UNIVERSITÀ DELLA SVIZZERA ITALIANA
ISI
ACTA ET AGENDA
RASSEGNA STAMPA DELL’ISTITUTO DI STUDI ITALIANI
MAGGIO 2010
SEZIONE PRIMA
Libri
Alessandro Zaccuri, Shakespeare e la Buona Novella, «Avvenire», 31.10.09.
«Lo sai chi è Shakespeare, ragazzo? Shakespeare è l’autore della Bibbia di re Giacomo».
L’informazione che Leonardo DiCaprio riceve in Gangs of New York è tutt’altro che affidabile,
eppure ha una sua verità, e non soltanto perché i due massimi monumenti della lingua inglese –
le opere de Bardo e la ‘versione autorizzata’ della Sacra Scrittura – sono perfettamente coetanei,
situandosi entrambi nel passaggio fra XVI e XVII secolo. No, la questione è più sottile e profonda,
e riguarda quella che Harold Bloom ha definito «l’invenzione dell’umano» da parte di Shakespeare.
Espressione fulminante, d’accordo, ma ancora incompleta rispetto al quadro che ora, in un saggio
straordinario, Piero Boitani inserisce nella prospettiva di un ritrovato « cristianesimo naturale».
Il libro si intitola Il Vangelo secondo Shakespeare ed è fondato sull’analisi dei cosiddetti last plays,
gli ultimi testi del corpus shakespeariano, drammi in prevalenza romanzeschi la cui compattezza
tematica è annunciata in Amleto e portata a compimento nella Tempesta. Due capolavori, fa notare
Boitani, all’interno delle quali risuona in modo inequivocabile un amen di provenienza biblica, un
«così sia» che, nel congedo del mago Prospero, insiste addirittura sulla clausola finale del Padre
nostro: il perdono dei peccati, la liberazione dal male.
L’indagine sulle citazioni e allusioni scritturistiche in Shakespeare vanta una lunga traduzione erudita, di cui Boitani – docente di Letterature comparate alla Sapienza di Roma – tiene conto nella
sola fase di documentazione, così come non si sofferma sulla questione, oggi molto dibattuta, della
fede professata del grande drammaturgo, nei cui versi pure non mancano gli indizi di un’adesione
al cattolicesimo.
A occupare la scena è invece la decifrazione della ‘buona novella’ che Shakespeare annuncia proprio a partire dalla tragedia del principe di Danimarca, quell’Amleto che desidera una consumazione’ niente affatto nichilista, ma indirizzata piuttosto a emulare il consummatum est della Passione.
Non diversamente Lear, il re ridotto alla condizione di Giobbe, spera di poter vivere un giorno
come «spia di Dio», un’immagine nella quale si concentra tutta la complessità della teologia shakespeariana. Non si tratta, avverte Boitani, di un sistema coerente, quanto di una costruzione poetica
che tuttavia, anche quando sembra sconfinare nel sincretismo ed eludere le questioni fondamentali
(l’esistenza di un Dio personale, anzitutto, su cui Shakespeare non si pronuncia mai in termini definitivi), trova perfetta corrispondenza con il cuore dell’annuncio evangelico.
Illuminante, in particolare, risulta l’interpretazione di Boitani a proposito dell’uso dell’agnizione, e
cioè del riconoscimento, nell’ultimo Shakespeare.
Si tratta di uno dei più antichi stratagemmi drammaturgici, per cui una persona creduta morta o
semplicemente scomparsa torna a manifestarsi, ricomponendo il cerchio degli affetti e ristabilendo
l’ordine di giustizia. Le agnizioni abbondano nei last plays, ma nessuna ha la forza perturbante
del ritorno di Ermione nel Racconto di inverno. Una statua che prende vita, lasciando lo spettatore
incerto tra lo stupore per l’incantesimo e la meraviglia per il miracolo. La risurrezione, il destino del
corpo, il ruolo decisivo che – come già nei racconti della Pasqua – le donne assumono nella stagione
estrema del teatro shakespeariano. Un Vangelo, insomma, che non soltanto ‘ inventa’ l’umano, ma
lo restituisce a se stesso, trasformandolo e salvandolo.
Piero Boitani, Il vangelo secondo Shakespeare, Bologna, il Mulino, 2009.
Nadia Fusini, L’ultimo Shakespeare e lo Spirito dei Vangeli, «Repubblica», 16 dicembre 2009.
Il libro di Piero Boitani, Il Vangelo secondo Shakespeare (il Mulino, pagg. 179, euro 15) è profondo
e semplice. E sintetico. Affronta una questione enorme: che cosa succede a Shakespeare dopo Lear,
Macbeth, Antonio e Cleopatra? Perché cambia così radicalmente genere? E più precisamente: a che
genere appartengono Pericle, Racconto d’ inverno, Cimbelino, La Tempesta? Drammi che scrisse
tra il 1609 e il 1613, che certa critica anglosassone, non incline alla teoria, definisce appunto “gli
ultimi” - anche se in verità dopo La Tempesta, in collaborazione con Fletcher, il nostro scrisse un
Enrico VIII, e un Cardenio perduto, e I due nobili congiunti. Una cosa è certa: questi drammi strani,
romantici e romanzeschi, assecondano una metamorfosi. Seguendo alla lettera il gesto di Prospero,
il mago che spezza la bacchetta magica, Shakespeare si ritira dalle scene, lascia Londra, torna a
casa, in provincia. Ora, tra le tante stranezze, ce n’ è una per me fondamentale, che interroga però
noi lettori, più che l’ autore. In modo questa volta sì naturalistico, noi lettori tendiamo a imporre
alla vita e alla produzione di un artista, scrittore, compositore, pittore, drammaturgo, un modello che
ci offre Winckelmann - il padre, diciamo così, della storia dell’ arte; secondo il quale quello dell’
artista è un romanzo di formazione, e prevede la fase dello sviluppo, a cui segue l’ affermazione;
dopodiché, inevitabile giunge il declino. È un’ immaginazione semplice, corrisponde a una obiettiva
rappresentazione della vicenda umana. Ci sono però alcuni casi eccezionali. Prendete Tiziano. Vi
pare che l’ ultimo Tiziano mostri l’ evidenza di una degenerazione delle sue facoltà? E Goethe? L’
ultimo, sereno Goethe è da meno del primo, o del maturo Goethe? E l’ ultimo Beethoven? Al suo
proposito, Adorno, in un frammento intitolato Spätstil Beethovens, coniò per l’ appunto quel termine spätstil: che è difficile tradurre. Vale come ultimo, tardo, o postumo? Tornando a Shakespeare,
e a Boitani, esiste uno spätstil Shakespeare? E se esiste, la sua fase tardiva, ultima, postuma, è
definibile come declino? O non è piuttosto l’ estrema sperimentazione di un genio drammatico che
non obbedisce alle leggi della biologia, e dunque non invecchia? Non muore. Sì, non muore: infatti,
è immortale Shakespeare. Chi può negarlo? La questione dell’ età esiste, come esistono il declino
fisico, la vecchiaia. Via via le forze si esauriscono e il corpo, come si dice di una macchina, comincia a perdere i colpi. D’ accordo. Ma con le dovute differenze dei secoli intercorsi, non è “vecchio”
il Beethoven di cui parla Adorno: muore che non ha nemmeno sessant’ anni. Shakespeare quando
scrive La Tempesta ne ha meno di cinquanta. Vi sembra vecchio? Epperò, qualcosa accade che si
traduce in una tensione, in uno sforzo, in una tonalità inaudita. Adorno parla di “catastrofe”, nel
caso di Beethoven. Boitani parla di “resurrezione” nel caso di Shakespeare. Sono entrambe figure
della morte. Forse lo “stile tardo” è il risultato dell’ incontro con la malattia, con la morte? È una
domanda. Nel saggio On late style, Edward Said avvalora con l’ evidenza estrema tale ipotesi:
muore mentre scrive. A questo tema si appassiona quando si ammala. Saranno gli amici devoti,
guidati dalla moglie Mariam, dopo la sua morte, a pubblicare il libro, nel 2006. Dove, a proposito dell’ ultimo Shakespeare, Said si schiera con chi vi ritrova per l’ appunto “un nuovo spirito di
riconciliazione e serenità”. Certo è che in questi drammi si grida al miracolo. Sulla morte trionfa
la resurrezione. Sulla vendetta il perdono. Sul dio irato dell’ Antico Testamento, vince il Dio padre
che manda il figlio suo per dare una seconda chance a noi creature. Ma attenzione, non a un figlio
maschio Shakespeare affida tale compito: il dio del perdono è femminile. L’ ecce homo che viene
a redimere, a salvare, è in un caso Marina, in un altro Perdita. Figure in cui si ripresenta l’ eroina
capostipite - Cordelia. Cordelia la buona, Cordelia la silenziosa, Cordelia che non sa né fingere né
mentire: il volto stesso della verità. Già un bravissimo critico, John Vyvyan, aveva confermato il
rimando ai Vangeli: «Il pensiero di Shakespeare è vicino allo spirito dei Vangeli». Per la gioia di
un teologo come von Balthazar, che nella sua Teodrammatica ripete: «Il tema del perdono negli
ultimi drammi è centrale». Quanto a Boitani, non cerca risposta alla domanda vana se Shakespeare
sia cattolico, protestante, o anglicano; se crede o non crede in Dio, se è scettico, o ateo. Ben sapendo (ha certo letto Lucien Febvre sul problema dell’ incredulità) che nel “momento shakesperiano”
l’ esistenza era impregnata, satura di idee e sentimenti cristiani. Per dirla con Amleto, il frattempo
o frammezzo era in mano alla Chiesa. Chi nasceva veniva battezzato, chi moriva veniva unto. Ogni
aspetto della vita umana doveva inchinarsi al rito. È un secolo che vuole credere, sostiene Febvre.
Ma con Shakespeare non si crede, si immagina. Se ci affidiamo a Shakespeare ci troviamo in un
mondo di invenzioni, che aprono altre possibilità al pensiero. E ci stimolano semmai a un uso
improprio di termini come resurrezione, perdono, colpa. E accade così che nella fantasia di una
opera drammatica prende avvio una nuova scienza dell’ uomo. Che proprio in questi anni strapperà
alla teologia il suo primato nella conoscenza dell’ uomo.
Piero Boitani, Il vangelo secondo Shakespeare, Bologna, il Mulino, 2009.
Paolo Bertinetti, La divina Provvidenza del Bardo, «Tuttolibri», La Stampa, 27 febbraio 2010.
Come spiegava Italo Calvino, i classici non hanno mai finito di dire ciò che hanno da dirci. Tanto
ai comuni lettori, quanto agli studiosi. E così Piero Boitani, ripensando ad Amleto, a Re Lear,
alla Tempesta e agli altri tre «drammi romanzeschi», Pericle, Cimbelino e Il racconto d’inverno,
che chiudono la produzione drammaturgica di Shakespeare, ci propone una sua intrigante lettura
dell’autore che più di tutti (con Dante) ha ancora infinite cose da dirci. Boitani combina brillantemente grande erudizione e sicura capacità divulgativa. Per cui anche il lettore non specialistico
può seguirlo agevolmente nel suo percorso critico: un percorso che gli fa dire che gli ultimi lavori
di Shakespeare «formano la sua Buona Novella, il suo Vangelo». La prima premessa sta nell’Amleto, in quel punto in cui Amleto, richiamandosi al Vangelo, dice che c’è una speciale provvidenza
anche nella caduta di un passero: è il punto in cui Amleto attenua la sua sfiducia nelle cose della
terra e dei Cieli, invitando l’amico Orazio ad abbandonarsi alla Provvidenza. La seconda premessa
sta in Re Lear, dove, spiega Boitani, Lear è Giobbe, ma il Giobbe dell’Antico Testamento riscritto per mezzo del Vangelo, «sovrapponendo Cristo e Giobbe, e, con inaudita presunzione tragica,
Lear a tutti e due». Cruciale è la scena del «riconoscimento » tra Lear e la figlia Cordelia (la figlia
che davvero lo amava e che lui aveva cacciato). Questa scena, in cui Lear riconosce il suo errore
e la verità dell’amore filiale, costituisce una sorta di archetipo delle scene che caratterizzeranno
in modo decisivo i drammi romanzeschi: là dove padri e figlie, dopo essersi perduti, si ritrovano,
si riconoscono, «risorgono ». (E chissà che in questo non ci sia l’eco dell’affetto di Shakespeare
per la sua diletta figlia Susanna). Nei drammi romanzeschi Boitani rintraccia la folla di echi e di
rimandi alle Sacre Scritture che rappresentano il supporto di ciò che costituirà la Buona Novella di
Shakespeare. Insieme alla Tempesta, che è un capolavoro assoluto, gli altri tre drammi romanzeschi
sono l’originale rielaborazione da parte di Shakespeare della tragicommedia, un genere che all’inizio del Seicento incontrava grande favore di pubblico e che Shakespeare (grandissimo poeta, ma
innanzitutto grandissimo uomo di teatro) affidò alla struttura della favola. La vicenda, i personaggi,
si muovono in una dimensione quasi incantata, che attenua la dimensione tragica e che, per così dire,
autorizza il lieto fine. L’esperienza vissuta dai protagonisti di questi drammi, che si chiudono con
il perdono e la riconciliazione, nell’ appassionato saggio di Boitani è visto come il percorso attraverso il quale Shakespeare propone un suo personale Vangelo, che prudentemente non si azzarda a
chiamare in causa il Regno dei Cieli. Ma che suggerisce invece che si può raggiungere la felicità già
qui, sulla terra. «Ricongiungersi ai propri cari, riscoprirli, riconoscerli, costituisce la felicità: niente
di più, me neppure niente di meno». Questo Vangelo molto terreno è pieno, come si diceva, di riferimenti biblici. Ma non poteva essere altrimenti. Solo a partire dalle Sacre Scritture (come poco più
tardi fecero i Puritani per instaurare la repubblica) era possibile proporre un proprio credo. E in ogni
caso la Bibbia era parte onnipresente e decisiva della cultura di ognuno. Nei paesi anglosassoni lo
è ancora adesso, per i cattolici, per i protestanti, persino per gli atei. Non è casuale che le canzoni
degli U2 abbondino di citazioni esplicite o mascherate dalla Bibbia. Dai Salmi, dall’Ecclesiaste, dal
Libro di Giobbe e dal Libro di Isaia. Esattamente come nei drammi romanzeschi di Shakespeare.
Piero Boitani, Il vangelo secondo Shakespeare, Bologna, il Mulino, 2009.
Luca Alvino, Di ritorno da un viaggio, «La Rivista dei Libri», Marzo 2010
Nell’ultimo atto della Tempesta, Prospero, prima di abbandonare le vesti di mago e riprendere i
panni del duca di Milano rientrando coraggiosamente nella storia, compie una toccante evocazione
di quelle figure mitologiche della leggerezza che costituiscono il pantheon minore della drammaturgia shakespeariana, il sottobosco fiabesco che forma l’humus nel quale germoglia la rigogliosa
immaginazione di molta sua produzione teatrale, dalle commedie eufuistiche ai drammi romanzeschi: gli elfi dei boschi, i folletti dispettosi, gli spiriti d’aria, le fate capricciose. Grazie a essi, al loro
potenziale immaginifico, Prospero (e insieme Shakespeare) è riuscito a compiere favolosi prodigi,
oscurando il sole a mezzogiorno, spalancando le tombe e risuscitando i morti; ha soggiogato i suoi
nemici umiliandoli fino al ridicolo, suscitando una terribile tempesta fatta di nulla, se non di sapiente inganno e di artificio. È il teatro, certamente, che ha il potere di coinvolgere gli spettatori nella
sua potente illusione. Ma non solo. È anche la vita, che dopo aver donato agli individui le aspirazioni, gli ideali, gli obiettivi che hanno costituito per anni il motore dell’esistenza, pian piano ne rivela
una consistenza indecisa, fatta di aria, della medesima sostanza di cui sono fatti i sogni («as dreams
are made on»). La tempesta si configura dunque come efficace metafora di questo inganno, ben
simboleggiata (nella rappresentazione diretta da Andrea De Rosa e interpretata da Umberto Orsini,
messa in scena in vari teatri italiani per tutto l’inverno 2010) da un vigoroso rombo sonoro che
scuote letteralmente il pubblico e gli lascia percepire al tempo stesso il suo incredibile potenziale di
suggestione e la violenza detestabile del raggiro che essa opera. È un’illusione capace di soggiogare
l’uomo e di rendere la vita stessa un’inutile rappresentazione, qualora essa non sia orientata da una
prospettiva salvifica nella quale acquistino significato i rapporti personali, alimentati dal perdono
piuttosto che dal risentimento, dalla compassione piuttosto che dal giudizio; una prospettiva che
attesta una rinascita nella storia, e che ha il sapore deciso di una vera e propria risurrezione: in una
parola, una prospettiva evangelica.
È questa la tesi di Piero Boitani nel suo ultimo lavoro, Il Vangelo secondo Shakespeare, pubblicato dal Mulino – e del quale l’ultimo capitolo del suo precedente volume, Prima lezione sulla
letteratura,1 costituiva un’ampia anticipazione, spesso letterale. Boitani disegna un itinerario che
partendo da Amleto e Re Lear si svolge lungo le trame dei drammi romanzeschi e si compie nella
Tempesta, illustrandone un suggestivo percorso di consapevolezza che sembra condurre gradatamente verso un’ottica sicuramente cristologica, se non espressamente cattolica. E lo fa da profondo conoscitore del drammaturgo inglese quale egli è, con la sua sapiente autorevolezza della
quale è difficile dubitare, anche quando il percorso dimostrativo diviene meno pervio. Ciò che
l’autore intende sostenere non è l’adesione di Shakespeare alla dottrina cattolica piuttosto che a
quella protestante, né il suo possibile riavvicinamento alla chiesa di Roma dopo l’ascesa al trono
di re Giacomo I Stuart. Boitani ha piuttosto subodorato l’intenzione di Shakespeare di annunciare
nella sua ultima produzione teatrale una buona novella, un «Vangelo eminentemente poetico» che
si concretizza nelle storie rocambolesche dei suoi personaggi e nella loro capacità di credere –
nonostante il drammatico sgretolamento delle certezze – in una trascendenza immanente, in grado
di orientare l’opera del fato in prospettiva salvifica, tramutando il disordine in ordine, il caso in
necessità, ripristinando il patto dell’uomo con la metafisica. Sono i drammi in cui la trama è più
ricca di colpi di scena: viaggi per mare, tempeste, naufragi, persone care che si smarriscono, che
muoiono tragicamente (o sono credute morte), ma che poi vengono ritrovate, la loro storia torna a
intrecciarsi con quella dei congiunti, si perdonano, si riabbracciano, il loro cuore si colma di felicità, addirittura risuscitano. L’affascinante percorso illustrato da Boitani comincia in Amleto, che
nello svolgimento del dramma passa da un iniziale atteggiamento negativo verso la storia – per il
quale non riconosce alcun senso nello svolgersi delle vicende umane – a una posizione teleologica, che ammette «una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero». Ciò che ha operato
tale trasformazione in Amleto è l’esperienza della morte: l’attentato alla propria vita smascherato
durante il viaggio in Inghilterra, la scoperta della tomba preparata dai becchini per l’amata Ofelia,
il ritrovamento del teschio di Yorick e le macabre considerazioni sul destino dell’uomo che ne conseguono. Amleto sperimenta l’inevitabilità della fine («Se è ora, non sarà dopo. Se non sarà dopo,
sarà ora. Se non è ora, tuttavia sarà»), e la lezione appresa lo porta a una prontezza («readiness»)
che ancora somiglia di più al fatalismo che a una cristiana accettazione della provvidenza. I riferimenti alla tradizione biblica in Amleto sono piuttosto legati al sostrato filologico, a scelte lessicali
che pongono corrispondenze significative, ma più a livello culturale che ontologico o filosofico:
«providence» (la provvidenza consolatoria), «sparrow» (passero, che rimanda a Matteo, 10, 29 o
a Luca, 12, 6), «let it be» (l’amen della liturgia), «readiness» (l’evangelica prontezza alla quale il
Cristo esorta i discepoli in Luca 12, 35).
È piuttosto in Re Lear che prende forma la prospettiva cristologica alla base del Vangelo secondo Shakespeare, nell’assunzione su di sé del mistero delle cose compiuto da Lear e da sua figlia
Cordelia. Affinché ciò accada è necessario che Lear prenda consapevolezza della propria umanità, dei propri errori di giudizio verso le figlie, della propria debolezza; lui che – come Gesù – da
re è divenuto mendicante, è stato tradito, ridotto in prigionia; che è divenuto folle, rinunciando a
quella sapienza del mondo che – come rivela San Paolo – è ostacolo per la sapienza vera, quella
che avvicina a Dio; lui che ha avuto pietà per i poveri, nei quali ha riconosciuto la vera essenza
dell’uomo, «povero animale nudo e forcuto» di fronte alla «violenza scatenata dai cieli». Solo dopo
aver compiuto questa esperienza profonda, Lear può sperimentare una resurrezione, che consiste nel
riconoscimento di sua figlia Cordelia, esperienza straordinaria che lo rigenera alla vita. Riconoscere
le persone care è esperienza divina, affermava l’Elena euripidea. Riscontrare che l’altro esiste, che
è importante, che gli affetti sono la gioia più grande dell’esistenza, significa accettare il divenire.
L’affetto per i cari vissuto solamente come istintiva riconoscenza, o come scelta iniziale di un percorso, non concede una pacificazione. Gli uomini hanno bisogno di confrontare i propri sentimenti
(istintivi o vissuti in maniera ideologica) con la dura prova del tempo, con l’impervia scabrosità
degli eventi, per rinnovare costantemente la propria scelta con consapevolezza nuova. Essi «devono sopportare l’uscita dal mondo come l’ingresso nel mondo: essere pronti alla morte, ma anche
a nascere, rinascere, e insomma ad accettare la vita». È la morale di Giobbe: «Il Signore ha dato,
il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore». Ma per capire questo è necessario mettere
alla prova gli affetti stessi, partendo – come Ulisse – alla ricerca dell’ignoto. L’amore nasce dalla
nostalgia: Ulisse comprende il suo amore per Penelope a Ogigia, ostaggio di Calipso, non a Itaca;
e il figliol prodigo rimpiange la misericordia del padre mentre ne è lontano, disputando le ghiande
coi maiali. Solamente alla fine di un percorso si diviene in grado di sopportare. In Shakespeare il
termine originale è – appunto – “endure”, significativamente legato a un’idea di durata. L’auspicio
di Lear va oltre l’amletica “prontezza”. Egli desidera per sé la maturità («the ripeness is all»),
ovvero la consapevolezza che il proprio percorso sia giunto alla meta, per poter dire come Cristo:
«consummatum est», tutto è compiuto. «Per credere si deve riconoscere, ristabilire la continuità
dell’essere-nel-reale, identificare l’essere-questo-qui, trapassare la morte». Boitani cita Aristotele
(ma anche – implicitamente – ancora l’Elena euripidea), che all’inizio della Poetica «dichiara che
l’attimo in cui si riconosce che “questo è quello” è supremo». I protagonisti dei drammi romanzeschi giungono a riconoscere le persone amate al termine di un percorso di tribolazione. Il loro “riconoscere” implica un’aggiunta di senso rispetto al semplice “conoscere”: l’esperienza del viaggio,
le peripezie sopportate, l’abbandono delle certezze, rendono il “riconoscimento” assai più denso di
significato rispetto alla mera “conoscenza”, o a una affettiva, naturale, “riconoscenza”. È un atto
gnoseologico che si colloca a un livello superiore. Laddove una prima conoscenza era stata fallace
e spesso ingannevole, l’itinerario che conduce al riconoscimento rivela al soggetto di questa esperienza un aspetto di autenticità dell’oggetto conosciuto che inizialmente non era stato percepito,
o – peggio – che era stato completamente travisato. Il modello euripideo è in tal senso emblema-
tico. Nella versione del mito seguita da Euripide, Paride non aveva rapito realmente Elena, ma un
suo simulacro «fatto di aria», creato da Era per ingannarlo. Quando Menelao la ritrova a Menfi,
in Egitto, e viene a sapere la verità su quanto era accaduto, tutte le vicende di morte e distruzione
legate alla guerra di Troia e le disavventure degli eroi achei durante il ritorno in patria assumono
un senso completamente diverso. Il riconoscimento di Elena implica anche un riconoscimento della
storia. Menelao non ritrova solamente sua moglie: ritrova un nuovo punto di vista da cui guardare
retrospettivamente alla propria esistenza e a quella della sua patria. Nei drammi romanzeschi viene
applicato il medesimo format narrativo. I protagonisti vengono separati dalle vicende della vita
prima ancora di avere la possibilità di conoscere la verità gli uni sugli altri. Quando si ritrovano,
insieme alle persone amate ritrovano anche la cognizione di quanto era avvenuto; si pentono degli
errori commessi, perdonano quelli altrui, e ricostituiscono un’identità che si era perduta sgretolando
il senso della loro esistenza.
Entriamo nel vivo del discorso di Boitani. Il segno di un tale percorso attraverso il tempo, volto a
ristabilire un’identità, è proprio l’arte, che simboleggia una cosa con qualcos’altro, rappresentando
immagini della realtà. L’esperienza estetica del fruitore dell’opera d’arte è assimilabile all’esperienza compiuta dai personaggi dei drammi shakespeariani. Si rappresenta qualcosa per tentare di comprenderla, e il piacere estetico proviene dall’aver riconosciuto che il modello elaborato funziona,
che “questo” corrisponde a “quello”. Per questo l’arte accompagna – come sottofondo, se non come
grimaldello ermeneutico – tutte le agnizioni shakespeariane. Pericle, nel momento in cui riconosce
sua figlia Marina, ode la musica delle sfere, ovvero quella musica prodotta dalla rotazione delle
sfere celesti mosse dagli angeli: una musica «astratta, puramente razionale», che Dante aveva udito
nel Paradiso e che gli esseri umani – normalmente – non possono udire; con la musica Paolina dà
vita alla statua di Ermione nel Racconto d’inverno; e nella Tempesta è ancora la musica il mezzo
potente usato da Prospero per inscenare i propri incantamenti. L’esperienza del riconoscimento, in
sostanza, è legata a filo doppio con l’esperienza artistica. L’itinerario compiuto dagli eroi shakespeariani per ritrovare e riconoscere i propri cari diviene un simbolo del percorso che conduce il
fruitore dell’opera d’arte dal significante al significato. Ciò che si conosce attraverso l’arte non è la
realtà così come essa è, e nemmeno come dovrebbe essere, o come – ideologicamente – ci si aspetta
che sia. Attraverso l’arte si riconosce la realtà come di ritorno da un viaggio, al termine di un’esperienza esistenziale che ne ha svelato aspetti nuovi, altrimenti inconoscibili. L’arte consente di vedere
quella medesima realtà – che si trova costantemente sotto i nostri occhi – da un nuovo punto di
vista, esterno a noi, che ci aiuta a percepirne la novità. Il cambiamento di prospettiva è la strategia
gnoseologica che accomuna il viaggio e la fruizione artistica, consentendo al soggetto di uscire al
di fuori della propria ridotta visuale e di riconoscere l’esistenza del prossimo. È il meccanismo che
innesca la compassione: vedere con gli occhi dell’altro, condividere il suo punto di vista, significa
comprenderne le motivazioni, anche laddove esse conducano verso obiettivi distanti dai nostri, se
non contrari. In tal modo si dischiude miracolosamente l’angusto cerchio dell’identità, e si compie
quell’atto di liberazione dal tempo della storia individuale e terrena che – in definitiva – corrisponde
a una rinascita. Questo è il senso del ritrovamento di Cordelia da parte di Lear; di Marina e Taisa
da parte di Pericle; di Imogene da parte di Postumo e Cimbelino; e della resurrezione di Ermione
nel Racconto d’inverno.
Qui finisce il compito dell’arte. Prospero, giunto al termine del proprio percorso, sveste i panni
di mago, seppellisce la propria bacchetta e torna a indossare le vesti della storia. Non ha più bisogno dei suoi poteri incantatori. Elargendo il perdono ai propri nemici ha appreso un’arma molto
più potente: ha abbattuto il muro di divisione che separa tra loro gli individui a causa dell’egoismo,
della parzialità della loro visuale. Può dunque affidarsi alla benevolenza degli spettatori, certo che
il loro applauso – la loro indulgenza – gli renderà quella medesima libertà che l’Onnipotente ha
affidato alle sue creature, concependole a sua immagine e somiglianza: «Ora mi mancano/ spiriti da
comandare,/ arte per incantare,/ e la mia fine/ è la disperazione,/ a meno che/ non sia salvato dalla
preghiera/ che va tanto a fondo/ da vincere la pietà/ e liberare dal peccato./ Come voi per ogni colpa/
implorate il perdono,/ così la vostra indulgenza/ metta me in libertà».
Rivolgendosi direttamente agli spettatori, Prospero abbatte la cosiddetta quarta parete teatrale, il
muro ideale che separa gli attori (e dunque la finzione) dal pubblico (ovvero la realtà). E ricorda
quei due angeli che, negli Atti degli Apostoli, subito dopo l’ascensione di Gesù, invitano i discepoli
a non rimanere con lo sguardo verso il cielo, ma a considerare piuttosto la terra, perché è proprio
sulla terra che Cristo dovrà tornare (At. 1, 10-11). L’esperienza del divino (e quella dell’arte) non
può essere fine a se stessa, ed è giusto che la consapevolezza nuova acquisita attraverso di essa sia
vissuta nella quotidianità, nella semplice normalità di viventi, in una prospettiva non soltanto trascendente o estetica, ma soprattutto etica, politica e sociale. A ciò conduce l’esperienza artistica di
William Shakespeare; in ciò consiste il suo Vangelo.
1 P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2007.
Piero Boitani, Il vangelo secondo Shakespeare, Bologna, il Mulino, 2009.
Giovanni Orelli, Vocabolario barocco, «Azione», 24 agosto 2009.
E. Tesauro, Vocabolario italiano, testo inedito a cura di M. Maggi, Firenze, Olschki, 2008.
Yves Bonnefoy, Il poeta che diede senso al nulla, «Corriere della Sera», 27 settembre 2009.
Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, a cura di C. Ossola, Milano, Mondadori
(«Meridiani»), 2009.
Matteo Airaghi, Ungaretti, «Corriere del Ticino», 2 gennaio 2010.
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Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, a cura di C. Ossola, Milano, Mondadori
(«Meridiani»), 2009.
Luigi Trucillo, Il respiro del dettaglio nelle opere dell’arte, «Il Manifesto», 17 ottobre 2009.
Antonella Anedda, La vita dei dettagli, Roma, Donzelli, 2009.
Andrea Cortellessa, Gli occhi a coltello dentro un quadro, «Tuttolibri», «La Stampa»,
7 novembre 2009.
Gli storici dell‘arte conoscono bene, ahiloro, quel gioco che consiste nel riconoscere un‘opera
a partire da un suo minimo dettaglio. Più in generale si sa come Carlo Ginzburg abbia potuto
accostare la pratica dell‘attribuzione ai «paradigmi indiziari» di Conan Doyle e Sigmund Freud.
In quest‘aureo libretto che direi il suo capolavoro - La vita dei dettagli (Donzelli) - Antonella
Anedda (la quale, nella sua favolosa giovinezza, studiò alla scuola di Augusto Gentili) sceglie di
fare il percorso inverso. Invertendo il circolo ermeneutico, isola trentadue dettagli da immagini
più o meno celebri (dall‘iconografia tardoantica alla videoarte di oggi) «usando lo sguardo come
coltello». Così dando vita a uno straniamento assoluto, «una nuova consapevolezza dell‘alterità
misteriosa del mondo», quasi un senso di minaccia (la suspense di Hopper!). Prose brevissime,
descrittive o narrative (come nei precedenti libri «saggistici» della poetessa romana d‘origine
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sarda: il magnifico Cosa sono gli anni del 97 e La luce delle cose del 2000), commentano i
frammenti. È un gioco (la premessa s‘intitola Istruzioni per l‘uso; le «attribuzioni» sono definite
Soluzioni), ma quanto mai serio: ogni prosa rinvia all‘altra sogni, ossessioni, coazioni a ripetere.
Per questo sono in numero di trentadue: come le Goldberg di Bach, variazioni su un medesimo tema.
Come le poesie più belle, in sardo, nell‘ultima raccolta Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007)
rinviano a una storia taciuta, troppo bruciante per essere narrata («tutto è reticenza» è detto sempre a
proposito di Hopper). Una storia di lutto, più in generale di perdita. Non a caso in explicit Anedda pone
una voce da dizionario, appunto Perdita. E questo breve testo - come nell‘altro suo splendido libro
segreto, Nomi distanti (Empirìa, 1998) - a sua volta è «variazione» di una poesia celebre, Un‘arte di
Elizabeth Bishop («L‘arte di perdere non è una disciplina dura»). Fra i trentadue «ritagli» quello chiave
è il quindicesimo, con gli occhi del più celebre ritratto del Fayum (II sec. d.C.): «la ragazza è morta».
L‘ultimo, poi, è davvero inconfondibile: i piedi del Cristo morto del Mantegna ovvero «il ritratto della
nostra vertigine davanti a ogni morte». Non si pensi però a una contemplazione della morte macabrodannunziana; inquieta semmai che, com‘è evidente negli occhi di Fayum, ad essere risvegliato sia lo
sguardo dei morti. Sono loro che ci guardano, come poi in certo senso (quello del Barthes della Camera
chiara) è connaturato alle immagini. Ci interpellano, ci mettono in questione. (Come nel Torso di
Rilke: «non c‘è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla».) Ne consegue che chi dice «io»
(per esempio nel diario di una visita ad Arles, nei bellissimi saggi su figure sacrificali come Nicolas de
Staël e Mark Rothko, o nel fuoriformato conclusivo di frasi e fotografie) lo fa solo «per curarsi dallo
spavento » che incutono, sempre, le visite dei «fantasmi». La sua è «una passione di spossessamento».
Riprendeva una lunga tradizione Aby Warburg quando diceva che nei dettagli, appunto, si nasconde «il
buon Dio». Si potrebbe simmetricamente argomentare che sia piuttosto, questa, una pratica perversa (e
dunque diabolica); ma senza dubbio il cortocircuito descritto redime la materia più feriale, «totalmente terrena, non mistica», nella sfera del trascendente, diciamo pure del religioso (nel senso più ampio possibile:
dove, dice Anedda commentando Dostoevskij, può venir meno «la distinzione tra credere e non credere»).
Non a caso tale spossessamento viene un paio di volte definito da Anedda «esicasmo», una
pratica ascetica dei Padri del deserto e in genere degli asceti orientali: una preghiera ossessivamente ripetuta in condizioni di totale isolamento - ad esempio al chiuso di una cella - per lo più
di fronte a un‘icona. Quel che conta per l‘esicasta, comunque, è la pratica dell‘attenzione. Si
comprende allora la lezione di «stoicismo» (come viene detto a proposito di un‘impietosa poesia di Zbigniew Herbert) che con risolutezza Anedda trae da questi esercizi di contemplazione.
Per questo - credenti e non - possiamo commuoverci con lei per perdite, magari, meno tragiche delle
sue. Lo ha detto una volta per tutte Walter Benjamin: «se Kafka non ha pregato - ciò che non sappiamo
- gli era propria, in altissima misura, ciò che Malebranche definisce „la preghiera naturale dell‘anima“:
l‘attenzione. E in essa, come i santi nelle loro preghiere, egli ha compreso ogni creatura»
Antonella Anedda, La vita dei dettagli, Roma, Donzelli, 2009.
Man[uela] C[amponovo], In versione vietnamita il bestseller di Giordano, «Giornale del Popolo»,
24 agosto 2009.
Paolo Giordano, Nỗi cô đơn của các số nguyên tố (La solitudine dei numeri primi), traduzione in
vietnamita di Le Thuy Hien, Nhã Nam, 2009.
SEZIONE SECONDA
I Mercoledì dell’ISI
Conferenze e convegni
Sabato 23 gennaio 2010
Quarto Colloquio ISI – Primo ciclo di Dottorato
Aula 254
Ore 9,00
Introduzione: Carlo Ossola
Ore 9,30
Irene Cappelletti, «Le varianti decameroniane: alcuni problemi di metodo»
Gennaro Tallini, «Nuove ricerche sulla Riforma in Valtellina e Valchiavenna: economia, società
attraverso i fondi antichi della provincia di Sondrio»
Ore 10,30: Discussione
Ore 11,00: Pausa
Ore 11,15
Evelina Bernasconi, «Oratori e melodrammi di Carlo Innocenzo Frugoni: spiritualità, innovazioni
e contaminazioni letterarie e musicali»
Sofia Lurye, «La figura e l’opera di Gabriele d’Annunzio nella cultura russa del primo Novecento:
problemi di ricezione»
Ore 12,15: Discussione
Ore 12,45: Fine dei lavori
«Giornale del Popolo», 16 marzo 2010.
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Acta et agenda 2010 - Istituto di studi italiani