I
Araberara - 8 Giugno 2012
il
Rosso
NERO
e
il
Un giorno tra i “rossi”.
nchiesta
LA CAMMINATA SUI SENTIERI
2
PARTIGIANI DEL MONTE BLUM
I “Ribelli
della
montagna”
I “ribelli” si svegliano presto, se mai
vanno a dormire. Ore sette di domenica
mattina: arrivano come una lama al parcheggio della Malpensata e gli sbadigli
per prendere fiato a pieni polmoni dalle
bocche della memoria.
La marcia partigiana apre i battenti nel
grigiore asfissiante della città, il primo
appello per la tirata del secondo punto
d’approdo, all’ex cinema Mirage di Clusone. In mezzo una lingua di strada e
“Appunti partigiani” dei Modena nelle
orecchie… “La giustizia è la nostra disciplina, libertà è l’idea che ci avvicina,
rosso sangue è il color della bandiera
partigiani dalla folta ardente schiera”.
300 persone circa a seguire la rotta dei
liberatori, annusarne le tracce su per il
Monte Blum e scansare i rigurgiti della
Storia, quella nera che sembra un abisso
calcolato nei quattro muri del cimitero
di Rovetta, palcoscenico nostalgico per
la commemorazione dei miliziani fucilati della Tagliamento. Le idee chiare fin
dall’inizio e le facce limpide di normalità:
“Nessuna provocazione, nessun contatto,
il nostro obiettivo è smuovere una situazione incancrenita da anni. Siamo qui
per andare sulla nostra strada a testimoniare”.
Tina lo fa tutti i sacrosanti giorni, segno
che l’insegnamento può essere ancora
una vocazione: “Cerco di spiegare ai miei
ragazzi che la verità è sì relativa ma va
pesata con le giuste conoscenze, senza sfoderare discorsi precotti ma soprattutto
senza livellare torti e ragioni. Due sponde
che possono toccarsi e mischiarsi, sta alla
singola conoscenza sbrogliare la matassa
per riprendere il filo di quello che siamo
stati e per non ripetere gli sbagli”. I primi
passi portano sempre con sé un segreto
solenne, per la salita si parte dalla
Conca Verde, località di Rovetta, marcare la presenza per
parare il colpo di quelli che
stanno inneggiando dall’altra
parte della barricata. “È sbagliato però utilizzare la definizione di ‘opposti
estremismi’ –
sento alle mie
spalle – chi
utilizza questa formula
mette sullo stesso piano partigiani e fascisti”. Il fiato inizia a farsi corto già dalle
prime battute, i fatti di Rovetta bruciano
ancora dopo anni ma i “Ribelli della montagna”, il gruppo di quindici persone che
in questi mesi hanno alzato l’attenzione
sul raduno dell’estrema destra, non vogliono gettare sale sulle ferite.
Semplicemente informare ad oltranza
perché “sulle strade dal nemico assediate lasciammo talvolta le carni straziate
sentimmo l’ardore per la grande riscossa
sentimmo l’amor per patria nostra” riecheggia la canzone a rimarcare il dolore
delle scelte obbligate, quei muri ciechi
che ogni tanto fanno sudare la coscienza
mettendola alla prova.
Dopo la prima ora di cammino inizia l’apnea, non c’è più spazio per i volteggi delle
parole e il mio Sancio borbotta: “Io mi lamento perché è dura ma pensa le staffette
partigiane che la facevano quasi tutti i
giorni. È proprio vero, la nostra generazione non ha più il fisico” e neanche il ricordo… “Se siamo qui è perché la gente
ha la memoria corta e si dimentica presto
dei fatti storici – aveva spiegato Rossana, una dei Ribelli, in un incontro che ha
preceduto di pochi giorni la camminata
– da anni il nostro gruppo lavora a Rovetta per sensibilizzare le persone. In questi
anni abbiamo fatto azioni di disturbo, nel
2009 siamo passati con l’elicottero sopra
il cimitero nelle ore della commemorazione fascista. Abbiamo scritto lettere al Prefetto e alla Curia, da anni hanno il nostro
materiale ma nessuno ha mai mosso un
dito… Il nostro obbiettivo principale è
informare e quest’anno siamo riusciti ad
alzare bene l’attenzione dopo 20 anni di
silenzio e di comprensione per i curiosi e
i nostalgici che ogni anni si trovano per
commemorare i morti della Tagliamento”.
L’obiettivo è ben chiaro: “Informare, informare, informare” che sembra ricalcare
il motto “Resistere, resistere, resistere!”.
Dopo due ore si apre il monte Blum che
sembra grattare il cielo con la sua chiesetta e un campanile come un indice a
terra ad additare chissà quale vanità.
Inevitabile lo sguardo verso il basso, a
quel cimitero che sembra un puntino,
una sbavatura mal sopportata. “Resistenza” si srotola sul crinale, lo striscione che
porta con sé il carico di una sfida a timbrare la salita.
Poi i messaggi tra cui quelli dei partigiani
che infagottati dagli anni non hanno potuto presenziare, ma uno spicca limpido
come l’aria, quello di Moni Ovadia: “Mi dispiace non condividere con voi fisicamen-
67° ANNIVERSARIO
3
DELL’ECCIDIO DI ROVETTA
Un giorno tra i “neri”.
Nando Caciolo,
l’unico sopravvissuto,
ai giovani:
e...
l’istantanea
di una
ferita
Andrea Marchesi
Araberara - 8 Giugno 2012
“Non mi interessa
se siete fascisti
o comunisti,
siate italiani”
te questa importantissima mobilitazione,
l‘Italia è una delle nazioni Europee con
più lunga storia democratica ma affetta
da una grave malattia, molto grave forse
la principale anche se non sembra.
L’Italia ha ancora ancora nelle vene nelle
fibre il male del fascismo annidato come
quelle cellule cancerogene che non si riescono a debellare e che possono provocare
metastasi. Per questa ragione abbiamo
avuto le stragi, per questa ragione le stragi non sono state punite. Perché abbiamo
queste cellule cancerogene? Perché l’Italia non ha voluto fare i conti con il fascismo, l’Italia si è autoassolta ha propagato
la retorica degli italiani brava gente, retorica fradicia marcia e bugiarda. Il fascismo italiano fu un regime genocida, assassino, criminale, razzista e colonialista.
Abbiamo bisogno di iniziare un cammino
di denuncia di tutte le istituzioni che permettono a questi neofascisti di esprimersi
impunemente. Come? Denunciandoli! Loro
e chi gli dà i permessi. Vanno fermati e la
loro cultura espunta dalla nostra società
democratica. Voi siete l’avanguardia ma
dobbiamo prendere coscienza che abbiamo un lungo lavoro da compiere, l’antifascismo non è una questione di destra o
sinistra è qualcosa di più. È sinonimo di
umanesimo, di democrazia e di libertà”.
Scendiamo dalle vette di pensiero e fisiche prendendo la strada nodosa di casa.
Quassù si ha la vertigine neanche troppo
metaforica di avere ragione, ma ai posteri, che alla fine dovremmo essere già noi,
è riservato il giudizio.
Non c’è calma dopo la tempesta perché
una turbolenza nella giornata non c’è mai
stata, solo il senso di una ferita profonda da portare a spalle e del
sangue che stilla sempre
verso il basso.
La citazione
“Il rosso e il nero” è
un romanzo storico
di Stendhal (17831842: il suo vero
nome era Henry
Beyle) ed è datato
1830. Racconta la
storia di un giovane
indeciso tra farsi
prete (il nero) e la
:
carriera militare (divisa rossa). Variante il
ore,
l’am
e
ue
sang
il
ta
resen
rapp
rosso
il
nero rappresenta l’intrigo e la morte.
Vivrà una vita di intrighi e amori
di
proibiti che lo porteranno al tentativo
nte.
ama
sua
la
sa)
chie
(in
re
ssina
assa
Sarà condannato a morte.
scheda
Quel
mezzogiorno
di fuoco (vero)
Dei fatti di Rovetta fino a
pochi anni fa i volumi di storia
riferivano in poche righe, con
evidente imbarazzo. E tra la
gente non se ne parlava affatto,
rimossi. Nel 1990 Araberara
dedica due pagine a quella
fucilazione a cessate il fuoco
già proclamato e sottoscritto da
tutte le formazioni partigiane
la mattina del 28 aprile,
alle ore 8.00 a Bergamo,
con staffette partite verso le
valli per avvisare tutti. Nel
frattempo l’alta Valle Seriana
è stata “liberata” da due nuclei
militari molto numerosi e
potenzialmente pericolosissimi:
i russi, alleati dei tedeschi,
alloggiati a centinaia in
Seminario a Clusone e convinti
a “disertare” da Don Giuseppe
Bravi (1889-1979) parroco
di Rovetta e parte attiva di
una Brigata partigiana nata
sul posto (mai riconosciuta).
Si arrendono, sempre in via
pacifica e ad opera della stessa
Formazione rovettese, anche
47 militi della Tagliamento
alloggiati alla Cantoniera
della Presolana, convinti a
consegnare le armi proprio a
quelli di Rovetta.
Don Bravi fa capire che questi
due successi (diserzione dei
Russi e la resa dei militi della
Tagliamento) avevano suscitato
invidia nelle tradizionali
formazioni partigiane,
indicando come una delle
cause della fucilazione dei
militi proprio il voler far
capire chi comandava. Fatto
sta che, disarmati, i militi
sono “prigionieri” della locale
Brigata rovettese.
Ma la mattina del 28 aprile
arrivano a Rovetta “gruppi
di partigiani” come scrive
nel suo rapporto al vescovo
il parroco, prelevano i militi
e ne fucilano 43 al muro del
cimitero di Rovetta, concedendo
a Don Bravi solo di confessarli
(tre furono salvati perché
giovanissimi e uno, Fernando
Caciolo, perché riuscì a fuggire).
L’elenco di chi ha sparato fu
compilato dal Maresciallo
Guerrini, comandante la
Stazione dei Carabinieri di
Clusone, incaricato delle
Pier Angelo Zanni
indagini e inviato nel 1949 alla
Pretura.
Ma chi ordinò la strage? Le
testimonianze raccolte dal
Maresciallo si contraddicono.
Aldilà di qualche testimonianza
discordante (lasciata cadere),
per anni si era individuato
in un misterioso Mojcano il
responsabile. C’erano le foto,
ma in 60 anni non si era
scoperta l’identità di chi era
ritenuto responsabile di quella
strage a guerra finita. Sparito
nel nulla.
Araberara nell’agosto 2006
scopre la sua identità,
intervista la vedova.
Ma prima ancora pubblica nel
giugno di quell’anno la lettera
inedita di Don Bravi in cui
si ricostruiscono i fatti. Nei
numeri successivi abbiamo
pubblicato i verbali del rapporto
Guerrini, nuove testimonianze
inedite e la testimonianza di
Don Bravi davanti al Pretore:
è il documento che ribalta la
versione del Moicano come
mandante e comandante (già
traballante per il suo ruolo
senza alcuna autorità nei
confronti dei Comandanti delle
Brigate).
Don Bravi scrive che per ben
due volte “l’ufficiale alleato
di collegamento” (appunto
il Mojcano: Paolo Poduje) “è
venuto a dirmi e mi ripetè
che non c’entrava per niente
in quanto stava avvenendo”
(Araberara 20 ottobre 2006
pag. 2). A sparare furono
“cinque o sei partigiani parte
di Clusone e parte di Lovere”,
della Brigata Gabriele Camozzi
e della Garibaldi quindi. Da
quest’ultima i partigiani che
spararono erano stati già
espulsi.
Chi dunque diede loro l’ordine?
Ancora il parroco: “Non so
chi abbia dato l’ordine di
fucilazione” e subito scagiona
davanti al Pretore proprio il
Mojcano, come detto sopra.
Com’è stato possibile allora che
in tutte le ricerche storiche gli
fosse (al Mojcano) attribuita in
esclusiva tale responsabilità?
Come poteva comandare
partigiani in forza a Brigate che
lui non comandava?
Araberara scopre che ha un
ruolo, anche successivo, nei
Servizi segreti inglesi.
Nei mesi successivi al nostro
giornale arrivarono altre
testimonianze, ma non
dirette (racconti fatti da
propri famigliari prima di
morire), per cui non furono
mai pubblicate.
Rovetta, 10 di una domenica mattina,
domenica 27 maggio. Si sono dati appuntamento qui. Nostalgici? Di gente ce n’è
veramente tanta nei dintorni del cimitero,
in buona parte giovani, come giovani, anzi
giovanissimi erano i 43 ragazzi della Legione Tagliamento fucilati dai partigiani il 28
aprile 1945. La data è importante, è la vera
ragione del contendere, la “resa” era stata
firmata. I ragazzi della Tagliamento si erano arresi pensando o sperando di essere
trattati da prigionieri di guerra, ma vengono fucilati al muro del cimitero. 67 anni
dopo, a ricordare e onorare questi caduti,
tutti di età compresa tra i 15 e i 22 anni, ci
sono ragazzi che hanno la loro stessa età
al momento della fucilazione. Un ragazzo
robusto, palestrato, avrà poco più di 20
anni, mi dice che è la prima volta che viene, “i miei genitori me l’avevano sconsigliato, ma ho voluto venire lo stesso. Che bello!
Non immaginavo che ci fosse tanta gente.
Perché sono qui? Perché voglio ricordare
quei 43 giovani uccisi dai partigiani senza motivo, solo per odio. La guerra era già
finita”. Un altro ragazzo lì vicino ci tiene
a dirlo, “siamo ragazzi normali, come gli
altri, abbiamo i nostri valori e se qualcuno mi guarda storto per questo, non me ne
frega niente. Loro hanno le loro idee, io ho
le mie”. Lui c’era già stato qui a Rovetta,
“questa è la seconda volta, ma verrò sempre, lo dobbiamo a quelli che sono stati assassinati qui. Quest’anno ci sono molte più
persone dell’anno scorso”.
Più in là, accanto ai numerosi tricolori
con al centro l’aquila che tiene tra gli artigli il fascio littorio, ci sono altri giovanissimi, saranno una ventina, capelli corti o
rasati, tutti ben piazzati. C’è anche qualche ragazza. Sulla strada che conduce al
cimitero ci sono vari gruppetti di 4/5 persone, tra i trenta e i quarant’anni. Sì, non
si parla solo della strage di Rovetta, ma anche di argomenti più leggeri, degli scudetti
vinti dalla Juve, uno dice che sono 30 (sarà
juventino come me) altri due rispondono
che sono 28 (saranno interisti o milanisti).
Discorsi normali.
C’era una certa attesa, perfino un po’ di
paura. Paura che ci fossero scontri con l’altra manifestazione. Non ho visto svastiche.
Gente incazzata sì, ma oggi chi non è incazzato? I bersagli però non sono i partigiani
o i comunisti, no, stavolta le invettive sono
rivolte ai politici di destra e di sinistra,
“sono tutti ladri, a Roma, a Milano e in Europa, rubano e se ne fregano dei poveri cristi come noi”, tuona un uomo di mezza età.
Un altro ce l’ha con i tecnici al governo,
“fanno gli interessi dei poteri forti, delle
banche e noi qui a pagare”. Un altro anziano dice a un coetaneo ciò che in fondo molti
dicono nei bar della Penisola. “Bisognerebbe dare un calcio nel culo a tutti i politici
e rivoltare l’Italia come un calzino. L’è ura
de finila”. Capace che se si
parlassero su questo si
troverebbero d’accordo
con i “ribelli della montagna” che stanno già sui
sentieri, ormai lontani da qui.
Un signore distinto spiega ad al-
tri due le conquiste sociali ottenute grazie
a Mussolini, come le pensioni. Una mia vecchia prozia faceva dire la Messa in suffragio dell’anima del Duce, perché grazie a lui
aveva avuto la pensione. Vecchi discorsi, la
storia non è solo rosso e nero, ma ha anche
molto grigio. Ricordo una vecchietta che
mi diceva “tu sei giovane, ma io queste cose
le ho vissute. Di persone cattive ce n’erano
tra i fascisti ma anche tra i partigiani”. Altro bersaglio dei “neri” è la Chiesa. Parlano di Ior, di Marcinkus, dei preti pedofili,
dei corvi presenti in Vaticano. Un signore
attempato, che frequenta regolarmente la
Messa tridentina, commenta gli scandali che stanno “insozzando” la Chiesa nata
dall’odiato… Concilio Vaticano II, “guarda
dove si va a finire, hanno abbandonato la
tradizione e ora pensano solo ai soldi e al
potere”.
Poi si torna ai fatti per cui sono arrivati
fin qui: Un anziano ricorda le parole di un
sindaco di Rovetta, “aveva condannato l’eccidio del ’45, perché la guerra era finita e
si era trattato solo di una vendetta sanguinaria”. C’è sempre più gente. Ci sono due
arzilli vecchietti con al collo un fazzoletto
nero, devono essere due reduci della Legione Tagliamento. “Sì” conferma un giovane
“uno viene dalla Toscana, l’altro non lo conosco, ma l’ho visto anche qualche anno fa.
Se vai là in fondo potrai vedere il Nando.
L’unico rimasto tra quelli di Rovetta. Si era
salvato buttandosi dalla finestra”.
Fernando Caciolo, 83 anni, è la star di
questa domenica di tarda primavera, lui
che avrebbe dovuto morire con i suoi commilitoni molti anni fa. E’ circondato da una
decina di persone, quasi tutti giovani e sta
raccontando per l’ennesima volta come
andarono le cose. “Non volevo arrendermi
perché ero sicuro che ci avrebbero uccisi,
non mi fidavo e così, con la scusa di andare
al gabinetto, mi sono buttato dalla finestra
e sono scappato. In lontananza sentivo i
colpi di mitra e capivo che i miei amici stavano morendo. Non lo dimenticherò mai”.
Il vecchio Nando sembra più giovane della sua età e lo spirito sembra ancora quello
di quando era un giovanissimo legionario.
Ce l’ha soprattutto con il piccolo re Vittorio Emanuele III, quello che invece di rimanere a Roma a guidare il paese ha preferito fuggire accompagnato dalla corte e dal
governo, “se invece fosse andato insieme a
Mussolini da Hitler a dirgli che per noi la
guerra era finita, non rompesse più i coglioni perché non potevamo più andare avanti.
Così non ci sarebbe stata la guerra civile
tra italiani, tra fratelli, saremmo stati tutti italiani e non fascisti e antifascisti. Io
avevo 15 anni, vedevo l’Italia distrutta, divisa e soffrivo per questo. Mi sono arruolato
perché volevo difendere l’indipendenza del
mio paese. Avevamo iniziato la guerra al
fianco dei tedeschi e mi sembrava sbagliato tradirli e passare dall’altra parte. Ero
un ragazzino, mi era stato insegnato che
bisognava difendere la patria e per me la
patria era quella. Non volevano neanche
arruolarmi perché ero troppo giovane, mi
chiamavano ‘bambino’. L’altro ragazzo che
era con me, aveva pochi anni più di me, ha
poi detto che o arruolavano entrambi o nessuno. Così sono entrato nella Tagliamento”.
Ma ecco entrare in scena l’altro peso massimo della giornata, padre Giulio Tam, un
prete tradizionalista legato al movimento
lefebvriano. Un prete con la tonaca, questo
me lo fa notare una signora, “lui è un prete e si veste come un prete. Non come quei
preti che non sembrano neanche preti”. Padre Tam guida la processione, si va verso
la lapide che ricorda i 43, si depongono le
corone e si fa l’appello, la folla urla “presente!”, in molti alzano il braccio nel saluto
romano. Inizia poi la Messa tridentina, rigorosamente in latino.
Diversi giovani preferiscono rimanere
fuori, di fronte alla lapide, ad ascoltare il
vecchio Nando. “E’ da sessant’anni che non
vado a votare. Votare chi? Chi merita di essere votato?”. Ricorda poi come molti che a
suo tempo erano fascisti, quando il vento è
girato, sono diventati di colpo antifascisti
“e sono andati a riempire il Parlamento”.
Rientro nel cimitero e il celebrante inizia la predica. Ricorda che i 43 legionari
sono morti per difendere l’Italia, un’Italia cristiana, che la massoneria vuole distruggere. Parla di Mussolini, che Pio XI
definiva ‘l’uomo che la Provvidenza ci ha
fatto incontrare’, del matrimonio omosessuale, della nascita dello Stato di Israele,
dell’immigrazione. Dio Patria e Famiglia.
Tranquillizza tutti dicendo che “alla fine
Dio vincerà, la Madonna vincerà, la nostra
mitragliatrice ha 50 colpi, è il Rosario, recitatelo tutti i giorni”. Alla fine della Messa
consegna ai presenti un libretto. Un libro
fascista, immagino. Macché, è il trattato
della vera devozione
alla Madonna di San
Luigi Maria Grignion
de Montfort. Nando,
appena fuori dal cimitero, sul viale dove l’allora parroco di Rovetta
Don Bravi confessava
i condannati a morte,
sta ancora parlando,
attorniato da molti giovani, potrebbero essere
i suoi nipoti o pronipoti. Parla dell’Italia, degli italiani, “non mi
interessa se siete fascisti, comunisti o altro
ancora. Vi chiedo solo di essere italiani”.
Un’anziana lo chiama, “Nando è ora di
andare”. Dice lui “un momento non vedi
quanti giovani? Gli devo raccontare ciò che
è successo”.
Qualche foto: quattro giovani mi chiedono spiegazioni, sanno di essere controllati,
questa mattina c’è uno spiegamento di Forze dell’Ordine. Torno indietro e incontro
Nando che sta parlando con due persone.
Gli chiedo se posso fargli una foto in primo
piano da pubblicare su un giornale locale.
“Va bene, Dio mi ha tenuto in vita per testimoniare. Gli altri 43 non hanno potuto
farlo. E io continuerò a fare da testimone
e resterò sempre un uomo libero”. Un altro
anziano è contento perché “stavolta eravamo più numerosi del solito. Anche i giovani
erano tanti, anche loro sono venuti a ricordare i nostri martiri”.
Torno a casa, mi chiedono se ho avuto
paura, se ci sono stati problemi. No, nessun
problema, di diavoli non ne ho visti neanche oggi.
In compenso, al telegiornale, si parla dei
corvi del Vaticano, di Emanuela Orlandi, di
scandali e crisi economica. No, se il diavolo
c’è, domenica non era a Rovetta.
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