caosfera www.caosfera.it creativitoria 100% MADE IN ITALY Sergio Bovero La breve estate di Giovanna Rifl e s s i o n i Sergio Bovero La breve estate di Giovanna ISBN 978-88-6628-193-1 copyright 2013 Caosfera Edizioni www.caosfera.it soluzioni grafiche e realizzazione DEDICATO AD OL’GA Ognuno di noi si costruisce ed ha bisogno di costruirsi un mondo diverso da quello in cui vive J. Joubert 5 PREFAZIONE Questa è la storia, la tragica storia, di una donna di Langa, non ancora ventenne, che si suicidò per rimanere fedele e coerente a quello in cui credeva, al suo essere una donna libera. Un fatto tragico accaduto tempo fa di cui si era persa memoria. Avvenne fra i vigneti più belli della terra, una fabbrica di computer americana e le stupende donne di Langa che sanno portare avanti una vigna e costruire un computer. Ebbi, tanto tempo fa, il grande privilegio di trascorrere un po’ di tempo con Cesare Pavese in una bettola di Corso Francia, a Torino. Diceva, scuro in volto, che “scrivere non serve a nulla, ma si scrive”. Invece no, Queste righe vogliono essere un ricordo per me, ormai ottantenne, e per i mie due lettori che sono stati la mia resurrezione dopo il tremendo ictus che mi colpì, gettandomi su una sedia a rotelle, abbandonato e solo, in un limbo. Molti pensavano ad un prossimo cadavere, specie i miei figli, che fecero terra bruciata intorno a me. 7 Un giorno fuggii senza sapere dove andare e come vivere. Mia madre, non più su questa terra, ma vivissima in me, mi mandò una splendida sconosciuta calabrese che mi ospitò ed ebbe cura di me, e rinacque una speranza. Un giorno mi urlò: «Prendilo vecchiaccio, vorrò vederti ad usarlo.» Era un computer. Queste righe sono dedicate al suo gran cuore, alla vivissima intelligenza, all’accogliente bontà ed a Silvano, un amico, un grande amico che con professionalità, pazienza, disponibilità, mi insegnò a mettere cervello e mani sul computer. E mi salvai. Ad Ol’ga, a Silvano, queste righe sono per loro, e per me. S.B. 8 INTRODUZIONE L’ autore, Sergio Bovero, è nato Torino il 19 ottobre 1929. Dopo pochi anni la famiglia si trasferì a Bra (prov. di Cuneo) che divenne la città della sua vita e dove si sposò. Il mare, la letteratura, le donne che amò determinarono il suo carattere, chiuso e solitario. La conoscenza fu sempre causa delle sue scelte di vita. Adolescente incontrò, per caso, Cesare Pavese all’Osteria dei Francesi sulla collina Torinese. Questo incontro fu determinante ed il poeta piemontese divenne il suo vate per tutta la vita. Conseguì la maturità al liceo nautico “S. Giorgio” di Genova, per poi entrare all’Accademia Navale di Livorno ed uscirne Guardiamarina. Il suo sogno primario era però navigare. Lasciò la marina militare per imbarcarsi sulle petroliere, le sue navi preferite, dove passò gran parte della sua vita marinaresca. Nel 1969 sua moglie si ammalò e vi erano due figli, fu costretto a lasciare il mare e trovarsi un altro lavoro a terra. Fu assunto come consulente ed aiuto all’a.d. 9 dalla famiglia Marocco, di casa dagli Agnelli (patron della Fiat), che avevano sul mercato tre stabilimenti metalmeccanici. A libro paga era impiegato di settimo livello super (per conservare la tutela sindacale), ma con stipendio da dirigente e due impiegate bilingue, lavorando frequentò l’Università di Torino, la scuola superiore di finanza ed amministrazione aziendale e marketing. Nel 1971 le aziende dei Marocco furono acquisite dalla multinazionale di Cleveland (Ohio), Eaton. Iniziò una feroce ristrutturazione, specialmente nei quadri dirigenti. Al sig. Bovero fu tolto ogni potere e liquidato con «Lei, Dott. Bovero, non servire più, domani non venire.» Iniziò il periodo che lo trovò solitario e non compreso neanche dalla famiglia. Fu messo a fare fotocopie e gestire una piccola cassa! Tagliato lo stipendio (48%), insieme all’eliminazione di altri benefit finanziari. Il richiamo del suicidio fu sempre più grande e ci sarebbe stato se non entrò nella sua vita la giovane operaia contadina Giovanna che con il suo amore fece nascere in Sergio un’altra speranza. Il padre di Giovanna si rovinò al gioco d’azzardo. Perse tutto. Il creditore voleva Giovanna ed avrebbe cancellato il debito di gioco pari a 85 milioni. Per Giovanna non vi fu scelta e si suicidò incinta. Ogni anno il 30 aprile Sergio andava a Mosca alla parata del primo maggio. Vide tutti i segretari del P.C.U. da Stalin a Gorbaciov. Fu in uno di quei viaggi in C.C.C.P che conobbe la colta ed affascinante Ol’ga Kustinova, figlia di un colonnello dell’Armata Rossa che divenne, per oltre dieci anni, la sua amante. Il più grande amore della sua vita. Ol’ga seguì il padre in Afghanistan. Presa prigioniera il 6 settembre 2001 fu uccisa dai talebani, l’undici settembre saltarono in aria le Torri Gemelle a New York. 10 11 Nel 1986 Sergio andò in pensione e divorziò dalla moglie. Nel 2006 un ictus lo ruppe e sfarinò, non solo la sua famiglia, ma anche i ricordi racchiusi in tre valigie scomparse dove vi era tutto il suo passato. Nel 2008 un amico gli portò un computer e per sentirsi vivo decise di scrivere. Dal 2008 scrisse una decina di libri. E continuerà. Sino alla fine. Ora vive in Sanfrè. 1. In un tempo ormai remoto Marco T., nonno di Giovanna, ebbe l’occasione di acquistare dal conte di Bra la collina alta e scura di gerbido che si ergeva dietro la cascina dove Marco e la sua famiglia vivevano da sempre. Un tempo fruttava poi, morto il contadino che ne aveva cura, lavori non ne furono più fatti ed il gerbido la fece da padrone. Il conte un tempo aveva dei beni al sole, soldi. Ultimo rampollo di una nobile casata aristocratica che aveva sfruttato terra e contadini senza pietà, accumulato terre nella pianura e diverse cascine da cento animali. Le stalle facevano da salvadanaio più che dare un reddito vero. Avevano case in Bra ed un intero quartiere di alloggi popolari in via Po, a Torino, abitati in gran parte da operai della Fiat e della Lancia. Si trattava quasi sempre di due stanze senza riscaldamento, per questo vi erano le stufe a carbone. Le due stanze venivano tramezzate facendo uscire quattro locali, un po’ piccoli ma adatte alle tasche degli inquilini. 12 Non vi era bagno, solo un cesso alla turca ed un lavandino di pietra fuori, che venivano usati da cinque famiglie. Alloggi di ringhiera venivano chiamati. Erano destinati alla gente di basso reddito, gli operai quindi. A fine mese un omino nero, con i peli nello stomaco, passava e riscuotere la pigione, troppo esosa per i magri salari degli inquilini. All’omino nero andava una piccola provvigione. Non erano consentite, per nessun motivo, dilazioni o saltare una mensilità, subito iniziavano le procedure di sfratto per morosità con pignoramento. Il conte non aveva mai lavorato, né studiato come avevano fatto i figli delle famiglie del suo ceto, né conseguito una laurea ed avviato la professione di notaio, avvocato . Maleducato e arrogante, batteva i salotti alti esclusivamente frequentati dalla borghesia ricca. dagli aristocratici, dalla gente che conta. Al bar di Converso, quello delle famose caramelle alla genziana, la domenica, per l’aperitivo, dopo la messa dei signori alle undici, alto, magro, si presentava vestito di scuro con gilet bianco a quadretti, camicia fresca di stiro, colletto duro d’amido, cravatta nera a farfalla a pois bianchi. Durante la settimana vestiva da cacciatore: stivali rigidi sino al ginocchio, giacca di stoffa pesante giallo scuro, cappello da alpino con una grande penna di fagiano maschio molto colorata. 13 Le sue passioni erano le donne, per le quali viveva e spendeva patrimoni, e la caccia. Girava sempre con un bocchino lungo ricavato da un osso di lepre, e fumava sigarette fini, le “serraglio”, che mandavano un penetrante profumo di violette selvatiche e di buon tabacco. Il profumo si perdeva leggero ed azzurro nell’aria. Durante la settimana, quando la caccia era chiusa, al mattino si recava, sul presto, era mattiniero, al bar di Lino dove l’aspettava un grigio verde (menta e grappa) ed il solito: «Signor Conte come va?» «Bisogna accontentarsi.» Rispondeva senza convinzione, perché lui non si accontentava mai. Andava a sedersi al solito posto da dove poteva vedere la solita gente passare per via Cavour. Molti lo salutavano, i più anziani si toglievano il cappello per un rispetto dovuto al rampollo di una nobile casata in via di estinzione che aveva dato molti militari di alto rango fedelissimi a casa Savoia, un cardinale (che pensava di essere fatto papa, ma non lo fu), prelati in Vaticano vicini al “Soglio”, studiosi e altri personaggi che non mancavano mai ai ricevimenti dei Savoia. I suoi genitori erano morti ancora giovani e lui si era ritrovato solo. La servitù, molta, provvedeva ad ogni suo bisogno quotidiano ed a mandare avanti la grande casa. Un ragioniere, ereditato dal padre, si occupava dei conti, di gestire i mezzadri ed i beni. Suo padre diceva che nella vita bisognava avere sempre un prete, un bravo dottore ed un dotto ragioniere. Dei primi due ne aveva fatto a meno. Del ragioniere no. Ogni mese il ragioniere lo andava a trovare con un bel mazzetto di banconote, ed ogni sei il resoconto patrimoniale, che però andava calando. Il ragioniere, per provvedere alle spese folli del conte, era costretto a vendere. Il rampollo non si era sposato, pigro com’era non voleva avere grattacapi. I figli: mostriciattoli, “Esattori implacabili di sacrifici” soleva dire citando Socrate. “No grazie, preferisco la caccia.” Si diceva che avesse una mantenuta a Torino, di quelle toste, assatanata, che si piegava a qualunque suo desiderio e capriccio sessuale e non aveva scrupoli a qualsiasi perversione, costava moltissimo e lo tradiva. Ogni giovedì (eccetto nel periodo della caccia) prendeva il treno da Bra, in prima classe, portava una piccola valigia per il ricambio intimo e due camicie fresche di stiro, un braccialetto o un anello. Rimaneva sino alla domenica. Aveva pensato di trasferirsi a Torino, ma il solo pensiero del trasloco lo gettava in depressione. Nella grande casa dei suoi antenati vi erano tutte le comodità a cui era abituato da quando era nato. Non si sarebbe mosso. Rimaneva sino alla domenica sera, poi prendeva l’ultimo treno per Bra, a mezzanotte. Lei, dalla domenica al giovedì, non usciva dal lussuoso appartamento che le aveva intestato il conte, arredato con mobili d’antiquariato e tappezzeria fine. 14 15 Aveva una macchina di lusso, una Bugatti di pregio, e l’autista in divisa la portava in giro per Torino, dalle sue amiche, a fare compere, e la serviva anche come portiere e uomo di fatica. L’appartamento si trovava nel centro di Torino, alla Crocetta, quartiere esclusivo della borghesia ricca e dell’aristocrazia torinese. Nei giorni torinesi tutto lo scibile della lussuria veniva vissuto, appagato sino all’esaurimento fisico e psichico. A volte veniva una prostituta di alto rango e facevano una cosa a tre sino all’alba. Si diceva che quella “madama” fosse bionda, alta, molto bella e sempre elegantissima. Veniva da un antica casata torinese, ora decaduta. Si serviva da sarte famose (le fatture le saldava il conte). Frequentava solo la gente che contava, gente ricca, blasonata, industriali che gravitavano attorno alla Fiat. all’alto clero. Molto corteggiata e ricercata, concedeva i suoi favori, la sua arte e le sue notti, nonostante il conte di Bra, per cifre favolose. Oltre all’autista aveva una cuoca e due serve che si occupavano di lei e della casa, tutto a spese del conte di Bra che quando ritornava a casa con l’ultimo treno, lasciava sul trumò del salotto una busta con un assegno a sette cifre ed una rosa rossa. Sempre una rosa rossa. Un giorno, di prima mattina, il direttore della Cassa di Risparmio telefonò. Era fuori per una grossa cifra e solo per riguardo al suo nome (la sua famiglia da tempo immemorabile era fra i più redditizi clienti) aveva tenuto nel cassetto un grosso assegno a sette cifre che non poteva essere coperto. Il tono non era per nulla cordiale, mai successo, ma piuttosto freddo e professionale. Avrebbe atteso, a breve, sue notizie. Ora il conte doveva agire, era suo dovere, ma cosa fare? Innanzitutto non emettere assegni. Non avrebbe potuto onorarli. Ma come poteva coprire la vergogna del protesto? Aveva compiuto sessant’anni ed attorno a lui molte cose si stavano sfarinando. Il primo a morire era stato il pene, non aveva più erezioni e le sue prestazioni sessuali erano deludenti e lo umiliavano. La madama di Torino diceva con malevolenza che lei era giovane e l’amore lo voleva godere ancora per molti anni. «Vai dal dottore, fai qualcosa.» Gli disse dopo una notte passata in bianco durante la quale a nulla erano valse l’arte e la paziente disponibilità di lei. Cadde in una profonda prostrazione, si sentì finito, annientato, tristi pensieri lo tormentavano. Il suo mondo stava per crollare, inesorabilmente. Qualcosa di irreparabile stava per accadere. Nella casa di Bra la silenziosa e preziosa Rina lo stava aspettando. Gli faceva da serva da quando aveva 16 17 quindici anni. Rina aveva cura della casa, dal vitto alle pulizie. Era feroce con le donne che prendeva a servizio a ore. A volte si infilava sotto le coperte per godere il conte. Poi tornava nella sua cameretta da serva perché il conte voleva dormire solo anche per i cattivi odori che emanava durante la notte. La madama di Torino, più accorta, si profumava prima di entrare sotto le coperte. Due gocce di Chanel n°5, quello di Marilyn Monroe. La telefonata del direttore lo aveva gettato in una profonda depressione che si volse in disperazione. Disse a Rina che non avrebbe cenato. Stanco, con un forte mal di testa, sarebbe andato a letto presto. Ma non dormì, progetti folli e quindi non praticabili: emigrare, vendere quel poco che era rimasto e sparire. Ma dove? Era tutto così complicato, la notte poi ingigantiva ogni cosa, aveva incubi terribili. Le forze lo abbandonavano, sia quelle fisiche che psichiche. L’idea di mettere fine ai propri giorni divenne un ossessione ed anche l’unica soluzione che gli era rimasta. L’unica che potesse ancora mettere in atto. Era giunto al capolinea e doveva scendere. Pensò a suo padre, impiccatosi per aver messo incinta una serva minorenne che aveva poi parlato. Lo scandalo era stato grande. Giunse l’alba, poi il mattino. All’ora giusta telefonò al ragioniere che da sempre curava gli interessi della sua famiglia, voleva un incontro urgente perché la situazione era grave. Il ragioniere lo avrebbe aspettato alle quattordici e trenta, puntuale. Le parole del ragioniere erano rassicuranti, almeno dal tono gentile, e poi sapeva il fatto suo e una soluzione l’avrebbe trovata. Un grosso patrimonio, o almeno lo era un tempo, accumulato in secoli dalla sua famiglia cui però suo padre aveva dato un colpo e che ora forse dissolto. Non mangiò. Prese una bottiglia di Barolo d’annata e se ne versò un bicchiere colmo. Si sentì meglio ed il magone se ne andò lasciando nascere qualche speranza. La vita di sempre. Sarebbe andato dall’andrologo per il pene inservibile nella sua primaria e nobile funzione. All’ora stabilita il ragioniere si chiuse con lui nello studio, licenziò la segretaria e le disse di disdire tutti gli appuntamenti. Nessuna telefonata salvo la banca, quella si doveva sempre sentire. Come sua abitudine venne subito al cuore dell’argomento. In primis bisognava coprire entro il giorno successivo lo scoperto sul c/c. Sistemare l’assegno prima che andasse in protesto. Bisognava procedere subito ad un inventario rigoroso, vedere il capitale netto, il passivo e l’attivo. Doveva entrare nell’idea di vendere tutto, come risultava dall’esposizione patrimoniale molto dettagliata. «Tutti i beni sono ipotecati dalla banca.» Ripeté il ragioniere, ed il conto perdite e profitti era appena 18 19 sufficiente a coprire gli interessi passivi. Bisognava chiudere con la madama di Torino, liquidarla e vendere l’appartamento. Licenziare il personale e collocare la Bugatti, assolutamente non emettere assegni, ricorrere a prestiti con finanziarie e strozzini. Sarebbe andato l’indomani mattina in banca a parlare con il direttore. C’era da aspettarsi il peggio. È la bancarotta, Sig. Conte.» Disse il ragioniere. «Spero comprenda la gravità della situazione.» Vi era una cascina, anch’essa ipotecata, in contrada delle vigne a Cherasco. Un gioiello, la sua preferita sia per l’esposizione che per i frutti ed il reddito, e soprattutto per la famiglia di mezzadri che vi abitava da quattro generazioni. Sua madre da bambino, in fasce, lo aveva messo a balia e lo aveva lasciato anche dopo la prima infanzia. Gente semplice, buona, gran lavoratori, sapevano condurre e fare con maestria ogni cosa. Conoscevano i mestieri, se li tramandavano di padre in figlio. In primavera era uno spettacolo, un caleidoscopio di splendidi fiori esplosi al sole. Il conte si era affezionato a quella donna dal gran seno che molte volte era morbido e profumato cuscino per i suoi innocenti sonni e la chiamava “mamma”. Quando era morta ne aveva sofferto molto, di tanto in tanto andava alla modesta tomba al cimitero. Portava fiori di campo, puliva la pietra tombale dalle foglie, baciava la piccola foto che la ritraeva felice, bella e forte in un campo di grano appena mietuto. Pareva lo guardasse e sorridesse, il conte rimaneva un po’ a parlarle, a dirle che stava bene, che gli mancava tanto. Lei continuava a sorridere. Le dava un bacio e, triste, prendeva il vialetto che portava sullo stradone. Il ragioniere pensò a quella collina a gerbido, l’unica libera da ipoteche, ma molto difficile da piazzare, troppe spese mettere a dimora alberi da frutto, i vitigni, poi la servitù dei Testa. Bisognava passare attraverso i loro beni. Gli unici cui poteva interessare erano soltanto loro, la cui cascina confinava con la collina. Doveva però scendere nel prezzo perché di quei soldi aveva urgente bisogno. Il conte percepì che tutto si stava complicando, il suo mondo crollava, un mondo bello nel quale aveva vissuto felice per tanti anni senza pensieri ed aveva goduto a piene mani di tutto quello che offriva ed era stato tanto. Non vedeva vie d’uscita da quella rovina, andare in un’isola lontana dove splendeva sempre il sole, vivere i suoi ultimi anni lontano da tutti, dalla madama di Torino, dalla banca. Voleva vivere come una rosa, vivere per essere una rosa, ma l’isola non c’era, non c’era più nulla. Era venuto il tempo dell’ultimo trasloco, avrebbe cancellato le angosce ed i pensieri che lo tormentavano e che lo facevano così tanto soffrire. Nulla era più come prima. Bisognava vendere ogni cosa, pagare la banca, i creditori, il gioielliere di Bra. Si era accorto che il ragioniere taroccava i conti e parecchi soldi erano finiti nelle sue tasche, ma che poteva fare? Solo prenderne atto, pover’uomo! 20 21 Non aveva né arte né parte. Il miglior cacciatore della zona, grande amatore, un tempo diceva di essere uno stallone, buongustaio, sapeva tutto sulle annate del Barolo che custodiva in una cantina a parete ben sistemate secondo le annate, pulitissima, una reggia come si conveniva ad un re come il Barolo, il suo vanto, il suo prezioso gioiello. Rosso rubino, regale, austero, che nasce dal vitigno del Nebbiolo che frutta tardi (nelle nebbie autunnali di La Morra, Verduno, Barolo) e con l’invecchiamento, cinque anni circa, tende al granato con riflessi aranciati ed il suo profumo caratteristico odora di rose appassite. Tutte bottiglie di gran valore destinate ai blasonati. Una volta aveva inviato una pregiatissima cassa da ventiquattro bottiglie ai Savoia di passaggio nella tenuta regale di Pollenzo. Un mondo felice, gente ricca ed arrogante, che con spensieratezza si godeva la bella vita che il destino aveva loro riservato. Il conte di Bra era tenuto un po’ in disparte per via della sua nobiltà un po’ recente, ma soprattutto per lo scandalo di suo padre che si era appeso al trave dopo aver messo incinta la servetta minorenne, cosa non tanto grave, cose che si fanno, specie fra quella gente, ma che nessuno deve sapere. Infatti non era mai stato invitato ai ricevimenti che i Savoia davano di tanto in tanto quando passavano da Pollenzo. Ora tutto quel mondo colava fra le mani. Vecchio, povero, incapace di un qualsiasi lavoro o impegno che potesse portare un reddito anche piccolo, ma che gli permettesse di sopravvivere. Si sentì perso, smarrito, si vedeva in un deserto, saliva un’erta collina e rinascevano speranze folli, ma raggiunta la cima, ovunque guardasse, era tutto coperto da altre simili colline deserte, perse sino all’orizzonte sotto un sole rovente. Tutta la sua vita si sciorinava in un impietoso scenario. Il cappio ben insaponato perché non facesse scherzi, salì sulla scala dopo aver bevuto due grossi bicchieri di Barolo, il migliore. Passò la testa nel foro. Sentì il ruvido della corda sul collo. Fu l’ultima sensazione terrena. Un calcio alla scaletta che scivolò via ed il conte penzolò come suo padre con le ossa cervicali rotte. Gli occhi uscirono dalle orbite e si spensero, la lingua nerastra penzolò fuori dalla bocca coperta da una bava giallastra schiumosa. Mandò un rantolo e fu il suo addio al mondo. Urinò, e sotto di lui una larga chiazza bagnò il pavimento. La gamba destra si allungò in avanti come per cercare un appiglio, poi tutto il corpo cadde e si distese. Il conte senza vita penzolava dal trave. Come suo padre. Solo, sbattendo la porta alla banca, alla madama, al ragioniere, alla povertà, al bel mondo, alla bella vita. Rina chiamò il ragioniere: «Venga subito.» E i carabinieri. Venne il medico legale con il sostituto procuratore della Repubblica. 22 23 Tutto fu fatto secondo le procedure del caso, in breve tempo Rina prosciugò il libretto alla posta dove metteva i soldi che venivano dalla cresta che faceva sulle spese di casa. Sempre poche lire perché il conte, con lei, era tirchio e taccagno. Tanto tempo prima la donna aveva letto su un giornale un detto del Macchiavelli “il molto poco sovente fa il molto” le era piaciuto e lo aveva adottato. Ora restituiva tutto al conte che mai le aveva dato un regolare mensile se non una modesta somma a Natale ed al suo compleanno. Provvide a metterlo nella tomba di famiglia, un funerale modesto. Il giorno dopo, sul far della sera, giaceva accanto a suo padre e a quelli del suo casato che lo avevano preceduto. Passò poco tempo e nessuno ne parlò più neanche al bar di Converso, quello delle famose caramelle alla genziana e dei signori. Rina aveva provveduto ai rosari, alla trigesima, alle settembrine azzurre colte ai bordi dello stradone che mise nel vasetto dell’acqua sotto la fotografia del conte con il cappello da alpino con gran piuma dai vivaci colori di fagiano maschio, il lungo bocchino di zampa di lepre, la sigaretta ”serraglio” che sapeva di violette selvatiche. Rina a quell’uomo, che segretamente amava, aveva dedicato fedelmente e silenziosamente la sua povera esistenza, gli aveva fatto da serva, amante, senza mai chiedere nulla e non aveva più una lira. Il parroco la sistemò all’ospizio dei poveri e silenziosamente come aveva vissuto, sola, l’anno dopo, morì. L’autunno si era inoltrato innanzi tempo portando ai boschi gli abiti da indossare: il rosso bruciato, il giallo ed il marrone delle foglie cadute. Al mattino successivo il ragioniere si portò a casa di Marco. Quando lo vide questi pensò che dovessero esserci novità. Il ragioniere non era venuto sin li per una visita. Come tutti quelli che non avevano studiato Marco si teneva sempre sulle sue, ascoltava molto e parlava solo a proposito. Sinora il ragioniere si era comportato correttamente ed onestamente per gli affari che erano intercorsi fra loro. Dopo i soliti convenevoli, il contabile incominciò: «Il conte si è impiccato l’altra sera come suo padre. Domani si faranno i funerali. Non aveva più un soldo e tantomeno credito, tutte le sue terre, le cascine, tutti i suoi beni al sole, uno dopo l’altro ipotecati dalle banche. Non aveva arte, mai lavorato, svolto un impiego che gli assicurasse un reddito. Donne, bella vita, caccia, viaggi all’estero. Soprattutto una mantenuta a Torino di alto ceto, la rovina. Quel poco che resta andrà alle banche, rapaci come sono. Bertolt Brecht diceva che è più criminale fondare e gestite una banca che rapinarla. Vecchio, probabilmente malato, non poteva condurre la vita di prima. Neanche a pensarci. Non ne aveva i mezzi, nemmeno la salute. Non disponeva di due camere dove trovar rifugio ed aspettare la fine. Solo la Rina, che era a casa sua da quando aveva quindici anni, non l’avrebbe abbandonato. Non aveva reddito, neanche una pur minima pensione. 24 25