Comune
di Livorno
Magazine Culturale del Comune di Livorno
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Memorie di deportati livornesi: il diario di Frida Misul
Pubblicazione digitale del volume “Deportazione: il mio diario”, supplemento a “CN-Comune Notizie” n. 52-53, III ristampa, Ospedaletto (Pisa) 2006
calma, di non spaventarmi, che mia madre si
sentiva un po’ male, allora corsi a chiamare il
medico che appena venne ci disse che le era preso
un attacco cardiaco e il caso si presentava
piuttosto grave.
Frida Misul
Da diversi mesi abitavamo ad Antignano
(frazione di Livorno) in una piccola casetta in via
Santa Lucia dove ci trovavamo sfollati per via dei
bombardamenti, fummo obbligati a chiudere un
negozio di bigiotteria che avevamo a Livorno
perché mia madre non poteva più sopportare i
continui bombardamenti. Mia madre però, giorno
per giorno, diventava sempre più pensosa e triste
assistendo, sia pure da lontano, ai continui
attacchi alla nostra città e in più correva la voce
che i fascisti e i tedeschi davano la caccia agli
ebrei e così noi, presi dal panico, passavamo
giornate intere rinchiusi in casa per paura che da
un momento all'altro ci venissero ad arrestare.
Il 12 settembre ci fu un bombardamento
navale, la mia povera mamma si spaventò
moltissimo tanto che le prese male al cuore. La
sera pero stava un pò meglio, era più calma e
l'indomani pomeriggio si sentì di andare a far
visita ad una famiglia amica che abitava in Piazza
Castello
e
l’accompagnai
io
stessa.
Poi, per un momento, mia madre mi mandò a casa
a prendere degli indumenti che le occorrevano, e
quando fui di ritorno trovai la signora di cui mia
madre era ospite, molto demoralizzata e
spaventata; mi venne incontro, mi disse di star
Povera mamma, la chiamavo e lei non mi
rispondeva; presa dallo sgomento, corsi a
chiamare le mie sorelle che subito accorsero,
ebbero loro pure un gran dolore nel vedere mia
madre in quello stato. Tutte e tre ci prestammo
per curarla; ma povera mamma, tutto fu vano,
anche mio padre, tornando la sera a casa non
poteva credere ai propri occhi dato che la stessa
mattina l’aveva lasciata piuttosto calma.
La mattina del 13 dopo aver passato una notte
triste, andai di nuovo dal medico ma questo ci
dette poco da sperare. Difatti, verso le 11 della
mattina dopo, mia madre mi volle vicina a se, mi
stringeva la mano in segno di disperazione: forse
non voleva morire cosi presto. Mi baciò e mi fece
cenno di chiamare le mie sorelle, baciò tanto
anche loro ed aveva gli occhi pieni di lacrime, ci
buttammo nelle braccia l’una dell’altra e così mia
madre perse di nuovo conoscenza e da quel
giorno non conobbe più nessuno.
Foglio di congedo del padre di Frida Misul;
in alto a sinistra il motivo: RAZZA EBRAICA
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Il giorno 13 settembre alle ore 15 la mia
povera mamma cessò di vivere. Non posso
descrivere lo strazio di noi tre sorelle, così sole
senza mamma, senza un parente vicino, solo
amici cari (infatti mia madre morì in quella casa
dove era andata a far visita), mio padre era in città
per cercare medicine e tutti i vicini si prestavano
molto. Non dimenticherò mai la loro generosità.
Vestimmo la nostra cara, e non l'abbandonammo
un solo momento mentre dentro di noi regnava
una grande angoscia per non poter trovare il
modo di farla portare al cimitero e di
conseguenza denunciare la sua morte, perché i
tedeschi l’avrebbero saputo e ci avrebbero presi
tutti; era come firmare la nostra condanna, e così
studiammo di tenere ancora per qualche giorno la
nostra
povera
mamma
in
casa.
Il terzo giorno della sua morte, mio padre si
decise per la denuncia e dopo essersi tanto
raccomandato, ci fu portata via dalla
“Misericordia”, una istituzione volontaria della
città.
lo stessa mi dovetti recare dai tedeschi per
chiedere la benzina per l’autofurgone, e questi me
la dettero subito e molto gentilmente, io li
ringraziai di cuore, dichiarando tra me, che i
tedeschi, non erano poi quello che pensavo, ma
umanitari
e
di
buon
cuore.
Naturalmente più tardi dirò come ebbi modo di
conoscere meglio alcuni rappresentanti di questo
popolo, e a fondo, tanto da paragonarlo a un
mostro senza umanità e comprensione. Infatti
l’indomani, sotto i bombardamenti, unita a mio
padre e alle mie sorelle, ci recammo al cimitero,
interrammo mia madre, e da quel giorno demmo
l’eterno addio a quell’anima che ci aveva lasciato
in un tremendo dolore, senza più i suoi baci e le
sue dolci carezze.
Da quel giorno tutto era morto per noi, e in
casa da qualsiasi parte si andava, ci pareva di
vederla ancora tra noi. lo, come figlia maggiore,
presi il suo posto per mandare avanti la famiglia,
e così mi dedicai al lavoro del commercio.
Andavo a Firenze per comprare, e poi tornavo a
Livorno, così tiravamo avanti, e ci facemmo una
nuova vita, se vita si poteva chiamare.
I bombardamenti si facevano più intensi, noi a
Livorno avevamo lasciato la nostra casa, tutta la
nostra roba ed io volevo tentare di farmi lasciare
un permesso per andare da Antignano alla città
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per ritirare qualche capo di biancheria e poterla
cosi salvare. Mi rivolsi a molti comandi, ma
sempre mi fu rifiutato. Vicino a noi, in via Santa
Lucia, abitava una famiglia di brava gente, tra cui
una signorina di nome Orietta Razzauti, la quale
studiava Pianoforte, che mi promise un giorno di
portarmi dalla sua professoressa per farmi sentire
i suoi progressi. Andammo infatti pochi giorni
dopo. Fummo accolte cordialmente da questa
insegnante che si presentò col nome di Elena
Mancini, la signorina Razzauti disse che anch’io
studiavo canto e questa volle che assolutamente
cantassi qualche brano di musica lirica.
Frida Misul canta sotto lo pseudonimo di Frida Masoni per
sfuggire alle leggi razziali
Rimase talmente stupefatta nel sentire la mia
voce che si offrì di darmi lezioni gratis. In quel
momento però le feci capire che non avevo
nessuna intenzione di continuare a studiare dato
che ero ancora in lutto per la mia cara mamma,
ma questa insistendo, mi disse che non c’era
niente di male, e che per me sarebbe stata una
distrazione, e cosi da quel giorno divenni una
scolara. Il mio animo però non era tranquillo
perché stavo sempre con il terrore il che da un
momento all’altro questa Signora Mancini
venisse a sapere che ero di razza ebraica, e chissà
cosa mi sarebbe accaduto. Da diverse persone
venni a sapere che la mia insegnante occupava
qualche carica importante nel P.F.R., cosicché la
mia paura aumentò e mi dava un cattivo
presentimento.
Con tutto ciò continuai ad andare a lezione come
se niente fosse, anzi un giorno me la vidi apparire
in casa dicendomi che mi conduceva in macchina
a un comando tedesco presso Nugola dove
davano un concerto; non posso descrivere ciò che
sentivo nel mio animo e nel mio cuore, perché in
questa villa si trovava il comando delle S.S. che
se avessero saputo chi ero mi avrebbero subito
arrestata, e chissà cosa sarebbe stato della mia
sorte.
Come Dio volle, però, appena terminato il
concerto, fui riaccompagnata subito a casa, dove
raccontai tutto a mio padre, e alle mie sorelle.
Essi incominciarono subito ad impensierirsi e mi
pregarono di non andare più a lezione perché
prima o poi, se la signorina avesse saputo, mi
avrebbe certo denunciato, ma io non potevo
credere che colei che mi voleva bene, come ad
una figlia, potesse arrivare a tanto. Il giorno 19
marzo vi fu un grande bombardamento, seppi che
la mia casa di Livorno era andata distrutta, i
giornali annunziavano i famosi Decreti Razziali
con cui tutti gli ebrei sarebbero stati avviati nei
famosi campi di concentramento, perciò
bisognava essere prudenti e stare molto nascosti.
lo però non mi volli dare per vinta, e quella stessa
mattina uscii di casa per andare dalla signorina
Mancini per cercare di ottenere un permesso per
entrare nella zona
nera di
Livorno.
M’incamminai verso Ardenza, dove abitava la
mia insegnante, ma il mio animo non era
tranquillo.
mi disse di stare tranquilla che sapeva quello che
faceva.
Sempre con mio cugino mi diressi verso la
Questura di Ardenza in via del Mare, non senza
un enorme sgomento nei nostri animi. Entrammo
in un ufficio dove al tavolo erano seduti alcuni
visi arcigni, ci domandarono cosa desideravamo,
e io mi feci avanti e chiesi il famoso permesso.
Uno di questi agenti si fece avanti e mi chiese il
nome, appena pronunciato il mio cognome questi
mi disse: “Ma tu sei ebrea?” lo risposi di si, e così
fui dichiarata subito in arresto per Legge
Razziale. La stessa domanda fu rivolta a mio
cugino, che anche lui ebreo fu arrestato
immediatamente. Mio cugino mostrò dei
documenti con i quali dimostrava di essere
“misto” e lo trattennero in attesa finché vennero
arrestati i miei familiari. Implorai l’agente di
lasciare liberi i miei, dicendo che mio padre era
anziano, che le mie sorelle erano minorenni, che
la mamma era morta da cinque mesi in seguito
agli spaventi dei bombardamenti, ma queste mie
implorazioni non valsero a commuoverlo per
niente, anzi con aria di scherno e di disprezzo
disse: “Non dovevate essere ebrei!”. Quanto
piansi! Attendevo di vedere la mia famiglia
quando io e mio cugino fummo portati nella
stanza del Maresciallo Altieri il quale non volle
capire ragioni, benché lo conoscessi da parecchio
tempo e lui conoscesse me, ma quel giorno fece
finta di non avermi mai vista.
L’ARRESTO
Trovai a casa la signorina Mancini che mi salutò
cordialmente come sempre. Le presentai un
cugino che era arrivato in quel giorno da Torino
(mio cugino si chiamava Alberto Samaia) al quale
chiesi di farmi compagnia per strada. Ci accolse
molto gentilmente e dopo le cordiali strette di
mano, le chiesi il favore di farmi avere il
permesso tanto desiderato, ma questa mi rispose
che non aveva più ordine di fare permessi e di
rivolgermi direttamente in Questura, al che io
risposi se mi recava nessun danno andare, dato
che ormai sapeva tutto di me.Ma lei mi sorrise e
da “Il Telegrafo”, 2 dicembre 1943
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Cominciò ad interrogarmi subito mentre in
quel momento suonò la sirena dell'allarme. Mio
cugino approfittò di una certa confusione per
fuggire, e fece in tempo ad arrivare a casa mia
prima della polizia per portare tutta la mia
famiglia in salvo. Non potrò mai dimenticare quel
gesto di coraggio e di generosità. Non posso
descrivere quello che accadde in Questura dopo
che gli agenti erano stati a casa mia e non
avevano trovato nessuno, si accanirono contro di
me ingiuriandomi e giunsero perfino a
schiaffeggiarmi.
Con
soddisfazione,
mi
avvertirono che l’indomani mattina sarei partita
per destinazione ignota, dove avrei trascorso un
periodo lontana dai miei, in una bella villa ma che
presto sarei tornata a riabbracciarli. Per il buon
cuore di un agente, cercai di avvertire una mia
cugina, Ida La Comba, che in quel momento per
me era una seconda mamma e che ottenne di
poter venire a trovarmi. Ebbi infatti un colloquio
con lei e fra le lacrime la pregai di recarsi subito
dalla professoressa Mancini per vedere se poteva
fare qualcosa per me. Difatti mia cugina si recò
subito da lei, ma la sua risposta fu per me una
seconda condanna. “lo non posso far niente per
Frida, perché non posso rovinare la mia
posizione, dato che noi facciamo la campagna
contro gli ebrei, i quali sono la rovina del mondo
e quindi sono persone indesiderabili, perciò non
posso farla rilasciare”.
Così anche quest'ultima speranza svanì. Nella
notte che seguì non feci altro che pregare la
mamma e il Signore che mi aiutassero, ero
inesperta della vita e chissà cosa mi sarebbe
accaduto, come mi sarei difesa. Singhiozzavo
muta e sola in una cella, e nella mia mente
apparivano orribili visioni senza avere un
incoraggiamento o una parola da parte di
nessuno. Giunse così l’alba che avrebbe deciso il
mio triste destino. Il pomeriggio di quello stesso
giorno fui avvertita di prepararmi per la partenza.
Che dolore fu per me non poter rivedere le mie
sorelle e il caro babbo, non poter dar loro neppure
uno scritto ed un ultimo saluto. Fui affidata ad un
agente della Questura e giunta alla stazione ebbi
la solita raccomandazione di rito, prima di salire
sul treno, di non provare a fuggire e di non
parlare con nessuno altrimenti l’agente mi
avrebbe fatta fuori. Come un cagnolino ubbidii al
padrone. Un ultimo sguardo alla mia cara Livorno
che fu teatro di molti ricordi; un pensiero alla mia
cara mamma che lasciavo sola in quel cimitero
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senza poter andare a darle un ultimo saluto e, con
il pianto alla gola, salii su quel maledetto treno
rimanendo divisa dalla mia famiglia che in quel
medesimo istante era in preda ad un grandissimo
dolore ed a una vera angoscia.
Auschwitz, alcune baracche del Campo
L’ARRIVO ALLA VILLA
Dopo molte ore di viaggio, spossata dalla
stanchezza, con gli occhi arrossati e gonfi da
quante lacrime avevo versate tanto che non
riuscivo a tenerli aperti, arrivammo a Modena.
Era buio. L’agente mi prese per un braccio, mi
portò in un garage, prenotò una macchina di
piazza e mi fece salire dicendomi che dopo
un’ora saremmo arrivati alla villa che mi avevano
descritto alle Questura di Livorno.L’agente si
mise a parlare con l’autista e sentii rammentare
“destinazione Fossoli”. In quell’istante non
sapevo rendermi conto dove fosse questa città o
paese o bella villa e cosi dopo un’ora di macchina
ci fermammo in un grande recinto tutto
contornato da filo spinato con dentro delle
baracche in fila una accanto all’altra, a pochi
metri dalle garitte con delle sentinelle alternate
alle baracche. Mi sentii mancare il terreno sotto i
piedi perché anche dal di fuori mi resi conto dove
mi avevano portato non alla bella villa, ma in un
grande Campo di Concentramento e chissà il
destino cosa mi avrebbe riservato.
L’agente che mi accompagnò mi consegnò in
mano delle S.S. ed ai fascisti repubblichini.
Consegnò loro una lettera sigillata, e mi lasciò lì
senza difesa alcuna. Questi cani, con uno spintone
ed alcune pedate, mi domandarono le mie
generalità poi mi rinchiusero in una baracca in
attesa di chiarimenti. Quello che mi fece più
impressione in quel momento fu vedere impresso
nel berretto di quel Maresciallo tedesco un
teschio. Mi sentii rabbrividire e da lì cominciai a
intuire qualcosa. Che ne sarebbe accaduto di me?
La mattina all’alba fui chiamata per
l’interrogatorio. Entrai in quell’ufficio, che poi
venne chiamato “Villa Triste”, nel quale ad un
tavolo sedevano 3 ufficiali delle S.S. di Verona,
due fascisti repubblichini, un Maresciallo S.S.
(quello che mi aveva presa in consegna), e due
agenti italiani. Aprirono quella lettera sigillata e
mi dissero che ero stata arrestata per le seguenti
accuse: 1°) aver aiutato i Partigiani della Brigata
Garibaldi di Firenze a Montefiorino; 2°) che in
casa mia non eravamo mai stati iscritti al P.N.F.
per cui eravamo considerati antifascisti; 3°) di
essere Ebrea, e perciò “ospite indesiderabile”.
Tra le varie domande mi chiesero di dir loro
dove era rifugiata la mia famiglia, dove si trovava
un mio cugino a nome Umberto Misul, Capitano
dei Partigiani, promettendomi in cambio la
libertà. Ma le loro promesse non valsero a niente
perché io non fiatai. Uno delle brigate nere allora,
si alzò dal tavolo e mi dette tre pugni nella vita e
uno sul viso per indurmi a parlare.
lo non parlai. Ero impaurita e stordita. Arrivarono
ancora pugni e tirate di capelli per domandarmi di
altri correligionari e mi dissero che se non avessi
parlato, mi avrebbero fatto ancora peggio. Con un
fiammifero infatti mi bruciarono le unghie delle
mani, e in quell’istante svenni. Quando ripresi
conoscenza mi trovai in una stanza buia e mi
vennero ad annunziare che, se non avessi parlato,
alle 4 del mattino sarei stata fucilata. Alle tre
sentii bussare alla porta e mi trovai a faccia con il
Sacerdote del Campo, mi disse di star calma e di
parlare se sapevo qualche cosa, ma io, in un
dirotto di pianto, e stringendomi il medaglione di
mia madre, morta da pochi mesi, giurai su esso
che non avevo alcuna informazione da dare.
Egli allora mi rassicurò e mi disse che avrebbe
fatto qualcosa per me. Alle 4 sentii di nuovo
aprire la porta e capii che era giunta l'ora. Invece
il solito Maresciallo venne a frustarmi, mi dette
due pedate e mi disse che a giorni sarei partita per
la Polonia, condannata ai lavori forzati a vita.
Seppi che era stato il prete, con la sua carità
cristiana,
a
strapparmi
alla
morte.
Durante il giorno fui condotta a Fossoli in un
grandioso Campo di Concentramento. Anche qui
mi chiesero le generalità e mi consegnarono nelle
mani di due distinte signore, le quali furono molto
gentili; mi dettero assistenza medica ed ebbero
molte premure per me. Una di queste si chiamava
Emi Balconi e veniva da Milano; l'altra si
chiamava Crovetti. Anch’esse erano state
arrestate in seguito alle Leggi Razziali ed erano
addette alla direzione del Campo. Cosi dal primo
all’ultimo giorno di mia permanenza in quel
Campo ebbero molte premure per me che ne
rimasi commossa.
Foto apposte sul documento per il rientro in Italia
Il Campo che mi ospitava era molto grande e
diviso in due parti, una di 24 baracche per i
detenuti politici e un'altra sempre di 24 baracche,
per gli ebrei. La mattina ci davano caffè nero, a
mezzogiorno due etti di pane e una tazza di
minestra. Il terzo giorno cominciò ad arrivare
gente: erano tutti ebrei di Firenze, fra i quali
molte donne, bambini e vecchi paralitici.
Feci subito amicizia con una ragazza di nome
Mirella Bemporad, che era stata deportata
assieme alla madre e con altre due signore,
Virginia Calò e Olga Ambonetti che vennero
nella mia cella. Formammo così una famiglia e ci
promettemmo di rimanere unite fino al ritorno in
Patria. La mattina dopo assegnarono me e Mirella
alle pulizie e ci misero a lavare dei grandi
pavimenti, a togliere la calcina in ginocchio e a
fare tanti altri lavori di fatica. In seguito facemmo
conoscenza con il cuoco, signor Nazzau, il quale
ci fece entrare in cucina per sbucciare le patate.
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Cosi trascorrevamo i nostri giorni, sempre agitate
al pensiero però di cosa ci potesse accadere,
perché ormai eravamo nelle loro mani.
Intanto il Campo si riempiva di politici e di
ebrei che tutti i giorni arrivavano da tutte le parti
d’Italia. Il I° Maggio sempre a Fossoli, fu
commesso un nuovo delitto; mi trovavo in cucina
a lavorare mentre fuori si faceva l'appello, tutto
era silenzio. Dopo un quarto d'ora si udì un colpo
di rivoltella e poi grandi urla di tensore.
Andammo sulla porta per vedere che cosa era
accaduto e, con grande raccapriccio, vedemmo un
povero giovane riverso a terra in una pozza di
sangue.
Si seppe poi che si chiamava Pacifico Di Castro
di Roma, padre di 7 figli, ucciso barbaramente
alla presenza del fratello e in presenza anche di
uomini, donne e bambini. Motivo dell'uccisione:
non poteva recarsi al lavoro perché quel giorno si
sentiva male ed aveva disubbidito così ai
tedeschi. Accorso il fratello, non poté dargli
nessun aiuto perché minacciato anche lui di
subire la stessa fine. Ci rendemmo ancora una
volta conto della crudeltà del popolo tedesco.
da “Il Tirreno”, 11 marzo 1945
La mattina del 16 Maggio, di nuovo tutti in
appello, ci guardavamo presagendo qualcosa di
grave. Infatti giunse poco dopo il Maresciallo
tedesco con una lista di nomi: quelli che
chiamava, sarebbero partiti il pomeriggio “per
destinazione ignota” che risultò poi la Polonia.
Allora rivolsi gli occhi al cielo, invocai il nome
della mia adorata mamma e del Signore, che mi
venissero in aiuto e scoppiai in un dirotto di
pianto. In quel momento fu pronunciato il mio
nome e così si compì il mio destino. Assieme a
me c’erano molti deportati di Livorno, fra questi
la famiglia Della Riccia, il sig. Sonnino figlio del
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dr. Mauro, le famiglie Cava, Levi, Attal. Tutti ci
guardammo in faccia pensando quale sorte ci
sarebbe toccata. In fretta e furia ci fecero
preparare le nostre cose, scrivemmo poche righe a
casa, solo saluti, e fummo adunati in mezzo al
piazzale.
La giornata era calda sembrava che il sole si
ribellasse davanti a quei cani tedeschi e fascisti
della Repubblica di Salò. Ma perché tutto questo?
Quali delitti e quali colpe avevamo commesso?
Specialmente noi donne, i vecchi paralitici, i
bambini appena nati o ancora nel grembo delle
loro madri? Perché tanto odio contro di noi?
Da ogni parte si udiva il pianto di tante
mamme con i loro bambini in braccio come se
avessero saputo che non sarebbero più tornate.
Ad uno ad uno ci fecero salire sull'autobus e da
qui arrivammo alla stazione. Eravamo in tutto
800 persone. Giunti alla stazione ci fecero salire
su dei carri bestiame mettendoci 80 per vagone, ci
dettero un filoncino di pane e poi, con disprezzo e
risa, ci chiusero dentro con dei grandi catenacci,
piombarono i vagoni e ci spedirono come merce
qualunque per destinazione ignota. Che tristezza
regnava nei nostri cuori! I malati non respiravano,
i bambini impauriti stavano avvinghiati alle loro
madri. Insomma, su tutto il vagone regnava
sgomento e disperazione: qualcuno malediva quei
cani barbari che ci trattavano così senza pietà.
Come e perché subivamo quel martirio senza
colpa? Quale mostruoso odio aveva avuto il
tedesco e il fascista per arrivare a far soffrire in
tal maniera tutto il popolo ebraico che non aveva
possibilità di difendersi, per condurlo al macello e
allo sterminio? Per una semplice ragione di
differenza di religione dovevano essere deportati
e massacrati milioni di poveri innocenti. Tutto
questo senza ombra di pietà da parte di tedeschi e
fascisti e senza ragione alcuna.
Speravamo che Dio stendesse la mano sopra a
questi massacratori e impedisse loro di
compiere questa infamia, ma era troppo tardi: il
treno prese a rotolare pesantemente sulla strada
ferrata. Venne la sera e la notte ci trovò così in
piedi senza un piccolo spazio per poterci sdraiare
e ci litigavamo perfino per conquistare pochi
centimetri. Da ogni parte si sentivano pianti di
disperazione, urla di rabbia, fiochi lamenti e
pianti di bambini. Ogni due giorni ci veniva
distribuito un po’ di pane e di acqua. Eravamo al
quinto giorno di viaggio e non ne potevamo più.
Senza poter dormire né lavarsi si soffocava e ci
auguravamo la morte che sarebbe stata la nostra
liberatrice. Al sesto giorno il convoglio si fermò e
credemmo di essere arrivati, invece la meta era
ancora lontana. Ci fecero scendere per prendere
un po’ d’aria e per poter soddisfare i nostri
bisogni fisiologici; demmo sfogo così a tutto,
dimenticando ogni vergogna, davanti ai tedeschi
con il mitra puntato. Volevano che ci sbrigassimo
e qualcuno, ridendo, mentre eravamo in certe
posizioni, ci fotografava prendendo cosi delle
belle foto che i fascisti delle Brigate Nere
avrebbero conservato con orgoglio come
testimonianza delle loro bravure, ridendo tanto da
comprimersi la pancia. Poi alla svelta ci fecero
risalire nel carro bestiame, ci rinchiusero di
nuovo e il treno si rimise in moto.
Ricordo che rimasi molto disgustata
dell'accaduto e che in quel momento versai
molte lacrime per non avere avuto alcun aiuto e
difesa da nessuno. Così era il nostro destino. E in
seguito
che
cosa
sarebbe
accaduto?
I vecchi maledivano ancora i carnefici per il
feroce trattamento e poi volgevano gli occhi al
cielo per chiedere a Dio aiuto, ma tutto era
inutile. Intanto i giorni passavano senza che noi
potessimo vedere aria. Ci pareva di non arrivare
mai e ci auguravamo la morte come una
liberazione. Mi ricordo che una sera ci sorprese
un bombardamento e noi avevamo paura di essere
colpiti in quel carro e di morire rinchiusi, ma il
treno si fermò e il giorno 22 arrivammo a
destinazione cioè ad Auschwitz (Polonia).
depositare tutto quello che avevamo con noi, e a
suon di bastone ci fecero mettere in fila per
cinque. Intanto le famiglie si stringevano ancora
di più al seno le loro creature per non essere
divisi. C'incamminammo così verso il Comando
quando ad un certo momento vedemmo molti
tedeschi uniti in atteggiamento di inquisitori,
armati di mitra e di grosse buste e donne tedesche
che tenevano al guinzaglio dei grossi cani pronti a
saltarci addosso. Da una parte erano
ammonticchiati dei cadaveri con i volti neri,
gonfi, con occhi dilatati e lingue che penzolavano
dalle labbra straziate. Si vedeva sangue da ogni
parte e forse scorreva anche quello di qualche
nostro parente. Vedendo questo atroce spettacolo,
sentimmo nei nostri cuori che per noi ormai non
c'era più scampo né speranza di poter sfuggire a
quella triste sorte.
L’ARRIVO AL CAMPO
Era un inferno, ossia un passaggio nell'aldilà
dopo atroci sofferenze. Immediatamente gli
uomini vennero separati dalle donne e dai
fanciulli, ordinarono loro subito di mettersi in fila
ed in cammino e altrettanto fecero con noi che
sfilavamo dinanzi a quelle canaglie. Alle mamme
vennero subito strappati i bambini dalle braccia.
Gettarono queste creature piangenti sul camion
come fossero immondizia. Così, dopo tutta la
selezione, rimanemmo 65 ragazze, tutte robuste.
Ad un certo punto, prima di aspettare l’ordine per
incamminarci di nuovo, un tedesco, per caso, vide
che una delle ragazze teneva un grosso involto tra
le braccia. Le fu intimato di far vedere che cosa
c'era dentro e questa, tutta sconvolta e tremante,
aprì uno scialle nero di lana e apparve una bella
bambina di circa 6 mesi. La madre supplicò tanto
il tedesco di non farle del male e chiese di andare
dove sarebbe andata sua figlia per seguire lo
stesso destino. Ma il tedesco con un grande
sogghigno prese la povera creatura, le strappò i
poveri stracci di dosso e poi, con grande
sveltezza, la scosciò davanti agli occhi inorriditi
della madre e di noi tutti. La povera donna non
sopportando il grande dolore, cadde subito morta
ai nostri piedi. Questa signora era livornese come
me, si chiamava Berta Della Riccia. Fu arrestata
assieme ai suoi familiari per essere condotta ad
Auschwitz. Di tutta la famiglia non è rimasto
alcun superstite, perché tutti furono uccisi nelle
camere a gas.
Subito ci furono aperti i vagoni e fummo
obbligati a scendere alla svelta. Ci fecero
Con gli animi sconvolti ci incamminammo
verso il Comando tedesco. Ancora ci accolsero
Ingresso di un Campo di Concentramento “Il lavoro rende liberi”
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con i mitra puntati e le donne tenevano ancora dei
grossi cani pronti a saltarci addosso. Ci fecero
entrare poi in una baracca dove venimmo
“marcate a fuoco” sul braccio sinistro. A me fu
impresso
il
numero
AX
5383.
Non so descrivere il martirio e il dolore fisico e
morale che ebbi in quel momento; il mio braccio
bruciava ed un rivolo di sangue scendeva giù per
la mano. Da quel momento non rappresentavo
che un numero fra tanti altri. Dovetti così
dimenticare il mio nome, dato che da allora
venivamo chiamate per numero. Ci fecero poi
passare in un'altra stanza, ci fecero spogliare e
rimanemmo come madre natura ci aveva fatte.
Alcune donne ci vennero incontro con rasoi ben
affilati e incominciarono a raderci a zero i capelli
e tutto il resto del corpo. I nostri bei capelli
caddero a terra ed in quel momento io desideravo
ancora una volta la morte, e chiamavo la mia
povera mamma che mi venisse in aiuto. Ci
guardammo inebetite e piangenti, senza osare
difenderci da quelle mani feroci.
Ci fecero fare una doccia, prima bollente e poi
fredda, fummo condotte in un'altra stanza per
aspettare il vestiario. Ma forse si dimenticarono
completamente di noi, perché dovemmo aspettare
molte ore prima che questi arrivassero. Eravamo
intirizzite dal freddo, nude con le finestre senza
vetri. L'inverno polacco si posava sulle nostre
carni martoriate e offese, tanto da farle diventare
livide. Ci stringemmo per farci un po' di calore,
ma a poco valse questa nostra iniziativa. Intanto
qualcuna cadeva a terra per il freddo e la fame. I
tedeschi passavano fuori, e noi per vergogna,
cercavamo di ripararci l’una con l’altra, ma questi
insistevano a guardarci commettendo anche atti
osceni davanti a noi. Che dolore regnava nei
nostri cuori. Dove ci avevano condotte? Che
colpe
avevamo
commesso?
Verso sera venne una “Kapò” che cominciando
ad urlare come una belva distribuiva legnate a
quelle che erano a terra svenute. Ci fece mettere
sull’attenti per distribuirci il vestiario, e ci furono
consegnati i seguenti indumenti: una camicia da
uomo strappata e mangiata dai pidocchi, un paio
di mutande da uomo sporche, un vestito a righe
(uniforme dei galeotti) senza maniche e un paio
di scarpe diverse l’una dall’altra, una col tacco e
una no, oppure con i tacchi di diverse misure. Ci
fece vestire tutte in gran fretta, e ci fece passare
poi in un’altra stanza dove delle donne stavano
con un grosso pannello in mano. Lo intinsero in
8
un liquido rosso che stava dentro delle secchie, ci
fecero voltare tracciarono nelle nostre spalle una
grossa croce rossa. Il liquido passava dalle vesti
alle nostre carni e io ne ebbi un'impressione
enorme: quello era sangue dei nostri cari, sangue
ebreo e innocente e per farcelo ricordare ce lo
impressero nelle vesti.
Da qui ci fecero uscire per farci avviare nelle
baracche. Una folata di vento freddo agghiacciò
le nostre carni, i nostri piedi affondavano nella
melma e ci sembrava di sprofondare. Da qui
comincio la mia vita da deportata forzata. Pregai
ancora una volta Iddio e mia madre, che mi
aiutassero a sopportare quelle atroci pene, e cosi,
facendosi scuro, andammo incontro ad un futuro
triste e doloroso.
Auschwitz 1980 - Foto di Patrizio Pasquetti
LA VITA NEL CAMPO
Si trattava ora di aspettare un po’ di cibo, almeno
un giaciglio per dormire. La fame ci logorava lo
stomaco, il sonno e la stanchezza si facevano
sentire. Dopo aver fatto l’appello una Kapò ci
portò al Blocco 31 dove, ci disse, dovevamo
dormire. Una “cova” per 10 persone, ma il posto,
era appena per 4, perciò cominciavamo a litigarci
tra noi, senza pensare più all’amicizia e a niente.
Tutti volevamo un po' di spazio ma il posto non
era sufficiente. Tra le urla e i pianti sentimmo le
grida acute della stessa kapò che a suon di legnate
mise il silenzio nella baracca. Non avevamo
ancora preso sonno quando sentimmo di nuovo le
grida della Kapò che ci fece rialzare per l'appello.
Bisognava stare sempre all'erta, non avevamo
orologi nel Campo, ma le Ungheresi che si
orientavano con le stelle ci dissero che potevano
essere le tre circa ed in cinque minuti bisognava
essere fuori per l’appello. Il fango non ci
permetteva di camminare ed il freddo era
insopportabile. L’appello durò circa tre ore, poi ci
fecero entrare di nuovo nel Blocco.
Alle 11 finalmente distribuirono una gavetta
ogni dieci donne senza un cucchiaio. Ci fecero
mettere in fila e finalmente arrivò la “zuppa”
tanto desiderata. Le prime arrivate portarono
subito alla bocca quella brodaglia di dubbio
colore ma con un gesto di repulsione gettarono
via quel cibo inqualificabile dal quale usciva un
fetore insopportabile. Nessuna di noi fu capace di
ingerire un solo sorso. Le Kapò quando videro
così ci guardarono con aria di sfida e cattiveria
dandoci di nuovo legnate a non finire. Così
punteggiata da episodi ancora più odiosi, finì la
prima
giornata
al
Blocco
31.
La sera fummo di nuovo radunate sulla strada per
l’interminabile e perfettamente inutile appello,
dopo di che ci distribuirono del pane con
margarina che in ogni modo servì a calmare gli
spasimi della fame che da troppo tempo si faceva
sentire. Poi ancora liti fra di noi per avere un po'
di posto per dormire, non andavamo più
d’accordo e in quel momento ci odiavamo.
Dopo tre giorni di questa infernale storia, dopo
il consueto appello, un’altra grinta venne a
prenderci per portarci a lavorare: ci portò in nove
per volta in una baracca, distribuendoci pala e
piccone, e, dopo una marcia di 5 chilometri sotto
il freddo intenso e le legnate della Kapò per
andare a passo (cosa non possibile dato il fango),
arrivammo in un altro campo dove ci spiegarono
che dovevamo fare delle grandi fosse che
dovevano servire per le fognature. Il gelo ci
impediva di tenere in mano il piccone ma
bisognava lo stesso lavorare e cominciammo con
mani inesperte a fendere il terreno. Ben presto
però le nostre povere membra, non abituate a
lavori pesanti, si ribellarono e molte di noi
caddero svenute e prive di forze. C’era solo una
cosa da fare: resistere, altrimenti le legnate si
sarebbero fatte sentire ancora ed era peggio per
noi: era la fine. Il lavoro si alternava tra il piccone
e tirare a mano delle grosse carriole cariche di
pietre portando poi queste su delle scale e così per
14 ore al giorno. La sera il maledetto appello e
poi stanche ed affamate tornavamo nelle nostre
baracche.
E così era la nostra dura vita, dall'alba,
cominciando sempre con l'appello, fino a sera,
terminando con il medesimo. Una mattina delle
tante ci portarono a 8 chilometri dal Campo,
scortate dai tedeschi armati e da grossi cani.
Il freddo era più intenso del solito, i nostri zoccoli
di legno affondavano nella neve e ci impedivano
di camminare svelte come volevano i carnefici,
non sapevamo più come fare per poter far capire
loro che era una cosa umanamente impossibile,
ma questi non sentendo ragioni cominciarono a
tirare legnate e la “iena bionda” (una Kapò
tedesca), con un sorriso beffardo dette la via ai
cani mastini lanciandoli contro di noi. Questi,
affamati come erano, ci saltarono addosso ed una
nostra povera amica di Fiume venne sgozzata e
cadde in una pozza di sangue, molte erano le
ferite gravi, io, per fortuna, ebbi solo un morso al
braccio destro, cosi potei dare soccorso a quelle
che erano maggiormente provate. Per noi quel
giorno fu la marcia della morte, arrivammo a
destinazione tutte contuse e inebetite dal dolore,
nonostante tutto ciò fecero subito cominciare il
lavoro di piccone per scavare delle trincee.
Interno di una baracca. Foto tratta da “Auschwitz, oggi “ mostra
di Raymond Depardon
Cominciò a piovere e i tedeschi, incuranti di
noi andarono a ripararsi mentre i nostri poveri
corpi rimasero per ore sotto l’acqua. Le nostre
schiene erano zuppe e noi stringevamo i denti dal
freddo pensando a quando, a casa, avevamo il
nostro necessario che ci aveva permesso di
coprirci
nelle
annate
precedenti.
Quando quella sera stessa ci trovammo fuori della
baracca per l'appello, vedemmo da lontano delle
luci strane e meravigliose. I miei occhi, gonfi per
le lacrime versate, si dilatarono a tanti riflessi che
si alternavano con vampe dorate striate
suggestivamente di vermiglio e turchino. Quei
raggi luminosi delle fiamme che illuminavano
stranamente il mondo delle tenebre, avevano il
potere di conquistare il mio spirito con un fascino
inspiegabile ma che nel medesimo istante
9
incutevano in me una inconfessata paura. Forse
quella luce era un’allucinazione invocata dalla
febbre
che
struggeva
il
mio
corpo.
Ma ben presto seppi che non avevo vacillato, e
così il vero significato della lontana luce notturna
ed un gelo improvviso invase la mia povera
anima smarrita che si sentì sprofondare in una
palude viscida da angoscioso terrore.
Forni crematori. Foto tratta da “Auschwitz, oggi “ mostra di
Raymond Depardon
Erano sette forni crematori, il regno orribile di
un mostro assetato di sangue umano, era |’ultima
meta per le vittime della crudeltà nazista, la
quale, dopo avere annullato il loro spirito e la loro
personalità, annullava quello che rimaneva del
loro povero corpo dandolo in pasto alle immonde
fiamme sacrileghe che, nell'ultimo e definitivo
annientamento, erano costrette ad offrire ai
carnefici il supremo servigio. Il forno crematorio
era infatti attrezzato con perfetta e macabra
tecnica in modo che le sostanze grasse dei corpi
bruciati non andassero perdute, bensì raccolte in
appositi recipienti. Queste venivano impiegate
successivamente, assieme alle ossa calcificate,
negli usi più impensati, quali la fabbricazione del
sapone, col quale noi eravamo costrette a lavarci,
la concimazione dei campi e forse (questo mi
faceva impazzire), alla confezione del cibo dei
prigionieri, fra i quali dei grossi salami.
Delle 800 persone che partirono assieme a me
da Fossoli, rimasero salve in Polonia, 60 donne e
70 uomini, mentre il rimanente venne
barbaramente ucciso, perché composto da
persone anziane e da bambini da 1 a 11 anni di
ambo i sessi i quali, non avendo l’età e la forza
per affrontare le fatiche non erano che di peso ai
carnefici e perciò venivano subito eliminati col
solito trattamento. Perle donne in stato
interessante veniva usato un altro trattamento.
10
Fattele camminare ad una certa distanza le
colpivano al ventre, queste cadevano a terra
tramortite, mentre seguitavano a battere il loro
ventre finche la creatura che vi era dentro non
cessava di vivere.
TUTTO QUESTO DAVANTI Al NOSTRI
OCCHI!
Poi prendevano le figlie ancora bambine di
qualche prigioniera e usavano loro violenza
davanti alle madri senza nessuna pietà. Dopo aver
soddisfatti i loro oltraggiosi desideri prendevano
madri e figlie e le portavano ai forni crematori per
non sentire più i loro pianti strazianti.
Naturalmente non dicevano loro che andavano a
morire bensì a fare un bel bagno benefico per i
loro corpi. Veniva loro distribuito un pezzo di
sapone nonché un asciugamano, e venivano fatti
entrare in una grande sala adorna di mattonelle
porcellanate con dei grandi specchi alle pareti ed
in mezzo una grande sfilata di docce. Allorché
tutti avevano preso posto aspettando che da quei
fori uscisse l'acqua tiepida e benefica nella sala
risuonava un sibilo sinistro e dai fori stessi usciva
la morte sotto forma di una densa nube di gas
venefico.
La morte per asfissia, non era lunga, ma quei
pochi istanti che la precedevano, in quella sala
maledetta si svolgevano scene agghiaccianti,
risuonavano gemiti e invocazioni così strazianti,
che avrebbero intenerito un cuore di pietra, ma
non quello dei nazisti che, da appositi finestrini,
osservavano sogghignando con gioia feroce il
terribile spettacolo. Tutto questo era voluto da
Hitler, “il grande condottiero” del popolo
autodefinitosi eletto, che edificava la cieca e
pretesa grandezza della nazione germanica, sopra
un tragico piedistallo di milioni di cadaveri
spietatamente ed orrendamente seviziati. Il
macabro spettacolo del crematorio e le atroci
scene che avvenivano nelle camere a gas, agivano
come diversivi per tenere allegro lo spirito
satanico dei carnefici tedeschi i quali facevano a
gara nell’ideare tiri diabolici che mettevano in
atto a danno dei disgraziati prigionieri.
Di infinite atrocità ho evitato di parlare e citerò
ancora soltanto quelle che fecero vibrare l'animo
di giusto sdegno e di commosso dolore,
consapevole che non offendono il pudore e
l’amor proprio della scrivente e del benevolo,
paziente lettore che ritengo non abbia dubbio
alcuno di quanto affermo essendo stata testimone
e vittima al tempo stesso.
Interno di una camera a gas
Gli aguzzini tedeschi non furono soltanto degli
assassini spietati e senza cuore, ma degli esseri
inqualificabili. Nel loro animo perverso si
annidavano mille perfidie, mille crudeltà che
sapevano mettere in atto in ogni maniera. Il loro
sadico desiderio era tale che per soddisfarlo
sacrificavano senza scrupoli una parte di quella
umanità che era stata soggiogata dal peso brutale
della loro potenza materiale e numerica che però
la sua assenza di pietà, di umanità, nel momento
stesso in cui compiva quelle atrocità segnava la
sua sconfitta più completa e meritata.
Sotto ai miei occhi, ai miei poveri occhi stanchi
di piangere, una mattina furono uccisi 2OO
uomini rei di aver fatto un atto di sabotaggio nel
crematorio e così quella mattina essi stessi furono
obbligati a scavare una fossa enorme nel terreno e
sui margini vennero fatti allineare. I tedeschi da
una certa distanza di sicurezza provocarono
elettricamente l’accensione dell'esplosivo, ed i
corpi maciullati orribilmente dei 2OO prigionieri
precipitarono nella fossa scavata con le loro mani.
In altri casi le donne che erano riuscite a
nascondere la loro maternità, al nono mese
entravano nell'ospedale del Campo per partorire.
Avvenuto il parto, il neonato subiva uno speciale
trattamento: o veniva annegato in una vasca piena
di acqua freschissima, oppure lo lasciavano
morire di fame sotto gli occhi disperati della
madre che atterrita e impotente assisteva alla fine
del frutto caro e prezioso delle sue viscere.
I geni malefici del Campo di Auschwitz il dott.
Kuller e il dott. Fritz Kleinche, aiutati da una fitta
schiera di accoliti, compivano sui prigionieri ogni
genere di esperimenti per lo sterminio rapido di
grandi masse di uomini, donne e bambini. Su
ordinazione dei capi medici si sperimentavano
sugli uomini i preparati chimici più pericolosi
come si usa sulle cavie e sui conigli. Sulle donne
provavano mezzi sempre più efficaci per
provocare la sterilizzazione così che se il caso
avesse voluto che un giorno fossimo state
liberate, la nostra razza sarebbe stata
completamente annientata non potendo più avere
figli.Dovemmo subire anche questa umiliazione.
Un complesso industriale, sempre insediato nel
campo, sfruttava tutto fino all'impossibile. Le
materie prime erano costituite da ossa umane,
denti, capelli, grassi, peli del corpo; tutto da
utilizzare per il grande Reich. Quando i Russi
entrarono ad Auschwitz per la liberazione, un
ufficiale con la delegazione della Croce Rossa
Internazionale, nel fare un accertamento sul luogo
dove avevano funzionato le camere a gas, in un
sotterraneo del forno crematorio scoprì macchine
per la fabbricazione del sapone, una quantità di
salami confezionati dai nazisti con i residui della
cremazione, che veniva distribuito una volta alla
settimana ai prigionieri come supplemento
razione. In altre baracche annesse all’ospedale
esisteva una clinica di studi dove mettevano in
atto i terribili esperimenti sui vari prigionieri. Fra
questi, ad alcune belle ragazze ungheresi dai 14 ai
18 anni, fra atroci sofferenze e urla strazianti,
venivano tolte delle parti di midollo, che appositi
medici con il grande medico Kengerle, tentavano
di innestare su altri pazienti, sempre prigionieri,
per rendersi utili al loro idolo Hitler e ai suoi
sostenitori …
Per fatalità un giorno fui incaricata di far
pulizia in quella clinica. Appena entrata in
quella baracca, uno spettacolo terrorizzante si
presentò ai miei occhi: le comuni pareti della
baracca erano completamente coperte con lembi
di pelle umana di donne russe scuoiate e di
zingare. Sopra alcuni scaffali, sotto apposite
campane di vetro c'erano teste intere
mummificate di prigionieri russi che servivano
come dei comuni soprammobili e come
arredamento. Sopra un altro tavolo grandi vasi di
vetro custodivano membra umane di uomini,
donne e bambini. In un’altra stanza grandissima,
in molte vasche da bagno si vedevano interi corpi
di uomini e donne conservati dentro sostanze
11
chimiche, che sembravano dormissero un quieto
sonno. Tutto questo serviva per studio, per far
progredire la scienza tedesca. Non posso
dimenticare ancora l’orrore che provai quel
giorno, pensando a quei poveri disgraziati ai
quali, dopo atroci sofferenze, non era data
nemmeno una onorata sepoltura. Tutto il
complesso era un vero mattatoio umano.
spediti in Germania a delle fabbriche dove
venivano confezionati guanciali e materassi, per
inviarli negli ospedali da campo, per dare miglior
sollievo ai soldati del grande Reich.
Mi venne in mente allora il primo giorno di
ingresso in questo Campo, cioè il 16 Maggio
I944. Sulla porta di entrata c'era scritto: “Il lavoro
nobilita, chi lavora tornerà”! Ma purtroppo dopo
pochi mesi di questa vita, per tante care amiche,
sottoposte ad un lavoro massacrante, la loro fibra
non ha resistito e quindi per loro non c’e stato
ritorno.
LA MALATTIA
Foto tratta dalla mostra “Sterminio in Europa. Perché ricordare”
In un’altra baracca, accanto a quella degli
esperimenti, accostati ad una parete, vidi molti
sacchi e balle che formavano una montagna.
Incuriosita domandai alla Kapò che cosa
contenessero. Ella mi fece cenno di aprire un
sacco: un fetore mi mozzò il respiro, poi di nuovo
mi avvicinai e potei vedere il contenuto; c'erano
grandi ciocche di capelli, alcuni ricciuti. Mi resi
conto così che anche i miei capelli erano finiti in
mezzo a quei sacchi. E pensare che fin da
bambina li tenevo come una cosa preziosa! In
quel momento mi venne in mente la mia adorata
mamma, che la mattina, prima di andare a scuola,
me li pettinava con orgoglio, con le sue dolci
mani. Rimasi perplessa a fissare quei sacchi, con
le lacrime che mi rigavano il volto, riportandomi
indietro con il tempo dei cari ricordi, ma la Kapò
mi scosse il braccio, dicendomi di andar via.
Volli ancora domandare a che cosa servivano
quei capelli nei sacchi, essendo per me un
pensiero ossessionante. Mi spiegò che venivano
12
Auschwitz poteva paragonarsi ad una terribile
bufera abbattutasi inaspettatamente sopra una
moltitudine di esseri innocenti che erano venuti a
trovarsi miseramente in balia a temporaleschi
vortici mossi dal più bieco terrore. In quella
bolgia di vivi, una bolgia ove venivano commessi
liberamente crimini di ogni genere, una bolgia
dove gli uomini venivano bruciati vivi, i bambini
torturati e le donne scuoiate, dato che la loro pelle
era stata trovata ottima per la fabbricazione di
borse e cinture, ed altri oggetti che per loro
divenivano
rari,
pochi
sopravvissero.
Passati mesi e mesi lunghi come un'eternità, piena
di rinunzie e di dolori di affannosi, pensieri di
intima angoscia e di dubbi assillanti, il lavoro
spezzò le mie energie e un mattino mi abbandonai
spossata sul fango nel quale affondavamo da
alcune ore, manovrando stancamente il piccone
maledetto sotto una pioggia scrosciante, che mi
flagellava le membra con accanita violenza.
Alla sera quando rientrai nella tetra baracca
inospitale, ero in condizioni veramente pietose:
una tosse continua mi spezzava il petto, i polmoni
mi doloravano in maniera indescrivibile, i lunghi
brividi di febbre mi percorrevano per tutto il
corpo diventato ormai scheletrito. Espressi alla
Kapò il desiderio, di sottopormi ad una visita
medica e la mia decisione provocò la
costernazione delle mie inseparabili amiche, le
più care e affezionate. Perché per gli ammalati,
infatti, la sorte era indubbia ed io presentandomi
al medico avrei segnato la mia condanna. Le
affettuose esortazioni delle mie compagne di
sventura mi commossero profondamente ma non
mi fecero desistere dalla decisione presa. Tanto
ormai la mia vita era un inferno e la morte ancora
una volta mi apparve come una liberazione. Che
essa mi cogliesse nella camera a gas, anziché nel
fango vivendo in quel suolo ostile era per me
epilogo del tutto indifferente. Affrontai la visita
medica, e riconoscendomi ammalata di polmonite
e nefrite, venni ricoverata in una baracca che
funzionava da ospedale.
Foto tratta dalla mostra “Notte e nebbia su Birkneau” di Jurgen
Kahlert e Harald Nodolny
Questo ospedale era formato da tanti letti a
castello sopra elevati fino al terzo castello, tutti di
rozze tavole di legno ed al posto della materassa
c'era della paglia putrida e sporca che faceva
rivoltare lo stomaco. Una infermiera mi domandò
il mio numero sul braccio, e mi chiese di che
nazionalità ero. Allora quando capì che ero
italiana, mi destinò assieme ad un'altra amica di
sventura, anche lei italiana nativa di Roma che si
chiamava Giuditta di Veroli e così tutte e due
affette della stessa malattia si tentò la sorte pur
non sapendo che cosa sarebbe accaduto di noi.
In questo reparto di ospedale, eravamo circa 2OO
ammalate ed io rimasi molto rattristata nel vedere
tante ragazze scheletrite, in pessime condizioni,
ridotte
pelle
e
ossa.
Qui il pasto a confronto con quello delle baracche
sembrava un pranzo: la mattina ci davano un po’
di caffè nero che sembrava acqua sporca, dopo la
visita medica e alle ore 12 ci veniva data una
presa di aspirina, una gamella di acqua e rape; la
sera 5O grammi di pane, e circa gr.2O di
margarina, poi il silenzio e bisognava dormire.
Qualche sera, oppure durante la notte, veniva
un tedesco a visitare gli ammalati, poi annotava
su un libretto il numero di matricola segnandolo
sul braccio di ogni ammalata che pareva a lui, e la
mattina tornava di nuovo con altri due tedeschi,
insieme prelevavano 2O persone, oppure 50, le
facevano vestire alla svelta, poi venivano fatti
salire su dei camion e venivano condotte via
dicendo che venivano destinate in altro ospedale.
Invece noi il giorno dopo si veniva a sapere che
quelle care amiche di sventura erano andate nei
forni crematori, perché non avevano più energia
da sprecare nel lavoro forzato. Certo per noi
diventava una vita d’agonia e di spasimo, solo al
pensiero che quella sorte poteva toccare anche a
noi. Una mattina tornò il medico tedesco e la
dottoressa per il controllo medico, mi ricordo che
ci fecero scendere a terra tutte nude. Il tedesco ci
scrutò da cima a fondo, e fece un cenno alla
dottoressa, di cui io non capii il significato, so
solamente che mi sentivo mancare il terreno di
sotto ai piedi, guardai Giuditta ed anche lei
pallida guardò me: per noi era finita, poi scelse
altre 12 ammalate, salutò la dottoressa ed andò
via.
Allora noi si chiamò la dottoressa per sapere il
nostro destino e questa consigliò a me e a
Giuditta di lasciare l'ospedale perché eravamo
migliorate e perché fra giorni ci sarebbe stata
un'altra selezione per il crematorio e forse
potevamo essere scelte anche noi. E così questa
dottoressa che per dir la verità era abbastanza
buona, ci portò dei vestiti a righe e degli zoccoli
pesanti per essere avviate ad altre baracche che
lei sapeva. lo e la mia amica si ringraziò molto
per quello che aveva fatto per noi, salutammo
tutte quelle povere ragazze che rimanevano lì in
ospedale ed insieme ad altre dieci si varcò la
soglia di quell’ospedale che ci aveva fatto
conoscere tutti i peggiori supplizi e martiri di vera
tirannia. Mentre varcavo la soglia insieme alle
mie amiche, la dottoressa chiamò di nuovo il mio
numero, appena fui davanti alla sua presenza, mi
domandò se era vero che in Italia avevo studiato
canto, quando le risposi di si, allora essa mi fece
cantare qualcosa.
LA SALVEZZA NELLA VOCE
Radunai le mie poche forze, in quel momento
implorai il Signore che mi venisse in aiuto perché
ero molto debole. Guardai tutte le mie amiche che
lasciavo in ospedale, e chiesi loro cosa
desideravano che cantassi, allora tutte unite mi
guardarono, e mi pregarono di cantare la canzone
“Mamma”. Per me fu una fitta al cuore perché mi
ricordava la mia povera adorata mamma, però
cantandola, per le care amiche, la cantavo anche
alla mia mamma che ero certa in quel momento,
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di lassù dal cielo l'avrebbe ascoltata e nello stesso
tempo mi avrebbe aiutata per la mia salvezza. Mi
feci coraggio e la cantai. Appena ebbi finito la
canzone tutte quelle povere ammalate erano
commosse perché anche loro in quel momento
ricordavano la mamma. Nello stesso istante si
aprì la famosa porta dell'ospedale, e vidi entrare
il solito medico tedesco, con i suoi aiutanti, io
rimasi stordita credendo che ci fosse qualche altra
novità, invece con mossa brusca mi dissero di
cantare ancora per loro. Cantai allora la
“Serenata” di Schubert. Appena terminai, il
medico tedesco mi fissò insistentemente, poi
parlò alla Kapò, mi prese il numero sul braccio e
insieme a Giuditta mi disse di seguirlo. Non
posso descrivere in quel momento la paura lo
sgomento che sentivo per dover seguire
quell’uomo, e il timore di ciò che sarebbe
accaduto, dato che noi ebrei non dovevamo mai
aprire bocca.
Dopo la liberazione Frida misul passò tre mesi in un ospedale
sovietivo, quindi la quarantena in un campo di raccolta
americano prima del rientro in Italia ( Frida è la prima in piedi a
sinistra)
Durante il tragitto mille idee mi balenavano
nel cervello. In quel momento il mio pensiero era
rivolto al crematorio. Volsi uno sguardo a
Giuditta, insieme volgemmo gli occhi al cielo, e
seguimmo il nostro destino. Il tedesco ci portò al
Blocco n. 18, un Blocco tutto lindo e pulito,
chiamò la kapò del Blocco, ci consegnò e le disse
di farci cambiare subito. Ci dette un abito a righe
bianco e blu come la divisa dei detenuti criminali,
una maglia e la kapò ci fece pernottare lì fino
all’indomani. Passai la notte senza chiudere
occhio, immersa in mille pensieri. La mattina
all’alba di nuovo appello; mentre eravamo tutte in
fila come al solito sentii di nuovo chiamare il mio
numero, e così rividi di nuovo il solito tedesco
della sera, che era venuto a prenderci; con un
gran tremolio alle gambe lo seguii.
14
Mi condusse di nuovo in un’altra baracca
grandissima accanto al forno crematorio, mi
consegnò ad un`altra kapò, che mi fece passare in
un`altra stanza molto grande piena di vestiti e
biancheria, e mi dette l'impressione di trovarmi in
una grande sartoria. La Kapò mi fece conoscere
altre ragazze e mi fece sedere ad un tavolo a
rammendare dei vestiti, e la mia amica Giuditta la
fece sedere davanti ad una macchina da cucire.
Poi nel corso della giornata ci facevano entrare
in una altra stanza grande che sembrava una
grande stanza da bagno. Cerano molte docce,
delle belle mattonelle bianche al muro, ed una
grande pulizia regnava lì dentro. La Kapò ci
ordinava di raccogliere mucchi di biancheria e
vestiti ammassati alla rinfusa che dovevano
essere di donne, uomini e bambini. Ce li facevano
mettere sui tavoli e qui avveniva la scelta.
Dovevamo cercare in quelle povere tasche
denaro, oppure preziosi e oggetti di valore. Tutto
veniva accatastato in cassetti e cesti, diviso con
selezione accurata, poi avveniva la scelta dei
vestiti e i capi migliori venivano impacchettati e
spediti in Germania ai grandi magazzini del
Reich, che ne facevano uso per i soldati e per i
loro sinistrati. I denari e i denti estratti con le
pinze dai cadaveri, servivano al grande Reich per
continuare la guerra. I primi giorni di questo
lavoro sentivo una profonda repulsione perché
pensavo che da quei poveri abiti di quegli
innocenti veniva il grido dell'odio e della
vendetta. In seguito cercai di superare quello stato
d’animo. D'altra parte in quel momento
ringraziavo Iddio di avermi procurato un posto
migliore, senza più dover adoperare la pala ed il
piccone, senza sprofondare fra il fango e la
melma.
Spesso ci domandavamo quando sarebbe finita
la guerra, ma ormai ci eravamo rassegnate al
fatto che prima o dopo avremmo subito anche noi
la sorte di tutti gli altri. Un bel giorno
cominciarono i famosi bombardamenti e spesso si
udiva il cannone. Noi speravamo che i russi si
avvicinassero: ma era un'illusione. Per noi
andavano troppo lenti, avevamo perduto la
fiducia e temevamo che non avrebbero fatto in
tempo a liberarci da quell’inferno. Spesso però
vedevamo sgombrare il Campo; grossi convogli
portavano via i prigionieri, tanto uomini che
donne. I forni crematori fumavano notte e giorno,
senza tregua, durante la notte si udivano alte grida
di persone, che forse non volevano andare a
dormire e spesso grandi colpi di fucile. Spesso si
veniva a sapere che i tedeschi durante la notte
entravano nelle baracche, negli ospedali, facendo
uscire cinque per volta i prigionieri dalle loro
baracche, e con feroci colpi di mitra eliminavano
quei poveri corpi esausti e senza difesa, ridotti in
condizioni disperate.
Ingresso del blocco 18
In quel periodo ero già arrivata al peso di Kg.
34, mi sentivo molto debole, ma ero felice che la
mia voce mi avesse aiutato a cambiare lavoro
salvandomi da uno molto pesante, che certamente
presto avrebbe troncato la mia vita. Questo lavoro
però mi riuscì moralmente più pesante e più
penoso, quando seppi che quei mucchi di
biancheria, i vestiti che rammendavamo,
venivano tolti da quei corpi che venivano condotti
nelle camere a gas. lo cucivo e cucivo, bagnando
di lacrime cocenti quei miseri abiti di quei poveri
sventurati. Dal pensiero delle indicibili sofferenze
imposte alle povere vittime; da quelle povere
stoffe brutalmente lacerate sembrava partisse
all'indirizzo del carnefice la più terribile delle
accuse
e
la
più
giustificata
delle
maledizioni.Insomma dappertutto era un inferno,
ed un momento di pace non si trovava mai. Solo
la domenica mi veniva a prendere qualche Kapò
tedesca, oppure polacca, per farmi cantare dinanzi
a loro quello che più piaceva loro. In cambio mi
davano qualche spicchio di aglio, una cipolla,
oppure un pezzo di pane, che al rientro nella mia
baracca dividevo subito con le care amiche di
sventura, fra le quali Giuditta l'amica del cuore,
che era per me un’amica inseparabile.
IL KIPPUR
Venne il giorno del Kippur che costò molte
lacrime.
Per mezzo delle care amiche, ungheresi e
polacche, sapemmo che eravamo vicini ai primi
giorni di ottobre e per noi ricorreva il Kippur,
giorno di digiuno e di espiazione. Passando la
voce da una baracca all’altra si decise che in quel
giorno non si doveva prendere la nostra razione di
pane di gr.5O per osservare il Kippur, invocare
tutti uniti il Signore che ci venisse in aiuto, e si
compisse un miracolo per noi. Cosi facemmo, ed
anche gli uomini, i polacchi che erano addetti ai
forni crematori, commisero un atto di sabotaggio
così che quel giorno non avrebbero fatto
funzionare detti forni. Anche noi della sartoria
guastammo alcune macchine che non ci
permisero di lavorare. Quel giorno per noi era
santificato e dedicato tutto al Signore. Pero tutto
non riuscì come speravamo. I tedeschi si
accorsero di questa manovra allora, inferociti, si
accanirono contro di noi bestialmente. Suonarono
l'appello generale, vollero tutti i prigionieri fuori
delle baracche cercarono il gruppo di quei
polacchi addetti al crematorio e li fecero mettere
da parte.
Poi scelsero fra noi alcune ragazze ungheresi
ed in presenza di tutti li chiamarono traditori,
sabotatori e li portarono via. L'indomani mattina
fecero di nuovo l’appello, ci misero in fila cinque
per cinque e ci fecero sfilare dinanzi ad un palco
eretto per quell’occasione. Quando i nostri occhi
incrociarono quel palco, vedemmo con orrore
pendere dalle forche, quei poveri corpi dei
polacchi, uccisi così barbaramente per un loro
ideale, che era anche il nostro e sotto quei poveri
corpi irrigiditi, un grande cartello con la scritta Vi
sia di esempio. Noi donne ci portammo nella
baracca del lavoro per riprendere il nostro cucito.
Ma siccome quel giorno i crematori non avevano
bruciato nessuna persona, per noi non c'era
pronto alcun lavoro perciò ci portarono in un altro
magazzino, ci fecero prendere due grosse ceste e
ce le fecero portare al laboratorio, e
pronunciarono queste parole: “Queste oggi è il
vostro lavoro: qui ci sono centinaia di Taled
(manti sacri). Entro due ore dovete tagliarli e farci
della biancheria intima per le vostre luride carni.
Se verrà trasgredito l’ordine ognuna di voi subirà
la medesima sorte di quei polacchi”.
Allora noi, con l'animo straziato ed un nodo che
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ci serrava la gola, cominciammo quel lavoro che
ci era stato imposto, però per ogni manto che
veniva tagliato con le nostre mani tremolanti, si
chiedeva perdono recitando le nostre preghiere e
invocando il nome santo del Signore per punire
quei volgari assassini. La mano del Signore
cominciava ad estendersi su di loro.
Ingresso di Auschwitz
DA AUSCHVITZ A VILLISTAT
Il giorno 16 novembre fummo chiamate tutte in
appello. Era una giornata rigida di freddo e di
neve. Il gelo agghiacciava le nostre misere carni,
tuttavia ci radunarono sul piazzale per una visita
di controllo. Eravamo tutte pallide e tremavamo
dalla paura. Una con l'altra ci pizzicavamo le
guance per apparire più colorite e più in buona
salute. Sfilammo così nude davanti a quel medico
nazista che ci guardava da capo a piedi e così
anche questa volta scampai alla morte. Fui
riconosciuta abile per un nuovo lavoro. Fummo
prescelte in 200 ragazze e saremmo partite nel
pomeriggio per destinazione ignota. Ci
cambiammo gli abiti, ci si disinfettarono tutte con
la creolina, altra agonia straziante, ci dettero un
filo di pane e un pezzo di margarina. Ci portarono
vicine alla ferrovia, di nuovo ci fecero salire nei
carri bestiame senza sapere cosa sarebbe accaduto
della nostra vita: forse ci avrebbero uccise nel
viaggio. Appena il treno si mosse da Auschwitz
però, un presenti- mente di gioia regnava nei
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nostri cuori per aver lasciato quella terra
maledetta che ci era costata lacrime di sangue per
ogni giorno di prigionia in quel triste Campo.
Chiuse in quei vagoni durante il viaggio,
soffrimmo molto freddo.
Eravamo 80 per vagone e si soffriva la fame.
Spesso quei guardiani si sfilavano la cintura e si
sfogavano su di noi, come bestie feroci, per far
tacere i nostri fastidiosi lamenti, perché volevano
stare tranquilli. Dopo due giorni di queste
sofferenze, arrivammo in un piccolo villaggio
della Germania, a Villistat, però ci rendemmo
conto che anche quel Campo era una copia fedele
e forse peggiore di quello che da Fossoli ci portò
in Polonia. Appena il treno si fermo ci fecero
scendere dai carri bestiame. Ad attenderci c’erano
molte guardiane tedesche in divisa e anch'esse
avevano impresso nel berretto il teschio della
morte e in mano un frustino. Ci fecero camminare
verso una fabbrica che doveva essere la nostra
dimora.
Tutto era ben pulito, con letti in legno a castello
fatti di rozze tavole di casse. Ci dettero una
coperta per ognuna, poi ci fecero fare un bagno
con acqua fredda e ci servirono una zuppa calda
che rimise subito a posto il nostro stomaco. A noi
tutto questo ci sembrava un sogno di fronte alle
torture subite nel triste Campo di Auschwitz.
Dopo il pasto ci fecero subito andare a dormire:
per la prima volta si dormiva su un pagliericcio e
con una coperta, tutta nostra, senza stare prima a
litigare per coprirsi. Rivolsi gli occhi al cielo al
Signore e alla mia adorata mamma in segno di
gratitudine e di grazia e così mi addormentai
serena.
Anche qua la sveglia era alle cinque la mattina
e ci radunavano all’aperto, però il freddo era più
sopportabile. Ci fu presentata la nuova direttrice
(Kapò) che al solo vederla metteva spavento: una
donna colossale, molto alta, con viso arcigno, le
mani molto grosse, più di Carnera. Ci tenne un
discorso di come ci si doveva comportare in quel
nuovo Campo, assicurandoci che chi non
lavorava e non ubbidiva avrebbe ricevuto
bastonate e sarebbe stata privata della razione di
pane. Solo a vederla metteva paura perché
viaggiava sempre con un nodoso bastone in
mano,pronta a farlo cadere su noi prigioniere.
Dopo qualche giorno si seppe che in questo
campo piccolo esisteva una fabbrica di munizioni,
però dovevano arrivare dei macchinari, per
impiegare noi 200 prigioniere nella costruzione
dei
fucili
mitragliatori.
Ed infatti, nell’attesa che la fabbrica venisse
completata, ci affidarono di nuovo pala e piccone
e ci fecero cominciare a lavorare. A noi non fece
paura questo lavoro, perché eravamo già pratiche
del mestiere. Però il freddo si fece più rigido e le
nostre povere mani via via si congelavano.
La razione di cibo
Il vitto consisteva in gr.100 di pane al giorno e
una zuppa di acqua e rape. Anche qui si
languiva di fame, però per acquietare gli stimoli
del nostro stomaco via via, quando potevamo, si
andava fra le immondizie a cercare qualche
buccia di patate e tanti altri rifiuti. Qualche osso
già ripulito dalle tedesche, si finiva di ripulirlo
noi per sentirci un pò più sazie. Un giorno,
mentre eravamo a lavorare di pala e piccone, si
sospese il lavoro perché era ora del pranzo. Come
sempre mi misi in fila per la razione di zuppa.
All’ultimo la Kapò, quando avanzava della zuppa
nel barile, chiamava quelle che avevano lavorato,
per dar loro un po’ di supplemento e anch’io,
come tutte le altre, mi avvicinai per godere di ciò
che mi spettava. Mentre avvicinavo la scodella, la
Kapò mi guardò in viso e mi disse: “Tu Italien”
ed io tutta sorridente risposi di si.
Alla mia risposta mi diede una bastonata
dicendomi che per gli italiani non esisteva
supplemento perché noi eravamo considerati dei
vili e dei traditori. Mi prese il nodo alla gola e
cominciai a piangere allora quella maledetta
Kapò mi prese per un braccio e mi portò nel
Blocco dove c’erano le mie amiche poi chiamò
due tedesche e mi fece bastonare a sangue.
Quando videro che ero priva di forze mi chiesero
se avevo ancora fame poi mi lasciarono lì per
terra dove grondavo di sangue dal naso e
dall’orecchio. Le mie care amiche vennero subito
a dar aiuto, cercarono di farmi riprendere forza e
con buone parole cercarono di farmi coraggio
dicendomi di sopportare con rassegnazione tutti
gli insulti che ci venivano fatti senza mai poterci
difendere.
Dopo di me, ad un'altra amica toccò di peggio.
Una sera prima dell'appello questa trovò il modo
di fuggire ed infatti alla chiamata risultò
mancante. Questa diserzione esasperò al massimo
i nervi della “Capa” la quale scelse nel nostro
gruppo dieci ragazze dichiarando che le avrebbe
fucilate al mattino successivo se nel frattempo la
fuggitiva non avesse fatto ritorno. La minaccia
fortunatamente non fu messa in atto perché la
poveretta che aveva tentato la fuga rientrò ben
presto all’ovile accompagnata da due gendarmi
tedeschi.
Era
in
uno
stato
pietoso,
indescrivibilmente tutta lacera e dolorante per le
percosse subite. La Kapò felicissima per la
cattura della ribelle, non si lasciò per niente
commuovere dalle tristi condizioni della ragazza
e personalmente le distribuì un'altra scarica di
legnate. Non paga di ciò, fece denudare la
prigioniera e la fece immergere in una botte
d'acqua gelata. E pensare che eravamo nel mese
di dicembre e faceva molto freddo. Ve la lasciò
dentro finché non divenne paonazza, senza più
dare segno di vita. Anche in questo Campo non
passava giorno che avvenissero sempre nuove e
dure punizioni.
Però da quel giorno la Kapò mi prese ad
odiare, mi accorsi che non mi poteva vedere;
infatti quando andavo davanti a lei per prendere
la zuppa vedeva che io tremavo dalla paura.
Allora rideva, mi guardava in viso e così mi dava
metà razione. Poi quando c'erano lavori pesanti
subito il mio numero era il favorito, dato che
questo fatto me lo avevano messo a ribellione. lo
ero talmente demoralizzata che non potevo
vedere più nessuno, piangevo sempre invocando
la mia cara mamma che mi venisse in aiuto
perchè sentivo che le forze mi mancavano e non
potevo resistere più a lungo. Anzi in vari
momenti desideravo la morte, cercavo come mi
potevo uccidere, ma poi me ne mancava il
coraggio. Questo doloroso calvario, però, non era
ancora finito.
17
Dopo 40 giorni di questa vita infernale, mi
condussero a lavorare in fabbrica. Speravo di
trovar pace con il lavoro. Anche qui fu una
illusione. Qui si lavorava una settimana di notte e
una di giorno per 14 ore consecutive. Ci misero a
fare i fucili mitragliatori e le pistole automatiche.
Era un lavoro ancora più pesante, un lavoro da
uomini, ed il mangiare veniva diminuito: la nostra
fetta di pane dopo 14 ore di lavoro consisteva in
gr.70. Una sera delle ragazze rubarono delle
razioni di pane dal barile. Appena cessammo il
lavoro ci fece bastonare tutte a sangue e dopo, ad
una ad una, ci fece rapare a zero i nostri poveri
capelli e ci fece inginocchiare per tre ore sulla
neve. Tutto questo accadeva quando io ero di
turno. Mi toccò il solito turno di notte ed ero già
alla settima nottata. Stanca e sfinita dalla fame e
abbrutita dal lavoro, finivo di terminare un pezzo
alla macchina del tornio, quando vidi girare tutto
intorno, ebbi come un fremito e caddi
pesantemente al suolo. Dopo alcuni minuti venne
la Kapò, mi scosse, mi chiamò e, vedendo che
non riprendevo i sensi, mandò a prendere un
secchio d’acqua gelida e me la getto addosso.
Subito sentii l'impressione di quell’acqua gelata e
piano piano riacquistai le forze. La Kapò mi fece
segno di seguirla.
Mi portò nella baracca delle punizioni e
davanti alle altre tedesche mi domandò perché mi
ero sentita male. lo in quel momento risposi
vagamente che forse ero debole, oppure che
avevo fame. Non avevo ancora finito di
pronunciare la parola “fame”, che tutte si
scagliarono contro di me. Una tedesca mi prese
per la testa appoggiandola al muro; allora la Kapò
prese una sbarra di ferro e con ira e disprezzo, la
gettò con forza verso la mia bocca. In quel
momento caddi a terra svenuta, mezza tramortita,
grondante di sangue, finché un po' più tardi fui
raccolta dalle mie amiche e condotta
all’infermeria.
Solo quando ripresi conoscenza sentii un gran
vuoto nella mia bocca, ed infatti il colpo della
sbarra di ferro mi aveva spezzato del tutto tre
denti davanti. Che dolore fu per me vedermi così
sfregiata e sfigurata, quante volte invocai la mia
mamma e il Signore di far cessare queste torture!
Non ne potevo più. Solo a ricordarle sento ancora
dolore e dispiacere e odio verso quel popolo
sempre assetato di sangue.
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Per diversi giorni fui trattenuta in infermeria
per ematoma agli occhi, gonfiagione alla bocca e
sospetta frattura delle costole. Via via le mie care
amiche di Roma, mi venivano a trovare
facendomi coraggio e aiutandomi a sopportare
con rassegnazione sognando sempre la sospirata
libertà. Intanto si avvicinavano le feste natalizie, e
la nostalgia regnava nei nostri cuori, noi eravamo
molto pallide e scheletrite e ci sembrava
impossibile di dover resistere ancora, dato che più
nessuno si curava della nostra persona. Qui a
Villistat ogni giorno si avevano dei forti
bombardamenti e si stava sempre con la speranza
di poter essere liberate da un momento all’altro.
La sera di Capodanno eravamo tutte nervose, ci
perdevamo di coraggio, dicevamo che i liberatori
erano vicini, invece per noi tutto era calmo, e così
iniziava un nuovo anno senza speranza. Eravamo
tutte nelle nostre cuccette e cercavamo ognuna di
esprimere il nostro desiderio. Aspettavamo il
nuovo anno per chiedere tutte unite una grazia al
nostro Signore, per la nostra salvazione. In quel
momento entrò la dottoressa, ed a voce alta
chiamò il mio numero e mi disse che la Kapò
voleva vedermi.
Soldato tedesco
Non posso descrivere la paura e lo sgomento,
perché quando chiamava lei, erano botte o
punizioni. Seguii la dottoressa con il batticuore e
nel medesimo tempo le mie amiche aspettavano
tribolando, stando in pensiero. La Kapò mi fece
entrare nel suo ufficio ed io la guardai subito con
disprezzo, allora questa con riso inquisitore e di
derisione mi domando se era vero che ero una
cantante. Risposi di si. In presenza c’erano degli
ufficiali delle SS. e più un italiano, che fungeva
da interprete. Esso con tono rude mi disse di
cantare qualcosa per lei, però le feci osservare che
senza i denti non avrei potuto cantare bene, e mi
sarei arrangiata come potevo. Questa insiste ed io
dovetti ubbidire. Cantai la canzone “mamma” che
in quel momento mi era venuta in mente, l’Ave
Maria e la romanza dalla Butterfly di Puccini.
Quando terminai di cantare, la Kapò mi congedò.
Aveva gli occhi lucidi di pianto ed io da quel
momento sperai che fosse più comprensiva verso
di me.
Corsi dalle mie amiche che mi attendevano a
braccia aperte, ed anche a loro volli cantare
qualcosa in falsetto, per festeggiare il nuovo
anno. Quella sera si addormentarono tutte con il
sorriso sulle labbra esprimendo un desiderio per il
nuovo anno, che fosse propizio, di buon augurio.
Verso l'una di notte tutto era calmo, regnava un
silenzio di tomba ed a me non riusciva prendere
sonno. Ad un certo momento sentii che qualcuno
si avvicinava al mio letto, ma nel buio non potevo
distinguere, mi sentii accarezzare e chiamare per
nome, e non più con il numero per la prima volta
dopo tanti mesi di prigionia, ebbi l’emozione di
sentirmi chiamare Frida. Allora mi resi conto che
accanto a me c'era la Kapò, colei che una volta mi
odiava, mestamente si avvicinò, mi consegnò una
bella fetta di pane e carne, mi accarezzò di nuovo,
e poi se ne andò. Ne rimasi talmente stordita ché
non credevo che la mia musica le avesse
procurato nell'anima un po’ di pietà per me. Alla
svelta chiamai le mie compagne, e divisi in otto
parti quella fetta di pane e carne che ci sembrò un
buon auspicio per il nuovo anno.
DA VILLISTAT
LIBERAZIONE
A
TERESTAT:
LA
Nonostante che i bombardamenti si ripetessero
più frequenti, noi continuavamo a lavorare in
fabbrica. I liberatori dovevano essere vicini, dato
che non davano un momento di tregua.
Finalmente un giorno in fabbrica ebbi il piacere
di parlare con un prigioniero politico italiano, e
cosi riuscii ad ottenere qualche notizia. Ci esorto
a stare tranquille e buone perché presto sarebbe
avvenuta la liberazione. Il giorno 15 aprile
avemmo un appello straordinario. La Kapò e le
altre tedesche erano tutte presenti, però si notava
in loro qualcosa di insolito, erano nervose e
distribuivano latte a destra e a sinistra a noi
prigioniere, senza motivo. La Kapò mi proibì per
quel giorno di andare a lavorare in fabbrica. Ci
rinchiusero dentro le baracche, e noi dalle
inferriate osservavamo tutto quel movimento. Le
tedesche erano sgomente ed in fretta preparavano
i loro bagagli e di noi non si curavano affatto.
Eravamo tutte sgomente, e non riuscivamo a
comprendere cosa sarebbe avvenuto di noi,
rinchiuse dietro a quelle sbarre, prive di ogni
difesa.
Dopo qualche ora vennero delle tedesche e ci
portarono del pane in gran quantità, tanto che
facemmo a botte per prenderlo. Noi come cani
affamati ci gettammo sopra a questo pane senza
un minuto di tregua, per paura che fra noi
dovessimo rubarcelo, dato che da lunghi mesi non
si vedeva un’abbondanza di pane come quella.
Poi ci chiamarono di nuovo fuori per un appello,
ci fecero mettere in fila, e ci fecero camminare
lentamente. Mi ricordo che camminammo per
diverse ore. Eravamo spossate, molte cadevano e
venivano fatte rialzare a colpi di bastone, si
moriva dalla sete. Nessuna pietà per noi. Forse da
quel momento era segnato il nostro destino: ci
avrebbero uccise durante questa lunga e dolorosa
marcia. A notte alta arrivammo in una fabbrica a
Scioppan, dove fabbricavano pezzi di aeroplano e
qui ci unirono insieme ad altre prigioniere,
anch'esse ridotte in misere condizioni. Ci fecero
passare la notte in questa fabbrica dove
dormimmo qualche ora sulla paglia umida e
putrefatta dalla sporcizia. Il nostro sonno veniva
interrotto dagli insetti che divoravano le nostre
carni martoriate. Che supplizio! Ormai la nostra
vita era un martirio e non trovavamo pace da
nessuna parte.
La mattina alle 5 ci fu un nuovo appello. Ci
fecero rimettere in fila e di nuovo in marcia. Ci
condussero di nuovo alla stazione, salimmo sui
carri bestiame e ci impiombarono in nuovi
vagoni. Partimmo. Durante questo nuovo viaggio
fummo trattate peggio delle bestie, non ci dettero
ne pane né acqua. Eravamo già al terzo giorno di
viaggio ed eravamo sfinite. I nostri visi erano
cadaverici, tutte noi prigioniere eravamo marcate
per le botte che ci davamo fra noi stesse. Al
quarto giorno eravamo sempre nei carri bestiame,
tutte sfinite e mezze moribonde. In quel momento
il treno si fermò e la Kapò ci fece scendere a
prendere una boccata d’aria. Ci distribuirono
gr.50 di pane e un cucchiaio di zucchero a testa,
poi ci fecero risalire e di nuovo in viaggio, ci
furono
diversi
bombardamenti.
Eravamo
terrorizzate dalla paura, perché eravamo rinchiuse
e prive di qualsiasi difesa. Finalmente il treno si
fermò in un paese della Cecoslovacchia, ci fecero
19
scendere e, in fila per cinque, ci fecero mettere in
cammino.
La stella affissa agli abiti degli ebrei
Attraversammo alcune strade dove la
popolazione ci guardava stupita con aria di vera
compassione, mentre in altre strade, quelle dei
quartieri tedeschi, ci guardavano con aria di
disprezzo. Alcuni bambini ci chiamavano “Judé”,
ci sputavano addosso con disprezzo e ci
ingiuriavano. Alcuni di essi ci tiravano sassi. Così
era abituata la gioventù tedesca contro di noi,
poveri ebrei, in quel momento indifesi e senza
poter opporre nessuna resistenza. Dopo 10 km di
cammino, arrivammo in una cittadina chiamata
Terestat (Praga). Qui c'era un grande ghetto
circondato da alte mura e con una grande
fortezza. Appena vedemmo questo nuovo
ambiente ci sentimmo rabbrividire e avemmo
l’impressione che quella sarebbe stata la nostra
tomba, la nostra ultima dimora. Appena entrati in
questo ghetto vedemmo molti signori ebrei ben
vestiti e puliti, solo che portavano sul petto un
simbolo: una stella gialla con la scritta in nero...
“Judé”. Questi erano commossi nel vederci così
scheletrite, sfinite, poco coperte. Alcune
prigioniere avevano addosso solo dei pezzi di
coperte perché non avevamo più niente per
ripararci. Vedendoci in quello stato miserando,
fecero a gara per darci del pane, sul quale noi ci
gettammo come bestie feroci.
In quel momento vennero i tedeschi e a suon di
bastonate ci portarono in una grande baracca della
fortezza e ci dissero che dovevamo stare lì in
quarantena per essere disinfettate, pulite, per
poter indossare dei vestiti puliti come gli altri che
avevamo visto nel Campo. La sera ci portarono
20
una buona e saporita zuppa e una fetta di pane. A
noi sembrava di sognare, per quanto non ci
fidassimo di questo nuovo trattamento. La
mattina dell'8 maggio notammo una grande
confusione e sentimmo un forte bombardamento.
Le Kapò ci ordinarono di non uscire da dentro la
fortezza perché fuori ci sarebbe stato del pericolo.
Intanto intorno a noi regnava la paura e lo
sgomento, perché eravamo al buio, rinchiuse, e
tutto tremava intorno a noi. Udivamo dei gridi e
dei lamenti dall’altra parte della fortezza, un gran
movimento. Caricavano i prigionieri sul camion,
specie quelli ammalati e infermi, e molti bambini
invocavano a squarciagola la loro mamma. Ci
unimmo tutte assorte nella preghiera invocando il
Signore con tutte le nostre forze, perché venisse
in nostro aiuto. Alle ore 11 il bombardamento
cessò e udivamo solo qualche colpo in
lontananza. Ma quale non fu la nostra sorpresa
quando vennero le Kapò, ci fecero uscire perché
tutto era calmo, e ci dissero che i tedeschi erano
in fuga e noi eravamo rimaste sole e abbandonate.
Ma non tutto era finito. C’erano ancora dei
tedeschi che ci guardavano con occhi perplessi.
Di nuovo arrivammo alla sera, di nuovo al buio
sul pagliericcio di vero letame. In qualche angolo,
gli
ammalati
gravi
si
lamentavano
sommessamente. Alcuni erano già cadaveri
abbandonati al loro destino. Ci mancava il
respiro, la puzza era insopportabile, e così ci
addormentammo di nuovo ma verso l'alba
cominciò di nuovo il bombardamento. Insomma il
martirio continuava. Alle ore 9, la mattina del
giorno 9 maggio, arrivarono dei grossi camion
della Croce Rossa Internazionale, e invitavano
tutti i prigionieri alla calma dicendo che di lì a
poco sarebbero arrivati i russi. Intanto sulle
inferriate della fortezza da parte della Croce
Rossa, venivano issate bandiere russe e della
Cecoslovacchia. Dopo poco tempo, quelli della
Croce Rossa vennero ad aprire le porte di quei
tristi stanzoni, indietreggiando per l'aria malsana,
il fetore dei cadaveri e la sporcizia. Quelli che si
potevano reggere in piedi, li fecero uscire dalla
fortezza in attesa che arrivassero le autocolonne
russe.
Appena fummo tutte fuori, ci inginocchiammo
cantando l’inno della nostra patria, ed il nostro
viso era rigato di lacrime. Alcune di queste
amiche, non potendo resistere all'emozione,
caddero davanti ai nostri occhi morendo con il
sorriso sulle labbra. Alle ore 10 in punto arrivò
l'autocolonna dei russi, ma quando furono vicino
a noi prigionieri, inorridirono nel trovarsi davanti
centinaia di visi scheletriti, senza capelli, coperti
di cenci, ridotti a brandelli. Rimasero commossi
nel vedere le nostre misere condizioni. Subito
vennero le autoambulanze e dei grossi pullman, ci
caricarono e ci portarono in un grande edificio
contornato di ville e di molti fiori, che era stato
adibito ad ospedale. Le dotto- resse e alcune
signore ci vennero subito in aiuto, facendoci fare
un bel bagno ristoratore, una buona disinfezione,
dopo di che ci fecero indossare delle belle camice
bianche. A noi sembrava di sognare. Ci portarono
nelle corsie e ci fecero mettere a letto. Subito
effettuarono visite mediche, trasfusioni di sangue
e fleboclisi. Perla sera solo del caffè, perché
ormai i nostri stomaci erano talmente chiusi, che
all’infuori di cibi liquidi non potevamo prendere.
Molti non resistettero e morirono entro poche
ore. A noi fecero delle iniezioni e ci dissero di
dormire e riposare tranquille. Ma in quella notte
fu troppo grande la gioia della sospirata libertà,
che a nessuno fu possibile dormire. Durante la
notte le infermiere si fermarono ai nostri letti,
sorvegliavano e poi con una carezza ci
salutavano. La mattina verso le ore 5 udimmo
delle forti scariche di mitra. Di nuovo
terrorizzate e con gli occhi sbarrati di paura
domandammo cosa fosse accaduto. Le
crocerossine ci dissero che i russi, avendo
scoperto nascosti dei tedeschi delle S.S.
(guardiani di noi prigionieri) li avevano fatti
uscire dal nascondiglio e mostrando loro gli orrori
che avevano combinato, li avevano portati
davanti una catasta di cadaveri di poveri
prigionieri, che li avevano fatti girare due o tre
volte obbligandoli a vedere quei cadaveri,
avevano fatto levare loro le scarpe dai piedi e, a
colpi di fucile e di mitra, li avevano giustiziati
mentre con occhi sbarrati osservavano quei
poveri morti innocenti. Poi fecero un giro
d’ispezione nella fortezza e nei dintorni. I russi
poterono constatare che i tedeschi che erano stati
giustiziati, due ore prima che arrivassero i russi,
avevano preparato delle grandi camere a gas per
uccidere tutti noi prigionieri. Fortunatamente non
avevano fatto a tempo e così furono uccisi loro
invece di noi.
La mattina dopo la visita medica venne una
Delegazione della Croce Rossa Internazionale, si
soffermò ai nostri letti domandandoci di quale
nazione fossimo, ci guardarono con aria di
compassione, e lasciarono dei pacchi. Non posso
descrivere quale fu la nostra sorpresa nell'aprirlo:
dolciumi, tabacchi, caramelle e tante altre cose,
che in quel momento a noi davano la sensazione
di essere tornate di nuovo bambine. Da quel
giorno i russi ci hanno curato amorevolmente e
trattato con tutti i riguardi sia nel mangiare, sia
nel vestire e curandoci perfino con delle
trasfusioni di sangue. Dunque in questa bella
cittadina siamo state trattate molto bene, e
ringrazio di nuovo il popolo russo di averci
salvato la vita essendo arrivati in tempo prima
che quei cani rognosi di tedeschi commettessero
un altro crimine. Intanto l'ansia di tornare a casa
si faceva sentire, ed i russi per il momento non
potevano farci rimpatriare, dato che eravamo in
molti e ancora non ristabiliti delle nostre
sofferenze.
Una notte insieme ad una mia amica, Rosa
Disegni di Roma, siamo riuscite a fuggire con un
trasporto di francesi che dovevano rimpatriare e
noi in tutte le maniere si voleva raggiungere il
confine cecoslovacco. Però appena giunte
all`aeroporto di Pilsen, La Croce Rossa francese
ci scoprì che eravamo italiane, ed allora ci
portarono al comando americano. A mezzo di un
camion ci portarono in una cittadina chiamata
Pilsen Alta, e qua trovammo ancora italiani in
attesa di rimpatrio. Ci fecero stare ancora un mese
in questo Campo, ed anche qua ci trovammo
bene, solo che con i russi si mangiava meglio. Il
giorno 17 luglio venne l'ordine di partenza. Tutti
felici salimmo in un carro bestiame, Quante
stazioni abbiamo passate, tante erano distrutte dai
bombardamenti e ridotte a cumuli di macerie. Ad
ogni stazione dove il treno si fermava ci venivano
distribuiti viveri e pacchi della Croce Rossa
Internazionale, e venivamo accolti con applausi e
sventolii di bandiere.
Appena arrivata da Innsbruch trovammo
ancora il Comando Americano. Ci fecero
scendere di nuovo, ci condussero al Campo di ....
ci fecero di nuovo una grande disinfezione
cambiandoci gli abiti e trattenendoci ancora 9
giorni
per
il
rimpatrio.
Il giorno 26 luglio di nuovo in viaggio, e così
finalmente il giorno 27 alle ore 6 di mattina siamo
arrivate a Trento. Non posso descrivere la mia
grande emozione di rivedere la nostra bella Italia,
21
i nostri occhi si riempirono di lacrime ed in quel
momento il nostro sguardo era rivolto al cielo per
ringraziare il Signore di averci fatto il miracolo di
poter rimettere piede sul nostro suolo italiano. Il
coro dell’Inno di Mameli annunciò il nostro
ritorno nella nostra cara e amata Patria, l’Italia.
Tornando a casa ho riportato di nuovo gioia nella
mia famiglia che per lunghi 18 mesi ha vissuto
una lunga agonia, nella pena che anche io avessi
subito la sorte dolorosa di tanti disgraziati
compagni di sventura.
Copertina
RIFLESSIONI
Se li odio per tutto il male che hanno fatto ai
bambini, il grido di vendetta non basta a far
cessare quei gridi di quei poveri innocenti quando
venivano condannati nelle camere a gas, e so
quello che hanno sofferto, perché questo è solo
l'incubo orrendo che mi ha angosciata per tanto
tempo, anche se ora è tutto finito.
Io mi auguro che il tempo possa lenire ogni
nostro spasimo, possa far rimarginare le ferite
atroci nelle nostre anime, e possa ridestare in
esse, con la potenza di un miracolo nel quale
stento a credere, che nell'avvenire regni un
briciolo di bontà, di comprensione e di fratellanza
universale.
Nel mio cuore di donna non devono aleggiare
sentimenti di odio e di rancore, ma forse la mia
22
anima non è ancora placata, le mie sofferenze
sono molto recenti.
Il lettore non cerchi nel mio scritto squarci
lirici. Premetto che io non sono una scrittrice, e
con queste pagine semplicemente narrate ho
cercato di riassumere in questi capitoli le vicende
che mi ebbero a protagonista nel periodo di
tempo che trascorsi sotto il giogo spietato del
nazismo.
Se una persona nella cui sincerità avessi nutrito la
più assoluta fiducia mi avesse descritto gli orrori
che sono passati davanti ai miei occhi nei tristi
campi nazisti della morte, io avrei stentato a
credere al suo racconto tanto questo avrebbe
potuto considerarsi irreale ed ancora oggi mi
domando, con stupore tanto grande quanto
sincero, come la mia mente non si sia smarrita in
tanto orrore, e come il mio corpo, fragile corpo di
donna, non sia stato spezzato sotto il peso di tanti
sacrifici che gli vennero imposti e dei disagi che
dovette forzatamente affrontare.
Avevo vissuto fino all’età di 20 anni credendo
fermamente nella bontà del mio prossimo,
amando la natura, nutrendo nell'animo un ideale
gentile, un dolce sogno di arte. Tutto si interruppe
in modo violento e orribile. Tutto ho provato,
spiritualmente e moralmente: ho conosciuto lo
spasimo infinito della separazione dalle persone
più care, ho provato le umiliazioni più gravi, ho
sofferto la fame, la sete, il freddo. La
disperazione più cupa che opprimeva il mio
spirito mi ha fatto invocare la morte come se essa
fosse stata più dolce, più cara, più buona della
vita che stavo vivendo, nella quale veniva
spezzato ogni vincolo di solidarietà umana.
Questo accadeva ad Auschwitz, il centro della
morte. Molti delitti rimasero nascosti dietro le
mura dei campi, oltre le cose che avvenivano alla
luce del sole. Cose terribili! Solo per chi le ha
vissute è possibile rendersi conto dell’enormità
del sistema dei campi di sterminio, comprendere
in che modo gente di animo forte abbia potuto
essere tenuta in soggezione, come spiriti arditi
abbiano potuto essere spezzati, finché fu in vita
questo sistema, e il suo potere si esercitò
liberamente. I campi di concentramento furono
l'anello finale della catena di terrore con cui la
Germania legò l’Europa occupata dal 1940 al
1945.
Tutte le vie del dolore conducevano al campo
di concentramento, e alla morte. Pochi
superstiti potevano uscire dopo molti anni, spesso
martoriati nel corpo e contorti nella mente.
L’uccisione di sei milioni di ebrei europei
costituisce il più grande delitto della storia del
mondo. Se l'intera popolazione ebraica d'Europa
non è stata sterminata, lo si deve al fatto che i
nazisti persero la guerra prima di portare a
termine il loro disegno complessivo. È stato
molto penoso per me arrivare in fondo a questo
racconto perché mi è sembrato rivivere tutto il
mio triste calvario, ma ho ritenuto doveroso e
utile far conoscere la verità su fatti che non
sempre la storia ricorda.
Mi auguro che specialmente i giovani, leggendo
queste mie righe, sentano la responsabilità di
vigilare ed impedire in ogni modo che certi errori
ed orrori siano più ripetuti.
È necessario ricordare e capire ciò che accadde
molti anni fa, affinché nessun popolo sia più
condannato a vivere una simile tragedia.
Frida Misul
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Magazine Culturale del Comune di Livorno
www.comune.livorno.it/_cn_online
Stampa: Centro Stampa del Comune di Livorno - Gennaio 2014
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Memorie di deportati livornesi: il diario di Frida Misul