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C ORRIERE
DELLA
S ERA U D OMENICA
4
F EBBRAIO
2007
#
TEATRO, MUSICA E DVD
Alla Tosse di Genova
Come era
«normale»
Adolfino
A
dolfino era un bambino con i capelli
pettinati a banana,
un ragazzino che scriveva
invano lettere d’amore alle compagne, un giovane
con i suoi bei calzoncini alla zuava e i calzettoni a
scacchi che amava tanto
l’ordine. Adolfino era un
ragazzo come milioni di
ragazzi, ma per fortuna
milioni di ragazzi non furono come Adolfino che
cresciuto diventò il
Führer Adolf Hitler. L’infanzia e la prima giovinezza del dittatore è evocata
da Emanuele Conte in Caro piccolo Adolf, spettacolo ambientato in un cabaret anni Trenta, su testimonianze di amici e conoscenti del giovane Hitler,
dalla madre al padre
ubriacone e assente, dalla
vecchia maestra alla vicina di casa, al compagno
di putsch.
Figure che ricompongono un’immagine del dittatore da bambino che non
riesce a non essere inquietante nella sua «normalità». Nella ronda di personaggi, cui danno vita tra
gli altri l’ottima Claudia
Lawrence con la sua ammiccante ironia e la sua
straniata comicità, spiccano l’Adolfino bambino,
interpretato dal bravissimo undicenne Alessandro
Bandini, e Adolfo giovinetto, Paolo Maria Polosio, che si confrontano e
si affrontano. Idea suggestiva che dà la sensazione
cupa di un «io» diviso, di
un bimbo mai bimbo, di
un ragazzo mai ragazzo.
La materia è scivolosa
ed è difficile, anche per
l’attento e bravo regista-drammaturgo, evitare
che si giunga a facili semplificazioni e cioè che Hitler sia divenuto Hitler perché aveva un difficile rapporto con le donne o perché era un pittore fallito
mai accettato all’Accademia, o perché il padre
ubriacone lo trascurava.
Ironia e leggerezza restano comunque le armi vincenti di questo curioso
spettacolo.
Magda Poli
CARO PICCOLO ADOLF
di Emanuele Conte
Teatro della Tosse di Genova
Paolo Graziosi mette in scena e interpreta «Catastrofe» e «L’ultimo nastro di Krapp»
Home video
Gli uomini estremi di Samuel Beckett 007 stupisce ancora
In dvd i primi venti titoli della saga
di FRANCO CORDELLI
I
n un festival intitolato «101 Beckett», torna a dar segni di vita lo Stabile delle Marche con
due atti unici, Catastrofe e L’ultimo nastro di Krapp, interpretati e
diretti da Paolo Graziosi. Catastrofe andò in scena nel 1986, alla
Versiliana, nell’ambito della kermesse di Giancarlo Sepe «Buon
compleanno Samuel Beckett».
Tre anni dopo Carlo Quartucci lo
ripropose all’Ateneo di Roma,
con un protagonista d’eccezione,
Franco Citti. In tutte e due le occasioni il testo di Beckett fu valutato
con riserva, a qualcuno parve ridotto a mero sketch. Il che tuttavia dipendeva da un fattore esterno e piuttosto inevitabile: Catastrofe è brevissimo e non può che
finire in un collage, perdendo di
forza.
Nello spettacolo di Graziosi la
situazione è diversa, i testi di Beckett sono solo due, uniti, senza soluzione di continuità, dall’Allegretto della Settima di Beethoven:
li si può apprezzare, ciascuno nella sua pienezza e completezza.
Per Catastrofe vi è un dissenso
interpretativo: questo breve atto
unico, che nel dittico dello stabile
marchigiano dura 15 minuti, è dedicato a Vaclav Havel. Beckett lo
scrisse quando Havel era un non
troppo noto drammaturgo cecoslovacco incarcerato dal suo governo in quanto dissidente. Beckett e Arthur Miller presentarono
un proprio contributo al Festival
di Avignone del 1982, una data
che ora impressiona in due sensi:
sia in quanto relativamente vicina, benché appaia d’un altro mon-
SUL PALCO Una scena de «L’ultimo nastro di Krapp» al Teatro Comunale di Cagli
do e d’un altro tempo, sia in relazione alla storia personale di Beckett. Per noi, Beckett è un autore
degli anni Quaranta e Cinquanta,
scoprirlo attivo negli Ottanta è
sempre una sorpresa (di fatto l’ultimo suo testo, Cosa dove, è del
1983).
Dicevo del dissenso interpretativo. Alcuni critici leggono Catastrofe come una metafora politica. Altri come una pièce metateatrale. Vi è un personaggio R, cioè
un regista, molto vanitoso (almeno così lo rende, con un pizzico di
felicità, Paolo Graziosi); vi è un
personaggio A, cioè un’assistente,
che è la disciplinata benché impaziente Elisabetta Arosio; e vi è un
P, cioè un protagonista-prigioniero, l’immobile e muto Francesco
Macedonio. Costui sta dritto su
un piedistallo, stretto in un impermeabile, come fosse un gangster
in un film di Howard Hawks o
una spia nazista in un film di Fritz
Lang. Avvolto in una pelliccia,
più o meno sfarzosa, alla Orson
Welles, e con un colbacco (così mi
immagino) alla Sergej Bondar-
ciuk, tanto per cominciare a spostarci verso Est, il regista dà puntigliosi, maniacali, ottusi ordini: o,
almeno, ordini che ci paiono ottusi perché non conosciamo l’intero
progetto. Ma, sembra suggerire
Beckett, anche lo conoscessimo la
nostra percezione non muterebbe:
ciò che conta è come quel regista
si muove, come parla e, infine, che
cosa dice. Dice un mucchio di piccole, esiziali sciocchezze, che pochi minuti dopo risultano vere e
proprie vessazioni: egli dice ad A
che deve far abbassare a P la testa, che deve sbiancargli le mani,
che deve ottenere una piena visibilità dei suoi piedi, o che deve oscurare il palcoscenico. Per noi spettatori, il quadro non cambia.
Prima di arrivare alla desolazione, ben altrimenti conosciuta, di
Krapp, il quadro è questo. Paolo
Graziosi, con rapida e incredibile
trasformazione fisica, diventerà
un Krapp dagli occhi cerchiati di
rosso, o viola, o blu, occhi pesti e
gonfi di vecchie lacrime, e i capelli
dritti in testa, come spiritati. Ma
prima era, lo ripeto, quel dispotico R, una caricatura d’uomo, terribilmente reale, o realistica. Che
importanza ha stabilire se sia un
regista vero e proprio o la metafora di un poliziotto sadico? Ciò che
conta è il suo coatto, demente
dispotismo: vale per l’uno e per
l’altro e per tutti quelli, lo sappiano o meno, che gli somigliano.
CATASTROFE e L’ULTIMO NASTRO
DI KRAPP di Beckett/Graziosi
Teatro Comunale di Cagli
La showgirl tv debutta con «Cabaret» al Teatro della Luna
Hunziker, dimenticare Liza?
S
olo negli applausi finali Sally Bowles, dopo
aver cantato un po'
brilla sul grande scalone del
varietà che la Vita è un cabaret, oh yeah, torna Michelle Hunziker: si toglie la
parrucca nera del Kit Kat
club della Berlino 1930, diventa bionda.
Lo sapevamo tutti ma un
po' di stupore resta perché
la diva di «Zelig» e ora di
Sanremo si è buttata coraggiosa nella mission impossible di far dimenticare Liza
Minnelli. Marconi regista
le ha predisposto un bello
spettacolo fuori da ogni cliché: niente fumi, calze a rete, nè gambe sulla sedia stile Dietrich, «Mein herr» la
fa fra due marcantoni e
«Non dirlo a mamma» sul
cavallino a dondolo. Sul
versante storico il capolavoro
musical-brechtian-espressionista di Masteroff, Kander ed Ebb un
po' soffre a favore del messaggio evergreen sull’indifferenza: «Che c'entriamo
con la politica?» ripete Sally nel finale.
Ed ecco spiegato e servito non solo il nazismo. La
personalità adolescenziale
di Sally è resa dalla Hunziker con volontà ed entusiasmo anche nella parte canora che presenta il conto
di vocalità difficili in pezzi
mitici («Soldi, soldi», «Questa volta», «Cabaret») anche se dovrà diventare meno graziosa, più cattiva, più
consapevole di ciò che urge
spiegare in sala: i vip plaudenti della prima non sembravano saperla lunga. Dopo i revival a Londra e
Broadway anche Marconi,
regista di un magnifico «Cabaret» già nel '94, ci ragiona su e dopo aver metaforizzato la storia, alla fine, nel
gioco a specchi della scenografia, ci mostra i bombardamenti: è il cabaret.
Ma la sorpresa, l'applauditissima scoperta, è il maestro di cerimonie Christian
Ginepro, che dà il Willkommen ai tavoli e ricava dal
personaggio l'anima dello
spettacolo, spesso restando
in scena da osservatore-entertainer, come i comici della commedia stanno a guar-
BRUNA
Michelle
Hunziker in
«Cabaret»
ispirato al film
con Liza
Minnelli: solo
negli applausi
finali si toglie la
parrucca nera
dare Arlecchino. I suoi momenti e quel finale senza orchestra sono da pelle d'oca:
evitando ogni ambiguità,
spiega la follia con un salto,
un'occhiata, cantando tre
fantastici pezzi: sull'altalena quello dei soldi, poi quello razzista con scimmia e il
trasgressivo «Two ladies».
Privo del ménage a tre inventato da Fosse, «Cabaret» è specchio di umane ro-
vine che ci tocca da vicino.
Il cast esegue con entusiasmo, bravura, sintonia:
Gianluca Ferrato, Michele
Radice, Silvana de Santis,
la dotatissima Silvia di Stefano.
Maurizio Porro
CABARET
regia di Saverio Marconi
Teatro della Luna di Milano
(grazie agli extra)
C
on i suoi ventun film in quarantatrè anni (finora), James Bond è probabilmente il personaggio cinematografico
più longevo. E anche uno di quelli che sono
passati attraverso più volti — sei, da Connery a Craig — senza mai perdere i favori del
pubblico (se si esclude la parentesi di Lazenby e Al servizio segreto di sua maestà).
Inevitabile che Fox e Mgm, proprietarie dei
diritti di sfruttamento dei film, decidessero
di investire su questo loro «tesoro» rieditando e restaurando tutti i primi venti film. Ne
è uscita The Best Edition, dove ogni titolo,
acquistabile separatamente, è corredato da
un dischetto di extra.
E per una volta cominciamo proprio da
questi complementi perché il lavoro di John
Cork, a cui si deve sostanzialmente la selezione e l’organizzazione del materiale extra, è
stato davvero eccellente. Ci sono curiosità
giornalistiche, come i filmati
delle prime di gala dei vari
film, oppure «imperdibili»
chicche, come l’intervista (allegata al dvd di Licenza di uccidere) a un esperto di pistole, Geoffrey Boothroyd, che
spiegò a Fleming perché
Bond doveva lasciare la Beretta per la Walther Pkk. Ma
la vera novità è nella sezione
Terence Young
«007 controllo missione» do007 LICENZA DI
ve il film viene dissezionato
UCCIDERE (Fox-Mgm) in tutte le sue componenti —
donne, alleati, cattivi, combattimenti, gadget, paesaggi
esotici — e offerto in pillole
al fan, che in questo modo
ha sottomano tutte le scene
che si riferiscono a questo o
a quel personaggio.
Inutile sottolineare, poi,
l’ampiezza dei commenti e
dei dietro le quinte, che crescono in maniera quasi espoGuy Hamilton
nenziale con la vicinanza cro007 VIVI E LASCIA nologica delle produzioni, olMORIRE (Fox-Mgm)
tre alla ricchezza di trailer
originali, spot televisivi e radiofonici, materiali fotografici vari e alle notizie contenute in un libretto allegato a ciascun film: tutti elementi che, insieme a un restauro digitale di ottimo livello (e a una traccia DTS Digital Surround per tutti e venti i
titoli), consigliano «caldamente» l’acquisto
della serie indipendentemente dal fascino
che esercita il mito di Bond. Che naturalmente finisce per uscirne ancora una volta ingigantito e attualizzato.
Resterebbero da spiegare le ragioni del
successo di questo mito, nato nella fantasia
di Fleming come risposta britannica alla supremazia tecnologica americana ma ben presto diventato molto altro: una specie di archetipo ideale del maschio occidentale, elegante e colto quanto virile e muscolare, impeccabile nel gusto (i suoi modi, i suoi vestiti, le sue «ricette») e imbattibile nell’azione,
ultima — per ora — incarnazione di quel tipo d’uomo con cui in molti (di entrambi i sessi) vorrebbero almeno una volta intrecciare
il destino.
Paolo Mereghetti
Dischi
JAZZ SONNY, PLEASE
COLONNE SONORE DREAMGIRLS
Sonny Rollins, 75 anni
e un sax ancora turbolento
Dalla vera storia di Diana Ross Quasi un festival a Lugano: Bloc Party alla controprova
anche tre canzoni da Oscar
nomi noti e giovani promesse dentro il caos metropolitano
Avevamo lasciato «saxophone colossus» all’indomani
del tragico attentato alle Torri Gemelle: Without a Song,
uscito poco più di un anno fa, riprendeva un pensoso
concerto di pochi giorni successivo.
Sonny, Please, registrato in tre diverse date a cavallo fra
2005 e 2006, è piuttosto diverso. A 75 anni suonati Sonny
Rollins ha ancora voglia di creare con il suo sassofono
tenore ritmi turbolenti, linee melodiche danzanti, sonorità brumose di gran fascino. Affiancato dai soliti accompagnatori un po’ routinieri, fra i
quali Clifton Anderson al trombone e Bobby Broom alla chitarra, il
gran vecchio torna su un paio di
cavalli di battaglia (Someday I’ll
Find You e Stairway to the Stars),
ripesca addirittura la «Serenata»
dai Milioni d’Arlecchino dell’ottocentesco Riccardo Drigo e dà il
meglio di sé nell’incalzante brano
che intitola l’album e nel solare,
Sonny Rollins
pacificato calypso Park Palace
Parade.
SONNY, PLEASE
Claudio Sessa
(Doxy)
Dreamgirls è la trasposizione cinematografica dell’omonimo musical di Broadway che racconta, tra anni ’60 e
fine ’70, storia, vita e carriera del gruppo musicale «The
Dreamettes» composto da 3 giovani cantanti di colore.
In realtà ricalca la vera storia di Diana Ross e The Supremes. Tre canzoni di questo album-colonna sonora sono
in nomination per l’Oscar: Listen (cantata da una travolgente Beyonce), Love You I Do (Jennifer Hudson), Patience (Eddie Murphy, Keith Robinson & Anika Noni Rose)
nella categoria miglior brano originale di colonna sonora.
Curiosamente in un contesto in
cui la disco music fa la parte del
leone sono in nomination canzoni
romantico-melodiche nelle quali
la ritmica ha un ruolo secondario.
Questa è, evidentemente, musica
che piace a quelli del cinema e
non a quelli della musica: tant’è
che canzoni e artisti di DreamgirAutori Vari
ls sono ignorati nelle nomination
dei Grammy l’11 febbraio.
DREAMGIRLS
Mario Luzzatto Fegiz
(Sony BMG)
PROGETTI MARTHA ARGERICH
Da qualche anno a questa parte Martha Argerich riunisce attorno a sé, d’estate a Lugano, amici musicisti e una
nidiata di sicuri talenti di domani. Lo scopo è di far musica insieme ma in uno spirito audace e festoso che se da
un lato non si sottrae al giudizio del pubblico, dall’altro
conserva tratti d’estemporaneità e improvvisazione.
In ciò consiste il «Progetto Argerich», dell’ultima edizione del quale reca traccia il presente, prezioso cofanetto
di 5 cd, relativi ad altrettante serate, con un dvd in omaggio che mostra sessioni di prova e
il bel clima che le attraversa. Nei
programmi c’è di tutto: gli immancabili Mozart e Sciostakovic (era
giugno 2006) ma anche rarità di
Gulda, Schnittke e Taneev in formato sia cameristico sia sinfonico. Con la geniale padrona di casa, l’elenco degli interpreti annovera tra gli altri i fratelli Capuçon,
Vedernikov, Maisky, Zilberstein e
Autori Vari
giovani sulla rampa di lancio coPROGETTO MARTHA ARGERICH me Tiempo, Montero e Vallina.
E. Gir.
LUGANO FESTIVAL 2006 (Emi)
ROCK A WEEKEND IN THE CITY
Pro e contro di un debutto straordinario: il successo e il plotone
di invidiosi pronti a impallinare il secondo lavoro. Per evitare il
lato negativo c’è chi cambia strada e spiazza critica e pubblico
chiedendogli uno sforzo in più per entrare nelle canzoni. Pro e
contro, questa volta, coincidono. E facciamolo questo sforzo.
Senza fermarci a un primo ascolto perché «non sono più i Bloc
Party di Silent Alarm». No che non lo sono. A Kele Okereke e
soci è venuta meno quell’urgenza che aveva reso immediato il
debutto. Ma in questi 51 minuti il loro indie rock ballerino si arricchisce di chitarre alla Muse (Song for
Clay), sintetizzatori new wave o alla Killers per stare ai giorni nostri (Hunting
for Witches), batterie campionata fra
hip hop (The Prayer) e Radiohead (On).
Attenzione ai testi. Che fotografano lucidamente il qui e adesso: la paura del
diverso (Kele ha i genitori nigeriani), la
droga che gira come acqua, il vuoto
edonismo, i teenager omologati, l’amore gay. Con la consapevolezza, cantaBloc Party
no in Uniform, che «il pop non cambia i
governi».
A WEEKEND IN THE CITY
Andrea Laffranchi
(Wichita/V2)
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Gli uomini estremi di Samuel Beckett