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Sergio Bovero
La breve estate di Giovanna
Rifl e s s i o n i
Sergio Bovero
La breve estate di Giovanna
ISBN 978-88-6628-193-1
copyright 2013 Caosfera Edizioni
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soluzioni grafiche e realizzazione
DEDICATO AD OL’GA
Ognuno di noi si costruisce
ed ha bisogno di costruirsi un mondo
diverso da quello in cui vive
J. Joubert
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PREFAZIONE
Questa è la storia, la tragica storia, di una donna
di Langa, non ancora ventenne, che si suicidò per
rimanere fedele e coerente a quello in cui credeva, al
suo essere una donna libera. Un fatto tragico accaduto
tempo fa di cui si era persa memoria. Avvenne fra i
vigneti più belli della terra, una fabbrica di computer
americana e le stupende donne di Langa che sanno
portare avanti una vigna e costruire un computer.
Ebbi, tanto tempo fa, il grande privilegio di trascorrere
un po’ di tempo con Cesare Pavese in una bettola di
Corso Francia, a Torino. Diceva, scuro in volto, che
“scrivere non serve a nulla, ma si scrive”. Invece no,
Queste righe vogliono essere un ricordo per me,
ormai ottantenne, e per i mie due lettori che sono
stati la mia resurrezione dopo il tremendo ictus che mi
colpì, gettandomi su una sedia a rotelle, abbandonato
e solo, in un limbo. Molti pensavano ad un prossimo
cadavere, specie i miei figli, che fecero terra bruciata
intorno a me.
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Un giorno fuggii senza sapere dove andare e come
vivere. Mia madre, non più su questa terra, ma vivissima
in me, mi mandò una splendida sconosciuta calabrese
che mi ospitò ed ebbe cura di me, e rinacque una
speranza. Un giorno mi urlò: «Prendilo vecchiaccio,
vorrò vederti ad usarlo.» Era un computer. Queste
righe sono dedicate al suo gran cuore, alla vivissima
intelligenza, all’accogliente bontà ed a Silvano, un
amico, un grande amico che con professionalità,
pazienza, disponibilità, mi insegnò a mettere cervello
e mani sul computer. E mi salvai.
Ad Ol’ga, a Silvano, queste righe sono per loro, e per
me.
S.B.
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INTRODUZIONE
L’ autore, Sergio Bovero, è nato Torino il 19 ottobre
1929. Dopo pochi anni la famiglia si trasferì a Bra
(prov. di Cuneo) che divenne la città della sua vita
e dove si sposò. Il mare, la letteratura, le donne che
amò determinarono il suo carattere, chiuso e solitario.
La conoscenza fu sempre causa delle sue scelte di
vita. Adolescente incontrò, per caso, Cesare Pavese
all’Osteria dei Francesi sulla collina Torinese. Questo
incontro fu determinante ed il poeta piemontese
divenne il suo vate per tutta la vita. Conseguì la
maturità al liceo nautico “S. Giorgio” di Genova,
per poi entrare all’Accademia Navale di Livorno ed
uscirne Guardiamarina. Il suo sogno primario era però
navigare. Lasciò la marina militare per imbarcarsi sulle
petroliere, le sue navi preferite, dove passò gran parte
della sua vita marinaresca.
Nel 1969 sua moglie si ammalò e vi erano due figli, fu
costretto a lasciare il mare e trovarsi un altro lavoro
a terra. Fu assunto come consulente ed aiuto all’a.d.
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dalla famiglia Marocco, di casa dagli Agnelli (patron
della Fiat), che avevano sul mercato tre stabilimenti
metalmeccanici. A libro paga era impiegato di settimo
livello super (per conservare la tutela sindacale), ma
con stipendio da dirigente e due impiegate bilingue,
lavorando frequentò l’Università di Torino, la scuola
superiore di finanza ed amministrazione aziendale e
marketing. Nel 1971 le aziende dei Marocco furono
acquisite dalla multinazionale di Cleveland (Ohio),
Eaton.
Iniziò una feroce ristrutturazione, specialmente nei
quadri dirigenti. Al sig. Bovero fu tolto ogni potere
e liquidato con «Lei, Dott. Bovero, non servire più,
domani non venire.»
Iniziò il periodo che lo trovò solitario e non compreso
neanche dalla famiglia. Fu messo a fare fotocopie e
gestire una piccola cassa! Tagliato lo stipendio (48%),
insieme all’eliminazione di altri benefit finanziari.
Il richiamo del suicidio fu sempre più grande e ci
sarebbe stato se non entrò nella sua vita la giovane
operaia contadina Giovanna che con il suo amore
fece nascere in Sergio un’altra speranza.
Il padre di Giovanna si rovinò al gioco d’azzardo.
Perse tutto. Il creditore voleva Giovanna ed avrebbe
cancellato il debito di gioco pari a 85 milioni. Per
Giovanna non vi fu scelta e si suicidò incinta.
Ogni anno il 30 aprile Sergio andava a Mosca alla
parata del primo maggio. Vide tutti i segretari del
P.C.U. da Stalin a Gorbaciov.
Fu in uno di quei viaggi in C.C.C.P che conobbe la
colta ed affascinante Ol’ga Kustinova, figlia di un
colonnello dell’Armata Rossa che divenne, per oltre
dieci anni, la sua amante. Il più grande amore della
sua vita. Ol’ga seguì il padre in Afghanistan. Presa
prigioniera il 6 settembre 2001 fu uccisa dai talebani,
l’undici settembre saltarono in aria le Torri Gemelle a
New York.
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Nel 1986 Sergio andò in pensione e divorziò dalla
moglie.
Nel 2006 un ictus lo ruppe e sfarinò, non solo la sua
famiglia, ma anche i ricordi racchiusi in tre valigie
scomparse dove vi era tutto il suo passato.
Nel 2008 un amico gli portò un computer e per sentirsi
vivo decise di scrivere.
Dal 2008 scrisse una decina di libri. E continuerà. Sino
alla fine.
Ora vive in Sanfrè.
1.
In un tempo ormai remoto Marco T., nonno di
Giovanna, ebbe l’occasione di acquistare dal conte di
Bra la collina alta e scura di gerbido che si ergeva
dietro la cascina dove Marco e la sua famiglia vivevano
da sempre. Un tempo fruttava poi, morto il contadino
che ne aveva cura, lavori non ne furono più fatti ed il
gerbido la fece da padrone.
Il conte un tempo aveva dei beni al sole, soldi.
Ultimo rampollo di una nobile casata aristocratica
che aveva sfruttato terra e contadini senza pietà,
accumulato terre nella pianura e diverse cascine da
cento animali. Le stalle facevano da salvadanaio
più che dare un reddito vero. Avevano case in Bra
ed un intero quartiere di alloggi popolari in via Po, a
Torino, abitati in gran parte da operai della Fiat e della
Lancia. Si trattava quasi sempre di due stanze senza
riscaldamento, per questo vi erano le stufe a carbone.
Le due stanze venivano tramezzate facendo uscire
quattro locali, un po’ piccoli ma adatte alle tasche degli
inquilini.
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Non vi era bagno, solo un cesso alla turca ed un
lavandino di pietra fuori, che venivano usati da cinque
famiglie. Alloggi di ringhiera venivano chiamati. Erano
destinati alla gente di basso reddito, gli operai quindi.
A fine mese un omino nero, con i peli nello stomaco,
passava e riscuotere la pigione, troppo esosa per i
magri salari degli inquilini.
All’omino nero andava una piccola provvigione.
Non erano consentite, per nessun motivo, dilazioni o
saltare una mensilità, subito iniziavano le procedure di
sfratto per morosità con pignoramento.
Il conte non aveva mai lavorato, né studiato come
avevano fatto i figli delle famiglie del suo ceto, né
conseguito una laurea ed avviato la professione di
notaio, avvocato .
Maleducato e arrogante, batteva i salotti alti
esclusivamente frequentati dalla borghesia ricca.
dagli aristocratici, dalla gente che conta.
Al bar di Converso, quello delle famose caramelle alla
genziana, la domenica, per l’aperitivo, dopo la messa
dei signori alle undici, alto, magro, si presentava
vestito di scuro con gilet bianco a quadretti, camicia
fresca di stiro, colletto duro d’amido, cravatta nera a
farfalla a pois bianchi.
Durante la settimana vestiva da cacciatore: stivali
rigidi sino al ginocchio, giacca di stoffa pesante giallo
scuro, cappello da alpino con una grande penna di
fagiano maschio molto colorata.
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Le sue passioni erano le donne, per le quali viveva e
spendeva patrimoni, e la caccia.
Girava sempre con un bocchino lungo ricavato da un
osso di lepre, e fumava sigarette fini, le “serraglio”,
che mandavano un penetrante profumo di violette
selvatiche e di buon tabacco. Il profumo si perdeva
leggero ed azzurro nell’aria.
Durante la settimana, quando la caccia era chiusa, al
mattino si recava, sul presto, era mattiniero, al bar di
Lino dove l’aspettava un grigio verde (menta e grappa)
ed il solito: «Signor Conte come va?» «Bisogna
accontentarsi.» Rispondeva senza convinzione,
perché lui non si accontentava mai. Andava a sedersi
al solito posto da dove poteva vedere la solita gente
passare per via Cavour.
Molti lo salutavano, i più anziani si toglievano il cappello
per un rispetto dovuto al rampollo di una nobile casata
in via di estinzione che aveva dato molti militari di alto
rango fedelissimi a casa Savoia, un cardinale (che
pensava di essere fatto papa, ma non lo fu), prelati in
Vaticano vicini al “Soglio”, studiosi e altri personaggi
che non mancavano mai ai ricevimenti dei Savoia.
I suoi genitori erano morti ancora giovani e lui si era
ritrovato solo. La servitù, molta, provvedeva ad ogni
suo bisogno quotidiano ed a mandare avanti la grande
casa. Un ragioniere, ereditato dal padre, si occupava
dei conti, di gestire i mezzadri ed i beni. Suo padre
diceva che nella vita bisognava avere sempre un
prete, un bravo dottore ed un dotto ragioniere.
Dei primi due ne aveva fatto a meno. Del ragioniere
no.
Ogni mese il ragioniere lo andava a trovare con un
bel mazzetto di banconote, ed ogni sei il resoconto
patrimoniale, che però andava calando. Il ragioniere,
per provvedere alle spese folli del conte, era costretto
a vendere.
Il rampollo non si era sposato, pigro com’era non
voleva avere grattacapi. I figli: mostriciattoli, “Esattori
implacabili di sacrifici” soleva dire citando Socrate.
“No grazie, preferisco la caccia.”
Si diceva che avesse una mantenuta a Torino, di quelle
toste, assatanata, che si piegava a qualunque suo
desiderio e capriccio sessuale e non aveva scrupoli a
qualsiasi perversione, costava moltissimo e lo tradiva.
Ogni giovedì (eccetto nel periodo della caccia)
prendeva il treno da Bra, in prima classe, portava una
piccola valigia per il ricambio intimo e due camicie
fresche di stiro, un braccialetto o un anello. Rimaneva
sino alla domenica. Aveva pensato di trasferirsi a
Torino, ma il solo pensiero del trasloco lo gettava in
depressione. Nella grande casa dei suoi antenati vi
erano tutte le comodità a cui era abituato da quando
era nato. Non si sarebbe mosso. Rimaneva sino alla
domenica sera, poi prendeva l’ultimo treno per Bra, a
mezzanotte.
Lei, dalla domenica al giovedì, non usciva dal lussuoso
appartamento che le aveva intestato il conte, arredato
con mobili d’antiquariato e tappezzeria fine.
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Aveva una macchina di lusso, una Bugatti di pregio,
e l’autista in divisa la portava in giro per Torino, dalle
sue amiche, a fare compere, e la serviva anche come
portiere e uomo di fatica.
L’appartamento si trovava nel centro di Torino, alla
Crocetta, quartiere esclusivo della borghesia ricca e
dell’aristocrazia torinese.
Nei giorni torinesi tutto lo scibile della lussuria veniva
vissuto, appagato sino all’esaurimento fisico e
psichico.
A volte veniva una prostituta di alto rango e facevano
una cosa a tre sino all’alba.
Si diceva che quella “madama” fosse bionda, alta,
molto bella e sempre elegantissima.
Veniva da un antica casata torinese, ora decaduta.
Si serviva da sarte famose (le fatture le saldava il
conte). Frequentava solo la gente che contava, gente
ricca, blasonata, industriali che gravitavano attorno
alla Fiat. all’alto clero.
Molto corteggiata e ricercata, concedeva i suoi favori,
la sua arte e le sue notti, nonostante il conte di Bra,
per cifre favolose.
Oltre all’autista aveva una cuoca e due serve che
si occupavano di lei e della casa, tutto a spese del
conte di Bra che quando ritornava a casa con l’ultimo
treno, lasciava sul trumò del salotto una busta con un
assegno a sette cifre ed una rosa rossa. Sempre una
rosa rossa.
Un giorno, di prima mattina, il direttore della Cassa
di Risparmio telefonò. Era fuori per una grossa cifra
e solo per riguardo al suo nome (la sua famiglia da
tempo immemorabile era fra i più redditizi clienti)
aveva tenuto nel cassetto un grosso assegno a sette
cifre che non poteva essere coperto. Il tono non era
per nulla cordiale, mai successo, ma piuttosto freddo
e professionale.
Avrebbe atteso, a breve, sue notizie.
Ora il conte doveva agire, era suo dovere, ma cosa
fare? Innanzitutto non emettere assegni. Non avrebbe
potuto onorarli. Ma come poteva coprire la vergogna
del protesto?
Aveva compiuto sessant’anni ed attorno a lui molte
cose si stavano sfarinando. Il primo a morire era stato
il pene, non aveva più erezioni e le sue prestazioni
sessuali erano deludenti e lo umiliavano.
La madama di Torino diceva con malevolenza che lei
era giovane e l’amore lo voleva godere ancora per
molti anni.
«Vai dal dottore, fai qualcosa.» Gli disse dopo una
notte passata in bianco durante la quale a nulla erano
valse l’arte e la paziente disponibilità di lei.
Cadde in una profonda prostrazione, si sentì finito,
annientato, tristi pensieri lo tormentavano.
Il suo mondo stava per crollare, inesorabilmente.
Qualcosa di irreparabile stava per accadere.
Nella casa di Bra la silenziosa e preziosa Rina lo stava
aspettando. Gli faceva da serva da quando aveva
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quindici anni. Rina aveva cura della casa, dal vitto
alle pulizie. Era feroce con le donne che prendeva a
servizio a ore.
A volte si infilava sotto le coperte per godere il conte.
Poi tornava nella sua cameretta da serva perché il
conte voleva dormire solo anche per i cattivi odori che
emanava durante la notte.
La madama di Torino, più accorta, si profumava prima
di entrare sotto le coperte. Due gocce di Chanel n°5,
quello di Marilyn Monroe.
La telefonata del direttore lo aveva gettato in una
profonda depressione che si volse in disperazione.
Disse a Rina che non avrebbe cenato. Stanco, con
un forte mal di testa, sarebbe andato a letto presto.
Ma non dormì, progetti folli e quindi non praticabili:
emigrare, vendere quel poco che era rimasto e sparire.
Ma dove?
Era tutto così complicato, la notte poi ingigantiva ogni
cosa, aveva incubi terribili. Le forze lo abbandonavano,
sia quelle fisiche che psichiche.
L’idea di mettere fine ai propri giorni divenne un
ossessione ed anche l’unica soluzione che gli era
rimasta. L’unica che potesse ancora mettere in atto.
Era giunto al capolinea e doveva scendere. Pensò
a suo padre, impiccatosi per aver messo incinta una
serva minorenne che aveva poi parlato. Lo scandalo
era stato grande.
Giunse l’alba, poi il mattino. All’ora giusta telefonò al
ragioniere che da sempre curava gli interessi della
sua famiglia, voleva un incontro urgente perché la
situazione era grave. Il ragioniere lo avrebbe aspettato
alle quattordici e trenta, puntuale.
Le parole del ragioniere erano rassicuranti, almeno dal
tono gentile, e poi sapeva il fatto suo e una soluzione
l’avrebbe trovata. Un grosso patrimonio, o almeno lo
era un tempo, accumulato in secoli dalla sua famiglia
cui però suo padre aveva dato un colpo e che ora
forse dissolto.
Non mangiò. Prese una bottiglia di Barolo d’annata
e se ne versò un bicchiere colmo. Si sentì meglio
ed il magone se ne andò lasciando nascere qualche
speranza. La vita di sempre. Sarebbe andato
dall’andrologo per il pene inservibile nella sua primaria
e nobile funzione.
All’ora stabilita il ragioniere si chiuse con lui nello
studio, licenziò la segretaria e le disse di disdire tutti
gli appuntamenti. Nessuna telefonata salvo la banca,
quella si doveva sempre sentire.
Come sua abitudine venne subito al cuore
dell’argomento. In primis bisognava coprire entro
il giorno successivo lo scoperto sul c/c. Sistemare
l’assegno prima che andasse in protesto. Bisognava
procedere subito ad un inventario rigoroso, vedere
il capitale netto, il passivo e l’attivo. Doveva
entrare nell’idea di vendere tutto, come risultava
dall’esposizione patrimoniale molto dettagliata.
«Tutti i beni sono ipotecati dalla banca.» Ripeté il
ragioniere, ed il conto perdite e profitti era appena
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sufficiente a coprire gli interessi passivi. Bisognava
chiudere con la madama di Torino, liquidarla e vendere
l’appartamento. Licenziare il personale e collocare
la Bugatti, assolutamente non emettere assegni,
ricorrere a prestiti con finanziarie e strozzini.
Sarebbe andato l’indomani mattina in banca a parlare
con il direttore. C’era da aspettarsi il peggio. È la
bancarotta, Sig. Conte.» Disse il ragioniere. «Spero
comprenda la gravità della situazione.»
Vi era una cascina, anch’essa ipotecata, in contrada
delle vigne a Cherasco. Un gioiello, la sua preferita
sia per l’esposizione che per i frutti ed il reddito, e
soprattutto per la famiglia di mezzadri che vi abitava da
quattro generazioni. Sua madre da bambino, in fasce,
lo aveva messo a balia e lo aveva lasciato anche
dopo la prima infanzia. Gente semplice, buona, gran
lavoratori, sapevano condurre e fare con maestria ogni
cosa. Conoscevano i mestieri, se li tramandavano di
padre in figlio.
In primavera era uno spettacolo, un caleidoscopio di
splendidi fiori esplosi al sole.
Il conte si era affezionato a quella donna dal gran seno
che molte volte era morbido e profumato cuscino per i
suoi innocenti sonni e la chiamava “mamma”.
Quando era morta ne aveva sofferto molto, di tanto in
tanto andava alla modesta tomba al cimitero.
Portava fiori di campo, puliva la pietra tombale dalle
foglie, baciava la piccola foto che la ritraeva felice,
bella e forte in un campo di grano appena mietuto.
Pareva lo guardasse e sorridesse, il conte rimaneva un
po’ a parlarle, a dirle che stava bene, che gli mancava
tanto. Lei continuava a sorridere. Le dava un bacio e,
triste, prendeva il vialetto che portava sullo stradone.
Il ragioniere pensò a quella collina a gerbido, l’unica
libera da ipoteche, ma molto difficile da piazzare,
troppe spese mettere a dimora alberi da frutto, i vitigni,
poi la servitù dei Testa. Bisognava passare attraverso
i loro beni. Gli unici cui poteva interessare erano
soltanto loro, la cui cascina confinava con la collina.
Doveva però scendere nel prezzo perché di quei soldi
aveva urgente bisogno. Il conte percepì che tutto si
stava complicando, il suo mondo crollava, un mondo
bello nel quale aveva vissuto felice per tanti anni
senza pensieri ed aveva goduto a piene mani di tutto
quello che offriva ed era stato tanto. Non vedeva vie
d’uscita da quella rovina, andare in un’isola lontana
dove splendeva sempre il sole, vivere i suoi ultimi anni
lontano da tutti, dalla madama di Torino, dalla banca.
Voleva vivere come una rosa, vivere per essere una
rosa, ma l’isola non c’era, non c’era più nulla. Era
venuto il tempo dell’ultimo trasloco, avrebbe cancellato
le angosce ed i pensieri che lo tormentavano e che lo
facevano così tanto soffrire.
Nulla era più come prima. Bisognava vendere ogni
cosa, pagare la banca, i creditori, il gioielliere di Bra.
Si era accorto che il ragioniere taroccava i conti e
parecchi soldi erano finiti nelle sue tasche, ma che
poteva fare? Solo prenderne atto, pover’uomo!
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Non aveva né arte né parte.
Il miglior cacciatore della zona, grande amatore, un
tempo diceva di essere uno stallone, buongustaio,
sapeva tutto sulle annate del Barolo che custodiva in
una cantina a parete ben sistemate secondo le annate,
pulitissima, una reggia come si conveniva ad un re
come il Barolo, il suo vanto, il suo prezioso gioiello.
Rosso rubino, regale, austero, che nasce dal vitigno
del Nebbiolo che frutta tardi (nelle nebbie autunnali di
La Morra, Verduno, Barolo) e con l’invecchiamento,
cinque anni circa, tende al granato con riflessi
aranciati ed il suo profumo caratteristico odora di rose
appassite. Tutte bottiglie di gran valore destinate ai
blasonati. Una volta aveva inviato una pregiatissima
cassa da ventiquattro bottiglie ai Savoia di passaggio
nella tenuta regale di Pollenzo.
Un mondo felice, gente ricca ed arrogante, che con
spensieratezza si godeva la bella vita che il destino
aveva loro riservato.
Il conte di Bra era tenuto un po’ in disparte per via
della sua nobiltà un po’ recente, ma soprattutto per
lo scandalo di suo padre che si era appeso al trave
dopo aver messo incinta la servetta minorenne, cosa
non tanto grave, cose che si fanno, specie fra quella
gente, ma che nessuno deve sapere.
Infatti non era mai stato invitato ai ricevimenti che i
Savoia davano di tanto in tanto quando passavano da
Pollenzo.
Ora tutto quel mondo colava fra le mani. Vecchio,
povero, incapace di un qualsiasi lavoro o impegno
che potesse portare un reddito anche piccolo, ma
che gli permettesse di sopravvivere. Si sentì perso,
smarrito, si vedeva in un deserto, saliva un’erta collina
e rinascevano speranze folli, ma raggiunta la cima,
ovunque guardasse, era tutto coperto da altre simili
colline deserte, perse sino all’orizzonte sotto un sole
rovente. Tutta la sua vita si sciorinava in un impietoso
scenario.
Il cappio ben insaponato perché non facesse scherzi,
salì sulla scala dopo aver bevuto due grossi bicchieri
di Barolo, il migliore. Passò la testa nel foro. Sentì il
ruvido della corda sul collo. Fu l’ultima sensazione
terrena. Un calcio alla scaletta che scivolò via ed il
conte penzolò come suo padre con le ossa cervicali
rotte. Gli occhi uscirono dalle orbite e si spensero,
la lingua nerastra penzolò fuori dalla bocca coperta
da una bava giallastra schiumosa. Mandò un rantolo
e fu il suo addio al mondo. Urinò, e sotto di lui una
larga chiazza bagnò il pavimento. La gamba destra
si allungò in avanti come per cercare un appiglio, poi
tutto il corpo cadde e si distese. Il conte senza vita
penzolava dal trave. Come suo padre. Solo, sbattendo
la porta alla banca, alla madama, al ragioniere, alla
povertà, al bel mondo, alla bella vita.
Rina chiamò il ragioniere: «Venga subito.» E i
carabinieri.
Venne il medico legale con il sostituto procuratore
della Repubblica.
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Tutto fu fatto secondo le procedure del caso, in breve
tempo Rina prosciugò il libretto alla posta dove metteva
i soldi che venivano dalla cresta che faceva sulle spese
di casa. Sempre poche lire perché il conte, con lei, era
tirchio e taccagno. Tanto tempo prima la donna aveva
letto su un giornale un detto del Macchiavelli “il molto
poco sovente fa il molto” le era piaciuto e lo aveva
adottato. Ora restituiva tutto al conte che mai le aveva
dato un regolare mensile se non una modesta somma
a Natale ed al suo compleanno. Provvide a metterlo
nella tomba di famiglia, un funerale modesto. Il giorno
dopo, sul far della sera, giaceva accanto a suo padre
e a quelli del suo casato che lo avevano preceduto.
Passò poco tempo e nessuno ne parlò più neanche
al bar di Converso, quello delle famose caramelle alla
genziana e dei signori.
Rina aveva provveduto ai rosari, alla trigesima, alle
settembrine azzurre colte ai bordi dello stradone che
mise nel vasetto dell’acqua sotto la fotografia del conte
con il cappello da alpino con gran piuma dai vivaci
colori di fagiano maschio, il lungo bocchino di zampa
di lepre, la sigaretta ”serraglio” che sapeva di violette
selvatiche. Rina a quell’uomo, che segretamente
amava, aveva dedicato fedelmente e silenziosamente
la sua povera esistenza, gli aveva fatto da serva,
amante, senza mai chiedere nulla e non aveva più
una lira. Il parroco la sistemò all’ospizio dei poveri
e silenziosamente come aveva vissuto, sola, l’anno
dopo, morì.
L’autunno si era inoltrato innanzi tempo portando ai
boschi gli abiti da indossare: il rosso bruciato, il giallo
ed il marrone delle foglie cadute. Al mattino successivo
il ragioniere si portò a casa di Marco. Quando lo
vide questi pensò che dovessero esserci novità. Il
ragioniere non era venuto sin li per una visita.
Come tutti quelli che non avevano studiato Marco si
teneva sempre sulle sue, ascoltava molto e parlava
solo a proposito. Sinora il ragioniere si era comportato
correttamente ed onestamente per gli affari che erano
intercorsi fra loro.
Dopo i soliti convenevoli, il contabile incominciò: «Il
conte si è impiccato l’altra sera come suo padre.
Domani si faranno i funerali. Non aveva più un soldo e
tantomeno credito, tutte le sue terre, le cascine, tutti i
suoi beni al sole, uno dopo l’altro ipotecati dalle banche.
Non aveva arte, mai lavorato, svolto un impiego che
gli assicurasse un reddito. Donne, bella vita, caccia,
viaggi all’estero. Soprattutto una mantenuta a Torino
di alto ceto, la rovina. Quel poco che resta andrà
alle banche, rapaci come sono. Bertolt Brecht diceva
che è più criminale fondare e gestite una banca che
rapinarla. Vecchio, probabilmente malato, non poteva
condurre la vita di prima. Neanche a pensarci. Non ne
aveva i mezzi, nemmeno la salute. Non disponeva di
due camere dove trovar rifugio ed aspettare la fine.
Solo la Rina, che era a casa sua da quando aveva
quindici anni, non l’avrebbe abbandonato. Non aveva
reddito, neanche una pur minima pensione.
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