità
dello Stato rispetto alle diverse posizioni
esistenti nella nostra società pluralistica
non si pone più, o quantomeno non si pone più in maniera prevalentemente, rispetto alla religione, ma si pone piuttosto rispetto all’etica. Viviamo, come noto, in
quell’età preconizzata da Max Weber del
“politeismo etico”. Non a caso la tematica
della bioetica e della biogiuridica costituisce, oggi, il terreno di maggior affronto e
contrasto tra visioni diverse.
Al riguardo giova osservare che il fenomeno
ha assunto connotazioni particolarmente
evidenti in Italia: Paese storicamente non
pluralista dal punto di vista religioso ma
pressocché completamente cattolico, fino a
che i morsi della secolarizzazione non hanno
cominciato a mostrare i loro segni profondi.
Non a caso il problema della laicità dello
Stato non si è posto sostanzialmente fino
agli anni ’80 del secolo che abbiamo alle
spalle, ponendosi semmai il distinto – ancorché in qualche modo connesso – problema del carattere confessionale o meno dello
Stato delineato dalla Costituzione repubblicana. Mentre il problema si pone dopo che
nel corpo sociale e nell’ordinamento giuridico si introducono elementi ad alta sensibilità
etica, che dividono fra i professanti le opposte tavole di valori: divorzio (1970), aborto
(1978), interventi sempre più eticamente
sensibili nel campo bio-medico. La riprova è
nell’intervento, se si vuole tardivo, della
Corte costituzionale, che appunto dichiara
la laicità come principio supremo dell’ordinamento costituzionale solo alla fine degli
anni ’80, quando il pluralismo delle tavole
di valori morali è fatto compiuto nella società italiana.
Dunque oggi il problema della laicità dello
Stato, delle istituzioni pubbliche, del diritto,
sembra porsi nei confronti del pluralismo etico piuttosto che del pluralismo religioso.
Per quanto attiene poi ai soggetti da cui si
pretenderebbe un agire laico, anche qui mi
pare di cogliere significativi elementi di una
evoluzione in atto. Basta pensare al fatto
che, soprattutto a seguito del procedere del
fenomeno della globalizzazione, si assiste al
declino della forma-Stato che abbiamo ricevuto dal passato, che grazie al principio filosofico-giuridico di sovranità strutturava in
maniera gerarchica i poteri esistenti nella società, ponendo al vertice quello politico.
Oggi il declino dello Stato segna la fine di
tale primato; tale declino è accompagnato
dalla ascesa di nuovi poteri, tra l’altro di carattere trans-nazionale: si tratta innanzitutto
del potere economico, ma anche di altri come quello mass-mediale ed in particolare
quello scientifico-tecnologico. Si tratta di
poteri che tendono ad emanciparsi dal potere politico, ad essere autoreferenziali ed insofferenti di ogni etero-regolamentazione,
non solo in senso giuridico ma anche in senso etico. Basti pensare, negli anni scorsi, all’insofferenza dimostrata da ricercatori e medici per una regolamentazione della procreazione medicalmente assistita (quella poi intervenuta con la legge n. 40 del 2004) ed alla assoluta preferenza per il mantenimento
della precedente situazione di anomia, incisivamente definito come il “far west” della
procreatica.
Ora non è chi non veda come il problema
della laicità oggi si ponga proprio su questi
terreni e, soprattutto, su quello biomedico:
si reclama una laicità dello Stato in materia,
senza preferenze per posizioni etiche di un
tipo o dell’altro; lo stesso dicasi per le istituzioni pubbliche e per le leggi positive.
37
Dunque la laicità non starebbe più nel non favorire questa o quella religione, ma nel non favorire questa o quella tra le varie posizioni etiche sussistenti nel corpo sociale. Il che rischia
di diventare un obbiettivo impossibile. Si pensi
ad esempio alle leggi dello Stato: il diritto positivo, in ogni sua disposizione, veicola pur sempre dei valori sensibili sul piano etico. Un diritto meramente neutrale non esiste e non può esistere. Anche le norme meramente procedimentali, cioè quel diritto che altrove ho definito “debole” perché rinuncia a regolare i fenomeni sociali fermandosi a disciplinare le procedure,
nell’ingenua convinzione che in questo modo
può tenersi al di fuori delle varie opzioni etiche, non è neutrale, quindi non è laico. Perché
comunque significa una scelta di parte.
6. Conclusioni
Quali conclusioni trarre, nella prospettiva di
un futuro che viene?
38
Molto difficile dare delle indicazioni. Come
sempre l’analisi dei fenomeni è assai più facile della proposizione di soluzioni.
A me pare che in siffatti, assai mutati contesti, il tema della laicità debba passare da
una irraggiungibile neutralità degli apparati pubblici ad un raggiungibilissimo metodo di relazione nella vita della società civile e politica, nel quale alla forza delle
posizioni delle singole parti che si confrontano si sostituisce la forza della ragione. Quella forza dell’argomentazione razionale, che è continuo oggetto del magistero di Benedetto XVI (cfr Deus caritas
est, n. 28).
Per quanto poi attiene più specificamente
alle leggi, mi pare che la autentica laicità
possa raggiungersi solo nella misura in cui
il legislatore si muova seguendo l’unico
principio etico che del diritto è proprio: la
giustizia.
T U T T A
U N ’ A LT R A
S T O R I A
PIO XII: i silenzi e il chiasso
di Federico Corrubolo
Si tranquillizzi l’IdR che si sente interpellare
dai suoi ragazzi sul problema della beatificazione di Pio XII: allo stato attuale delle cose
(e per lunghi anni ancora) non c’è modo di
uscirne illesi. Già altre volte abbiamo trattato “dati sensibili” di storia della Chiesa (le
crociate, l’Inquisizione, Costantino e il “Codice da Vinci”, ecc…), ma si trattava di questioni vecchie di secoli, o di qualche millennio. In quei casi il bravo IdR può sbrogliarsela con relativa facilità. I suoi avversari hanno cultura storica scarsa o del tutto insufficiente. Salvo pochi studiosi laici di grande
valore (che quindi merita senz’altro conoscere) i migliori studiosi
delle malefatte di santa
madre Chiesa sono
quasi sempre i suoi figli
più fedeli. Una volta individuati gli autori di
riferimento, non è difficile mostrare la loro
competenza scientifica e la loro onestà intellettuale, che risalta ancor meglio davanti all’approssimazione ed ignoranza della maggior parte degli avversari. Sulle grandiose
ambiguità della Christianitas medievale e
moderna, i nostri ragazzi non solo non ne
sanno più di tanto, ma – come già ricordavamo – sono ben intenzionati a non saperne
mai nulla, accontentandosi di trite semplificazioni commerciali. Una volta scoperte e
denunciate queste ultime, l’IdR può dire di
aver fatto il suo lavoro.
Con Pio XII invece, questo non è possibile.
Pressioni esterne molto pesanti interferisco1
no continuamente sul piano della ricerca
storiografica propriamente detta, rendendola
molto più faticosa. Tutti vogliono sapere subito se papa Pacelli, accusato di condiscendenza nei confronti della Sho’ah è colpevole
o innocente. Hanno un bel dire gli storici
che “compito della storia è prima di tutto
comprendere, e solo in un secondo tempo
giudicare”, e che comunque il giudizio storiografico è cosa diversa dal giudizio morale
o politico. Niente da fare. Ad ogni passo
avanti della ricerca storica viene ingaggiato
un dibattito ideologico tra le opposte fazioni
di innocentisti e colpevolisti. Ma è vero anche il contrario, nel senso che, specie in questi ultimi anni, è proprio lo scontro ideologico il principale committente di tante ricerche scientifiche. In definitiva, il minimo che
si possa dire oggi su Pio XII è che non si riesce a parlarne con serenità.
Un recente volume di Angelo Persico1 è un
aiuto prezioso per mantenere la neutralità
nel conflitto di cui sopra e per sottrarsi alla
pioggia fastidiosa ma continua di “scoop” e
“controscoop” prodotta dai media su questo
tema. L’autore ripercorre in modo minuzioso la storia delle ricerche su papa Pacelli,
partendo dagli ultimi anni del suo pontificato (in cui prevale una produzione encomiastica e celebrativa) fino alle vicende più recenti legate all’iter della causa di beatificazione. Dalla lettura emerge qualche considerazione di un certo interesse.
Primo, la presa di coscienza dell’enormità
della tragedia della Sho’ah è stata lenta e difficile, e ancora più difficile è stato condurre
una riflessione sistematica su questo tema
A. PERSICO, Il caso Pio XII. Mezzo secolo di dibattito su Eugenio Pacelli, Guerini, Milano 2008, pp. 459, € 28.
39
T U T T A
U N ’ A LT R A
da parte della storiografia, soprattutto tedesca e italiana. Una volta che furono chiare
l’innegabilità e le proporzioni della tragedia,
i primi tentativi di riflessione imboccarono
una linea “giustificazionista”. In un primo
tempo la responsabilità principale fu ascritta alla singola persona di Hitler ed alla sua
cerchia ristretta di collaboratori. Quando
apparve evidente che i capi nazisti non
avrebbero potuto governare senza un consenso popolare, si andò alla ricerca delle radici e della natura di questo consenso. Si
teorizzò allora una specie di ipnosi collettiva, orchestrata da capi molto abili nei confronti di una società confusa e smarrita dal
trauma del primo dopoguerra. Il nazismo
venne allora interpretato come “parentesi
estranea” in opposizione al nerbo della civiltà germanica, globalmente sano, ma troppo indebolito da avverse vicende. Solo a
partire dal 1961, gli studi di Fischer misero
in luce che non era così, che le premesse del
nazismo e soprattutto del razzismo nazista
erano già presenti in germe nella società tedesca almeno fin dai tempi di Bismarck. Il
nazismo non andava più letto in termini di
estraneità, bensì di appartenenza alla cultura tedesca contemporanea. Un percorso del
tutto analogo si può riscontrare nella storiografia italiana degli ultimi trent’anni: l’interpretazione globale del fascismo in termini di discontinuità con lo stato liberale ha
ceduto il passo all’indagine delle numerose
continuità fra prefascismo e postfascismo
nella storia dell’Italia contemporanea.
Mentre Fischer esponeva i risultati della sua
ricerca, a Gerusalemme iniziava il processo
contro Adolf Eichmann, narrato in memorabili corrispondenze raccolte poi nel volume La banalità del male dalla sociologa
Hannah Arendt. Eichmann vi è descritto
come un grigio funzionario dell’industria
della morte, avvolto in una normalità e quotidianità ben lontane da quella mostruosa
40
S T O R I A
aberrazione con cui si dipingeva il nazismo.
La repentina demolizione di questo stereotipo protettivo provocò un vero e proprio
shock culturale in Germania. Anche per
questo si cercò di cambiare campo di indagine e di cercare capi espiatori. È in questo clima che venne rappresentato nel 1963 il
dramma di Rolf Hochhuth Der Stellvertreter
(Il Vicario), vera pietra miliare nella nostra
questione, perché da esso ha inizio la polemica sui “silenzi” di Pio XII. Nella sua stesura originaria il dramma prevedeva 47 personaggi e cinque atti per la durata complessiva
di 7 ore. Il personaggio di papa Pacelli tratteggia la figura di un uomo avido, freddo,
cinico calcolatore ed apertamente schierato
su posizioni antisemite. Il senso di quest’operazione culturale si potrebbe così riassumere: la responsabilità storica della tragedia
dell’Olocausto non è unicamente da ricercarsi nella storia e nella società tedesca, ma
anche in altri aspetti della civiltà europea, in
particolare nell’atteggiamento della sua religione, il cristianesimo, nei confronti degli
ebrei.
Fino a quel momento la pubblicistica cattolica su papa Pacelli si era limitata al filone
encomiastico e celebrativo: in essa si sottolineavano soprattutto il corpus dottrinale dei
suoi insegnamenti e l’opera assistenziale,
aperta a tutti gli uomini di tutte le provenienze religioni e nazionalità. Mancava uno
specifico riferimento agli ebrei e all’ebraismo. La rappresentazione di questo dramma
segna l’inizio del coinvolgimento della Chiesa in questo doloroso percorso di rilettura e
rielaborazione della tragedia dell’Olocausto.
Le prime reazioni cattoliche furono comprensibilmente assai risentite. Lo stesso Paolo VI intervenne più volte in difesa del suo
predecessore. A seguito delle polemiche e
del dibattito da esse generato, a partire dal
1965 la Santa Sede iniziò la pubblicazione
dei principali documenti dei suoi archivi ri-
T U T T A
U N ’ A LT R A
guardanti la guerra, gli Actes et documents de
la Sainte Siége relatifs a la Seconde Guerre
Mondiale. Tale pubblicazione terminò nel
1981. L’opera comprende 11 volumi in 12
tomi divisi in tre parti: diplomatica, pastorale ed umanitaria. Gli studiosi gesuiti che curarono la raccolta fecero un lavoro certamente encomiabile, ma non poterono sottrarsi ai pesanti vincoli sui documenti d’archivio tipici della ricerca sulla storia contemporanea. Dovettero ad esempio omettere
o citare solo indirettamente documenti che
potevano intralciare negoziati diplomatici in
corso fra la Santa Sede e vari Stati europei ed
extraeuropei. Tali vincoli sono ben conosciuti dagli addetti ai lavori, ma nella fattispecie non fecero che alimentare le polemiche. Precisamente su questi vincoli si appuntarono le critiche degli studiosi, critiche che
non vennero meno neppure dopo la nomina
da parte vaticana di una commissione mista
di storici ebrei e cristiani incaricata nel 1999
di vagliare l’attendibilità di questa raccolta.
Negli anni ’70 e ’80 gli storici hanno proseguito a fare i conti con l’Olocausto, cercando di individuarne le radici profonde, le linee portanti, ed in qualche modo anche le
responsabilità di ciascuno dei grandi attori
della cultura europea: per quanto riguarda la
storia della Chiesa si è cercato di allargare
l’orizzonte dalla singola figura del pontefice
allo studio della Chiesa del suo tempo, agli
uomini che la guidarono e la servirono, alle
idee pastorali, dottrinali, e spirituali che in
essa circolavano, sia nella gerarchia che nel
laicato. Questo percorso ha portato ad approfondire alcuni aspetti fondamentali della
Chiesa contemporanea: il controverso rapporto con i poteri politici sviluppatisi dopo
la rivoluzione francese, in primo luogo le
democrazie liberali; il ripensamento della
presenza della Chiesa nella società e le varie
2
S T O R I A
articolazioni di questa nuova presenza (solamente morale, cioè a livello delle coscienze,
o anche connotata da un preciso progetto
politico? Entrambe le scelte erano possibili
ed entrambe furono percorse in modi e tempi diversi nei singoli Stati europei); il senso e
il valore dei concordati stipulati fra la Santa
Sede e le potenze totalitarie fascista e nazista.
Il cinquantesimo anniversario della morte di
papa Pacelli ha risvegliato l’interesse anche
sul suo processo di beatificazione, che ha
riaperto antiche tenzoni e concentrato nuovamente dibattiti e polemiche sulla figura
del pontefice, isolatamente considerato. Dopo circa tre decenni di stimolanti ricerche su
orizzonti ampi si è tornati in poche parole
allo stesso clima acre degli anni de Il Vicario
(da notare il fatto che il testo del dramma è
stato ripubblicato nel 1998, e rappresentato
a Milano nel 2007). Nuovamente il Papa difende il suo predecessore, e nuovamente la
storiografia più giudiziosa cerca di ampliare
gli orizzonti, ricostruendo i contesti e contrastando la tendenza a semplificare i problemi. In questo senso va l’ultimo libro di
Andrea Riccardi2, che ripercorre la storia dei
nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma
inserendo il dramma degli ebrei nel dramma
dell’intera popolazione della città e della sua
Chiesa. La descrizione delle numerose e
complesse interazioni fra i “vertici”e la “base”, fra le iniziative spontanee del “gregge” e
l’appoggio più o meno diretto dei pastori
costituisce il principale motivo di interesse
nel volume il quale, non dimentichiamolo,
costituisce un nuovo passo avanti nella ricerca e insieme una risposta a nuovi attacchi e a
nuove polemiche, dalle quali, come si vede,
sembra non si riesca ad uscire.
Chissà come giudicheranno gli studiosi del
futuro questi anni convulsi: certamente ela-
A. RICCARDI, L’inverno più lungo. 1943-1944: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, Roma – Bari 2008, pp. 403, € 18.
41
T U T T A
U N ’ A LT R A
borare in chiave storiografica una tragedia
come l’Olocausto è un compito estremamente penoso e difficile, tale da richiedere
senz’altro diverse generazioni. Sotto questo
punto di vista possiamo dire che in effetti
un certo cammino è stato fatto, ma molto
ancora resta da fare. I frutti maturi di questo
penoso esame di coscienza collettivo sono
ancora lontani. Come dicevamo all’inizio
occorre mettersi il cuore in pace: non è ancora possibile ragionare con distacco sereno
su papa Pacelli.
42
S T O R I A
Davanti a prevedibili dibattiti infuocati, il
bravo IdR può forse sottolineare il fatto che
la Chiesa non si chiama fuori da quel penoso cammino di elaborazione e di riflessione
che segue ogni sconfitta. Neppure il coraggio e l’abnegazione di un grande papa come
Pio XII possono esimere la Chiesa da un severo esame di coscienza su quanto, più o
meno direttamente ha contribuito a causare
quella innegabile e gigantesca sconfitta della
civiltà che fu la Seconda guerra mondiale e
in essa, la tragedia della Sho’ah.
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Le opere e i giorni
di Pasquale Troìa
Eugenio Dal Pane
(ed.), Sulla via di
Damasco. L’inizio di
una vita nuova, prefazione di Camillo
Ruini, Itacalibri (via
Provinciale Lughese,
880 48014 Castel
Bolognese (Ra) –
www.itacalibri.it),
Libreria Editrice Vaticana, Roma 2008 (ottobre prima ristampa, agosto 2008 prima
edizione), pp. 160, € 16,90 ISBN 978-88526-0171-2.
Tra le tante pubblicazioni per il bimillenario
della nascita dell’apostolo Paolo, questa è
una delle più didatticamente fruibili. È il risultato di una mostra itinerante su Paolo,
che ha cominciato in ottobre il suo itinerario dalla Custodia di Terra Santa.
La pubblicazione, come la mostra, è strutturata in due sezioni:
1. la prima ripercorre le date della vita di
Paolo; cominciando dal 36 d.C., data della
nascita ‘cristiana’ di Paolo sulla via di Damasco. E poi subito dopo ne ricostruisce l’identità anagrafica partendo dalla data (incerta)
della nascita, l’8 d.C. (ma forse tra il 7 e il
10) fino alla data (anch’essa incerta) del 67,
anno del suo martirio a Roma.
È una ricostruzione storica, geografica e cristiana degli eventi più significativi e più facilmente databili della vita apostolica e missionaria di Paolo, evidenziando sulle pagine a
destra le parole ‘autobiografiche’ di Paolo
(dalle sue lettere e/o dagli Atti) con qualche
spiegazione, e su quelle a sinistra adeguate,
belle e ben riprodotte immagini o siti archeo-
logici che illustrano l’evento e i personaggi
coinvolti da Paolo durante la sua vita. Una
specularità costante che crea un’aspettativa
per ogni pagina che si gira. E non delude.
2. La seconda sezione è strutturata come la prima, ma non è scandita sugli anni della vita di
Paolo, bensì su quattro tematiche e relative
sotto-tematiche della teologia di Paolo: la imprevedibile iniziativa di Dio, la vera libertà, la
generazione della Chiesa e vittoria. Oltre a
queste sezioni che articolano la mostra, questa pubblicazione ne include altre due:
a) i discorsi e le omelie (in tutto sette) di Benedetto XVI su Paolo di Tarso ed una preziosa intervista a Marta Sordi (professore
emerito di Storia greca e romana all’Università Cattolica di Milano) su Paolo e l’impero
romano da Tiberio a Nerone.
b) Un’ introduzione alla mostra (sul tema
Paolo, testimone della misericordia di Dio) è a
cura di Eugenio Dal Pane (già docente di religione e lettere, ora fondatore di Itaca, società editrice e di promozione culturale, di
cui è amministratore e direttore generale).
«Come la mitica coppia di fratelli Romolo e Remo, ai quali si faceva risalire la nascita di Roma, così Pietro e Paolo furono
considerati i fondatori della Chiesa di
Roma. Così Pietro e Paolo furono considerati i fondatori della Chiesa di Roma.
Per quanto umanamente diversi l’uno
dall’altro, e benché il rapporto tra di loro
non fosse esente da tensioni, Pietro e
Paolo appaiono dunque come gli iniziatori di una nuova città, come concretizzazione di un modo nuovo e autentico di
essere fratelli, reso possibile dal Vangelo
di Gesù Cristo» (Benedetto XVI).
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Una bellissima miniatura dell’evento della
Pentecoste (XI secolo, Collectarius Ottobeuren, f. 28) conclude significativamente la
pubblicazione: nella miniatura è presente
anche Paolo (come dodicesimo apostolo) a
fianco a Pietro. Con a fianco parole di Benedetto XVI (vedi box nella pag. precedente)
Una pubblicazione facilmente gestibile per
molte attività didattiche (e catechetiche) riguardanti la personalità e la professionalità
missionaria di Paolo e la sua teologia ed ecclesiologia.
Benedetto XVI, Messaggio per la celebrazione della Giornata
Mondiale della Pace,
Libreria Editrice Vaticana, Roma 2009 pp.
22, € 1,00; ISBN
978-88-209-8144-0.
Fu quel grande (e dimenticato?) papa Paolo VI che dal 1967 dedicò il primo giorno di ogni nuovo anno alla
pace, il più grande dono che si possa fare ancora oggi agli uomini e che gli uomini possono usufruire facendosi ‘operatori di pace’.
Il tema del 2009: Combattere la povertà, costruire la pace (vedi nel box l’indice tematico
– che si può distribuire agli studenti come
schema tematico per facilitare la lettura del
messaggio).
Così il sito www.asianews.it [l’agenzia del
PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere)
nata nel 1986 e specializzata sull’Asia, inizia
a presentare questo messaggio: «Del diacono san Lorenzo si dice che quando un giorno l’imperatore gli chiese di consegnargli
tutti i tesori della Chiesa di Roma, lui gli
portò numerosi poveri aiutati dalla comunità, esclamando: “Questo è il tesoro della
Chiesa!”».
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Combattere la povertà,
costruire la pace
(messaggio di Benedetto XVI
per la Giornata Mondiale della Pace 20009)
Combattere la povertà implica un’attenta
considerazione del complesso fenomeno della
globalizzazione (n. 2)
POVERTÀ E IMPLICAZIONI MORALI
La povertà viene spesso correlata, come a
propria causa, a diversi ambiti:
1. allo sviluppo demografico (n. 3)
2. un altro ambito di preoccupazione sono
le malattie pandemiche (n. 4)
3. un terzo ambito, oggetto di attenzione…
è la povertà dei bambini (n. 5)
4. un quarto ambito che merita particolare
attenzione è la relazione esistente tra disarmo
e sviluppo (n. 6)
LOTTA ALLA POVERTÀ E SOLIDARIETÀ GLOBALE
a) …per governare la globalizzazione occorre una forte solidarietà globale tra Paesi ricchi e Paesi poveri, nonché all’interno dei
singoli Paesi anche se ricchi. È necessario un
“codice etico comune”… (nn. 8ss)
b) … mettere i poveri al primo posto comporta che si riservi uno spazio adeguato a
una corretta logica economica.. politica…
partecipativa…
CONCLUSIONE
Sono citate le encicliche
• Centesimus annus (1981) di Giovanni Paolo II
• Rerum Novarum (1891) di Leone XIII ed
il magistero dei successivi pontefici
… con l’invito: «ciascuno faccia la parte che
gli spetta e non indugi. Quanto alla Chiesa,
essa non lascerà mancare mai e in nessun
modo l’opera sua» (Leone XIII, Rerum novarum, n. 45).
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Con il Messaggio per la Giornata della Pace
2009, Benedetto XVI allarga questa visione
per affermare che i poveri sono il tesoro della società mondiale. Non nel senso banale di
un pauperismo moralista e inutile: il messaggio non chiede di essere poveri, ma anzi
di “combattere la povertà”. La proposta del
papa è invece quella di tener conto di essi
come la misura dell’umanità delle nostre società”. Il messaggio è anche leggibile e prelevabile nel sito www.vatican.va.
Il viaggio della menorà
fra storia e mito: da
Gerusalemme a Roma
e ritorno, Arnaldo De
Luca editore, Roma
2008, pp. 64, € 8,00;
ISBN 978-88-8750602-7, acquistabile
presso il Museo ebraico di Roma (tel. 06
68400661, www.museoebraico.roma.it).
Finalmente un primo passo “da Gerusalemme a Roma e ritorno” (è il nome della collana), un primo prodotto di una collana che
urgentemente auguriamo che continui. Dopo anni di insistenza, anche con la precedente direttrice, l’indimenticabile sig.ra Anna Blayer, nel tentativo di proporre strumenti didattici e di valorizzazione del museo. Ora chi va al museo ebraico di Roma
trova nuovi ambienti, nuovi allestimenti,
più oggetti, più spazi, nuove risorse di guide, libri, CD, ma soprattutto qualcosa che
comincia a raccontare, per brevi percorsi,
l’ebraismo come storia e come fede.
La dott.ssa Daniela di Castro, attuale direttrice del museo, ha curato i testi ed Arnaldo De
Luca (editore) ha realizzato le foto. Ed ecco
questo piccolo e prezioso libretto che speriamo sia il primo di una serie. Un libretto ele-
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gante, le cui immagini si impreziosiscono e
risplendono su questo fondo lucido nero (nero quasi stile Franco Maria Ricci!). La scelta
iniziale di una collana di presentazione dell’ebraismo in un museo non poteva che cominciare con quello che è il simbolo religioso e
cultuale della fede ebraica: la menôrāh della
quale si racconta il viaggio fra storia e mito. Il
titolo è evocativo e probabilmente fa riferimento a quella menôrāh che si vede trasporta
dai prigionieri ebrei sull’arco di Tito a Roma.
Le immagini sono molto belle, ben stampate, luminose, con una loro piccola e accurata
didascalia: documentano la storia della
menôrāh, partendo ovviamente dai testi biblici di Es 37,17-24 e Lv 24,1-4 e rilevando
la presenza della menôrāh nel Tempio di Gerusalemme (1Re 8,2-4; 2Re 24,13 e 1Mac
4,49-50) con opportune contestualizzazioni
storiche. Mediante la documentazione di
Giuseppe Flavio (ne La guerra giudaica) si
racconta l’arrivo della menôrāh a Roma nel
corteo trionfale di Vespasiano e Tito (dopo
la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, 70 d.C./e.v.) e quindi la costruzione
dell’arco di Tito nell’81 d.C./e.v.. Interessanti alcune belle testimonianze e documentazioni della menôrāh in epigrafi funerarie
delle catacombe ebraiche romane. Un cenno
alla menôrāh nel medioevo e poi alcuni suoi
significati cominciando dal grande Abulafia
(XIII secolo) con una bellissima immagine
della menôrāh (esposta al museo) sui cui raggi è inciso il salmo 67 (particolare perché, se
non si conta l’intestazione introduttiva, ha
sette versi e, nel testo ebraico, quarantanove
(7x7) parole). [In verità il 49 non fa direttamente riferimento ad un multiplo omologo
delle sette luci della menôrāh: il salmo viene
recitato quotidianamente nelle sette settimane tra Pesach e Shāvu‘ôt perché i sette versi
che seguono quello introduttivo contengono
49 parole corrispondenti ai 49 giorni che
uniscono le due ricorrenze, la liberazione
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dall’Egitto (Pesach) e il dono della Tôrāh
(Shāvu‘ôt)].
Il libretto si conclude con la riproduzione di
alcune menôrāh negli stemmi e negli emblemi del ghetto di Roma presenti al Museo,
nell’Ottocento, nell’emblema dello Stato di
Israele e nella cartolina e busta commemorative della visita di Giovani Paolo II alla sinagoga di Roma in cui “il Pontefice e il rabbino Toaff si incontrano alla luce della menôrāh”. Ed infine con qualche nota di mito
con le leggende romane che ne evocano il ricordo e ne focalizzano l’importanza (la
menôrāh starebbe ancora lì, in fondo al Tevere, leggenda mai provata da testimonianze
archeologiche). Utili le informazioni relative
agli orari e ad altro per la visita al museo. Va
apprezzata la notevole riduzione per gli studenti del costo del biglietto per la visita guidata al museo.
Ci aspettiamo in un prossima edizione una
maggiore accuratezza nella traslitterazione di
alcune parole ebraiche, una presenza di
qualche preghiera e canto liturgico in merito
alla menôrāh, qualche datazione storica in
più, la spiegazione (e differenza con la menôrāh) della chanukkia (qui riportata in due
belle immagini), la parola menôrāh (e non
solo) in ebraico (per invitare alla bellezza
della scrittura e della lingua ebraica) e magari anche qualche tradizione popolare romana che ne evochi la sua quotidianità (penso
a quei sonetti di Crescenzio del Monte). Anche se di storia e di storie ce ne sarebbero
tante da raccontare ed ovviamente qualche
criterio di scelta è da adottare.
Sorprende benevolmente vedere che la Bibbia
(con cui comincia la bibliografia) non fa riferimento ad alcuna edizione del testo ebraico
ma ad un sito (www.laparola.net) preceduto
dalla gratificante scritta “edizione Freeware”
(termine che indica un software che può essere distribuito e scaricato in modo gratuito
(free). Un sito dalle grandi risorse, creato da
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Richard Wilson della Missione europea cristiana (European Christian Mission).
Questa pubblicazione (purtroppo per la sua
preziosità di stampa ha un costo un po’ alto)
è veramente da considerare un buon inizio
di un percorso editoriale e culturale. Augurandoci anche che siano prese in considerazione antiche ed insistenti proposte (anche
personali) sulla produzione di strumenti didattici e culturali che permettano di verificare gli apprendimenti dei numerosi studenti
che da anni visitano il museo. E magari anche con spazi interreligiosi con gli altri fratelli del comune Padre Abramo.
Comunque, quando portate i vostri studenti
in visita culturale al museo, dite che conoscete questa pubblicazione: le gentilissime
signore (Daniela Calò, Grazia Sonnino e
Ursula Subatzus) che vi accolgono e vi guidano, avranno per voi e i vostri studenti una
ulteriore e benevola accoglienza. Perché se
noi a scuola, durante le lezioni e con i nostri
testi di IRC, contribuiamo (in modo esclusivo nella scuola) alla conoscenza (anche) dell’ebraismo, le parole di queste signore ne
danno la testimonianza e l’autenticità. E se
poi insieme cooperiamo e dialoghiamo, il
comune Padre non potrà che constatare che
i suoi figli, nella diversità delle loro culture,
tradizioni e storie, hanno (ri)cominciato a
percorrere cammini (halākôth) e racconti
(haggādôth) di fratellanza e di pace, a testimonianza del suo amore e della sua alleanza
davanti a tutte le genti.
2009, l’agenda dell’antimafia, Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, Palermo, di
Girolamo editore
(corso Vittorio Emanuele, 32/34 – 91100
Trapani; www.dirigi-
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rolamoeditore.com), Trapani 2008, €
10,00, ISBN 978-88-87778-44-1.
I giorni appartengono a chi li investe in opere e li costruisce in storie di cui vogliono e
devono essere protagonisti.
Una finalità educativa imprescindibile e irrinunciabile. Allora la storia per i nostri studenti non sarà solo da cercare in una materia scolastica, ma nell’aria stessa che tutti respiriamo.
E se qualcuno ci toglie quest’aria, rischiamo
la morte. Come la morte è la conseguenza di
ogni libertà negata.
Tra queste rivendicazioni di libertà e l’appropriazione della storia da vivere e condividere, non sempre consapevolizzate, a scuola
gli studenti vivono la loro quotidianità,
spesso subita, invocata perché arrivi subito
l’ultima ora, a volte vanificata senza (apparentemente) lasciare tracce… a condizione
che qualcuno non le registri… Ed ecco la
presenza dell’educatore che offre strumenti
per costruire memorie: come per esempio
un diario.
Questa pubblicazione non è solo la registrazione di quotidiane emozioni e storie, ma
un’agenda, uno strumento per fare, o meglio
per continuare a fare come coloro che vengono presentati giorno per giorno come testimoni, insieme a documenti, articoli di
giornale, memorie personali e collettive, volantini, vignette, libri e riviste… per «ricordarsi di ricordare coloro che caddero lottando per costruire un’altra storia e un’altra terra… ricordarli uno per uno perché il silenzio non chiuda per sempre la bocca dei morti e dove non è arrivata la giustizia arrivi la
memoria e sia più forte della polvere e della
complicità…».
«Un libro-agenda per legare memoria storica e impegni del fare quotidiano» che oggi più che mai esige responsabilità e onorabilità.
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AA.VV., Israele passato
& presente, Vision (via
Livorno, 20, 00162
Roma; www.visionpubl.com), Roma
2006, pp. 76, €
13,00, ISBN 88-8162-107-X.
Si può separare la geografia dalla storia? E la
terra dagli eventi? Farlo significherebbe separare l’incarnazione dalla rivelazione. Ed
ecco che allora la geografia di eretz Yisrael
(terra di Israele) è un contesto ermeneutica
imprescindibile per comprendere l’economia
ella storia di Dio con gli ebrei e con i cristiani. La recensione di questa ludica e didattica
pubblicazione permette di rendere omaggio
a Colui che in questi ultimi decenni “faceva
parlare di Bibbia le pietre della Terra santificata dalla presenza del Figlio di Dio e di suo
Padre Adonaj - il Signore”: l’archeologo padre Michele Piccirillo (Casanova di Cerinola, Caserta 1944 – Livorno 2008) famoso
per l’attività svolta per più di 40 anni soprattutto per gli scavi del Monte Nebo e in
Giordania. Da lui abbiamo imparato e con
lui dovremmo continuare ad imparare, così
come altri maestri (Lagrange, Boismard, De
Vaux, Alonso Schökel, Martini, Federici,
…) che facendosi studenti della Parola di
Dio sono stati maestri.
Dopo una ricostruzione della storia della
Terra di Israele questa pubblicazione spiega
e mostra i siti archeologici più importanti
dell’Israele biblico (Gerusalemme durante il
periodo del Secondo Tempio, l’arco di Robinson, Cesarea, Masada, la sinagoga di Cafarnao, Nimrud, Tiberiade….). E poi permette di sovrapporre una carta trasparente
che ne ricostruisce – ipoteticamente – la
configurazione architettonica originale. Una
tecnica che induce lo studente – di ogni ordine e grado di scuola, e non solo i ragazzi
della Primaria – ad andare oltre le apparenze
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per vedere e immaginare il passato ricostruendolo attraverso le tracce del presente,
spesso barbaramente umiliato e ridotto a cumuli di pietre. Imparerà a “dare voce alle
pietre” e a sentirsi erede di una storia più
antica di quella personale e parentale.
«E il settimo giorno si riposò»: il Sabato.
Seminario organizzato da BIBLIA
(Associazione laica di cultura biblica)
5-8 febbraio 2009,
Pian dei Mucini (Massa Marittima)
-
-
-
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Biblia continua ad offrire corsi e seminari per
promuovere la cultura
biblica e farla interagire
con le urgenze della
contemporaneità, coinvolgendo autorità e personalità del mondo
ebraico, cristiano e musulmano. Tra i relatori
rav Joseph Levi
(Rabbino Capo di Firenze, figlio di Leo Levi,
il grande ‘pellegrino’ che ha raccolto
molti frammenti della memoria orale
musicale ebraica in Italia, e non solo):
L’osservanza ebraica del sabato
Innocenzo Cardellini (Università Lateranense di Roma): Perché proprio sette giorni? Le origini storiche del sabato
Milka Ventura (Università di Firenze):
La donna e il sabato nell’ebraismo
Paolo De Benedetti (Istituto Teologico
di Trento): Il sabato della terra (sabato,
anno sabbatico, giubileo)
Elizabeth Green (Pastora della Chiesa
battista di Grosseto): Gesù e il sabato
Piero Stefani (Università di Ferrara): Dal
sabato alla domenica
Antonio Zani (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale): Il sabato come figu-
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ra escatologica nella letteratura cristiana
antica
- Saverio Campanini (Freie Universität di
Berlino e Università di Bologna): «E il
Signore prese fiato» (Es 31,17). Appunti
sul sabato nella qabbalà primitiva
… con proiezione di film, serate musicali
(speriamo sul tema del sabato) e visite culturali a luoghi di interesse ebraico e cristiano.
Il programma completo e le informazioni
sul sito www.biblia.org. Speriamo nella pubblicazione degli Atti o almeno delle registrazioni delle relazioni, come è avvenuto in altri corsi e seminari.
Laura Bollea, Sentire
l’altro. Conoscere e praticate l’empatia, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2008, pp. 119, €
11,50. ISBN 88-6030016-9.
Tra le migliori qualità
’invisibili’ di un insegnante, l’empatia è
quella che sensibilmente induce gli studenti
a differenziare un docente da un altro, a riconoscerlo come parte della sua storia e della sua quotidianità, oltre i contenuti trasmessi, oltre il dovuto professionale di entrambi… E lo studente ha un thesaurus linguistico locale e nazionale con cui esprime
queste sue sensazioni e percezioni, non dimostrabili geometricamente, ma geometricamente dimostrate da ciò che in lui è rimasto del prof. E per non incorrere in quella
famosa constatazione valutativa di Ligabue:
«Il vecchio prof che ti ha rubato tempo con
la sua mediocrità» (in Vivo, morto o x).
E da parte di noi docenti, l’empatia è quel
sentire per cui a parità di contenuti proposti
– per esempio in 1C nella prima ora e subito dopo nell’ora successiva in 1D – sei capa-
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Parte prima
CONOSCERE L’EMPATIA
1. Un nuovo inizio
2. L’intreccio tra l’esperienza dell’io e
quella dell’altro
3. L’emozione dell’incontro
L’incontro dei corpi
L’empatia ha bisogno di un volto?
4. Immaginare e comprendere
Rallegrarsi, addolorarsi al pensiero
La traduzione delle esperienze
5. Trasformazione di sé
Parte seconda
PRATICARE L’EMPATIA
1. Il valore etico dell’empatia
2. Esercizi di empatia
Quando i corpi parlano
Il dono di pensieri
3. L’empatia può fallire?
Le illusioni dell’empatia
L’empatia negativa
ce di caratterizzare e modulare una lezione
in un modo totalmente diverso: e per riuscire in questa diversità richiesta ti lasci ispirare
dai volti degli studenti delle due classi… ed
oltre ogni prossemicità riesci a sentirli come
facenti parte di un condiviso frammento di
storia quotidiana e ti rendi conto delle loro
emozioni, situazioni, esperienze di vita e li
assumi come proprio sentire, gioendo con
loro, dubitando insieme a loro, vivendo con
loro e facendo in modo da farli sentire unici,
indispensabili, non superflui… e né tanto
meno ‘quel materiale umano’ che alcuni docenti lamentano essere sempre scarso! Sottraendo così alla monotonia, alla ripetizione,
alla casualità, alla monocromia i molteplici
modi in cui viviamo a scuola le relazioni
personali e professionali. Fino al punto che
pensando ai giovani colleghi ti domandi se
si impara ad insegnare o se è un dono…
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Certamente ci si prepara; e forse negli ISSR
un corso sull’empatia (che non è la psicologia dell’insegnare…) dovrebbe essere d’obbligo… Così come ci si dovrebbe obbligare
a commisurarsi sull’empatia come discriminante per valutare se ancora insegniamo per
mestiere o per professione.
Laura Boella (ordinario di Filosofia morale
all’Università di Milano) presenta in questa
collana “minima” (solo di formato) elementi
e considerazioni di diversa natura (filosofica,
psicologica, etica, sociale, relazionale…) per
conoscere e praticare l’empatia. Ricostruendone la ricerca fin da quando Edith Stein la
focalizzò nel suo scritto giovanile Il problema
dell’empatia del 1917 (ed. Studium Roma,
1985). E mentre leggi queste pagine, ti senti
portato ad interrogarti. Perché «il punto
cruciale della pratica dell’empatia sta in effetti nel gestire attivamente le relazioni assumendone la responsabilità». E non è forse il
docente un professionista delle relazioni e
delle interazioni educative scolastiche a cui
viene chiesta la responsabilità del futuro?
Dario Pagano, Sulle
orme del Risorto. 11
canti ispirati ai Martiri della fede di ieri e di
oggi, 2 CD audio
(44.48 + 44.50 minuti) e fascicolo (38
pp.), Elledici Multimedia, Leumann (Torino) 2006, € 18,00, ISBN 88-01-18140-X.
L’identità di competenze degli IdR è plurima e polivalente: non solo per le dovute appartenenze ma soprattutto per quelle competenze, risultanti da storie e opportunità
culturali, che ognuno di loro si è costruito.
Faticosamente, ma sempre con passione.
Con coraggio, ma sempre al limite di qualche temuto giudizio di anomalia. Ed una
delle finalità originarie di questa rubrica è
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proprio quella di farsi luogo di ospitalità
delle opere di questi nostri Colleghi.
E se poi si conoscono colleghi come Dario
Pagano con la passione e la competenza musicale, l’accoglienza è più che mai benvenuta. Infatti il prof. Pagano è un compositore:
scrive musica e spesso anche i testi dei suoi
canti. Uno di quei pochi docenti che non
comunica solo con il linguaggio verbale ma
anche con quello musicale!
Questa pubblicazione è una raccolta di 11
canti ispirati ai Martiri della fede di ieri e di
oggi che hanno vissuto sulle orme del Risorto. Il prof. Pagano ha selezionato i testi dalle
parole di otto di loro (Paolo, Giustino, Tertulliano, P. Kolbe, Stein, Bonhoeffer, Luther
King, Romero, Puglisi) mentre altri tre sono
brani poetici di Corrado Galignano. La scelta è quanto mai felice e comunicativamente
efficace: far cantare le parole dei martiri così
che ancora oggi con un altro linguaggio –
diverso da quello verbale in cui originariamente sono stati scritti – le parole di questi
testimoni possano risuonare e ampliare il loro messaggio con il canto e la musica.
La pubblicazione è quanto mai didattica e
fruibile perché costituta da:
2 CD audio: nel primo i canti eseguiti da
voci e cori e nel secondo le basi musicali di
ogni canto
da un fascicolo che riporta il testo, la melodia e gli accordi di ogni canto.
Sono canti che sviluppano una linea melodica espressiva, piana, sillabica così da porre in
primo piano le parole del testo… (a volte
anche con un parlato) con arpeggi di tastiere
che sostengono il canto e assicurano le voci
(spesso dialoganti tra voce solista e coro).
Esprimono una poetica musicale assunta da
moduli vocalici dei musicals e da quel “neoromanticismo” (per altri new age) di canti
cristiani degli ultimi decenni, per cui ci si
pone la domanda se sono canti per la liturgia o per un concerto (gli Autori non lo spe50
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cificano). Sono tentativi (con tutte le problematiche e le perplessità correlate) di ricerca di nuovi linguaggi musicali per ampliare
la comunicazione evangelica e renderla più
policroma e più adeguata ai nuovi e giovani
destinatari.
Il prof. Pagano ha fatto della musica un linguaggio che valorizza nella didattica. Ormai
a scuola lo conoscono per cui il Collegio docenti e il Dirigente scolastico, prof. Fernando Iurlaro, lo hanno incaricato di comporre
l’inno (La mia scuola insieme a te) del loro
Istituto comprensivo (di Porto Cesareo, Lecce) che esprima in parole e in musica (dello
stesso prof. Pagano) il POF dell’istituto stesso (cfr www.primocomprensivocopertino.it).
Francesca Nodali
(ed.), Amos Luzzatto.
A proposito di Laicità
dal punto di vista
ebraico, Prefazione di
Paolo De Benedetti,
Effatà editrice (via Tre
Denti, 1 – 10060
Cantalupa, Torino;
www.effata.it;), Cantalupa 2008, pp. 125, € 10,00, ISBN 97888-7402-386-8.
Amos Luzzatto è medico e biblista, già presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane e già direttore della Rassegna
mensile di Israele. La sua storia comincia da
lontano – come quella di ogni ebreo – passando per quella parentale (Dante Lattes era
suo nonno e altri Luzzato sono stati suoi antenati) e quella dei suoi maestri (che vengono ricordati nell’ultima parte della pubblicazione: pp. 98-110).
Nella prefazione Paolo De Benedetti così
scrive di Luzzatto: «“Che cosa posso trasmettere di tutto questo a figli, nipoti, amici e allievi?” È una domanda che Amos si pone (p.
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117) in questo libro, degno di rientrare a
pieno titolo nella letteratura nota come She’elot u-teshuvot (“Domande e risposte”), nota
anche come letteratura dei responsi». Sembrano osservazioni che nulla hanno a che fare con quel discorso di laicità che si attende
dalla dichiarazione del titolo. E invece la laicità dal punto di vista ebraico comincia “a
proposito” anche da questa posterità che valuta e da quella coscienza del domandarsi e
del rispondersi. Luzzatto non argomenta, ma
procede nelle risposte con altre domande a se
stesso ed interrogando continuamente la Torah, il Talmud e i Maestri delle tradizioni
ebraiche cercando risposte che sono a fondamento di possibili (non obbligate) risposte
meramente civili o sociali o politiche che poi
ognuno può assumersi nell’immediatezza
delle decisioni storiche. Ecco alcune conseguenze: «La prima caratteristica della laicità è
il diritto-dovere a discutere, avvalendosi della
razionalità di qualunque enunciato della cultura e della tradizione ebraica. Colui che si
mostra disponibile a discutere è già un laico
e non è un dogmatico. […] perché i maestri
stabilivano che la verità o la giustezza si raggiunge attraverso la discussione e il ragionamento… e tutte le risposte appartengono a
una cultura polimorfa che ammette la divergenza d’opinione» e l’assunzione di responsabilità nel sostenerla. Il pluralismo dell’interpretazione è dunque presupposto della laicità. «La cifra di questo pluralismo sta proprio nella struttura a coppie della discussione
talmudica, che non è tanto da considerarsi
un escamotage della retorica, ma il succo stesso del discorso, come dire: “Studia, dibatti,
confrontati e, infine, decidi se vuoi decidere”. A volte, non si perviene, neppure, a una
conclusione. Si dice tequ (sospeso) e si lasciano le cose come stanno. Il che vuol dire che è
possibile anche non decidere. Elemento che,
in una religione di carattere non laico, sarebbe impensabile» (p. 40).
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Il lessico dell’ebraicità di Luzzatto è adeguatamente spiegato dall’intervistatrice e curatrice
Francesca Nodali; le sue note da sole costituiscono una buona introduzione alla conoscenza dell’ebraismo. La pubblicazione è di una
certa unicità, considerando che è abbastanza
rara un’esposizione così pubblica, mediante
una intervista, di una autorevole ebreo italiano “a proposito di laicità dal punto di vista
ebraico”. Di Luzzatto, profeticamente De Benedetti, scrive: «vorrei definire la presenza di
Amos con le parole che Emmanuel Lévinas
scrive a proposito della lettura ebraica della
Scrittura: “Se un uomo non nasce, un senso
non si rivela”. Amos è nato» e con tutta la laicità che l’ebraismo gli ha donato e che lui ha
contribuito ad interrogare e a rispondere.
Le riviste per i docenti
di Religione in Italia
ormai sono soltanto
quelle edite dalla Elledici (L’ora di religione
per la scuola primaria
e Insegnare religione
per la secondaria:
www.elledici.org). Da
qualche anno la rivista Religione e Scuola
(dell’editrice Queriniana) che tanto aveva
contributo allo statuto epistemologico dell’IRC e ad una sua identità giuridica, purtroppo è stata ‘spenta’ e non è riuscita a rinnovarsi in sintonia con le nuove problematiche e le nuove esigenze della scuola e dell’IRC stesso.
Che si sappia, due sono le diocesi che si
preoccupano di accompagnare il docente
nella sua formazione professionale con la
pubblicazione di strumenti informativi e
formativi: la Diocesi di Roma con questa
nostra rivista Religione Scuola Città e l’arcidiocesi di Milano con Informazioni IRC,
«sussidio per IdR», inserto redazionale de Il
Segno (voluto dal cardinal Montini nel 1961
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come mensile per le famiglie attraverso il canale parrocchiale; oggi viene diffuso nell’intero territorio della Diocesi di Milano, che
comprende le province di Milano, Varese e
Lecco, e in parte Bergamo, Como e Pavia).
Informazioni IRC è in periodicità mensile,
in formato A4, 14 pagine di contributi vari
e brevi in rubriche come Magistero, Alleanze educative, Attualità, Scuola e IRC, Buone
notizie e Recensioni. Non è dichiarata una
redazione, se non che è “a cura del Servizio
IRC” il cui responsabile attuale è don Michele Di Tolve, che succede a mons. Giovanni Giavini (cfr il sito del servizio per
l’IRC in www.chiesadimilano.it).
Ci auguriamo che il sussidio sia anche disponibile on-line e che tra le due riviste (la romana e la milanese) ci sia anche qualche opportunità di collaborazione e di cooperazione (e conoscenza tra i docenti delle due diocesi) visto che le finalità non potrebbero che
essere comuni, praticando così la cattolicità e
quella carità professionale secondo l’assioma
(di Agostino): «Ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle dubbie e in tutto carità».
Fulvio De Giorni, Il
brutto anatroccolo. Il
laicato cattolico italiano
(prefazione di Carlo
Ghidelli), Saggistica
Paoline, edizioni Figlie
di san Paolo, Milano
2008, pp. 249, €
16,00, ISBN 978-88315-3412-3.
La maggior parte degli IdR sono laici. Laico
e laicità oggi sono termini che richiedono
sempre una precisazione o almeno una definizione di intenzionalità. Soprattutto per gli
IdR che abitano i confini della laicità a
scuola ma anche per la loro identità professionale e personale. Quanti IdR sono laici
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nel senso di… e quanto non lo sono nel
senso di…? È un confronto che ancora non
riceve un suo momento di riflessione, un
convegno che onori la dignità laica e laicale
dell’IdR e riappacifichi chi teme la sua laicizzazione (come autoreferenzialità o autocrazia sostenuta dal raggiunto stato giuridico) e rassereni chi teme di non essere di
quella laicità che la scuola esige e la nostra
comunità civile ne vanta le intenzioni ma ne
pratica poco gli esercizi di laicità.
Se ci si potesse esprimere in termini di obbligatorietà, più che di invito, bisognerebbe
dire: questo saggio non può non essere letto
da ogni IdR facendone un momento non di
aggiornamento ma di verifica personale della sua laicità ecclesiale e professionale. È sufficiente intravedere l’indice (cfr box). Ma
nello stesso tempo gli argomenti di questa
pubblicazione offrono elementi e tematiche
alle quali si dovrebbe offrire un’opportunità
didattica soprattutto negli ultimi anni della
secondaria di II grado e magari nel confronto con gli altri colleghi.
L’Autore riporta in nota, ma ne condivide le
intenzioni, quanto Paola Bignardi ha scritto
in una sua recente pubblicazione (Esiste ancora il laicato? Una riflessione a 40 anni dal
Concilio, AVE, Roma 2006, pp. 30-31): «Lo
stile del servizio di molti laici risulta mortificato e compromesso. La qualità della presenza laicale è collaborativa, ma esecutiva; tranquilla, ma spenta. La partecipazione sostituisce la corresponsabilità; l’operatività, il servizio; il quieto vivere, la comunione. La presenza di un laicato che si pone con inquietudine domande sulle forme della missione
della Chiesa viene guardata con diffidenza –
e non solo dai preti –, non serve ad aprire
nuovi spazi di dialogo, di interpretazione, di
comunicazione con la realtà. Il disagio dei
laici in genere non si esprime in forme polemiche, conflittuali, o rivendicative, ma in
quelle più pericolose della rinuncia».
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Introduzione
Un brutto anatroccolo?
I. In che periodo della storia della Chiesa
ci troviamo?
II. Il pontificato di Giovanni Paolo II: eredità positive e problemi
III. L’altra ipotesi: il Concilio come “parentesi”
IV. Le cinque piaghe del laicato cattolico
oggi
V. Una Chiesa di preti pedofili: è questa la
Chiesa di Cristo o dobbiamo aspettarne
un’altra?
VI. Oltre Pacs e Dico: possibilità e bellezza
della famiglia cristiana
VII. Piccola via per nuovi orizzonti di missionarietà laicale
VIII. Per una conversione pastorale di base
IX. La fida della laicità
X. Morte o trasformazione del cristianesimo sociale?
Conclusioni: Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno
Il saggio procede con serenità, ma con chiarezza e lealtà, trascurando certe retoriche sul
laicato, ma sviluppando «con la libertà dei
figli di Dio e non dei ‘servi’» «una sorta di
esame di coscienza ecclesiale» (Ghirelli) che
non può che riformare e rinnovare la Chiesa
e gli uomini.
Gualtiero Peirce, Il
Signore è grande e non
si può disegnare (perché
non foglio non ci sta),
Einaudi,
Torino
2008, pp. 135., €
12,50, ISBN 978-8806-19308-9.
La pacifica convivenza
interreligiosa è un’urgenza sempre più dif-
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fusa. Ma si tratta di un problema che riguarda i “grandi”: perché i bambini certe questioni non se le pongono proprio. Questa sembra l’idea che ha guidato il giornalista e regista Gualtiero Peirce nel suo reportage in tre
scuole di Roma, una cattolica, una ebraica e
una islamica. Si tratta della paritaria «Antonio Rosmini» (sulla via Aurelia, tenuta dalle
suore rosminiane); della scuola elementare
ebraica «Vittorio Polacco» a Lungotevere
Sanzio, davanti al Portico d’Ottavia; e della
moschea «El Fath», che altro non è che il
pianterreno di un condominio alla Magliana.
In realtà, le tre istituzioni non sono del tutto
analoghe (la scuola islamica è infatti una
scuola “integrativa”, che si apre solo il sabato
e la domenica). Tuttavia, sono prese a modello di tre «scuole confessionali», per descrivere
‘in parallelo’ come vengono educati i bambini cattolici, ebrei e mussulmani. «Sono reali i
luoghi, autentiche le parole dei bambini,
consacrate le parole dei maestri» (p. 7). I
bambini in età di primaria (soprattutto delle
prime classi) vengono formati in modo differente – si intuisce leggendo il libro – ma le
loro domande sono in fondo le stesse, come
anche le risposte, spesso esilaranti, che i bimbi si danno gli uni gli altri, esprimendosi con
un’ingenuità che suscita tenerezza. Come si
comprende dal titolo, il volume rappresenta
una sorta di “Io speriamo che me la cavo” modulato in chiave interreligiosa. E proprio per
questo ci sembra un’occasione almeno in
parte sprecata. La lettura di queste pagine
scorre infatti veloce e gradevole, tra un sorriso, una risata e una riflessione, a volte – almeno per chi non conosca un minimo le religioni abramitiche – anche imparando qualcosa di nuovo. Ma il taglio giornalistico (l’inchiesta, prima di diventare un libro, è stata
trasmessa su Rai Tre come film documentario) penalizza un po’ il risultato finale. Il sugo del discorso sembra possa essere così compendiato: i bambini, indipendentemente dal
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fatto che portino una kippà sulla testa, facciano il segno di croce o si sforzino di digiunare nel ramadam, sono tutti aperti al mistero di Dio ed esprimono uno straordinario
«potenziale religioso» (S. Cavalletti). E fin
qui, il discorso è ineccepibile. Complice però
anche la modalità necessariamente semplificata dell’insegnamento con bambini di
sei/sette anni, il testo sembra anche voler
suggerire l’idea che le tre diverse religioni siano solo tre diversi percorsi, finalizzati ad
un’educazione, soprattutto di tipo morale, in
fondo sostanzialmente comune. E in questo
meta-messaggio – che non è dichiarato dall’autore, ma che mi sembra abbastanza trasparente nel complesso del testo – affiora il
presupposto illuminista (vedi il Nathan il
saggio di G.E. Lessing) secondo il quale le
differenze religiose in ultima istanza sono solo tradizioni culturali folkloristiche e quasi
pretestuose. In fondo, i bambini che enunciano le loro ingenue e simpatiche sciocchezze (sciocchezze spesso molto simili tra loro:
vedi box) danno l’impressione di essere più
saggi degli adulti che si schierano risoluta«Ma come ha fatto il Signore a vedere
che Caino aveva ucciso Abele?» – chiede Micol. – «Perché c’ha mille occhi! –
le garantisce Daniel – ma li può pure
chiudere tutti. E ci vede lo stesso»
(scuola ebraica, pp. 61s).
Sulla parabola del Figliol Prodigo: «la
so, la so… – Simone non si trattiene, –
un figlio dice: mi dai i soldi? Così io
vado a vivere da solo… E poi si mise ad
addestrare i maiali…» (scuola cattolica,
p. 53).
«Allora bambini, noi che siamo tutti figli di Adamo, come siamo stati creati?»
– «Siamo tutti figli di Adamo? – obietta
Tasmin – Madonna quanti figli che
c’hà!» (scuola islamica, p. 17).
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mente da una parte o dall’altra. Nel complesso, una lettura piacevole e leggera; ma non si
dovrebbe banalizzare una questione che invece è tanto importante ed urgente, quanto delicata e complessa (F.M.).
Elisa Bragaglia – Fabiana Giuli – Elisa
Pompilio, Il Natale e
La Pasqua, poster per
insegnare religione
attraverso l’ar te,
EDB Scuola, Bologna 2008, ciascun
poster € 4,20.
Un’immagine vale più
di mille parole: lo sa
bene chiunque dedichi del tempo all’insegnamento. E allora
ben vengano sussidi
come questi. Le autrici hanno voluto offrire uno strumento pratico e utile per i bambini della primaria,
ma che potrebbe risultare utile anche con
alunni più grandi. «In un’opera d’arte cristiana sono “nascoste”, simbolicamente,
moltissime informazioni che si possono scoprire, quasi come un gioco, se la si osserva
con cura e se ci si chiede il perché di esse»:
così dichiarano le autrici, spiegando il senso
del progetto. Ciascun poster è stampato su
entrambi i lati: una facciata contiene la riproduzione a colori di un mosaico del gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik (rispettivamente La Natività e Gesù dal costato trafitto,
che si trovano nella casa di spiritualità dei
padri dehoniani a Capiago, in provincia di
Como); l’altra facciata offre alcuni semplici
sussidi didattici, e cioè:
• una rapida ma pertinente decodifica iconologica dell’immagine principale;
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• alcune immagini di altri autori, più piccole, che riproducono lo stesso soggetto,
con accenti differenti;
• descrizione e spiegazione di alcuni simboli presenti nelle diverse opere;
• uno schema grafico dell’immagine principale, da utilizzare come modello fotocopiabile;
• suggerimenti per riprodurre il soggetto
con diverse tecniche pittorico-grafiche
(collage, carta velina, ecc.), in modo da
fare un mosaico con materiali di recupero.
Il poster del Natale contiene anche i suggerimenti per realizzare un biglietto di Natale
con lo stesso disegno dell’opera d’arte. Il
grande formato (48 x 63 cm) e l’eccellente
qualità della stampa raccomandano l’uso di
questo strumento didattico, capace di valorizzare l’arte cristiana «non solo come contenuto (conoscenze), ma soprattutto come
metodologia» (dall’introduzione) (F.M.).
Gisella Gaudenzi,
La valigia di Mariele. Emozioni in
musica nella Scuola
dell’Infanzia, e Il
mondo dei suoni,
Eli, Recanati 2008,
(Casella Postale 6 – Recanati) € 45,00 +
6,70, ISBN 978-88-536-1193-2 e 978-88536-1159-8.
Le IdR nella scuola dell’infanzia (e i pochi
IdR) sono sempre a cerca di strumenti per
migliorare la loro professionalità. Non solo
perché viene loro richiesto istituzionalmente
di aggiornarsi, ma anche perché il lavoro
con bambini di 4-6 anni richiede particolare
attenzione pedagogica. La casa editrice Eli
(www.elionline.com) propone uno strumento utile ed originale di educazione musicale
per tutti coloro che lavorano con passione
nella scuola dell’infanzia. La “Mariele” evo-
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cata nel titolo è infatti Mariele Ventre
(1939-1995), storica fondatrice e direttrice
del Coro dell’Antoniano di Bologna, che alla sua prematura morte fu salutata come
«splendida figura di artista e di educatrice
cristiana» dal card. Giacomo Biffi. Al progetto editoriale collabora la «Fondazione
Mariele Ventre» (www.marieleventre.it), che
ha lo scopo non solo di promuovere l’educazione musicale dei fanciulli, ma anche di
«educare al bene, ai valori che sono stati patrimonio di Mariele, ed al messaggio cristiano, pur intendendo questo come rivolto a
tutti, indipendentemente da ogni distinzione di razza, di religione, di etnia e di ideologia» (dallo Statuto). L’iniziativa editoriale è
stata promossa e coordinata dalla prof. Gisella Gaudenzi, già collaboratrice di Mariele
Ventre ed ora attiva divulgatrice del suo
messaggio educativo. La Valigia offre «un
progetto musicale completo e unitario non
solo per cantare ma per parlare, ascoltare,
pensare, raccontare, giocare, recitare, provare emozioni e riconoscerle. Una proposta
operativa a misura di bambino per condurlo
alla scoperta della propria dimensione musicale» (dalla Presentazione). Il fulcro del progetto educativo si esprime nel concetto di
coro, inteso come «luogo della differenza armonizzata, della crescita, del vivere l’individuale nel sociale». La Valigia si presenta
esternamente come una robusta valigetta di
cartone, al cui interno si trovano:
• Sette fascicoli per l’insegnante, che rappresentano altrettante tappe per sviluppare pienamente la proposta metodologica e operativa (cfr box).
• Un CD audio contenente sei canzoni del
Piccolo Coro dell’Antoniano, dall’intramontabile «44 gatti» a «La sveglia birichina», in duplice versione (canto completo e sola base strumentale), nonché la
riproduzione dei suoni presenti nella Fiaba in musica narrata nel fascicolo n. 2.
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• Sei poster che illustrano i personaggi delle
canzoni e della fiaba.
• Il quaderno operativo per i bambini Il
mondo dei suoni, vendibile separatamente
(€ 6,70), magistralmente illustrato e utile soprattutto per i più grandini, in vista
di un apprendimento migliore.
Ci si può chiedere se un sussidio del genere
possa essere consigliabile anche per insegnanti di religione cattolica. La risposta è affermativa: il lavoro per “campi di esperienza” favorisce l’interdisciplinarità (e come si
potrebbe lavorare in modo non interdisciplinare con bambini così piccoli?); le competenze musicali acquisite possono essere facilmente utilizzate per stimolare la conoscenza
anche di contenuti religiosi (mi riferisco
I sette fascicoli
1) Il coro: descrive l’esperienza educativa
e metodologica di Mariele Ventre, l’analisi della musica come esperienza formativa
nella scuola e la pratica relativa alla direzione di un coro scolastico (volume più
prettamente metodologico).
2) Una fiaba in musica: un’inedita fiaba
musicale, al cui interno trovano posto
canzoni, sonorizzazioni, basi musicali incise nel CD accluso all’opera per permettere ai bambini di interagire.
3) Il mondo dei suoni: volume con attività
pratiche.
4) Giocare con la musica: un breve percorso teorico musicale per gli insegnanti.
5) Cantando e recitando: drammatizzazioni per recite scolastiche e giochi psicomotori.
6) Canzoni ed emozioni: schede e input
operativi per comunicare emotivamente
attraverso le canzoni.
7) Schede di valutazione per verificare i risultati del percorso formativo ed espressivo-musicale compiuto dal bambino.
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non tanto alla musica sacra in senso rigoroso, quanto piuttosto al ruolo primordiale
svolto dal canto e dalla musica per esprimere
l’esperienza religiosa). In fondo, per un IdR
nella scuola dell’infanzia, imparare un po’ di
musica significa acquisire un metodo d’insegnamento spendibile in tanti modi. E magari la musica entrasse più sistematicamente
nella formazione di tutti gli IdR! Ma questo
è un altro discorso… (F.M.).
Mario Polia – Gianluca Marletta, Apocalissi. La fine dei tempi
nelle religioni, Sugarco, Milano 2008, pp.
262, € 19,80, ISBN
978-88-7198-560-2.
Le profezie sui “tempi
ultimi” esercitano sui
ragazzi un fascino irresistibile e a volte inquietante. La fenomenologia comparata delle religione attira ed
incuriosisce, anche per via dell’interreligiosità sempre più diffusa. Le tematiche escatologiche sono tornate in auge nella Chiesa
cattolica anche grazie all’enciclica Spe salvi
di papa Benedetto XVI. Ed ecco un libro
che mette insieme tutti questi elementi:
un’avventurosa ricostruzione del filone escatologico nelle fedi monoteistiche e nelle tradizioni orientali, nelle culture dell’America
precolombiana e in quelle dell’Europa precristiana, alla scoperta di sorprendenti analogie e inattese originalità. Gli autori hanno
formazione ed età diversa, ma hanno collaborato gomito a gomito, arrivando a elaborare un testo coerente e organico nell’impostazione. Gianluca Marletta, giovane IdR
romano nella scuola primaria e già autore di
altre pubblicazioni, ha redatto l’Introduzione e la prima parte del saggio (pp. 7-85),
dedicata all’escatologia nell’ebraismo, nel
cristianesimo e nell’islam. Mario Polia, na-
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vigato antropologo e storico delle religioni,
docente nella Pontificia Università Gregoriana, ha curato la seconda parte, dedicata
alle altre principali tradizioni religiose: indiana, iranica, ellenica, romana, celtica, azteca e maya (pp. 87-242). Nella Conclusione
gli autori dichiarano il carattere aperto e incompiuto del loro lavoro, «che è da considerarsi dunque, pur nella sua pionieristica
unicità, null’altro che un’introduzione al vasto mondo della apocalissi» (p. 243). La lettura del testo, nonostante la complessità
della materia, risulta del resto molto scorrevole. La mole di dati raccolti aiuta a conservare l’umiltà (non si può sapere tutto, ma
riconoscere quante cose si ignoravano, soprattutto delle culture più lontane dalla nostra nel tempo e nello spazio, è sempre una
lezione preziosa). Gli IdR di scuola secondaria troveranno utili le indicazioni relative
ad argomenti vagamente “esoterici”, dei
quali gli studenti sono sempre molto curiosi
(si veda ad es. la discussione sul «666», il
“numero della bestia” (Ap 13,18) alle pp.
61ss), o anche le annotazioni sui cicli cosmici nella cultura greca (pp. 143ss) e ro-
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mana (pp. 161ss), che possono offrire lo
spunto per un lavoro interdisciplinare con
la storia e la filosofia. Interessante anche la
classificazione proposta nell’introduzione,
che identifica quattro temi comuni alla
maggioranza delle dottrine escatologiche: 1)
la decadenza spirituale dell’umanità ultima;
2) gli sconvolgimenti nell’ordine della natura; 3) l’intervento divino e la “restaurazione
finale” (aspetto importante; ma proprio per
questo la mancata menzione del concetto di
tiqqun ‘olam, “riparazione del mondo”, nella presentazione dell’escatologia ebraica ci
sembra una svista non perdonabile); 4) l’idea di un mondo nuovo (cfr. pp. 17-21).
Una ricca bibliografia internazionale (pp.
251-257) correda il volume. La parte descrittiva ci sembra meglio riuscita di quella
interpretativa, a volte un po’ azzardata (cfr
l’esegesi fornita della parabola degli “operai
dell’ultima ora” (Mt 20,1-16) a p. 248).
Nell’insieme, anche se si tratta di un testo
di approfondimento, l’argomento avvincente invoglia alla lettura, e l’IdR di scuola secondaria potrà trarne significativi spunti didattici (F.M.).
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Un viaggio in Giappone
Il cammino verso Dio è sempre un tragitto dal basso verso l’alto, un movimento progressivo in direzione di un nucleo intimo, segreto, celato, chiamato oku. Nello spazio sacro l’uomo deve seguire un
cammino obbligato attraversando l’unica entrata accessibile segnata da un portale di legno o di pietra denominato torii.
L’architettura sacra nipponica allude a due movimenti
antitetici ma convergenti,
quello di Dio e quello dell’uomo: il limite del progredire dell’essere umano all’interno della zona sacra deve
coincidere con il punto più
basso di Dio, segnandone
così il confine. L’edificazione principale del tempio,
luogo in cui si rende possibile l’unione di Dio con
l’uomo, è posta a una distanza più o meno lunga dal portale d’entrata e la strada è realizzata da gradinate, oppure allungata artificialmente con un tracciato tortuoso. L’incontro con di Dio nella solitudine, nella fatica e nel silenzio dell’oku è essenzialmente un’esperienza mistica (E. Giappichelli).
La tradizione dello shintoismo insegna che l’essere
umano può riuscire a percepire il divino non per via
razionale, quanto piuttosto attraverso un processo
intuitivo ed emozionale.
Elemento caratterizzante dello shinto è appunto
l’incontro intimo con la natura; ogni luogo è considerato potenziale abitazione di un kami, entità
soprannaturali schive e misteriose, dotate di poteri
atti a creare e distruggere. Un antico bosco, una
roccia, una cascata, un albero centenario segnato
da una corda di paglia intrecciata (shimenawa) e da
nastri di carta piegata (gohei) istituiscono uno spazio sacro e puro in cui l’uomo può cogliere la presenza dell’assoluto, soprattutto quando, anche solo
per un istante, ha maturato silenzio dentro sé e si è
lasciato assorbire nell’immensa bellezza della natura (E. Giappichelli).
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La cultura giapponese opera una generale suddivisione tra due spazi ecosistemici distinti a cui corrispondono spazi culturali che non vengono concepiti in vicendevole opposizione, ma in termini di indispensabile complementarietà: lo spazio articolato nigi, legato all’uomo, e lo spazio inarticolato ara,
associato al non umano.
Come axis mundi, nella cosmologia sciamanica, la montagna è il luogo di congiunzione tra il cielo e la
terra, fra divino e l’umano, spazio dove si può transitare da un universo cosmico all’altro. L’oku della
montagna è la sommità, il territorio che non può essere coltivato né ordinato; per sua natura uno spazio estraneo e non umano la cui negatività è resa positiva dalla prassi religiosa che si trasforma in un’esperienza ascetica, una ricerca spirituale sofferta ma esaltante, colma di libertà e grazia.
Dal punto di vista religioso, ascendere la montagna è un percorso cui corrisponde una trasformazione
interiore dell’individuo che rinasce come “uomo nuovo”. Vestito di bianco (il colore della purezza e
della morte) lo yamabushi si incammina in solitudine verso la montagna (E. Giappichelli).
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Lettere per pensare
a cura della Redazione
Si fa gran discutere della riforma Gelmini. Troppo spesso però si ascoltano opinioni che non entrano nel merito, ma si limitano a prendere posizione per assunto ideologico o per questioni economiche. Alcune/i insegnanti della scuola di Clusone (Bg) hanno scritto una lettera che invita a
riflettere, sulla base di argomentazioni legate alla didattica e non a preconcetti. Riportiamo il testo senza esprimere un giudizio sul merito delle questioni, ma apprezzandone fino in fondo il
metodo argomentativo, appassionato ma sereno. A distanza di qualche mese da quando il testo è
stato scritto e dopo la conversione in legge del decreto “incriminato”, le osservazioni suggerite possono ancora far riflettere. E ci piacerebbe che anche i nostri lettori intervenissero nel dibattito,
scrivendo a: [email protected].
Maestro unico? No, grazie!
Siamo gli insegnanti della scuola primaria
dell’Istituto Comprensivo di Clusone
(BG), molti dei quali con più di trent’anni
di servizio alle spalle, trascorsi tra una
molteplicità incommensurabile di programmi, riforme, differenti criteri di valutazione, e quindi differenti pagelle e giudizi, svariati modelli educativi e tempi scolastici (maestro unico, tempo pieno sperimentale, tempo prolungato, classi aperte,
moduli tre su due, moduli quattro su tre,
maestro prevalente, maestro tutor e chi più
ne ha più ne metta).
Ad ogni cambiamento, non sempre effettuato per motivi pedagogici o didattici, ma
spesso solo politici ed economici, ci siamo
impegnati a riconvertire le nostre competenze per ricostruire un modello scolastico che
fosse innanzitutto di aiuto alla crescita degli
alunni.
Dopo le trovate poco felici del ministro Moratti sul maestro tutor, sul portfolio e su
quelle indicazioni di programmi confuse e
decisamente poco fruibili, pensavamo, negli
ultimi due anni, di aver finalmente ritrovato
un equilibrio sensato, rispettoso dell’autonomia dei docenti e della personalità in formazione degli scolari.
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Troppa grazia! Il nuovo governo “ha pensato
male” di mettere a guida del mondo della
scuola una persona completamente estranea
alla nostra realtà.
L’on. Gelmini si preoccupa del grembiulino
(materia a parer nostro non di sua competenza, ma delle singole scuole e dipendente
dalla situazione socio-culturale dell’ambiente di appartenenza), della valutazione in decimi che dovrebbe “chiarire” i giudizi globali
(i genitori non sono analfabeti e hanno sempre capito benissimo quello che volevamo
dire), del cinque in condotta e, dulcis in fundo, del ritorno al maestro unico. Ogni nuovo
governo è sempre preoccupato di fare qualcosa solo per disfare ideologicamente quanto
creato dal governo precedente: non è necessario fare a tutti i costi, se non si sa bene di
cosa ci si sta occupando; così sono più i
danni che i vantaggi.
Vorremmo chiedere al nuovo ministro
quante volte è entrata in una classe di scuola
primaria e ha toccato con mano cosa significhi occuparsi veramente dell’educazione e
dell’istruzione di venti/venticinque alunni
provenienti dalle più disparate realtà socioculturali. In ogni modulo tipo del nostro
Istituto (per modulo intendiamo due classi
parallele) ci sono in media quarantacinque
scolari, di cui uno o più handicappati gravi,
bambini con disagio psico-fisico, alunni residenti in una comunità, e quindi con comprensibili problematiche socio-affettive, altri
seguiti da psicologo, ortofonista, psicomotricista…, numerosi stranieri, alcuni dei
quali senza la minima conoscenza della lingua italiana. Le poche, ma estremamente
preziose, ore di compresenza dei tre insegnanti del modulo (complessivamente sei su
trenta alla settimana) sono in parte dedicate
alle supplenze, in parte al sostegno individualizzato e al recupero dei bambini in difficoltà,
in parte ancora per proporre le obbligatorie
attività alternative a chi non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica. Intanto
i due maestri presenti nelle due classi educano, istruiscono, incitano e correggono tutti
gli altri alunni. Scusi se è poco!
Il Ministro Tremonti, durante una nota trasmissione, ha dichiarato che non capisce
perché oggi occorrano «tre maestre per trenta alunni, mentre una volta bastava una sola
maestra per tre classi». Vorremmo ricordargli
alcune cose:
• prima di tutto l’informazione è errata
perché tre maestri lavorano su due classi,
anche di venticinque, ventisei alunni ciascuna, e non su una classe sola! Sono presenti due docenti sulla stessa classe esclusivamente nelle sei ore di contemporaneità settimanali; nelle restanti ventiquattro ore il maestro è uno solo per sezione;
• nei piccoli plessi, dove non ci sono classi
parallele, la situazione è critica proprio
perché le compresenze sono pressoché
nulle;
• “una volta” un unico maestro doveva insegnare solo italiano, matematica e qualche sporadica nozione di storia, geografia
e scienze. Non esistevano gli studi sociali,
la musica, l’arte, l’educazione motoria,
l’inglese, l’informatica, l’ed. stradale, l’ed.
alimentare, l’ed. alla salute, l’ed. all’affet-
tività, il teatro, i laboratori…;
• “una volta” non erano inseriti nelle classi
i bambini diversamente abili (erano relegati nelle scuole speciali);
• “una volta” non erano presenti alunni
stranieri che, pur essendo uno stimolo all’apertura verso altre culture, richiedono
tempo e attenzioni particolari perché
non capiscono e non parlano la nostra
lingua e vanno aiutati ad integrarsi nel
nuovo tessuto sociale;
• “una volta” la scuola era la sola agenzia
educativa, dopo la famiglia, e il maestro
era visto come unica e incontestabile figura di riferimento per tutti.
Ci sembra chiaro che i tempi sono cambiati,
che la società odierna, con la sua molteplicità di proposte e offerte formative, necessiti
di una scuola più specialistica, originale e
ricca di quella nostalgicamente rimpianta.
Il maestro non può e non deve essere un “tuttologo” che si arrabatta alla meno peggio
per fare troppe cose e in poco tempo, ma il
membro di un’équipe di lavoro dove il confronto e la collaborazione sono carte vincenti
per analizzare e risolvere le problematiche
di una classe e per sostenere insieme, di
fronte alla famiglia, le scelte educative effettuate.
Anche il ritorno alle 24 ore settimanali è per
noi assurdo. Che cosa elimineremo? Alcune
ore di italiano e matematica, per leggere ancora sui giornali che siamo un popolo di
analfabeti? O le ore di arte, musica e sport,
così importanti per la formazione della persona?
La scuola del maestro unico è, proprio come
una volta, la scuola della porta chiusa, del
banco degli “asini”, dove chi è in difficoltà
non può essere seguito e recuperato individualmente, ma viene a poco a poco isolato e
lasciato a se stesso…
Noi vogliamo essere i maestri di tutti e la
scuola del Ministro Gelmini non ci piace!
61
Vorremmo chiedere anche per quale motivo,
ancora una volta, viene rivisitata e penalizzata l’organizzazione della scuola primaria che
invece, secondo i dati dell’OCSE, è ai primi
posti in Europa per risultati. Se sono stati
raggiunti punti di eccellenza è solo perché
questa organizzazione (alla quale siamo arrivati dopo anni di faticose sperimentazioni,
prove e riprove) funziona davvero. Ma forse
è troppo costosa? Allora, Ministro, sia più
sincera, non si mascheri dietro principi pedagogici e sociali che non hanno alcun fondamento (ricordi che i bambini possono
meglio trovare il loro punto di riferimento
con più figure educative che con una sola) e
dica chiaro e tondo agli Italiani che le è stato
chiesto di tagliare le spese e risparmiare a
tutti i costi, anche sacrificando migliaia di
posti di lavoro…
È stato detto in più interviste che la scuola è
malata, che è affetta da un grave virus che la
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porterà alla morte. Se torneremo alla scuola
di cinquant’anni fa, la morte sarà certa, veloce e dolorosa.
Per cortesia, onorevole Gelmini, sia più democratica: ascolti che cosa abbiamo da dire
noi insegnanti, dia retta a chi la scuola la
ama e la vive davvero e ci lasci lavorare in
modo serio e intelligente, con tutta la passione e la buona volontà che abbiamo sempre dimostrato.
Non sappiamo cosa farcene di “premi e incentivi”, se questi sono ottenuti a discapito
della qualità dell’insegnamento. Abbiamo
subìto tanto, ma reagito sempre con impegno e dignità professionale. Ora però non
venga a raccontarci che siamo troppi, che
siamo inutili!
Clusone, 30 settembre 2008
Il Collegio dei Docenti
della Scuola Primaria di Clusone
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C L A S S I
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Programmiamo anche le verifiche
Caterina Basile – Massimiliano Ferragina
In classe oggi è proprio andata bene! Gli
alunni ci hanno ascoltato con attenzione,
noi eravamo particolarmente carismatici, gli
interventi erano mirati e pertinenti e qualche volta ci siamo un po’ sentiti come dovette sentirsi Mosè con le sue belle tavole di
pietra mentre spiegava al suo popolo la verità di cui era latore. Con il cuore pieno di
soddisfazione per noi stessi prendiamo la
scheda di verifica proposta da uno dei tanti
testi che conserviamo all’uopo e la forniamo
in fotocopia. Quella troppo semplice l’abbiamo scartata, perché gli alunni sono tanto
bravi e l’avrebbero risolta in pochi minuti,
ma quella lì, a cui abbiamo dato un’occhiata
distratta, ci è sembrata adatta e adesso attendiamo fiduciosi. Ma il risultato è un disastro… Alla correzione sembra di aver parlato
ad una classe di alunni stranieri che hanno
capito ben poco di quello che abbiamo detto… Colpa di una didattica sbagliata? Forse.
Oppure era sbagliata proprio la verifica?
Partiamo dalla programmazione.
Nel momento in cui programmiamo abbiamo presente la scuola, le classi, gli alunni
per cui stiamo prevedendo un percorso didattico ed educativo. Quello che stiamo progettando di fare è di realizzare un cambiamento nelle menti, nel cuore, nella personalità di ogni singolo alunno per cui, alla fine
dell’anno, non sarà più indifferente per lui
l’averci incontrato nella sua strada di crescita. Questo cambiamento dovrà rispondere,
in tutto o in parte, al nostro obiettivo educativo, farà di quel singolo alunno un bambino (o un ragazzo) più consapevole, più
critico e più informato su un determinato
argomento ma anche più curioso verso altre
mete di apprendimento possibili.
Ma come facciamo a sapere se l’obbiettivo è
stato raggiunto? Proprio attraverso la verifica
finale. Eppure, non di rado, la verifica è la
parte più estranea e superficiale della nostra
didattica. Non possiamo delegare a testi,
guide o riviste un momento così importante. La nostra verifica deve essere pensata,
strutturata e organizzata prima di tutto perché sia adatta agli alunni veri, in carne ed
ossa, a cui è destinata e poi perché sia coerente con il nostro linguaggio, con gli argomenti che abbiamo privilegiato, con le competenze che abbiamo messo a disposizione
della classe. La verifica va programmata, va
pensata e va costruita da noi stessi, se possibile. La verifica è un’unità di misura che ci dà
la cifra dell’apprendimento degli alunni e del
successo della nostra didattica. Non dimentichiamo, inoltre, che i criteri di verifica devono essere in armonia con quelli scelti dai nostri colleghi di classe. Se, in Prima, l’insegnante non ha ancora affrontato la sillaba
gno o gnu, non possiamo chiedere all’alunno
di segnare con un segno il disegno con il ragno.
Possiamo anche sorridere ma l’interdisciplinarietà non è solo una lunga parola.
Come costruire delle verifiche? Tenendo presente quello che vogliamo misurare.
Poniamo che l’obiettivo, per una Seconda,
sia: «L’alunno conosce l’amore di Dio attraverso la parabola della pecorella smarrita».
Posto che l’alunno conosca già Gesù e la sua
storia terrena, cosa dobbiamo verificare?
Che l’alunno sappia cosa è una parabola, almeno sommariamente; che sappia quale era
la funzione di un pastore; che abbia compreso il senso della ricerca del pastore e, in ultimo ma non ultimo, che capisca il senso del
perdersi dal punto di vista della pecora. Uti63
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lizziamo pure i sussidi forniti da testi e riviste, ma controlliamoli oppure prendiamo
spunto da loro per costruire una verifica tutta nostra. Elaboriamo un elenco di elementi
da verificare:
1. comprensione del testo narrato (comprensione degli elementi principali della
parabola, della sequenza cronologica degli avvenimenti, comprensione delle diverse funzioni dei personaggi della storia);
2. comprensione del nucleo significativo
del racconto;
3. comprensione dei sentimenti espressi dai
personaggi
Se gli alunni sanno già leggere e scrivere
possiamo costruire una verifica scritta, ma
senza dimenticare che la capacità di rielaborare oralmente una storia è significativa di
una certa maturità e va quindi valutata con
serietà.
Per questi motivi la programmazione dell’UdA deve contenere le linee progettuali della
verifica la quale, a sua volta, deve essere progettata utilizzando non solo gli stessi contenuti della lezione ma persino lo stesso linguaggio. Non si rischierà, così, di disorientare gli alunni o di scoprire che nella scheda
fornita ci sono domande relative a contenuti
che non abbiamo trattato.
Facciamo un esempio concreto per guidare
l’insegnante che legge a passare dalla teoria
alla prassi quotidiana:
OSA: La preghiera espressione di religiosità
Obiettivo formativo: Scoprire che, nel mondo,
l’uomo ha dato risposte diverse all’insopprimibile desiderio di Dio.
Apprendimento unitario da promuovere:
Scoprire che tanti credono in un Creatore e che
vi sono tanti modi di pregare nella storia e nel
mondo oggi
Verifica: scheda strutturata che valuti che l’alunno alla fine dell’unità di apprendimento:
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A P E R T E
• ha imparato che nel mondo altri bambini
posseggono una fede in un Dio creatore e
protettore
• ha scoperto che molti sono i modi di pregare.
Se gli obiettivi sono stati chiaramente
espressi in programmazione, se sono misurabili, se si sono costruiti con professionalità
gli strumenti di misurazione, si potrà allora
valutare se la didattica esplicitata ha avuto
successo oppure è da rivedere per uno dei
due aspetti progettati, o per entrambi.
Questo significa programmare le verifiche e
non, sicuramente, sapere già all’inizio dell’anno scolastico quale scheda useremo per
verificare. Chiariamo che i traguardi di
competenza devono essere micro-traguardi,
cioè separabili in piccoli nuclei di conoscenza, più facilmente misurabili.
Come IdR programmo le verifiche…sarà
una cosa seria?
Fin’ora parlare di verifica ci ha portati a concludere che certamente non è un compito
sbrigativo: richiede tempo e competenze
nell’individuare e stendere prove che siano
adeguate alla classe o addirittura al singolo
alunno.
Programmare anche le verifiche è segno di
attenzione pedagogica e didattica, oltre che
segno forte di professionalità. L’IdR che
pensa le sue verifiche difficilmente sarà dimenticato dagli alunni, perché essendone i
destinatari sapranno riconoscere il tocco del
loro insegnante.
Programmare l’attività di verifica è cosa serissima perché solo in questo modo l’insegnante individua i bambini che procedono
nell’apprendimento e quelli che invece incontrano difficoltà. Nel caso specifico dell’IRC è molto rilevante anche l’osservazione
diretta che l’insegnante stesso può fare durante le attività, non sostituibile dalla “scheda di verifica” fotocopiata all’ultimo minu-
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C L A S S I
to, con la quale si rischia di disorientare l’alunno o, peggio, sentirsi dire: «maestra/o (o
prof.), ma questo non l’abbiamo fatto…!».
L’alunno è stato bravo a riconoscere un contenuto estraneo, ma per noi sarà un momento squalificante. L’osservazione come momento di verifica ci aiuta a cogliere meglio i
ragionamenti che i bambini fanno, le domande che si pongono, le risposte che danno, le giustificazioni che offrono a sostegno
delle risposte. L’insegnante può intervenire
per aiutare, guidare, far riflettere su aspetti
passati inosservati o non ancora considerati,
far rilevare analogie e differenze. Per i contenuti dell’IRC, oltre che l’alunno conosca
una data storica o il nome di un personaggio, quello che risulta difficile verificare è
quanto hanno imparato a ragionare, a discutere, a porsi interrogativi sui contenuti e i
loro elementi. Questi dati sono difficilmente
rilevabili attraverso schede di verifica predisposte. La nostra disciplina non può prescindere dal verificare anche le capacità critiche e di conseguenza ci impegna a essere
somministratori di schede e anche attenti
osservatori delle riflessioni dell’alunno che
tenta di esprimere il suo pensiero in ogni
momento, non solo in quelli ufficiali come
“il giorno della verifica”!
Non possiamo avere dubbi sul fatto che programmare le verifiche sia importante e fondamentale nella scuola primaria, come non
possiamo ignorare il fatto che non tutti gli
alunni raggiungeranno gli obiettivi, ed è
proprio in questi casi che maggiormente la
verifica deve essere seriamente formulata e
costruita sull’alunno e per l’alunno che incontra qualche difficoltà che, diciamoci la
verità, esiste in tutte le classi e vive il momento della verifica come una frustrazione.
Se riuscissimo ad evitare questo rischio, l’alunno lo riconoscerà e ci qualificherà come
“suo insegnante”, creando il giusto presupposto per una relazione educativa sana, equi-
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librata e costruttiva. Proponiamo questo secondo esempio che può aiutare a comprendere meglio ciò di cui stiamo parlando ed
evita il rischio di una banale interpretazione.
OSA: Dio Creatore e Padre di tutti gli uomini.
Obiettivo formativo: riconoscere nel creato
l’opera di Dio assumendo comportamenti responsabili e impegno per il benessere di ogni essere umano.
Apprendimento unitario da promuovere:
Scoprire attraverso i racconti della Genesi 1 e 2
l’azione creatrice di Dio Padre che affida agli
uomini un mondo da rispettare e custodire.
Verifica: scheda e osservazione strutturata che
valuti che l’alunno alla fine dell’unità di apprendimento:
• ha imparato che il libro della Genesi 1 e 2
racconta la Creazione del mondo da parte
di Dio
• ha manifestato atteggiamenti di responsabilità verso l’ambiente.
In questo scheletro di UdA notiamo che gli
obiettivi programmati non solo contengono
dei contenuti (da conoscere e acquisire) ma
scaturiscono a loro volta un determinato
comportamento e atteggiamento che non
può essere contraddittorio rispetto al contenuto stesso. In altre parole, se l’alunno conosce la narrazione della Creazione in Genesi, di
conseguenza svilupperà comportamenti adeguati (almeno si spera) che non possono essere verificati e valutati con delle schede didattiche, ma necessitano di una osservazione precisa, costante e attenta. La verifica dei comportamenti ci aiuta a comprendere anche
quanto il contenuto sia stato appreso; e se notiamo discordanza tra la teoria e la pratica, la
verifica comunque ha avuto successo ed è
consigliabile intervenire con una nuova azione didattica e nuovi momenti di verifica che
evidentemente non possono essere programmati una volte per tutte ma solo in itinere.
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La correzione… momento comunitario?
Tutte le situazioni che si utilizzano per parlare con gli alunni sono utili anche a far scrivere chiedendo di esperienze vissute, costruzioni di racconti e descrizioni, ma non solo.
Soprattutto nei primi due anni della scuola
primaria si presta molta attenzione alla conversazione come verifica, evitando schede
meccanicistiche che non assolvono pienamente al loro compito di documentare l’apprendimento dell’alunno e quindi permettere all’insegnante di valutare in modo autentico. Già nel corso del terzo anno è opportuno guidarli alla costruzione di testi organici
coerenti e completi, alla compilazione di
schede redatte a misura della nostra programmazione e della classe. Gli alunni devono vivere la verifica come un beneficio, come un momento didattico attivo e non passivo. Pianificare la verifica significa anche
questo. Per l’IdR che in classe dispone di
due ore a settimana è importante che la pianificazione, all’inizio e in buona parte dell’anno, delle verifiche non sia un lavoro solo
individuale ma trasversale alle altre discipline, per scoprire insieme modalità diverse,
approcci variegati, strategie e procedure idonee. Anche la correzione, momento importante della verifica, operata in modo collettivo o a piccoli gruppi con gli alunni arricchisce l’attività stessa, dove i lavori eseguiti particolarmente bene possono essere presentati
a tutti e i lavori “carenti” possono essere in
quel momento occasione di analisi e recupero dell’errore senza traumi o asimmetrie
troppo evidenti nel gruppo classe. Correggere spesso per l’insegnate è un’attività assolutamente privata, fortunatamente non per
tutti è così! Può diventare un momento da
vivere insieme, comunitario, dove il rapporto tra insegnante e alunno cresce, non si limita alle sole spiegazioni o alla illustrazione
1
A P E R T E
di concetti e quindi all’apprendimento e basta, ma va oltre, rendendo il “correggere” un
tempo di crescita e una vera e propria attività didattica. Certo capiamo che sono da
evitare frasi come «sei il solito», «sempre tutto sbagliato», «se continui così…», «mi hai
deluso», frasi tipo che non ci sono estranee.
Una cura del linguaggio che conquisti la fiducia degli alunni, così che possano riconoscere in colui che spiega e verifica un aiuto a
crescere nel rispetto reciproco e nell’ascolto
interessato, crea il presupposto necessario
per un clima favorevole, nel quale anche la
verifica diventa un’espressione positiva di
condivisione1.
Bibliografia
I. F IORIN , La relazione didattica, Ed. La
scuola, Brescia 2004.
M. CORDA COSTA, A. VISALBERGHI, Misurare e valutare le competenze linguistiche, Ed.
Angeli, Milano 1995.
B. VERTECCHI, G. AGRUSTI, Laboratorio di
valutazione, Ed. Laterza, Bari 2008.
Sitografia
www.nonsoloscuola.org
F. MONTUSCHI, L’aiuto fra solidarietà e inganni. Le parole per capire e agire, Assisi, Cittadella Ed., 2002.
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N O T I Z I E
L E G A L I
E
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Pronte le ricostruzioni per gli IDR
in ruolo dal 2005/06
di Angelo Zappelli
Il MIUR ha comunicato che dal 9 dicembre
è attivo il servizio informatico per le ricostruzioni di carriera dei docenti di religione
immessi in ruolo con il primo scaglione,
dall’1.9.2005. La notizia è stata diramata dal
Dipartimento per la programmazione con
Nota ministeriale n. 1742 del 11.12.2008.
Finalmente il famigerato SIDI, il sistema
informatico ministeriale utilizzato dalle segreterie scolastiche in rete con tutta l’amministrazione, si è preso carico anche delle ricostruzioni di carriera dei docenti di religione cattolica. Si tratta di una operazione attesa e richiesta da ben due anni, poiché legata
alla conferma in ruolo, che per tali docenti è
scattata alla fine dell’anno di prova, cioè
l’1.9.2006. Ovviamente tutto fa pensare che
di seguito avverranno le analoghe aperture
di funzione anche per i docenti degli altri
due scaglioni di docenti, confermati
l’1.9.2007 e l’1.9.2008. È vero che un certo
lasso di tempo è necessario per dar modo
agli uffici della Ragioneria di Stato di registrare i contratti a tempo indeterminato ed
al Tesoro di trasmettere tutti i dati stipendiali al SIDI, tuttavia, non sembra possibile
tollerare tali ritardi in tempi di informatizzazione accelerata di tutte le informazioni.
In ogni caso la nota delinea la procedura
operativa da seguire per le ricostruzioni di
carriera dei docenti di religione di ruolo,
particolare solo perché deve tener conto di
una precedente ricostruzione (spettante dopo
quattro anni di servizio non di ruolo), che si
sviluppa in tre fasi:
1. la retribuzione in godimento al momento
dell’immissione in ruolo (31.8.2005) vie-
ne distinta in due parti come già fatto in
occasione della stipula del contratto a
tempo indeterminato (in cui le due somme già si trovano separate): una prima
parte è fissa per i due ruoli (16.703,50
per la primaria e 18.128,79 per la secondaria) e corrisponde a quella della posizione iniziale nelle tabelle economiche
contrattuali; una seconda è invece variabile a seconda della posizione stipendiale
in cui si era inquadrati, poiché corrisponde alla differenza tra la posizione iniziale
e quella realmente in godimento, da attribuire quale assegno ‘ad personam’ utile a
garantire il mantenimento della retribuzione senza possibili diminuzioni, come
garantito dal’art. 1-ter della legge 27/06;
2. viene riconosciuto il servizio prestato in
condizione non di ruolo, attribuito in
base ad essi il nuovo inquadramento stipendiale negli scaglioni contrattuali e determinato se necessario il nuovo assegno
‘ad personam’, utile a garantire il mantenimento della retribuzione già percepita
fino al successivo passaggio di scaglione;
3. si sviluppa la nuova progressione di carriera per scaglioni stipendiali, sulla base
degli aumenti contrattuali e dello scorrimento dell’anzianità.
Senza pretendere di entrare nella materia
più tecnica offerta dalla nota che si rivolge
poi alle operazioni da compiere per il disbrigo dell’operazione informatica, si può sintetizzare che:
1. alle segreterie scolastiche è data la facoltà
di aprire e svolgere una pratica informatizzata di ricostruzione di carriera sulla base
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N O T I Z I E
2.
3.
4.
5.
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della domanda dei docenti di religione e
della dichiarazione dei servizi prestati;
l’operazione si compie con la garanzia legislativa del mantenimento della retribuzione in godimento: nessuno potrà perderci economicamente, né durante l’anno di prova in cui la vecchia progressione
di carriera è sospesa, né con la conferma
in ruolo cui segue la nuova progressione;
se ci fossero stati errori nelle operazioni
precedenti (stipendio durante l’anno di
prova o oltre) questi potranno essere sanati
al termine della procedura, che permette
di incrociare i dati del Tesoro (stipendio
percepito) con quelli dell’attuale ricostruzione (stipendio spettante);
non sono previste norme speciali ma solo
quelle comuni a tutti i docenti che entrano in ruolo (art. 485 del Testo Unico);
il saldo degli eventuali debiti o arretrati
spetta alle direzioni del Tesoro una volta
espletata la procedura suddetta.
E
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Con tutto ciò, sottolineato il carattere fortemente positivo della nota, che chiude la
questione assai complessa del trattamento
economico dei docenti di religione, nella
fase di passaggio dal non ruolo (con equiparazione economica) al ruolo, si spera che
non sorgano imprevisti e difficoltà al momento dell’ingresso reale nell’operazione
informatica, dovendo riportare ad un sistema organico la reale disorganicità del trattamento economico di tale categoria di docenti. Il riferimento è alla frequente mancanza di un vero e proprio decreto di ricostruzione per il periodo del servizio non di
ruolo. Spesso le istituzioni scolastiche hanno mantenuto la progressione derivante
dai nuovi inquadramenti del CCNL del
1995 acquisiti in blocco dal Tesoro, senza
mai trasformarli in decreti dal 2000 in poi.
All’indubbia positività dell’apertura della
funzione, dunque, deve seguire la verifica
dei fatti.
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA
Dipartimento per la programmazione
Direzione Generale per gli Studi e la
Programmazione e per i Sistemi Informativi
Ufficio III
Prot. 1742
Roma, 11 dicembre 2008
Ai Dirigenti Scolastici
Ai Dirigenti degli USP
LORO SEDI
Oggetto: ricostruzione carriera degli Insegnanti di Religione Cattolica immessi in ruolo
dall’a.s. 2005-06.
Si comunica che dal 9 c.m. è disponibile su SIDI la procedura per l’emanazione dei provvedimenti
di ricostruzione della carriera per gli Insegnanti di Religione Cattolica che hanno assunto servizio
di ruolo negli anni scolastici 2005-06, 2006-07 e 2007-08. La procedura informatizzata applica la
normativa vigente, che si descrive nel seguito.
La Legge 3 febbraio 2006, n. 27, all’art. 1-ter, ha previsto che «Ai fini applicativi dell’articolo 1,
comma 2, della legge 18 luglio 2003, n. 186, gli insegnanti di religione cattolica destinatari dell’inquadramento nei ruoli previsti conservano, a titolo di assegno personale riassorbibile con i futuri
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miglioramenti economici e di carriera, l’eventuale differenza tra il trattamento economico in godimento e quello spettante in applicazione del suddetto inquadramento».
L’applicazione della norma avviene nel modo seguente:
1. alla data di decorrenza economica dell’immissione in ruolo, viene attribuito l’inquadramento
economico iniziale; si calcola e si attribuisce l’eventuale assegno personale riassorbibile come
differenza tra la retribuzione “trattamento fondamentale” in godimento e quella derivante dall’inquadramento, più l’eventuale differenza tra la retribuzione professionale docenti in godimento e quella derivante dall’inquadramento;
2. alla data di conferma in ruolo avviene il riconoscimento dei servizi, a norma dell’art. 485 e seguenti del T.U. dell’istruzione DPR 297/1994; si attribuisce il nuovo inquadramento e si ridetermina l’eventuale assegno personale riassorbibile residuo, come specificato al precedente punto 1;
3. si sviluppa la progressione di carriera per posizioni stipendiali, secondo le vigenti tabelle contrattuali, e si attribuiscono gli incrementi alle date previste dai CCNL; ad ogni inquadramento
si ridetermina l’eventuale assegno personale riassorbibile residuo, come specificato al precedente punto 1.
La procedura applica, inoltre, le seguenti norme:
• riconoscimento alla nomina in ruolo di benefici ex combattenti e categorie equiparate, ai sensi
dell’art. 1 della Legge 24 maggio 1970, n. 336, da riassorbire ai sensi dell’art. 4, comma 5, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, di interpretazione autentica del citato art. 1
• riconoscimento alla nomina in ruolo del servizio militare, ai sensi dell’art. 485, comma 7, del
citato T.U. dell’istruzione.
Operazioni su SIDI
Le utenze SIDI delle istituzioni scolastiche sono abilitate ad aprire le pratiche di ricostruzione carriera degli insegnanti di Religione in servizio presso le proprie sedi. Pertanto sarà cura degli USP
provvedere alla comunicazione a SIDI della sede di servizio aggiornata, mediante la funzione Assunzioni => Gestione sede di servizio - Insegnanti Religione Cattolica => Assegnare sede di servizio
oppure Assegnare sede di servizio annuale.
L’iter procedurale, in carico alla segreteria scolastica, è il seguente:
• acquisizione della data di conferma in ruolo, mediante la funzione Assunzioni => Gestione
perfezionamento assunzione in servizio => Acquisire effetti periodo di prova
• acquisizione dei servizi da riconoscere, mediante la funzione Personale scuola => Gestione delle
competenze del dipendente => Dichiarazione servizi pregressi (quadro D: servizi di insegnamento pre-ruolo; quadro B: servizio militare, benefici L. 336/70; quadri T, U, V, Z: servizi nelle Università)
• apertura della pratica di ricostruzione carriera, mediante la funzione Personale scuola => Gestione della carriera => Riconoscimento servizi e benefici => Aprire pratica.
Le modalità operative di queste funzioni restano invariate, con la seguente eccezione.
La funzione di Calcolo della Progressione di Carriera propone una mappa con l’ultima posizione
stipendiale e gli eventuali elementi retributivi “ad personam” in godimento nella posizione pre-ruolo. Queste informazioni sono state fornite dal Sistema Informativo del Tesoro (SPT); sarà cura della
segreteria scolastica accertare la conformità di questi dati con la progressione di carriera attribuita nel
corso dell’ultimo incarico a tempo determinato; la funzione consente l’eventuale rettifica dei dati.
Per ulteriori dettagli sulle modalità operative si rinvia al manuale utente aggiornato disponibile sul
portale SIDI alla voce Procedimenti Amministrativi => Personale Scuola => Guide operative =>
Gestione della carriera.
IL DIRIGENTE
f.to Paolo De Santis
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IL CNPI PER LA PARI DIGNITÀ
DEGLI IDR SULLA VALUTAZIONE
Il Consiglio Nazionale della Pubblica
Istruzione si schiera a favore della «pari dignità» tra i docenti di religione e gli altri
docenti, in ordine alla valutazione. La richiesta del maggiore organo della democrazia scolastica è collocata in un passaggio
del parere approvato nella seduta del 17
dicembre 2008 dedicata all’esame dello
schema di regolamento sulla valutazione
degli alunni.
Il parere era stato richiesto dal Ministro,
come d’obbligo, prima dell’emanazione
del provvedimento applicativo dell’art. 3
della legge 169/08, quella che ha disposto
l’uso dei decimali nelle valutazioni periodiche e finali di tutte le scuole del I e II ciclo. Dopo un attento esame dello schema
proposto dal Ministro, il CNPI si è espresso con un parere favorevole ma condizionato all’accoglimento di alcune osservazioni, tra cui quella contenuta nella conclu-
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sione della premessa del parere (rintracciabile per intero sui siti sindacali) e che recita esattamente: «Il CNPI rivendica, altresì,
la necessità di garantire la pari dignità di
tutti gli insegnanti, concorrendo ciascuno alla crescita dello studente nel rispetto delle sue
vocazioni ed attitudini, in modo da evitare
inaccettabili differenziazioni, tra gli insegnanti di educazione fisica e religione e gli
altri insegnanti».
Il motivo della richiesta del CNPI sta nella
riproposizione, nel testo proposto dall’Amministrazione, delle vecchie discriminazioni a carico dei docenti di religione (risalenti alla legge 824 del 1930) e di educazione
fisica, a proposito delle modalità di espressione del voto e della validità di esso in alcune occasioni, come quella della determinazione della media dei voti.
Da notare che il parere è stato approvato a
maggioranza dai consiglieri facenti riferimento alle liste della Cisl-scuola, Snals e
Uil-scuola. Contrari quelli facenti riferimento alla Flc-Cgil.
D I A R I O
S C O L A S T I C O
Diario scolastico
di Filippo Morlacchi
Il crocifisso: collocazione provvisoria?
Tra gli scritti più conosciuti di don Tonino
Bello c’è una folgorante meditazione sul senso della sofferenza, nota con il titolo «Collocazione provvisoria». La riassumo: il vescovo
trovò nel Duomo di Molfetta un crocifisso
malamente appoggiato alla parete della sagrestia, in attesa di migliore e definitiva sistemazione; qualcuno, per giustificare la trasandatezza, vi aveva apposto un cartello con la
scritta “collocazione provvisoria”. «La scritta
– aggiungeva don Tonino – mi è parsa provvidenzialmente ispirata. Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore
per definire la Croce. La mia, la tua croce,
non solo quella di Cristo. “Da mezzogiorno
fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su
tutta la terra”. Ecco le sponde che delimitano
il fiume delle lacrime umane: da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Dopo tre ore, ci
sarà la rimozione forzata di tutte le croci».
Saggissima e meravigliosa, la riflessione del
vescovo pugliese: la croce è realtà inevitabile
ma transitoria; nell’eternità ci sarà solo il Risorto e la vita eterna. Sembra però che adesso
ai crocifissi presenti nelle aule scolastiche debba toccare una precarietà ancora maggiore, e
che su di essi debba essere aggiunto il cartello
di “collocazione provvisoria”. Almeno in Spagna. Un giudice del tribunale di Valladolid
con sentenza del 14 novembre 2008 ha infatti ordinato a una scuola pubblica della sua
città di rimuovere tutti crocifissi dalle pareti.
La motivazione? I crocifissi, al di là della loro
valenza storico-culturale, continuano ad avere
un chiaro significato religioso (e fin qui, non
ci piove). Ma proprio per questo, sentenzia il
magistrato, la loro presenza all’interno di un
istituto scolastico pubblico ingenera, o può
ingenerare, nei piccoli alunni la convinzione
che lo Stato sia più vicino alla confessione religiosa di cui tali simboli sono espressione, e
quindi vanno rimossi.
Il commento più ovvio, mi sembra, è che
questa sentenza non esprime la strada giusta
verso quella tolleranza tanto sbandierata dai
laici(sti). Sembra piuttosto che si vada verso
quella “laicità dell’azzeramento”, in cui la religione – ogni religione! – va eliminata dallo
spazio pubblico. Checché ne dica il giudice,
non si può proprio dire che lo Stato spagnolo
dia l’impressione di essere oggi più vicino al
cristianesimo di quanto lo sia rispetto ad altre
religioni (anzi, a dire il vero a volte sembra
che ci sia una preferenza per qualunque altra
religione purché non sia quella cristiana).
Nondimeno è innegabile che la storia passata
della Spagna, e anche il suo presente, devono
fare i conti con la fede cristiana e le sue manifestazioni: non può far finta che non ci sia
stata, e nemmeno che non ci sia. Magari come minoranza; ma pur sempre esistente.
Dopo la schermaglia sui crocifissi, sempre in
Spagna c’è stata una battaglia sul presepio: costruito nell’atrio della Procura Generale dello
Stato a Madrid su proposta di un magistrato,
è stato tolto dopo poche ore per intervento di
una collega. E il governo spagnolo ha annunciato una nuova legge “sulla libertà religiosa”,
finalizzata a “garantire il rispetto della natura
aconfessionale dello Stato”. Sorge il sospetto
che invece di tutelare la libertà religiosa, la
nuova legge voglia tutelare la soppressione della religione dallo spazio pubblico.
Ma è ragionevole ritenere che una parete bianca possa essere più educativa di una parete a
cui è affissa una croce? È ragionevole pensare
71
D I A R I O
S C O L A S T I C O
che un presepe, che semplicemente descrive
un evento e che è ormai tradizione popolare,
possa offendere qualcuno? E soprattutto: è ragionevole supporre che la scuola possa davvero educare alla convivenza multietnica e multireligiosa, cioè al riconoscimento e all’apprezzamento delle differenze (che di fatto esistono
ed esisteranno sempre, anche se qualcuno non
vuole vederle o cerca di annullarle) dissolvendo ogni segno di identità, con il pretesto che i
simboli religiosi potrebbero costituire una minaccia per le menti vergini e malleabili dei
fanciulli? Per fortuna in Italia non siamo ancora a questa situazione, e anche un recente
pronunciamento del Consiglio di Stato ci tutela (cfr Sentenza n. 556, 13 febbraio 2006).
Ma mi sembra importante essere vigilanti affinché nelle nostre scuole italiane la normativa
sul crocifisso venga rispettata. Non per una
questione di principio o di privilegio; ma perché la croce, per quanto provvisoria, nella vita
di ognuno ci sta.
Corso di aggiornamento bioetica
È impossibile fare un riassunto dettagliato del
corso di aggiornamento per 60 IdR del Lazio
che si è svolto alla casa Bonus Pastor di Roma
(24-26 novembre 2008) sul tema «L’IRC e le
sfide della bioetica: laicità, religione,
biopolitica». I sei relatori sono personalità di
spicco del dibattito italiano in relazione ai temi discussi, e i loro contributi sono stati tutti
molto apprezzati. Una parte degli interventi è
pubblicata su questo numero di RSC (pp.
26-38); gli Atti integrali del corso sono a disposizione di tutti gli IdR sul sito www.diocesidiroma.it/scuola. Qui ci limitiamo ad una
breve presentazione d’insieme. Francesco
D’Agostino, filosofo del diritto, ha aperto il
dibattito definendo la biopolitica come la
pretesa, da parte dello Stato, di esercitare un
potere sulla nuda vita. Lo Stato può rivendicare, sì, un potere sulla vita sociale, ossia sulle
dimensioni pubbliche e sui ruoli che le perso72
ne esercitano nella vita della pòlis, come già
Aristotele aveva ben visto; tuttavia – ha affermato D’Agostino – non dovrebbe pretendere
di gestire anche la nuda vita, ossia ciò che ciascuno è, al di là di ciò che fa. Se si oltrepassa
questa soglia, il rischio di una manipolazione
della vita umana in tutte le sue forme diventa
incombente. Stefano Semplici, studioso di
etica filosofica, ha messo in discussione la distinzione, largamente diffusa, ma grossolana e
manichea, tra “bioetica cattolica” e “bioetica
laica”: si tratta piuttosto di capire quali presupposti di razionalità e di moralità siano alla
base dei diversi orientamenti etici. La bioetica, che è la frontiera più esposta del delicato
rapporto tra diritto e morale, non consente di
individuare un “principio passepartout” capace di risolvere tutte le questioni: occorre cercare il consenso più largo possibile, pur sapendo che ad un certo punto anche il dialogo
più aperto giungerà a fissare dei paletti non
negoziabili per tutte le parti coinvolte. Maria
Luisa Di Pietro, medico e bioeticista, ha presentato la bioetica come una sorta di “educazione del sentimento morale”, evidenziando il
ruolo decisivo che una corretta pedagogia
svolge nella formazione della sensibilità morale e lamentando un disinteresse colpevole
delle scienze pedagogiche nei confronti dei
temi (bio)etici. Carlo Cardia, giurista, ha inteso presentare il legame tra etica e diritto a
partire dal tema dell’obiezione di coscienza.
Nel dibattito attuale spesso si pretende di
espungere ogni riferimento all’etica dalla legislazione, salvo poi appellarsi violentemente al
senso morale quando la giustizia viene lesa da
parte di politici o altre personalità pubbliche.
Dunque anche di fatto è impossibile scindere
le due sfere, che pur devono conservare la loro autonomia. Se le cose stanno così, l’obiezione di coscienza può presentarsi non solo
come l’“ultima spiaggia” per esprimere il dissenso individuale davanti a leggi ritenute ingiuste, ma potrebbe anche diventare stru-
D I A R I O
S C O L A S T I C O
mento per influenzare l’opinione pubblica,
arrivando a modificare persino gli orientamenti legislativi in ambito bioetico. Giuseppe
Dalla Torre, rettore dell’università Lumsa di
Roma, ha descritto i diversi significati del termine “laicità”, suggerendo che la sua forma
più autentica dovrebbe esprimere un favor religionis e non un suo rifiuto, perché ne riconosce l’apporto positivo alla comune convivenza politica. Del resto, non è la convivenza
tra religioni diverse che oggi fa problema,
quanto piuttosto il pluralismo etico: laicità, in
questo nuovo contesto, significa che lo Stato
deve trovare un onesto equilibrio, anche giuridico, tra le diverse posizioni espresse nel dibattito (bio)etico. Angelo Vincenzo Zani, sottosegretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, ha indicato alcuni contributi
che l’IRC deve dare alla formazione del cittadino europeo: fare il “buon samaritano della
cultura europea”, curandone le ferite legate
alla crisi del soggetto; allargare i confini della
ragione; superare la preoccupazione per una
neutralità vuota; orientare la risposta alle domande di senso. I partecipanti sono intervenuti nel dibattito con domande di indiscutibile pertinenza e profondità; la soddisfazione
da loro espressa per il corso è stata la gradita
ricompensa per il lavoro degli organizzatori.
Il lutto a scuola
L’eventualità di un lutto a scuola non è poi
così remota. Può trattarsi di eventi relativamente “normali”, come la morte dei nonni o
di genitori anziani; ma purtroppo non di rado capita di dover affrontare eventi ben più
imprevisti e drammatici, come la morte di
un professore o di alunno, per malattia o per
incidente. Soprattutto in questi ultimi casi,
per tutti – dirigenti, personale docente e
non docente, scolari – affrontare adeguatamente l’evento è una vera e propria sfida.
Con teutonica efficienza e capacità preventiva, la Diocesi di Würzburg, in Baviera (Ger-
mania) organizza annualmente dal 2005 un
corso di aggiornamento nel mese di novembre per aiutare a gestire la crisi del lutto.
In simili situazioni di crisi per la scuola il
contributo delle/degli insegnanti di religione
si rivela particolarmente prezioso: spesso gli
altri docenti si sentono inadeguati di fronte al
problema, e si sottraggono ai possibili interventi educativi. Altri invece cercano di darsi
da fare come possono; ma invece di agire “come capita”, è certamente più efficace studiare
un piano di azione, sia al livello del singolo
docente, sia al livello dell’intero corpo docente. Nel 2004 è nato così un team di pastorale
per i momenti di crisi, composto da 12 insegnanti di religione specializzati sulla gestione
del lutto, affiancati da alcuni psicologi. Sono
loro ad organizzare ogni novembre per conto
della Diocesi un corso di tre giorni (Pastorale
delle crisi nella scuola – Confrontarsi con la
morte e il lutto), a cui possono partecipare
ogni volta 22 insegnanti di religione sia cattolici che protestanti. Il corso consente ai partecipanti di intervenire sulle classi in maniera
più professionale e con maggior padronanza
dinanzi ad eventi luttuosi imprevisti. Coloro
che vi abbiano già partecipato, possono poi
proseguire la formazione con una giornata di
approfondimento annuale (l’ultima è stata
sulla prevenzione del suicidio). Nel 2006 è
stato pubblicato un interessante sussidio, redatto dal sacerdote responsabile diocesano
della «pastorale delle emergenze» e dal alcuni
collaboratori (scaricabile gratuitamente da internet, ma purtroppo… solo in tedesco! –
www.schulpastoral.bistum-wuerzburg.de). La
brochure offre consigli pratici, suggerisce rituali che favoriscono l’elaborazione del lutto,
presenta indicazioni bibliografiche e raccoglie
indirizzi di riferimento.
Certamente solo le nordiche menti programmatrici potevano elaborare un progetto del
genere, che sviluppa dei “protocolli d’intervento” probabilmente troppo rigidi per la no73
D I A R I O
S C O L A S T I C O
stra sensibilità. D’altronde, è pur vero che la
flessibilità d’intervento e il senso pratico che
caratterizza di norma un insegnante “mediterraneo”, e che gli consente di affrontare le
emergenze con saggezza e buon senso, potrebbe trarre beneficio da qualche competenza specifica. Ci piacerebbe conoscere il parere
dei lettori sull’utilità di attivare iniziative simili anche a Roma (potete inviare le vostre riflessioni a [email protected]).
Percentuali avvalentisi 2008-’09
In vista della scelta dell’IRC per il prossimo
anno scolastico, ormai imminente, ci sembra
utile presentare i dati statistici relativi agli ultimi anni circa gli alunni avvalentisi nelle
scuole di Roma. Nel primo ciclo d’istruzione
non si registrano (ancora?) significativi cambiamenti: nella scuola dell’Infanzia i bambini
che non si avvalgono dell’IRC sono soltanto
Scuola dell’infanzia
Anno
%
2000-01 94,99
2001-02 95,79
2002-03 94,58
2003-04 95,57
2004-05 94,50
2005-06 94,36
2006-07 94,22
2007-08 95,29
2008-09 94,10
Anno
2000-01
2001-02
2002-03
2003-04
2004-05
2005-06
2006-07
2007-08
2008-09
74
Anno
2000-01
2001-02
2002-03
2003-04
2004-05
2005-06
2006-07
2007-08
2008-09
Secondaria di I grado
%
II
I
92,41 92,9
92,5
91,68 91,6
92,2
91,00 91,0
90,9
90,96 91,4
91,2
90,9
90,72 90,8
90,6
90,74 91,5
90,04 90,4
90,3
90,5
90,95 91,3
89,73 91,3
89,4
%
94,45
94,71
94,13
94,79
94,32
93,75
92,82
93,93
93,47
III
92,2
91,2
91,1
90,2
90,4
90,1
89,4
91,1
88,4
il 6% circa, un dato certamente coerente con
l’aumento percentuale di bambini stranieri.
La flessione, che aveva avuto una inversione
di tendenza lo scorso anno (+ 1%), prosegue
con ritmi piuttosto blandi. Analoga la situazione nelle cinque classi della primaria: il
trend è quello di un calo quasi impercettibile, forse più una fluttuazione dovuta all’imprecisione delle statistiche che un orientamento netto. Anche la Secondaria di I grado,
nonostante tutto, non desta gravi motivi di
preoccupazione (anche se per la prima volta
si scende sotto il tetto simbolico del 90%): si
rileva una contrazione complessiva inferiore
a tre punti percentuali nell’arco di un decennio. Dispiace però che sia cresciuto il tasso di
abbandono nel corso del triennio (al calo
dello 0,7% di dieci anni fa sembra corrisponde oggi una flessione del 2,9%; ma si
tratta di dati necessariamente imprecisi).
I
94,7
95,3
94,1
94,5
94,5
93,7
92,3
93,5
93,3
Scuola primaria
II
III
95,0
94,6
94,7
94,9
94,5
94,6
95,4
95,2
93,6
94,6
94,2
93,3
92,8
92,8
93,6
94,2
93,2
92,5
IV
93,7
94,1
93,4
95,0
94,8
93,1
93,4
94,9
94,0
V
94,2
94,6
94,1
94,0
94,2
94,5
92,6
93,4
94,5
D I A R I O
S C O L A S T I C O
sposta da circa la metà degli IdR, dunque
un campione più che ragionevole, anche se
saremmo ben felici di poter avere i dati di
tutte le scuole) non si può parlare di tracolli
catastrofici, come spesso accade nella stampa che si oppone all’IRC; ma non si può
neppure dormire tra due guanciali. Gli IdR,
oggi più che mai, sono chiamati a guadagnarsi la stima degli alunni con la dedizione
e la professionalità.
Un po’ diverso è il discorso nella scuola Secondaria di II grado. Il calo è più significativo, ed i valori complessivi sono ormai di
poco superiori al 70%. Più nel dettaglio, i
licei scendono di un 4%, i tecnici quasi del
6%, i professionali dimostrano maggior stabilità, mentre gli altri istituti superano il
6% di flessione nell’arco di un decennio.
Stando a questi dati, che riteniamo complessivamente affidabili (abbiamo avuto ri-
Anno
2000-01
2001-02
2002-03
2003-04
2004-05
2005-06
2006-07
2007-08
2008-09
%
74,60
73,44
74,48
74,02
73,16
72,36
71,24
70,22
71,08
Licei classici
e scientifici
Anno
%
2000-01 78,36
2001-02 76,05
2002-03 77,35
2003-04 79,75
2004-05 77,68
2005-06 78,82
2006-07 76,56
2007-08 74,74
2008-09 74,36
Secondaria di II grado
I
II
III
IV
79,2
77,1
73,5
70,4
77,7
75,3
72,9
70,2
75,9
76,9
74,4
71,7
77,4
75,2
73,2
71,0
76,3
73,6
72,3
71,6
76,1
73,3
71,0
70,6
75,6
71,4
69,8
68,8
73,4
71,6
69,9
68,2
74,8
71,7
72,0
68,1
Istituti Tecnici
Anno
2000-01
2001-02
2002-03
2003-04
2004-05
2005-06
2006-07
2007-08
2008-09
%
74,01
73,08
73,66
71,05
70,59
69,90
69,76
63,52
68,40
V
68,8
68,7
66,8
71,6
70,0
68,9
68,7
66,5
67,1
-10,4
-9,0
-9,2
-5,8
-6,3
-7,2
-6,9
-6,9
-7,6
Istituti
Professionali
Anno
%
2000-01 72,11
2001-02 67,47
2002-03 68,61
2003-04 68,94
2004-05 67,24
2005-06 69,79
2006-07 66,12
2007-08 69,81
2008-09 69,39
Ist. d’Istruzione
Secondaria
Anno
%
2000-01
74,09
2001-02
74,18
2002-03
73,90
2003-04
72,19
2004-05
72,07
2005-06
67,10
2006-07
67,30
2007-08
66,00
2008-09
67,67
75
M A T E R I A L I
E
D O C U M E N T I
Il Sinodo dei Vescovi
sulla Parola di Dio
La XII assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi su «La Parola di Dio nella vita
e nella missione della Chiesa» (Città del Vaticano, 5-26 ottobre 2008) ha prodotto frutti
preziosi, che non devono sfuggire agli IdR. Non ci è possibile presentare tutta la documentazione relativa al Sinodo (i documenti integrali sono reperibili sul sito
www.vatican.va oppure nel fascicolo n. 19 (2008) della rivista «il Regno»); presentiamo tre
testi che ci sembra possano riassumere le principali sottolineature del lavoro sinodale.
Il 14 ottobre il Santo Padre ha pronunciato un intervento in assemblea, sviluppando
l’insegnamento della Dei Verbum sul rapporto tra esegesi e teologia: occorre superare il «dualismo» tra le due discipline, che nuoce gravemente ad entrambe. Lo studio
storico-critico non è un optional per la fede cristiana, per la quale la concretezza della storia è piuttosto «una dimensione costitutiva»; d’altro canto, senza una interpretazione “spirituale” (cioè «eodem Spiritu quo scripta est»: DV 12), la Bibbia resta nel
passato, e l’esegesi «non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura». Applicando al nostro contesto: è ben giusto, dunque, che si
diffonda la presenza e l’uso della Bibbia nelle scuole e nell’IRC, come da tanti parti si
chiede; ma l’IdR è chiamato ad avvalersene tenendo in considerazione ambedue i livelli di interpretazione.
Sabato 18 ottobre, nella Cappella Sistina, il Santo Padre ha presieduto la celebrazione
dei Vespri. Partecipava alla celebrazione anche il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, «delegato fraterno» al Sinodo, il quale ha pronunciato un apprezzato Discorso sul tema dei “sensi spirituali”, intessuto di citazioni patristiche e totalmente in linea con il citato intervento del Pontefice. Al termine, il Papa ha affettuosamente ringraziato il Patriarca: «Ho pensato: i vostri Padri, che Ella ha citato ampiamente, sono anche i nostri Padri, e i nostri sono anche i vostri: se abbiamo Padri comuni, come potremmo non essere fratelli tra noi? Grazie, Santità».
Il terzo documento che presentiamo è il Messaggio del Sinodo al popolo di Dio, approvato dalla XXI congregazione generale del 24 ottobre. Ancora una volta ciò che emerge
è una visione della Scrittura che potrebbe esser definita “calcedonese”: come nell’unica persona di Gesù sono presenti sia la natura umana che la natura divina, altrettanto
la Bibbia ha una «dimensione carnale [che] esige un’analisi storica e letteraria» e una
«dimensione trascendente […] presente nelle parole umane». Attraverso quattro metafore – la voce, il volto, la casa, le strade – i vescovi suggeriscono i modi di restituire
alla Bibbia la sua centralità nella vita della Chiesa. Una centralità liturgica, teologica e
spirituale, ma anche culturale: «la Bibbia […] è necessaria non solo al credente, ma a
tutti per riscoprire i significati autentici delle varie espressioni culturali e soprattutto
per ritrovare la nostra stessa identità storica, civile, umana e spirituale» (n. 15).
1. Intervento del Santo Padre Benedetto XVI
14 ottobre 2008
Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l’occasione
per vedere tutto il bene che ci viene dall’esegesi moderna, ma anche per riconoscer-
76
ne i problemi e i rischi. La Dei Verbum 12
offre due indicazioni metodologiche per un
adeguato lavoro esegetico. In primo luogo,
conferma la necessità dell’uso del metodo
M A T E R I A L I
storico-critico, di cui descrive brevemente
gli elementi essenziali. Questa necessità è
la conseguenza del principio cristiano formulato in Gv 1, 14 Verbum caro factum est.
Il fatto storico è una dimensione costitutiva
della fede cristiana. La storia della salvezza
non è una mitologia, ma una vera storia ed è
perciò da studiare con i metodi della seria
ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un’altra dimensione, quella dell’azione divina. Di conseguenza la Dei Verbum parla di un secondo livello
metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello
stesso tempo parole umane e Parola divina.
Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo
letterario, che la Scrittura è da interpretare
nello stesso spirito nel quale è stata scritta
ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto
della dimensione divina, pneumatologica
della Bibbia: si deve cioè 1) interpretare il
testo tenendo presente l’unità di tutta la
Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l’unità di tutta la Scrittura; 2) si deve
poi tener presente la viva tradizione di tutta
la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare
l’analogia della fede. Solo dove i due livelli
metodologici, quello storico-critico e quello
teologico, sono osservati, si può parlare di
una esegesi teologica – di una esegesi adeguata a questo Libro. Mentre circa il primo
livello l’attuale esegesi accademica lavora
ad un altissimo livello e ci dona realmente
aiuto, la stessa cosa non si può dire circa
l’altro livello. Spesso questo secondo livello,
il livello costituito dai tre elementi teologici
indicati dalla Dei Verbum, appare quasi assente. E questo ha conseguenze piuttosto
gravi.
E
D O C U M E N T I
La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la
Bibbia diventa un libro solo del passato. Si
possono trarre da esso conseguenze morali,
si può imparare la storia, ma il Libro come
tale parla solo del passato e l’esegesi non è
più realmente teologica, ma diventa pura
storiografia, storia della letteratura. Questa
è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel
passato, parla solo del passato. C’è anche
una seconda conseguenza ancora più grave:
dove scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla Dei Verbum, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui
chiave fondamentale è la convinzione che il
Divino non appare nella storia umana. Secondo tale ermeneutica, quando sembra
che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all’elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini. Oggi il
cosiddetto mainstream dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la
salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba.
La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica.
Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora un’ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale
del Divino nella storia. La conseguenza dell’assenza del secondo livello metodologico è
che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina. Proprio di qui
scaturisce a volte una forma di perplessità
anche nella preparazione delle omelie. Dove
l’esegesi non è teologia, la Scrittura non
può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente
interpretazione della Scrittura nella Chiesa,
questa teologia non ha più fondamento.
77
M A T E R I A L I
Perciò per la vita e per la missione della
Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo
tra esegesi e teologia. La teologia biblica e la
teologia sistematica sono due dimensioni di
un’unica realtà, che chiamiamo teologia. Di
conseguenza, mi sembra auspicabile che in
una delle proposizioni si parli della neces-
E
D O C U M E N T I
sità di tener presenti nell’esegesi i due livelli
metodologici indicati dalla Dei Verbum 12,
dove si parla della necessità di sviluppare
una esegesi non solo storica, ma anche teologica. Sarà quindi necessario allargare la
formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.
2. Discorso del Patriarca Ecumenico
Bartolomeo I
18 ottobre 2008
Santità, Padri Sinodali,
È allo stesso tempo nell’umiltà e ispirazione
che sono stato amabilmente invitato da Vostra Santità a rivolgermi alla XII Assemblea
Generale di questo promettente Sinodo dei
Vescovi, uno storico incontro di Vescovi della
Chiesa Cattolica Romana provenienti da
ogni parte del mondo, radunati in un unico
luogo per meditare sulla “Parola di Dio” e
discutere dell’esperienza e dell’espressione
di questa Parola “nella vita e nella missione
della Chiesa”.
Questo amabile invito di Vostra Santità alla
nostra modesta persona è un gesto pieno di
significato e di importanza, osiamo dire, un
evento storico in sé. Infatti, è la prima volta
nella storia che ad un Patriarca Ecumenico
è offerta l’opportunità di rivolgersi ad un Sinodo dei Vescovi della Chiesa Cattolica Romana e quindi di partecipare alla vita di
questa Chiesa sorella ad un così alto livello.
Consideriamo questo come una manifestazione dell’opera dello Spirito Santo che guida le nostre Chiese a più strette e profonde
relazioni reciproche, un passo importante
verso il ripristino della nostra piena comunione.
È ben noto che la Chiesa Ortodossa attribui-
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sce al sistema sinodale un’importanza ecclesiologica fondamentale. Assieme al primato, la sinodalità costituisce la struttura
portante del governo e dell’organizzazione
della Chiesa. Come ha affermato la nostra
Commissione Mista Internazionale per il
Dialogo Teologico fra le nostre Chiese nel
documento di Ravenna, questa interdipendenza fra sinodalità e primato attraversa
tutti i livelli della vita della Chiesa: locale,
regionale e universale. Pertanto, avendo oggi il privilegio di rivolgermi al Vostro Sinodo,
aumentano le nostre speranze che giunga il
giorno in cui le nostre due Chiese convergeranno pienamente sul ruolo del primato e
della sinodalità nella vita della Chiesa, ai
quali la nostra comune Commissione Teologica sta dedicando attualmente i suoi studi.
Il tema al quale questo Sinodo dei Vescovi
sta dedicando i suoi lavori ha un’importanza
fondamentale non solo per la Chiesa Cattolica Romana ma anche per tutti coloro che
sono chiamati a testimoniare Cristo nel nostro tempo. Missione ed evangelizzazione rimangono un dovere permanente della Chiesa in ogni tempo e luogo; essi infatti fanno
parte della natura della Chiesa, poiché essa
è definita “apostolica” sia nel senso della
M A T E R I A L I
sua fedeltà all’insegnamento originale degli
Apostoli sia in quello della proclamazione
della Parola di Dio in ogni contesto culturale, in ogni tempo. La Chiesa, dunque, ha bisogno di riscoprire la Parola di Dio in ogni
generazione e farla emergere con rinnovato
vigore e persuasione anche nel nostro mondo contemporaneo, che nel profondo del suo
cuore ha sete del messaggio di Dio di pace,
speranza e carità.
Questo dovere di evangelizzare, naturalmente, sarebbe molto intensificato e rafforzato se tutti i cristiani potessero portarlo
avanti con una sola voce e come Chiesa
pienamente unita. Nella sua preghiera al
Padre poco prima della Sua passione, nostro Signore ha evidenziato chiaramente
che l’unità della Chiesa è indissolubilmente
legata alla sua missione: «perché il mondo
creda» (Gv 17, 21). È pertanto molto appropriato che questo Sinodo abbia aperto le
sue porte ai delegati fraterni ecumenici di
modo che possiamo diventare tutti consapevoli del nostro comune compito di evangelizzazione come pure delle difficoltà e dei
problemi legati alla sua realizzazione nel
mondo attuale.
Questo Sinodo ha indubbiamente esaminato
il tema della Parola di Dio in profondità e in
tutti i suoi aspetti, sia teologici, sia pratici e
pastorali. In questo nostro umile indirizzo
d’omaggio, ci limiteremo a condividere con
voi alcune riflessioni sul tema del vostro incontro, attingendo al modo in cui la tradizione ortodossa lo ha affrontato attraverso i
secoli e, in particolare, all’insegnamento
patristico greco. Più concretamente, vorremmo concentrarci su tre aspetti del tema,
ossia: ascoltare e proclamare la Parola di
Dio attraverso le Sacre Scritture, vedere la
Parola di Dio nella natura e soprattutto nella bellezza delle icone ; e infine toccare e
condividere la Parola di Dio nella comunione dei santi e nella vita sacramentale della
E
D O C U M E N T I
Chiesa. Riteniamo che siano tutti fondamentali nella vita e nella missione della
Chiesa.
Nel fare questo, cerchiamo di attingere ad
una ricca tradizione patristica, che risale all’inizio del terzo secolo e presenta una dottrina dei cinque sensi spirituali. Per cui
ascoltare la Parola di Dio, contemplare la
Parola di Dio e toccare la Parola di Dio sono
tutti modi spirituali di percepire l’unico mistero divino. Basandosi su Proverbi 2, 5, a
proposito della “facoltà divina di percezione”
(aisthesis), Origene di Alessandria esclama:
«Questo senso si rivela come vista per la
contemplazione di forme immateriali, ascolto per il discernimento delle voci, gusto per
assaporare il pane vivo, odorato per la dolce
fragranza spirituale, e tatto per toccare la
Parola di Dio, che viene compresa da ogni
facoltà dell’anima».
I sensi spirituali sono variamente descritti
come “cinque sensi dell’anima”, come facoltà “divine” o “facoltà interiori”, e persino
come “facoltà del cuore” o della “mente”.
Questa dottrina ha ispirato la teologia dei
Cappadoci (soprattutto Basilio Magno e Gregorio di Nissa) come ha fatto con la teologia
dei Padri del Deserto (soprattutto Evagrio
Pontico e Macario il Grande).
1. Ascoltare e proclamare la Parola attra v erso la S c rit tu ra
Ad ogni celebrazione della Divina Liturgia di
San Giovanni Crisostomo, il celebrante che
presiede l’Eucaristia prega: «perché siamo
fatti degni di ascoltare il Santo Vangelo».
Perciò «ascoltare, contemplare e toccare la
Parola di vita» (cf 1Gv 1, 1) non è anzitutto e
prima di tutto una nostra facoltà o un nostro
diritto di nascita come esseri umani; è il nostro privilegio e dono come figli del Dio vivente. La Chiesa cristiana è, soprattutto,
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M A T E R I A L I
una Chiesa scritturale. Sebbene i metodi di
interpretazione possano variare da un Padre
della Chiesa all’altro, da una “scuola” all’altra e tra Oriente e Occidente, tuttavia, la
Scrittura è stata sempre recepita come una
realtà viva e non come un libro morto.
Nel contesto di una fede viva, poi, la Scrittura è la testimonianza vivente di una storia
vissuta sul rapporto fra un Dio vivente con il
suo popolo vivente. La Parola, «che ha parlato per mezzo dei profeti» (Credo NicenoCostantinopolitano), ha parlato per essere
ascoltata e avere effetto. Essa è prima di
tutto una comunicazione orale e diretta,
pensata per destinatari umani. Il testo scritturale è, pertanto, derivato e secondario; il
testo scritturale è al servizio della parola
pronunciata. Non è stata trasmessa meccanicamente, ma comunicata di generazione
in generazione come una parola viva. Attraverso il Profeta Isaia, il Signore promette:
«Come infatti la pioggia e la neve scendono
dal cielo irrigando la terra... così la mia parola andrà di bocca in bocca compiendo ciò
per cui l’ho mandata» (cf Is 55,10-11).
Inoltre, come spiega San Giovanni Crisostomo, la Parola divina dimostra profonda considerazione1 (synkatàbasis) per la diversità
delle persone e i contesti culturali di coloro
che ascoltano e recepiscono. L’adattamento
della Parola divina alla specifica disposizione personale e al particolare contesto culturale definisce la dimensione missionaria
della Chiesa che è chiamata a trasformare il
mondo attraverso la Parola. Nel silenzio come nelle affermazioni, nella preghiera come
nell’azione, la Parola divina si rivolge al
mondo intero «ammaestrando tutte le nazioni» (Mt 28,19) senza nessun privilegio o
pregiudizio di razza, cultura, sesso e classe.
Quando portiamo avanti il mandato divino, ci
E
D O C U M E N T I
viene assicurato: «Ecco, io sono con voi tutti
i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Siamo chiamati a proclamare la Parola divina in tutte le lingue, «mi sono fatto tutto a
tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno»
(1Cor 9,22).
Inoltre, come discepoli della Parola di Dio, è
oggi più che mai necessario che forniamo
una prospettiva unica – al di là di quella sociale, politica ed economica – sulla necessità di sradicare la povertà, di offrire un
equilibrio in un mondo globale, di combattere fondamentalismo e razzismo e di sviluppare una tolleranza religiosa in un mondo di
conflitti. Nel rispondere alle necessità dei
poveri, degli indifesi e degli emarginati del
mondo, la Chiesa può dimostrare di essere
un segno distintivo dello spazio e della natura della comunità globale. Mentre il linguaggio teologico della religione e della spiritualità è diverso dal vocabolario tecnico
dell’economia e della politica, le barriere
che apparentemente sembrano dividere le
sollecitudini religiose (come peccato, salvezza e spiritualità) dagli interessi pragmatici (come affari, commercio e politica) non
sono impenetrabili e si sgretolano davanti
alle molteplici sfide della giustizia sociale e
della globalizzazione.
Sia che abbiamo a che fare con l’ambiente o
con la pace, con la povertà o con la fame,
con l’educazione o con l’assistenza sanitaria, vi è oggi un accresciuto senso di comune sollecitudine e comune responsabilità,
che è sentito con particolare intensità dalle
persone di fede come anche da coloro la cui
mentalità è prettamente secolare. Il nostro
impegno riguardo a questi aspetti, naturalmente non mina in alcun modo né abolisce
le differenze fra le diverse discipline o i disaccordi con quanti hanno una visione del
Così il testo ufficiale; ma di norma e più letteralmente il termine synkatàbasis viene reso in italiano con “condiscendenza” [ndr].
1
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M A T E R I A L I
mondo diversa. I crescenti segnali di un comune impegno per il benessere dell’umanità e la vita del mondo sono incoraggianti.
È un incontro di individui e istituzioni che
promette bene per il nostro mondo. Ed è un
coinvolgimento che sottolinea la vocazione
suprema e la missione dei discepoli e di
quanti aderiscono alla Parola di Dio di superare le differenze politiche o religiose al fine
di trasformare tutto il mondo visibile per la
gloria del Dio invisibile.
2. Vedere la Parola di Dio - La bellezza del l e ic on e e d el l a n at u ra
In nessun altro luogo l’invisibile è reso più
visibile che nella bellezza dell’iconografia e
nel miracolo della creazione. Per usare le
parole del difensore delle immagini sacre
san Giovanni Damasceno: «Come creatore
del cielo e della terra, è stato Dio stesso, la
Parola, il primo a disegnare e a dipingere
icone». Ogni colpo di pennello di un iconografo – come ogni parola di una definizione
teologica, ogni nota musicale cantata nella
salmodia e ogni pietra intagliata di una piccola cappella o di una splendida cattedrale –
articola la Parola divina nella creazione, che
loda Dio in ogni essere vivente e in ogni cosa
vivente (cfr Sal 150,6).
Nel confermare le immagini sacre, il Settimo Concilio Ecumenico di Nicea non si è
preoccupato solo dell’arte sacra; si è trattato della continuazione e della conferma di
definizioni precedenti sulla pienezza dell’umanità della Parola di Dio. Le icone sono un
richiamo visibile alla nostra vocazione celeste; sono inviti ad andare oltre le nostre
preoccupazioni futili e alle misere riduzioni
del mondo. Ci incoraggiano a cercare lo
straordinario nell’ordinario, a essere pieni
della stessa meraviglia che ha caratterizzato la meraviglia divina nella Genesi: «Dio vi-
E
D O C U M E N T I
de quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa
molto buona» (Gen 1,30). La parola greca
(nei Settanta) per “bontà” è kallos, che implica - sia etimologicamente sia simbolicamente - un senso di “chiamata”. Le icone
sottolineano la missione fondamentale della
Chiesa di riconoscere che tutte le persone e
tutte le cose sono create e chiamate a essere “buone” e “belle”.
In effetti, le icone ci ricordano un altro modo
di vedere le cose, un altro modo di sperimentare le realtà, un altro modo di risolvere
i conflitti. Ci viene chiesto di assumere quello che l’innologia della Domenica di Pasqua
definisce «un altro modo di vivere». Infatti,
ci siamo comportati con arroganza e indifferenza verso il creato. Abbiamo rifiutato di
contemplare la Parola di Dio negli oceani
del nostro pianeta, negli alberi dei nostri
continenti e negli animali della nostra terra.
Abbiamo negato la nostra stessa natura,
che ci chiama ad essere umili per ascoltare
la Parola di Dio se vogliamo diventare «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4). Come
potremmo ignorare le implicazioni più ampie della Parola divina che si fa carne? Perché non riusciamo a percepire la natura
creata come il Corpo esteso di Cristo?
I teologi cristiani orientali hanno sempre sottolineato le proporzioni cosmiche dell’Incarnazione divina. La Parola incarnata è intrinseca alla creazione, che è venuta in essere
attraverso un pronunciamento divino. San
Massimo il Confessore insiste sulla presenza
della Parola di Dio in tutte le cose (cfr Col 3,
11); il Logos divino è al centro del mondo, rivelando misteriosamente il suo principio originale e il suo fine ultimo (cfr 1Pt 1,20). Questo mistero viene descritto da sant’Atanasio
di Alessandria: «Come Logos – così scrive –
non è compreso da nulla e tuttavia comprende ogni cosa; Egli è in tutte le cose e tuttavia
al di fuori di tutte le cose… il primogenito del
mondo intero sotto ogni aspetto».
81
M A T E R I A L I
Il mondo intero è un prologo al Vangelo di
Giovanni. E quando la Chiesa non riesce a
riconoscere le dimensioni più ampie, cosmiche, della Parola di Dio, limitando le sue
preoccupazioni alle questioni meramente
spirituali, allora trascura la sua missione di
implorare Dio per la trasformazione – sempre e ovunque, «in ogni posto del Suo dominio» – di tutto l’universo inquinato. Non c’è
da stupirsi, quindi, che nella Domenica di
Pasqua, quando la celebrazione pasquale
raggiunge il culmine, i cristiani ortodossi
cantino: «Ora ogni cosa è piena della luce
divina: cielo e terra, e tutte le cose sotto la
terra. Gioisca quindi tutto il creato».
Ogni autentica “ecologia profonda”, pertanto, è indissolubilmente legata alla teologia
profonda: «Perfino una pietra – scrive san
Basilio Magno -– porta il segno della Parola
di Dio. Questo vale per una formica, un’ape
e una zanzara, le più piccole tra le creature.
Poiché lui ha disteso i vasti cieli e ha disposto i mari immensi; e Lui ha creato la minuscola cavità all’interno del pungiglione
dell’ape».
Ricordare la nostra piccolezza nel vasto e
meraviglioso creato di Dio non fa altro che
sottolineare il nostro ruolo centrale nel disegno di Dio per la salvezza di tutto il mondo.
3. Toccare e condividere la Parola di Dio La comunione dei santi e i sacramenti
de lla vi ta
La Parola di Dio «sgorga da Lui in estasi»
(Dionigi l’Aeropagita), cercando con forza di
«abitare in noi» (Gv 1,14), affinché il mondo
possa avere la vita in abbondanza (Gv 10,
10). La misericordia compassionevole di Dio
viene effusa e condivisa «così da moltiplicare gli oggetti della Sua benevolenza» (Gregorio il Teologo). Dio assume in sé tutto ciò
che ci appartiene, «essendo stato lui stesso
82
E
D O C U M E N T I
provato in ogni cosa, a somiglianza di noi,
escluso il peccato» (Eb 4,15), al fine di offrirci tutto ciò che è di Dio e renderci divini
per grazia. «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi»,
scrive il grande apostolo Paolo (2Cor 8,9), al
quale è così opportunamente dedicato quest’anno. È questa la Parola di Dio; gratitudine e gloria gli sono dovuti.
La Parola di Dio trova la sua piena incarnazione nel creato, soprattutto nel Sacramento della Santa Eucaristia. È lì che la Parola
si fa carne e ci permette non solo di vederlo,
ma anche di toccarlo con le nostre mani,
come dichiara san Giovanni (1Gv 1,1) e di
renderlo parte del nostro corpo e sangue
(syssomol kai synaimoi), secondo le parole
di san Giovanni Crisostomo.
Nella Santa Eucaristia la Parola ascoltata
viene allo stesso tempo vista e condivisa
(koinonia). Non è un caso che nei primi documenti eucaristici, come il Libro della Rivelazione e la Didaché, l’Eucaristia veniva
associata alla profezia e i vescovi che presiedevano venivano considerati successori
dei profeti (p.es. Martyrion Polycarpi). L’Eucaristia già da san Paolo (1Cor 11) veniva
descritta come “proclamazione” della morte
e della seconda venuta di Cristo. Poiché il fine della Scrittura fondamentalmente è la
proclamazione del Regno e l’annuncio delle
realtà escatologiche, l’Eucaristia è un’anticipazione del Regno, e in tal senso è la proclamazione della Parola per eccellenza.
Nell’Eucaristia, la Parola e il Sacramento
diventano un’unica realtà. La parola cessa
di essere “parole” e diventa una “Persona”,
incarnando in Sé tutti gli esseri umani e tutto il creato.
Nella vita della Chiesa, l’insondabile svuotarsi di sé (kenosis) e la generosa condivisione (koinonia) del Logos divino sono rispecchiati nella vita dei santi come esperienza tangibile ed espressione umana della
M A T E R I A L I
Parola di Dio nella nostra comunità. In questo modo, la Parola di Dio diventa il Corpo di
Cristo, crocifisso e glorificato allo stesso
tempo. Di conseguenza, il santo ha un rapporto organico con il cielo e la terra, con Dio
e tutto il creato. Nella lotta ascetica, il santo
riconcilia la Parola e il mondo. Attraverso il
pentimento e la purificazione, il santo è pieno – come insiste Abba Isacco il Siro – di
compassione per tutte le creature, che è l’umiltà e la perfezione ultima.
È per questo che il santo ama con un’intensità e una grandezza che sono incondizionati e irresistibili. Nei santi conosciamo la Parola stessa di Dio poiché – come afferma
san Gregorio Palamas – «Dio e i Suoi santi
condividono la stessa gloria e lo stesso
splendore». Nella presenza discreta di un
santo scopriamo come la teologia e l’azione
coincidono. Nell’amore compassionevole del
santo sperimentiamo Dio come «nostro padre» e la misericordia di Dio come «saldamente persistente» (Sal 135, LXX). Il santo è
consumato dal fuoco dell’amore di Dio. È
per questo che il santo impartisce grazia e
non può tollerare la minima manipolazione
né lo sfruttamento nella società o nella natura. Il santo semplicemente fa ciò che è
«buono e giusto» (Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo), nobilitando sempre l’umanità e onorando il creato. «Le sue parole
hanno la forza delle azioni e il suo silenzio
la potenza del discorso» (sant’Ignazio di Antiochia).
E nella comunione dei santi, ognuno di noi è
chiamato a «diventare come fuoco» (Massime dei Padri del deserto ), per toccare il
mondo con la forza mistica della Parola di
Dio, di modo che - come Corpo esteso di
Cristo – anche il mondo possa dire: «qualcuno mi ha toccato!» (cfr Mt 9,20). Il male
viene sradicato solo dalla santità, non dalla
severità. E la santità introduce nella società
un seme che guarisce e trasforma. Permea-
E
D O C U M E N T I
ti della vita dei sacramenti e della purezza
della preghiera, possiamo penetrare il mistero più intimo della Parola di Dio. È come
per le placche tettoniche della crosta terrestre: è sufficiente che gli strati più profondi
si spostino di qualche millimetro per frantumare la superficie del mondo. Tuttavia, affinché questa rivoluzione spirituale avvenga,
dobbiamo sperimentare una metanoia radicale – una conversione degli atteggiamenti,
delle abitudini e delle pratiche – del modo in
cui abbiamo usato male o abbiamo abusato
della Parola di Dio, dei doni di Dio e del
creato di Dio.
Questa conversione naturalmente non è
possibile senza la grazia divina; non si compie semplicemente attraverso un maggiore
sforzo o attraverso la forza di volontà umana. «Questo è impossibile agli uomini, ma a
Dio tutto è possibile» (Mt 19,26). Il cambiamento spirituale avviene quando il corpo e
l’anima vengono innestati nella Parola viva
di Dio, quando le nostre cellule contengono
il flusso sanguigno donatore di vita dei sacramenti, quando siamo aperti alla condivisione di tutte le cose con tutte le persone.
Come ci ricorda san Giovanni Crisostomo, il
sacramento del “nostro prossimo” non può
essere isolato dal sacramento “dell’altare”.
Purtroppo abbiamo ignorato la vocazione e
l’obbligo di condividere. L’ingiustizia sociale
e la disuguaglianza, la povertà globale e la
guerra, l’inquinamento e il degrado ambientale sono il risultato della nostra incapacità
o indisponibilità a condividere. Se pretendiamo di conservare il sacramento dell’altare,
non possiamo evitare o dimenticare il sacramento del prossimo. È questa una condizione fondamentale per compiere la Parola di
Dio nel mondo, nella vita e nella missione
della Chiesa.
Cari fratelli in Cristo, abbiamo esaminato
l’insegnamento patristico dei sensi spirituali, discernendo la forza dell’ascoltare e pro-
83
M A T E R I A L I
clamare la Parola di Dio nella Scrittura, del
vedere la Parola nelle icone e nella natura,
nonché di toccare e condividere la Parola di
Dio nei santi e nei sacramenti. Tuttavia, al
fine di rimanere fedeli alla vita e alla missione della Chiesa, noi stessi dobbiamo essere cambiati da questa Parola. La Chiesa
deve assomigliare alla madre, che viene sostenuta dal cibo che assume e che con esso
nutre. Qualsiasi cosa che non alimenti e nutra tutti non può sostenere nemmeno noi.
Quando il mondo non condivide la gioia della Risurrezione di Cristo, ciò è un atto d’accusa nei confronti della nostra onestà e del
nostro impegno verso la Parola viva di Dio.
Prima della celebrazione di ogni Divina Liturgia, i cristiani ortodossi pregano affinché
la Parola venga “spezzata e consumata, distribuita e condivisa” nella comunione. E
«sappiamo che siamo passati dalla morte
alla vita, perché amiamo i fratelli» e le sorelle (1Gv 3,14).
La sfida che ci si presenta è il discernimento della Parola di Dio di fronte al male, la
trasfigurazione di ogni minimo dettaglio e
granello di questo mondo alla luce della Risurrezione. La vittoria è già presente nel
profondo della Chiesa ogni volta che sperimentiamo la grazia della riconciliazione e
E
D O C U M E N T I
della comunione. Mentre lottiamo – dentro
noi stessi e nel nostro mondo – per riconoscere la potenza della Croce, incominciamo
ad apprezzare come ogni atto di giustizia,
ogni scintilla di bellezza, ogni parola di verità può gradualmente erodere la crosta del
male. Tuttavia, al di là dei nostri deboli sforzi, possiamo avere la certezza dello Spirito
che «viene in aiuto alla nostra debolezza»
(Rm 8,26) ed è al nostro fianco come avvocato e «Consolatore» (Gv 14,16), che pervade tutte le cose e «ci trasforma – come dice
san Simeone il Nuovo Teologo – in ogni cosa
che la Parola di Dio dice del regno celeste:
perla, granello di senape, lievito, acqua,
fuoco, pane, vita e stanza nuziale mistica». È
questa la potenza e la grazia dello Spirito
Santo, che invochiamo mentre concludiamo
il nostro discorso, esprimendo a Vostra Santità la nostra gratitudine e a ciascuno di voi
le nostre benedizioni:
Re del cielo, Consolatore, Spirito di Verità
che sei presente ovunque e riempi ogni cosa;
scrigno di bontà e donatore di vita:
Vieni e dimora in noi.
Purificaci da ogni impurità
e salva le nostre anime.
Perché sei buono e ami gli uomini.
Amen!
Messaggio al Popolo di Dio
24 ottobre 2008
Ai fratelli e sorelle, «pace e carità con fede
da parte di Dio Padre e del Signore Gesù
Cristo. La grazia sia con tutti quelli che
amano il Signore nostro Gesù Cristo con
amore incorruttibile». Con questo saluto così intenso e appassionato san Paolo concludeva la sua Lettera ai cristiani di Efeso (6,
23-24). Con queste stesse parole noi Padri
84
sinodali, riuniti a Roma per la XII Assemblea
Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi
sotto la guida del Santo Padre Benedetto
XVI, apriamo il nostro messaggio rivolto all’immenso orizzonte di tutti coloro che nelle
diverse regioni del mondo seguono Cristo
come discepoli e continuano ad amarlo con
amore incorruttibile. A loro noi di nuovo pro-
M A T E R I A L I
porremo la voce e la luce della Parola di
Dio, ripetendo l’antico appello: «Questa parola è molto vicina a te, è sulla tua bocca e
nel tuo cuore perché la metta in pratica» (Dt
30, 14). E Dio stesso dirà a ciascuno: «Figlio
dell’uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi» (Ez
3, 10). A tutti ora proporremo un viaggio spirituale che si svolgerà in quattro tappe e che
dall’eterno e dall’infinito di Dio ci condurrà
fino nelle nostre case e lungo le strade delle
nostre città.
I . L a v oc e d el l a Pa r ol a : l a ri v e la z i o n e
1. «Dio vi parlò in mezzo al fuoco: voce di
parole voi ascoltavate, nessuna immagine
vedevate, solo una voce!» (Dt 4,12). È Mosè
che parla evocando l’esperienza vissuta da
Israele nell’aspra solitudine del deserto del
Sinai. Il Signore si era presentato non come
un’immagine o un’effigie o una statua simile
al vitello d’oro, ma con “una voce di parole”.
È una voce che era entrata in scena agli inizi
stessi della creazione, quando aveva squarciato il silenzio del nulla: «In principio… Dio
disse: Sia la luce! E la luce fu… In principio
era il Verbo… e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla
è stato fatto di ciò che esiste» (Gn 1,1.3; Gv
1,1.3). Il creato non nasce da una lotta intradivina, come insegnava l’antica mitologia
mesopotamica, bensì da una parola che vince il nulla e crea l’essere. Canta il Salmista:
«Dalle parole del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro
esercito… perché egli ha parlato e tutto fu,
ha ordinato e tutto esistette» (Sal 33,6.9). E
san Paolo ripeterà «Dio dà vita ai morti e
chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Rm 4,17). Si ha, così, una prima rivelazione “cosmica” che rende il creato simile a
un’immensa pagina aperta davanti all’intera
E
D O C U M E N T I
umanità, che in essa può leggere un messaggio del Creatore: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il
firmamento. Il giorno al giorno ne affida il
racconto e la notte alla notte ne trasmette
notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra
si diffonde il loro annuncio e ai confini del
mondo il loro messaggio» (Sal 19,2-5).
2. La parola divina è, però, anche alla radice
della storia umana. L’uomo e la donna, che
sono «immagine e somiglianza di Dio» (Gen
1,27) e che quindi recano in sé l’impronta divina, possono entrare in dialogo col loro
Creatore o possono da lui allontanarsi e respingerlo attraverso il peccato. La Parola di
Dio, allora, salva e giudica, penetra nella
trama della storia col suo tessuto di vicende
ed eventi: «Ho osservato la miseria del mio
popolo in Egitto e ho udito il suo grido…, conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e
spaziosa…» (Es 3,7-8). C’è, dunque, una presenza divina nelle vicende umane che, attraverso l’azione del Signore della storia,
vengono inserite in un disegno più alto di
salvezza, perché «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4).
3. La parola divina efficace, creatrice e salvatrice, è quindi in principio all’essere e alla
storia, alla creazione e alla redenzione. Il
Signore viene incontro all’umanità proclamando: «Ho detto e ho fatto!» (Ez 37,14).
C’è, però, una tappa ulteriore che la voce divina percorre: è quella della parola scritta,
la Graphé o le Graphaí, le Scritture sacre,
come si dice nel Nuovo Testamento. Già Mosè era sceso dalla vetta del Sinai reggendo
«in mano le due tavole della Testimonianza,
tavole scritte sui due lati, da una parte e
85
M A T E R I A L I
dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la
scrittura era scrittura di Dio» (Es 32,15-16).
E lo stesso Mosè imporrà a Israele di conservare e riscrivere queste “tavole della Testimonianza”: «Scriverai su pietre tutte le
parole di questa legge, con scrittura ben
chiara» (Dt 27,8). Le Sacre Scritture sono la
“testimonianza” in forma scritta della parola
divina, sono il memoriale canonico, storico e
letterario attestante l’evento della Rivelazione creatrice e salvatrice. La Parola di Dio
precede, dunque, ed eccede la Bibbia, che
pure è “ispirata da Dio “ e contiene la parola
divina efficace (cfr 2Tm 3,16). È per questo
che la nostra fede non ha al centro solo un
libro, ma una storia di salvezza e, come vedremo, una persona, Gesù Cristo, Parola di
Dio fatta carne, uomo, storia. Proprio perché l’orizzonte della parola divina abbraccia
e si estende oltre la Scrittura, è necessaria
la costante presenza dello Spirito Santo che
«guida a tutta la verità» (Gv 16,13) chi legge
la Bibbia. È questa la grande Tradizione,
presenza efficace dello “Spirito di verità”
nella Chiesa, custode delle Sacre Scritture,
autenticamente interpretate dal Magistero
ecclesiale. Con la Tradizione si giunge alla
comprensione, all’interpretazione, alla comunicazione e alla testimonianza della Parola di Dio. Lo stesso san Paolo, proclamando il primo Credo cristiano, riconoscerà di
“trasmettere” quello che egli «aveva ricevuto» dalla Tradizione (1Cor 15,3-5).
I I . I l v o l t o d e ll a P a ro la : G es ù C r is to
4. Nell’originale greco sono solo tre parole
fondamentali: Lógos sarx eghéneto, «il Verbo/Parola si fece carne». Eppure, questo è
l’apice non solo di quel gioiello poetico e
teologico che è il prologo del Vangelo di Giovanni (1,14), ma è il cuore stesso della fede
cristiana. La Parola eterna e divina entra
86
E
D O C U M E N T I
nello spazio e nel tempo e assume un volto
e un’identità umana, tant’è vero che è possibile accostarvisi direttamente chiedendo,
come fece quel gruppo di Greci presenti a
Gerusalemme: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv
12,20-21). Le parole senza un volto non sono
perfette, perché non compiono in pienezza
l’incontro, come ricordava Giobbe, giunto al
termine del suo drammatico itinerario di ricerca: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i
miei occhi ti vedono» (42,5). Cristo è «il Verbo che è presso Dio ed è Dio», è «l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni
creatura» ( Col 1,15); ma è anche Gesù di
Nazaret che cammina per le strade di una
marginale provincia dell’impero romano,
che parla una lingua locale, che rivela i tratti di un popolo, l’ebraico, e della sua cultura.
Il Gesù Cristo reale è, quindi, carne fragile e
mortale, è storia e umanità, ma è anche
gloria, divinità, mistero: Colui che ci ha rivelato il Dio che nessuno ha mai visto (cfr Gv
1,18). Il Figlio di Dio continua a essere tale
anche in quel cadavere che è deposto nel
sepolcro e la risurrezione ne è l’attestazione
viva ed efficace.
5. Ebbene, la tradizione cristiana ha spesso
posto in parallelo la Parola divina che si fa
carne con la stessa Parola che si fa libro. È
ciò che emerge già nel Credo quando si professa che il Figlio di Dio «si è incarnato per
opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria», ma anche si confessa la fede
nello stesso «Spirito Santo che ha parlato
per mezzo dei profeti». Il Concilio Vaticano II
raccoglie questa antica tradizione secondo
la quale «il corpo del Figlio è la Scrittura a
noi trasmessa» – come afferma s. Ambrogio
(In Lucam VI, 33) – e dichiara limpidamente:
«Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli
uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre,
avendo assunto le debolezze della natura
M A T E R I A L I
umana, si fece simile agli uomini» (DV 13).
La Bibbia è, infatti, anch’essa “carne”, “lettera”, si esprime in lingue particolari, in forme letterarie e storiche, in concezioni legate
a una cultura antica, conserva memorie di
eventi spesso tragici, le sue pagine sono
non di rado striate di sangue e violenza, al
suo interno risuona il riso dell’umanità e
scorrono le lacrime, così come si leva la
preghiera degli infelici e la gioia degli innamorati. Per questa sua dimensione “carnale” essa esige un’analisi storica e letteraria,
che si attua attraverso i vari metodi e approcci offerti dall’esegesi biblica. Ogni lettore delle Sacre Scritture, anche il più semplice, deve avere una proporzionata conoscenza del testo sacro ricordando che la Parola è
rivestita di parole concrete a cui si piega e
adatta per essere udibile e comprensibile
all’umanità. È, questo, un impegno necessario: se lo si esclude si può cadere nel fondamentalismo che in pratica nega l’incarnazione della parola divina nella storia, non riconosce che quella parola si esprime nella
Bibbia secondo un linguaggio umano, che
dev’essere decifrato, studiato e compreso, e
ignora che l’ispirazione divina non ha cancellato l’identità storica e la personalità propria degli autori umani. La Bibbia, però, è
anche Verbo eterno e divino ed è per questo
che essa esige un’altra comprensione, data
dallo Spirito Santo che svela la dimensione
trascendente della parola divina, presente
nelle parole umane.
6. Ecco, allora, la necessità della «viva Tradizione di tutta la Chiesa» (DV 12) e della fede per comprendere in modo unitario e pieno le Sacre Scritture. Se ci si ferma alla sola
“lettera”, la Bibbia rimane soltanto un solenne documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale. Se, però, si
esclude l’incarnazione, si può cadere nell’equivoco fondamentalistico o in un vago spiri-
E
D O C U M E N T I
tualismo o psicologismo. La conoscenza
esegetica deve, quindi, intrecciarsi indissolubilmente con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzata l’unità divina e umana di Gesù Cristo e delle Scritture. In questa armonia ritrovata, il volto di
Cristo risplenderà nella sua pienezza e ci
aiuterà a scoprire un’altra unità, quella
profonda e intima delle Sacre Scritture, il loro essere, sì, 73 libri, ma inseriti in un unico
“Canone”, in un unico dialogo tra Dio e l’umanità, in unico disegno di salvezza. «Dio,
infatti, molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai padri per mezzo dei
profeti, ma ultimamente ha parlato a noi per
mezzo del Figlio» ( Eb 1,1-2). Cristo getta,
così, la sua luce retrospettivamente sull’intera trama della storia della salvezza e ne
rivela la coerenza, il significato, la direzione.
Egli è il suggello, “l’alfa e l’omega” (Ap 1,8)
di un dialogo tra Dio e le sue creature distribuito nel tempo e attestato nella Bibbia. È
alla luce di questo sigillo finale che acquistano il loro “senso pieno” le parole di Mosè
e dei profeti, come aveva indicato lo stesso
Gesù in quel pomeriggio primaverile, mentre egli procedeva da Gerusalemme verso il
villaggio di Emmaus, dialogando con Cleofa
e il suo amico, «spiegando loro in tutte le
Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27).
Proprio perché al centro della Rivelazione
c’è la parola divina divenuta volto, l’approdo
ultimo della conoscenza della Bibbia «non è
in una decisione etica o in una grande idea,
bensì nell’incontro con un avvenimento, con
una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus
caritas est, 1)
I I I . L a c as a d e l l a P a ro l a : l a C h i es a
Come la sapienza divina nell’Antico Testamento si era costruita la sua dimora nella
87
M A T E R I A L I
città degli uomini e delle donne, sorreggendola su sette colonne (cfr Pr 9,1), così anche la Parola di Dio ha una sua casa nel
Nuovo Testamento: è la Chiesa che ha il
suo modello nella comunità-madre di Gerusalemme, la Chiesa fondata su Pietro e
sugli Apostoli e che oggi, attraverso i vescovi in communione col Successore di Pietro, continua ad essere custode, annunciatrice e interprete della parola (cfr LG 13).
Luca, negli Atti degli Apostoli (2,42), ne
traccia l’architettura basata su quattro colonne ideali: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione
fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere».
7. Ecco innanzitutto la didaché apostolica,
ossia la predicazione della Parola di Dio.
L’apostolo Paolo, infatti, ci ammonisce che
«la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). Dalla Chiesa esce la voce dell’araldo che a tutti
propone il kérygma, ossia l’annunzio primario e fondamentale che Gesù stesso aveva
proclamato agli esordi del suo ministero
pubblico: «Il tempo è compiuto e il regno di
Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Gli apostoli annunciano l’inaugurazione del regno di Dio, e quindi dell’intervento decisivo divino nella storia
umana, proclamando la morte e la risurrezione di Cristo: «in nessun altro c’è salvezza; non vi è, infatti, sotto il cielo, altro nome
dato agli uomini, nel quale è stabilito che
noi siamo salvati» (At 4,12). Il cristiano rende testimonianza di questa sua speranza
«con dolcezza, rispetto e retta coscienza»,
pronto, però, anche ad essere coinvolto e
forse travolto dalla bufera del rifiuto e della
persecuzione, consapevole che «è meglio
soffrire operando il bene che facendo il male» (1Pt 3,16-17). Nella Chiesa risuona, poi,
la catechesi: essa è destinata ad approfon-
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E
D O C U M E N T I
dire nel cristiano «il mistero di Cristo alla
luce della Parola perché l’uomo intero sia
irradiato da essa» (Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae , 20). Ma il vertice della
predicazione è nell’omelia che ancor oggi
per molti cristiani è il momento capitale
dell’incontro con la Parola di Dio. In questo
atto il ministro dovrebbe trasformarsi anche in profeta. Egli, infatti, deve in un linguaggio nitido, incisivo e sostanzioso, non
solo con autorevolezza «annunziare le mirabili opere di Dio nella storia della salvezza» (SC 35) – offerte prima attraverso una
chiara e viva lettura del testo biblico proposto dalla liturgia – ma deve anche attualizzarle nei tempi e nei momenti vissuti dagli
ascoltatori e far sbocciare nel loro cuore la
domanda della conversione e dell’impegno
vitale: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37).
Annunzio, catechesi e omelia suppongono,
quindi, un leggere e un comprendere, uno
spiegare e un interpretare, un coinvolgimento della mente e del cuore. Nella predicazione si compie così un duplice movimento. Col primo si risale alla radice dei testi
sacri, degli eventi, dei detti generatori della
storia di salvezza, per comprenderli nel loro
significato e nel loro messaggio. Col secondo movimento si ridiscende al presente, all’oggi vissuto da chi ascolta e legge, sempre
alla luce del Cristo che è il filo luminoso
destinato a unire le Scritture. È ciò che Gesù stesso aveva fatto – come si è già detto –
nell’itinerario da Gerusalemme a Emmaus
in compagnia di due suoi discepoli. È ciò
che farà il diacono Filippo sulla strada da
Gerusalemme a Gaza, quando col funzionario etiope intesserà quel dialogo emblematico: «Capisci quello che stai leggendo?... E
come potrei capire se nessuno mi guida?»
(At 8,30-31). E la meta sarà l’incontro pieno
con Cristo nel sacramento. Si presenta, così, la seconda colonna che regge la Chiesa,
casa della parola divina.
M A T E R I A L I
8. È la frazione del pane. La scena di Emmaus (cfr Lc 24,13-35) è ancora una volta
esemplare e riproduce quanto accade ogni
giorno nelle nostre chiese: all’omelia di Gesù su Mosè e i profeti subentra, alla mensa,
la frazione del pane eucaristico. È, questo, il
momento del dialogo intimo di Dio col suo
popolo, è l’atto della nuova alleanza suggellata nel sangue di Cristo (cfr Lc 22,20), è l’opera suprema del Verbo che si offre come
cibo nel suo corpo immolato, è la fonte e il
culmine della vita e della missione della
Chiesa. La narrazione evangelica dell’ultima
cena, memoriale del sacrificio di Cristo,
quando è proclamata nella celebrazione eucaristica, nell’invocazione dello Spirito Santo
diventa evento e sacramento. È per questo
che il Concilio Vaticano II, in un passo di forte intensità, dichiarava: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia,
di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia
della Parola di Dio sia del Corpo di Cristo, e
di porgerlo ai fedeli» (DV 21). Si dovrà, perciò, riportare al centro della vita cristiana
«la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, congiunte tra loro così strettamente
da formare un solo atto di culto» (SC 56).
9. Il terzo pilastro dell’edificio spirituale della Chiesa, casa della Parola, è costituito
dalle preghiere, intessute – come ricordava
san Paolo – da «salmi, inni, cantici spirituali» (Col 3,16). Un posto privilegiato è occupato naturalmente dalla Liturgia delle Ore,
la preghiera della Chiesa per eccellenza,
destinata a ritmare i giorni e i tempi dell’anno cristiano, offrendo, soprattutto col Salterio, il cibo quotidiano spirituale del fedele.
Accanto ad essa e alle celebrazioni comunitarie della Parola, la tradizione ha introdotto
la prassi della Lectio divina, lettura orante
nello Spirito Santo, capace di schiudere al
E
D O C U M E N T I
fedele il tesoro della Parola di Dio, ma anche di creare l’incontro col Cristo, parola divina vivente. Essa si apre con la lettura (lectio) del testo che provoca una domanda di
conoscenza autentica del suo contenuto
reale: che cosa dice il testo biblico in sé?
Segue la meditazione (meditatio) nella quale
l’interrogativo è: che cosa dice il testo biblico a noi? Si giunge, così, alla preghiera
(oratio) che suppone quest’altra domanda:
che cosa diciamo noi al Signore in risposta
alla sua parola? E si conclude con la contemplazione (contemplatio) durante la quale
noi assumiamo come dono di Dio lo stesso
suo sguardo nel giudicare la realtà e ci domandiamo: quale conversione della mente,
del cuore e della vita chiede a noi il Signore?
Di fronte al lettore orante della Parola di Dio
si erge idealmente il profilo di Maria, la madre del Signore, che «custodisce tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» ( Lc
2,19; cfr 2,51), cioè – come dice l’originale
greco – trovando il nodo profondo che unisce eventi, atti e cose, apparentemente disgiunti, nel grande disegno divino. O anche
si può presentare agli occhi del fedele che
legge la Bibbia l’atteggiamento di Maria, sorella di Marta, che si asside ai piedi del Signore in ascolto della sua parola, impedendo che le agitazioni esteriori assorbano totalmente l’anima, occupando anche lo spazio libero per «la parte migliore» che non ci
dev’essere tolta (cfr Lc 10,38-42).
10. Eccoci, infine, davanti all’ultima colonna
che sorregge la Chiesa, casa della parola: la
koinonía, la comunione fraterna, altro nome
dell’agápe, cioè dell’amore cristiano. Come
ricordava Gesù, per diventare suoi fratelli e
sue sorelle bisogna essere «coloro che
ascoltano la Parola di Dio e la mettono in
pratica» (Lc 8,21). L’ascoltare autentico è obbedire e operare, è far sbocciare nella vita la
giustizia e l’amore, è offrire nell’esistenza e
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M A T E R I A L I
nella società una testimonianza nella linea
dell’appello dei profeti, che costantemente
univa Parola di Dio e vita, fede e rettitudine,
culto e impegno sociale. È ciò che ribadiva a
più riprese Gesù, a partire dal celebre monito del Discorso della montagna: «Non chi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei
cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che
è nei cieli» (Mt 7,21). In questa frase sembra
echeggiare la parola divina proposta da
Isaia: «Questo popolo si avvicina a me solo a
parole e mi invoca con le labbra, mentre il
suo cuore è lontano da me» (29,13). Questi
ammonimenti riguardano anche le Chiese
quando non sono fedeli all’ascolto obbediente della Parola di Dio. Essa, quindi, dev’essere visibile e leggibile già sul volto stesso e
nelle mani del credente, come suggeriva san
Gregorio Magno che vedeva in san Benedetto, e negli altri grandi uomini di Dio, testimoni di comunione con Dio e coi fratelli, la Parola di Dio fatta vita. L’uomo giusto e fedele
non solo “spiega” le Scritture, ma le “dispiega” davanti a tutti come realtà viva e praticata. È per questo che «viva lectio, vita honorum», la vita dei buoni è una lettura/lezione
vivente della parola divina. Era già stato san
Giovanni Crisostomo a osservare che gli
apostoli scesero dal monte di Galilea, ove
avevano incontrato il Risorto, senza nessuna
tavola di pietra scritta come era accaduto a
Mosè: la loro stessa vita sarebbe divenuta da
quel momento il Vangelo vivente. Nella casa
della Parola divina incontriamo anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità ecclesiali che, pur nelle separazioni ancora esistenti, si ritrovano con noi nella venerazione e nell’amore per la Parola di Dio,
principio e sorgente di una prima e reale
unità, anche se non piena. Questo vincolo
dev’essere sempre rafforzato attraverso le
traduzioni bibliche comuni, la diffusione del
testo sacro, la preghiera biblica ecumenica,
il dialogo esegetico, lo studio e il confronto
90
E
D O C U M E N T I
tra le varie interpretazioni delle Sacre Scritture, lo scambio dei valori insiti nelle diverse
tradizioni spirituali, l’annuncio e la testimonianza comune della Parola di Dio in un
mondo secolarizzato.
IV . L e st r a d e d e ll a P a ro l a: l a m i ss io n e
«Da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme
la parola del Signore» (Is 2,3). La Parola di
Dio personificata “esce” dalla sua casa, il
tempio, e si avvia lungo le strade del mondo
per incontrare il grande pellegrinaggio che i
popoli della terra hanno intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia e della pace. C’è, infatti, anche nella moderna città
secolarizzata, nelle sue piazze e nelle sue
vie – ove sembrano dominare incredulità e
indifferenza, ove il male sembra prevalere
sul bene, creando l’impressione della vittoria di Babilonia su Gerusalemme – un anelito nascosto, una speranza germinale, un
fremito d’attesa. Come si legge nel libro del
profeta Amos, «ecco verranno giorni in cui
manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (8,11). A questa fame vuole
rispondere la missione evangelizzatrice della Chiesa. Anche il Cristo risorto agli apostoli esitanti lancia l’appello a uscire dai
confini del loro orizzonte protetto: «Andate e
fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro
a osservare tutto ciò che vi ho comandato»
(Mt 28, 19-20). La Bibbia è tutta attraversata
da appelli a “non tacere”, a “gridare con forza”, ad “annunciare la parola al momento
opportuno e non opportuno”, ad essere sentinelle che lacerano il silenzio dell’indifferenza. Le strade che si aprono davanti a noi
non sono ora soltanto quelle sulle quali si
incamminava san Paolo o i primi evangelizzatori e, dietro di loro, tutti i missionari che
s’inoltrano verso le genti in terre lontane.
M A T E R I A L I
11. La comunicazione stende ora una rete
che avvolge tutto il globo e un nuovo significato acquista l’appello di Cristo: «Quello che
vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, quello
che ascoltate all’orecchio predicatelo sulle
terrazze» (Mt 10,27). Certo, la parola sacra
deve avere una sua prima trasparenza e diffusione attraverso il testo stampato, con traduzioni eseguite secondo la variegata molteplicità delle lingue del nostro pianeta. Ma la
voce della parola divina deve risuonare anche
attraverso la radio, le arterie informatiche di
Internet, i canali della diffusione virtuale on
line, i CD, i DVD, gli podcast e così via; deve
apparire sugli schermi televisivi e cinematografici, nella stampa, negli eventi culturali e
sociali. Questa nuova comunicazione, rispetto a quella tradizionale, ha adottato una sua
specifica grammatica espressiva ed è, quindi,
necessario essere attrezzati non solo tecnicamente, ma anche culturalmente per questa impresa. In un tempo dominato dall’immagine, proposta in particolare da quel mezzo egemone della comunicazione che è la televisione, significativo e suggestivo è ancor
oggi il modello privilegiato da Cristo. Egli ricorreva al simbolo, alla narrazione, all’esempio, all’esperienza quotidiana, alla parabola:
«Parlava loro di molte cose in parabole… e
fuor di parabola non diceva nulla alle folle»
(Mt 13,3.34). Gesù nel suo annuncio del regno di Dio non passava mai sopra le teste dei
suoi interlocutori con un linguaggio vago,
astratto ed etereo, ma li conquistava partendo proprio dalla terra ove erano piantati i loro
piedi per condurli, dalla quotidianità, alla rivelazione del regno dei cieli. Significativa diventa, allora, la scena evocata da Giovanni:
«Alcuni volevano arrestare Gesù, ma nessuno
mise le mani su di lui. Le guardie tornarono
dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi
dissero loro: Perché non lo avete condotto
qui? Risposero le guardie: Mai un uomo ha
parlato così!» (7,44-46).
E
D O C U M E N T I
12. Cristo avanza lungo le vie delle nostre
città e sosta davanti alle soglie delle nostre
case: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io
verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me»
(Ap 3,20). La famiglia, racchiusa tra le mura
domestiche con le sue gioie e i suoi drammi, è uno spazio fondamentale in cui far entrare la Parola di Dio. La Bibbia è tutta costellata di piccole e grandi storie familiari e
il Salmista raffigura con vivacità il quadretto
sereno di un padre assiso alla mensa, circondato dalla sua sposa, simile a vite feconda, e dai figli, «virgulti d’ulivo» (Sal 128). La
stessa cristianità delle origini celebrava la
liturgia nella quotidianità di una casa, così
come Israele affidava alla famiglia la celebrazione della pasqua (cfr Es 12,21-27). La
trasmissione della Parola di Dio avviene
proprio attraverso la linea generazionale,
per cui i genitori diventano «i primi araldi
della fede» (LG 11). Ancora il Salmista ricordava che «ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato
non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni
gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto… e anch’essi sorgeranno a raccontarlo ai loro figli» (Sal
78,3-4.6). Ogni casa dovrà, allora, avere la
sua Bibbia e custodirla in modo concreto e
dignitoso, leggerla e con essa pregare,
mentre la famiglia dovrà proporre forme e
modelli di educazione orante, catechetica e
didattica sull’uso delle Scritture, perché
«giovani e ragazze, vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12) ascoltino, comprendano,
lodino e vivano la Parola di Dio. In particolare le nuove generazioni, i bambini e i giovani, dovranno essere destinatari di un’appropriata e specifica pedagogia che li conduca
a provare il fascino della figura di Cristo,
aprendo la porta della loro intelligenza e del
loro cuore, anche attraverso l’incontro e la
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M A T E R I A L I
testimonianza autentica dell’adulto, l’influsso positivo degli amici e la grande compagnia della comunità ecclesiale.
13. Gesù, nella sua parabola del seminatore, ci ricorda che ci sono terreni aridi, sassosi, soffocati dai rovi (cfr Mt 13,3-7). Chi si
inoltra per le strade del mondo scopre anche i bassifondi ove si annidano sofferenze e
povertà, umiliazioni e oppressioni, emarginazioni e miserie, malattie fisiche e psichiche e solitudini. Spesso le pietre delle strade sono insanguinate dalle guerre e dalle
violenze, nei palazzi del potere la corruzione
s’incrocia con l’ingiustizia. Si leva il grido dei
perseguitati per la fedeltà alla loro coscienza e alla loro fede. C’è chi è travolto dalla
crisi esistenziale o ha l’anima priva di un significato che dia senso e valore allo stesso
vivere. Simili a «ombre che passano, a un
soffio che s’affanna» (Sal 39,7), molti sentono incombere su di sé anche il silenzio di
Dio, la sua apparente assenza e indifferenza: «Fino a quando, Signore, continuerai a
dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13,2). E alla fine si erge
davanti a tutti il mistero della morte. Questo
immenso respiro di dolore che sale dalla
terra al cielo è ininterrottamente rappresentato dalla Bibbia, che propone appunto
una fede storica e incarnata. Basterebbe solo pensare alle pagine segnate dalla violenza e dall’oppressione, al grido acre e continuo di Giobbe, alle veementi suppliche salmiche, alla sottile crisi interiore che percorre l’anima di Qohelet, alle vigorose denuncie
profetiche contro le ingiustizie sociali. Senza
attenuanti è, poi, la condanna del peccato
radicale che appare in tutta la sua potenza
devastante fin dagli esordi dell’umanità in
un testo fondamentale della Genesi (c. 3).
Infatti, il “mistero di iniquità” è presente e
agisce nella storia, ma è svelato dalla Parola di Dio che assicura in Cristo la vittoria del
92
E
D O C U M E N T I
bene sul male. Ma soprattutto nelle Scritture a dominare è la figura di Cristo che apre
il suo ministero pubblico proprio con un annuncio di speranza per gli ultimi della terra:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per
questo mi ha consacrato con l’unzione e mi
ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di
grazia del Signore» (Lc 4,18-19). Le sue mani si posano ripetutamente su carni malate
o infette, le sue parole proclamano la giustizia, infondono coraggio agli infelici, donano
perdono ai peccatori. Alla fine, lui stesso si
accosta al livello più basso, «svuotando se
stesso» della sua gloria, «assumendo la
condizione di servo, diventando simile agli
uomini…, umiliando se stesso e facendosi
obbediente fino alla morte e a una morte di
croce» (Fil 2,7-8). Così, egli prova la paura
del morire («Padre, se è possibile, passi da
me questo calice!»), sperimenta la solitudine con l’abbandono e il tradimento degli
amici, penetra nell’oscurità del più crudele
dolore fisico con la crocifissione e persino
nella tenebra del silenzio del Padre («Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»)
e giunge all’abisso ultimo di ogni uomo,
quello della morte («lanciando un forte grido, spirò»). Veramente a lui si può applicare
la definizione che Isaia riserva al Servo del
Signore: «uomo dei dolori che ben conosce
il patire» (53,3). Eppure egli, anche in quel
momento estremo, non cessa di essere il
Figlio di Dio: nella sua solidarietà d’amore e
col sacrificio di sé depone nel limite e nel
male dell’umanità un seme di divinità, ossia
un principio di liberazione e di salvezza; col
suo donarsi a noi irradia di redenzione il dolore e la morte, da lui assunti e vissuti, e
apre anche a noi l’alba della risurrezione. Il
cristiano ha, allora, la missione di annunciare questa parola divina di speranza, at-
M A T E R I A L I
traverso la sua condivisione coi poveri e i
sofferenti, attraverso la testimonianza della
sua fede nel Regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace, attraverso la vicinanza amorosa che non
giudica e condanna, ma che sostiene, illumina, conforta e perdona, sulla scia delle
parole di Cristo: «Venite a me, voi tutti che
siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro»
(Mt 11,28).
14. Sulle strade del mondo la parola divina
genera per noi cristiani un incontro intenso
col popolo ebraico a cui siamo intimamente
legati attraverso il comune riconoscimento
e amore per le Scritture dell’Antico Testamento e perché da Israele «proviene il Cristo secondo la carne» (Rm 9,5). Tutte le pagine sacre ebraiche illuminano il mistero di
Dio e dell’uomo, rivelano tesori di riflessione
e di morale, delineano il lungo itinerario
della storia della salvezza fino al suo pieno
compimento, illustrano con vigore l’incarnazione della parola divina nelle vicende umane. Esse ci permettono di comprendere in
pienezza la figura di Cristo, il quale aveva
dichiarato di «non essere venuto ad abolire
la Legge e i Profeti, ma a dare ad essi pieno
compimento» (Mt 5,17), sono via di dialogo
col popolo dell’elezione che ha ricevuto da
Dio «l’adozione a figli, la gloria, le alleanze,
la legislazione, il culto, le promesse» ( Rm
9,4), e ci consentono di arricchire la nostra
interpretazione delle Sacre Scritture con le
risorse feconde della tradizione esegetica
giudaica. «Benedetto sia l’egiziano mio popolo, l’assiro opera delle mie mani e Israele
mia eredità» ( Is 19,25). Il Signore stende,
quindi, il manto protettivo della sua benedizione su tutti i popoli della terra, desideroso
che «tutti gli uomini siano salvati e giungano
alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Anche noi cristiani, lungo le strade del mondo,
siamo invitati – senza cadere nel sincreti-
E
D O C U M E N T I
smo che confonde e umilia la propria identità spirituale – a entrare in dialogo con rispetto nei confronti degli uomini e delle
donne delle altre religioni, che ascoltano e
praticano fedelmente le indicazioni dei loro
libri sacri, a partire dall’Islam che nella sua
tradizione accoglie innumerevoli figure,
simboli e temi biblici e che ci offre la testimonianza di una fede sincera nel Dio unico,
compassionevole e misericordioso, Creatore
di tutto l’essere e Giudice dell’umanità. Il
cristiano trova, inoltre, sintonie comuni con
le grandi tradizioni religiose dell’Oriente che
ci insegnano nelle loro testi sacri il rispetto
della vita, la contemplazione, il silenzio, la
semplicità, la rinuncia, come accade nel
buddhismo. Oppure, come nell’induismo,
esaltano il senso della sacralità, il sacrificio,
il pellegrinaggio, il digiuno, i simboli sacri. O
ancora, come nel confucianesimo, insegnano la sapienza e i valori familiari e sociali.
Anche alle religioni tradizionali con i loro valori spirituali espressi nei riti e nelle culture
orali, vogliamo prestare la nostra cordiale
attenzione e intrecciare con loro un rispettoso dialogo. Anche a quanti non credono in
Dio, ma che si sforzano di «praticare la giustizia, amare la bontà, camminare con
umiltà» (Mi 6,8), dobbiamo con loro lavorare
per un mondo più giusto e pacificato, e offrire in dialogo la nostra genuina testimonianza della Parola di Dio che può rivelare a loro
nuovi e più alti orizzonti di verità e di amore.
15. Nella sua Lettera agli artisti (1999), Giovanni Paolo II ricordava che «la S. Scrittura
è diventata una sorta di “immenso vocabolario” (Paul Claudel) e di “atlante iconografico” (Marc Chagall), a cui hanno attinto la
cultura e l’arte cristiana» (n. 5). Goethe era
convinto che il Vangelo fosse la «lingua materna dell’Europa». La Bibbia, come ormai si
è soliti dire, è «il grande codice» della cultura universale: gli artisti hanno idealmente
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intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato di storie, simboli, figure che sono le pagine bibliche; i musicisti è attorno ai testi
sacri, soprattutto salmici, che hanno intessuto le loro armonie; gli scrittori hanno per
secoli ripreso quelle antiche narrazioni che
divenivano parabole esistenziali; i poeti si
sono interrogati sul mistero dello spirito,
sull’infinito, sul male, sull’amore, sulla
morte e sulla vita spesso raccogliendo i fremiti poetici che animavano le pagine bibliche; i pensatori, gli uomini di scienza e la
stessa società avevano non di rado come riferimento, sia pure per contrasto, le concezioni spirituali ed etiche (si pensi al Decalogo) della Parola di Dio. Anche quando la figura o l’idea presente nelle Scritture veniva
deformata, si riconosceva che essa era imprescindibile e costitutiva della nostra civiltà. È per questo che la Bibbia – la quale ci
insegna anche la via pulchritudinis, cioè il
percorso della bellezza per comprendere e
raggiungere Dio («cantate a Dio con arte!»,
ci invita il Sal 47,8) – è necessaria non solo
al credente, ma a tutti per riscoprire i significati autentici delle varie espressioni culturali e soprattutto per ritrovare la nostra
stessa identità storica, civile, umana e spirituale. È in essa la radice della nostra grandezza ed è attraverso essa che noi possiamo
presentarci con un nobile patrimonio alle altre civiltà e culture, senza nessun complesso di inferiorità. La Bibbia dovrebbe, quindi,
essere da tutti conosciuta e studiata, sotto
questo straordinario profilo di bellezza e di
fecondità umana e culturale. Tuttavia, la Parola di Dio – per usare una significativa immagine paolina – «non è incatenata» ( 2Tm
2,9) a una cultura; anzi, aspira a varcare le
frontiere e proprio l’Apostolo è stato un eccezionale artefice di inculturazione del messaggio biblico entro nuove coordinate culturali. È ciò che la Chiesa è chiamata a fare
anche oggi attraverso un processo delicato
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ma necessario, che ha ricevuto un forte impulso dal magistero di Papa Benedetto XVI.
Essa deve far penetrare la Parola di Dio nella molteplicità delle culture ed esprimerla
secondo i loro linguaggi, le loro concezioni, i
loro simboli e le loro tradizioni religiose. Deve, però, essere sempre capace di custodire
la genuina sostanza dei suoi contenuti, sorvegliando e controllando i rischi di degenerazione. La Chiesa deve, quindi, far brillare i
valori che la Parola di Dio offre alle altre
culture, così che ne siano purificate e fecondate. Come aveva detto Giovanni Paolo II all’episcopato del Kenya durante il suo viaggio
in Africa nel 1980, «l’inculturazione sarà
realmente un riflesso dell’incarnazione del
Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce nella sua
propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano».
C o ncl u si o ne
«La voce che avevo udito dal cielo mi disse:
“Prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo…”. E l’angelo mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in
bocca ti sarà dolce come il miele”. Presi
quel piccolo libro dalle mani dell’angelo e lo
divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito, ne sentii nelle
viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,8-11). Fratelli e sorelle di tutto il mondo, accogliamo
anche noi questo invito; accostiamoci alla
mensa della Parola di Dio, così da nutrirci e
vivere «non soltanto di pane ma anche di
quanto esce dalla bocca del Signore» ( Dt
8,3; Mt 4,4). La Sacra Scrittura – come affermava una grande figura della cultura cristiana – «ha passi adatti a consolare tutte le
condizioni umane e passi adatti a intimorire
in tutte le condizioni» (B. Pascal, Pensieri, n.
532 ed. Brunschvicg). La Parola di Dio, infat-
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ti, è «più dolce del miele e di un favo stillante» (Sal 19,11), è «lampada per i passi e luce
sul cammino» ( Sal 119,105), ma è anche
«come il fuoco ardente e come un martello
che spacca la roccia» ( Ger 23,29). È come
una pioggia che irriga la terra, la feconda e
la fa germogliare, facendo così fiorire anche
l’aridità dei nostri deserti spirituali (cfr Is
55,10-11). Ma è anche «viva, efficace e più
tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa
penetra fino al punto di divisione dell’anima
e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del
cuore» (Eb 4,12). Il nostro sguardo si rivolge
con affetto a tutti gli studiosi, ai catechisti e
agli altri servitori della Parola di Dio per
esprimere ad essi la nostra più intensa e
cordiale gratitudine per il loro prezioso e importante ministero. Ci rivolgiamo anche ai
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nostri fratelli e alle nostre sorelle che sono
perseguitati o che sono messi a morte a
causa della Parola di Dio e della testimonianza che rendono al Signore Gesù (cfr Ap
6,9): quali testimoni e martiri ci raccontano
“la forza della parola” (Rm 1,16), origine della loro fede, della loro speranza e del loro
amore per Dio e per gli uomini. Creiamo ora
silenzio per ascoltare con efficacia la parola
del Signore e conserviamo il silenzio dopo
l’ascolto, perché essa continuerà a dimorare, a vivere e a parlare a noi. Facciamola risuonare all’inizio del nostro giorno perché
Dio abbia la prima parola e lasciamola
echeggiare in noi alla sera perché l’ultima
parola sia di Dio. Cari fratelli e sorelle, «vi
salutano tutti coloro che sono con noi. Salutate tutti quelli che ci amano nella fede. La
grazia sia con tutti voi!» (Tt 3,15).
In quarta di copertina:
Ogni fine anno conclude, ma anche interrompe una continuità… perché si possa cambiare, dare
inizio ad un nuovo inizio… offrirsi la possibilità di ri-vedersi, di ri-nnovarsi, così che un nuovo
inizio proceda con la continuità discreta della scansione mensile, quotidiana, oraria…. del tempo.
Giorni che hanno configurato un labirinto di esperienze, storie, ricordi… che, guardati a distanza,
dall’alto di un nuovo anno, ci permettono di leggere alcune tracce di continuità, di progettualità, a
volte di frammentazione o disorientamento…
Ma qual è l’alfabeto che permette di leggere e di interpretare il passato e costituirsi codice di orientamento del presente e del futuro? Se fino ad ora questa miniatura è stata una metafora ispirativa
dell’esistenza, ne può diventare anche un’analogia. Infatti, se la lettera da rintracciare fosse l’ultima
dell’alfabeto…. E se questa lettera figurasse come Colui che negli ultimi tempi svelerà e rivelerà il
frammento e il tutto che nel frattempo stiamo vivendo? Colui che ora si propone come un innesto
salvifico nel labirinto della storia, una via di verità che vivifica la ricerca e ne traccia l’orientamento… come l’igitur di una continua invocazione alla clemenza e non la conclusione di una di-mostrazione, un rivelarsi aperto e non concluso che ti evita di trottolarti e di girarti intorno come avviene nell’obbligata miopia di un labirinto… ?
Se tutto questo che avete letto non corrisponde a quanto avete pensato osservando questa miniatura, siate clementi… non esprimete subito il vostro igitur di giudizio su quanto avete letto, se non
dopo aver provato anche voi a scrivere. Vedrete che tutto sarà compiuto prima che ognuno di noi
possa poter dire tutto ciò che si potrebbe ancora dire, perché ognuno è un lato di quella poligonale
verità che porta fino all’invocazione: Te igitur clementissime Pater…
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4/2008 - Diocesi di Roma