1 1 scheda tecnica durata: 120 MINUTI nazionalità: STATI UNITI anno: 2009 regia: ROB MARSHALL tratto da: IL MUSICAL OMONIMO (1982) DI ARTHUR L. KOPIT (LIBRETTO) E MAURY YESTON (MUSICHE) ISPIRATO AL FILM "8 1/2" (1963) DI FEDERICO FELLINI soggetto: FEDERICO FELLINI (SCENEGGIATURA DEL 1963) ENNIO FLAIANO (SCENEGGIATURA DEL 1963) TULLIO PINELLI (SCENEGGIATURA DEL 1963) BRUNELLO RONDI (SCENEGGIATURA DEL 1963) ARTHUR L. KOPIT sceneggiatura: (LIBRETTO MUSICAL) MICHAEL TOLKIN ANTHONY MINGHELLA fotografia: DION BEEBE montaggio: CLAIRE SIMPSON WYATT SMITH scenografia: JOHN MYHRE arredamento: GORDON SIM costumi: COLLEEN ATWOOD effetti: PETER HUTCHINSON STEPHEN HUTCHINSON musiche: MAURY YESTON LE CANZONI "CINEMA ITALIANO" (ESEGUITA DA KATE HUDSON) E "TAKE IT ALL" (ESEGUITA DA MARION COTILLARD) SONO DI MAURY YESTON, LA CANZONE "QUANDO QUANDO QUANDO" È DI TONY RENIS. produzione: JOHN DELUCA, RYAN KAVANAUGHR, ROB MARSHALL, MARC PLATT, HARVEY WEINSTEIN PER LUCAMAR PRODUCTIONS, THE WEINSTEIN COMPANY, RELATIVITY MEDIA, MARC PLATT PRODUCTIONS distribuzione: 01 DISTRIBUTION data uscita: 22 GENNAIO 2010 2 2 interpreti: DANIEL DAY-LEWIS (GUIDO CONTINI), SANDRO DORI (PAPPALARDO), NICOLE KIDMAN (CLAUDIA NARDI), MARION COTILLARD (LUISA CONTINI), PENÉLOPE CRUZ (CARLA ALBANESE), GUIDO), JUDI DENCH (LILIANE LA FLEUR), SOPHIA LOREN (MADRE DI KATE HUDSON (STEPHANIE NECROPHUROS), STACY FERGUSON (SARAGHINA), RICKY TOGNAZZI (DANTE, IL PRODUCER), GIUSEPPE CEDERNA (FAUSTO, IL BANCHIERE), ELIO GERMANO (PIERPAOLO), ROBERTO NOBILE (JACONELLI), VALERIO MASTANDREA (DE ROSSI), REMO REMOTTI (IL CARDINALE), MARTINA STELLA (DONATELLA), MONICA SCATTINI (DIRETTRICE DELLA PENSIONE), ROBERTO CITRAN (DOTTOR RONDI), ANDREA DI STEFANO (BENITO), GIUSEPPE SPITALERI (GUIDO DA PICCOLO), VINCENT RIOTTA (LUIGI) la parola ai protagonisti Nine è andato in scena per la prima volta a Broadway nel 1982. Perché trarne solo ora un film, che alla fine è un omaggio al grande vecchio cinema italiano, ma che per noi italiani ha qualche stereotipo di troppo? Rob Marshall: Il mio film è un canto d'amore alla Dolce vita! Girarlo a Roma, con tanti grandi attori e tecnici italiani, è stato così entusiasmante che quelli che voi definite stereotipi, ai miei occhi sono flash di un'altra epoca! Di quegli anni '60 così incredibilmente chic, fascinosi e lussuosi. Mi vengono ancora i brividi, se ripenso alle scene con Sophia Loren e Daniel Day-Lewis, sulla Giulietta decapottabile in Piazza del Popolo. O all'eleganza delle comparse, ai caffè... Che differenze ci sono tra Chicago, e questo nuovo musical? R.M.: Quello era un girotondo satirico, questo un circo rievocativo. Nine ha più sostanza, e prova a raccontare il complesso cammino di un artista, con le sue ossessioni, sbandamenti, insicurezze, esplosioni. L'artista di cui parla è Fellini, che nel suo Otto e mezzo si metteva in scena attraverso Guido Contini/Marcello Mastroianni, regista in crisi, confuso tra troppe donne mentre deve iniziare un film di cui non ha scritto neanche una pagina di copione. Come è il "suo" Contini/Fellini? R.M.: Fellini per me è il maestro dei maestri: vive nella realtà, ma cibandosi di fantasia e memorie infantili, e cerca di mantenere il suo tocco geniale. Per inquadrare passione, lussuria, amore, arte in un modo provocatorio-sensuale-drammatico, ci siamo ispirati a Otto e mezzo: voglio dire, Nine non ne è il remake, perché quel capolavoro resta intoccabile. Nine si ispira anche a Le notti di Cabiria e a La dolce vita: a tutto Fellini, regista e uomo. L'importante era trovare il momento giusto 3 3 per le canzoni (ce ne sono tre nuove rispetto alla versione teareale, scritte sempre da Maury Yeston) e la danza. Com'è stato interpretare i personaggi femminili di Carla e Luisa (rispettivamente amante e moglie del regista)? Penelope Cruz: Carla è un personaggio che mi incuriosiva moltissimo, volevo capire come è ossessionata da quest'uomo, come lascia se stessa per essere ciò che vuole lui. Ho visto Carla nella versione teatrale del musical e poi la Carla di Sandra Milo, ma ciò che mi ha aiutato di più sono state le tante interviste che la Milo ha rilasciato su questo personaggio. Per me era importante capire cosa faceva Carla quando era sola in albergo: lei non sapeva se Guido sarebbe arrivato due ore dopo, due giorni dopo o mai. Marion Cotillard: La mia ispirazione è stata ovviamente Giulietta Masina. Ho cercato di leggere tutto quello che sono riuscita a reperire su di lei, ma ho trovato il personaggio di Luisa anche attraverso altre vie. Ho visionato un documentario su 'Apocalyse Now' che fu diretto dalla moglie di Francis Ford Coppola e poi ho capito la Masina attraverso le parole di Fellini stesso. Sono donne che nella vita hanno dato ai loro mariti tutto il loro amore. La presenza di Luisa per Guido è stata fondamentale. Ho capito quanto sia complesso amare qualcuno che è costantemente nel mezzo di un processo creativo. Com'è il rapporto tra le due figure femminili? M.C.: Luisa prova per il marito amore, ma anche tanta rabbia perchè è consapevole dei suoi tradimenti, però capisce anche la passione di Carla e non vuole ferirla. In una scena Guido cerca di riconciliarsi con Luisa, ma riceve la telefonata in cui apprende del tentato suicidio dell'amante; nella scena originale, che poi è stata tagliata, è la moglie stessa che gli dice di andare a vedere come sta Carla. P.C.: Carla nel film è una specialista nel rimanere in secondo piano, sa che Luisa è al corrente del loro rapporto ma non ci può fare nulla, in realtà è letteralmente in balia del suo amore per Guido. Com'è stato recitare in un musical e interpretare il ruolo della madre? Sofia Loren: Quando Rob mi ha chiamata per partecipare al film, sono stata molto felice, perchè era uno dei miei desideri sin da quando ero giovane. Il ruolo della madre l'ho fatto! (Risate in sala..) Recitare in un musical era il mio sogno fin da quando ero bambina... Quando un'attrice non è una cantante né una ballerina fa uno sforzo per cercare di essere all'altezza di quello che le chiede il regista. Un attore deve essere sempre al servizio del suo regista, si deve affidare completamente a lui” 4 4 Nel film ha dato un'immagine dell'Italia piuttosto stereotipata: è veramente questa l'immagine che gli americani hanno dell'Italia e cosa ha rappresentato per lei un regista come Fellini? R.M.: Il film è ambientato nel 1964 a Roma, un periodo che amo particolarmente perchè ricco di fascino. Volevo cogliere quel momento, quindi ho girato a Piazza del Popolo, con Daniel nell'Alfa Romeo... Il mio obiettivo era proprio che la gente amasse l'Italia di quell'epoca. Per me era importante cogliere questo fascino, questa eleganza filmando, per esempio un'icona come Sofia in una "location" unica come Piazza di Spagna. Fellini è il Maestro dei Maestri, è stato un pioniere nel mescolare realtà e fantasia nei suoi film. Io mi sono ispirato a questa sua capacità per rendere fluido il passaggio tra i momenti reali del film e i momenti musicali in cui l'immaginazione è preponderante. Come hai concepito il personaggio di Guido e quali difficoltà a trovato nel mettere su celluloide un musical? R.B.: Daniel è uno dei più grandi attori sulla scena e credo che siamo tutti d'accordo che lavorare con lui sia stato grandioso per tutti noi. Quando interpreta un ruolo, ci vive e ci respira dentro. E se da una parte questo può essere addirittura inquietante, d'altro canto è un suo modo di lavorare che ha aiutato tutti sul set. Ci ha consentito di arrivare in quel luogo che è la mente di Guido, percepire la verità del personaggio. Ha studiato molto Fellini, immergendosi nel personaggio, ed è venuto fuori in maniera naturale. Il musical è completamente ispirato dalla fantasia e dall'immaginazione, mentre il film è composto da molte parti in cui la realtà è fondamentale, si è dovuto pertanto ripensare concettualmente tutto il lavoro. Inoltre ci sono quattro nuove canzoni e il personaggio di Kate Hudson che nel musical non esisteva. In U.S.A. il film non è andato molto bene, come te lo spieghi? R.B.: Devo premettere, con tutto il rispetto per la categoria dei giornalisti, che non leggo né gli articoli né le recensioni e che, come creativo, faccio quello che mi detta il cuore. Se chiedete ad una ragazzina americana chi era Fellini, probabilmente non saprà rispondervi: la mia speranza è che dopo la visione di Nine tanti giovani si avvicinino ai capolavori del maestro, come 8 e mezzo. 5 5 Recensioni Luigi Paini Il Sole-24 Ore Dedicato a chi non lo sa. Da chi lo sapeva, ma se lo è dimenticato. E a chi ha negli occhi il blu della gioventù... Nine, di Rob Marshall, è tutto tranne che un film perfetto. Eppure, averne! "That's Italy", meglio "That was Italy," la favolosa, magica, morbosa, sognata esognante "ltalì" che il genio di Federico Fellini portò a spasso per il mondo. Guido Contini, il protagonista, è la reincarnazione del maestro di Rimini, delle sue paure, dei suoi amori, delle sue fantasie creative. Dei suoi fantasmi femminili, soprattutto, dalla figura della madre scomparsa (ciao, Sophia!), alle bionde, alle more, alle formose, alle longilinee. Fino a lei, la moglie, bistrattata e amata, cercata e respinta, capace di resistere a incredibili pressioni e di tornare accanto a lui, quando il genio creativo sembra essersi esaurito. Un io immenso, malato, debordante, orribile e meraviglioso che Marshall mostra sullo schermo attraverso il succedersi incalzante della coreografie. Un musical (oh yes) che può far storcere la bocca ai puristi (qualsiasi paragone con 8 1/2 è totalmente fuori luogo) e riempire gli occhi di chi, quegli anni favolosi, li ha sfiorati. Fabio Ferzetti Il Messaggero Per essere un film su Fellini, Nine non è molto felliniano, il che potrebbe essere un complimento se solo fosse qualcos'altro. Per essere un musical sui nostri ruggenti anni '60, spider, occhiali da sole, eleganza, confusione, cardinali, e naturalmente Cinema, è avaro di grandi canzoni d'epoca (solo Ventiquattromila baci, Quando quando quando e due gemme di Murolo che nessun italiano accosterebbe mai al genio riminese!). Per essere un film sulle donne e l'immaginario di Fellini, infine, è insieme un po' troppo esplicito - l'erotismo anni 60 era decisamente più sottile - e intriso di peccato. Il peccato dei protestanti però, che è diverso dal nostro. Il Contini/Fellini di Daniel DayLewis si danna perché non trova l'ispirazione e per la goffaggine con cui tradisce Marion Cotillard con Penelope Cruz. Ma a parte qualche numero, come quello iniziale di Day-Lewis, il colloquio "acquatico" col cardinale (un irriconoscibile, bravissimo Remo Remotti) e il confronto finale con la moglie, Nine cerca invano un centro, artistico e musicale. Con veri tonfi, come quella Saraghina taglia 48. Bello il numero di Kate Hudson, che traduce il mito di Fellini in puro consumo. Era quella la chiave giusta. Ma ci voleva ben altro coraggio. Brunella Schisa Il Venerdì di Repubblica Più che un omaggio a Federico Fellini è una parodia. Così il critico del New York Times ha liquidato Nine, il film di Rob Marshall (Chicago) ispirato a 8 1/2 e al musical andato in scena a Broadway nel 1982. Eppure, (a parte Kate Hudson) è un cast di premi Oscar: Nicole Kidman (bellissima), Penélope Cruz (sexy), Sophia Loren, Judi Dench (straordinaria), Marion Cotillard (la più 6 6 convincente nelle performance canore) fino al protagonista Daniel Day-Lewis, che compensa le scarse doti canori con un sex appeal che avrebbe fatto invidia a Marcello Mastroianni. Siamo nella Roma fine anni Cinquanta. Guido Continí, regista di fama mondiale, sta per iniziare le riprese del suo nono film. Gli ultimi due sono stati dei flop. Tutta la troupe è in fibrillazione, produttore, attrezzisti, macchinisti, ma nessuno sa che Guido non ha scritto nemmeno una riga della sceneggiatura. È bloccato, in piena crisi creativa, matrimoniale e umana. Si dibatte tra i suoi fantasmi, le donne che ha amato, la madre prima di tutto, la moglie, le amanti. La depressione del protagonista alla fine coinvolge lo spettatore. Le canzoni, la musica, la coreografia, salvo pochi numeri sono slegate l'uno dall'altra. Pesa l'assenza dei duetti ai quali Rob Marshall ci aveva abituati in Chicago. Comunque è una festa per gli occhi. Alberto Crespi L'Unità Nine è un musical deprimente. Bella contraddizione! Come fa un musical hollywoodiano, impostato come adattamento contemporaneo di un genere classico, a tradire la sua prima funzione, ovvero quella di togliere peso alla penosa convivenza con il quotidiano e dispensare conforto e ottimismo a piene mani, come fossero rose rosse gettate da un cesto gigantesco? Anche per questo il film negli Stati Uniti è stato un colossale fiasco. La sorpresa è doppia, perché il regista è Rob Marshall, autore della premiata versione cinematografica di Chicago, altro musical storico, ambientato ai tempi del proibizionismo, tra omicidi, amori e tradimenti, questo sì liberatorio e definitivamente riuscito. Nine, invece, non riesce a tradurre in termini cinematografici l'ipotetica resa dell'originale musical dell'82, scritto da Arthur L. Kopit con musica e parole di Maury Yeston, che debuttò il 2 maggio al 46th Street Theatre ed ebbe 729 repliche. Ma forse è l'idea originaria ad essere bislacca: quella di fare un musical ispirato all'8 1/2 di Federico Fellini, tra i suoi film più personali ma allo stesso tempo tra i più saccheggiati, imitati, citati, riportati, modellati, frutto di appropriazioni indebite, di licenziosi adattamenti in barba al segno magico di un immaginario impossibile da ripetere come quello di Fellini. 8 1/2 parte da una non-idea, da un non-film, un film che non riesce a essere fatto, e per ironia della sorte questo «non film» ha prodotto una caterva di film brutti e pretenziosi. Come si fa a immaginare un musical di impostazione classica sulla crisi esistenziale di un regista sognatore? Bisognava fare un musical esistenzialista, rarefatto, d'autore, invece di questa baracconata con un parterre di attori e attrici che la metà bastano per mandare avanti il botteghino americano per un anno e mezzo. Il regista Contini/Fellini, (una volta Mastroianni) è diventato un regista vogue, figo da morire, maledetto per moda, incolto e bugiardo per vezzo, quasi perfettamente calato nei panni di Daniel Day Lewis. Senza più un briciolo di auto-ironia (quella che caratterizzava Mastroianni), il Contini/Lewis s'adombra tra i pini della Roma dell'epoca come un adone macchiato di sugo, sfrecciando sull'Appia senza più un briciolo di compassione verso se stesso, e verso di noi. Si butta da un divano a un altro, scambiando la sua noia per una crisi d'ispirazione. Decine di donne sono ai 7 7 suoi piedi, da Penelope Cruz (l'amante) a Nicole Kidman (la musa), da Marion Cotrillard (la moglie) a Judi Dench (la consigliera), ma la lista continua in un arcobaleno imbarazzante di figure femminili stereotipate, un calendario anni Cinquanta di prototipi di donne inchiodate dal folclore dell'italian style. Tutti e tutte (tranne poche eccezioni), ballano e cantano in modo imbarazzante. E questo deprime. Come deprime la partecipazione dello sparuto drappello di attori italiani, usati quasi come comparse. Guardate il film di Virzì per vedere come recita davvero un attore italiano. Gian Luigi Rondi Il Tempo Ricordo le perplessità di Fellini dopo aver visto in privato Sweet Charity, il film musicale che nel '69 Bob Fosse, esordendo al cinema, aveva tratto da Le notti di Cabiria. Eppure lì la storia era abbastanza semplice da potersi riproporre senza difficoltà su uno schermo anche se invaso da canti e balli. 8 e 1/2, invece, il capolavoro di Fellini, con i suoi piani diversi, quello letterale e quello simbolico, con i suoi tanti echi realistici e insieme visionari che lo attraversavano, era un'opera così compiuta e poeticamente così chiusa in se stessa da accettare difficilmente una trasposizione. Bob Marshall che l'ha tentata dopo Chicago seguendo una trasposizione già affrontata in teatro, ha finito così per ridursi solo, e in modo stanco, al suo schema più immediato e esteriore, quello del regista che, alla vigilia di cominciare un film, si sente venir meno l'ispirazione, combattuto nel frattempo dalla difficoltà di conciliare con se stesso e fra loro le tante donne della sua vita, la moglie, l'amante, la musa e molte altre intorno. Certo, fra le pieghe e di sfondo, ha lasciato emergere - ma senza estro alcuni spunti tipici del film originale, i ricordi d'infanzia anche, con incontri con la madre, i sogni sognati sia nel presente sia nel passato, spesso in bianco e nero, con qualche sosta su episodi secondari riferiti soprattutto agli impacci nel corso della preparazione del film poi interrotto, e a vari scorci dal vero di Roma e di altre località nei dintorni, non necessariamente quelle stesse immaginate da Fellini. Con un avvicendarsi non sempre ben ordinato di personaggi di primo e di secondo piano all'insegna però soprattutto dei conflitti sentimentali e coniugali del protagonista. Mentre molti di loro cantano e buona parte dell'azione ammiccando qua e là persino alle Folies Bergére, viene commentata da musiche che, anche quelle, pensando al film in cui erano magicamente firmate da Nino Rota, risultano scialbe se non addirittura sfocate. Una sola canzone, ma non per ragioni musicali, convince, quella che, in un clima in cui spira quasi da ogni parte la simpatia per l'italianità, ci dice «I Love Cinema Italiano». Resterebbero gli interpreti, ma Daniel Day-Lewis, se si pensa a Mastroianni in quella stessa parte, è addirittura incolore, Penélope Cruz, l'amante, sfoggia danze erotiche, meglio Marion Cotillard, la moglie e, forse, Nicole Kidman, la musa. Sophia Loren, come madre, canta da contralto ma si vede poco. Non chiedetemi adesso se tutto questo sarebbe piaciuto a Fellirii. Vi direi di no. 8 8 Silvio Danese Quotidiano Nazionale Nel cine-musical dal musical di Broadway (1982, 729 repliche) un Fellini trascritto in angloamericano dal creativo e carismatico Day-Lewis va in Giulietta Spider, non riesce a incominciare il nuovo film Italia, svicola tra moglie, amante e tentazioni aggiunte, parafrasa 8 e 1/2, ma le sue donne eseguono one woman show cantando e ballando come una Monroe inzuppata nel jazz-swing da saloon postmoderno, con un carneo di canto della Loren (la mamma del regista in crisi) appeso al filo del consentito. Dov'è il cuore del Maestro, a cui ci richiama, con avvincente pressione, anche l'ultima analisi L'infanzia, il sogno di Oscar Iarussi? Non c'è, se non nel tocco dell'attore, straordinario. Un'acropoli texana. Curioso no? Maurizio Cabona Il Giornale I film sui film evocano il quadro di Escher della mano che disegna una mano. Nine di Rob Marshall è addirittura il film su un regista (Fellini) che stenta a fare un film (8½). Aggiungete che è un musical, formula già del regista e coreografo Bob Fosse per raccontarsi in All That Jazz, celebre in America, dimenticato in Italia. Nine è più coerente: è stato un fiasco anche là, prevedibilmente: quanti americani sanno di Fellini e 8½?? Il cast di Nine è stellare ma sprecato: la professionalità è vana se il soggetto non interessa quasi a nessuno. Boris Sollazzo Liberazione Difficile capire a chi Nine , e in che ordine, debba delle scuse. A Federico Fellini, certamente, anche se il Maestro, più prudente di quello che si diceva, già al musical di Broadway negò l'utilizzo del proprio nome e del titolo del suo capolavoro Otto e mezzo. A un paese, l'Italia, che sia pur disastroso e disastrato, non merita la cartolina kitsch che gli ha sbattuto in faccia Rob Marshall. Che, peraltro, dovrebbe scusarsi con se stesso, perchè al cinema e nel genere del musical in particolare, ha dimostrato molto più talento con il rutilante Chicago. Dove diresse a meraviglia due brave attrici, mentre in questo caso ne ha molte di più e le maltratta con ruoli, battute e messe in scena imbarazzanti. E passi per Sofia Loren che da troppi anni è la parodia di se stessa, e persino per Nicole Kidman, che sembra aver perso la bussola e lo charme dopo l'Oscar (succede a molte "migliori protagoniste femminili", per informazioni chiedere a Halle Berry e Hillary Swank). Ma vedere Penelope Cruz e Marion Cotillard costrette a ruoli improbabili, fa male al cuore almeno quanto quel manipolo di attori italiani in parti di contorno, a rubare qualche fotogramma per far colore. E non siamo ancora arrivati ai numeri musicali, in teoria centro del film, in pratica una serie di performance in cui la bruttezza dei testi si unisce alle musiche senz'anima e a coreografie sciatte. A salvarsi dal cinenaufragio, alla fine, sono Daniel Day Lewis, che nel suo Guido Contini in crisi creativa (ma più dell'alter ego di Fellini-Mastroianni, sembra l'ultimo, sessuomane, Tiger Woods) ci infonde impegno e bravura, una Judi Dench d'ordinanza, Fergie e una Kate Hudson in forma smagliante che, 9 9 insensatamente, viene relegata a personaggio di controrno. A Nine verrebbe almeno da assegnargli la nomea di stracult, ma la bruttezza quasi comica della pellicola non assurge neanche a quel livello. Non c'è cura nella cucitura delle visioni felliniane, qui divenute solo istantanee fuori fuoco che gli fanno il verso, non c'è il gusto del grottesco (se non, forse, in qualche parola della Cruz) che ne potrebbe fare una parodia, sia pur involontaria, e quel Be Italian che riecheggia ossessivo nei versi della canzone portante è come tutto il resto del film: cacofonico e inopportuno. Fa male, perchè l'operazione in sè, per ora un flop anche dal punto di vista commerciale (negli Usa), poteva avere un suo fascino. Un cinema-teatro-cinema andata e ritorno passando per una comune ispirazione. Ma il remake del remake - anche se giuridicamente non sono tali entrambi - è una pallida copia dell'originale, e lo è anche come esponente del genere cinematografico che racconta l'angoscia di un autore, di un regista che vive un blocco artistico e creativo. Se si esclude proprio Fellini, pochi registi nel guardarsi dentro hanno saputo farlo con profitto (geni come Fassbinder, per esempio, non hanno saputo raccontarlo), perchè lì Federico seppe, genialmente, privarsi di una struttura e investirci col flusso incoerente delle sue fantasie. Qui c'è solo il trionfo di lussuosa banalità e stereotipi di seconda mano. Nine? Più che altro, prendendo a prestito un po' di tedesco, vien da pensare... Nein! Alessandra Levantesi La Stampa Chi si è mai scandalizzato per, poniamo, l'assurda Venezia di Top Hat con Fred Astaire? Eppure era roba da ululare. Quindi per Nine non parliamo di delitto di lesa italianità: lesa lo è, d'accordo, ma sono altri i motivi per cui il gioco di trasferimento dal teatro allo schermo, che a Rob Marshall era riuscito tanto bene con Chicago, qui non funziona. Intanto lo spettacolo creato da Bob Fosse nel 1975 su musica e parole di Kander e Webb è un capolavoro; mentre Nine (1982), ispirato a 8 1/2, è un «sotto Fosse» senza numeri memorabili salvo forse Be Italian. Secondo punto: per arieggiare il musical, che nella sua scena unica trovava una coerenza, Marshall è uscito in esterni attingendo da una parte all'immaginario felliniano e dall'altra alla finta Italia in voga a Hollywood negli anni '50/'60. Un vero pasticcio di stili, da cui deriva che le donne del casanoviano Daniel Day Lewis - Cruz, Cotillard, Dench, Loren, Kidman - sembrano appartenere ognuna a un film diverso. Ciò detto, in campo ci sono molti talenti: interpreti impeccabili (Lewis, Dench e Cotillard in testa), luci, costumi, montaggio e regia di qualità: insomma; gustato a spicchi, lo spettacolo può comunque risultare godibile. Marco Giusti Il Manifesto Se la noia non vi attanaglia, c'è da divertirsi. Nine di Rob Marshall, assurda trasposizione cinematografica da 80 milioni di dollari del capolavoro di Fellini 8 1/2, via l'omonimo musical targato 1982 (ma c'entra abbastanza poco), per giunta girato in Italia con una lista di nostri attori che si 10 10 saranno vergognati un bel po', è un allegro, ma totale disastro. Di botteghino, visto che in America ha incassato solo 18 milioni (meno di Natale a Beverly Hills da noi) e lo danno solo in 455 sale (contro le 3.200 di Avatar). E di critica, visto che lo hanno definito, in ordine: «Il peggior film dell'anno», «Di sicuro non è Chicago», «La tortura ha un nuove nome: Nine», «Da uno a dieci si merita meno venti», «Nine sta al cinema italiano come Olive Garden sta al cibo italiano». E il migliore: «Non devi amare Fellini per odiare Nine, ma aiuta». Da evitare? No, è assolutamente imperdibile. A cominciare dall'anteprima romana con Sophia Loren insaccata in un cappotto di penne di struzzo giallo canarino con tanto di occhialoni e capello rosso ruggine ultragonfio che sembrava l'uccellaccio di Sesame Street. Ma il piacere per il cinefilo perfido sta nel confronto con il vero 8 ½ e coi suoi protagonisti. Daniel Day Lewis è il peggiore di tutti. Nel ruolo di Guido, regista in crisi, si sforza inutilmente di rifare Marcello Mastroianni che nel film di Fellini si limitava a essere Mastroianni e a avere quella voce meravigliosa, e massacra con un film la sua strepitosa carriera. Non parliamo poi di Judy Dench, nel ruolo che fu di Rossella Falk. Si agita con il boa su un piano sinuosa e poi canta e balla come fosse una Natalia Aspesi coi capelli a caschetto. Nicole Kidman, poco inquadrata a causa di lifting improponibili, mischia nel suo ruolo quelli di Claudia Cardinale in 8 ½ e di Anita Ekberg nella Dolce vita, rivelandoci quanto poco Rob Marshall abbia capito di Fellini e delle sue donne. Kate Hudson è del tutto inutile come giornalista, mentre Fergie come Saraghina canta bene, ma ci fa rimpiangere l'invenzione della donna cannone felliniana, Edra Gale. Funzionano solo Marion Cotillard, perfetta come nuova Anouk Aimée (stessa classe), nel ruolo della moglie di Guido, e Penelope Cruz come la sua amante un po' stupidina, ruolo che fu di Sandra Milo. Il suo numero, molto sexy, è l'unico riuscito di tutto il film. Gli italiani fanno un po' le belle statuine. Elio Germano, per sua fortuna, non lo si vede proprio. Ricky Tognazzi come produttore ripete il modello di recitazione degli spot di sottaceti. Martina Stella ha il ruolo di quella messa lì a forza, l'amante del produttore, ma si nota appena, mentre Alessia Piovan la si notava di più da morta in La ragazza del lago. Valerio Mastandrea, molto inquadrato come concierge compiacente accanto a Daniel Day Lewis, sembra che si vergogni di stare lì, ma è di sicuro più naturale e mastroiannesco di Daniel Day Lewis. Remo Remotti, almeno, troneggiava nella serata romana dove, a spettacolo iniziato, le star se la sono filata col sindaco Alemanno (poco o nulla applaudito) verso qualche ristorante. Il pubblico, dopo un'ora di battute alla Flaiano, di mal di pancia artistici e di numeri musicali montati tutti allo stesso modo, cercava la via della fuga. Di felliniano, alla fine, c'era solo il pubblico romano. Paolo D'Agostini La Repubblica Il 20 gennaio Federico avrebbe compiuto novant'anni, e il 5 febbraio sarà passato mezzo secolo dall'uscita de La dolce vita. L'adattamento dal musical "omaggio" all'altro capolavoro felliniano 8 1/2 poteva essere peggio di così, tuttavia non è un buon servizio alla memoria del maestro riminese. Con enorme dispendio di mezzi e star viene pedantemente spiegato come il mondo felliniano fosse 11 11 fatto di bugie e sogni, le sue fantasie fossero popolate di preti e di sesso e nutrite da uno sguardo infantile. Cioè, guarda un po', che la sua vita era la sua opera. Senza riuscire neanche a sfiorare il senso di un'avventura, quella di 8 1/2, che trasformò miracolosamente in capolavoro un vuoto di ispirazione. Paola Casella Europa Mentre in Italia parliamo della crisi del cinema e dello stato avvilente in cui versa la nostra cultura, in America ci celebrano arrivando a dire, come fa il musical Nine presentato ieri a Roma, che «il sogno degli americani è quello di vivere in un film italiano». D'accordo, parliamo dei film di Fellini, in particolare di quelli, come La dolce vita, che hanno codificato uno stile glamour con un'immagine assai appetibile dell'Italia dei primi anni '60. «Il mondo vede Roma come tu l'hai inventata», dicono in Nine al protagonista Guido Contini, il regista che è un incrocio fra il grande Federico e Marcello Mastroianni che, lo ricordiamo, era il Guido originale (ma di cognome faceva Anselmi, perché non doveva fare rima con nessuno) nell'8½ felliniano, cui Nine è «liberamente ispirato, senza pretesa di esserne all'altezza: del resto solo un pazzo farebbe un remake di un capolavoro», come dice Rob Marshall, regista del film e già premio Oscar per un altro musical, Chicago. Il nostro paese, dunque, è rappresentato «come una donna e un sogno», si dice in Nine, che include una canzone (la migliore, dal punto di vista dello spettacolo, assente nel musical di Broadway di cui il film è l'adattamento cinematografico), "Be Italian!!" cantata da una giornalista di moda conciata come una cubista, che con il suo monito intende: usa le tue caratteristiche innate di seduttore macho, sii passionale, sentimentale e romantico come si conviene al latin lover che infiamma le fantasie delle signore anglosassoni. Dunque in Nine l'immagine degli italiani, per quanto virata verso l'elegante e il trendy invece che verso il rozzo (vedi i Sopranos), è altrettanto stereotipata. Prova ne è che i nostri attori – Elio Germano, Valerio Mastandrea, Martina Stella – che hanno recitato in Nine hanno tutti ruoli abbastanza mortificanti. E l'unica star italiana nel cast – che comprende gli inglesi Daniel DayLewis e Judi Dench, l'australiana Nicole Kidman, l'americana Kate Hudson, la francese Marion Cotillard, la spagnola Penelope Cruz – è Sophia Loren (il ph è di rigore) che interpreta, sorpresona!, la mamma del protagonista, il quale naturalmente oltre che macho e fedifrago, è mammone. È vero, era così anche in 8½, ma prima di tutto Fellini e il suo immaginario italico appartengono a noi, e ci piacciono assai meno raccontati da altri, e poi in 8½ il Guido di Mastroianni aveva una grazia e una levità che mancano totalmente al Guido di Day-Lewis, perseguitato da un senso di colpa che sembra più calvinista che cattolico. In qualche modo, anche Marshall se ne deve essere accorto, perché fa consigliare al suo Guido Contini di «usare il suo talento con una misura di grazia», cosa che evidentemente non ha saputo fare fino a quel momento. È evidente lo sforzo di Marshall nel ricreare la componente fantastica e onirica del film originale, ma il risultato è più vaudeville che poesia, con 12 12 tanti numeri a montaggio veloce, come in Moulin Rouge, e tanti contrasti (buio-luce, bianconero/colore) che non riescono a riprodurre la fluidità con la quale Fellini sapeva passare dalla realtà alla dimensione di sogno e di magia. Fra gli attori spicca come sempre Penelope Cruz, che riesce ad infondere una vitalità dolorosa ad un film curiosamente inerte, malgrado l'affastellamento di suoni, colori, costumi e virtuosismi di regia. «I miei film sono la mia immaginazione», dice il Guido Contini di Nine, ma secondo questo metro Marshall non ha un'immaginazione sufficientemente fervida (al contrario del Bob Fosse di Cabaret e di All that jazz, che ha incarnato meglio, in forma di musical, la crisi creativa di un artista di mezza età). E se è vero che nelle intenzioni Nine è, come ha dichiarato il regista, «un San Valentino all'Italia», crediamo che Fellini (che non aveva voluto autorizzare nemmeno il musical di Broadway, arrivando ad impedire che usassero sia il suo nome che il titolo 8½) avrebbe apprezzato di più un film che lo scimmiottasse di meno e gli somigliasse di più. 13 13