ALI Info Inf orm Associazione Laureati Industrial Design c/o POLI.design via Durando 38/A 20158 Milano www.alidesign.net [email protected] 03 Ottobre 2002 Sommario L’Editoriale: Il desin è morto! Evviva il design Il Politecnico di Milano Un ponte tra università e lavoro nel mondo del design Un saluto: Grazie Augusto Le interviste: Giancarlo Iliprandi: “Design: L’ambizioso progetto di equlibrio tra forma, funzione e innovazione” Salvatore Gregorietti: “Cosa c’è di più piacevole e gratificante del superfluo?” Il design è morto! Evviva il design Pensieri semiseri sul mondo del progetto A tutti i nuovi lettori di InformALI un benvenuto, mi rivolgo a voi in quanto, finalmente, dopo un anno di pubblicazioni, siamo riusciti ad avere una diffusione ben più ampia rispetto al ristretto ambito milanese. Ma anche perché, a Milano stessa, abbiamo incrementato i nostri punti di distribuzione nella città credendo fermamente che sia ora che si parli veramente, nella città ma anche nel resto d’Italia, di design. Ma se ne parli in un modo che esuli dalla consueta cornice patinata delle riviste del settore e dalla ancora più effimera attenzione che si vede rivolta al nostro campo da parte dei periodici femminili (gli unici che al di fuori delle pubblicazioni per gli addetti ai lavori si occupano in qualche modo di design). Speriamo di risultare interessanti e di non essere colti come presuntuosi. Ma come persone che, laureatesi tempo fa, continuano a porsi domande e a cercare risposte del proprio essere e del proprio fare. Il numero che avete tra le mani è particolare per tutta una serie di motivi: il numero di pagine, doppio rispetto al progetto originale, rende in qualche modo ragione del ritardo con cui viene presentato al pubblico. Ma anche la carta è diversa, più adatta ad ospitare parole di personaggi ben più importati e conosciuti di noi. Il contenuto, soprattutto, è diverso: meno parole nostre e più parole di altri. Ogni tanto tacere serve tanto quanto parlare. I più curiosi ed impazienti tra voi avranno già visto una seconda copertina presente all’interno. Il numero è stato concepito inizialmente dal sottoscritto e dal responsabile del progetto grafico e, successivamente, è entrato nelle menti di tutto il gruppo. La domanda posta dal titolo è sintomatica ed è stata, per uno scherzo del destino, quanto mai sentita da tutti noi. Vuoi per l’insoddisfazione ed il bisogno di chiarezza che sentiamo profondo nel nostro vivere, sia per la scomparsa di uno dei personaggi più importanti della cultura italiana e del design più in particolare. Era anche nostro socio onorario: stiamo parlando di Augusto Morello. Troverete un nostro sentito ricordo all’interno della rivista, un piccolo ricordo per uno degli uomini che più ci hanno aiutato nel periodo della nostra formazione universitaria, regalandoci momenti indimenticabili. L’interrogativo però è pressante, e a fronte dei cambiamenti in atto, si fa imperativo. Si può definire morto il design? E se è morto è stato sostituito da qualcosa d’altro o lo deve ancora essere? Bene. Lo abbiamo chiesto ad una serie di personaggi afferenti alla cultura progettuale, ad imprenditori, a critici , a product e graphic designer, ma anche a chi di design non vive. L’interrogativo ha avuto risposte non univoche e tutte da indagare ed analizzare compiutamente e magari con un po’ più di freddezza che, al momento di stendere questo editoriale, non può essere nostra, vista la vicinanza temporale. Visto che il materiale raccolto esula dalla quantità di pagine a disposizione, la risposta, che ci aspettiamo assolutamente non definitiva, sarà rimandata di un numero o due a seconda degli sviluppi futuri e dei contatti che stiamo prendendo in questi giorni. Ma anche perchè ci aspettiamo di sollevare un po’ di interrogativi in molti di quelli che ci leggeranno. Magari anche di ricevere comunicazioni pesanti alle nostre provocazioni. Insomma la risposta nascerà dentro di voi se già non avete una opinione al riguardo. Il risultato di questo lavoro non si conclude certo con questo numero. Nel progetto iniziale l’editoriale doveva anche proporre messaggi positivi che affermassero la salute del design e del suo essere. Preparando il terreno per la controrisposta del controeditoriale, che si configurasse come “lato oscuro”, come negativo e pessimista. Ma la iniziale visione manichea, oggi così poco attuale ed attuabile, è stata sostituita da un più prudente, ma non meno scomodo atteggiamento di bilanciamento. Tuttavia, essendo anche una introduzione, ritengo importante richiamare i valori che hanno sorretto il design o la progettazione artistica per l’industria. Valori che parlano di miglioramento della qualità di vita attraverso l’estetizzazione della vita stessa e degli oggetti che compongono la nostra cultura materiale. Estetizzazione artisticizzante, a volte, ma anche tecnica e con una attenzione alla funzionalità e alla usabilità degli oggetti di impiego quotidiano. Valori di eticità della produzione, del miglioramento delle condizioni di chi produce e di chi vende, di chi acquista, in una sorta di utopia totalizzante in cui un oggetto è investito da tutta una serie di supervalenze o master-valenze. Ben oltre il puro utilizzo dell’artefatto o il puro fatto commerciale ed economico. Il design parla di arte e come tale è critico o lo è stato nei confronti dell’esistente. Adesso è ancora così? Quanto di questo superlavoro concettuale viene poi essenzialmente colto dall’utilizzatore finale? Quanto di questo sforzo viene a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato? Chi, in un contesto di commercializzazione dell’impossibilmente commerciabile, ancora opera in tal senso? Domande non banali, a cui ci sentiamo di trovare, ricercare e scovare una risposta fuggevole e da troppi evitata. Perchè, figlio della rivoluzione industriale e della risposta materiale ai bisogni personali, il design è legato a doppio filo con la crisi della cultura occidentale che ha fatto del materialismo il suo essere. Ne condivide perciò le sorti ed i cambiamenti come attore attivo e spettatore passivo, variabile tra le variabili di un sistema culturale oltre che complesso. Non è quindi peregrino chiedersi: il design è morto? Davide Hubert Perone pagina 2 - numero 03 - ottobre 2002 Politecnico di Milano Un ponte tra università e lavoro nel mondo del design Forse qualche lettore di ALIdesign ricorda la pagina centrale del numero di dicembre 2001, dedicata ai bandi aperti per la partecipazione a quattro Corsi di master universitari del Fondo Sociale Europeo e del Dipartimento InDACo (allora DITec). Forse qualche lettore ha partecipato alle selezioni per accedere agli stessi master, forse qualche altro è tra la rosa di prescelti che ora sta giungendo alla fine del percorso. Per questi e per tutti gli altri abbiamo pensato di tirare un po’ le somme di quest’esperienza, che promette di ripetersi ancora più ricca nel 2003 e abbiamo chiesto a Sabina Pangrazzi di farci luce sulle anticipazioni. I Master attivati nel 2002 Alcune parole di contorno per introdurre il contesto operativo. Alla fine dello scorso millennio il Fondo Sociale Europeo ha attivato un Programma atto a contribuire e ad accrescere l’occupabilità della popolazione in età lavorativa e la riqualificazione delle risorse umane e favorire i processi di ammodernamento e di innovazione dei sistemi di istruzione, formazione e lavoro, da realizzarsi nel periodo 2000-2006. Tra i diversi obiettivi che caratterizzano i cinque assi di intervento previsti dal progetto vi è quello di promuovere un’offerta adeguata di formazione superiore. Nell’ambito di questo progetto il Politecnico di Milano ha ottenuto e fatto rientrare ottenuto nel 2002, attraverso l’azione promotrice di diversi dipartimenti, il cofinanziamento del Fondo Sociale Europeo, della Regione Lombardia e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per l’attivazione di dodici corsi. Questi, in seguito all’emanazione di uno specifico regolamento di Ateneo inserito nel quadro della riforma universitaria, sono divenuti Corsi di Master Universitari del Politecnico di Milano. Il programma di cofinanziamento è un’occasione importante poiché offre l’opportunità ai destinatari dei corsi di accedere gratuitamente a attività formative che sul mercato vengono proposte a costi nell’ordine delle decine di migliaia di Euro. Inoltre tale programma è stato e presumibilmente sarà per i prossimi tre anni un’ulteriore incentivo per il Politecnico al completamento della propria offerta post-lauream, dando sfogo a progetti formativi già pensati e strutturati come naturale conseguenza delle numerose attività di studi e ricerche maturate in seno all’Ateneo ed in particolar modo all’interno della giovane Facoltà del Design. Nel 2002 sono state stipulate decine e decine di convenzioni con nuove aziende interessate ad ospitare tirocini degli studenti dei Corsi di Master (FSE e non), i dati degli interessati ai corsi sono stati inseriti in un database di potenziali candidati che supera le duecento unità, sono stati elaborati ben Il primo anno di esperienza è stato all’insegna soprattutto del Design di prodotto, con Corsi di Master su temi/prodotti “specifici” come quello in “Progettazione per la Nautica” (Dipartimento InDACo) e quello in “Transportation Design e Management” (InDACo) e altri su temi più “trasversali” rispetto alle tipologie di prodotti, come il Corso di Master in “Prototipazione digitale del Prodotto Industriale” (InDACo), “Sicurezza del Prodotto Industriale” (InDACo) e “Ergonomia” (Dipartimento BEST). L’attivazione dei corsi ha suscitato grande interesse sia da parte di aziende, enti e istituzioni che hanno appoggiato l’iniziativa con patrocini e/o dando la loro disponibilità ad accogliere tirocinanti, che da parte di dodici progetti di Corsi di Master che puntano ad ottenere il cofinanziamento FSE. Tra questi, oltre ai cinque dello scorso anno, ve ne sono altri in ambito di prodotto, ma anche di comunicazione, moda e design di interni. Ora è solo questione di attendere che il tempo dia merito del lavoro svolto. potenziali destinatari del corso. La rosa dei candidati (e dei selezionati) è stata molto ampia: dai “neolaureati” (studenti che avevano conseguito la laurea nelle due/tre sessioni precedenti), in buona parte raggiunti - per quanto riguarda i corsi del Dipartimento InDACo - attraverso l’Associazione Laureati del Politecnico, ai professionisti in cerca di aggiornamento o di una “riconversione” della loro attività lavorativa. Questi dati sono indicatori sintomatici di una necessità di colmare un gap tra l’iter di studi universitari e il mondo del lavoro, attraverso un’attività di formazione più mirata alle professioni e alle esigenze del mercato. Denotano inoltre una sentita esigenza di una formazione specifica e adeguata per affrontare l’attività professionale in maniere competitiva. Ciascuno dei Corsi di Master attivati prevedeva circa ottocento ore di attività, Nel frattempo chi volesse ricevere via posta elettronica i bandi dei Corsi di Master del Dipartimento InDACo nel momento in cui verranno aperte le iscrizioni, scriva a [email protected] (tel. 02-2399.5966), oppure contatti direttamente il Corso di Master di interesse all’indirizzo indicato nella seguente tabella. INDACO Milano Bio Design Alessandro Ubertazzi NDACO Milano comprendenti didattica di tipo frontale, esercitazioni progettuali e/o workshop e un tirocinio finale. L’attività didattica si è avvalsa di docenti universitari interni ed esterni al Politecnico e di numerosi professionisti, che hanno messo a disposizione la loro esperienza sia nell’impartire lezioni teoriche che nell’applicare i contenuti di tali lezioni in esercitazioni progettuali. Le esercitazioni hanno avuto anche il supporto dei laboratori del Dipartimento (come il Laboratorio Modelli e Media Digitali) e dei tecnici specializzati. Numerosi i contributi e le suggestioni esterne: partecipazione a convegni e seminari sui temi del corso, visite a musei tematici, a fiere specializzate e ad aziende impegnate nel settore di interesse. Solo per citare una delle numerose esperienze connesse ai Corsi di Master: il tema di una delle esercitazioni del master in “Progettazione per la Nautica” è [email protected] Design e management dei beni culturali Alberto Seassaro [email protected] INDACO Milano Design e tecnologie della luce Alberto Seassaro [email protected] INDACO Milano Design per l'industria degli apparecchi domestici Francesco Trabucco INDACO Milano Digital Prototyping Marco Gaiani [email protected] INDACO Milano Ergonomia Sebastiano Bagnara [email protected] INDACO Como Fashion Desing A.Dell'Acqua Bellavitis [email protected] INDACO Como Furniture Design A.Dell'Acqua Bellavitis [email protected] BEST Ideazione, progettazione e gestione creativadel nuovo habitat O.Tronconi e M. Pillan [email protected] INDACO Milano Movie Design: Marisa Galbiati [email protected] INDACO Milano Progettazione per la Nautica - II edizione Silvia Piardi [email protected] INDACO Milano Tecnico della sicurezza del Prodotto Industriale (Safety Design) Cesira Macchia [email protected] Milano [email protected] Spazio alle opinioni Sono inoltre presenti molti dei corsi dello scorso anno Laura, studentessa del master in “Prototipazione Digitale” […] per me, architetto interessato al design industriale, il Master in prototipazione rapida digitale ha rappresentato la possibilità di “scoprire” e fare mie conoscenze che non vengono normalmente fornite durante il corso di laurea e che mi consentono di affrontare l’attività professionale con strumenti adeguati alle nuove tecnologie che trovano sempre più diffusione. […] Silvia Piardi, direttore del master “Progettazione per la Nautica” e coordinatore dei Corsi di Master FSE del Dipartimento InDACo […] Una esperienza, anzi due. Ho diretto il Master in Progettazione per la nautica e ho coordinato con Sabina Pangrazzi tutti i Master del nostro Dipartimento. Un flusso di energia notevole, che ha consolidato e sviluppato alcuni centri di interesse scientifico e culturale, ha formato nuove faculty, mettendo in contatto docenti provenienti da diverse sedi universitarie e dalle professioni, ha costituito nuovi gruppi di masterizzati in grado di inserirsi con competenza sul mercato del lavoro. Il bilancio è assolutamente positivo, nonostante le notevolissime fatiche delle burocrazie […] Stefano, studente del master in “Progettazione per la Nautica” […] Le conoscenze acquisite durante l’attività didattica del corso di Master sono state fondamentali: l’esperienza di tirocinio mi ha permesso di applicarle praticamente, approfondirle e di trovare immediatamente lavoro presso la stessa azienda in cui ho svolto il tirocinio ancor prima di conseguire il titolo di master attraverso l’esame finale. […] Piero, studente del master in “Progettazione per la Nautica” […] È stato una specie di anno sabbatico per la mia attività di architetto, un modo di integrare le mie conoscenze teoriche per perfezionarmi nella pratica della progettazione nautica, ambito verso cui volevo orientare maggiormente la mia professionalità. Alessandro , studente del master in “Transportation Design e Management” […] man mano che il corso proseguiva iniziavo a cogliere il senso, le finalità di quelle esercitazioni che inizialmente mi avevano lasciato tanto perplesso. Il lavoro finale è stato davvero coinvolgente e mi ha dato grande soddisfazione a livello di risultato raggiunto. […] Dieci semplici considerazioni Aspettando il 2003 Il contesto Corsi di Master Universitari FSE della Facoltà del Design del Politecnico di Milano Sabina Pangrazzi stato la progettazione e la realizzazione di un prototipo a vela lungo un piede che partecipasse alla Ticinese Cup, regata di modelli sulla Darsena dei Navigli a Milano. Sono circa un centinaio gli studenti che ora stanno svolgendo l’attività di tirocinio presso aziende in tutta Italia. Nonostante l’attività di stage non sia ancora conclusa, già si vedono i primi risultati: ad alcuni tirocinanti sono già arrivate le prime proposte di assunzione e di prolungamento della collaborazione da parte delle aziende. La sensazione e le prospettive relative a questi Corsi di Master sono quindi molto buone, anche se si dovrà attenderne la conclusione per avere una cognizione più attendibile dei risultati in termini di efficacia della didattica, risultati dei candidati, tipologia e possibilità di sbocchi occupazionali. Flaviano Celaschi, direttore del Dipartimento InDACo della Facoltà del Design. L’eccezionale sviluppo che sta avendo la formazione di alto livello nel campo del design può essere generata da diverse situazioni in concorso tra loro: •ci sono molti laureati in architettura, ingegneria e altre discipline che quando si sono iscritti non avevano la possibilità di specializzarsi in design ed oggi non vogliono perdere l’occasione per qualificarsi in questo settore; •è un settore dove creatività, tecnologia, metodo e organizzazione registica si fondono, per cui ognuno può leggervi la propria vocazione senza difficoltà; •ci sono professioni nuove all’interno del vasto campo del design che richiamano nuovi profili o specialisti di nicchia. In tutti questi casi la formazione attraverso un master è e rimane un eccezionale opportunità di ingresso nel mondo del lavoro dalla porta principale, quella della formazione e della ricerca mirata. Il grande problema è costituito dalla ricerca dell’ente o dell’organizzazione affidabile a cui riferirsi. Penso che occorrano alcune scaltrezze: •scegliere chi fa formazione professionalmente (e non imprese che svolgono anche formazione, o enti appena nati per sfruttare qualche finanziamento, o soggetti improvvisati sul campo); •accertarsi che ci sia un tirocinio sostanzioso all’interno del master; •accertarsi che sia un master universitario capace di erogare crediti formativi convalidabili in tutta Europa; •evitare di pagare cifre fuori range (un buon master può costare intorno agli 8-12.000 euro, non di più); •accertarsi che il master sia l’occasione per svolgere anche attività di ricerca e di progetto e non solo lezioni frontali di tipo tradizionale; •che ci sia l’attrezzatura e la sede adeguata; •che sia possibile parlare con ex allievi che hanno frequentato master organizzati da quella struttura pagina 3 - numero 03 - ottobre 2002 Un saluto Per non dimenticare “l’uomo” dietro il “professore” Grazie Augusto Oggi, ritornato a casa dopo una giornata di lavoro iniziata presto, in attesa di consumare la meritata cena, sfoglio un quotidiano e mi imbatto in una notizia di quelle che colpiscono. Leggo, incredulo e, di momento in momento, sempre più dispiaciuto, vedo le foto, interpreto i commenti e le dichiarazioni più o meno di rito e riconosco, rammento, ricordo. Eh, sì, proprio lui, non ci sono dubbi: Augusto Morello è venuto a mancare. Ancora non riesco a dare la dimensione della cosa: nella mia mente si affollano, solo per cadere subitaneamente, le centinaia di idee e di progetti che covavo e che vedevano in lui un referente, una guida, un metro di paragone, anche solo ideale, beninteso, non millantiamo quello che non esiste, atteniamoci ai fatti. Ma è indubbio che la cosa mi turbi profondamente, per questo mi metto a scrivere, per dire la mia, certo, ma anche per dare visione di cosa sia stato per noi Augusto Morello. Augusto Morello. Archivio ADI Su altri commenti scritti o siti web troverete altre e ben diverse rimembranze. A me personalmente interessa ben altro. Senza appuntamento Ospitiamo con piacere il ricordo di uno dei collaboratori più stretti di Augusto Morello Caro professore, è strano questo nostro colloquio senza appuntamento, senza i faticosi rinvii imposti dai suoi incessanti impegni, nonostante i quali riusciva comunque a trovare il tempo da dedicarci per immaginare qualche progetto e verificare come il mondo delle possibilità fosse più ricco del mondo reale. Come l’ultimo progetto non realizzato a cui abbiamo lavorato, insieme ad altri collaboratori: “Terra 2”, per una possibile mostra alla Triennale, che doveva dimostrare come stesse finendo la prima vita del pianeta e se ne aprisse un’altra determinata sempre più dall’artificio dell’uomo che non dalla natura primordiale e della quale si potessero fare delle congetture sui possibili futuri. Mi piace immaginare che ora abbia scelto “Terra 2” come sua nuova dimora, un pianeta definito da una sola dimensione: quella del pensiero che lo ha pensato. Lo stesso pensiero che usava come unità di misura mettendolo a confronto con le altre misure, i pensieri degli altri, per avere uno strumento sempre più preciso per misurare il mondo e allargarne i limiti. E il rigore e la precisione con cui svolgeva questo compito, poteva a volte essere dagli altri interpretato come intransigenza per le persone di opinione avversa, ma era verso il pensiero degli altri che era intransigente, come lo era col suo, non verso la loro persona, perché il pensiero va contrastato, confutato, messo a dura prova per essere convincente, come il metodo scientifico richiede a un uomo di scienza. Per questo è riuscito a essere un desiger del pensiero, dove il pensiero del design era una delle sue applicazioni. Da lei ho cercato di imparare a essere metodicamente creativo e a disegnare nuove prospettive per guardare le cose, sperimentando il metodo attraverso una tesi di laurea che durò tre anni e che solo adesso è purtroppo finita, perché era il nostro pretesto per raccogliere, classificare e rielaborare la conoscenza. E da allora conservo nei suoi confronti la devozione del discepolo per il maestro, devozione che mi ha sempre impedito di darle del “tu”, come ripetutamente mi aveva chiesto e come un “antico studente” avrebbe potuto fare. Ma in questo ultimo saluto mi sforzerò di essere confidenziale, come lo erano effettivamente i nostri rapporti: “Ciao Augusto”, caro professore. Marco Migliari 6 settembre 2002 Proprio 8 anni fa, durante il primo anno del neonato e fragile Corso di Laurea in Disegno Industriale del Politecnico di Milano, lì risale il mio primo incontro con quello che, fin dall’inizio, mi fu chiaro essere un personaggio fuori dal comune. Portamento distinto, elegante, dalla voce tonante, sicura; “Sicuramente un uomo con del carattere pensai.” E le cose che poi venimmo a sapere sul suo conto confermavano la prima impressione. Il Suo curriculum è noto, meno noto o forse meno interessanti per i più, sono gli aspetti meno eclatanti del docente, professore, presidente. I suoi modi di fare, decisi, la sua presenza autoritaria, ma la contemporanea disponibilità massima a scommettere su chiunque ritenesse valido, la stessa disponibilità che lo rendeva prodigo di consigli per le menti di giovani designer in cerca di una identità. Chi ricorda lo stile delle lezioni che era solito tenere? Del suo modo di raccontare il design ed i macrosistemi economici con la semplicità con cui si potrebbe spiegare un algoritmo di addizione aritmetica? Chi ha avuto la fortuna di averlo come docente lo sa, lo può ricordare. Complessità ridotta a semplicità; visione globale ed efficacia locale. Certo sentirete molti studenti, addetti ai lavori e altri che lo definirebbero ingombrante, accentratore, e quant’altro (magari adesso taceranno, per pudore di fronte alla mancanza, anche se, a mio parere darebbero il segno dell’importanza di un personaggio, che, come si sa, non può andare a genio a tutti e nemmeno può mettere tutti d’accordo). Personalmente, invece mi piace ricordarlo per due motivi. Il primo è l’averlo conosciuto meglio grazie ad una delle manifestazioni sul design da lui organizzate e che, ancora oggi, rimane a mio parere ineguagliata: I dialoghi di Milano. Per me studente del primo anno del CdL in Disegno industriale è stata una occasione unica,una sorta di masterlezione sul design con intervenuti dai più disparati campi di afferenza. Un’occasione per conoscere il design secondo un aspetto più operativo, sicuramente, per guardare la futuro con ottimismo ma con realismo, imparando che si può fare del design una attività di crescita personale e ricerca della comprensione. Il secondo motivo è personale, Lo ricordo per una lezione, una delle ultime di quel primo anno memorabile. Una singola lezione che è unica nel suo genere: una lezione che mi ha fatto capire chi avevo di fronte. Arrivò in ritardo, di corsa come sempre, disceso da chissà quale aereo o, più semplicemente, sfuggito dagli impegni “altri” rispetto alle lezioni in università. Posò borsa portadocumenti e soprabito sulla cattedra, indi, con piglio deciso, iniziò a parlarci di Camillo Olivetti e della saga della famiglia e della azienda omonime. Una lezione a braccio, anzi, meglio, un racconto, attinto solo dai suoi ricordi personali, quelli vissuti in prima persona, gli stessi ricordi che, sul finire, gli ruppero la voce, gli inumidirono gli occhi, e ci mostrarono che, in fondo, anche lui era umano, di quell’umanità che crede nei sogni e che si dispera quando questi finiscono. Grazie Augusto, che le possibilità e le opportunità che tu ci hai insegnato a riconoscere nel progetto così come nella vita, non finiscano. Davide Hubert Perone In un periodo in cui il villaggio globale è la prospettiva futura, i dialetti si perdono per lasciare posto al bilinguismo lingua locale/inglese, ha ancora senso parlare di design italiano? Il villaggio globale più che una prospettiva futura pare essere una costrizione globalmente attuale. Capace di generare affermazioni tipiche quali “think local, act global” che, per via del suo intrinseco valore, potrebbe anche suonare “think global, act local” tanto funziona comunque. I dialetti, purtroppo messi in disparte, si perderanno per lasciare posto ad un bilinguismo (lingua locale/inglese) che durerà fintantoché la lingua locale non andrà assumendo l’aspetto di un qualsiasi dialetto, destinato a scomparire. Perché alla fine Mister Hyde ha il sopravvento sul nostro Dottor Jekyll. O sbaglio? Tutto ciò potrebbe verificarsi tra qualche mese, piuttosto che tra qualche secolo, se il design inteso come concetto (come concezione, come concepimento progettuale) potesse essere assimilato ad un qualsivoglia linguaggio codificabile e/o modificabile in quanto tale. Ma il design è soltanto un concetto? Poi quali sono, in ogni caso, le varianti contestuali oppure contestuanti che ci autorizzano a parlare di design italiano piuttosto che di design all’italiana? Design: l’ambizioso progetto di equilibrio tra forma, funzione, innovazione ratorio di comunicazione presso la facoltà del Design del Politecnico di Milano. In campo associativo è stato eletto quattro volte nel comitato direttivo dell’ADI servendo due volte come vice-presidente e quale presidente nel triennio 1999-2001. È stato inoltre presidente dell’Art Directors Club Milano, del Beda, Bureau of European Designers Associations, dell’Icograda, International Council of Graphic Design Associations e persino, pro tempore, della Fondazione ADI per il design italiano. Il suo impegno nella pubblicistica di settore ha prodotto quattro quaderni di linguaggio grafico, sei dispense di storia della comunicazione visiva, altrettante opere con autori vari, più quasi cinquecento tra articoli, commenti, presentazioni ed interventi a congressi e convegni, nonché editoriali su pubblicazioni delle quali è stato responsabile. Tutta questa sua opera dedicata al riconoscimento, alla valorizzazione, alla promozione della via italiana della progettazione grafica e del design, nella accezione più completa del termine, non hanno rallentato la affermazione dello studio professionale nel campo della comunicazione aziendale, della comunicazione editoriale e della comunicazione ambientale. Lo studio Iliprandi e la Iliprandi Associati hanno collaborato con la RAI, Montecatini, ENI, la ALIdesign: All’affermazione: “ Il design è morto”, Lei come risponderebbe? Propenderebbe per darlo per defunto e sostituito da qualcos’altro, la cui definizione sembra sfuggevole, o lo sente ancora vitale e con lo spirito che lo ha visto nascere circa 50 anni fa? Iliprandi: Il design è morto? Niente affatto. Ma si spera muoia presto l’abuso del termine. In quanto allo spirito che lo ha visto nascere, meglio che lo ha fatto nascere, presumo risalga ad almeno cinquecento anni fa (Magari sotto altro nome tipo “invenzione dei caratteri mobili” et cetera). ALIdesign: Per un momento allontaniamoci dai paludamenti, dalle formalità e dalle definizioni da biblioteca: Alla signora massaia che chiedesse spiegazioni, come definirebbe il “design”? Iliprandi: L’editrice Abitare Segesta ha pubblicato, anni fa, un esauriente libretto sull’argomento. Allontanandomi dalle formalità e dalle definizioni da biblioteca, come da vostro desiderio, qualora malauguratamente incappassi nel cosiddetto “uomo della strada” desideroso di capire, potrei solo ridicolmente tentare di arrampicarmi sugli specchi di un qualsivoglia funambolismo verbale. Purtroppo, per deformazione professionale, per me design rimane l’ambizioso progetto di equilibrio tra forma, funzione, innovazione. Però all’uomo della strada evitiamo l’ambizioso, il progetto, l’equilibrio. Ed a noi stessi risparmiamoci il dovere di essere banali. ALIdesign: Nell’epoca della multidisciplinarietà il modus operandi progettuale è stato condiviso con i settori più disparati, tanto che oggi tutto può essere considerato progettato, pensato estetizzato. Tuttavia, cosa, a Suo parere, non può essere detto “design” speranza? Iliprandi: Biocompatibile, ecocompatibile e termini similari sono spesso attribuzioni di comodo. La qualità è un dato di fatto più tangibile. La cultura del prodotto è una strada lunga e tortuosa. Al disopra di ogni compatibilità, sarebbe opportuno sapere a chi spetta, per competenza, il compito di coltivare tale cultura. ALIdesign: Al Salone Internazionale del Mobile di Milano ed in qualsiasi altra fiera dei prodotti di largo consumo si parla di design, le aziende si riempiono la bocca con tale parola, Cosa è prodotto di “design”, secondo Lei? Iliprandi: Posso tentare l’inverso. Talvolta non è prodotto di design ciò che è inutile, superfluo, volgare, ridondante, malfatto, sgradevole, scomodo, ingombrante, presuntuoso, supponente, arrogante, caduco, irriproducibile, inutilizzabile, antiestetico, offensivo, ripetitivo, ridisegnato, copiato, imitato e chissà quanto altro ancora. Tutto il resto può essere prodotto di design, qualche volta. ALIdesign: Cosa a sua avviso fa percepire ad un acquirente la qualità di un prodotto? Il livello tecnologico, l’inusualità della forma, l’impiego di un determinato materiale o la semplicità d’uso? Iliprandi: L’acquirente percepisce la qualità per istinto di sopravvivenza, per preparazione culturale, per esperienza acquisita, per informazioni recepite, per un atto d’amore. La semplicità d’uso è senza dubbio un fattore accattivante. ALIdesign: Dal lato della provocazione: Serve ancora lo sforzo progettuale nei confronti di alcune categorie merceologiche che hanno fatto la cosiddetta “Storia del Design”? Se sì non crede che sia solo per un vacuo e dannoso aspetto commerciale? Se no, non crede che sarebbe ora di dire no alle inutilità? Iliprandi: Servirebbe uno sforzo progettuale per modificare certi parametri che hanno fatto la cosiddetta “Storia del design”. Ma, a parte ogni più che doveroso aspetto commerciale, il rogo pubblico delle inutilità presenti non ci salverebbe dalle futilità future. Ogni società Rinascente, Standa, Grancasa, Fiat, Olivetti, Stanley, Pirelli, Honeywell, Ankerfarm, Roche, Arflex, Stilnovo, RB Rossana, Edisport, Electa, Popular Photography, Bompiani, per citare solo alcune delle imprese che sono state committenti. La quantità e varietà degli interventi si spiega con una sua naturale irrequietezza la quale unisce il bisogno di sperimentazione, e ricerca, alla insofferenza più totale nei rigaurdi dei condizionamenti e del compromesso. ha il design che si merita. Serie di 24 alfabeti per stampanti seriali della Honeywell ISI 1981/1984. Percezione e leggibilità sono i parametri che hanno portato alla progettazione di questi font condizionati dalle difficoltà tecniche peculiari del dot-matrix printing. L’innovazione consisteva nell’uscire dalla convenzione ripetitiva dei caratteri per macchine da scrivere per entrare nella più vasta area culturale del carattere di tradizione Iliprandi: Il fatto che una proposta, anche qualora demenziale, possa essere comunque esaltata purché proveniente da un progettista al culmine della propria notorietà, non pare possa essere giudicato positivo né per il progettista né per gli esaltatori. Per dirla in parole povere “una vaccata rimane una vaccata”, pure se proposta da un designer maturo (attenti che non la sia troppo) ed esaltata da esaltatori che potrebbero meglio definirsi leccapiedi, volendo restare nei limiti della decenza. Un buon progetto è frutto anche di attenta capacità critica o meglio autocritica. ALIdesign: Qual è a suo avviso la gratificazione maggiore che può ricevere un designer? Iliprandi: Incontrare uno sconosciuto che sta prendendo in considerazione un prodotto progettato da lui il quale, senza sapere di essere al cospetto del progettista, cerchi di convincerlo della bellezza formale, della utilità funzionale, della unicità innovativa di questo progetto. Facendogli riscoprire entusiasmi assopiti. ALIdesign: Cosa ne pensa della necessità di scoprire nuovi e antichi bisogni al fine di ridare l’identità agli oggetti che ci circondano? Iliprandi: Necessità indispensabile. ALIdesign: Il vasto settore della progettazione dei prodotti industriali ha raggiunto la cosiddetta “pace dei sensi”, riducendosi ad un continuo restyling? Iliprandi: Il superfluo, pure quando è adorabile. Stiamo affogando nel superfluo. Iliprandi: Questo sostengono gli osservatori pessimisti e gli operatori privi di idee. Se così fosse potremmo chiudere le Università invitando studenti e docenti ad un bagno purificatore sulle rive del Gange come predicato, a suo tempo, da un indiscusso personaggio. ALIdesign: Quando un designer maturo raggiunge il culmine della propria notorietà può permettersi di proporre qualsiasi cosa, anche la più demenziale, perché sa che sarà comunque esaltata. Crede che questa affermazione sia vera o dubita che un noto designer possa permettersi di sfruttare e giocare con la propria notorietà? ALIdesign: Pensa che la cultura del prodotto ecocompatibile sia seriamente presa in considerazione dalle aziende? Soprattutto, secondo Lei, quale tipo di azienda può permettersi una politica siffatta in termini finanziari e di risorse interne? La sfida può essere italiana o la frammentazione particellare delle nostre unità produttive non lascia molto spazio alla Foto di: Aldo Ballo Giancarlo Iliprandi è approdato alla comunicazione visiva seguendo un iter formativo abbastanza complesso. Dopo aver frequentato una scuola di lingue ed avere sostenuto la maturità scientifica si iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Milano. Giudicando quel piano di studi interessante sul piano scientifico ma totalmente carente su quello culturale entra all’Accademia di Brera che frequenta per otto anni diplomandosi in pittura e scenografia. In quel periodo è alla HBK di Berlino con una borsa di studio e per due volte a presentare l’arte italiana al Salzburg Seminar in American Studies. Apre uno studio di progettazione nel 1953 iniziando a collaborare con gli Architetti A e PG Castiglioni e con l’ufficio pubblicità della Rinascente. Nel 1961 è chiamato ad insegnare in un famoso corso per assistenti grafici della Società Umanitaria, nel 1962 entra nell’ADI, nel 1965 pubblica il primo dei suoi Quaderni di linguaggio grafico. Si chiarisce in quegli anni il retroterra di impegno culturale che farà da supporto all’attività professionale. Iliprandi, dopo l’Umanitaria, ha insegnato alla Scuola Superiore di Pubblicità, all’ISIA di Urbino (dove ha fatto parte per dieci anni del Comitato Scientifico Didattico) all’Istituto Europeo di Design ed è attualmente incaricato di un labo- Il villaggio globale Foto di: Guy Schockaert Discussioni, pareri e punti di vista sul design e la progettazione del nuovo millennio con personaggi del mondo professionale. Le interviste pagina 4 - numero 03 - ottobre 2002 tipografica. Cucina Isola RB Rossana 1969. Blocco centrale. Aspetto essenziale, pure se vagamente totemico. Funzionalità sperimentata. Propone un modo innovativo di cucinare e di concepire la cucina come centro aggregante del vivere la casa in maniera conviviale. Manifesto “Basta una pillola” 1967. Aspetto estetico riconducibile ad esperienze pop non ancora diffuse in Italia. Funzione informativa precisa accentuata dal gusto della provocazione. All’epoca la vendita degli anticoncezionali era vietata in Italia. Dimenticavo. Nessuna delle opere citata ha mai vinto un premio Foto di: Toni Nicolini pagina 5 - numero 03 - ottobre 2002 Discussioni, pareri e punti di vista sul design e la progettazione del nuovo millennio con personaggi del mondo professionale. Le interviste pagina 6 - numero 03 - ottobre 2002 Salvatore Gregorietti Diplomato alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, vive e lavora a Miano. Dai primi anni ‘60 fino al 1990 è stato socio dello Studio Unimark International con Massimo Vignelli e Bob Noorda. Nel 1990 apre lo studio Gregorietti Associati. Opera nel campo della grafica in relazione a progettii di immagine coordinata, packaging, comunicazioni istituzionali e commerciali per industrie e enti, e nel campo del design per complementi di arredo, ristrutturazioni e stands. Tra i clienti più importanti : Ercole Marelli; Gilardini e Comind, (FIAT componenti); Gruppo Merloni Ariston, elettrodomestici; Farmacotone, farmaceutici; SNIA BPD e consociate, (SNIA FIBRE, TECNOPOLIMERI, NOVACETA). Per quindici anni ha collaborato con i soci dello Studio Unimark al programma di immagine totale dell’AGIP e del gruppo ENI, design di prodotto e packaging per: ATKINSONS, profumi e cosmetici; packaging per: MOTTA; design totale del packaging per: FARMITALIA CARLO ERBA; attuale logotipo e marchi di prodotto per: PIRELLI, pneumatici; grafica commerciale e design di prodotto per: VALENTI, lampade; Sirrah, lampade; STATUS, lampade. Ha curato l’immagine di industrie nel campo dell’arredo come Cassina, Il design è: Il design è la disciplina che deve dare forma ad un concetto. Fino a non molto tempo fa si sarebbe detto: forma ad una funzione. Credo che ormai nel concetto che sta alla base della genesi di un prodotto, alla funzione si siano accostati parecchi altri vocaboli. Poetica, tecnologia, sensorialità, comunicazione, citazione, mercato e altro sono aspetti presenti e spesso sorprendenti. Le priorità, nella sequenza di questi vocaboli, dipendono dalla cultura progettuale del richieste più o meno fasulle del mercato. È sempre, comunque, un’arma a doppio taglio. C’è, nel mercato, una buona dose di cinismo e impietosità che non guarda in faccia nessuno. designer e dalla sensibilità del committente. Con la fine dell’International Style e l’avvento delle “tendenze”, la frammentazione stilistica dei prodotti ha reso sempre più difficile definire il design con una frase lapidaria conclusa. Anche se ci ho provato, sento che manca qualcosa. Per esempio, una chiave per una lettura critica che aiuti a distinguere tra la genericità prodotta dal facile uso delle nuove tecnologie e una solida cultura di progetto. L’inflazione dell’uso della parola design porta il grande pubblico di consumatori a definire così tutto ciò che non è “in stile”. Il risultato perverso è la nascita di un “stile design” come lo “stile Biedermeier” o lo “stile Chippendale”. Forse, l’unica cosa di cui bisognerebbe essere tutti consapevoli è che il design non è uno stile. Gregorietti: “Cosa c'è di più piacevole e gratificante del superfluo?” ALIdesign: Qual’è a suo avviso la gratificazione maggiore che può ricevere un designer? Gregorietti: Guadagnare una quantità abnorme di denaro. Potrebbe sembrare un’affermazione violentemente prosaica, ma, è evidente, che non c’è guadagno se un progetto non raggiunge alti livelli di diffusione e quindi di accettazione da parte del pubblico e quindi di notorietà. Posso fare un esempio personale che però contraddice la prima affermazione. Mi è capitato, lavorando per il gruppo Motta negli anni ‘70, di disegnare il contenitore della “Coppa del nonno”. Nella sua semplicità, questo progetto ha richiesto la soluzione di problemi non indifferenti legati alla produzione altamente industrializzata, all’economicità e all’ergonomia dell’oggetto. Praticamente nessuno sa chi è l’autore del progetto e il mio guadagno si è perso nei meandri di una generica consulenza. Nonostante questo credo di non essere mai stato così fiero di un progetto che, tranne qualche lieve aggiustaggio, è rimasto immutato nel tempo e che ha raggiunto dei numeri di produzione che faccio molta fatica a ipotizzare. Tecno, De Padova, Molteni, Alias, Schiffini. Dalla metà degli anni ‘60 per dieci anni è stato consulente per l’immagine dei grandi magazzini La Rinascente ottenendo per tre anni consecutivi premi dell’Art Directors Club. Da 22 anni è responsabile della grafica e della comunicazione pubblicitaria del gruppo PRENATAL. Dal 1989 é consulente di UNITED COLORS OF BENETTON di cui ha curato l’immagine grafica: pubblicità, cataloghi, bilanci ecc. e la progettazione delle grandi mostre della comunicazione Benetton nel mondo. È attualmente coordinatore dell’ufficio grafico con sede a FABRICA, centro di ricerca sulla comunicazione. Nel campo dell’editoria ha collaborato con Sansoni, Emme Edizioni, Milano Libri Edizioni. Per cinque anni art director del gruppo Bompiani-Sonzogno-Etas Libri. Per sei anni art director della Feltrinelli Editore, di cui ha rifatto ex novo l’immagine editoriale. Nel campo dei periodoci ha impostato la grafica delle riviste: Linus, Corto Maltese, Capital, AutoCapital. Dal 1973 al 1992 è stato art director della rivista Casa Vogue e dal 1969 al 1988 della rivista Ottagono per la quale ha ottenuto il premio “Compasso d’oro” nel 1979. Ha curato l’immagine coor- ALIdesign: In un periodo in cui il villaggio globale è la prospettiva futura, i dialetti si perdono per lasciare il posto al bilinguismo lingua locale/inglese, ha ancora senso parlare di design italiano? Gregorietti: Prima di dire che il villaggio globale è la prospettiva futura credo che bisognerebbe capire bene quale villaggio. Il Global Village degli anni ‘70, basato sul colonialismo di una cultura ritenuta egemone, ha mostrato velocemente tutti i suoi punti deboli. Modelli e stili, che in passato vivevano nell’affascinante lontananza dell’esotismo e dell’etnologia, oggi si affollano in una contemporaneità dominata dai mezzi di comunicazione. E i “pezzi” celebrati come archetipi di design universale, riempiono le stanze dei musei e le vetrine dei collezionisti. Il villaggio globale che ci si presenta adesso è più identificabile in un supermarket globale dove il bilinguismo ha una funzione più pratica che ideologica. Se il muro di Berlino ha trascinato nel suo crollo il concetto di ideologia ha anche acuito fondamentalismi e particolarismi. Quindi credo che non si possa affermare che il design italiano sia scomparso a causa della “globalizzazione”, perché, probabilmente, non è mai esistito. Penso che il design sia più un fatto individuale che nazionale. Certo, nella cultura di ogni designer c’è una parte legata al paese d’origine, ma stiamo parlando di design e non di artigianato e i designer dovrebbero essere, almeno idealmente, cittadini del mondo, liberi di attingere da culture diverse e di proporre un proprio percorso formale e di contenuti slegato da qualsiasi nazionalismo. Se ci sono stati periodi in cui alcuni designer italiani si sono particolarmente affermati, questo fa parte del gioco dei flussi e riflussi. ALIdesign: All’affermazione: “Il design è morto”, lei come risponderebbe? Propenderebbe per darlo per defunto e sostituito da qualcos’altro, la cui definizione sembra sfuggevole, o lo sente ancora vitale e con lo spirito che lo ha visto nascere circa 50 anni fa? Gregorietti: Se ci si riappropria del significato della parola design come disciplina progettuale e non come esercizio di stile, credo che sia tutt’altro che morto. La progettazione, negli ultimi decenni, ha usufruito di una evolzione delle tecnologie impressionante. Sia negli strumenti in mano al designer, sia nei materiali e nei processi produttivi. Questa evoluzione ha generato, sicuramente, nuovi stimoli e ALIdesign: Cosa ne pensa della necessità di scoprire nuovi e antichi bisogni al fine di ridare l’identità agli oggetti che ci circondano? Gregorietti: L’identità di un oggetto è un tema molto dibattuto e controverso. Quando si può dire che un oggetto possiede un’identità? Quando comunica esplicitamente la sua funzione? Quando le sue qualità formali dichiarano la sua appartenenza ad una certa tendenza progettuale? Quando i colori e i materiali gratificano la sensorialità del consumatore? Anche in questo caso non credo sia possibile arrivare ad una definizione che accontenti tutti. E neanche penso che l’identità di un oggetto possa essere legata al fatto che esso personalizzi nuovi o antichi bisogni. I nuovi bisogni vengono generati da chi gestisce da una parte i trend della moda e dall’altra l’evoluzione tecnologica. Spesso gli oggetti che rappresentano i nuovi bisogni hanno un’identità indefinibile perché sono oggetti senza storia e la loro identità se la creano sul campo. Gli antichi bisogni, come dice la parola stessa, sono antichi e quindi noti. Gli oggetti appartenenti a questo mondo più che scoperti possono essere rivisitati, forse non tanto per ritrovarne l’identità quanto per costruirne una nuova legata all’uso di nuove tecnologie o poetiche progettuali che consentano il loro inserimento nella contemporaneità. E che dire dei non bisogni? dinata per: Istituto Bancario Sanpaolo di Torino, Banca di Trento e Bolzano, Banca del Monte di Bologna, Confindustria, Abeille Assicurazioni e l’immagine della Biennale di Venezia negli anni dal ‘68 al ‘72 e dell’ENTE BIENNALE DI VENEZIA nel ‘73/’74. Dal 1980 al 1986 è statodocente di progettazione grafica all’Accademia di Belle Arti di Carrara e ha tenuto corsi di progettazione all’Istituto Europeo di Design. Ha pubblicato presso la casa editrice Feltrinelli il libro “La forma della scrittura”. anche un diverso approccio al progetto. Il problema più evidente, soprattutto per le nuove generazioni, è la difficoltà nel gestire correttamente le nuove tecnologie ed evitare di essere, da queste, gestiti. Nello spirito che anima un nuovo progetto dovrebbe esserci anche la sfida per non consentire, alla macchina, di condizionare o di interrompere il flusso cervello-mano. Da un certo punto di vista, per affrontare in modo corretto la violenza delle novità, credo che si debba agire con un atteggiamento neopioneristico: curiosità e attenta e consapevole indagine. ALIdesign: Quando un designer maturo raggiunge il culmine della propria notorietà può permettersi di proporre qualsiasi cosa, anche la più demenziale, perchè sa che sarà comunque esaltata. Crede che questa affermazione sia vera o dubita che un noto designer possa permettersi di sfruttare e giocare con la propria notorietà? Gregorietti: Non c’è dubbio che il successo possa produrre effetti perversi su chiunque, non solo nel campo del design. Credo, però, che ci sia, alla base, un problema di attitudine, di comportamento che appartiene alla sfera caratteriale del designer. Se il percorso professionale di un progettista ha, come una delle componenti, la provocazione, l’ironia, la sfida, è piuttosto facile che, una volta arrivati al successo, ci sia la voglia di verificare quale sia il punto di rottura della propria credibilità. Questo può avvenire coscientemente o per un abbrivio, difficilmente controllabile, generato da ALIdesign: Pensa che la cultura del prodotto ecocompatibile sia seriamente presa in considerazione dalle aziende? Sprattutto, secondo lei, quale tipo di azienda può permettersi una politica siffatta in termini finanziari e di risorse interne? La sfida può esere italiana o la frammentazione particellare delle nostre unità produttive non lascia molto spazio alla speranza? Gregorietti: Questo è un campo intensamente minato. Penso che per diventare veramente e seriamente ecocompatibili dovremmo interrompere all’istante qualsiasi tipo di produzione e ricominciare tutto da zero o quasi. È ovvio che questo non è possibile. Allora tutto quello si può fare e cercare di limitare i danni. E anche questo è estremamente problematico. Ancora oggi, nonostante la ricerca abbia fatto qualche passo, nel momento in cui si pensa di produrre con materiali la cui origine o il cui smaltimento non sia aggressivo per l’ambiente, non sempre si ottengono risultati accettabili e i costi lievitano in modo impressionante. Problema vero? Falso problema gestito dalle lobby dei materiali tradizionali? Forse la causa è il ritardo cosmico con cui questo tema è stato affrontato. So, anche per esperienza diretta, che molte aziende, nei settori più disparati, hanno fatto e stanno facendo esperimenti. Poco su prodotti leader, di più su prodotti a piccola diffusione. La logica dell’economia di mercato è sempre vincente e limitare i rischi è un must per tutti. Per non parlare dello sfruttamento, a livello comunicazione, del concetto di ecocompatibilità su prodotti che, in quel senso, sono delle vere bufale. Al di là della frammentazione produttiva, non credo che la sfida possa essere solo italiana. Dovrebbe essere mondiale o, quanto meno, europea. Non ho grandi speranze. ALIdesign: Dal lato della provocazione: serve ancora lo sforzo progettuale nei confronti di alcune categorie merceologiche che hanno fatto la cosiddetta “Storia del Design”? Se sì, non crede che sia solo per un vacuo e dannoso aspetto commerciale? Se no, non crede che sarebbe ora di dire no alle inutilità? Gregorietti: Se pensiamo all’evoluzione che c’è stata, in relativamente poco tempo, dall’abat-jour ai led luminosi e quanto questo tipo di evoluzione possa influenzare l’approccio progettuale e quindi il risultato finale, credo che non esista oggetto per il quale non ci sia la possibilità di una rivisitazione tecnico-formale. Ovviamente non è solo la tecnologia a provocare nuovi stimoli. Gli stili di vita, il costume, le mode e le tendenze si modificano rapidamente e la tirannia progettuale legata all’oggetto-funzione ha sempre meno senso. L’aspetto commerciale è vacuo e dannoso solo quando diventa l’unica e forzata spinta ai cambiamenti. Credo, tuttavia, che se non ci fosse anche l’aspetto commerciale, il mestiere del designer, perderebbe completamente senso. Per chi e per cosa dovremmo progettare? Per mettere le nostre operine in un museo o in una galleria d’arte? Per quanto riguarda le inutilità, dal lato della provocazione mi chiedo: cosa c’è di più piacevole e gratificante del superfluo? Salvatore Gregorietti pagina 7 - numero 03 - ottobre 2002 pagina 8 - numero 03 - ottobre 2002 Questa volta pubblichiamo quella di: Alberto Cei Pubblicazione periodica rientrante nello scopo dell’Associazione Diretta da Davide Hubert Perone Di volta in volta le migliori lattine pervenuteci Progetto grafico e impaginazione Alberto Cei Hanno collaborato a questo numero: Davide Hubert Perone Interventi di: Salvatore Gregorietti Giancarlo Iliprandi Sabina Pangrazi Ringraziamenti: Dario Moretti Touring Club Italiano Stampa SIE spa Via Missioni Africane, 17 38100 Trento (TN) ...Immaginate un luogo dove poter parlare di design, dove potersi confrontare con altri colleghi della stessa nazione ma distanti geograficamente, dove poter condividere esperienze, ma anche poter trovare risposte ai quesiti che senz'altro affollano la vostra mente di creativi. Un luogo dove sia possibile confrontarsi con chi di design vive ma anche con chi non necessariamente si trova a progettarlo, ma lo sente proprio. Un luogo dove poter costruire una associazione pi˘ solida che pesi di pi˘ e possa venire incontro alle vostre esigenze pi˘ pratiche offrendovi un servizio pi˘ consono... Un momento di riflessione, per andare avanti meglio e pi˘ coscienti di cosa sia veramente il design in Italia ALIdesign sta cercando di organizzare un evento unico in collaborazione con altri enti associativi. Sta cercando di valutare la realizzazione di questa opportunit‡ e cerca in voi spunti, idee, desideri. Essendo ancora tutto da definire vorremo offrirvi l'opportunit‡ di avere una occasione che risponda alle vostre necessit‡ e che nasca da esse. Che sia da punto di partenza per nuove forme di rappresentanza che offrano servizi adeguati. Siete pronti a raccogliere la sfida? Il nuovo nasce solo con voi. Per ulteriori informazioni: www.alidesign.net [email protected] Associazione dei Laureati in Industrial design 1€ ALI Info Inf orm Associazione Laureati Industrial Design c/o POLI.design via Durando 38/A 20158 Milano www.alidesign.net [email protected] 03 Ottobre 2002 Sommario L’Editoriale: Il design è morto? Se è vivo non è certo in buona salute Le interviste: Francesco Filippi: “Il design è come la teoria delle superfici minime” Luca Gafforio: “Parecchio design è molto meglio regalarlo che possederlo” Bob Noorda. Il fondatore della Corporate Identity in Italia Silvano Coletti: “L’economia al servizio dell’ambiente” Anty Pansera: “Il design è una cosa troppo seria per lasciarla ai designer” Il design è morto? Se è vivo non è certo in buona salute Pensieri pessimisti sul mondo del progetto. Controeditoriale. Parola che suona un po’ scomoda: perché fa da contrappunto all’editoriale della prima copertina e anche perchè è contro. Contro che cosa? La risposta è ovvia dopo aver letto parte delle interviste e delle introduzioni alle stesse. Ho io il compito di introdurvi a quella che inizialmente era pensata come la faccia oscura del giornale, che raccoglieva gli interventi di coloro che dicevano senza tema alcuna: “Il design è morto”. In realtà nessuno si è espresso con chiarezza in tale punto,ma l’idea di contrappuntare è rimasta. Bene, iniziamo senza indugio e caliamoci nel vortice. Consideriamo per un momento il mondo della produzione di oggetti. Quanti di questi vengono prodotti come cloni, riedizioni forzate e forzose di archetipi già esistenti? Quante energie mentali, fisiche, psichiche e quante risorse ambientali vengono sprecate in questo tentativo di innovare per rapporti incrementali minimi? La struttura produttiva e progettuale è oggigiorno talmente aderente alle innovazioni tecnologiche che queste, appena si profilano, escono dal campo della ricerca applicata e vengono commercializzate, vengono assorbite in modo istantaneo dal comparto produttivo affamato di novità e di spunti di differenziazione. Da un lato ciò porta ad una introduzione reale e veloce delle innovazioni tecnologiche (quando queste vengono viste come tali ed implementabili perché vediamo decine di innovazioni tecnologiche assolutamente rivoluzionarie tenute ai margini della coscienza progettuale e produttiva), ma porta altresì ad avere un effetto collaterale. L’introduzione è così rapida che se ne perde il controllo. Non si capisce più cosa sia lecito o meno fare. Il gioco del progetto è oggi quello di rendere fattibile ciò che ieri era infattibile dal solo punto di vista della liceità etica. Un parallelo illuminante viene dal mondo della pubblicità: rammento un episodio che sentii tempo fa. Negli anni ‘60, prima era della televisione italiana, uno dei programmi più seguiti, trasmise una coreografia del corpo di ballo femminile in cui le calze delle danzatrici erano “color carne”. All’indomani ci fu una polemica infuocata, negli organismi di controllo della televisione pubblica, per il semplice fatto che, visto in bianco e nero, il balletto era sembrato ai telespettatori eseguito da ballerine con le gambe scoperte. Evito di rammentarvi come siano oggi le figure femminili proposte anche solo dagli spot televisivi. Bene consideriamo solo per un momento cosa sia stato definito “di design” negli ultimi anni. Io rammento volentieri il caso di Alessi, tanto per non fare nomi. Intere famiglie di prodotti venduti come gadget, come l’inutile del superfluo. Con tutto il rispetto che posso avere per le scelte commerciali di una azienda leader nel settore della lavorazione dell’acciaio, penso che definire design certe cose, sia del tutto fuorviante. Design oggi deve tornare a significare la punta ultima della cultura materiale, innovazione tecnologica estrema, ma soprat- tutto eticità e rappresentazione dei più alti valori della nostra cultura materiale e non. Quello che viene fatto con altri intenti non dovrebbe essere considerato tale. Altrimenti ha ragione Gafforio quando dice che parecchio design è meglio regalarlo che riceverlo. Con buona pace di chi disegnò per migliorare la vita di tutti. La responsabilità della produzione deve essere ripresa e accettata anche da chi prende decisioni progettuali definitive. Uno dei nostri maggiori critici del design che abbiamo intervistato, evita, ma non certo per mancanza di competenza, di toccare l’argomento e alla domanda precisa: “Serve ancora progettare…”, utilizza, emblematicamente, una sintassi futura e condizionale. Segno che molto di ciò che viene realizzato oggi ha il senso della inutilità totale, del gioco poco istruttivo. Il sistema non ha più, come motore, la ricerca, ma il sistema stesso. La mortale autoreferenzialità: la nemesi delle strutture di pensiero più evolute è qui e presente. Prova ne è che lo scontento è strisciante e la produzione è oggi vista come ineluttabilmente necessaria: una risposta data come migliore di altre. Ma lo è veramente? L’atmosfera è quella della calma prima della tempesta in cui i passanti non osano alzare gli occhi al cielo per non avere conferma di quello che sentono arrivare con i tuoni lontani. Il design sempre definito anarchico è oggi puro strumento del sistema che ha creato e ne perpetra gli schemi perversi in modo acritico, povero di soluzioni e di soddisfazioni. Oggi, di fatto è anarchico solo di nome e l’unico effetto destabilizzante che può avere è quello di far esplodere, per la troppa autoreferenzialità, il suo substrato di supporto. Ed è sufficiente parlare con gli espositori al tanto decantato Salone Internazionale del Mobile di Milano per accorgersene. Non fermatevi alle riviste di settore o, peggio ancora, alle comunicazioni ufficiale delle imprese: andate a parlare con chi il design lo vende e lo compra (o dovrebbe farlo). Con gli agenti, e gli stessi imprenditori che, a telecamere spente, vi diranno cose di tutt’altra risma. Il design, quindi, oggi ha perso, a mio giudizio, tutta la possibilità che aveva in passato, di dare segnali positivi. Questo perché il miglioramento della qualità della vita oggi si ha agendo su fattori a tale macroscala che il singolo prodottino, pur intelligente ,ben fatto ed innovativo, non riesce a raggiungere. Oggi le esigenze vere ed ultime della gente sono altre. Basta, quindi, allo spettacolo, al mondo “falsamente” dorato, all’autoreferenzialità: il design è oggi di fronte alla propria distruzione e non fa nulla se non quella di compiacersi di come è ed è stato. Dimenticando soprattutto, come indicano alcune interviste, che ciò che è stato, è stato per sentimento della crisi e dell’etica. Il design senza etica e senza principi morali è strumento del marketing e quindi della falsità ideologica della società dei consumi. Il design è morto? Davide Hubert Perone Paragonerei il design alla teoria delle superfici minime. Immergete una forma geometrica come un anello o un cubo formato solo da lati, in un vaschetta piena di acqua saponata. Quello che ne uscirà sarà un anello con una superficie piana e un telaio cubico tra i lati del quale si saranno formati dei veli intrecciati di acqua saponata che hanno la proprietà di avere superfici minime rispetto a tutte quelle possibili, in modo che l’energia che le forma e le mantiene sia quella minima. Francesco Filippi Francesco Filippi nasce a Milano nel 1956 dove vive e lavora. Fondatore della KREO srl progetta e produce dal 1993, con il marchio ONIRIS, oggetti che ama definire di “design emozionale” grazie alla forte carica emotiva che tali progetti suscitano nel pubblico. Ingegnere meccanico, Master in Business Administration, scultore, progettista e designer è da sempre attratto da progetti contaminati da processi di comunicazione differenti come cinema, pubblicità, moda, arte e design. Oggetti sperimentali, contaminati, che ben rispondono allo stato di continua trasformazione e mutazione delle cose e degli eventi. Nella sua carriera consegue un grande numero di premi di design e riconoscimenti, essendo i suoi progetti esposti in vari musei e gallerie di arte moderna nel mondo. Nasce così nel 1988 EOS il primo mobile rotondo mobile nel mondo del design, che rappresenta l’universo e la terra insieme ai suoi elementi: il cielo e il mare. Nel 1991 viene progettata e prodotta la forbice rotonda CUTFISH per destri e per mancini presente al “Design Museum of London”, al “Museo delle Lame” a Solingen e in altri musei di design e di arte moderna nel mondo, nota per la particolarità della sua forma e del suo packaging irriverente. Seguono: MARECAPOVOLTO (1991) divano meccanico a forma di onda che riproduce i movimenti del mare; WINBUSTER (1992) ventilatore rotondo mobile; GIROGIROTONDO (1992) gioco di grandi dimensioni per parchi in polipropilene per bambini; BOLLICINA (1994) sapone galleggiante; PESCI (1995) coltello a lama retrattile; PROVO A VOLARE (1996) taglia uovo a forma di uccellino; SPECCHIO DI BIANCANEVE (2000) specchio olografico a due lati con l’ologramma di un viso di una giovane donna; SKYCUBES (2001) piccola scultura cubica scomponibile in legno. Alla base del suo lavoro emerge prepotentemente l’invenzione come motore primario dei suoi oggetti sia di design che d’arte. Affascinato dal movimento, in quanto anima delle cose, è naturalmente portato a progettare oggetti e sculture mobili che incantano l’osservatore, sottolineandone la presenza di vita. Nel 2002 apre i siti www.oniris.it (design) e www.francescofilippi.it (arte). È pubblicato sui libri di design: “50 PPROGETTI”, “50 LETTI”; e su molti magazine di design e tecnologie dei materiali come: DOMUS, MODO, OTTAGONO, INTERNI, L’ARCA, AREA, ABITARE, XOFFICE, DDN, GB PROGETTI, CASA VOGUE, PROGETTARE, MATERIE PLASTICHE, ACCIAIO INOSSIDABILE, GAP CASA, FASCICOLO. Discussioni, pareri e punti di vista sul design e la progettazione del nuovo millennio con personaggi del mondo professionale. Le interviste pagina 10 - numero 03 - ottobre 2002 Il design è: tale affermazione abbia o abbia avuto dei riscontri plausibili nella realtà commerciale, o dubita che un noto designer possa permettersi di sfruttare e giocare con la propria notorietà? Questo dovrebbe essere il design: un equilibrio di forme e di contenuti che esiste come inconscio collettivo nell’aria che respiriamo, che si adatta alle esigenze che di volta in volta esprimiamo e che solo pochi riescono a tradurre in oggetti assoluti. A questo non dobbiamo aggiungere niente. Il resto sono solo errori compiuti da noi: troppe righe, troppe ombre, pochi simboli, materiali sbagliati, un segno troppo artistico o troppo tecnico, scolpi- ture eccessive, volumi non equilibrati o problemi di costi. Siamo alla fine noi che, fruendo dell’oggetto con le nostre isterie e i nostri dubbi, conduciamo la produzione di prodotti che forse non andranno bene a tutti. Siamo ancora noi che adoriamo artisti famosi anche quando fanno qualcosa di mal riuscito o forse non ce ne accorgiamo perché affetti da Sindrome di Stendhal. Ma questo è normale perdonare una persona geniale anche se qualche volta sbaglia. Filippi: “Il design è come la teoria delle superfici minime” Filippi: Non si possono fare sempre opere d’arte. Bisognerebbe avere il coraggio di buttare via le cose venute male. A volte non si può per ragioni di tempo, a volte dipende dai costi. Può non essere colpa del progettista che un prodotto esca male. È certo più difficile criticare un designer bravo per i successi acquisiti quando questo sbaglia. Siamo noi che decretiamo il successo di un prodotto con la nostra capacità critica. Ma siamo sicuri che non è influenzata dalla pubblicità? E poi siamo tutti diversi con possibilità economiche e gusti diversi. È anche vero che sono i prodotti che creano tendenza. A forza di vedere oggetti normali può essere difficile accettare un prodotto molto designizzato ma è anche vero il contrario. Vivremmo oggi in una casa dell’800 o guideremmo un macchina di inizio secolo? ALIdesign: Pensa che la cultura del prodotto ecocompatibile sia seriamente presa in considerazione dalle aziende? Soprattutto , secondo Lei, quale tipo di azienda potrebbe permettersi una politica siffatta? Filippi: Anche qui dipende dal prodotto e da quello che deve fare. Sollecitazioni e prestazioni particolari, come la scelta dei materiali impediscono al prodotto di essere ecocompatibile. Quante industrie si possono permettere di progettare un’auto riciclabile? ALIdesign: La qualità percepita di un prodotto industriale, da parte del possibile acquirente, in quale aspetto è oggi riscontrabile? Nel livello tecnologico, nell’inususalità dell’impiego del materiale o, invece, nella semplicità d’uso? Filippi: La qualità del prodotto è riscontrabile a diversi livelli percettivi. Inizialmente da come è disegnato e da quanto costa ma subito dopo deve essere confortato dai materiali usati, dalla semplicità d’uso e dalla durata. ALIdesign: Secondo Lei: serve ancora sforzarsi a progettare alcuni oggetti che hanno fatto la cosiddetta storia del design? Se sì non crede che sia solo per un vacuo e dannoso aspetto commerciale? Filippi: Spero che chi fa questo sia spinto dalla voglia di non perdere negli anni oggetti splendidi che servono ancora e che meglio non si potrebbero ideare. C’è però che sa fare solo questo e lo fa bene. In più le generazioni cambiano e non tutti si accorgono che quell’oggetto è degli anni cinquanta rivisitato. Ma questo vale in tutti i campi anche nel cinema. Rifare il film “Mission Impossible” vent’anni dopo ha tutto un altro sapore con le tecnologie di effetti speciali di oggi. Ma cosa uscirebbe se si volesse rifare “2002 Odissea nello Spazio”? Non tutto è rifacibile. Alcune cose nascono assolute. ALIdesign: Secondo Lei: il designer come lo si è sempre inteso serve ancora a qualcosa oggi? Filippi: Il designer dovrebbe essere un condensato di equilibrio delle forme, di conoscenze tecniche e di marketing per potere rispondere in modo flessibile alle richieste di un mercato sempre più esigente. ALIdesign: Dopo aver letto queste domande senz’altro avrà in testa molte idee? Che progetto da Lei realizzato accosterebbe per associazione mentale? Filippi: Non mi vengono in mente progetti già fatti ma progetti nuovi. Quelli già fatti hanno un sacco di errori. Comunque penso sempre al mio primo oggetto: la forbice rotonda per destri e per mancini CUTFISH che nel tempo vedo ha mantenuto valori assoluti di equilibrio delle forme e inventiva, destando sempre molto stupore in chi la vede per la prima volta. ALIdesign: Asserire con estrema certezza che il design italiano attuale possa essere relegato in due ben distinte correnti di pensiero: cioè di coloro i quali sono favorevoli e di coloro i quali sono contrari alla sua essenza non è cosa facile, ma lei da quale parte si schiererebbe? Presume che il design d’oggi possa ancora definirsi tale o al contrario non lo è più? ALIdesign: Se Lei dovesse spiegare in modo sintetico ad una persona “non addetta ai lavori” chi o che cosa è il designer, in che termini si esprimerebbe? Filippi: Ecco il solito dubbio sulla necessità di designizzare tutto o niente e di appartenere ad uno schieramento o aderire ad una tendenza, per degli oggetti la cui colpa è stata solo quella di avere deciso di essere disegnati dalla mano di un designer famoso piuttosto che di uno sconosciuto che di design non sa niente. Sì perché sono gli oggetti che decidono la paternità del progettista o dell’esecutore in virtù di un concetto che vede il design o l’arte che lo contraddistingue presenti nell’aria. Tutto è design anche noi siamo stati disegnati dal tempo, dall’evoluzione genetica e se guardiamo le foto di cinquant’anni fa ce ne accorgiamo. Per gli oggetti il processo è lo stesso. C’è qualcuno - il designer - che più di altri è sensibile alle trasformazioni che riguardano la forma e i contenuti trasformati dal tempo e dopo averli metabolizzati traduce questi parametri in nuove idee. Capta, ascolta, scarta le forme già note, le dimensioni obsolete, studia le tecnologie esistenti, le nuove microdimensioni dell’elettronica, osa per qualche forma un po’ eccessiva, sceglie colori, assorbe le tendenze, crea ombre improbabili e alla fine shakerando tutto fa il miracolo. Come fare ora per decidere se siano più quelli d’accordo che quelli contro, e soprattutto chi ha ragione? Per quanto riguarda il design siamo ancora in una fase di assestamento in cui sono convinto che la maggioranza è per il design, forse non eccessivo e troppo vistoso, forse non per tutti i luoghi e non per tutte le occasioni. Un albergo totalmente designizzato è freddo, ma se introduciamo qualche elemento classico più romantico, e qualche colore o materiale meno tecnologici, tutto si addolcisce rispettando ritmi visivi e mentali da cui non possiamo prescindere. Per le automobili vale lo stesso, ma non sempre tutti possono permetterselo. Il design costa! ALIdesign: Presume che l’oggetto industriale sia oggi spoglio dell’identità propria per cui è stato progettato, cioè per soddisfare uno specifico bisogno, e che, viceversa, se ne esalti eccessivamente il suo lato ludico e giocoso? Filippi: Gli farei vedere un oggetto ad occhi chiusi facendoglielo toccare dicendogli: “Senti e stacca il cervello per un attimo”. Filippi: Dipende dall’oggetto. Identità propria e ludicità possono anche coesistere. Può accadere invece che per ragioni produttive e di costi l’oggetto finito non rispecchi l’identità con cui è stato progettato e in più non essere giocoso. ALIdesign: Non crede che la sperimentazione dei nuovi materiali nella progettazione del prodotto industriale possa indurre molti giovani designer, spinto dall’impeto di emergere ed essere notati nel vasto mondo del design, a trascurare la funzione primaria dell’oggetto esaltando eccessivamente le peculiarità del materiale a scapito della funzionalità? Filippi: Di solito quando si usa un nuovo materiale è perché questo materiale aiuta a risolvere problemi funzionali e produttivi che prima era impossibile risolvere. Chi usa il materiale fine a sé stesso fa brutta figura. ALIdesign: Il vasto settore della progettazione dei prodotti industriali ha raggiunto una saturazione consolidatasi negli anni riducendosi alla ri-progettazione di forme con funzioni differenti rispetto all’ispiratore? ALIdesign: Che definizione darebbe di design? Filippi: È sempre più difficile progettare oggetti nuovi o inventarne di nuovi. Forse riprogettando un pezzo che ha attraversato gli anni, questo può non avere più quelle caratteristiche che erano indispensabili vent’anni prima ma averne di nuove. A volte rimane solo l’involucro. Filippi: Il design è quel qualcosa che è nell’aria e che solo qualcuno è in grado di tradurre in simboli siano essi di forme, colori, materiali, funzioni. ALIdesign: “Quando un designer raggiunge il culmine della propria notorietà può permettersi di proporre qualsiasi cosa, anche la più demenziale, che ne verrà ugualmente esaltato il pregio e l’eleganza progettuale”. Crede che Discussioni, pareri e punti di vista sul design e la progettazione del nuovo millennio con personaggi del mondo professionale. Le interviste pagina 11 - numero 03 - ottobre 2002 Il design è: È necessaria una premessa: definire il design, come disciplina univoca, è impossibile. Non lo è né in termini d’approccio teorico, né di precisi ambiti d’attività e difatti, nel tempo, si sono andate affermando, in seguito trasformandosi e specializzandosi, un gran numero di distinzioni possibili più o meno in reciproca correlazione. Product e industrial design, design primario, dei materiali, dei servizi, dell’arredo urbano; interior design, fashion design, interaction design, car design; graphic e web design, design della comunica- zione, CAD e digital design… per arrivare al design strategico, tanto ideale quanto teorica chiusura del cerchio con quell’industria che da sempre, nel bene e nel male, è il partner pragmatico e irrinunciabile del “fare design” così come, d’altra parte, per molto tempo il design è stato inteso quale anima critica del sistema economicoindustriale. Ora, è innegabile che questa parola, ormai vuota di un vero significato, si sia trasformata in una specie di joker linguistico: tutti “fanno design”, dalle grandi, organizzate design facto- ries, d’origine soprattutto americana e molto business oriented, in cui coesistono ingegneri, designer ed esperti di marketing, attraverso i teorici della filosofia del progetto industriale alla ricerca dei dogmi perduti, fino ai microscopici studi di progettazione tecnica che offrono servizi di “design” quale generico “stile di prodotto”, solitamente carrozzerie, pelli superficiali. In molti di questi casi il rischio è quello di produrre “fiction design”, un design anodino, simulacro e caricatura di se stesso. La fine, insomma. Gafforio: “Parecchio design è molto meglio regalarlo che possederlo” “Fortune”, mostrava il presidente di un consiglio d’amministrazione di una fabbrica di dolci affermare: “Gentlemen, I am convinced that our next new biscuit must be styled by Norman Bel Geddes”. Una divertente esagerazione? Un paradosso? Nella realtà Bel Geddes non ha mai disegnato dolci, tuttavia Giugiaro, negli anni ‘80, ha disegnato la Marilla, un tipo di pasta per la Voiello, che per molti motivi considero uno dei punti più controversi della storia del design italiano. ALIdesign: Per un momento allontaniamoci dalle formalità e dalle definizioni da biblioteca: all’uomo della strada che chiedesse spiegazioni, come definirebbe il “design”? Luca Gafforio Architetto e Master in Fashion Design alla Domus Academy di Milano, vanta numerose esperienze sia didattiche e di formazione sia professionali, in particolare come designer e consulente aziendale a proposito di beni di consumo. È partner in imprese di produzione Personalmente non ho risposte e definizioni, tuttavia sono convinto che la chiave contemporanea e proiettiva risieda (e nella sostanza abbia sempre risieduto) nella capacità del designer di “dirigere il progetto”, dunque in un approccio propositivo e fattuale, inevitabilmente non solo connesso al mondo degli oggetti. In questo senso credo che i più grandi designer potenziali siano in realtà imprenditori senza un sistema produttivo alle spalle e partner paritetici con chi detiene le altre chiavi del sistema economico e servizi tecnologici, essenzialmente connessi all’ideazione e alla realizzazione di progetti innovativi. Tra gli altri, ha collaborato per la CEE, per il governo coreano (KOTRA), il governo taiwanese (CETRA) e per i distretti industriali di Fukui e Gifu (Giappone). ALIdesign: In un periodo in cui il villaggio globale è la prospettiva futura, i dialetti si perdono per lasciare posto al bilinguismo lingua locale/inglese, ha ancora senso parlare di design italiano? Gafforio: Non v’è dubbio che un particolare modo d’intendere il design può essere così definito, come d’altra parte si possono identificare, storicamente, diverse scuole di pensiero e approcci progettuali. Quello che noi intendiamo per design italiano d’alto livello, e che tende a sovrapporsi all’idea del Made in Italy, ha la propria forza, e al tempo medesimo il limite, nell’essere patrimonio di specifici settori industriali, a basso contenuto di tecnologia e, peraltro, sempre gli stessi da molti anni. Inevitabilmente, oggi, molto design “italiano” appartiene al lavoro di designers internazionali, o quanto meno fa parte del loro modus progettuale, così come altre esperienze hanno contaminato la scuola italiana. Non mi spaventa l’idea di un neolinguaggio internazionale, anche se alcune peculiarità potrebbero e dovrebbero essere mantenute. Non dipenderà da noi, comunque. Un esempio, tanto per cambiare al di fuori dei soliti circuiti di riferimento: uno dei maggiori successi mondiali di design italiano degli ultimi anni è rappresentato dalla Ducati, storico marchio di motociclette. Bene, la Ducati è sì materialmente assemblata in Italia -almeno per ora- ma appartiene ad una finanziaria americana e il responsabile del design è francese. E questo è un esempio semplice. ALIdesign: All’affermazione: “ Il design è morto”, Lei come risponderebbe? Propenderebbe per darlo per defunto e sostituito da qualcos’altro, la cui definizione sembra sfuggevole, o lo sente ancora vitale e con lo spirito che lo ha visto nascere circa 50 anni fa? Gafforio: Ne abbiamo già parlato, credo che il design non possa essere morto esattamente perché è non-definibile, e qualunque cosa sia ha dimostrato grandi capacità d’adattamento. Io confido su questa caratteristica -non secondaria e molto utile oggigiorno- per pronosticargli una lunga vita, anche se non so quanto felice e degna di essere vissuta. A proposito, per quale motivo la nascita è fatta risalire a 50 anni fa? Sia pure considerando la prima edizione del Compasso d’Oro come una specie di pietra miliare, l’esperienza italiana va necessariamente posta in relazione con quanto è successo in precedenza… se è vero che dagli anni ‘50 in poi il mondo occidentale si è andato strutturando così com’è ora, anche il periodo precedente è stato fondamentale e di grande interesse. L’esperienza americana tra le due guerre, di solito poco considerata almeno nel confronto con la contemporanea cultura europea (e archiviata con un definitorio “i maghi dell’estetica”, riferendosi al temperamatite aerodinamico di Loewy), ha posto alcune delle premesse del punto d’arrivo attuale del design “estetico”. Con curiose dimostrazioni: nel 1932 una vignetta satirica di Kemp Starret pubblicata da “The New Yorker” e poi ripresa da Gafforio: Un uomo della strada dell’opulento Occidente, immagino…, a costui, per semplicità, parlerei di una precisa tipologia d’oggetti, i più visibili e a lui probabilmente ben noti nel panorama complessivo, e cioè i prodotti “design oriented”, quelli ad alto contenuto di cultura progettuale, distribuiti da marchi di consolidato prestigio e molto ben comunicati al volgo. Dunque, gli racconterei che sono “meta-oggetti”, quindi ben più che semplici pezzi di plastica e/o metallo, ideati grazie ad una disciplina esoterica, la cui conoscenza e pratica è riservata ad eletti fortemente motivati e convinti della propria missione, che è quella di ri-pensare aggeggi d’uso comune. In alcuni casi queste rivisitazioni rendono difficili operazioni in precedenza molto semplici ma, d’altra parte, risolvono brillantemente il problema di regali per inviti a cena e per il matrimonio di amici, soprattutto nei casi in cui si vuole passare, senza rischi, per gente raffinata. Dal che si evince, per inciso, che parecchio “design” è molto meglio regalarlo che possederlo. ALIdesign: Nell’epoca della multidisciplinarietà il modus operandi progettuale è stato condiviso con i settori più disparati, tanto che oggi tutto può essere considerato progettato, pensato, estetizzato. Tuttavia, cosa, a Suo parere, non può essere detto “design”? industriale: marchi, distribuzione, comunicazione, produzione. Produzione che per inciso non sembra più così importante, risiedendo il nuovo Capitale non in beni oppure denaro, ma in idee e nella capacità di realizzarle (secondo le proporzioni di Edison) e soprattutto nel saper gestire la complessità. Parafrasando e ribaltando la famosa frase di J.F.Kennedy: non chiediamoci più cosa possiamo fare per le aziende, cerchiamo di capire cosa possono fare loro per noi…. tazioni tecnologiche, laddove è possibile, oppure con innovazioni produttive, distributive, di comunicazione. Insomma di gestione d’impresa. Dobbiamo renderci conto che non tutto ruota intorno al design e ai prodotti fisici, anche se ci piace pensarlo. ALIdesign: Pensa che la cultura del prodotto ecocompatibile sia seriamente presa in considerazione dalle aziende? Soprattutto, secondo Lei, quale tipo d’azienda può permettersi una politica siffatta in termini finanziari e di risorse interne? La sfida può essere italiana o la frammentazione particellare delle nostre unità produttive non lascia molto spazio alla speranza? Gafforio: Il sistema economico-industriale, quello vero, affronterà quest’argomento con la necessaria determinazione solo quando non potrà farne a meno, il che significa quando sarà obbligato da fattori esterni non disattendibili. Per esempio leggi e regolamentazioni necessariamente a livello mondiale- non evitabili con produzioni in aree geografiche accondiscendenti. Oppure a causa di precise e ferme richieste a valle, da parte del pubblico. Solo a quel punto la “cultura del prodotto ecocompatibile” entrerà far parte del modus operandi complessivo, trasformandosi in un vantaggio competitivo. ALIdesign: Quale progetto da lei realizzato sintetizza maggiormente, o comunque rende visibile ai più, i “principi” del design? Gafforio: In termini di “progetto”, dunque non di prodotto, le cose che più mi hanno dato soddisfazione sono attività quasi impossibili da definire. Hanno a che fare con l’organizzazione e la gestione delle conoscenze quale connessione tra aziende, marchi e nuove opportunità di mercato. ALIdesign: Quale oggetto studiato da un suo collega avrebbe voluto progettare lei? Perché? Gafforio: Sempre se si parla d’oggetti e funzioni, la tecnologia realmente utile, quella che fa funzionare le cose e migliora la nostra vita, spesso nascosta sotto involucri temporaneamente considerati “belli”. Gafforio: Se parliamo di “oggetti”, la linea Bombo di Stefano Giovannoni per Magis. È una delle icone del nostro tempo e, con un po’ di fortuna, sarà uno dei classici del futuro. Che altro pretendere da una sediolina di plastica? ALIdesign: Che differenza c’è tra il giovane designer degli anni ‘60 e il giovane designer del 3° millennio? Esiste ancora qualcosa da innovare? Lo spirito che animava i primi designer sarebbe oggi anacronistico? ALIdesign: Al Salone Internazionale del Mobile di Milano ed in qualsiasi altra fiera dei prodotti di largo consumo si parla di design, le aziende si riempiono la bocca con tale parola. Cosa è prodotto di “design”, secondo Lei? Gafforio: La differenza risiede nella complessità delle variabili in gioco, nella capacità di gestire queste incognite e nella propria convinzione del ruolo del design. Negli anni ‘60 e ‘70 molte cose erano agli inizi, l’entusiasmo derivava da questa consapevolezza e dal ruolo culturalmente critico, nei confronti dell’etica industriale e del consumo. Semmai l’errore è stato nel non capire che nessuna operazione di design, per quanto intelligente, poteva salvare dal fallimento la Brionvega oppure l’Olivetti, non era la qualità ergonomia o la raffinatezza formale degli oggetti in discussione, ma la loro tecnologia, e anziché accettare questa sfida molti settori sono stati semplicemente abbandonati, a parte attività secondarie sulle interfacce uomomacchina. Un esempio molto chiaro è avvenuto nell’automobile, che ha specializzato il proprio design nella direzione dello stile di prodotto. Eppure è stato un designer, Mario Bellini, che con l’automobile Kar-a-Sutra, ha anticipato di quindici anni le tendenze di quel mondo. ALIdesign: Quando un designer maturo raggiunge il culmine della propria notorietà può permettersi di proporre qualsiasi cosa, anche la più demenziale, perché sa che sarà comunque esaltata. Crede che quest’affermazione sia vera o dubita che un noto designer possa permettersi di sfruttare e giocare con la propria notorietà? Gafforio: Può succedere, ma sarà esaltata all’interno del “sistema design”, dunque produrrà danni relativi. Resta una cosa in famiglia, per così dire… per quanto assurdo, un portaombrelli non cambierà i destini del mondo e poi, se ci preoccupiamo noi, che dovrebbero dire gli architetti? Il Millennium Dome di Londra non puoi mica metterlo nello sgabuzzino di casa, quando ti viene a noia, oppure riciclarlo come regalo. “Giocare con la propria notorietà”… uno dei piaceri dell’essere famosi, perché negarlo ad un designer? Le nuove generazioni hanno capito molto bene che il successo significa soprattutto comunicazione di se stessi, prima che del proprio lavoro, che le regole sono quelle dello star system e che non è indispensabile apparire come un pensieroso demiurgo alle prese con i destini del mondo. ALIdesign: Il vasto settore della progettazione dei prodotti industriali ha raggiunto la cosiddetta “pace dei sensi”, riducendosi ad un continuo restyling? Gafforio: Formalmente può darsi, anche se si dovrebbe distinguere settore per settore. Tuttavia molto si è lavorato in profonde ri-proget- Gafforio: Troppo spesso il valore (presunto) del “design” risiede in un valore aggiunto teorico -una specie di business booster di rara efficacia- che permette, se riconosciuto, di vendere con alte redditività oggetti necessari alla nostra quotidiana rappresentazione, dunque formalmente importantissimi ma sostanzialmente inutili. Uno degli assiomi della moda. A proposito, nel “se riconosciuto”, condizione indispensabile perché la ruota giri, risiede e si giustifica l’insieme della comunicazione “sul” design che ne alimenta il sistema: esperti, giornalisti, critici, biografi, premi, scuole, riviste, quest’intervista…. ALIdesign: Cosa, a suo avviso, fa percepire ad un acquirente la qualità di un prodotto? Il livello tecnologico, l’inusualità della forma, l’impiego di un determinato materiale o la semplicità d’uso? Gafforio: Dipende dal settore merceologico e dal prodotto, dal suo tasso d’utilità -simbolica o reale- dal tipo d’acquirente e dai suoi desideri, dalle aspettative che sono originate dalla comunicazione e dal marchio…, a meno di tentare improbabili e accademiche definizioni, in cui utilizzare parole in apparenza omnicomprensive ma senza senso, se tolte da contesti precisi, come bellezza estetica, originalità, comfort, benessere, prestazione. È quasi impossibile generalizzare, oppure identificare un denominatore “qualitativo” assoluto e valido per ogni cosa. Ciò che è vero per un’automobile non lo è per un frullatore, nello stesso settore ciò che è indispensabile per un marchio è del tutto secondario per un altro, a meno che qualcuno non se la senta di smentirmi affermando che chi acquista un Rolex lo fa per avere l’ora esatta. ALIdesign: Dal lato della provocazione: serve ancora lo sforzo progettuale nei confronti di alcune categorie merceologiche che hanno fatto la cosiddetta “Storia del Design”? Se sì non crede che sia solo per un vacuo e dannoso aspetto commerciale? Se no, non crede che sarebbe ora di dire no alle inutilità? Gafforio: Questione mal posta. Sarebbe come chiedere allo show business di Hollywood di smetterla di produrre film in cui la forma, la confezione estetica, supera e annulla il contenuto del film in sé, nel migliore dei casi assente. Nel bene o nel male questi sono modelli per un pubblico vastissimo, disposto ad alimentare, in vari modi, questi sogni collettivi. Solo la presenza di una forte ideologia può tentare di dividere, d’imperio, l’utile e l’essenziale dall’inutile e superfluo, e di porre la questione in termini etici e comportamentali. C’è qualcuno che vuole provare? Nel 1961 diventa Art Director della Società Pirelli. Negli anni 1962-65 è insegnante al corso tecnico artistico per grafici della Società Umanitaria di Milano. Insegna progettazione grafica al Corso Superiore di Disegno Industriale di Venezia negli anni pio Marco Zanuso, Vico Magistretti. Allora i produttori collaboravano soprattutto con il designer per cercare nuovi materiali, nuove possibilità di produzione, e così, in stretta collaborazione, è nato il design italiano. Il proprietario dell’azienda contattava l’allora design, o per meglio definire l’architetto o l’ingegnere, e gli commissionava un progetto specifico lasciandogli molta libertà progettuale. Non era estremamente importante che il designer usasse materiali utilizzati dell’azienda commissionatrice del lavoro. L’interesse maggiore era incentrato sull’innovazione di nuove forme allora inconsuete. La ricerca di nuove forme poneva in secondo piano l’utilizzo di materiali di cui disponeva l’azienda. Bob Noorda. Il fondatore della Corporate Identity in Italia 1964-65. Dal 1963 fino agli anni 90 è consulente didattico per l’imballaggio alla rinascente/Upim. Art Director del Touring Club Italiano dal 1979 fino al 1992. Dal 1980 è coordinatore e insegnante all’Istituto Europeo del Design di Milano. Professore a contratto alla facoltà di Architettura, nel Corso di Laurea in Disegno Industriale al Politecnico di Milano per la comunicazione visiva nel periodo 1996-2001. ALIdesign: Che differenza c’è tra il giovane designer degli anni ‘60 e il giovane designer del 3° millennio? Esiste ancora qualcosa da innovare? Noorda: Una differenza sostanziale tra i designer di anni fa e quelli di oggi, è riscontrabile nella specializzazione in settori specifici della produzione industriale. Oggi il designer è più specializzato in singole competenze, per esempio c’è chi si specializza nella produzione del mobile e chi in quella degli elettrodomestici bianchi. Prima il designer si occupava di molti settori della produzione industriale. Mi ricordo che quando lavoravo nella sede Americana della Unimark Iternational, la figura del designer era nettamente differente da quella italiana. Il progettista americano disegnava l’oggetto fino alla definizione più minuziosa del dettaglio trascurando spesso il valore concettuale che esisteva alle origini della progettazione del prodotto stesso. Il produttore voleva unicamente il progetto finito e risolto nel più piccolo dettaglio; non gli importava null’altro. I designer italiani formulavano, invece, progetti a volte carenti in alcuni aspetti puramente tecnologici di minuziosità dei particolari, ma caricavano i prodotti di aspetti più puramente concettuali. Il mobile d’arredamento ancora oggi permette maggior libertà d’espressione per la ricerca di nuove forme e di nuovi contenuti. ALIdesign: Per un momento allontaniamoci dai paludamenti, dalle formalità e dalle definizioni da biblioteca: Alla signora massaia che chiedesse spiegazioni, come definirebbe il “design”? Noorda: Un buon progetto di design è l’oggetto che risponde idoneamente ad uno specifico bisogno. ALIdesign: Il vasto settore della progettazione dei prodotti industriali ha raggiunto la cosiddetta “pace dei sensi”, riducendosi ad un continuo restyling? Noorda: No! Dire che non è più possibile innovare è troppo facile, si deve sempre lasciare la strada aperta a nuove soluzioni progettuali, anche per oggetti che sembra non abbiano più strade nuove da percorrere. Anche la posata stessa può essere fonte di innovazione. Attenzione però che il rischio è quello di creare qualcosa che non risponda più nemmeno alla funzione primaria. ALIdesign: Non crede che la sperimentazione dei nuovi materiali nella Noorda: Molti dei marchi che ho progettato sono ancora adesso molto validi, non risentono del trascorrere del tempo. Un buon progetto di design non deve essere influenzato dalle mode del momento, ma deve poter durare il più possibile. Noorda: Un’agenzia di pubblicità fa e crea progetti che durano poco. Per quanto una campagna pubblicitaria ottenga molto successo, per quanto sia fatta bene ha sempre un tempo di vita molto limitato. Un lavoro di immagine coordinata, invece, realizzato da uno studio di grafica, se è ben progettato, dura esponenzialmente molto di più. L’immagine coordinata è nata per risolvere una necessità. Le grandi società che lavoravano in tutto il mondo reclamavano la necessità di una loro identità che le rendesse riconoscibili anche all’estero ed è nato così il manuale di immagine coordinata. È nato proprio con la Foord negli anni settanta quando nella sede americana della Unimark International è stato affrontato il grosso progetto di identità della casa automobilistica. ALIdesign: Quale progetto da lei realizzato sintetizza maggiormente, o comunque rende visibile ai più, i “principi” del design? Noorda: Gli anni sessanta sono stati molto importanti per la grafica in Italia. In quegli anni sono stato tra i primi ad introdurre il concetto di immagine coordinata. Adesso parlano tutti di immagine coordinata. Quando sono venuto in Italia, mi sono portato un bagaglio culturale di educazione razionalista ricevuta dagli insegnanti del Bauhaus ed ho cercato di trasferirla nella mia professione. Ho sempre lavorato non come grande artista, ma come razionalista concettuale da cui sono usciti i miei 120 ed oltre marchi. Marchi che sono sempre stati ragionati in base al cliente a cui si indirizzavano e non influenzati da una eventuale mia personale espressione artistica. Non esiste un progetto che mi abbia dato maggior soddisfazione rispetto ad un altro, per me il lavoro ha tutto lo stesso livello di importanza. Che sia un libro, un marchio, un imballaggio o una segnaletica, la passione progettuale rimane sempre costante. Design della segnaletica: Metropolitana Milanese; Metropolitana di New York; Metropolitana di San Paulo del Brasile; Metropolitana di Napoli; Sede IBM di Milano; Centro Direzionale di Napoli; Segnaletica “Dentro Venezia”; Segnaletica castello Sforzesco di Milano. Design degli esterni ed interni dei supermercati COOP in Italia. Design degli interni per gli uffici del Grattacielo Pirelli a Milano, sede della regione Lombardia. Design nel negozio Nazareno Gabrielli a Milano con Ornella Noorda. Design della libreria Garzanti. Design show-room COM Mobili per ufficio a Milano. Immagine grafica della XVIII Triennale di Milano; Coordinamento immagine grafica della XIX Triennale di Milano. ALIdesign: Il fatto che molti dei marchi da Lei realizzati siano ancora oggi attualissimi, certifica la qualità della sua professionalità e giustifica l’affermazione di molti che la definiscono “un mito della grafica”. ALIdesign: Qual’è la differenza sostanziale che distingue uno studio di grafica da un’agenzia pubblicitaria? Noorda: Esporrò alcuni lavori di significativo interesse progettuale tra cui la segnaletica delle metropolitane di New York e di Milano e il progetto di design “Modulo 3”. Medaglia d’Oro a Rimini per l’attività nel campo del design; Medaglia d’Oro per l’immagine coordinata della Biennale di Ljubjana; Diploma medaglia d’Oro XIII Triennale di Milano; Segnalato per il Compasso d’Oro ADI per il sistema di mobili per ufficio Modulo 3; Premio Industrial Design SMAU per il sistema di mobili per ufficio Modulo 3; Premio Bodoni nel 1965 e nel 1967 per l’editoria; Compassi d’Oro Le cariche elettive •Membro ADI dal 1961; •Membro del Comitato; Direttivo 63/64 e 64/65; •Membro AGI (Alliance Graphique International) Segretario Generale 69/70 Presidente Nazionale dal 79; •Membro Commissione per la ricerca di comunicazione visiva dell’ICISID 1968/70; •Membro del comitato scientifico didattico all’Istituto per il design di Urbino dal 1975. Un buon progetto di design si intuisce dalla sua durata nel tempo. Un buon prodotto di design non rispecchia le mode del momento, ma risulta sempre ed inequivocabilmente valido per parecchi anni. Una definizone chiara di design non è cosa semplice. Non legherei il concetto di design a parametri ben definiti. Quei progetti di design che vengono ancor oggi definiti “I classici moderni” erano pensati da personaggi che non erano propriamenti designer, ma erano architetti come ad esem- fare anche grossi sbagli progettuali. Se poi le si considera ugualmente eccelse solo perchè fatte da un noto personaggio del settore, quello non dipende dal designer ma dal mercato che vuole che sia così. Principali premi Bob Noorda Nato ad Amsterdam. Diplomato ad Amsterdam all’Istituto di Design, Rietveld Accadamie. Svolge la propria attività nel campo della comunicazione visiva, programma di immagine aziendale (corporate identity), imballaggio e design del prodotto, design degli interni ed esposizioni. Nel 1965 Co-fondatore e senior Vice President della Unimark International for design and marketing. Nel 1985 fonda la Noorda Design. Si occupa del coordinamento del progetto architettonico e d’immagine. Il design è: Alcune tra le principali realizzazioni Discussioni, pareri e punti di vista sul design e la progettazione del nuovo millennio con personaggi del mondo professionale. Le interviste pagina 12 - numero 03 - ottobre 2002 •Compasso d’Oro per la Segnaletica della Metropolitana Milanese; •Compasso d’Oro per il design del simbolo della Regione Lombardia; •Compasso d’Oro per l’immagine coordinata della Fusital; •Compasso d’Oro alla carriera Minister of Trade & Industry Award for packaging design of Shiseido. progettazione del prodotto possa indurre molti designer (giovani e non) a trascurare la funzione primaria dell’oggetto esaltando eccessivamente le peculiarità del materiale a scapito della funzionalità? Noorda: C’è ancora spazio per l’innovazione e il materiale può essere una possibile strada da percorrere. I nuovi materiali sono sempre fonte di sperimentazione di nuove forme. In questo caso è il materiale che porta ad ottenere nuove forme per il prodotto di design. Molti nuovi materiali nelle loro applicazioni possono alterare le forme originarie di progetti storici del design. ALIdesign: Qual è a suo avviso la gratificazione maggiore che può ricevere un designer? Noorda: La notorietà viene da sé. Se si lavora con passione la notorietà è proporzionata alla qualità del progetto. Non credo però che si debba percorrere unicamente la strada della notorietà. Buttarsi completamente nella professione che scelta e impegnarsi il più possibile. Questa, credo, sia già una grossa gratificazione. ALIdesign: Cosa a sua avviso fa percepire ad un acquirente la qualità di un prodotto? Il livello tecnologico, l’inusualità della forma, l’impiego di un determinato materiale o la semplicità d’uso? Noorda: Il fattore economico. L’acquirente tende ancora oggi ad effettuare le proprie scelte in base al prezzo. L’esempio più significativo riguarda il settore dei Mobili. Esistono molti mobili italiani di elevata qualità progettuale simboli unici del design italiano nel mondo ma di altrettanto costosi. L’utente dirige le proprie scelte d’acquisto verso mobili stoccati in grossi centri commerciali tanto in voga oggi, rendendosi conto solo successivamente della bassa qualità. ALIdesign: Quando un designer maturo raggiunge il culmine della propria notorietà può permettersi di proporre qualsiasi cosa, anche la più demenziale, perché sa che sarà comunque esaltata. Crede che questa affermazione sia vera o dubita che un noto designer possa permettersi di sfruttare e giocare con la propria notorietà? Noorda: Può succedere. Raggiungere la perfezione di progetto non è sempre garantito. Non sempre si creano cose perfette, si possono Segnaletica /Metropolitana. Quando si è trattato di realizzare il progetto della segnaletica della metropolitana milanese con l’Arch. Albini - che era stato incaricato di aspetti più specificatamente architettonici - si è proceduto sin dall’inizio con una attiva collaborazione progettuale, attenta che le soluzioni dell’uno non fossero incoerenti con quelle dell’altro. Purtroppo molte volte succede, invece, che prima l’architetto realizza il progetto e poi chiamano il grafico a risolvere problemi di viabilità pedonale. Molti grafici erroneamente formulano progetti di segnaletica basandosi unicamente sull’aspetto grafico. L’importante non è solo la grafica in se, ma lo è molto anche il supporto, il contesto urbano limitrofe e gli aspetti architettonici stessi. La segnaletica fa parte dell’ambiente e ne è parte integrante. Prima del mio intervento, la metropolitana di New York era un grande caos. Negli anni 50/60 c’erano tre diverse compagnie che gestivano differenti linee metropolitane e costruivano indipendentemente le une dalle altre fino a quando è stato rilevato tutto dal comune che ha cercato di collegare stazioni concorrenti per creare un unico reticolo viabilistico. Da quel momento è nato un gran caos. Si è quindi creata la necessità di realizzare una segnaletica unica ed il comune, essendo a conoscenza della mia esperienza per la metropolitana di Milano, mi ha contattato e mi ha dato l’incarico. Mi sono state fornite le indicazioni di quattro stazioni più problematiche e sulla base di quelle ho realizzato un sistema logico che potesse funzionare anche per l’applicazione delle oltre 120 stazioni. La segnaletica è ancora attualmente usata. Un progetto di design: “Modulo 3”. Il “Modulo 3” è nato dalla volontà di un produttore della brianza che desiderava un nuovo tavolo per l’ufficio. Io e l’Arch. Franco Mirenzi abbiamo quindi raccolto l’invito. Un tavolo essenzialmente razionale nelle forme e un giunto particolare studiato dall’architetto Franco Mirenzi rendevano unico l’intero progetto. Un progetto nel qual ho trasferito le mie nozioni di razionalismo della grafica nel design del prodotto. pagina 13 - numero 03 - ottobre 2002 Arnaldo Mondadori Editore Casa Editrice Feltrinelli AEM Milano Metropolitana di Milano Ermenegildo Zegna Fusital maniglie AGIP ENI Simbolo self service AGIP 33° Biennale di Venezia Galleria l’Elefante Segnaletica “Dentro Venezia” Nuratex pannelli componibili Banca Commerciale Italiana Banco di Desio ADI Index Design 18° Triennale 19° Triennale Regione Lombardia Italtel Pirelli. Punti vendita Pirelli Superga ATP Provincia di Milano The Brighton Marina UK Consiglio Nazionale Commercialisti - Ragionieri Gilbey Vintners Automedicazione responsabile Dialogo nel buio Rhodiatoce Moteltours Agip Japan Cargo Airlines Stella Artois Beer Columbus 500 Genova Associazione bambini in Romania Lega Coop Supermercati Coop Zeta Zucchi SGS Euroclub Editoriale Lotus lenti a contatto Hydron Leal Upim Discussioni, pareri e punti di vista sul design e la progettazione del nuovo millennio con personaggi del mondo professionale. Le interviste pagina 14 - numero 03 - ottobre 2002 Silvano Coletti: “L’economia al servizio dell’ambiente” Silvano Coletti Nato a Roma (Italia) il 7 settembre 1969. Executive MBA alla Harvard Business School (Cambridge, Massachusetts). Silvano Coletti, dopo aver frequentato la facoltà di ingegneria presso il Politecnico di Milano, ha studiato ed effettuato ricerche presso l’Istituto Solvay a Bruxelles quale collaboratore del Premio Nobel Ilya Prigogine. Prima di fondare ed amministrare ECOSQUARE, Coletti è stato consulente ambientale presso la società italiana CGSS S.r.l. Network” in collaborazione con l’Agenzia Ambientale Europea con sede a Copenhagen in Danimarca. È stato invitato a presentare le proprie aziende ed i propri progetti durante i più importanti congressi ed eventi mondiali dal World Summit for Sustainable Development (Johannesburg 2002), World Economic Forum, Bureau of International Recycling, International Solid Waste Association, European Environmental Agency, Centro Nazionale Ricerche di Palermo (Italia) e Wall Street Journal. Dal 1996 è anche Presidente della stessa società di cui è divenuto principale azionista. Coletti ha lavorato quale consulente ed auditor per i sistemi di gestione ambientale per importanti aziende quali ad esempio Roche Farmaceutici ed Asea Brown Boveri. Nel 1997, in collaborazione con la “Banca Commerciale Italiana”, ha introdotto i primi strumenti finanziari italiani dedicati al “green credit” per le piccole e medie imprese. I più importanti quotidiani e riviste internazionali hanno scritto di lui: Herald Tribune, Financial Times, Wall Street Journal, Dow Jones, Washington Post, Il Sole 24 Ore, Il Corriere della Sera, Capital, Class. È attualmente membro della Unione InterAfricana per i Diritti dell’Uomo (Burkina Faso, West Africa), Bureau of International Recycling (Bruxelles, Belgio), International Society for Industrial Ecology (Yale University, USA), Associazione Alunni di Harvard. Tornando comunque alla nostra teoria iniziale, la “chiusura del ciclo” non si può compiere adeguatamente senza che sia annullata la distanza tra consumatore e produttore. È uno dei ruoli molteplici del designer. ALIdesign: Intende dire che i due estremi della catena produttiva devono in qualche modo dialogare? Ma è possibile un modello comunicativo che vede azioni su un canale mono - multi e una retroazione su un canale multi - mono? Coletti: No, una applicazione di un modello comunicativo siffatto non è pensabile è invece, pensabile, come già succede da anni, che sia il progettista a fare da tramite tra i due mondi. Pensiamo alla teoria del “design for disassembling”. I prodotti disegnati in maniera sostenibile permettono il riutilizzo ei loro componenti o delle parti assemblate, anche per più di una volta. Ciò permette di avvicinare il cliente alla sfera del produttore in quanto quest’ultimo, per rispondere alle normative di prossima promulgazione, dovrà farsi carico reale dei costi di fine ciclo di vita di un prodotto. Ciò ripeto, è possibile “alterando” progettualmente la sorte di un prodotto, non solo dal punto di vista materico ma anche e soprattutto dal punto di vista di vendita e commercializzazione. Le scelte fatte saranno nel codice genetico del prodotto fino al suo rientro e riprocessazione. ALIdesign: Mi perdoni, Le chiedo due cose: la prima è di farci un esempio di progetto che includa questo modus operandi, la seconda è di aiutarci ad individuare i limiti di questa strategia e discuterne insieme. Coletti: Rispondo prima alla seconda domanda e poi, se vuole, le posso dare un estratto di un mio intervento che tratta proprio di questo argomento prendendo come esempio i toner delle fotocopiatrici. Mi perdonerà se le chiedo un ulteriore chiarimento circa i limiti di cui accennava, mi incuriosisce.. Nel 1998 Coletti ha ricevuto premi e patrocini dalle Nazioni Unite e dal Governo Italiano. Nel 1999 inizia il progetto pilota “Waste Stock Exchange” da cui nel 2000 fonda la società per azioni ECOSQUARE. Nel 2001 ha fondato il gruppo di lavoro “Reverse Logistics Data Il “mestiere” del designer sta cambiando e, negli interventi che abbiamo fin qui visto, ci siamo fatti una idea di certi aspetti cruciali per tale cambiamento. Ne manca, a nostro avviso uno alla lista: la problematica ambientale. Abbiamo contattato e lo ringraziamo per averci concesso il suo tempo il dott. Silvano Coletti Presidente di Ecosquare. ALIdesign: La questione è a parole semplice. Io vedo, ad una prima occhiata critica, un aumento dei trasporti e dei flussi, perché sappiamo che, solo in rarissimi casi di nuova concezione, gli impianti industriali che potrebbero beneficiare di un processo di input output descritto non sono così vicini… avere dettagli, sicurezze, garanzie e liquidità di mercato. Esattamente come alla borsa valori. ALIdesign: Avremo modo di parlare più diffusamente della cosa, in futuro. Per il momento, parliamo un po’ di come vede Lei, da “esterno culturale” il mestiere del designer. Alcune domande di rito giusto per introdurre l’argomento: ALIdesign: Presidente ci parli di Ecosquare Coletti: Ecosquare è un progetto al quale ho lavorato per anni a partire da quando collaboravo con Gunter Pauli a Ginevra ben noto per il libro “Zero Emissioni”. Il concetto che da il titolo a questo volume è un sogno che da anni orami sto cercando di concretizzare con tecnologie sempre più sofisticate ed avanzate (vedi ad esempio la possibilità di utilizzare l’idrogeno quale futuro carburante) ma anche con ottimizzazioni strategiche del ciclo di vita di molti prodotti. In effetti molti scarti di produzione o prodotti a fine vita potrebbero a livello teorico, dopo alcune trasformazioni non inquinanti, trovare una ricollocazione nella catena produttiva. Per fare questo ho cercato di contribuire anche con la mia ultima iniziativa imprenditoriale, Ecosquare. Un mercato parallelo specializzato in sottoprodotti industriali, materiali riciclabili e rifiuti. ALIdesign: Più in dettaglio? Coletti: Il mercato è in effetti il responsabile di molti dei mali oggi esistenti nel mondo avanzato. Il consumismo è stato causato dal mercato, la più antica istituzione sociale che con il meccanismo della domanda e dell’offerta ha accelerato lo sperpero di molte risorse. La mia idea è stata innanzitutto quella di capire se lo stesso tipo di istituzione avesse mai potuto contribuire al processo inverso. Ecosquare, come una piazza affari aiuta compratori e venditori a caratterizzare i materiali, a garantire le controparti e quindi a determinare il prezzo del materiale. Ritengo che questo sia un passaggio fondamentale anche per raggiungere quel sogno umano - sviluppato in molti sistemi naturali - di raggiungere sistemi a zero emissioni. Pensate in effetti ad aziende potenzialmente interessate ad investire in nuovi prodotti realizzati da materie prime seconde. È fondamentale per queste aziende Coletti: Essendo un viaggiatore internazionale assiduo (purtroppo molto spesso solo per motivi lavorativi il lavoro del designer sinora l’ho potuto apprezzare solo dagli affascinanti prodotti e beni che riescono a proporre al consumatore interessanti per estetica e per funzionalità. Il lavoro che voi, ALIdesign, state svolgendo mi sembra assolutamente interessante e fondamentale. La formazione universitaria e poi l’attenzione poliedrica che da più parti può essere proposta all’attenzione del pubblico sono un vanto e non fanno che aumentare il prestigio delle nostre università, delle accademie e non ultimo del “Made in Italy” nel mondo intero. Vedo i progettisti come importanti attori della scena in generale e poi fondamentali anche per le azioni che mi sono proprie: la rivisitazione delle modalità di progettazione del prodotto finalizzato anche al riuso di molti componenti. Conosco casi di aziende per cui la ri-progettazione di un prodotto, partendo dal concetto stesso di utilizzo finale, ha significato molto in termini di resa sia economica sia ambientale. ALIdesign: Ci potrebbe fare un esempio? Coletti: L’ecologia industriale ci dice che gli aspetti economici devono essere affrontati anche considerando gli aspetti e gli impatti ambientali. Come accennavo prima l’output di un processo può essere l’input di un altro completamente diverso. Fino ad ora nessuno ha mai ritenuto necessario mimare in modo così spinto la Natura ma risulta oramai urgente la risoluzione di problemi legati alla raccolta, allo smaltimento, alla trattazione dei rifiuti e soprattutto al reperimento di materie prime. A Johannesburg, durante il summit mondali di alcune settimane fa dove ero delegato alle Nazioni Unite da un’organizzazione internazionale si è parlato anche di questo dai vari Capi di Stato. Coletti: Questo è vero, ma anche qui bisogna fare attenzione a quello che si trova nella realtà di tutti i giorni. Sappiamo che le cose non sono certo ideali, ma questo non significa che mai lo saranno, o che, molto più pragmaticamente, non siano migliorabili. Questo, da un lato, ci dà la prospettiva di porre gli interventi su un asse temporale più interessante e meno paralizzante. Dall’altro, invece, ci dice che è irrealistico pensare di cambiare le cose di punto in bianco. Io credo che il sistema economico e le regole di mercato potranno realmente cambiare lo status del mondo, ecco perché è nato il progetto Ecosquare. Il vero problema, semmai, è la negoziazione dei diritti di sfruttamento delle risorse e dei diritti di inquinamento. Ma preferirei per ora lasciare ad altri la discussione sociale e soprattutto politica.. ALIdesign: Bene ringrazio il presidente di Ecosquare, oltre che per la sua disponibilità, anche per il materiale che ha offerto alla riflessione di tutti e che riportiamo nel riquadro. Coletti: grazie a voi per l’interessante chiacchierata, buon lavoro. Discussioni, pareri e punti di vista sul design e la progettazione del nuovo millennio con personaggi del mondo professionale. Le interviste pagina 15 - numero 03 - ottobre 2002 Il design è: Personalmente mi sento di riferirmi, in quanto ancora attuale e completa, alla definizione che utilizza Gillo Dorfles in: “Enciclopedia Universale dell’Arte Venezia-Roma, 1958” (e che qui di seguito riportiamo (NDR): se si parla di Disegno industriale in senso stretto. Se si allarga il campo, in certi casi ritengo anche opportuno andare a recuperare, senza inibizioni, termini che in Italia sono caduti in disuso, come Arti applicate e “progettazione artistica per l’industria”. [...]”il disegno industriale è quella particolare categoria di progettazione per l’industria (ossia per gli oggetti da prodursi in serie atfraverso metodi e sistemi industriali) dove al dato tecnico si unisca un elemento estetico. È implicito, infatti, nel concetto di disegno industriale, che già il disegno creato dal progettista contenga in sè (sia pure allo stato latente ma del tutto potenziabile) quella qualità di unicità e di individuabilità artistica che lo distinguerà da ogni altro disegno e che viene a costituire la sua vera identità”.[...] Pansera: “Il design è una cosa troppo seria per lasciarla ai designer” Anty Pansera Laureata in storia della critica d’arte, teorico e storico del design, è autore di numerosi studi su questi temi e di numerose mostre/manifestazioni Dal 1996-1997 insegna “Teoria e Storia del Disegno Industriale” alla III Facoltà di Architettura di Milano e dal 2000-2001 “Storia delle Arti decorative e applicate e del disegno industriale” all’Accademia di Brera di Milano. È consulente di istituzioni pubbliche (Ente Triennale di Milano, Civiche Raccolte d’Arte Applicate del Castello Sforzesco; CASVA) e aziende private (Italtel, Columbus, Alessi, gruppo Guzzini..) per l’organizzazione di archivi (reali e virtuali). Tra le pubblicazioni: 1978 Storia e cronaca della Triennale, Longanesi; 1980 Atlante del design italiano 1940-1980, con A.Grassi, Fabbri; 1990 Il design del mobile italiano, Laterza; 1993 Storia del disegno industriale italiano, Laterza; 1996 Design esemplare. Milano e la Lombardia: il motore del disegno industriale/ Navigando nel design (audiovisivo e cd rom, per la Regione Lombardia); L’anima dell’industria. delle variabili materiche. Da non sottovalutare, tuttavia, la nascita di nuove esigenze, dalla problematica comportamentale introdotta dalla raccolta differenziata dei rifiuti al cambiamento dei supporti di stoccaggio informazioni (CD, DVD ecc.). Certamente che, a mio parere, il massimo per un designer è inventare un oggetto che non esiste, fino ad immaginarsi famiglie di prodotti, come fa Beghelli, solo per citare il più eclatante in tal senso. Un secolo di disegno industriale nel Milanese, Skira ; 2000 Natura & Artificio (EditorialeDomus); 2001 La Galleria Storica della Triennale, ALIdesign: Per un momento allontaniamoci dai paludamenti, dalle formalità e dalle definizioni da biblioteca: Alla signora massaia che chiedesse spiegazioni, come definirebbe il “design”? Pansera: È un bel match, Le faccio un esempio: sto seguendo una mostra itinerante che è, al momento a Catania: il termine design io non lo uso in questo contesto: non verrei capita, preferisco usare disegno industriale e, quando parlo del mio lavoro parlo, prendendola alla lontana, di Cultura materiale. La parola design oggi significa tutto anche il lavoro del che si anglicizza in Hair designer… Bisognerebbe riprendere il significato originario di Disegnare, progettare,e financo, intrigare, soprattutto perché il design è nato in ambito anglosassone e a tale mondo occorre in qualche modo riferirsi per questioni terminologiche. ALIdesign: All’affermazione: “Il design è morto”, lei come risponderebbe? Propenderebbe per darlo per defunto e sostituito da qualcos’altro, la cui definizione sembra sfuggevole, o lo sente ancora vitale e con lo spirito che lo ha visto nascere circa 50 anni fa? Pansera: Che un sottotitolo ironico potrebbe essere: il design è una cosa troppo seria per lasciarla ai designer. Detto questo, l’idea di parlare di cosa sia design oggi, soprattutto nell’ottica individuata da voi, implica il considerare un cambiamento avvenuto nella autocoscienza di chi opera nel campo.Il design italiano è sempre stato un design etico, design all’insegna della crisi, della critica e, soprattutto, un design che teneva a manifestare per certi versi la propria inadeguatezza di fronte al mondo e alle problematiche si andavano delineando, si pensi agli anni ‘60 e ‘70: crisi e autocritica per crescere…. Anni in cui si è consolidato il prestigio del design italiano e che hanno visto il boom e la crescita del settore. Oggi, paradossalmente, in piena crisi economica e di contrazione del settore da più punti di vista, viene, invece, proclamata la salute e la buona riuscita del progetto e delle realizzazioni. Pare quasi che il design abbia poca consapevolezza del cambiamento della situazione ed è come se ne fosse schiavo. Si pensi ad un tavolo da biliardo, una volta c’erano X palle, ma di numero limitato e gestibile dove le loro azioni potevano avere delle reazioni prevedibili e controllabili. Oggi bisogna giocare con un numero esorbitante di variabili: e si gioca quasi senza regole o con regole che forse non si capiranno mai. Se si pensa alle proiezioni e alle visioni del futuro, la crisi viene all’occhio. Le esercitazioni e proposte progettuali in proiezione hanno sempre interessato il campo del design: si pensi alla Casa Elettrica della Triennale del ‘30 e alla Casa Telematica dell’83. Charta; 2002, Dal merletto alla motocicletta, artigiane/artiste/designer del XX secolo, Silvana ed. Nel ‘30 la Casa elettrica ha indicato, anche visto con il senno del poi, una reale aderenza con il futuro prossimo, mentre forse già la Casa Telematica ha mostrato quanto discutibile fosse la previsione. Senz’altro il fenomeno di globalizzazione ha inciso in modo notevole su questa situazione, soprattutto distruggendo quelle forze di controllo locali che si sono storicamente evolute in un preciso contesto. Nella gestione dei progetti, anche in ambiti molto diversi dal design ciò ha effetti evidenti. Oggi un prodotto è decisamente marketing oriented e ciò modifica realmente le valenze progettuali considerabili e, poi, di fatto, considerate. In Italia, non dimentichiamolo, sta inoltre avvenendo un cambio generazionale anche nei comparti produttivi: i vecchi industriali che andavano ad orecchio, a sensazione, sono sostituiti, quando va bene, dai figli o gli eredi che si sono formati in contesti totalmente differenti. Pensi al contesto storico: dalla necessità di riconvertire l’industria bellica ad industria civile, ambito in cui nasce il design italiano ed in cui l’italica “arte di arrangiarsi” viene messa “geneticamente alla prova”, ad un contesto in cui sono i bocconiani e la loro formazione a stabilire le regole del gioco e le variabili di ambiente su cui lavorare. ALIdesign: Che differenza c’è tra il giovane designer degli anni ‘60 e il giovane designer del 3° millennio? Esiste ancora qualcosa da innovare? Pansera: Non posso che muovere dalla mia esperienza come docente al C.dL del politecnico di Milano. I ragazzi non si rendono conto dell a necessità di operare scelte progettuali allargate, e che, chiusi nel progettare secondo le loro idee e con scarsa curiosità, andranno poco lontano. Il designer deve essere curioso, andare in giro con gli occhi aperti, soprattuto perché ha la fortuna di esercitare una professione che dà la capacità di vivere la propria vita nel pieno delle sue potenzialità. Soltanto e semplicemente andando in giro può assorbire idee e sensazioni utili per i progetti che sviluppa. ALIdesign: Secondo Lei: serve ancora sforzarsi a progettare alcuni oggetti che hanno fatto la cosiddetta storia del design? Se sì non crede che sia solo per un vacuo e dannoso aspetto commerciale? Pansera: Io credo che ci siano due tipi di discorsi da fare al riguardo. Uno concerne lo sviluppo e la ricerca di nuovi materiali. Questi sono da sempre, ma oggi ancora di più, considerata la varietà di apporti al mondo del progetto, una molla di innovazione stabile e sicura. Quindi si può parlare di innovazione formale legata ai cambiamenti ALIdesign: Dal lato della provocazione: Serve ancora lo sforzo progettuale nei confronti di alcune categorie merceologiche che hanno fatto la cosiddetta “Storia del Design”? Se sì non crede che sia solo per un vacuo e dannoso aspetto commerciale? Se no, non crede che sarebbe ora di dire no alle inutilità? Pansera: L’innovazione tecnologica - ma non solo - ben giustifica uno sforzo progettuale continuo. E presumo di poter dire che ci sarà sempre l’invenzione che possa aprire nuove strade. Pensiamo agli apparecchi illuminanti e alle sorgenti luminose. Queste ultime sono state protagoniste, negli ultimi tempi, di grosse evoluzioni e cambiamenti per venire incontro a tutte le esigenze che si sono profilate nel mercato. Ma anche il modo di vivere diverso e le dimensioni delle abitazioni potrebbero essere molle di innovazione perché mutano i contesti in cui si sono progettate le forme precedenti. Anche il cambio delle normative e delle leggi è oggi uno dei punti che maggiormente mutano i parametri su cui lavorare. Poi tutto è dipendente dal campo di applicazione e il settore di commercializzazione. Il settore automobilistico, ad esempio, pur mostrando segni di involuzione, resta uno di quelli in cui l’innovazione tecnologica è ben al di sotto del raggiungimento della maturità del prodotto. Direi quindi che il problema necessità dell’innovazione non è ascrivibile al solo contesto in cui ci sia una tecnologia in evoluzione. Il forniture rientra in questo anche solo parzialmente. Si pensi poi , ad esempio, alla problematica. Certe cose non sono mai state viste dalla contemporaneità e la cultura materiale, in quanto cultura, è anche ripresa della storicità. ALIdesign: Pensa che la cultura del prodotto ecocompatibile sia seriamente presa in considerazione dalle aziende? Soprattutto, secondo Lei, quale tipo di azienda può permettersi una politica siffatta in termini finanziari e di risorse interne? La sfida può essere italiana o la frammentazione particellare delle nostre unità produttive non lascia molto spazio alla speranza? Pansera: Moltissimo dipende dlla legislazione vigente. Per una azienda fare ricerca è costoso e rischioso. Se la legislazione in qualche modo livella? Presumo che sia un dovere morale ed etico per le aziende adottare tali politiche. Non so dirLe quanto questo sia da considerare come fattore e di innovazione e di distinzione, tuttavia. Anche perché il design, sempre collocatosi “a sinistra”, dovrebbe essere etico. Ma il problema dell’eticità non è un problema solo del design, ma di tutti, anche del medico. Penso di poter dire che ci sia un problema di numeri e di quantità di attori in gioco. Quanti designer c’erano un tempo? E quanti oggi? E, visto che mi sto rivolgendo ad un pubblico giovane: quanto qualunquismo esiste tra i giovani? Chiedere eticità al qualunquismo mi pare un po’ improbabile. E, come sempre, si ritorna al bagaglio personale. Chi ha etica produce e si comporta di conseguenza, anche se, dal punto di vista delle aziende, esiste forse un solo tipo di eticità: quella che, agendo sulla riduzione e sul famoso slogan “less is more”, riduce i costi e quindi incrementa i margini di guadagno o li mantiene tali nel tempo a fronte di recessioni e congiunture economiche sfavorevoli. ALIdesign: Quando un designer maturo raggiunge il culmine della propria notorietà può permettersi di proporre qualsiasi cosa, anche la più demenziale, perché sa che sarà comunque esaltata. Crede che questa affermazione sia vera o dubita che un noto designer possa permettersi di sfruttare e giocare con la propria notorietà? Pansera: Credo che chiunque debba sempre mostrarsi attento. Anche perchè, di fatto, sto vedendo che, sempre di più si va verso quello che potremmo definire “designer condotto”, utilizzando per traslato il significato attribuito al medico di famiglia di un tempo. Oggi questa figura di designer è richiestissima in azienda, perché i grandi nomi che portano la loro esperienza di azienda in azienda come api di fiore in fiore, saranno sempre meno e sempre meno richiesti, almeno proporzionalmente parlando. I designer famosi, lo star system, forse diminuirà … e i designer saranno sempre più inglobati nella azienda e forse si potranno permettere pochissimi colpi di testa o follie autocelebrative. pagina 16 - numero 03 - ottobre 2002 Marketing, promozione, produzione, distribuzione: come collocare la propria idea nel mercato? Finanziamenti, flussi di liquidit‡, business angel: come trovare finanziamenti per le proprie idee? Brevetto, copyright, diritto d'autore: come proteggere i propri progetti dalle copie illecite? Bilanci, fisco, amministrazione: come organizzare un'attivit‡ imprenditoriale? Un corso di specializzazione post laurea rivolto ai giovani designer che vogliono dare alla loro attivit‡ creativa una struttura per portare direttamente i loro progetti sul mercato. Che vogliono partecipare con consapevolezza ed efficienza al lavoro dei gruppi Che vogliono gestire con successo i propri rapporti con le imprese produttrici. I M P R E Design di i m p re sa S IMPRESA Impresa I G di design Creare impresa di design Pubblicazione periodica rientrante nello scopo dell’Associazione Diretta da Davide Hubert Perone Progetto grafico e impaginazione Alberto Cei Hanno collaborato a questo numero Davide Hubert Perone Interventi di: Silvano Coletti Francesco Filippi Luca Gafforio Bob Noorda Anty Pansera Ringraziamenti: Touring Club Italiano Stampa SIE spa Via Missioni Africane, 17 38100 Trento (TN) Il Cestec organizza, in associazione temporanea di scopo con il Politecnico di Milano e Agenzia Sviluppo Nord Milano, un corso di specializzazione post laurea con l'obiettivo di formare giovani - laureati oppure non laureati con almeno 3 anni di esperienza - alla realizzazione di imprese aventi come core competence il design. Tale corso, organizzato con gli stanziamenti del Fondo Sociale Europeo (Obiettivo 3 (2000 - 2006) - Misura D4 Prog. N. 34550) partir‡ dall'analisi dell'organizzazione di studio di design o dal caso del singolo libero professionista che offre servizi di progettazione, e arriver‡ a trattare il caso di imprese realizzatrici di idee (editing di prodotti), affrontando aspetti manageriali, produttivi, fiscali, finanziari, gestionali, legislativi. Verranno trattati tra l'altro i temi della gestione fiscale di base, della tutela giuridica della propriet‡ intellettuale nel settore del design, del reperimento di fondi di investimento pubblici o privati e della gestione della fase di start-up aziendale. Un'opportunit‡ unica per approfondire concretamente le problematiche della libera professione per chi vuole intraprenderla. Figura professionale e finalit‡ Il progetto, rivolto a laureati e professionisti con competenze nel campo del design, intende creare figure professionali altamente competitive in campo imprenditoriale e mira ad accrescere l'efficacia dell'innovazione nel Paese favorendo rapporti pi˘ stretti tra il mondo del design e quello delle imprese. Obiettivo del progetto Ë attivare la creazione di nuove start up d'impresa. Caratteristiche del corso Il corso Ë cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo, dal Ministero del Lavoro e dalla Regione Lombardia. LA PARTECIPAZIONE » GRATUITA Destinatari Laureati, borsisti, dottorandi, ricercatori e giovani professionisti con almeno 3 anni di esperienza Durata dei corsi Prima edizione da novembre 2002 a febbraio 2003 Seconda edizione da gennaio 2003 ad aprile 2003 Per un totale di 200 ore per ciascuna edizione suddivise tra teoria ed esercitazioni. Il calendario delle lezioni prevede un impegno di due giorni alla settimana. La frequenza Ë obbligatoria. La partecipazione sar‡ certificata da un attestato di frequenza rilasciato dalla Regione Lombardia ai corsisti che saranno stati presenti almeno al 75% del monte ore. Informazioni tecniche Per tutte le altre informazioni si prega di rivolgersi ai seguenti recapiti: Prof. Paola Bernasconi Facolt‡ del Design Via Durando 38/A 20158 Milano fax 02 2399 5992 E-mail [email protected] Dott. Gloria Sironi Segreteria di ALIdesign c/o POLIdesign Via Durando 38/A 20158 Milano fax 02 2399 5977 E-mail [email protected] 1€