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ANNO XLIII N. 11
NOVEMBRE 1995
MENSILE DELL'AICCRE
ASSOCIAZIONE UNITARIA DI COMUNI PROVINCE REGIONI
dal quartiere alla regione per una Comunità europea federale
Un cadaverino musulmano conta meno
di un interesse ecoriomico cristiano
verso la Paneuropa federale?
Se deve essere
l'Europa dei cittadini
Dichiarazione del Comitato di iniziativa e di vigilanza del semestre di Presidenza italiana delllUnione europea e
della Conferenza per la revisione di
Maastricht ''
Il Comitato di iniziativa e di vigilanza del
semestre di presidenza italiana dell'unione
europea e della Conferenza per la revisione
del Trattato di Maastricht esorta i concittadini italiani e le forze politiche, econonliche e
sociali a operare le loro consapevoli scelte,
rendendosi pienamente conto di come in Europa - per noi, come per gli altri paesi del
Continente - si decide il nostro destino a lungo termine. I1 semestre di presidenza italiana
dell'unione europea - nel corso del quale
prenderà awio la Conferenza di revisione del
Trattato di Maastricht - mostrerà la maturità
del nostro popolo e mostrerà se i nostri governanti guardano all'avvenire dei nostri figli
o viceversa alla loro personale soprawivenza
o al loro immediato successo personale.
11 Comitato si rivolge in prima istanza alle
Camere ed al governo - alla vigilia dei dibattiti parlamentari del 5 e del 12 dicembre 1995
- nonché ai membri italiani che nelle istituzioni europee hanno specifiche responsabilità. 11 Comitato si rivolge simultaneamente a
tutti i cittadini italiani, che compaiono esplicitamente come tali nel Trattato di Maastricht
e che hanno diritto -per la modifica del Trattato - ad un metodo nuovo che escluda la diplomazia segreta o decisioni, dalle quali dipende il loro destino, prese in modo che essi
X
9 L'Unione europea non è riuscita neanche a tentare la mediazione portata avanti, bene o male, sino
.E ad una pseudo pace, dalla Federazione americana: il vergognoso coacervo di interessi e di pregiu.-S
dizi differenziati delle componenti dell'unione, che in realtà è una disunione, rappresentano una
3 terribile condanna a priori dei governi che operano la revisione di Maastricht, incapaci ancora di
% proporre un soggetto politico europeo autonomo.
" I1 Comitato, costituito a Roma il 7 luglio 1995, è
comoosto dai raooresentanti del Movimento Federalista
Europeo, deli'Associazione Italiana per il Consiglio dei
Comuni e delle Regioni
dell~AssociazioneEuropea degli Insegnanti, dell'Associazione Universitaria di
Studi Europei, dell'Associazione Stampa Europea, della
Gioventìi Federalista Europea. del Centro Italiano di
Formazione Europea, della Federazione Italiana delle
Case d'Europa
L
L
siano informati solo «a cose fatte». Non si
deve dimenticare che i cittadini sono gli elettori del Parlamento europeo al quale essi bene informati - debbono poter chiedere
conto di quanto si progetta in sede comunitaria. I1 Comitato intende infine richiamare la
responsabilità della stampa e di tutti i media
(a partire dalla televisione), che di regola non
informano - o disinformano - sulla vita del
Parlamento europeo e sulle sue prese di posizione.
Tre questioni per la revisione del Trattato
di Maastricht
I1 Comitato sottolinea tre questioni in vista
della revisione del Trattato di Maastricht:
1. I l metodo di revisione. Secondo la procedura attuale (articolo N), il Parlamento europeo deve essere consultato dal Consiglo sulla
convocazione della Conferenza intergovernativa (il suo parere è obbligatorio ma non vincolante), dopodiché i negoziati di revisione
seguono i tradizionali schemi della diplomazia internazionale. Al termine dei negoziati, le
modifiche elaborate dalle diplomazie vengono sottoposte alle ratifiche o dei parlamenti
nazionali (che possono «prendere o lasciare») o di referendum popolari, senza alcun
parere «ex post» del Parlamento europeo. Le
modifiche entrano in vigore solo se ricevono
il consenso unanime dei quindici paesi membri dell'unione europea.
I1 Parlamento europeo, nella risoluzione
Martin/Bourlanges approvata il 17 maggio
1995, ha affermato che «la fase negoziale della Conferenza deve prevedere un dibattito
più aperto rispetto alle precedenti conferenze» e che «il ruolo dei parlamenti degli Stati e
del Parlamento europeo deve essere rafforzato». Per quanto riguarda il ruolo del Parlamento europeo, la risoluzione del 17 maggio
1995 chiede ai deputati europei membri del
Gruppo di riflessione (Elmar Brok e Elisabeth Guigou) di «sottolineare l'esigenza di un
decisivo cambiamento di metodo nella revisione del Trattato nonché di una piena associazione del Parlamento europeo sia in fase
di negoziazione che nel processo di ratifica».
La Conferenza interistituzionale (cioè l'incontro periodico di Consiglio, Commissione
e Parlamento europeo) dovrebbe «fissare gli
orientamenti relativi alla partecipazione del
Parlamento europeo ai negoziati». Infine - e
come logica conseguenza della sua associazio-
som
ma
r10
3 5 7 9 10 10 11 13 16 -
ne ai negoziati - il Parlamento europeo dovrebbe essere chiamato a ratificare i risultati
della Conferenza esprimendo «il suo parere
conforme*. Su queste questioni, la diplomazia ed il governo italiani si sono finora mossi
lungo la linea tradizionale del ruolo esclusivo
dei negoziati fra diplomatici.
I1 Comitato, nel sostenere la proposta di
mozione presentata alla Camera ed al Senato da decine di deputati e senatori dellYIntergruppo Federalista, chiede al governo
italiano di non procedere alla convocazione
della Conferenza intergovernativa fino a
quando non sarà sottoscritto un accordo interistituzionale fra il Parlamento europeo,
la Commissione ed il Consiglio che introduca nella procedura di revisione del Trattato
di Maastricht il diritto del Parlamento europeo di proporre emendamenti alle modifiche elaborate dalla Conferenza e l'istituzione di un «comitato di conciliazione» (a
somiglianza di quel che awiene nella procedura di codecisione legislativa) chiamato a
definire il testo definitivo della revisione da
sottoporre alle ratifiche nazionali (e, naturalmente, all'approvazione del Parlamento
europeo).
La relatrice del Parlamento europeo per la
Conferenza intergovernativa, on. Raymonde
Dury, ritiene che questa sia la richiesta prioritaria che debba essere fatta dal Parlamento
europeo in vista della revisione del Trattato di
Maastricht e questa richiesta è stata avanzata
dal Movimento Europeo Internazionale in
occasione del Consiglio Federale di Bruxelles
dello scorso mese di aprile.
I1 Comitato aggiunge che il Parlamento
europeo dovrebbe dichiarare di essere pronto a dare il suo parere sulla convocazione
della Conferenza intergovernativa a condizione che i governi accettino di sottoscrivere
un tale accordo interistituzionale.
Il Comitato chiede infine al governo italiano di affermare che esso accetterà i risultati della Conferenza intergovernativa solo
dopo aver acquisito il parere favorevole del
Parlamento italiano e del Parlamento europeo.
2. I1 governo dell'unione europea. In materia di politica economica il «governo» dell'Unione europea è oggi il Consiglio dei ministri
dell'economia e delle finanze. Il Comitato si
chiede se non debba essere rafforzato piuttosto il potere di coordinamento, di controllo e
di intervento della Commissione europea.
Per la politica estera e della sicurezza, il go-
verno italiano si attarda a sostenere l'idea del
piano Fouchet di un segretariato all'interno
del Consiglio dei Ministri mentre altri governi come quelli del Benelux e quello austriaco
sostengono a giusto titolo la necessità di
rafforzare il ruolo della Commissione europea, dando l'incarico al suo interno ad un vicepresidente od allo stesso Presidente.
Il Comitato ritiene che, nella politica estera e della sicurezza, sia necessaria una capacità di analisi, di proposta e di esecuzione
che non può essere assolta con efficacia dalle quindici diplomazie nazionali: questa capacità può essere assolta dalla Commissione,
politicamente rafforzata, creando al suo interno una sorta di «european security council». Su questo punto la posizione del governo italiano va rapidamente corretta.
3. Lo scenavio di crisi. Che succede se una
riforma profonda (noi diciamo: di tipo federale) dell'unione europea non venisse accettata da tutti i quindici governi membri dell'Unione? Che succede se in uno o più degli
otto referendum di ratifica previsti la maggioranza della popolazione dicesse «no» come
accadde nel referendum danese del giugno
1992? Si dovrebbe forse ricorrere ancora una
volta al metodo deleterio degli «opting out» o
a quello inefficace dell'accordo di Schengen?
I1 Parlamento europeo ha affermato, nella ricordata risoluzione del 17 maggio 1995, che
«se nel quadro della Conferenza intergovernativa del 1996 - pur di fronte a posizioni
largamente condivise dalla maggioranza degli Stati e dei popoli dell'unione europea risultasse impossibile pervenire ad una conclusione positiva per il mancato raggiungimento dell'unanimità, bisognerà esaminare
la possibilità di procedere senza la minoranza sino a prevedere strumenti che consentano ad uno Stato membro di lasciare l'Unione
nel rispetto di determinati criteri». È una
delle ipotesi avanzate anche dal Movimento
Europeo Internazionale che, nel ricordato
documento approvato dal Consiglio federale
nell'aprile scorso, ha richiamato il metodo
proposto dal Parlamento europeo con l'articolo 82 del «progetto Spinellin. I1 Comitato
ricorda inoltre la proposta di Jacques Delors:
in vista dell'allargamento bisogna pensare ad
una «grande Europa» (quella ampliata ai paesi dell'Europa centrale ed orientale) e ad una
Federazione di Stati nazionali, essendo l'una
e l'altra dotate di strutture istituzionali auto(segue a pag I S )
Come ruota intorno alla Germania il futuro dell'unione, di Arturo Vancheri
Dov'è l'Unione europea?, di Mattia Pacilii
Dalla cooperazione internazionale alia decentralizzata, di Rairnondo Cagiano de Azevedo
Confronto organico tra Italia e Grecia, di Franco Punzi
Federalismo e partecipazione in Sardegna, di Attilio Poddighe
Un'intensa attività istituzionale
La ricchezza viene dai BOC, di Giulio Cesare Filippi
Il programma a medio termine di azione sociale
I LIBRI: "Breve storia del CCRE"
INSERTO: Quale Repubblica federale italiana?
COMUNI D'EUROPA
NOVEMBRE 1995
verso la Conferenza intergovernativa
Come ruota intorno alla Germania il futuro dell'unione
di Arturo Vancheri
Alla vigilia della Conferenza intergovernativa il clima politico comincia ad agitarsi. Come ha dimostrato il recente dibattito sull'inizio della I11 fase dell'unione economica e monetaria il panorama politico è molto fran-imeritato.
L'atteggiamento di difesa/offesa della Germania può essere letto sotto diverse ottiche.
L'ipotesi più credibile è che si tratti di un gioco della parti tra Kohl e Weigel che ha come
obiettivo non tanto l'Italia, tna altri partners
ed in particolare la Francia.
Non è un caso per esempio che il centro
Studi della Deutsche Bank ha condotto recentemente un'analisi secondo cui la politica
finanziaria francese costituisce il fattore chiave per l'inizio dell'UEM. Nello studio si legge
che «tutto dipende dalla capacità della Francia di ridurre la parte di deficit di bilancio in
rapporto al PIL dal 5 % al 3% entro il 1997,
anno di riferimento per valutare il grado di
convergenza».
Secondo lo studio, se Francia e Germania
non saranno entrambe nel nucleo dei paesi
ammessi all'UEM quest'ultirna dovrà essere
forzatamente rinviata. Lo studio considera
paesi virtuosi o potenzialmente tali l'Olanda,
il Lussemburgo, l'Austria, la Danimarca, 1%landa, il Belgio.
Le tre variabili dell'equazione Unione Europea: L'CTEM, la conferenza intergovernativa,
l'allargamento.
I1 gioco e l'interazione di queste tre variabili è l'elemento cardine del futuro sviluppo
dell'unione europea.
Nell'attuale contesto politico dell'unione
europea, l'elemento «federatore» è costituito
dall'unione economica e monetaria. Il volet
«allargamento» è per contro un elemento potenzialmente contrario ad una maggiore integrazione senza «invenzioni» istituzionali innovative come quella proposta dal gruppo
parlamentare CDU/CSU del «nocciolo solido».
In ordine temporale dunque, è il dibattito
sulle condizioni di inizio della I11 fase dell'Unione economica e tnonetaria a rappresentare
la chiave di volta per gli sviluppi politico-istituzionali dell'unione europea. Se dovesse
perdurare il clima di incertezza quanto all'inizio della 111fase dell'unione economica e monetaria questo avrebbe certamente un'influenza diretta sui lavori della conferenza intergovernativa. Se le prospettive riguardanti
la moneta unica dovessero rilevarsi negative,
la spinta a modifiche istituzionali in senso di
una tnaggiore integrazione politica - di per
sé già molto tiepida - sarebbe certamente
molto meno forte con conseguenze facilmente prevedibili sul contesto politico dell'unione.
In particolare, nel caso in cui 1'UEM doNOVEMBRE 1995
vesse essere rinviata, come chiese più o meno
velatamente Lamberto Dini, la costruzione
comunitaria vedrebbe diminuire il peso specifico del federatore «interno» trovandosi di
fatto esposta al pericolo di iniziare la nuova
fase di adesione in una situazione di debolezza istituzionale e dunque esposta ai venti di
un allargamento che aprirebbe la strada ad
una zona di libero scambio. Anche se la procedura per la determinazione dei paesi che
possono aderire all'UEM a partire dal 1999
non si incrocierà con la conferenza intergovernativa - il cui termine è previsto ufficiosamente per il primo semestre 1997 - non è
difficile ipotizzare un'influenza negativa sulla
C I G nel caso di un imbarbarimento dell'attuale dibattito sulllUEM.
Un primo segnale chiaro sulle condizioni
del passaggio alla I11 fase dell'UEM giungerà
dal Consiglio Europeo di Madrid del prossimo dicembre. I1 Consiglio europeo dovrebbe
confermare la decisione del Consiglio dei Ministri informale di Versailles che ha escluso la
possibilità di fare iniziare la I11 fase dell'UEM
alla prima data utile, il 1 gennaio 1997, lasciando la porta aperta al 1 gennaio 1999. Solo se da Madrid giungerà un segnale chiaro
quanto alle condizioni effettive di entrata in
vigore della I11 fase dell'UEM e della creazion e della moneta unica sarà possibile evitare
dannosi contraccolpi sulla conferenza intergovernativa del 1996. Resta certo l'alea della
possibilità della Francia di aggiungere il treno
più veloce e giungere puntuale all'appuntamento del 1998, data nella quale si determineranno i paesi che possono intraprendere la
tappa finale dell'unione tnonetaria.
Facendo astrazione del dibattito sull'UEM,
le prospettive riguardanti i risultati della Conferenza intergovernativa non appaiono positive. Da una lettura attenta del docuinento del
Gruppo di riflessione traspare con chiarezza
la tendenza a limitare la riforma del Trattato
di Maastricht agli adattamenti politico-istituzionali in un'unione europea a 15. Da ciò deriva in sostanza un'alternativa: concepire le
riforme istituzionali come definitive e in tal
caso assolutamente insufficienti ad assorbire
lo shock del prossimo allargamento; concepire le riforme come tappa intermedia preparandosi ad un nuovo round negoziale per le
modifiche istituzionali necessari alla Grande
Europa.
Entrambi gli scenari sono da giudicare negativamente. I1 primo per o w i e ed evidenti
ragioni, il secondo perché con un'Europa allargata a 19/24 Stati sarebbe di fatto impossibile prevedere da un esercizio Maastricht I11
riforme istituzionali sostanziali tali da modificare la struttura ed il funzionamento dell'Unione. L'unica porta aperta sarebbe costituita
dalla previsione in Maastricht I1 di una procedura di modifica del Trattato ad una ragionevole maggioranza.
A questo giudizio negativo sulle prospetti-
ve della conferenza intergovernativa del 1996
c'è chi oppone il ragionamento secondo cui è
necessario in ogni caso salvaguardare l'acquis
del nuovo Trattato di Unione e puntare a quegli adattamenti minimi - estensione del voto
a maggioranza del Consiglio, semplificazione
ed estensione della procedura di codecisione,
maquillage degli attuali meccanismi della PESC - che permettano di mantenere a regime
la dinamica del processo di integrazione e
prepararsi a sopportare alla tneno peggio il
peso del nuovo allargamento. Chi assume
questa posizione pragmatica dimentica che la
barca comunitaria ha perso già da tempo la linea di galleggiamento e che senza un deciso
ripensamento della struttura e del funzionatnento istituzionale dell'unione i rischi di
affondamento e di paralisi politica sono pressocché certi.
L'assenteismo del191talia
A pochi mesi dall'inizio della presidenza
italiana del Consiglio, si avvertono i primi tiepidi segnali di dibattito. In ragione della completa assenza di indirizzo politico da parte del
Parlamento italiano, è necessario ed urgente
awiare un dibattito politico come ha sollecitato Giorgio Napolitano. Le due prospettive
sul tappeto sono una risoluzione bipartisan
che fornisca gli indirizzi politici del semestre
italiano conle suggerisce Napolitano stesso
e/o un preainbolo alla finanziaria 1996 sempre di natura bipartisan - che colleghi
più strettamente gli obiettivi di risanainento
con le scadenze dell'unione economica e monetaria. Se la prospettiva bipartisan costituisce la naturale risposta agli impegni contratti
dal governo italiano ratificando il Trattato di
Maastricht, essa «coprirebbe» e probabilmente «neutralizzerebbe» le diverse posizioni
sul ruolo dell'Italia nel processo di integrazion e e del suo compito di indirizzo e di stimolo
nei lavori della Conferenza intergovernativa.
C'è infatti da chiedersi quali siano le concrete possibilità di azione del governo italiano
sulla base di un input politico puramente di
facciata del Parlatnento, che nasconda le diversità di visione europea in seno alle forze
politiche dell'arco costituzionale. Ad urne costantemente «aperte» fino a quando non vi
sarà una data certa per le elezioni, la partecipazione dell'Italia all'unione europea è oggi
un tema conflittuale che può influenzare i risultati delle elezioni a seconda delle diverse
posizioni assunte. È d'altro canto un tema che
può causare, specialmente nel centro destra,
delle spaccature trasversali non indifferenti. E
dunque molto difficile che ad «urne aperte»
le forze politiche assumano una decisione
chiara. Se in seno ad Alleanza Nazionale c'è
una inespressa, ma presente posizione antieuropea, le posizioni del centro vanno da una
ignorante benevolenza-indifferenza di BerluCOMUNI D'EUROPA
sconi a sentimenti filo-britannici di Martino,
dall'universalismo europeista di Buttiglione,
Casini, Bianco e Segni al federalismo in salsa
italiana di Bossi. A sinistra le posizioni più definite in termini di europeismo potrebbero
scontrarsi con lo sfasamento temporale tra gli
obiettivi e gli strumenti previsti dell'lJEM. I1
circolo virtuoso previsto in termini di crescita
ed occupazione non si realizzerà entro breve
termine ed inizialmente i costi sociali saranno
tali da ipotizzare una qualche sorta di «distinguo» della sinistra.
Al di là dei tentativi di nascondersi nella
prudente ottica bipartisan in funzione preelettorale, appare indispensabile stimolare una
riflessione seria ed articolata di quali siano gli
interessi strategici italiani all'interno dell'Unione europea. I1 dibattito per la verità non
decolla ed i mass-media, al di là dei rdessi del
semestre di presidenza italiana sulle vicende
politiche del governo Dini, non si pongono
minimamente la questione in termini problematici.
Su mass-media quello che «tira» oggi è un
crescente sentimento anti-tedesco. In realtà
questo dibattito, che ha per la verità le sue ragioni d'essere, è comunque mal posto. I1 presunto attivismo tedesco, non solo in termini
economici ma anche politici, non è solo prova di un rinnovato dinamismo del Gigante.
Ma è anche la prova di una crescente disgregazione del resto dell'lJnione europea e della
sua incapacità di alimentare la politica europea che non sia il riflesso delle convulsioni
delle politiche nazionali. L'Inghilterra sempre
più chiusa in sè stessa ed in perdita di velocità
nelle relazioni con gli Stati Uniti. La Francia
che ripropone un rinnovato modello gaullista
per riprendere l'antica grandeur ormai compromessa da uno scenario internazionale radicalmente mutato. Una Spagna che si agita
nella difesa pura e semplice dei propri interessi di portafoglio nei confronti delle istituzioni comunitarie seguita dalla pattuglia Portogallo, Irlanda e Grecia. Un Italia assente e
distratta.
Il determinismo confederale di Maastricht I
Di fronte a questa situazione è chiaro che
sia il determinismo intergovernativo di Maastricht I ad avere la meglio e che la deriva tedesco-centrica finisca inevitabilmente per affermarsi. Occorre allora riassumere un'iniziativa che non sia anti-tedesca, ma che possa agire alla radice dei problemi. Occorre
contrastare il determinismo di Maastricht I
ed il progressivo scivolamento confederale
dal quale l'Italia ha tutto da perdere se dovesse consolidarsi. Sono noti i perniciosi
problemi nati dal Trattato di Mastricht: una
struttura istituzionale unica solo nominalistica che, nascondendosi tra la moltitudine delle procedure previste a titolo dei diversi pilastri, è causa di ingovernabilità e incapacità
di creare processi politici efficaci; l'applicazione di un principio di sussidiarietà che di
fatto comporta una sorta di negoziato permanente tra gli interessi comunitari ed interessi nazionali, esponendo l'Unione europea
ad opposizioni di principio al suo intervento
nei settori dove è più forte l'interesse specifico di uno Stato membro e alla mancata
composizione degli interessi comunitari essenziali.
Da ciò discendono i problemi che compromettono una positiva evoluzione dell'integrazione europea anche in termini di rispondenza tra interesse nazionale italiano ed interesse
europeo. Gli esempi sono molti, ma in linea
generale si assiste ad un nuovo clima conflittuale su tutti i dossier aperti in seno al Consiglio ed in tutte le sue articolazioni (Corper,
Gruppi di lavoro) e agli organismi della comitatologia.
I1 caso della PESC è da questo punto di vista esemplare. La schizofrenia tra il volet economico, basato sul metodo comunitario, ed il
volet politico, basato sulla cooperazione intergovernativa, ha finito per comportare oltre
ad assoluta mancanza di impatto delle cosiddette azioni comuni, un indebolimento dell'azione economica esterna dell'unione. È stata
confermata la previsione secondo cui la mancanza di coesione politica (intergovernativa)
avrebbe condizionato l'efficienza e la credibilità dell'azione economica esterna dell'unione. La Cooperazione negli affari interni e giudiziari ha dato prova di scarsa efficacia soprattutto per quelle politiche, come quella di
immigrazione e di asilo, che assumono un
fondamentale interesse dell'unione nei confronti dei paesi terzi e che interessano in misura crescente la pubblica opinione europea.
I1 vero limite dell'unione economica e monetaria non è costituito dai famosi criteri di
convergenza per giungere alla moneta unica
ed alla banca centrale europea, ma dalla debolezza dei meccanismi previsti per il funzionamento dell'unione economica. In particolare, mancano strumenti adeguati per una politica di stabilizzazione e di redistribuzione che
agiscano nel momento in cui si manifestano
shocks che colpiscono in modo simmetrico ed
asimmetrico l'insieme dell'Economia europea
o una parte di paesi. I1 problema della stabilizzazione di un'economia regionale diventa
un fattore fondamentale nel quadro delI'UEM, poiché i paesi membri perdono la
possibilità di utilizzare gli strumenti di politica monetaria e del cambio. Una politica di
stabilizzazione e di redistribuzione necessita
di un aumento del bilancio comunitario, peraltro non eccessivo e dunque compatibile
con le politiche di risanamento dei bilanci
pubblici, e di un reale coordinamento delle
politiche fiscali.
Correggere Maastricht I
Superare il determinismo di Maastricht I,
quindi la rassegnata attesa di eventi ineludibili e non più modificabili, corrisponde a ricercare quelle strade che permettano di riparare
gli errori compiuti nel biennio 1990/1991 ed a
operare efficacemente nel contesto della nuova situazione politica continentale e mondiale.
Per molti, correggere gli errori significa
operare sui famosi criteri di convergenza. Ma
non è questo l'errore da correggere. Se si volesse operare su questa ipotesi, come Chirac
sembrava pensare prima delle elezioni presidenziali, verrebbe di fatto sabotato il federatore interno ed aperta la porta, nella prospettiva dell'allargamento ad uno snaturamento
della costruzione comunitaria.
La prima cosa su cui operare è modificare
il contesto confederale entro cui la Germania
è il paese che incassa i maggiori dividendi politici ed economici. I negoziatori ed i responsabili politici che hanno costruito questo
Trattato hanno perso l'occasione per anticipare ed accompagnare gli avvenimenti della rivoluzione del 1989. Eppure, le conclusioni
del Consiglio europeo di Strasburgo del 1989
aprirono un processo incoraggiante: la riunificazione della Germania doveva andare di
pari passo con l'integrazione europea. Malgrado che l'unificazione tedesca precedesse la
riforma della Comunità, la Germania accettava un più stretto vincolo con l'Europa. Gli altri 11 partners dovevano fare tesoro di questa
posizione per imporre un diverso modello di
integrazione. Per volontà politica premeditata e/o per mancanza di visione politica prospettiva, i negoziatori di Maastricht hanno invece aperto la porta alla frammentazione dell'Europa, alla ri-nazionalizzazione delle politiche comuni, al ritorno del «marchandage»
permanente senza nessuna composizione degli interessi «essenziali» comunitari. Maastricht I è stata in sostanza un'occasione mancata. L'arena confederale entro cui si è svolta la
recente dinamica politica dell'TJnione europea è stata causa dei grandi guasti nell'area
dei Balcani. Operando liberi da vincoli solidaristici gli Stati membri hanno ritrovato il
gusto della realpolitik. Ne sono esempi i comportamenti politici e diplomatici in occasione
della drammatica soluzione della Ex-Yugoslavia con il frettoloso riconoscimento di Croazia e Slovenia.
Correggere gli errori di Maastricht I significa operare in favore di una riforma istituzionale che apra la porta con sicurezza ai paesi
dell'Europa centrale ed orientale e che impedisca occasioni di ulteriore frammentazione e
di deriva intergovernativa. La proposta del
nocciolo solido, avanzata dalla CDU/CSU ha
fornito un'ipotesi di lavoro a cui gli altri partners hanno risposto con sdegno, ma che aprirebbe, se valutata con saggezza e ponderazione e bonificata da elementi di opacità (la flessibilità del Consiglio), una prospettiva meno
oscura per futuro dell'unione. Scartarla a
priori o peggio esserne indifferenti sarebbe
un'errore gravissimo come non aver sfruttato
le possibilità aperte dal Consiglio di Strasburgo e come aver perso l'occasione al Consiglio
europeo di Lisbona del 1992 di far precedere
un ulteriore approfondimento all'allargamento dei paesi scandinavi e dell'Austria. Una
riforma istituzionale, da applicare ad un nocciolo duro o a tutti gli Stati, non può che porsi l'obiettivo di creare un autentico sistema di
governo europeo che permetta di poter assicurare l'efficace realizzazione delle politiche
dell'unione europea nella loro diversa articolazione e conformemente ad una corretta applicazione del principio di sussidiarietà.
Una corretta applicazione del principio di
sussidiarietà, che risponda alle finalità ad essa
conferita dalla teoria giuridica, necessita in
via preventiva la definizione delle politiche
che devono essere attuate a livello dell'unione ed a livello degli Stati membri. I1 principio
di sussidiarietà verrebbe applicato al fine di
determinare se e come un'azione dell'unione
è necessaria nell'ambito delle cosiddette
(segue a pag 14)
NOVEMBRE 1995
il cosmopolitismo in una Comunità montana
Dov'è l'Unione europea?
Sono passati tre Capodanni.
di Mattia Pacilli *
I pesi mi rono divenuti insostenibili (. . .)
Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto (Famiglia Cristiana n. 29 del 19-7-1995).
Così ha firmato il drammatico addio Alexander Langer, prima di consegnare i suoi 49 anni a d un albero di Pian dei Giullari nella
campagna fiorentina. E il testamento di un
ecologista e di un pacifista, presidente del
gruppo Verde nel Parlamento europeo, logorato dalle violenze consumate dovunque contro l'ambientc e i suoi abitanti e finito dall'odio per l'umanità registrato in Bosnia-Erzegovina, una volta regione di convivenza interetnica e multiculturale balcanica.
Accuso l'Occidente debole e ipocrita. Non
abbandono il popolo bosniaco: la mia é una
protesta che faccio a nome di tutti loro per l'ipocrisia con cui sono stati trattati e per il sistema dei due pesi e due misure con cui la comunità internazionale misura il rispetto dei diritti umani. In Bosnia sono ormai in gioco iprincipi della civiltà e la stabilità dell'ordine mondiale. (La Stampa, 1-81995). È la polemica
uscita di scena di Tadeusz Masowiecki dalla
missione di relatore speciale dell'ONU per i
diritti umani dell'ex-Jugoslavia. Le plateali
dimissioni sono quelle di un esperto tradito
d a chi l'ha coinvolto; prima d i accettare il
ruolo affidatogli dalle Nazioni Unite, è stato
consigliere politico di Lech Walesa nella stagione di Solidarnosc e capo del primo govern o democratico polacco successivo alla caduta del comunismo.
U n suicidio e un rifiuto d'incarico per
l'impossibilità di sopportare le situazioni.
Succede quando le parole cadono nel vuoto
obbligando chi le pronuncia a reagire con il
gesto nudo e incisivo, talvolta tragico e irreversibile.
Sono stati raccolti i due segnali lanciati tra
l'inizio e la fine di luglio? Chi vuole saperlo
non ha che d a sfogliare i quotidiani. I serbi
schiacciano Zepa. L'occidente resta fermo (I1
Sole 24 O r e 16-7-1995).Silenzio dei serbi sul-
le fosse comuni Monito dell'ONU: lasciateci
indagare (La Stampa 12-8-1995). Krajina, i
campi croati Rapporto Onu sulle stragi contro
iserbi (Corriere della Sera, 19-8-1995).Tre titoli sono sufficienti a sintetizzare emblematicamente I'intricata vicenda: dalle zone mussulmane tutelate dall'ONU e sotto tiro serbobosniaco, agli scontri tra serbi e croati.
Agli occidentali non sembra vero trovare
negli sviluppi motivi validi per dichiararsi
estranei alle faccende balcaniche. All'ovest
ormai la mente e il cuore si sono abituati al ritornello replicato dai giornali radio-televisivi
e dalla carta stampata; le immagini e le descrizioni più crude sono sommerse dalla va-
" Presidente della Casa d'Europa di Bassiano. Questo articolo è apparso sul no 9/93 del mensile «I Lepinin periodico della XIII Comunità montana «Monti Lepinin
della Regione Lazio.
NOVEMBRE 1995
langa dei fatti politici, delle emergenze finanziarie, delle cronache sportive, della presentazione di spettacoli e di annunci pubblicitari assordanti: in questo modo la realtà si
stempera, sconfinando nella finzione totale.
I1 gioco tranquillizza il destinatario delle notizie mentre lo deresponsabilizza, convincendolo che in fondo il conflitto è questione regionale, circoscritta in limiti territoriali definiti. La giornalista Barbara Spinelli ha tracciato un quadro esemplare del fenomeno,
commentandolo senza sfumature:
Da quando il governo della Croazia ha deciso di opporre la guerra alla guerra e di dzyendere l'integrità del proprio territorio statale impegnando l'esercito contro le iniziali aggressioni serbe, gli occidentali si sentono come sbarazzati da una oppressione, una angoscia. rono
finiti i sensi di colpa, sono evaporate le preoccupazioni etiche:finalmente si offre l'opportunità di rimettere sullo stesso piano aggressori e
aggrediti, e scegliere non è più necessario e opportuno. La guerra balcanica smette di apparire l'evento precursore che è sempre stato, rincomincia ad essere una barbarie locale, e l'Occidente può ritornare alle sue abitudini predilette: disquisire sul bene e sul male senza che le
parole abbiano rapporto con l'azione, concentrarsi interamente sull'autoanalisi, transigente
o severa a seconda di come rono rammemorati
quattro anni di trascurataggine, di pusillanimità e di accidia (La Stampa 12-8-1995).
D'altra parte Mazowiecki era stato chiaro
- rispondendo ad una precisa domanda di
Jas Gawronski che lo intervistava - riguardo
alla presunta pari responsabilità delle parti,
strumentalmente accreditata dagli esperti:
Chi sostiene che non cJèné una vittima né un
aggressore lo fa solo per comodità, per giustifcare la propria incapacità a prendere una decisione. In questa guerra c'é chiaramente una
vittima e un aggressore. E la vittima è uno stato riconosciuto internazionalmente e membro
dell'ONU, la Bosnia Erzegovina. Io già da
tempo avevo messo in guardia nei miei rapporti che metodi simili agli aggressori sarebbero
stati adottati anche dalle altre parti in lotta.
Ma che siano stati i serbo-bosniaci ad iniziare
la pratica della pulizia etnica, non ci sono dubb i Poi certo l'hanno adottata i croati e aggiungo che i mussulmani non sono degli angeli
nemmeno loro. Tutti hanno dei crimini sulla
coscienza, ma non nella stessa misura. E da
parte dell'occidente si cerca di confondere le
idee, di non esprimere delle valutazioni chiare,
di camuffarela realtà di un aggrersore contro il
quale bisognerebbe intervenire. Il tutto per
giustificare la propria inattività, per crearsi l'alibi; non facciamo nulla perché non sappiamo
chi abbia torto e chi ragione. Ci si limita a dire: questi popoli dei Balcani sono tutti insopportabili, e noi ce ne laviamo le mani. E lei
parla con qualcuno che, quando l'ha ritenuto
giusto, ha dzfeso i serbi (La Stampa 1-8-1995).
L'agire inconcludente degli occidentali diviene tragicomico il 20 agosto quando non
riescono ad assicurare neppure l'arrivo a destinazione della delegazione di pace americana, che lascia tre dei suoi diplomatici sul terreno prima di giungere a Sarajevo: Il mistero
del monte Igman - titola «La Repubblica» il
giorno successivo - mina o incidente? Una
commissione di esperti dell'ONU e americani
indagherà sull'accaduto: versioni contrastanti
sulla morte degli inviati USA. E il cardinale di
Sarajevo Puljic, commenta durante la messa
in cattedrale: La strada dell'Igman è la rtrada
della vergogna d'Europa! L'Igman -riprende
il cronista - è un tortuoso tratturo di terra
battuta tra boschi e scarpate che la comunità
internazionale si è lasciata imporre da Karadzic come unica via d'accesso a Sarajevo, pur
avendo tutti i mezzi per aprire la strada principale per Kisjeliak come vantava qualche mese
fa a Vitez il tenente colonnello britannico Jeff
Cook (La Repubblica, 21-8-1995).
In barba alle incertezze e sotto lo sguardo
cinico e distratto dei cittadini occidentali,
continua la strage degli innocenti e l'elenco
dei bambini uccisi si allunga: Mentre la diplo-
mazia si blocca per l'incidente sul monte Igman, la guerra continua a mietere le sue vittime privilegiate di questo conflitto: sette ragazzi (sei secondo alcune fonti) rono morti in meno di 24 ore; l'episodio più grave è successo a
Gorazde (enclave mussulmana, n.d.r.). . . Cosa
farà ora I'ONU? Che cosafarà ora la NATO?
Nulla, dicono. D'altra parte i caschi blu delle
Nazioni Unite si stanno ritirando, lasciando
sui campo solo venti osservatori militari Gli
Stati Uniti ritengono la città indifendibile (. . .)
e la NATO ha minacciato rappresaglie, ma solo in caso di attacco massiccio. Ieri ci sono stati solo un paio di colpi di cannone e solo tre
bambini morti (La Repubblica 21-8-95).
D'altra parte, all'ovest, l'opinione pubblica non esercita alcun tipo di pressione sui governi nazionali, le istituzioni e gli organismi
sovranazionali; non si hanno notizie di richiami ai deputati dei parlamenti dei singoli paesi e a quelli dell'assemblea europea d a parte
degli elettori, che li hanno investiti di missione con il suffragio universale; non si sentono
contestazioni sotto le finestre dei ministeri
degli affari esteri.
In famiglia, sul posto di lavoro e nei luoghi
del tempo libero la gente preferisce investire
energie nella sterile dialettica fra neutrali e
interventisti, privilegiando le chiacchiere sulle azioni. Ma non bisogna esagerare perché
c'è anche chi approva e sostiene gli atti di generosità promossi da singoli o gruppi impegnati nel raccogliere fondi, vestiario, medicinali e generi alimentari allo scopo di alleviare
la sofferenza di sfollati e di profughi.
La distrazione e la connivenza dei più sono premiate da alcuni organi d'informazione
che, sapientemente diretti, danno grandissi-
mo rilievo al pacifismo folclorico; come la catena umana del giorno di ferragosto lungo le
coste adriatiche (per restare in Italia): forse
un milione di persone che - tenendosi per
mano e rivolte verso la riviera dell'ex-Jugoslavia - hanno gridato: pace, pace, pace.
Fatta la buona azione, i bagnanti sono tornati a godere del solleone mentre le bombe continuavano a cadere sull'altra sponda.
Quasi senza eccezioni le reti tv hanno magnificato la solidarietà offerta a due piccoli
mutilati della guerra di Bosnia, portati awenturosamente in Italia per essere curati. Sul
dramma di Aladin e Sanja, rimasti ciascuno
senza una gamba, la televisione nazionale è
riuscita a costruire una telenovella che ha
commosso l'Europa: con gli spettatori nella
parte dei buoni e dei generosi, che contribuiscono alle spese per le protesi da applicare ai
bambini in ospedale specializzati e per la loro riabilitazione in centri attrezzati. Già in altri momenti dall'inizio della guerra, le case
erano state inondate da immagini capaci di
commuovere, mentre è proprio l'emozione
pilotata che svilisce ogni forma di solidarietà,
rendendola perfino offensiva. Nell'ex-Jugoslavia c'è chi non gradisce più la sceneggiata.
Scrive Zlatko Dizdarevic, giornalista: Ma
Sarajevo non crede più alle lacrime. Ho incontrato per strada in questi giorni un ragazzo che
avevo conosciuto due anni fa all'ospedale. Ho
incontrato per essere precisi - il suo sguardo,
che non potrò scordare mai. Quell'inverno alla vigilia del Capodanno 1993, senza una gamba (una granata gliela aveva portata via mentre giocava davanti casa) m i aveva detto:
«Aspetto babbo Natale che mi porterà una
gamba nuova.. . M .
Sono passati tre Capodanni, babbo Natale
arrivava ma non gli portava mai la gamba. Ogg i lui ha nove anni e non aspetta più babbo Natale. Non aspetta niente, ma se ne sta seduto
davanti a casa su una panchina distrutta, e
guarda i suoi coetanei, quelli che sono ancora
qui, che corrono dietro ad una vecchia palla o
saltano sulle carcasse di quelle che una volta
sono state automobili. A lui nessuno chiede
più niente, a lui nessuno ha mai fatto un'intervista, a lui nessuno ha offerto una trasmissione
televisiva. La sua gamba perduta non è mai entrata per chissà quale caso, in una di quelle periodiche ondate di pulizia generale delle coscienze, strazianti e bizzarre, che si vanno facendo sempre più frequenti nel grande mondo
umanitario. L'immagine di Lejla grondante
sangue tra le braccia della madre sconvolta, che
ha fatto di recente il giro del mondo, è certo
un'immagine drammatica (. . .).Èfuor di dubbio che tutti i discorsi su Aladin di Bihac, il ragazzino senza una gamba, possono avere un
senso, tanto senso quanto ne ha domandare ad
un bambino: come ti senti senza una gamba?
Può servire a placare periodicamente le coscienze e dare a chissà chi, chissà dove, il coraggio di guardarsi di nuovo allo specchio e di
addormentarsi più tranquillo (.. .).
I dati - dati verifcabili e affidabili dicono
che in questo disgraziatopaese dall'aprile 1992
ad oggi, sono stati uccisi 16.822 bambini,
34.581 sono stati feriti. E la stragrande maggioranza di loro rimarrà invalida a vita, naturalmente se sopravviverà (.. .). Nessuno dei
due maggiori ospedali di Sarajevo, dicono i direttori, è stato visitato nell'ultimo anno da
giornalisti, da intellettuali in viaggio alla nostra città, da politici e da esponenti in genere di
quella pleiade in corsa per visitare questo incredibile giardino zoologico (.. .). Stamattina a
Sarajevo è stato ucciso un altro bambino di sei
anni. Noi a dire il vero non sappiamo chi ha
sparato, da dove è arrivato il proiettile perché
l'assassino abbia sparato, perché sia impossibile impedirlo, chi è che lo permette e che cosa
ne pensa la forza di reazione rapida, i cui soldati giocano a pallone sul prato e sui monti attorno a Sarajevo. Voi lo sapete?
Il bambino assassinato non ha avuto possibilità di sopravvivere, di essere trasportato in un
Paese bello ed assolato, di essere intervistato e
nutrito di gelato al cioccolato, e di sentire tutti
sospirare sulla sua cattiva sorte. Che peccato per
coloro che potevano costruirci sopra un bel racconto! A questi bei racconti Sarajevo non crede
più. Neanche il giardino zoologico è più come
una volta (La Repubblica 17-8-1995).
Come il testamento di Langer e le giustificazioni di Mazowiecki il brano dello scrittore
bosniaco mette sotto accusa la nostra civiltà,
con l'aggiunta di una dose di sapiente ironia.
Ogni cittadino occidentale è tenuto a sentirsi
interpellato; ma i primi ad entrare in crisi devono essere quanti si ritengono protagonisti
nella costruzione dal basso dell'unità del vecchio continente, si definiscano membri del
Movimento Federalista Europeo, soci del
consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa, aderenti alla Federazione Internazionale
delle Case d'Europa (chi scrive è tra questi
ultimi). L'interrogativo mirato è: per quale
Unione lavorano, chi sono i loro compagni di
viaggio, verso quale approdo sono diretti?
Allora tornano in mente le grandi parole
d'ordine: per un'Europa libera ed unita
(MFE), gemellaggi per l'unione europea e per
la pace nel mondo (AICCRE), informazioni
formazione europea senza frontiere (FIME). E
agevole rendersi conto che le espressioni mirabili attendono ancora d'essere compiutamente tradotte in concretezza; perciò non resta che mettersi in questione rilevando come
gli sforzi di decenni prodotti da cittadini determinati, amministratori locali, associazioni
europee vengano svuotati senza pudore dalle
strategie intergovernative e dalle diplomazie
nazionali, le stesse che condizionano istituzioni comunitarie e organismi mondiali.
Almeno questa porzione di umanità è
chiamata a ribellarsi; altrimenti faccia a meno
di sfoggiare erudizione quando parla di federalismo: non scomodi più Kant, Hamilton,
Cattaneo, Spinelli ed altri maestri del vivere
in società. All'opera sistematica di smantellamento dell'Europa delle regioni e dei cittadini bisogna contrapporre un movimento vasto
e capillare, che interpreti l'esigenza e rivendichi il diritto ad essere governati con logica sovranazionale, l'unica in grado di assicurare
l'effettiva cooperazione pacifica tra i popoli.
L'urgenza dell'intervento è richiesta dalla
constatazione che gli elettori, chiamati a controllare i propri governanti, sembrano piuttosto predisposti ad adeguarsi al loro modello
di disimpegno sfrontato.
È comodo dimenticare l'anno 1989, quando anche i sostenitori dell'Europa di base si
unirono al coro di ewiva, che salutava la caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi comunisti: Benvenuti in Europa, benvenu-
e
ti nell'area della libertà si diceva; ma da allora le autorità dei paesi comunitari hanno lesinato gli aiuti economici, per paura che gli europei di serie A dovessero ridurre consumi e
sprechi. Eppure soltanto un sostegno del genere avrebbe reso autorevole l'occidente agli
occhi dei contendenti balcanici; mentre proprio tale discriminazione ha incoraggiato i vicini d'oltre-Adriatico a mangiarsi tra loro.
Infatti alla base delle rivendicazioni autonomistiche o nazionalistiche, prima dei conflitti etnici travestiti da guerre di religione,
c'è la povertà antica impossibile da superare
con le proprie forze. Tra quanti hanno negato il sostegno esterno non manca chi ha nostalgia di Tito dimenticando che il maresciallo non aveva risolto il problema; lo aveva
semplicemente gestito con il suo carisma e
con il ricorso a misure economiche adatte ad
alleviarlo, ritardando l'esplosione della bomba ad orologeria.
Quindi l'ovest deve decidersi a condividere le risorse con gli altri popoli, superando la
paura di perdere sicurezze e privilegi acquisiti; preoccupazione che lo spinge a chiudersi
nella propria cittadella fortificata. Inoltre gli
occidentali son tenuti a rinunciare per primi
a parte dei poteri nazionali trasferendoli alI'ONU e all'unione Europea, istituzioni
chiamate a fondare un nuovo ordine continentale e mondiale ma prive della dimensione di reali soggetti politici. Non c'è altra maniera per darsi alle spalle le indecisioni rivelate nel corso dei quattro anni di guerra.
A meno che non si voglia continuare ad
agire in base alle contraddittorie premesse
poste: le Nazioni Unite hanno accolto nel loro seno la Bosnia prima di aver stabilito un
criterio per assicurare la convivenza delle comunità mussulmana e serba, gelose ciascuna
della propria autonomia; e alcuni paesi dell'Unione si sono coperti di ridicolo decidendo di procedere in ordine sparso nella scomposta corsa al riconoscimento ora della Slovenia, ora della Serbia, ora della Croazia prima di avere la garanzia di confini internazionali sicuri. Troppa euforia è stata espressa
nella fretta di chiudere con l'esperienza socialista, senza aver approntato un quadro di
riferimento di sostegno e di pressione in base
al quale operare di concerto, vincolando gli
interlocutori con il credito contratto nei loro
riguardi.
Al di là di tutto, il male di fondo resta il
pregiudizio che non consente di considerare
gli ex-Jugoslavi «occidentali a tutti gli effetti». Questo è il punto nodale, perché prima
che lo scannatoio travolgesse ogni barriera
- compresa quella familiare rappresentata
dai matrimoni misti o quella dei beni culturali patrimonio dell'umanità (biblioteca di
Sarajevo, ponte di Mostar, centro storico di
Dubrownik) - bisognava ricordare a serbi,
croati, bosniaco-mussulmani e serbo-bosniaci la loro comune matrice: l'essere tutti
ugualmente slavi dell'Europa del sud, e di
non poter disperdere impunemente questo
comune denominatore. Era necessario sottolineare che se le contingenze storiche hanno
fatto di alcuni di loro dei cristiani (spartitisi
poi in cattolici e ortodossi) e di altri dei mussulmani, queste sono diversità da trasformare in reciproco arricchimento e non giustifi(segue a pag IS)
NOVEMBRE 1995
una sfida per il domani
Dalia cooperazione internazionale alla decentralizzata
di Raimondo Cagiano de Azevedo *
111 progetto migratorio
L'analisi delle cause della dinamica dei
flussi migratori che va dai paesi del Terzo
Mondo verso i paesi industrializzati mette in
evidenza nuovi aspetti di questo fenomeno
che è d'altronde in espansione e difficile da
controllare. L'emigrazione di provenienza dal
Terzo Mondo non può essere assimilata alla
emigrazione tradizionale più o meno volontaria di manodopera, dal momento che questa
è generalmente regolata da accordi internazionali che dovrebbero giovare tanto ai paesi
di origine quanto ai paesi di destinazione. I
primi grazie a una riduzione della disoccupazione e delle rimesse, i secondi per l'occupazione di domande di lavoro vacanti.
La limitazione di flussi migratori che vann o oltre la capacità di assorbimento dei paesi industriali è diventato l'obiettivo da raggiungere per la cooperazione internazionale.
I problemi «macro» dei rapporti fra i paesi
dell'Africa del Nord e l'Europa che preoccupano molto i governi, le polizie e coloro che
si occupano dei trattati di Maastricht, di
Schenghen, delle politiche sociali, dell'ordine
pubblico, hanno all'origine decisioni di tipo
razionale, prese all'interno delle famiglie nei
paesi d'origine; vale a dire una decisione «micro» presa in un sistema micro, una famiglia
o un villaggio e in questa prima decisione i
giovani e i bambini hanno una grande influenza. Dico semplicemente bambini per dire le generazioni più giovani e dunque i rapporti fra le generazioni. La decisione di emigrare è presa in modo scientifico e razionale
all'interno di ogni famiglia, dove nella ripartizione dei ruoli del lavoro uno dei membri è
destinato a restare a casa per occuparsi dell'agricoltura, un altro può occuparsi dei piccoli commerci e del trasporto, qualcun altro
può cercare di procurarsi delle nuove risorse
finanziarie.
Questo significa andare a lavorare all'estero e inviare delle rimesse o ancora portare
beni di consumo o di investimento. In questa
prospettiva micro il progetto migratorio tende a rinforzare i legami familiari nella dimensione più tradizionale delle famiglie allargate
ai villaggi delle zone d'origine. La migrazione
individuale considerata come un progetto razionale in un quadro di decisioni economiche
integrate rinforza il carattere di progetto e le
decisioni non economiche che vi sono collegate si trovano ugualmente rafforzate. Così la
decisione di sposarsi, del numero dei bambini e dell'intervallo fra le nascite, talvolta il
rimpatrio, diventano tappe di un processo
largamente pianificato che aiuta a comprendere il passaggio rapido di alcune popolazioni, per esempio quella del Magreb attraverso
le tappe della transizione demografica mo-
" Professore ordinario di Demografia all'Università degli
Stiidi di Roma «La Sapienza».
NOVEMBRE 1995
derna. I1 progetto del migrante è così una
parte di un progetto familiare e al tempo
stesso diventa un progetto per i figli e rapidamente forse una parte del progetto dei suoi
figli stessi. La sintesi di questa progettualità è
evidente nell'insieme dell'economia dei villaggi e delle zone d'origine e di appartenenza
dei diversi gruppi di migranti. In funzione di
questa appartenenza l'individuo, uomo o
donna, destinato per decisione razionale all'emigrazione, deve e p u ò apportare delle risorse addizionali non solamente in termini finanziari attraverso le rimesse, ma anche sotto
forma di beni di consumo o di beni durevoli,
automobili, camion in generale, ma anche di
beni destinati al piccolo commercio, alla distribuzione o ai consumi durevoli.
Una volta presa la decisione di immigrare
si apre per qualcuno la strada del movimento
migratorio con tutte le sue complicazioni e le
sue vicissitudini. Normalmente la prima risposta che i migranti incontrano è una risposta di tipo macro: in effetti incontrano una
frontiera, uno Stato, e di solito non una famiglia nella quale integrarsi.
Questa risposta non corrisponde al progetto iniziale ma al progetto finanziario,
quello delle rimesse, e questo è ancor meno
una risposta a quella parte della decisione
che è in relazione con le generazioni più giovani. I1 primo impatto è dunque una risposta
macro, che sia quella della rotazione che sia
quella dell'integrazione, risposte che hanno
diviso le esperienze politiche dei paesi europei negli anni Sessanta e Settanta. Si tratta di
inserire volontariamente o meno i fenomeni
delle migrazioni in un sistema di rotazione
che sostituisca coloro che non sono più funzionali; o in un sistema di integrazione che
trattenga coloro che servono, che sono utili,
e favoriscano il rimpatrio di coloro che invece non lo sono, o forme miste fra i due sistemi. Dire servono o non servono nel campo
delle migrazioni noil significa soltanto riferirsi al mercato del lavoro ma anche ad altre forme di equilibrio in termini sociali e domestici. Fra i paesi che hanno alternato questi due
tipi di politiche la Germania, che ha severamente criticato per molti anni le politiche di
integrazione, la pratica su larga scala e con
convinzione. L'Italia ha invece un atteggiamento diverso, ma naturalmente non si allontana dalle risposte macro, trascurando così i
fattori dei giovani. E evidente che nella risposta di tipo rotazione la questione familiare e del rapporto fra le generazioni è normalmente ignorata. Nel caso dell'integrazione la
questione intergenerazionale è ricuperata attraverso la formula delle riunioni familiari e
questo ci fa capire che una risposta del genere macro non ha naturalmente trovato che
una collocazione marginale nelle legislazioni
europee. Gli effetti macro di questi comportamenti devono ancora essere studiati benché alcune conseguenze siano già visibili. In
Marocco per esempio nel 1994 le rimesse de-
gli emigranti, senza contare il commercio in
natura, è stato dell'ordine di 20 miliardi di
dirham seguendo le indicazioni delllUfficio
Nazionale dei Cambi: equivalente dunque al
50% del valore dell'esportazione complessiva del Paese, al 30% delle importazioni, a
una volta e mezzo il valore del turismo, a due
volte e mezzo quello dei fosfati e soprattutto
equivalendo al 100% dell'interesse totale del
debito esterno del Marocco. Ecco in che mod o il risparmio dei lavoratori migranti marocchini permette di pagare gli interessi sul
debito pubblico del Paese senza tener conto
degli effetti che questo comporta sull'economia locale delle zone di origine.
Questi effetti dovranno essere esplorati
molto di più e delle ricerche importanti cominciano a farlo anche se con molta difficoltà. Ciò malgrado si può constatare come i
movimenti importanti di risorse trasferite da
emigranti in divisa o in natura hanno la capacità in se stesse di creare uno spazio economico transnazionale di cui una parte illegale.
In questo spazio i migranti sono i veri attori
e le nuove regole una nuova cooperazione: la
comunità degli emigranti come fattore di
cooperazione non è più una visione retorica
o astratta ma una parte fondamentale dell'economia contemporanea con numerose applicazioni di ordine politico, sociale e culturale.
La cooperazione decentralizzata
Se è vero che tutte le iniziative di cooperazione favoriscono in qualche modo la creazione di condizioni che permettono di assorbire manodopera locale, interventi particolari saranno necessari per regolare il problema
dell'emigrazione. Potrà trattarsi di iniziative
individuali o di piani di cooperazione, di accordi politici a scala multilaterale con i governi dei paesi in via di sviluppo e d anche la
partecipazione a studi e d attività di ricerca
condotti nel campo della migrazione.
La creazione di un mercato interno europeo ha avuto delle ripercussioni importanti
sull'economia dei paesi della riva sud e della
riva orientale del bacino mediterraneo, ma in
mancanza di cooperazione economica il debito esterno di questi paesi potrebbe accrescersi e gli inconvenienti politici, così come
gli squilibri demografici, potrebbero aggravarsi nella regione.
Le emigrazioni dovranno quindi far parte
integrante di una nuova politica di cooperazione regionale che dovrà essere messa in
opera su basi negoziate e istituzionali. Sarà
anche bene formulare una vera e propria politica europea dell'emigrazione nel quadro
dell'unione Europea ed in quella del Consiglio Europa, dal momento che <&ve isolé n'u
plus de senr n i dans l'espace à Douze quz est
ouvert pav constvuction, ni dans l'espuce velevant de I'Ovganzsat~onquz a élahoré la ConCOMUNI D'EUROPA
vention euvopéenne des Dvoits de I'Homme»
(Haut Conseil à I'intégration - France, Premier rapport, février 199 1).
Nella regione del Sud Mediterraneo la crescita economica è una delle condizioni necessarie per la riduzione degli squilibri che sono
di ostacolo ad un dialogo fra le due rive. A
proposito la cooperazione economica regionale potrebbe fornire un supporto essenziale
allo sviluppo economico. Uno dei punti deboli della cooperazione europea è infatti la
mancanza di coordinazione fra l'aiuto bilaterale e l'aiuto n-iultilaterale, così come fra
l'aiuto pubblico e quello privato. Ne deriva
uno spreco considerevole di risorse e uno sviluppo disordinato e non ben organizzato che
spesso non coincide con l'interesse generale
dei paesi che ne beneficiano. Data la situazione la Commissione d'Europa dovrebbe
sforzarsi di mantenere i contatti con i paesi
membri e le organizzazioni internazionali
operando in questo campo in vista di preparare degli interventi comuni orientati in favore dei paesi del Magreb su progetti che siano
sicuramente e rapidamente redditizi grazie a
una utilizzazione razionale delle risorse.
L'analisi demografica mette in luce non solo le concause del problema dell'immigrazione che proviene dai paesi in via di sviluppo,
ma anche delle possibili soluzioni che potrebbero essere realizzate in modo tale che le
attività di cooperazione allo sviluppo avviate
dai paesi sviluppati per regolare il fenomeno,
attività che oggi soffrono di mancanza di
coordinamento, abbiano un esito positivo.
Infatti allorché si elabora un programma di
cooperazione di regola nessuna analisi viene
realizzata circa la realtà deinografica già esistente né i possibili effetti di programmi di
cooperazione su questa realtà demografica:
dal momento che non esiste neppure un sistema di controllo che possa valutare le potenzialità a priori e i risultati a posteriori di
questi interventi. Questa è la ragione per la
quale sarebbe bene fissare dei nuovi criteri
per le azioni di cooperazione che fino ad oggi sono stati ridotti al contesto politico-econornico.
La tendenza ad un aumento significativo
della popolazione è confermato dall'analisi
della situazione attuale e dalle ipotesi sul futuro dei paesi in via di sviluppo. D i conseguenza non ci si potrà attendere uno svilupp o proporzionale capace di assorbire l'aumento della manodopera e di offrire alla popolazione dei nuovi servizi pubblici e soprattutto sociali. Cosa questa che causa inevitabilmente un movimento di emigrazione soprattutto dal continente africano verso 1'Europa.
Fino ad oggi per i paesi meno privilegiati
l'emorragia della manodopera è stata una soluzione relativamente semplice per le questioni demografiche e al tempo stesso una
fonte di reddito grazie all'invio di rimesse effettuate dagli emigrati. Tuttavia oggi questa
soluzione è seriamente ostacolata dalla politica restrittiva dei paesi di destinazione e da
una certa pressione migratoria di origine europea centro-orientale. E per questo che sarà
necessario sviluppare una stretta collaborazione fra paesi in via di sviluppo e paesi s v luppati, ognuno cercando di operare nei
campi più appropriati.
I paesi in via di sviluppo dovranno mirare
COMUNI D'EUROPA
soprattutto alla riorganizzazione e all'ampliamento del settore sociale e alla realizzazione
di politiche dernografiche mirate a comprendere le categorie di popolazione più isolate.
Ancora una campagna per il miglioramento
della condizione della donna, avviata a tutti i
livelli, potrebbe contribuire in n-iodo importante allo sviluppo demografico. La situazione sociale precaria delle donne, la discriminazione di cui spesso sono vittime nei luoghi
di origine e di lavoro, e le leggi e le tradizioni dei loro paesi, talvolta impediscono che esse trovino posto e identità nella società obbligando la maggior parte di esse ad occuparsi di grandi famiglie e ad operare per il loro futuro.
La politica sanitaria pubblica di questi
paesi dovrebbe mirare a organizzare ospedali ben attrezzati nelle regioni rurali così che
dei centri di pronto intervento, dei consultori, dei centri di orientamento anche in materia di family planing e dei servizi di medicina
preventiva per ridurre i casi di malattie contagiose o dovute a problemi igienici o addirittura all'ignoranza.
La pianificazione familiare dovrebbe essere estesa all'insieme del territorio di questi
paesi soprattutto alle regioni rurali e poco
sviluppate dove gli abitanti hanno tendenza a
procreare abbondantemente e dove la mortalità infantile e materna è molto elevata. Questi programmi dovrebbero essere applicati
non solamente da assistenti sociali ben preparati ma anche essere concepiti in modo tale da favorire la loro propagazione attraverso
le abitudini, i costumi, la cultura delle popolazioni.
I governi che realizzeranno politiche di
questo tipo non dovranno poi ignorare la
realtà dei loro paesi, per questo è necessario
lo sviluppo di istituzioni adeguate anche di
carattere statistico, soprattutto per rilevazioni o ricerche che possano fornire le informazioni necessarie alla realizzazione di questi
progetti. Per evitare che iniziative e programmi non vedano ridotta la loro efficacia da effetti collaterali di ordine macroeconomico,
bisognerebbe anche tenere sotto controllo le
conseguenze delle politiche di liberalizzazione economica, di riduzione dell'occupazione
su determinati gruppi sociali nei paesi di origine a causa della fragilità delle loro condizioni di vita. Una tale situazione potrebbe alimentare nuovi flussi di emigrazione e rischiare così il propagarsi della propensione all'emigrazione. I1 ricorso a movimenti migratori
stagionali può favorire la formazione professionale e il trasferimento di rimesse; però naturalmente pone problemi particolari legati
soprattutto alla difficoltà di garantire il ritorn o ai paesi d'origine alla fine del periodo previsto.
Questa osservazione non dovrebbe comunque ostacolare nuove esperienze in questo campo soprattutto nelle aree occupazionali, più facilmente controllabili e suscettibili di fornire garanzie circa il rimpatrio dei lavoratori interessati. Vi sono delle esperienze
del resto in Europa, inaugurate da autorità
locali e regionali, che possono essere un
buon esempio di questa prospettiva.
I1 fenomeno delle immigrazioni internazionali implica per la sua stessa natura la presa in considerazione di sistemi di norme e di
valori che appartengono a culture diverse il
cui incontro per essere armonizzato e armonioso deve essere ben preparato. Da questo
punto di vista la cooperazione in campo culturale fra l'insieme dei paesi interessati ai fenomeni migratori dovrebbe essere rinforzata
e posta addirittura in ordine di priorità nell'interesse comune della reciproca conoscenza delle parti in causa. In questa area si vedon o dei programmi purtroppo ancora troppo
timidi soprattutto per quanto riguarda l'impiego delle risorse e delle priorità culturali e
scientifiche che vi sono impegnate. In modo
particolare la questione dei rapporti culturali e scientifici fra le popolazioni e le comunità
di ispirazione islamica e cristiana deve essere
presa in considerazione con più coraggio.
Degli sforzi importanti sono già visibili.
La Conferenza sulla popolazione e sullo
sviluppo del Cairo (settembre 1994) ne è stata una testimonianza. Ma le visioni diverse
fra le due culture rispetto a determinati fondamenti dell'organizzazione politica internazionale soprattutto in materia di diritti dell'uomo non deve impedire di valorizzare uno
degli aspetti più profondi che potrebbe collegare le d u e culture: la visione cioè della
persona come essere morale cosciente del bene e del male e predisposta ad una cultura
universale se non addirittura ad un'etica politica.
Il ruolo dei giovani sarà anche decisivo e
giustamente un programma Transn-ied del
Centro Nord-Sud del Consiglio d'Europa ne
ha sottolineato l'importanza: «Confidente
building and coopevation among yozlng people
is un essential vequivement for the szlccess of
the peace initiatives in the Middle-East and
Meditevvanean vegion in geneval. A bvoad
mz~ltilatevalfvamework of coopevation, dealing with problems and challenges fov ouv
common future which uve shaved by al1 yotrng
people, a the most suitable platfovm to buzld
confidente and undevstanding between young
people fvom dzffevent ideological, veligious,
ethnic and vegional backgvounds» (Trans-mediterranean, youth cooperation in the framework of the North-South Centre's youth
programme in 1993 and 1995).
Si osserva attualmente che lo sviluppo e
l'equilibrio demografico non sono più considerati unicamente come problemi interni ad
ogni stato direttamente interessato ma come
problemi proprio di una comunità umana
più ampia che comprende l'insieme dei paesi
toccati da questi problemi ed il cui carattere
sussidiario passa attraverso le istituzioni locali regionali, nazionali ed internazionali. Negli
anni Ottanta siamo passati da un sistema di
regolamentazione dei flussi, delle comunità,
della libera circolazione degli immigrati verso un sistema comunitario con dei regolamenti compatibili con i problemi dell'ordine
pubblico. Questo approccio si è rivelato presto insufficiente sotto un duplice punto di vista. Per il controllo dei flussi è soddisfacente
una dignità della soluzione dei problemi legati all'integrazione. Le ragioni sono soprattutto due: la prima è che in un meccanismo
integrato come quello comunitario la politica
di ogni stato individualmente parlando è
troppo debole. Si imporrà dunque una politica di tipo comunitario, un approccio soprannazionale al problema, cosa che è uno
dei punti deboli del trattato di Maastricht.
m
NOVEMBRE 1995
AICCRE
Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni
e delle Regioni d'Europa
Quale repubblica federale italiana?
Le riforme per una Italia europea
Roma, maggio 1995
numero 10
NOVEMBRE 1995
INDICE
-
Quale repubblica federale italiana?
-
L'AICCRE e il federalismo interno, italiano
-
Le riforme per una Italia europea
-
Appendice
-
Carta europea delle libertà locali
NOVEMBRE 1995
Dichiarazione politica dell' AICCRE - Sezione italiana
del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa
Quale repubblica federale italiana?
L'AICCRE, Sezione italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa, è impegnata fin dalla sua origine (1952) in una strategia di federalismo globale, sovra e infranazionale: sono oltre quarant'anni che essa conduce una battaglia a tutti i livelli, nelle ammiilistrazioni, nei movimenti per le autonomie e in quelli europeisti, nel
Parlamento nazionale, nei partiti, nel Parlamento europeo e in tutte le istituzioni europee, nelle Università e nei
Centri studi specializzati e che si confronta col Governo nazionale. Nel febbraio 1992, quando la struttura federale della Repubblica italiana era divenuta d'attualità e se ne discuteva ovunque - non di rado superficialmente o in
maniera strumentale -, il nostro Consiglio nazionale discusse a lungo, anche in base alle nostre molteplici esperienze, italiane ed europee, e approvò un lungo documento - "Le riforme per una Italia europea" -, al quale non
possiamo non rifarci oggi, perché nulla c'è di improvvisato nel nostro impegno. Oggi tuttavia vogliamo ribadire in
breve alcuni punti, che ci paiono essenziali e caratterizzanti, non solo perché siamo alla vigilia di elezioni regionali e locali di grandi rilievo, ma perché con esse si inizia un cammino pratico verso un bivio ineludibile: gli italiani
vogliono o non vogliono dare una struttura federale, realmente alla nostra Repubblica? La posizione dell' AICCRE,
a priori, è scontata: ma vogliamo sottolineare quel che caratterizza un regime di Stato federale in confronto a quello di uno Stato regionale, in netto dissenso con chi sostiene che tra federalismo e regionalismo non c'è distinzione
netta di qualità, ma solo di misura.
1 - Ma prima vogliamo riaffermare, nel quadro tradizionale del CCRE, l'interdipendenza tra la lotta per la federazione europea e quella per il federalismo interno, che verso la fine della seconda guerra mondiale ha trovato in
Italia la sua prima proposta nel gruppo di resistenti, che è pervenuto alla Carta di Chivasso. D'altronde questo ci
induce a ricordare l'incredibile polemica di questi giorni sulla Resistenza italiana, che - d'accordo - non può essere rivendicata settorialmente e con spirito egemonico da nessuna parte politica, ma dal popolo italiano in quanto
ha contribuito da parte sua, come il resto d'Europa, a ribellarsi alla minaccia nazi-fascista: il federalismo europeo
si è maturato durante la Resistenza europea, nel nome della libertà e della solidarietà dei popoli, per il bene di tutti. La Costituzione della Repubblica italiana è stata l'interprete del sentimento comune, col quale la grande maggioranza dei cittadini - ma potremmo dire, scendendo nel profondo degli animi, la totalità dei cittadini - è uscita da un tragico incubo piena di speranza nell'avvenire: i suoi principi etico-politici sono intangibili. Ciò non vuol
dire che la Costituzione non abbia mostrato e non mostri carenze strutturali, che del resto tutti conosciamo e che
debbono dar luogo a riforme, anche sostanziali: la non sufficiente forza e stabilità del Governo centrale (ma, si può
constatare, dei governi a tutti i livelli delle autonomie) - senza peraltro che se ne debba trarre di necessità l'esigenza di un regime presidenziale -, insufficienza che a sua volta ha frenato la realizzazione di un autogoverno effettivo dei varii livelli di autonomia, nel timore di una sconnessione nella compagine statuale; una serie di Regioni dal ruolo incerto, caricate di attribuzioni in cui era presente la visione di una società obsoleta, prevalentemente
agricola, e dove il ruolo programmatorio non era distinto chiaramente da quello esecutivo, a tutto danno delle autonomie infraregionali; un ruolo (art. 49), giustamente riconosciuto ai partiti politici, ma senza definirne i limiti;
eccetera.
2 - Un regime federale, venendo al punto, è caratterizzato dal binomio inscindibile di autonomie e solidarietà.
All'enfasi, che è di moda attribuire al principio di sussidiarietà - conferire a ciascun livello il potere su ciò che
può avere un esercizio ottimale per le caratteristiche del livello stesso - si deve accompagnare il concetto di interdipendenza, e quest'ultimo richiede, in Italia come in Europa, una Costituzione, che permetta una lettura non
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COMUNI D'EUROPA
ambigua della stessa sussidiarieti. Del resto un precetto etico, che presiede al federalismo, completerà quello di
interdipendenza: il federalismo deve garantire a cittadini e a comunità diverse - di lingua, di religione, di tradizioni, di caratteri etnici - di vivere pacificamente sotto una legge comune.
3 - Ciò premesso, veniamo ai concreti istituti giuridici, che ci appaiono integrare e approfondire qualitativamente il regime federale rispetto al semplice regime regionale. La chiave di volta ci sembra il Senato delle Regioni, per il quale I'AICCRE si batte da tempo, nel senso pregnante del Bundesrat del regime federale tedesco. I1
Bundesrat, che è formato dagli Esecutivi dei Laender, ha, per cominciare, un rapporto particolare con la Bundesbank, cioè con l'istituto che regola - e regola severamente, come compito primario - il tetto dello spendibile
nazionale (e il Consiglio d'amministrazione della Bundesbank è designato in maggioranza dai Laender, cioè dalle
Regioni). I1 Bundesrat orienta poi, dall'interno dello stesso sistema delle autonomie, le perequazioni finanziarie
-tra ricchi e poveri - previste, si badi, sia su scala degli Enti infraregionali sia su scala interregionale: cioè orienta il federalismo finanziario (come ormai si preferisce denominare, più correttamente, il federalismo fiscale: su
questo uno studio dell'AICCRE aprì un dibattito in Italia oltre quindici anni fa). I1 Bundesrat può instaurare, infine, un dialogo razionale con la Camera popolare (quella eletta a suffragio universale diretto, nazionale), ponendo
su un piano globale e di evidente trasparenza la comparazione tra le esigenze dei territori e quelle del centro governativo, tra la spesa periferica e la spesa per l'interesse generale, statuale.
4 - Naturalmente la solidarietà ha il presupposto, inscindibile, dell'autonomia finanziaria, e in particolare fiscale, delle autonomie territoriali: I'AICCRE, nel documento del '92, si è battuta per la partecipazione del sistema delle autonomie all'organizzazione del prelievo fiscale.
5 - Ma veniamo alla vexata quaestio del carattere e del ruolo della Regione. La Regione è indubbiamente, in
tutta Europa, in crisi di identità: proprio nella Germania federale è forte la tensione tra il Land e i Poteri locali infraregionali. In effetti I'AICCRE ha criticato non da oggi una Regione considerata come un ministato, proprio nella stagione in cui sono in crisi l'identità e le stesse competenze dello Stato nazionale.
A noi sembra - e qui siamo noi a invocare il principio di sussidiarietà - che la Regione rappresenti il livello
minimo e ottimale per comparare lo sviluppo economico-sociale con le esigenze del territorio: quindi la pianificazione del territorio (o, se si vuole, la macrourbanistica) non può essere una competenza fra le altre della Regione,
ma piuttosto un problema a cui si deve rifare ogni aspetto dello sviluppo, pervenendo, come è stato detto, a una sintesi a priori di sviluppo economico-sociale e, appunto, di pianificazione del territorio. In questo compito fondamentale la Regione deve essere aiutata da una struttura adeguata dei Poteri locali infraregionali: se da una parte
merita un approfondimento la definizione di Area metropolitana, poiché è chiaro come per quest'ultima si corra il
rischio di una razionalizzazione dell'urbanesimo, 1'AICCRE ha comunque avanzato da tempo la proposta di piccole Province (in fondo simili ai Landkreise tedeschi), con funzione di riequilibrio territoriale. Infine constatiamo
con soddisfazione l'intenzione (in un progetto di federalismo interno proposto, per esempio, dallo studio di una Regione italiana, 1'Emilia-Romagna) di affiancare al Consiglio regionale eletto a suffragio diretto, un Consiglio dei
Poteri locali infraregionali. Si tende così a colmare la distanza tra una Regione "a sovranità illimitata" e le autonomie di base: i federalisti è da tempo che hanno anticipato l'utilità di una rappresentanza bicamerale in tutto il sistema delle autonomie, e questa rappresentanza è già stata adottata e sperimentata all'interno dei Landkreise tedeschi.
6 - Si evita spesso di affrontare il problema essenziale del rapporto dei partiti politici (quale che sia il loro nome: comunque, delle formazioni politiche che propongono agli elettori progetti e strategie governative alternativi)
e un sistema federale. I1 problema ci riporta al punto di partenza di ogni regime democratico: il cittadino e i suoi
poteri reali di intervento autonomo nella vita politica. Rimane fermo che, fuori di ogni abuso, il ruolo dei partiti è
irrinunciabile in una democrazia, ponendo il cittadino di fronte a un problema globale di scelta di un governo e non
a singole scelte settoriali, spesso contraddittorie e non compossibili: questo è il pericolo del referendum, usato fuori del suo legittimo campo. che è quello della rivendicazione di alcuni diritti fondamentali e inalienabili: ma il cittadino deve poter partecipare non condizionato n priori alla vita dei partiti e alla vita politica in generale. Nella
"Carta europea delle libertà locali", che il CCRE lanciò nel 1953 agli Stati generali di Versailles, I'AICCRE riuscì
a introdufre "i mezzi stabili perché ogni cittadino, cosciente di essere membro della comunità stessa, prenda parte
attiva alla vita locale"; più tardi, nel 1977 a Bologna, 1'AICCRE tornò sul tema della politica pre-partitica nel Convegno "Decentramento urbano e comprensori nel quadro della realtà europea". È un tema strutturale che ha suscitato in Italia l'interesse di poche stagioni e poi è naufragato coi partiti: ma oggi è per noi senz'altro di attualità. Comunque siamo d'accordo che, mentre i partiti non possono essere condizionati ideologicamente, si impone viceversa l'utilità e - perché no? - l'obbligo delle primarie, contro il monopolio della burocrazia di partito o addirittura della guida autoritaria da parte di un leader: naturalmente le "primarie" vivono se la società di base è ricca
di varie realtà associative, di centri "sociali" non strumentali, di liberi centri comunitari o settlements. Tutto ciò soCOMUNI D'EUROPA
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steniamo nella convinzione di spingere l'autonomismo verso la sua autentica matrice, che è il cittadino libero e consapevole, ed evitando l'inganno di una falsa democrazia "popolare" realizzata attraverso forme plebiscitarie.
7 - Infine, last but not least, una riforma istituzionale in senso federale implica una autentica rivoluzione dell'amministrazione pubblica: occorre guardare a occhi aperti gli ostacoli durissimi - corporativi mescolati con
quelli demagogici - che troveremo su questo cammino, ostacoli coi quali ci siamo già incontrati nel 1971 (ricordiamo il nostro storico volume "La Regione italiana nella Comunità europea"), quando abbiamo tentato una interpretazione estensiva della creazione delle Regioni a Statuto ordinario.
8 - Non possiamo tralasciare in questo frangente uno sguardo a una nostra creatura, per la cui nascita ci siamo
battuti almeno una ventina d'anni, il Comitato delle Regioni e dei Poteri locali previsto dal Trattato di Maastricht:
esso ha uno stretto rapporto col doppio federalismo, sovra e infranazionale, che è proprio del CCRE e particolarmente del17AICCRE.È ovvio che in sede sovranazionale il Comitato - come abbiamo ricordato - dovrà stringere una alleanza col Parlamento Europeo, incoraggiando anzi quest'ultimo a battersi coerentemente per una Unione europea, che assuma chiare forme federali: ma il Comitato dovrà soprattutto evitare di chiudersi in se stesso,
mentre dovrà favorire al massimo che nella integrazione europea subentri sempre più al negoziato fra gli Stati nazionali la partecipazione costruttiva dei cittadini e degli Enti territoriali "a misura d'uomo". La Federazione europea deve essere sempre meno debitrice della diplomazia e soprattutto meno dipendente dai compromessi intergovernativi, e essere sentita dai popoli come la soluzione per costruire un avvenire pacifico e civile per i nostri figli.
D'altra parte, di mano in mano che gli Stati nazionali da federare assumono al loro interno - quando già non ne
godano - una struttura federale, il Consiglio dei Ministri dell'unione, che dovrà trasformarsi in Senato degli Stati, diverrà non solo il Senato dei governi centrali, ma il Senato degli ordinamenti nazionali, con la codecisione
delle Regioni (come già il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa ha previsto nelle conclusioni dei suoi
Stati generali di Lisbona, nel 1990).
Non pretendiamo di avere esaurito con questa Dichiarazione le tematiche, che ci propongono riforme di cui tutti parlano, e parlano sovente con lingue diverse: pensiamo solo di aver toccato alcuni punti nevralgici, sui quali non
si potrà sorvolare.
(approvata dalla Direzione nazionale al1 'unanimità)
7 aprile 1995
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una lunga storia
L9Aiccree il federalismo interno, ilaliano
Improwisamente tutti gli italiani o quasi
sono diventati (a parole) federalisti: intendiamo fautori di una struttura federale della Repubblica italiana, perchè il federalismo europeo (e mondiale) ha in questo dopoguerra
italiano un'altra storia, se non separata, spesso distinta. Come succede, nello scoppio c'è
stata una convergenza tra la crisi della cosiddetta «prima» Repubblica. con conseguenza
di un'attesa e una disponibilità della p b b l i ca opinione verso radicali proposte istituzionali, e l'irruzione e gli iniziali successi della
Lega Nord - un movimento nato in parte
da un nordismo di piccola e media borghesia
che si sentiva efficiente di fronte al parassitismo di un Mezzogiorno «assistito» (e che
coinvolgeva nella polemica la partitocrazia e
in qualche modo i sindacati tradizionali e la
grande industria «collusa» coi partiti), ma indotto via via ad una più aperta considerazione del Mezzogiorno, sia per l'aspirazione a
un ruolo crescente nella politica nazionale sia
per un confuso liberismo economico che, in
definitiva, non poteva ignorare un mercato
meridionale, necessario alla produzione del
nord -. In realtà questa irruzione «federalista», non poco contraddittoria, è stata considerata più di una volta da noi dell'AICCRE
come uno «sfederalismo», ma nella versione
del professor Miglio può essere considerata
più banalmente un «confederalismo interno»
(cioè una articolazione interna dello Stato
nazionale aperta alle secessioni e comunque
largamente priva della componente della
«solidarietà», inscindibile dal federalismo
autentico). In ogni modo l'iniziale successo
della Lega Nord ha indotto gruppi di interesse economico e/o di pensiero (gli intellettuali e le «mode», di cui sono costantemente
succubi) e quel che rimaneva dei partiti tradizionali a cavalcare il federalismo (di cui alcuni, che ne erano stati fautori al tempo della
nostra Assemblea Costituente, si erano dimenticati).
L'AICCRE e il suo tradizionale organo di
stampa «Comuni d'Europa» (42 anni di vita,
con la rispettata cadenza mensile di uno
schiacciasassiì, hanno seguito il fenomeno
con grande attenzione, talvolta con critiche
senza peli sulla lingua ma anche senza pregiudizi, un fenomeno che si affiancava, sia
pure con malintesi e con qualche rozzezza,
alla loro storica battaglia - che non è stata
solo sovranazionale - condotta nella politica, nelle amministrazioni locali e regionali e
nella cultura (e nel silenzio dei mass media,
abituale per tutto quel che è realmente nuovo), a partire dall'inizio degli anni cinquanta.
L'AICCRE non ha condotto una sola e
semplice battaglia elitaria, e in questa élzte
comprendiamo del resto - ne dobbiamo
avere precisa memoria - una serie di straordinari amministratori comunali, provinciali,
regionali, molti dei quali erano altresì attivi
militanti nel Movimento Federalista EuroCOMUNI D'EUROPA
peo di Altiero Spinelli, come comprendiamo
il coinvolgimento in pari tempo dei più
avanzati costituzionalisti, amministrativisti,
economisti, sociologi, urbanisti italiani e delle più valide riviste del settore insieme a tante altre di «varia umanità», ma essa ha svolto
una azione capillare su tutto il territorio nazionale e, complessivamente, possiamo dire
un'azione educativa di massa - tale da toccare in diverse occasioni la massa vivente dei
cittadini -, fermandosi volutamente alle soglie del potere. In sostanza l'attuale esplosione federalista ci gratifica e ci induce a continuare, se possibile, con maggior lena, confidando sull'appoggio unit~zvzoe plenario dei
colleghi comunali, provinciali, regionali. Nel
nostro lavoro - che riteniamo oggi indispensabile, soprattutto se in efficace sinergia
con tutta la «forza federalista» (cioè di tutte
le associazioni e i movimenti federalisti ed
europeisti) - non vogliamo chiuderci in un
ristretto impegno che chiameremo «sindacale», vòlto a ritagliare i limitati vantaggi che
possono offrire lo status quo nazionale da
una parte e l'inetta Europa intergovernativa
dall'altra: intendiamo lottare polz'tzcatnrnte a
tutti i livelli per le soluzioni federaliste, convinti dell'interdipendenza del federalismo
interno e del federalismo sovranazionale
(prospettiva che, nel 1950, trovò il pieno accordo di uno dei cinque promotori europei
del CCRE, Serafini, con don Sturzo, che incontrò nel convento di via Mondovì a Roma
- un incontro di federalisti di matrice culturale diversa, la liberalsocialista e la cattolica democratica -: Luigi Sturzo inviò poi un
messaggio in tal senso all'assemblea costitutiva del CCRE - siglato in principio CCE
- a Ginevra nel gennaio 19511.
Frattanto il dibattito federalista, malgrado
alcune cadute, si va oggi affinando e vediamo con soddisfazione che percorre frequentemente strade, che noi abbiamo indicato da
decenni e che nella presente Nota redazionale vogliamo richiamare brevemente e - il
che è inevitabile anche per ragioni di spazio
- lacunosamente. Si affina la storiografia
specifica, risalendo al Risorgimento e andando oltre la citazione d'obbligo e un po' generica dei federalisti cattolici, Gioberti, Cesare Balbo, d'Azeglio, e laicisti, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari (entrambi discepoli
di Romagnosi): ci limitiamo a indicare un recentissimo volume, «La qiiestione federalista
- Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani» di Giuseppe Gangemi (edizione Liviana,
1994 UTET libreria, Torino), ove si richiamano diversi espliciti proudhoniani italiani e
si accenna alle particolarità di Montanelli e
di Pisacane: ma è utile in proposito - cogliamo l'occasione - riesumare un'opera
tuttora valida di Luigi Salvatorelli, a torto ritenuta secondaria, la «Storia del pensiero
politico italiano dal 1700 al 1 8 7 0 ~Si
. affinano soprattutto l'analisi e la teoria: anche qui
ci limitiamo come esen~plaritàa un succoso
articolo di quotidiano, «Federalismo fiscale»
di Franco Gallo (in «La Repubblica» del 9
dicembre W), e alla relazione di Vieri Ceriani, dell'ufficio studi della Banca d'Italia, a
un seminario dell'associazione «Etica ed
economia» («Aspetti economici del federalismo»: il federalismo finanziario): diremmo
che persiste comunque una sottovalutazione
del Senato delle Regioni nella versione del
Bundesrat tedesco.
Ma ripercorriamo, per accenni e a volo
d'uccello, il cammino dell'AICCRE, sezione
italiana del CCRE. L'AICCIIE, i cui prolegomeni possono collocarsi nel 1950, nei suo
federalismo infranazionale si trovava di fronte - oltre ai lavori preliminari dell'Assemblea Costituente (quale ne sia stato poi lo
sbocco) che vanno in primo luogo rintracciati nelle pubblicazioni del Ministero per la
Costituente (di cui fu l'animatore Massimo
Severo Giannini) - due prese di posizioni
federaliste, le cui radici risalgono alla Resistenza e alle riflessioni, durante la «guerra
civile», sul postfascismo: l'autonomismo,
che chiameremo «subalpino», sintetizzabile
nella «Carta di Chivasso» (v. «Comuni d'Europa» di dicembre 1993) e il Movimento
Comunità. Quest'ultimo nasce a partire dal
classico «L'ordine politico delle comunità»
di Adriano Olivetti, pubblicato nel 1945 ma
pensato per lo più in Svizzera negli anni
dell'esilio, con collegamenti - che conviene
non dimenticare - col pensiero di Luigi Einaudi e preceduto dall'opera collegiale (ma
diretta da Olivetti) della seconda metà degli
anni trenta, intitolata «Piano regolatore della Valdaosta». Un'ottima introduzione al
pensiero olivettiano si trova in «L'avvento
della Regione in Italia. Dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana
(1943 - 1 9 4 7 ) ~(Milano, Giuffrè. 1967) di
Ettore Rotelli: Rotelli è uno dei più attenti e
acuti, spesso polemico, studiosi dell'autonomismo italiano e consigliamo il testo e le note del suo recentissimo «Federalismo e presidenzialismo» (edizione Anabasi [Milano
19941) - senza con ciò far necessariamente
nostra la soluzione, storicamente del federalismo americano, di un re democratico elettivo -. Per Olivetti si veda anche «Adriano
Olivetti e le dottrine politiche» (in A. Olivetti e il Movimento Comunità», Officina
edizioni, Roma 1982, di Umberto Serafini).
Per i successivi sviluppi del Movimento Comunità e la loro influenza sull'AICCRE converrà anche rivedere, sempre di Serafini,
«La nascita della partitocrazia italiana e il
Movimento Comunità» (nella rivista «Queste istituzioni», ottobre-dicembre 1992),
nonchè la collegiale «Dichiarazione politica
tempi nuovi metodi nuovi» del 1953, testo
fondamentale del sinergismo italiano di federalismo infranazionale col federalismo sovranazionale (ripubblicata come inserto di
«Comuni d'Europa» nel numero di settembre 1994). Naturalmente 1'AICCRE ha aperNOVEMBRE 1995
to fin dagli inizi un dialogo coi movimenti
autonomistici regionali, particolarmente
l'Union Valdotuine e il Partito Sardo d'Azione, mentre ha affrontato senza conformismi
il problema delle «regioni soprafrontaliere»:
vale la pena di ricordare qui il problema del
Sud Tirolo o Ttrolev Etschland e l'urto violento dell'AICCRE - che lo guardava secondo una logica «europea» anche se del
tutto concreta - con la Farnesina, mentre si
valeva della mediazione coraggiosa e lungimirante di Alois Lugger, borgomastro di
Innsbruck e successivamente presidente del
Nord Tirolo, oltrechè - si noti -vicepresidente del CCRE (l'opera dell'AICCRE fu
poi ritenuta fondamentale ed elogiata da
due ambasciatori italiani a Vienna, Roberto
Ducci e Fausto Bacchetti). Converrà a questo punto non dimenticare altresì lo stretto,
costante rapporto dell'AICCRE con la cultura dei meridionalisti federalisti (cfr. l'«Aritologia della questione meridionale», a cura
di Bruno Caizzi e con presentazione di Gaetano Salvemini).
La delegazione italiana all'assemblea costitutiva del CCRE a Ginevra (gennaio 195 l)
era guidata dal senatore Bastianetto, sindaco
di San Donà del Piave, un ex «popolare»
che era stato un seguace della Paneuropa di
Coudenhove Kalergi, e aveva fra i suoi membri il pro-sindaco di Roma Andreoli, un assessore della Regione siciliana (D'Angelo,
poi diventato presidente della Regione), il
sindaco di Ivrea Umberto Rossi, rappresentante del Movimento Comunità, ecc., e comprendeva tre esperti: Massimo Severo Giannini, Ludovico Quaroni, Franco Ferrarotti.
Giannini (cfr. «Cultura politica e partiti
nell'età della Costituente» a cura di Roberto
Ruffili, Bologna 1979, tomo 11) aveva elaborato con Olivetti, a quattro mani, un memorabile studio su «I1 problema delle autonomie locali»; Quaroni era un urbanista particolarmente sensibile ai problemi della città
in funzione della partecipazione democratica; Ferrarotti (autore di «Max Weber e il ritorno della ragione») era un giovane sociologo che si batteva per la reintroduzione in
Italia della sociologia, dopo l'ostracismo datole dalla filosofia idealistica e da buona parte dei marxisti (ora era appoggiata invece
dal filosofo esistenzialista Abbagnano). Qui
p e r altro non vogliamo fare la storia
delllAICCRE quanto limitarci a un elenco
- più logico che cronologico - di strade,
che crediamo avere aperto al dibattito sul federalismo interno in Italia e di proposte che
abbiamo fatto - talora comprese, talvolta
ignorate o trascurate - e che ci accingiamo
ad approfondire. Ancora un'ultima considerazione generale: i pioneri delllAICCRE sono partiti come federalisti interni (oltre che
sovranazionali), ma trovandosi ad operare in
uno Stato con la Costituzione di Stato regionale, intermedio fra l'unitario e il federale
(ma «federalismo e regionalismo non possono essere posti a raffronto perchè fanno parte della stessa famiglia, non c'è distinzione
netta tra
e l'altro e cambiano soltanto
per una ragione di misura». afferma Sabino
Cassese nel volume a più voci «Quale federalismo? interviste sull'Italia del futuro», a
cura di Marco Sabella e Nadia Urbinati,
NOVEMBRE 1995
Vallecchi editore [l994 Firenze]), hanno voluto sperimentare fin dove poteva portare,
se attuato realmente .-il che non è avvenuto
per lungo tempo - tutto il dettato costituzionale: in definitiva ci siamo convinti che,
malgrado l'affermazione di Cassese, non si
tratta solo di misura (questa, se mai, crea
una differenza tra diversi Stati regionali) ma
di qualità. Diremmo paradossalmente che
uno Stato regionale «massimalista» porta
all'anarchia, mentre uno Stato di autentica
struttura federale ha la massima coesione.
Passiamo, come ci eravamo impegnati, a
una sintesi, schematizzata in 9 punti, della
problematica affrontata dall'AICCRE, in oltre quarant'anni, sul terreno del federalismo
interno (o particolarmente rivolta al federalismo interno, ma sottolineando che sovente è
arbitrario scindere il discorso tipicamente
italiano da quello infranazionale in genere e
quest'ultimo dalla prospettiva sovranazionale o da una riflessione globale sii1 federalismo).
del lavoro, eccetera: oggi, in una società liberaldemocratica economicamente sviluppata, dove i mezzi di informazione e di comunicazione rendono impossibile l'azione polztica (in senso lato) autonoma dell'individuo
(è il rischio, in una cosiddetta «civiltà tecnetronica», di rendere irrealizzabile una iniziativa democratica «di base» senza partire da
una posizione di potenza - con l'aggravante di un «anonimato» incontrollabile con cui
si presenta di solito al cittadino l'apparato
colossale della comunicazione -) non basta
quanto ha permesso al cittadino politicizzato
o politicizzabile l'emancipazione dell'uomo
che hanno ottenuto i movimenti sociali. Pertanto, nell'ultimo seminario, che precedette
i1 lancio (Stati generali di Versailles, ottobre
1953) della «Carta europea delle libertà locali» del CCE, due delegati dell'AICCRE
(l'ex costituente nazionale Costantino Mortati e Umberto Serafini) riuscirono a fare inserire «i mezzi stabili perchè ogni cittadino,
cosciente di essere membro della comunità e
vincolato alla collaborazione per il sano sviluppo della comunità stessa, prenda parte
attiva alla vita locale»: era un finanziamento
«istituzionale» dell'attività prepartitica. Ovviamente, mentre nell'AICCRE viveva una
precoce polemica antipartitocratica (anche
per la diffusa ostilità dei partiti - di fatto,
se non sempre palesemente - al federalismo sia sopra che infranazionale), era riconosciuta la irrinunciabile funzione dei partiti
nella dialettica democratica (non corporativa): se ne voleva tuttavia limitare l'invadenza
«totalitaria». A tale scopo l'autonomia concreta proposta per il «singolo cittadino» richiamava anche l'autonomia e la funzione
del centro sociale (continuando l'influenza
nell'AICCRE del Movimento Comunità, si
può a questo proposito rivedere la relazione
di Serafini - «centro sociale, partecipazione, democrazia diretta e democrazia rappresentativa» -, uno dei fondatori dell'Istituto
italiano per i Centri comunitari, al convegno
di Palazzo Canavese del giugno 1956 - v.
nel citato «A. Olivetti e il Movimento Comunità», parte prima -1: ma poi tutto il
complesso di questa democrazia prepartitica
dava adito ad una proposta realistica, più
volte avanzata dall'AICCRE, di «elezioni
primarie» - sia «di lista» che territoriali,
cioè aperte a tutti - da proporre, se non addirittura da imporre ai partiti (talvolta abbinando quest'obbligo a una proporzionale,
nelle elezioni politiche, a liste bloccate, cioè
abolendo il cannibalismo delle preferenze).
L'AICCRE tornò più volte a percorrere
questa strada (che è stata chiamata di lotta
per l'«autonomia della minoranza di tutte le
minoranze. cioè il singolo cittadino» ( I ) ) ,
cercando di orientare a un certo punto un
moto nazionale, che ha dato una fiammata e
poi si è, tutto sommato, spento: vedasi il
1. I1 problema del rapporto dei partiti
(nazionali) con le autonomie territoriali e
con tutta la «società», nonchè quello dei
partiti con la partecipazione «autonoma»
dei cittadini, si poneva in tutta Europa l'Europa democratica -, ma nell'immediato
post-fascismo si poneva con particolare rilievo in Italia: qui il coagulo dei partiti «antifascisti» era il CLN (Comitato di liberazione
nazionale), che non copriva tuttavia tutto il
campo elettorale, poichè non solo gli ex-fascisti si organizzarono presto nel Movimento
Sociale Italiano (MSI), ma anclie i repubblicani storici si chiamavano fuori del CLN; il
Partito comunista italiano, poi, senza avere i
caratteri rozzi del Partito comunista francese, di cui si diceva che «non era nè a destra
nè a sinistra ma all'est», anzi fortemente integrato a un settore tradizionale della cultura democratica italiana, tuttavia faceva pur
sempre discendere sui soci, dall'alto, una
politica europea e internazionale tutta confezionata «fuori frontiera». Questa situazione irritante soprattutto per i cittadini non
politicizzati - ma anche obiettivamente insoddisfacente - generò a un certo momento il Movimento dell'Uomo qualunque: movimento di scarse basi culturali, che ebbe il
successo di una stagione. ma che sollecitò
l'attenzione di un uomo politico con un eccezionale sensorio, cioè Togliatti.
L'AICCRE nella predetta situaziorie si
pose il problema dell'autonomia pre-partitica del cittadino: si trattava anche di collegarsi con tutto il largo movimento europeo dei
cornnzzinity centves e dei settlernents, dei centvei; sociaz~x,dei Dorftge~~zeinschafrha~.re~Y
In
fondo si andò teoricamente lontano: la Rivoluzione francese aveva riconosciuto formal- ( I ) L'aplxofondiniento teorico della questione può troin "Corriuni d'Europa", anno XLI, n. 1. gennaio
mente i diritti dell'uomo; i successivi movi- varsi
1993 (''La sovraniti dei cittadini - nutonoiuie territoriamenti socialisti (e anche, in ¶ualche modo, li. parteciparione. cultura e partiti", intervcnto de! presicristiano-sociali) avevano reso possibile, dente dell'AICCRE a uii Seminario della Fondazione
Bucchi in onore di Massinio Severo Giniinini). Vi si sotconcretamente possibile, l'esercizio di tali tolineano le due frontiere del l'ederalisni«. Iii pcrsona
diritti, emancipando l'uomo dalla schiavitù uniana e i l cosniopolitisiiio.
COMUNI D'EUROPA
convegno, tenuto in collaborazione col Comune di Bologna nell'aprile 1977, su «Decentramento urbano e comprensori nel quadro della realtà europea» (in realtà si preparava uno studio comparato in vista degli Stati generali del CCE, che si svolsero nel giugno successivo a Losanna).
I problemi precedénti stanno seguendo,
nel dibattito dell'AICCRE, un cammino a
simmetria inversa, nel prospettare il passaggio dai partiti nazionali ai partiti europei
(qui si tratta di una «autonomia europea» da
guadagnare attraverso un «fronte democratico», di cui «Comuni d'Europa» dibatte pazientemente almeno dal 1964).
2. Come si è già accennato, I'AICCRE si è
sforzata, sin dall'inizio, di cavare sperimentalmente tutto quel che si poteva dallo Stato
regionale: fu così che nel suo congresso nazionale di Forlì (1955) chiese duramente relatore Mortati - l'attuazione delle Regioni
a statuto ordinario, che tardarono poi di una
quindicina d'anni. Mortati, l'ex costituente
Costantino Mortati, era fin da allora fortemente autocritico circa le Regioni - le Regioni anche sue -, particolarmerite insoddisfatto dell'art. 117 (e collegati) della Costituzione. Fu così ancora che, in occasione degli
Stati generali di Cannes (196O), invitammo il
prof. Arnbrosini - teorico dello Stato regionale e, allora, presidente della nostra Corte
Costituzionale - a fare una relazione su «le
Regioni nel quadro europeo» (2).
Realizzate le Regioni a statuto ordinario,
I'AICCRE, in collaborazione con l'ultima arrivata delle Regioni a statuto speciale, la
Friuli-Venezia Giulia, produsse il volume
collegiale «La Regione italiana nella Comunità europea» (1971): qui pose chiaramente,
inascoltata, l'esigenza della riforma del decentramento burocratico, e in genere di tutta l'amministrazione dello Stato, in simultanea ad ogni passo verso il cosiddetto decentramento autarchico. Quando questa riforma si affidò, conferendogli l'incarico di ministro, a Massimo Severo Giannini, 1'AICCRE l'appoggiò e criticò violentemente il sabotaggio a cui Giannini fu sottoposto, salvo
poi a liquidarlo sic et simpliciter. I1 problema
rimane aperto e non suscita tuttora l'attenzione, la competenza e la buona fede, di cui
avrebbe bisogno.
(2) Una ulteriore. dura pressione - unita al bagaglio teorico che si andava formlindo sul sistema interno delle autonomie territoriali, al problema della partecipazione dei
singoli cittadini e al rispetto delle autononiie dei Poteri
locali infraregionali (da riformare) - partì dall'importante Convegno del Montiferru in Sardegna (estate 1957),
promosso dall'AICCRE, che si trovava ormai di fronte i
Trattati di Roma e che, d'altra parte, portava avanti la riflessione sui Laender tedeschi e anche sui Landkreise. Il
convegno ebbe risonanza nazionale.
3. Ma la necessità di passare a un vero
e proprio Stato federale si faceva sempre
più urgente: per cominciare, affrontiamo
la richiesta ragionata del Senato delle Regioni.
In realtà già nell'intervento AICCRE alle
richieste della Commissione parlamentare
per le questioni regionali, presieduta dall'on.
Cossutta (1984), c'è in abbozzo o definitivamente la nostra maturazione, awenuta progressivamente, sul Senato delle Regioni, con
tutto quello che comporta della posizione
AICCRE su una struttura federale della Repubblica italiana e sull'assetto delle autonomie territoriali italiane e nel quadro, per noi
cogente, di una costruzione federale di una
Unione europea: più che riassumerla ellitticamente, vale la pena di rimandare alla «dichiarazione» contenuta in «Comuni d'Europa» dell'ottobre 1984 (anno XXXIII, n. IO).
Di varii aspetti correlati, diremo specificamente nei punti successivi di questa Nota.
Qui noi potremo anzitutto sottolineare sbrigativamente che essa spiega già la nostra
odierna preferenza, in fatto di Senato delle
Regioni, per il Bundesrat tedesco. Cioè: non
ci soddisfa affatto un Senato delle Regioni
(vedi la Carta di Genova della Lega Nord)
che si limiti ad essere semplicemente un Senato eletto, in via diretta, su dimensione regionale.
I1 Bundesrat è un organo che comprende
gli Esecutivi dei Laender: potremmo forse
concedere che sia espressione dei Consigli o
Parlamenti dei Laender; ma deve essere
espressione dei Laender, cioè delle Regioni.
Esso fa parte di uno Stato federale (la Germania), in cui il Consiglio d'amministrazione
della Bundesbank (e noi sappiamo le severe
competenze della Bundesbank, in sostanza e
soprattutto quella di determinare il tetto dello spendibile nazionale) è designato in maggioranza dai Laender. I1 Bundesrat si inserisce in un Paese ove sono in vigore perequazioni finanziarie, tra le diverse parti del territorio nazionale, verticali e orizzontali (ossia
un reale federalismo fiscale o, più correttamente, come vorrebbero alcuni studiosi, federalismo finanziario). Esso funge nei limiti
accettati dello spendibile nazionale e nella
trasparenza e pubblicità, quale organo di autocontrollo e di equilibrio in una solidarietà
«verificata» dal basso di tutta la «spesa periferica» e quale organo di confronto globale
della «spesa periferica» con la «spesa centrale», e si misura direttamente col Bundestag o
Camera popolare nazionale. Insomma il
Bundesrat fa vivere il massimo di autonomia
territoriale col massimo di coesione nell'ambito dello Stato (nazionale: ma potremmo aggiungere che esso raggiunge il massimo di certezza ed efficienza nei rapporti con
l'Unione federale sovranazionale).
4. Nel 1981, dopo quasi due anni di lavoro, 1'AICCRE pubblicò (Franco Angeli editore [Milano]) il volume «I1 federalismo fi-
scale della Germania occidentale», opera per conto dell'AICCRE - di una ricercatrice tedesca, Sigrid Esser, con una premessa
di Serafini e una prefazione di Alberto Majocchi. È evidenziato - ma non ce ne sarebbe bisogno - che quello della Germania è
un «federalismo cooperativo». L'opera non
aveva precedenti di rilievo in Italia: ma se ne
sono serviti anche taluni studiosi tedeschi.
Per l'AICCRE, comunque, ha segnato uno
dei campanelli d'allarme suonati per far capire in Italia che un serio regionalismo italiano deve imboccare la strada federalista (per
i «curiosi» è ancora utile il testo, curato da
Ettore Rotelli, «I1 regionalismo italiano. Antologia del pensiero regionalista dal Risorgimento ai nostri giorni», Milano, Quaderni
della «Città di Milano», 1962).
In merito non vogliamo aggiungere nulla
alle indicazioni della parte introduttiva di
questa Nota: viceversa vogliamo sottolineare
che la prefazione di Majocchi era limpida
nell'indicare come il «federalismo finanziario» italiano può inquadrarsi nel cammino
verso la moneta unica europea; inoltre (tout
se tient!) rimandiamo all'articolo di Nicola
Pietrafesa («Comuni d'Europa», giugno
1990) sull'esigenza (anche per la finanza locale e regionale italiana) di un'armonizzazione fiscale comunitaria.
5. La Regione della Costituzione del 1948
fu criticata subito dall'AICCRE: ma particolarmente, anche in «Comuni d'Europa», infieriva autocriticamente Mortati. La pluralità
delle competenze enumerate dall'articolo
117 appariva piuttosto casuale e soprattutto
rispecchiava un'Italia pre-industriale - o
quasi -, che non esisteva più. Inoltre non
solo le Regioni erano numericamente troppe, ma la loro dimensione avrebbe dovuto
ubbidire a un criterio, e cioè: la loro dimensione dovrebbe risultare da una misura ottimale di governo, e quindi non si deve prevedere in astratto ma in funzione delle competenze, capitolo che andava (e va) riscritto
(anche se doveva tendersi, a priori, a un
equilibrio tra i caratteri etnici, quelli geologici e quelli economico-sociali). Questi giudizi furono già espressi in «La Regione italiana nella Comunità europea» del 1971.
Comunque abbiamo sempre criticato una
Regione intesa come un Ministato: tanto più
che lo Stato (nazionale), di cui voleva e vuole essere la miniaturizzazione, è già, a sua
volta, in crisi di competenze (3). Abbiamo
(3) Sulla funzione della nazione (italiana) in un quadro
federalista (europeo) - contro cioè una Regione "dalla
sovranità illimitata", in rapporto diretto con l'Ente sovranazionale (si è detto ironicamente) - può citarsi, distinguendo il nazionalismo da una storia italiana come Nazione europea, che ha superato localismi egoistici o miopi, l'editoriale "Virtù contro a furore" di "Comuni d'Europa" (anno XLI, n. 3, marzo 1993). Sui concetti di nazione, etnia, cittadinanza e su un dibattito in corso nel nostro Paese, "miscuglio di vecchio e di nuovo", può leggersi utilmente "Se cessiamo di essere una nazione Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea" di
Gian Enrico Rusconi ([Bologna 19931 I1 Mulino): ma la
rivista dell'AICCRE ha ripetutamente assunto la tesi di
un Risorgimento italiano, che ha significato il consapevole "rientro" del131taliain Europa, in un quadro di finalismo cosmopolitico. Il libro di Rusconi - col quale si
può essere in accordo o in disaccordo - dà comunque
l'occasione di distinguere, con accortezza molto maggiore dell'abituale, l'idea di nazione dal nazionalismo, e inipone che non ci si rifaccia al "romantico" Hegel o al Ri-
NOVEMBRE 1995
sempre dato, per la Regione, grande rilievo
alla pianificazione del territorio, che viceversa nella progettata riforma della recente
bicamerale per le riforme compare, a parità
con le altre, in una insalata acritica di comp e t e n z e , p e r u n n u o v o 117 «farcito».
L'AICCRE, d'altra parte, ha sempre conferito un grande rilievo ai problemi ambientali (tra l'altro ha dato a suo tempo una collaborazione essenziale alla Carta dell'ambiente del CCRE o Carta di Bruges), sforzandosi
di determinare una loro collocazione «strutturale» nell'ambito delle responsabilità pubbliche - cioè soprattutto nelle regole circa lo sviluppo economico-sociale. Ormai
da qualche tempo «Comuni d'Europa» ha
aperto un dibattito su una Regione «dimensione ottimale» per un obiettivo, che 1'AICCRE ha sempre portato avanti, la «sintesi a
priori di sviluppo economico-sociale e di
pianificazione del territorio». Lo sviluppo
economico-sociale, infatti, non può fermarsi
a un nudo elenco di cifre: esso si dispiega su
determinati territori, con le loro caratteristiche, e risulta in abitazioni, opifici, strade,
ponti, gallerie, scariche di rifiuti e tutto il
resto. Quindi una Regione che «preveda» lo
sviluppo economico pubblico e privato, le
esigenze sociali ad esso connesse, e le «condizioni» che ogni territorio pone a priori a1lo sviluppo. La Regione ha problemi del tutto diversi dalla Città e da ogni complesso
urbano (l'ipotesi di Città-Regione - cfr. le
tedesche Città-Laendev, come Berlino, Amburgo, ecc. -, comprensibile ma affrontata
astrattamente a tavolino, è servita a suo tempo a confondere le idee): di conseguenza la
Regione deve avere una dimensione minima, che le faccia contenere i diversi elementi dello sviluppo. Da queste premesse si
comprende agevolmente verso quale Regione si tenda ad avvicinarsi: con l'integrazione, comprensibile anch'essa, che alla Regione, includendo a quelli tradizionali anche
tutti i lavori (le occupazioni) relativi ai «ser-
sorgimento di Giovanni Gentile, che è uno stravolgimento di una storia reale assai diversa da quella che è in sostanza l'introduzione "gentiliana" alla "rivoluzione fascista" - questo è il senso del Risorgimento italiano del filosofo fascista -. Lo stesso concetto di "patriottismo costituzionale", così lucidaniente richiamato di recente da
Andrea Manzella - che parla di "una silente comunione
nazionale" generala dalla Costituzione anche in coloro
che "non l'hanno mai letta'' -, contribuisce a suffragare
il nostro "distinguo", così come il suo "nuovo umanesimo dello Stato" e la spinta a diverse nazioni a limitare "le
proprie sovranità nell'autonoma ricerca di vincoli esterni
alla loro nuova fisionomia statale" si riallacciano, sul terreno istituzionale. a un ethos comune a tutto il nostro Risorgimento - non a quello di Gentile e a una corrente
"eroica" e pre-nazionalista di esso, minoritaria e marginale - e alla nostra Resistenza, anzi collegando l'uno
all'altra e dando una continuità storica - di cui il fascismo è stata una frattura
allo spirito nazionale, fatto più
di amore e di consapevolezza umana, anche in umili cittadini, che di "sprezzante fierezza". Questo richiamo. che
qui facciamo a recenti scritti di Manzella, dà un senso ancor più preciso alla sua relazione nella Conferenza europea delle Amministrazioni locali e regionali, organizzata
dall'AICCRE a Viareggio - ottobre 1994, v. "Comuni
d'Europax del novembre successivo -, e alla sua concezione di federalismo globale, sopra e infranazionale, noncliè della "cittadinanza politica attiva'': sol che sottintende altresì una necessaria rivoluzione della nostra attuale e
di parte della cultura europea post-fascista, ancora inquinate di fascismo; o, meglio, inquinate di quella filosofia,
che si può chiamare - appunto -- "romantica" o addirittura hegeliana - e poi decadentista -, che è stata generatrice di fascismo, nazismo, nazionalismo autoritario,
imperialismo, colonialismo, razzismo.
-
NOVEMBRE 1995
vizi» ambientali, si presenta naturale attribuirle il compito di Agenzia del lavoro (il
che, del resto, era una proposta che correva
a suo tempo in Europa - una Europa delle
Regioni caricate, alla base, dei problemi di
un'occupazione larga e razionale - e che
«Comuni d'Europa» cominciò a far sua una
quindicina di anni fa).
Torneremo su questo tema al punto 7 (federalismo e mercato) e al punto 8 (le leggi
elettorali ai diversi livelli): ma qui possiamo
subito affermare che la componente della
.«pianificazione del territorio» probabilmente richiederebbe più la proporzionale che
non la maggioritaria, sia pure una proporzionale con gli accorgimenti sopra accennati.
6 . Nel rivedere l'assetto degli Enti infraregionali 1'AICCRE ha sostenuto sempre, polemicamente, il criterio «un territorio, un
governo», contro la proliferazione degli Enti
cosiddetti « istituzionali» (non territoriali):
anche in ciò rispettando le esigenze del federalismo. Inoltre, nell'affrontare la problematica dei Comuni e delle Province, ha costantemente lamentato le pressioni delle associazioni di settore, tendenti, con una logica sindacale se non corporativa, al quieta non mouere.
La questione delle «aree metropolitane»
è stata affrontata dall'AICCRE non disgiungendola dai caratteri e dalle competenze
della «nuova» Regione e preoccupandosi altresì di una verifica comparata europea (cfr.
le esperienze spagnola, inglese, tedesca,
ecc., verificate in un grande convegno a Roma, col confronto degli amministratori e
degli esperti dei rispettivi Paesi). Inoltre
1'AICCRE ha temuto e teme che le aree metropolitane divengano uno strumento della
razionalizzazione dell'urbanesimo: per controbilanciare questo rischio ha insistito nel
p r o p o r r e e riproporre l'esperienza dei
Landkreise, le piccole Province rurali, al fine di ripartire più equamente abitazioni,
produzione e servizi su tutto il territorio regionale.
Rimane il problema di un decentramento
burocratico della Regione, prevaricante
rispetto a un decentramento che potremmo continuare a chiamare autarchico: in
sostanza la Regione tende oggi a far meno
del necessario sul terreno della programmazione o semplicemente del coordinamento e
della previsione e a gestire direttamente
mansioni esecutive (anche con i premi elettorali), sottraendole agli Enti democratici infraregionali.
I1 fenomeno della «prevaricazione» regionale ( e del mancato rispetto conseguente
dello stesso principio di sussidiarietà) si è
fatto sentire recentemente in una forte tensione in Germania fra i Laender e gli Enti infraregionali (abbiamo sentito dire ironicamente da colleghi tedeschi: «Meglio uno
Stato centralizzato, che ci lascia vivere, che i
Laender, occhiuti piccoli Stati lesivi della nostra autonomia locale»).
7. Nell'attuale irruzione - che forse, in
definitiva e se vorremo, potrà rivelarsi decisiva - di neofederalismo interno si fa frequentemente riferimento al liberismo economico (4) e ci si collega con esso, particolarmente da parte dei neofiti della Lega Nord.
Vediamo.
Se il riferimento è utilizzato c o n t r o
un'economia assistita e parassitaria, non
possiamo non essere d'accordo. «Comuni
d'Europa» sin dal suo inizio considerò la
Cassa del Mezzogiorno una brutta copia
della Tennessee Valley Authority (TVA) di
roosveltiana memoria. Poi le nostre critiche
si sposarono con quelle di molti meridionalisti federalisti. Più tardi pubblicammo un
libretto, «Lo sviluppo distratto» di Luigi
Trojani (che denunciava per altro l'incapacità programmatoria e la politica-puramente
elettoralistica di molte Regioni, specialmente meridionali), che mandò in bestia un ministro per il Mezzogiorno e trovò la felice
accoglienza dei due membri italiani della
Commissione esecutiva di Bruxelles di allora. Ma fin dai secondi Stati generali di Vienna (1975) la relazione politica - italiana scese più a fondo e analizzò i caratteri di
una economia di mercato, di mercato «democratico». I1 cosiddetto liberismo (liberalismo economico) non è necessariamente
quello reaganiano o thatcheriano ovvero
quello teorizzato dall'economista americano
Milton Friedman. A Vienna si citò largamente un recente libro di Galbraith («Economics and public purpose») e la sua severa
(e ironica) polemica sulla politica dell'offerta nel mercato economico vigente: politica
dell'offerta nelle mani di pochi potenti, le
giant corporations. Varie relazioni uscite rec e n t e m e n t e dalla p e n n a di dirigenti
dell'AICCRE, accettando per ipotesi il mercato come referendum permanente tra i
consumatori, hanno sottolineato che I'informazione della «domanda» non è in alcun
modo democratica e i consumatori sono
semplicemente spinti a un consumismo disinformato e irragionevole. Ma quanto abbiamo detto sopra circa la pianificazione del
territorio e le esigenze ambientali viene a
negare che il mercato economico possa limitarsi a un referendum tra i consumatori. Del
resto, riandando ai padri teorici del mercato
economico, da Smith a Ricardo (e il primo,
oltre che filosofo morale - come si legge
nei manualetti di storia della filosofia dei
nostri licei - era anche un notevole giurista), si può rilevare che li preoccupava l'inevitabile rapporto fra mercato e istituzioni
politiche, non trascurando il ruolo (correttiVO?)delle istituzioni politiche. In sostanza,
anche qui, si pone il carattere essenziale del
federalismo, cioè l'equilibrio tra autonomia
(4) I1 termine "liberismo" è italiano, nato ad opera di Benedetto Croce in una pdemica con Luigi Einaudi per distinguerlo dal liberalismo politico-istituzionale: fuori
d'Italia si ricorre piuttosto a espressioni come "libertà di
mercato (economico)".
COMUNI D'EUROPA
e solidarietà: in economia potrebbe ipotizzarsi l'ideale di un mercato democratico in
cui tutte le iniziative, grandi e piccole, e tutte le esigenze, materiali e spirituali, hanno
possibilità di farsi valere (le sacche di miseria, poi, oltre che ingiuste sono anche costose).
Tutto questo dovrà tenere presente, secondo l'AICCRE, un rilancio economico europeo, e italiano in esso, che sia vòlto ad affrontare una competizione che non è solo infraeuropea, ma mondiale, e che tenga ben
presente la qualità di vita che ne risulta (e
anzitutto che affronti il problema numero
uno, quello dell'occupazione, angoscia non
solo degli statisti ma di ogni amministratore
locale e regionale). Fu per questo che 1'AICCRE lanciò, a cavallo degli anni settanta e
ottanta, il proposito di un New Dea1 europeo, con stretta interconnessione con la situazione italiana. E per questo che L'AICCRE ha accolto con grande attenzione e impegno il Progetto Delors (poi Libro bianco),
ne ha dibattuto in seno ai suoi organi dirigenti, poi in un seminario europeo organizzato a Roma e infine, sperimentalmente, alla
sua base associativa, anche in piccole comunità periferiche (basta leggere «Comuni
d'Europa» per rilevare il successo di questi
esperimenti di base).
A lato di tutto ciò, non si può tacere sempre sul terreno econoinico-finanziario l'impegno dell'AICCRE (questo direttamente europeo, come componente primaria del
CCRE) per soluzioni sovranazionali dei problemi della finanza locale e regionale (abbiamo già visto, nel punto 4, l'attenzione per
l'armonizzazione fiscale comunitaria): ma
ciò rientra nell'attività sovranazionale dell'AICCRE, sezione italiana del CCRE, che
merita (ed avrà a breve termine) un volume
a parte.
8. L'AICCRE non ha trascurato i problemi elettorali posti dal federalismo interno:
ma in realtà su questo tema si è preoccupata,
anzitutto e costantemente, di verificare le diverse proposte elettorali non in astratto, ma
in funzione dei compiti specifici di ogni livello di autonomia. Infatti, a proposito della
Regione, abbiamo osservato cosa richiederebbe una corretta pianificazione del territorio: la legge che ha regolato finora le elezioni
regionali si serviva eminentemente di circoscrizioni elettorali; per cui, abbiamo osservat o , ogni eletto non si muoveva di fatto
nell'interesse di tutta la Regione, ma dei favori alla propria circoscrizione, e poteva
darsi il caso che patteggiasse alcune «debolezze» nella severa pianificazione del suo territorio col collega regionale di un'altra circoscrizione (accordi omertosi).
Giacchè ci siamo, occorre ricordare qui
che abbiamo lottato, invano, per anni in favore di una adeguata legge nazionale sul governo dei suoli. I parlamentari nazionali potranno riferire come le fabbriche di fucili da
COMUNI D'EUROPA
caccia e aggeggi collegati e la rendita fondiaria sono egualmente potenti ( 5 ) .
Ci siamo anche impegnati nello smascherare, più in generale, gli equivoci nati intorno alla valutazione di talune leggi elettorali.
1,'uninominale secca britannica, per esempio, ha alle spalle due solidi, solidissimi partiti politici (lasciando un modesto spazio, nel
mezzo, che era occupato dal classico partito
liberale): è dubbio cosa possa risultare l'uninominale secca senza solidi partiti alle spalle. Si può anche ipotizzare, in questo caso,
l'assenza di un qualsiasi programma di governo, che abbia la forza minima di farsi valere. Ma l'uninominale con ballottaggio rischia alleanze di comodo, variabili da collegio a collegio, col massimo di corruzione:
era l'opinione di un politologo della forza di
Giuseppe Maranini, protagonista, già agli
inizi degli anni cinquanta, della polemica antipartitocratica (alla quale è stato sensibile
l'autonomismo dell'AICCRE).
9. Adesso a colazione e a pranzo tutti
mangiamo il principio di sussidiarietà (e anche di prossimità): l'AICCRE, federalista, li
tiene fermamente presenti da sempre. Ma,
aggiungiamo, tiene altrettanto presente il
principio di interdipendenza di tutti i livelli
di autonomia territoriale (nazionale e, naturalmente, sovranazionale). È per questo (e
anche recentemente a proposito del Comitato delle Regioni e degli Enti locali, sancito
- era ora - dal Trattato di Maastricht) che
1'AICCRE ha sempre insistito non su singoli
livelli di autonomia «separati» (e perfino litigiosi) ma sul sistema delle autonomie. Coerentemente aderiscono all'AICCRE Comuni, Province e Regioni. Su questo punto ci
siamo sempre battuti nel CCRE, che concorda, tutto, con noi.
Naturalmente l'interdipendenza guarda
lontano anche per problemi molti vicini. Gli
scontri razziali nelle nostre Città, l'esasperazione di fronte ai «concorrenti esterni» di
molti lavoratori disoccupati, di molti giovani, come purtroppo si suole dire, «senza arte
nè parte» richiedono - oltre ovviamente
la paziente e severa educazione sul posto,
esemplare e giorno per giorno -, anche l'indicazione coraggiosa di una prospettiva planetaria, epocale. Molti giovani possono rinfacciare ai loro «educatori» che essi vivono
tranquillamente in una società opulenta e
(5) L'AICCRE ha costantemente collaborato con gli urbanisti italiani di punta. più coraggiosi e coerenti - e interessati alle autonomic territoriali -, da Ludovico Quaroni alle sue origini a Giuseppe Canipos Venuti (il maestro dell'urbanistica riformista) in tutta la sua storia (ricordiamo Piccinato, Samonà, Astengo, Benevolo ecc.).
Di Campos Venuti teniamo prest:nti alcune fondamentali
collaborazioni a "Comuni d'Europa" (per es. "Urbanistica ed ecologia riformiste" nel numero di giugno 1990). Si
veda in generale, "Urbanisti italiani", a cura di P.Di Biagi
e P. Gabellini ([Rari] 1992. editori Laterza). Con Benevolo si discusse di un gt-ceil Brlt per la città di Roma.
fanno presto a predicare: in realtà l'unica risposta onesta, in prospettiva, è che la nostra
società battezzata dei «due terzi» (benestanti) non pare che riesca a versare «lacrime e
sangue» a favore di un Quarto Mondo, che
essa ha derubato e deruba quotidianamente
e donde si emigra o, meglio, si fugge in massa per fame e per disoccupazione endemica.
Una Federazione europea, democratica e
giusta - che è il nostro obiettivo -, dovrà
pur fare questa terribile autocritica, perchè
poi si possa, onestamente, «educare» alla
convivenza in una società multietnica: tout
se tient.
La conclusione di questa «sintesi» pare
chiara e semplice. Nell'Europa in costruzione riteniamo utile l'aiuto che, nel servizio
europeo (informazione, partecipazione ai
fondi strutturali comunitari, ecc.), può venirci dalle associazioni «sindacali» dei Poteri
locali e regionali (ANCI, UPI, Conferenza
delle Regioni, ecc.), che, proprio per il loro
limitato carattere, toccano una rilevante
massa di Enti. Anzi questo aiuto può divenire prezioso e ottenere il premio di una presenza europea, ambita come tutte le novità.
Ma compito prevalente di queste stesse
associazioni e di tutti gli amministratori locali e regionali democratici dovrà essere di
rinforzare 1'AICCRE e con ciò il suo peso
nel CCRE: non si tratta qui di un «servizio
europeo», ma di una spinta politica, originale e insostituibile, basata anche su un'adeguata cultura e dedicata totalmente all'obiettivo federalista, infra e sovranazionale. L'interdipendenza tra federalismo interno e federalismo sovranazionale è evidente: ma deve essere altrettanto evidente la partecipazione delle autonomie territoriali alla battaglia federalista - che è tutt'altro che vinta
- accanto a tutte le altre forze della società
e ai loro movimenti, nostri «fratelli». L'AICCRE e il CCRE sono sempre stati e sono
uno dei punti di forza di un «fronte democratico europeo», senza il quale rimarremo
alla debole, incerta Europa intergovernativa
e, in sostanza, non riusciremo neanche a radicali riforme strutturali interne.
Beninteso: è l'idea di un'associazione di
punta, tutta impegnata in questa storica missione, che bisogna difendere a qualunque
costo, non le persone che finora ci si sono
invecchiate. La milizia del CCRE (e quindi
dell'AICCRE) riguarda tutti, assolutamente
tutti coloro che sono pronti a rinunciare al
successo immediato e a lavorare per l'alternativa democratica della costruzione federale europea e del rinnovamento italiano, pure
in senso federale. In una prospettiva missionaria non ci sono problemi di potere, ma solo di dedizione, di cultura e (perchè no?) di
spirito di sopportazione verso coloro che
non ne capiscono il valore.
•
NOVEMBRE 1995
Le riforme per una Italia europea
Sono più di quaranta anni che 1'AICCRE (Sezione italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa)
studia i problemi costituzionali italiani, aiutata dalla collaborazione di alcuni dei massimi costituzionalisti e amministrativi~ti italiani, oltre che dall'esperienza dei suoi soci più attenti, regionali, provinciali, comunali, nonché
da parlamentari europei e nazionali. Non siamo dunque giunti alla crisi e alla svolta italiana attuale impreparati.
Per le elezioni nazionali del 5-6 aprile 1992 abbiamo diffuso un Messaggio di valore non contingente, che ora
proponiamo a tutti coloro che, nel presupposto di necessità di riforme e nella prospettiva delle sole riforme necessarie e senza secondi fini, si stanno variamente impegnando. Ovviamente al centro delle nostre preoccupazioni
c'è il legame prioritario con l'Europa (che noi vogliamo federale, non per astratta utopia ma per logiche e realistiche considerazioni) e l'interesse professionale e profondo per il sistema delle autonomie, che comprende le Regioni (comincia almeno dal 1955 la nostra battaglia specifica per le Regioni): del resto per noi Europa federata ed
autonomie sono interdipendenti e formano un «blocco storico» (secondo una espressione soreliana). Ma un chiarimento è opportuno: noi denunciamo il falso federalismo (lo sfederalismo) di rozzi e incolti secessionisti: l'autentico federalismo è quello che mira alla democrazia, partecipata a tutti i livelli (autogoverno), dell'interdipendenza.
Ricordiamo ai giovani che il Risorgimento italiano - quello di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi, di Rosmini
e di Manzoni, degli Spaventa e di Settembrini - era nazionale nel senso che superava gli egoismi e le grettezze
locali, ma (Cattaneo) esaltava le autonomie mentre guardava, tutto, all'Europa, una Europa ideale che è la nostra
Europa, elemento di un processo planetario per la democrazia fra gli Stati. Questa linea seguirono Antonio Labriola, Sturzo, Turati fino a Luigi Einaudi.
I. La Resistenza europea e la Costituzione italiana
Rivedere, alla luce dell'esperienza, i nostri istituti democratici: ma orientare ogni riforma ai ualori della Resistenza
italiana, che è un elemento della Resistenza europea
Le prossime elezioni si svolgono in un momento delicato della democrazia italiana, al quale bisogna guardare tuttavia
con serenità e con fermezza, analizzando anzitutto i valori, a cui ci dobbiamo tutti riferire.
La Costituzione repubblicana ha degli istituti che, tecnicamente, chiedono modifiche, anche significative - o talora
una lettura più corretta della legge fondamentale -: ma l'ispirazione morale e politica della nostra Costituzione va non superata quanto più profondamente e più coerentemente affrontata.
La Costituzione è un prodotto della nostra Resistenza, che è la liberazione dell'Italia dal fascismo e la rottura con la
vergognosa alleanza nazista, la ricerca della libertà di tutti e di ciascuno, l'obiettivo della pace attraverso un'affermazione
della democrazia non solo negli Stati ma tra gli Stati - tale è il federalismo -.
La Resistenza italiana è un momento della grande Resistenza europea, nella quale non solo si è combattuto ogni totalitarismo, ma anche l'egoismo di quegli Stati democratici che hanno assistito impassibili d'avanzata del fascismo d e proprie porte.
In questo senso l'articolo 11 della nostra Costituzione è figlio, insieme, della Resistenza italiana e di tutta la Resistenza europea.
11. La democrazia europea in costruzione e l'esigenza di adeguarvi le riforme italiane
I poteri adeguati al Parlamento Europeo, punto di riferimento essenziale della democrazia federale, implicano partiti a struttura europea - appoggiati a un fronte europeo economico, sociale e culturale - e un tessuto democratico comune a cui le autonomie temitoriali dànno un contributo decisivo. Quale riforma chiediamo dei partiti politici nazionali
Sarebbe da ciechi non avvedersi, pur negli entusiasmi per la caduta del muro di Berlino e la transizione verso la libertà
e la democrazia nell'Europa centrale e orientale, che la democrazia rischia una crisi, in Italia come in Europa e oltre: e ci
riferiamo anche a tutta l'Europa occidentale.
In questo senso le riforme istituzionali, che ci ripromettiamo di discutere e realizzare in Italia, non possono prescindere
d d e istituzioni democratiche, che vogliamo realizzare su scala europea: cioè noi vogliamo l'unità europea - in vista di una
più larga unità internazionale - non come una unione qualsiasi, ma come l'affermazione di una democrazia sovranazionale,
alla quale è legato lo sviluppo di quella italiana. Un mercato unico, dai confini sempre più larghi, è uno strumento, non un
fine: esso va governato e va governato da una democrazia parlamentare al livello in cui esso si dispiega. Nella disputa lessicale
fra federalismo e confederalismo va detto con semplicità che l'Europa in costruzione non può essere - o essere solo - 1'Europa dei governi, ma deve essere anzitutto l'Europa del Parlamento Europeo, considerando che l'Unione europea rende ormai
incapaci i singoli parlamenti nazionali di guidarne la governabilità. Non vogliamo una edizione aggiornata della Santa Alleanza, con gli ideali di Metternich.
I1 Parlamento Europeo è il riferimento primario, ma esso non può essere disgiunto daila formazione di partiti europei
e da un tessuto democratico comune della società europea, che si sviluppi particolarmente attraverso le, Regioni e tutto il
sistema democratico delle Autonomie locali.
Si parla molto di partitocrazia, e qui bisogna chiarire una volta per tutte che una democrazia parlamentare non può fare
a meno dei partiti politici. Questi per altro debbono ubbidire alla funzione, per la quale sono richiesti: proporre all'elettorato
NOVEMBRE 1995
COMUNI D'EUROPA
programmi e strategie politiche alternative, ma sempre con lo scopo unico del bene comune, del rispetto delle regole del giuoco, e limitandosi a fare da tramite fra la sovranità popolare e le istituzioni politiche. In questo senso se è vero che i partiti
hanno contribuito in modo decisivo a far crescere la giovane repubblica democratica, è altrettanto evidente che essi hanno
sorpassato quanto indicato dall'articolo 49 della Costituzione, non limitandosi a «concorrere» a determinare la politica nazionale, occupando Stato e istituzioni.
Sui partiti italiani si possono fare quanto meno le osservazioni seguenti:
* se si vuol contribuire alla costruzione di una democrazia europea, i partiti italiani, come tutti gli altri partiti dei Paesi
dell'unione europea, debbono ubbidire a fini prioritari europei, darsi una comune struttura europea, appoggiarsi a un fronte
europeo di forze sociali, economiche, culturali; i partiti europei non possono essere la somma degli orientamenti delle segreterie dei partiti nazionali;
* i partiti in ogni caso hanno il compito di delineare, proporre, appoggiare programmi di governo, non di regolare dal loro punto di vista particolare - i vari momenti di sviluppo democratico della società: se mai debbono aiutare la società
ad esprimersi sui vari quesiti, che pone - in tutti i suoi aspetti - la cura dell'interesse generale. In questo senso la «Carta
europea delle libertà locali», lanciata dal CCRE nel 1953, afferma l'esigenza della creazione di «mezzi stabili perché ogni
cittadino, cosciente di essere membro della comunità e vincolato alla collaborazione per il sano sviluppo della comunità stessa,
prenda parte attiva alla vita locale»: intendendosi per vita locale il primo livello di una piramide democratica, che vuole proporre soluzioni di interesse generale a tutti i livelli, in una società complessa e massificata, in cui l'associazionismo politico
- cioè in favore di tutta la «polis» - è di regola sconfitto dal coagularsi di interessi settoriali, privilegiati, neo-feudali, insomma dal corporativismo. É il problema dell'organizzazione della partecipazione popolare, istituzionalizzata e continuativa, alla
cosa pubblica.
I pericoli della democrazia plebiscitaria
Il referendum è un istituto atto a dqendere certi diritti fondamentali: esso è la garanzia ultima della souranità popolare. Ma l)amministrazione ordinaria di uno Stato spetta al suo governo e il Parlamento ne detemzina le leggi,
ordinarie e costituzionali
L'istituto del referendum è un istituto eccezionale, straordinario: in una normale fisiologia democratica esso non può
inserirsi tra Parlamento e Governo, alterando la coerenza del governo stesso e deresponsabilizzandolo; come è da escludersi
che riforme costituzionali possano farsi per referendum - le Costituzioni hanno una loro architettura, pesi e contrappesi,
e non possono riformarsi frammentariamente (possono in definitiva per referendum accettarsi o respingersi in toto) -;
il referendum è un istituto idoneo alla richiesta e all'ottenimento di diritti fondamentali, e in caso di sclerosi partitico-istituzionale per dare un'arma ai cittadini, onde ristabilire una corretta fisiologia democratica, che non sopporta monopoli
o oligopoli di potere (ciò vale anche per il monopolio di un governo o di un parlamento nazionale, se si pensa possa impedire
o rallentare indebitamente quella che, nel caso italiano, è la limitazione di sovranità prevista dall'articolo 11 della Costituzione);
ma, nel momento in cui vogliamo provvedere alla riforma o all'aggiustamento degli istituti democratici, occorre tenere
presenti i pericoli della democrazia plebiscitaria, foriera così spesso di regimi totalitari.
IV. Per l~autonomismofederale in un mondo di solidarietà, contro il separatismo e il
micronazionalismo
Le autonomie territoriali sono un momento del federalismo integrale, che si basa szrll'interdipendenza economica,
sociale, culturak di tutti i Paesi e di tutti i livelli della società. Il separatismo e l'autodetemzinazione che facciano
premio sull'offerta di libertà a tutti i cittadini senza distinzione, sono il contrario del federalismo. La garanzia
dei diritti delle minoranze etniche, linguistiche e religiose deve arricchire la civiltà di tutti
Le prossime elezioni nazionali si svolgono in un momento in cui in Italia, come nella piccola e nella grande Europa,
è acuto il problema teorico e pratico dell'autonomia territoriale: spesso nell'Europa centro-orientale fanno premio l'autodeterminazione e il separatismo sull'autogoverno, !a solidarietà e il principio di sussidiarietà inteso nella sua interezza (e non a
senso unico). Nazionalismi e micronazionalismi si scontrano, sembra di tornare, con un peggioramento, all'Europa del 1919:
il separatismo «sempre e comunque» pone il problema, drammatico, delle minoranze nelle minoranze, mentre dovrebbero
affermarsi i concetti di dinamica interculturale e di rispetto prioritario della singola persona umana (si comincia a parlare
spesso, positivamente, dell'Europa dei cittadini). In questo contesto va certamente iscritta l'esigenza di adeguate norme di
garanzia dei diritti delle minoranze etniche, linguistiche e religiose, intese non già come portatrici di tendenze separatiste,
ma come elementi di ricchezza dell'Europa plurilingue e multiculturale.
E in questo panorama involutivo che si colloca l'emergere, in Italia, delle cosiddette deghe regionali». La critica, anche
dura, dei partiti non deve portare ad aberrazioni come l'ipotesi di Regioni autarchiche, Regioni ricche distinte da Regioni
povere, Regioni che credono di potersi associare d'Europa ricca e Regioni che si respingono nel Terzo Mondo. I1 mercato
non deve essere un feticcio, va regolato, ma ha pur sempre le sue regole intrinseche: le Regioni povere si devono aiutare
ad acquisire un maggiore sviluppo economico e a divenire consumatrici in un mercato comune; e bisogna ricordare, sul terreno etico, quanto abbia contribuito alla ricchezza delle Regioni benestanti il lavoro immigrato dalle Regioni povere. Ma soprattutto non può disconoscersi l'impegno secolare, da cui è nata faticosamente una nazione: di questa il nazionalismo è la
corruzione, che interrompe la via del progresso. Quella che è da chiedere quindi, e con ben più fondata severità, è la riforma
della politica e dei partiti, non la loro sostituzione con corporazioni che rappresentano il contrario della politica nel suo significato profondo e della democrazia, cioè gli interessi particolari e il rifiuto di un mondo che, piaccia o no, è interdipendente:
NOVEMBRE 1995
accanto all'autogoverno deve affermarsi la solidarietà e con essa il potere democratico sovraordinato, che è la garanzia della
pace, locale e planetaria.
Nell'Europa del dopoguerra, e particolarmente in Germania, ci si riferiva sovente a una «economia sociale di mercato»:
a parte come sia stata poi utilizzata la definizione, noi pensiamo che in sé e per sé sia corretta, anzi illuminante. Forse mai
si è resa tanto utile questa definizione come nel momento in cui la Comunità europea - che si vuole trasformare in Unione
- è alle porte di un mercato unico (e in esso l'Italia: 1 gennaio 1993). Un libero mercato, che conduca a esiti democratici,
non è qualcosa di automatico e non può procedere in maniera anarchica: esso va continuamente ricondotto nei suoi binari
razionali, va insomma governato. In questo senso il problema di un mercato democratico si incontra con quello di ragionevoli
autonomie regionali e locali. Va da sé che in ogni caso a un mercato veramente libero deve corrispondere una informazione
del tutto autonoma dai grandi interessi, che va al di là della pur giusta «tutela del consumatore»: e ciò è ancora lontano dall'avverarsi. Poi alle Regioni sfavorite - per una serie di cause obiettive, e non si tratta di parassitismo - deve andare incontro
una politica regionale a livello di mercato (che sarà, questa volta, il mercato unico dell'unione): quindi politica regionale a
livello corrispondente, con ciò che ne consegue sul bilancio comunitario (e qui viene in mente l'ormai storico rapporto Mc
Dougall circa le dimensioni congrue del bilancio comunitario).
V. Quali autonomie territoriali in una Italia europea
Un'Italia con le dovute riforme sarà un contributo essenziale alla costmzione della Federazione europea. Il Senato
delle Regioni, il federalismo fiscale, le ageuolazioni alla imprenditorialità dei Poteri regionali e locali. La rappresentanza del sistema delle autonomie territoriali si rafforza al liuello dell'Unione europea
L'Italia ha cominciato finalmente, con la legge 142, una prima riforma delle autonomie territoriali, che per altro - anche nella prospettiva europea - va approfondita, precisata e largamente integrata. I problemi chiave, irrisolti, sono anzitutto
tre: 1)la riforma della Regione; 2) l'autonomia finanziaria e la sua sistemazione nel quadro nazionale ed europeo; 3) la legislazione elettorale e l'organizzazione fiscale.
1) La Regione deve veder mutato l'articolo 117 della Costituzione. Alla divisione, arbitraria e di selezione obsoleta,
per materie singole, deve subentrare il coordinamento complessivo dello sviluppo economico e sociale e una pianificazione
del territorio, che verifichi a priori come lo sviluppo si potrà dispiegare ragionevolmente nello spazio: il nemico da combattere
è la rendita fondiaria, la speculazione sulle aree - che del resto richiede da tempo, invano, una adeguata legislazione nazionale sul governo dei suoli -. Si è poi proposta talvolta una rete europea di Agenzie regionali del lavoro: certamente a livello
regionale si può organizzare convenientemente il terziario sociale. In linea di massima, mentre la Regione dovrebbe programmare, l'esecuzione andrebbe restituita agli Enti infraregionali.
Dovrà essere rapidamente attuata l'organizzazione delle Aree metropolitane, prevista dalia 142, ma con la costante
preoccupazione di stabilire un equilibrio regionale, evitando una irrazionale concentrazione nelle metropoli, che non devono
egemonizzare il territorio regionale. Si può studiare, per il riequilibrio, la proposta di piccole Province «rurali, che coordinerebbero i Comuni minori, valendosi anche dell'esperienza dei Landkreise della Germania federale.
2) La piena autonomia finanziaria di Comuni, Province, Regioni - a partire dall'autonomia fiscale - andrebbe decisamente e coraggiosamente stabilita, ma ad alcune condizioni:
a) la simultanea realizzazione di un federalismo fiscale: perequazioni verticali (dallo Stato e dalia Regione in giù)
e orizzontali (fra Enti omogenei), come avviene in altri Paesi europei;
b) la creazione nel nostro Paese del Senato delle Regioni (da sostituire all'attuale), che fra l'altro dovrebbe rendere
trasparente e coordinata la spesa «periferica», confrontandola poi globalmente con la spesa «centrale», e non dimenticando
che la spesa locale - che ha un suo pieno diritto - non è per altro una variabile indipendente - non lo è rispetto alla
moneta nazionale, non lo sarà rispetto alla moneta europea -.
3) Nel campo della legislazione elettorale si deve in generale riequilibrare la rappresentanza femminile, e quindi riequilibrarla nei luoghi della decisione. Una nuova legge elettorale per quanto riguarda le Regioni dovrà favorire la crescita di dirigenti politici regionali, autonomi dagli interessi particolaristici degli Enti infraregionali. Infine 1'au;onomia fiscale deve
corrispondere a una reale partecipazione del sistema delle autonomie all'organizzazione del prelievo fiscale.
I problemi finanziari delle autonomie (e non solo essi, ovviamente) andranno d'ora innanzi discussi preliminarmente
a scala comunitaria da parte del Comitato delle Regioni e delle Autonomie locali, previsto dagli accordi di Maastricht, che
in questo hanno, positivamente anche se parzialmente, risposto a una richiesta avanzata da anni dal CCRE. La nostra strategia prevede per altro una trasformazione del Consiglio dei Ministri comunitario (e ora dell'unione) in un Senato che rappresenti gli Stati e assicuri una presenza dell'ordinamento regionale e locale.
l'l Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa, convinto che bisogna stimolare le capacità imprenditoriali del sistema
delle autonomie, non appena si è passati alla libera circolazione comunitaria dei capitali ha intrapreso lo studio per un istituto
o un consorzio di istituti di agevolazione europea al credito finanziario locale e regionale. Ciò richiama una classica funzione
moderna della banca, che è quella (in termini rigorosi di economia di mercato) di favorire la imprenditorialità di chi - ricco
o povero in partenza - presenta progetti di investimenti realistici e rigorosi, se non di favorire con una puntuale collaborazione tecnica codesta progettazione. I1 credito agevolato, invece, rimarrebbe problema della politica regiofiale ovvero dei fondi strutturali, con l'obiettivo di correggere le distorsioni di mercato e aiutare i territori sfavoriti da cause obiettive.
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COMUNI D'EUROPA
VI. Un grande impegno nazionale per essere coerenti con l'impegno europeo e
federale preso dai padri della Costituzione
Per partecipare all'Unione economica e monetaria europea l'azienda Italia deue compiere un salto di qualità. La
riforma dell'Amministrazione centrale deue essere a sua uolta coordinata con quella dei Poteri periferici
Sembrerebbe superfluo sottolineare che l'Italia deve fare ogni sforzo umanamente possibile per ricondursi a un livello
di finanza pubblica adeguato alla piena e tempestiva partecipazione d'Unione economica e monetaria europea; e deve altresì
operare quella che è stata chiamata la «riforma costituzionale della finanza pubblica»: ma va detto che occorre chiamare in
causa le forze economiche e sociali - tutte -, perché, consapevoli non a parole di questa necessità sovrastante, si confrontino direttamente e si accordino per la ripartizione equa di duri sacrifici, che si presentano in Italia come irrinunciabili per
tutti; fermo rimanendo che il partecipare a pieno titolo d'Unione economica e monetaria è nell'interesse di tutte le parti
in causa, dello sviluppo produttivo e delle esigenze imprenditoriali come dell'occupazione dei lavoratori. I1 mondo delle autonomie si sta impegnando in merito: ma la Sezione italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa afferma ancora
una volta - e questo proprio in rapporto alla 142, alla revisione dell'impianto regionale e a tutti i problemi correlati - che
va condotta una simultanea riforma dell'amministrazione centrale, a suo tempo abbozzata e abbandonata. Inutile parlare dell'Italia dove i servizi pubblici norx funzionano - anche con grave danno dell'economia - se non si aggiorna e coordina il
sistema amministrativo, centrale e periferico: e qui l'invadenza dei partiti è una chiara distorsione della democrazia.
1
Contro il razzismo in Italia e in Europa, per una redistribuzione rivoluzionaria dei
cespiti di ricchezza ai Paesi della fame
La connessione tra i problemi locali e quelli europei e internazionali si tocca con mano a proposito dell'imzione
massiccia di cittadini dal Teno Mondo in Europa e nelle nostre Città. Non si tratta soltanto di regolare a valle
il processo di costruzione multietnica, ma di impegnare la Federazione europea a monte, nei Paesi della fame e
dell'esodo drammatico e iwesistibile
Infine, in questo delicato momento della democrazia, dobbiamo parlare del razzismo, con assoluta chiarezza. Avvengono
episodi - non solo in Italia - che fanno orrore e che ci riportano ai momenti più bui del nostro Paese e dell'Europa. Va
aiutata la formazione, col contributo della scuola, della cultura e di tutta la società, di una Europa - e in essa di una Italia
- multietnica. Ma di fronte a una travolgente immigrazione, epocale, annunciata e probabile, da un mondo diverso nel nostro vecchio mondo europeo, occorre realisticamente osservare che la costruzione di una effettiva società multietnica richiede
tempo, pazienza, gigantesco e capillare impegno culturale, oltre che una continua tensione morale, uno slancio e una speranza
concreta nel «nuovo». Regolare quindi l'immigrazione? Senza dubbio, ma la condizione per rendere moralmente accettabile
questa regolazione è un intervento straordinario - nella situazione attuale impensabile - a monte, nei Paesi della fame e
della bomba demografica, da parte dei Paesi ad «alto sviluppo economico» e in particolare dell'Europa. Ma questa Europa
degli Stati, l'Europa dei compromessi intergovernativi, non è quella che lasci prevedere un intervento di tale portata, non
è quella - per dirla in breve - che si accinga a un rapporto fraterno e veramente risolutivo con l'Est d'Europa e col Sud
del Mondo. Se si ha paura di parlare di Europa federata, la battaglia è già perduta in partenza: come è già perduta in partenza
la battaglia per una pace stabile, per un disarmo effettivo, per una riforma delle Nazioni Unite che mettano ordine in un
Pianeta dissestato (e non si tratta solo dell'ozono).
VIII. L'esperienza di governo locale e regionale è patrimonio prezioso per costruire
l'Unione federale europea
Le riforme italiane e la costmzione democratica e federale europea sono strettamente collegate: sono fenomeni
sinergici. L'impegno italiano e l'impegno europeo hanno una comune trincea: la battaglia è unica
Concludiamo dunque col ripetere che una campagna elettorale nazionale - e dunque la nostra campagna che si concluderà il 5 e il 6 aprile - deve trovare la consapevolezza di elettori e candidati che il primo e fondamentale problema è quello
di considerare lo stretto, strettissimo legame tra riforme italiane e riforme europee, tra ripensamento degli aspetti strutturali
della democrazia italiana e creazione autentica della democrazia europea. Molti candidati provengono da una esperienza di
governo locale o regionale: non disperdano il grande patrimonio acquisito e portino nel Parlamento la volontà di cambiamento
espressa in tante battaglie combattute anche nell'AICCRE. La creazione di una Unione democratica e federale, che sviluppi
il nucleo duro (i Dodici) dell'integrazione, ma sia aperta, nella chiarezza, a tutta la grande Casa europea; una Unione popolare
basata, secondo la vecchia e sempre più attuale parola d'ordine del CCRE, sul rilancio delle autonomie territoriali, e quindi
della democrazia di base. Questa e non altra deve essere l'Europa dei cittadini, e quindi l'Europa che coroni le aspirazioni
più pure e più indiscutibili della Resistenza, che non prevedeva cortine di ferro e aspirava in definitiva agli Stati Uniti d'Europa dall'atlantico agli Urali: di qui i doveri che ci provengono da un impegno politico, economico e sociale immediato (e
già intrapreso dal CCRE) per sostenere la piena partecipazione dei popoli del Centro e dell'Est all'obiettivo comune. Noi
guardiamo a una costruzione democratica e federale dell'Europa e a questa costruzione debbono guardare le nostre riforme
istituzionali ed economiche interne.
(approvato dal Consiglio nazionale dell'AICCRE il 24-2-1992)
COMUNI D'EUROPA
NOVEMBRE 1995
Appendice
Questo testo, lanciato agli Stati Generali di Versailles nel 1953, dopo una inchiesta sovranazionale e una lunga
elaborazione del CCE, per la parte italiana ha avuto la collaborazione di Renato Brugner, studioso di sistemi amministrativi tedeschi, ~ a m b e r t oIori, assessore del Comune di Milano, Costantino Mortati, membro del17Assemblea
costituente e costituzionalista, Giambattista Rizzo, costituzionalista, Umberto Serafini, storico delle dottrine politiche e segretario generale dell' AICCE (allora senza la R).
Carta europea delle libertà locali
Amministratori locali! Consiglieri comunali, provinciali, regionali! Provocate nelle Vostre assemblee la discussione e la ratifica della <<Cartaeuropea delle libertà locali».
I
- Preambolo
Le comunità locali d'Europa, unite al disopra delle
frontiere nel Consiglio dei Comuni d'Europa, fermamente decise a creare nell'interesse dei loro cittadini
un'Europa libera e pacifica, hanno nuovamente stabilito e fissato come segue i diritti che, santificati da un'esperienza millenaria quale uno dei fondamenti della libertà umana, sono ora minacciati e spesso soppressi.
I1 Consiglio dei Comuni d'Europa difenderà questi
diritti e si affiancherà ad ogni comunità locale in lotta
per essi, con la forza di tutte le sue comunità.
B - Premesse generali
1) L'autonomia delle comunità può esistere soltanto
se nel popolo vive un tenace desiderio di autogoverno
locale. Essa può svilupparsi solo quando non predomina il principio autoritario e se tanto i cittadini quanto le
comunità sono pronti ad assumere la responsabilità di
subordinarsi alla legge, ma sono decisi a non accettare
personalmente né collettivamente i m p ~ ~ i ~dall'alto.
i~ni
2) L'applicazione della legge deve essere tale che il
diritto della comunità inferiore sia salvo nei confronti
delle comunità superiori
ed il diritto del cittadino nei
confronti della comunità.
3) Le comunità devono essere consapevoli di costituire il fondamento dello Stato. Esse devono sviluppare
una azione amministrativa e creare i mezzi stabili perché ogni cittadino, cosciente di essere membro della comunità e vincolato alla collaborazione per il sano sviluppo della comunità stessa, prenda Parte attiva alla via
locale.
ZII
- Definizione
delle libertà comunitarie
1) Le libertà delle Comunità territoriali devono essere garantite dalla Costituzione con possibilità di ricor-
NOVEMBRE 1995
so, in caso di violazione da parte dei poteri centrali ad
organi giurisdizionali indipendenti.
2) 1 progetti di legge organici degli Enti locali devono, salvo il caso di urgenza dichiarato dal Parlamento,
essere sottoposti al parere di una rappresentanza delle
Comunità interessate.
3) Tutti i compiti di carattere locale sono attribuiti alle Comunità. Esse, nei limiti della legislazione statale,
stabiliscono le norme per l'adempimento dei compiti
predetti, nonché quelle delegate dallo Stato necessarie
ad adattare l'esecuzione delle leggi generali alle particolarità locali.
4) Per l'assolvimento dei loro compiti debbono essere riservate alle Comunità proprie fonti di imposizioni.
Se non fossero sufficienti, i mezzi finanziari saranno
completati mediante un sistema di compensazione senza che ne possano derivare limiti all'autonomia delle
Comunità.
5) I1 potere di decisione negli affari comunitari e l'utilizzazione dei mezzi finanziari spettano ai cittadini o
ai rappresentanti da essi eletti. L'assunzione, il trattamento economico, le promozioni ed i provvedimenti disciplinari degli impiegati delle Comunità, nel quadro
delle disposizioni legislative statali se necessarie, spettano alle Comunità stesse.
6 ) Gli amministratori locali sono responsabili del
buon assolvimento delle loro funzioni davanti
comunità. Ad ogni membro della Comunità è concesso di
promuovere le azioni per far valere le responsabilità dei
medesimi.
7) I1 controllo amministrativo si limita al giudizio di
legittimità ed è esercitato da organi indipendenti. In casi determinati dalla legge, può essere ammesso un controllo di merito soltanto al fine di invitare le Comunità
locali a riesaminare le loro deliberazioni.
8) Le modificazioni territoriali delle Comunità devono effettuarsi secondo un procedimento legale che contempli la consultazione delle popolazioni interessate.
9); Le Comunità e le loro Associazioni hanno il diritto di aderire ad organizzazioni comunitarie internazionali, che riconoscano formalmente i principi fondamentali di questa Carta.
AICCRE
SEZIONE
ITALIANA
DEL
CONSIGLIO
DEI
COMUNI
E
DELLE
REGIONI
D'EUROPA
ASSOCIAZIONE EUROPEA DEI COMUNI, DELLE PROVINCE, DELLE REGIONI E DELLE ALTRE COMUNITÀ LOCALI
00187 ROMA
i
PIAZZA DI TREVI, 86
i
TELEFONO (06) 699.40.461 (6 LINEE) - FAX (06) 6793275
NOVEMBRE 1995
AICCRE e CCRE
Confronto organico tra Italia e Grecia
di Franco Punzi *
Si è svolta ad Amaroussion dal 15 al
19 novembre la I11 Conferenza delle
Città gemellate Italia-Grecia con la partecipazione dei rappresentanti di Cipro
e di Malta e la presenza di Autorità politiche e diplomatiche dei Paesi interessati.
L'iniziativa, avviata nel 1993 a Rethgmon (Creta) dalla Comunità Ellenica in
Italia con la collaborazione dell'AICCRE e della KEDKE e ripetuta nel 1994
in Calabria nella città di Bova, si prefiggeva di rafforzare i rapporti tra le popolazioni e arricchire i programmi di gemellaggi. Naturalmente nelle prime due
sessioni si è sviluppato il discorso politico anche allargato alle altre realtà che si
affacciano sull'Adriatico. Ouindi un'iniziativa, che poteva sembrare in un primo
momento accademica, è divenuta ricca
di contenuti e di programmazione e un
appuntamento che potrà divenire istituzionale.
In particolare, i risultati positivi della
I11 Conferenza delle Città gemellate Italia-Grecia rappresentano certamente per
le due sezioni del CCRE, 1'AICCRE e la
KEDKE, un tassello importante del lavoro che si va svolgendo nell'ambito della cooperazione tra i popoli dell'area nel
Mediterraneo. Naturalmente nessuno si
fa illusioni che un'iniziativa del genere
il toccasana o possa
possa rappresentare
essere esaustiva rispetto alla situazione
delicata che interessa i vari paesi che si
affacciano sulle sponde dell'Adriatico.
Le problematiche sono molte e non
facili e andrebbero affrontate in sede governativa con equilibrio, con competenza, ma anche con tempestività. L'Europa
a due o a tre velocità più volte paventata
e da qualcuno invocata, rischia di divenire una realtà difficilmente recuperabile. Immigrazione ed emigrazione vanno
alterando gli equilibri nazionali interni,
perché manca una politica di programmazione territoriale.
Viene fuori prepotentemente il dramma della disoccupazione e la mancanza
di certezze in tutti i campi e quindi gli
enti locali si vanno rendendo conto che i
tempi avanzano e richiedono una forte
solidarietà per superare momenti difficili per la democrazia, lo sviluppo e l'economia.
Certamente occorre una cultura nuova soprattutto Per i Comuni, le Province
e le Regioni, che devono prendere coscienza di uscire dal proprio campanile e
spaziare verso orizzonti più vasti e articolati, ma soprattutto orientare il loro
impegno in dimensione europea allargata ai paesi del Sud. Nella Conferenza di
Amaroussion si è notata l'attenta partecipazione di circa 100 sindaci all'ascolto
delle relazioni nelle varie tavole rotonde,
ma anche al dibattito ricco di confronti
e di esigenze. In particolare si è constatato il contrasto che ancora esiste nella
legislazione che disciplina la vita degli
enti locali, proprio tra l'Italia e la Grecia, che determina scollamenti, ma soprattutto l'impossibilità di avere un confronto organico sugli interventi amministrativi.
Giustamente ci stiamo preoccupando
dell'attuazione del Trattato di Maastricht, della moneta unica, ma i governi si
dovrebbero attivare per uniformare le
materie amministrative basilari per l'attuazione dell'integrazione, della cooperazione e per gli stessi gemellaggi.
In conclusione in previsione delle assemblee congressuali che 1'AICCRE si
appresta a celebrare, è opportuno fare
una profonda riflessione, oltre che sui
temi di carattere politico, anche sul ruolo che l'Associazione dovrà svolgere nei
prossimi anni per rendere sempre più
.
protagonisti gli enti locali affidando a loro mezzi, legislazioni ed autonomia che
permettano non solo enunciazioni o programmazioni vaghe, ma cooperazione
effettiva e solidarietà reale. I problemi
della Bosnia, dell'Albania, della Turchia,
della stessa Grecia, sono anche problemi
nostri e se non riusciremo ad affrontarli
oggi, domani saremo travolti e sommersi, senza possibilità di recupero.
La Conferenza di Amaroussion ci ha
detto anche questo, trasferiamolo agli altri e certamente renderemo più forte o
più credibile L'AICCRE che ha uno spazio molto ampio da occupare in questo
W
momento storico.
Un dovere
Abbonarsi a «Comuni d'Europa» è un
dovere individuale per tutti gli amici e i
colleghi. Per gli Enti è un dovere abbonare tutti i loro consiglieri eletti.
Da questi impegni, in realtà, si verifica
la coerenza dell'impegno europeo e federalista: questo impegno «Comuni d'Europa», che si stampa col '96 da 44 anni,
lo merita. Lo meritano la sua capacità di
informare, la spregiudicatezza dei suoi
giudizi, la cultura dei suoi collaboratori,
la sua coerenza federalista.
A
~
~,,icario d e 1 ~j , ~ 1 c ec ~ ~ ~
Federazione ygliese dell'AICCRE.
2
NOVEMBRE 1995
della
~
Nello scorso novembre è stato firmato un protocollo di intenti per il gemellaggio che vedrà uniti i Comuni
di Crispiano, in Provincia di Taranto, quello greco di Nea Halkidona, e Lefkara, Cipro. Da sinistra a destra: Francesco Paolo Liuzzi, Sindaco di Crispiano; Sofoclis Sofocleus, Sindaco del Comune cipriota di
Lefkara; ~Franco Punzi,
nazionale
Nicolas
Sindaco~ di Nea
~ vicepresidente
~
i dell'AICCRE;
d
~ Papamicrulis,
~
Halkidona.
COMUNI D'EUROPA
~
Federalismo e parte(:ipazione in Sardegna
È con piacere che h o portato al IV Congresso regionale dell'ANCI il saluto più caloroso, non formale dell'Associazione del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa.
Di quella associazione di Comuni italiani ed
europei che da decenni si battono per un'Europa unita, più giusta e democratica.
Per un'Europa il cui progresso economico
si realizzi nel quadro di un mercato interno libero, e non nel contesto di economie più deboli soffocate da quelle forti, di una moneta
comune, mediante un corretto rapporto di
scambi internazionali.
Una Europa che possa e sappia assolvere ad
un suo ruolo autonomo di interlocutore autorevole nelle relazioni internazionali, per la sicurezza, la distensione, il disarmo e la cooperazione (non come awenuto sulla lunga e tormentata vicenda dell'ex Jugoslavia), per la libera circolazione delle persone e delle idee oltre che delle merci.
L'azione dell'AICCKE, in collaborazione
con 1'ANCI e con le altre associazioni e movimenti federalisti, si è concentrata sui principali problemi interessanti la vita dei cittadini europei.
Sui problemi della scuola e dell'università,
dell'occupazione dei giovani, della sicurezza
sociale e sulla necessità dell'adeguamento dei
diversi settori produttivi ed economici: industriale, finanziario, bancario, terziario, artigianato, servizi agro-alimentari, distribuzione,
salvaguardia e difesa dell'ambiente, scambi
culturali, gemellaggi.
Determinante l'azione in favore degli enti
locali perché il fondo sociale fosse reso disponibile, l'istituzione del fondo regionale, nonché tutta una serie di interventi comunitari che
incidono sulla vita quotidiana dei cittadini.
È stata costante l'azione di promozione, divulgazione e di dibattito. Come è stato sottolineato, siamo in un momento particolarmente
delicato in cui regnano contraddizioni e incertezze, ipotesi non tranquillizzanti per i sindaci
e gli amministratori degli enti locali.
È vero che la legge per l'elezione diretta del
sindaco ha creato una dinamica interessante
perché finalmente i cittadini hanno un interlocutore identificabile e visibile, cui rivolgere le
proprie istanze di partecipazione.
Ma quanto fatto, che pure costituisce un
rafforzamento della legittimazione della rappresentatività, carica il sindaco anche di più
precise responsabilità.
È vero che la 142 consente alle amministrazioni di disporre di nuovi strumenti, ma non
sempre questi sono proficuamente utilizzabili.
Oggi il compito del sindaco e dell'amministratore è sempre più complesso, e come è stato
detto persino rischioso.
È sempre più difficile prendere decisioni
che vanno nell'interesse della collettività, perché rischiano di determinare reazioni negative.
Ciò soprattutto quando l'attuazione di
quelle decisioni porteranno ad infierire sulle
magre risorse dei contribuenti, se si vogliono
recuperare i costi dei servizi (nettezza urbana,
acque, spese urbanistiche, ecc.). D'altra parte
i comuni, con l'attuale tendenza ad una drastica riduzione dei flussi finanziari da parte dello
COMUNI D'EUROPA
Stato, non potrebbero fare altrimenti. La recente sollecitazione dei sindaci contro i drastici tagli previsti dalla finanziaria ne sono la dimostrazione evidente.
È stato infatti calcolato che individuando il
peso del debito pubblico, i vincoli imposti dalla Unione Economica Monetaria per programmare un graduale rientro implicherebbero in
Italia una riduzione dei trasferimenti dallo
Stato alle Regioni e agli enti locali pari a più di
70.000 miliardi di lire l'anno.
Ciò non potrà che innestare una crescente
insoddisfazione in tutte le collettività locali. I1
dilemma di fronte a cui si trovano i Governi
regionali e locali sarà: o l'aumento della fiscalità locale (benzina, case od altro) owero una
riduzione delle spese, il che non è né semplice
né facile.
Appare evidente che pur tra mille ostacoli,
difficoltà e contraddizioni, deroghe e rientri il
processo di integrazione europea, per volontà
dei cittadini, delle associazioni, delle forze democratiche europeiste e federaliste ha compiuto passi evidenti negli ultimi anni.
Numerose tappe sono state raggiunte e superate: nel 1957 è stata costituita la CEE, il
1979 segnava il nostro ingresso nel sistema
monetario europeo, nei successivi anni '80 è
stato conseguito un sostanziale controllo dell'inflazione, nel 1985 è stato approvato l'Atto
unico europeo, nel 1993 c'è stato Maastricht
ed è stato attuato il mercato unico europeo,
che è stato un vero banco di prova per l'economia italiana. Sembrava che questa nuova
realtà europea pur con tutte le sue contraddizioni stesse per diventare un miraggio di prospettiva di benessere e stabilità, una sorta di
motore di uno sviluppo equilibrato e senza
scosse. Poi il tutto ha subito un grande scossone in negativo.
Le forti tensioni monetarie dell'autunno '92
e quelle successive hanno prima scaraventato
fuori la lira dallo SME e poi determinato gli
sbandamenti da cui non sembra facile uscire.
Ora ci dicono che l'Italia non avrebbe le
carte in regola per partecipare al traguardo del
Sistema dell'unione monetaria europea. Sarà
solo attraverso un impegno senza precedenti
delle forze politiche democratiche ed europeiste - degli enti locali (Comuni, Province e Regioni) - che sarà possibile realizzare quella
svolta verso l'unione europea fondata sui principi del federalismo e della partecipazione.
Un contributo sul terreno più specifico a livello regionale e locale può essere concretamente assicurato mediante un'attività più intensa e operativa del coordinamento regionale
delle associazioni autonomistiche fra enti locali della Sardegna.
Si tratta di intensificare le iniziative del
coordinamento atte a stabilire rapporti con le
forze politiche e sindacali, con la Regione, con
le rappresentanze del governo nazionale e gli
organismi dell'unione europea, con tutte le
forze autonomistiche nel rispetto dei diversi
ruoli per esaltare e rafforzare la battaglia autonomistica.
Si tratterà di verificare se non si possono
creare in Sardegna le condizioni per la realizzazione di una struttura unitaria degli enti locali per fornire ai comuni le consulenze necessarie per una più tempestiva informazione dei
provvedimenti comunitari, anche al fine di
mettere i comuni stessi in grado di utilizzare
con tempestività e puntualità le risorse finanziarie dell'unione europea che non sempre
vengono utilizzate dagli enti locali.
Attilio Poddighe
Segretario della Federazione
sarda dell'AICCRE
ità istituzionale
Si è riunito a Roma il 10 luglio scorso in
una importante sessione il Consiglio nazionale dell'AICCRE. Erano vacanti le cariche di
vicepresidente vicario e di tesoriere, a causa
delle recenti scomparse di Gaetano Zorzetto
e di Aurelio Dozio.
L'assemblea ha eletto, entrambi con voto
unanime, vicepresidente vicario Franco Punzi, presidente della Federazione pugliese del1'AICCRE ed ex Sindaco di Martina Franca,
e tesoriere Cesare San Mauro, consigliere comunale e presidente della commissione bilancio del Comune di Roma.
Il Consiglio ha inoltre iniziato l'esame di
una bozza di nuovo Statuto dell'Associazion e predisposto dalla Direzione nazionale.
A livello sovranazionale il Comitato Direttivo europeo del CCRE aveva qualche tempo
fa deciso che, con apposito gruppo di lavoro
presieduto dal Segretario generale dell'AICC m , Martini, e avente per relatore il Segretario della Sezione britannica, Paul Bongers,
operasse una sistematica ricognizione dei
principali problemi che stanno di fronte al
CCRE nell'attuale fase dell'integrazione eu-
ropea, sotto il profilo sia dell'aggiornamento
dei suoi compiti, sia dell'adeguamento delle
sue strutture decisionali e d organizzative, sia
dei rapporti con le istituzioni europee e d altre organizzazioni (particolarmente col Comitato delle Regioni), della sua capacità di
fornire informazioni e documentazione ed altri servizi utili agli Enti locali e regionali europei.
I1 Gruppo di lavoro predetto si è riunito a
Parigi il 29 agosto con la partecipazione anche dei Segretari di varie Sezioni nazionali
I1 2 settembre inoltre, in occasione del
Congresso mondiale della IULA, il CCRE ha
convocato a L'Aja il suo Bureau Exécutif; all'ordine del giorno erano previsti numerosi
argomenti destinati ad orientare in futuro l'azione della nostra Associazione a livello europeo. Sono stati discussi i modi più adeguati di partecipazione del CCRE all'attività della IULA, la procedura più idonea a consentire un contributo efficace e politicamente significativo della nostra Associazione alla revisione del Trattato di Maastricht, una prima
-
isegtie a pag.
17)
NOVEMBRE 1995
le obbligazioni degli Enti locali
La ricchezza viene dai BOC
di Giulio Cesare Filippi *
1. I comuni sul mercato
Quando, a seguito dell'atto unico europeo
di Lussemburgo (luglio 1987) fu decisa l'attuazione del mercato unico dei capitali e ne
furono stabiliti i tempi, presso 1'Aiccre fu
creato un apposito gruppo di lavoro col compito di esplorare e valutare la possibilità di costituire un'entità di livello europeo che, in
qualche modo, favorisse l'entrata degli enti locali sul libero mercato. In realtà alllepoca c'era una certa apprensione per l'impatto che la
liberalizzazione del mercato dei capitali avrebbe provocato sulle finanze degli enti locali. Infatti, le nuove aperture finanziarie che si offrivano alle amministrazioni locali, pur rappresentando una ghiotta occasione per le grandi
città, per i piccoli comuni potevano significare emarginazione e sperequazione.
Soprattutto si riteneva che il poter interloquire sul mercato dovesse comportare per tutte le amministrazioni locali la necessità di dotare le organizzazioni comunali e provinciali
di uffici amministrativi capaci di effettuare
congrue e puntuali scelte finanziarie. Ma le
piccole collettività locali difficilmente avrebbero potuto sopportare il conseguente aumento dei costi d i organizzazione e, di conseguenza, esse sarebbero rimaste con molta probabilità emarginate ed escluse dalle nuove opzioni. La risultante poteva essere che una parte degli enti locali - la più florida -, potendosi giovare del mercato, avrebbe promosso il
suo ulteriore sviluppo, mentre l'altra parte la meno ricca - avrebbe visto aumentare ancora la distanza che la divideva da quella più
fortunata. Si pensava ailora che una struttura
sovranazionale, organizzata sfruttando le possibili sinergie esistenti fra enti locali ed istituti
di credito locale, (Geie o agenzia) potesse essere di valido supporto aile collettività locali
minori, fornendo loro la necessaria assistenza
tecnico-finanziaria ai fine di consentire anche
ad esse di avvalersi delle possibilità offerte dal
libero mercato.
Si susseguirono convegni di ogni sorta anche internazionali e furono studiati ed esaminati i numerosi problemi che l'entrata degli
enti locali sul mercato dei capitali avrebbe
comportato. In particolare, secondo il modello della libera contrattazione sul mercato dei
capitali, fu preso in esame il grado di affidabilità dell'ente locale come indice necessario a
spuntare sul mercato le condizioni di miglior
favore. A questo proposito ricordo che fu anche organizzato a Budapest per conto di una
nota agenzia finanziaria inglese un apposito
convegno sul rating comunale.
L'approccio dell'Aiccre, pur essendo problematico, non era tuttavia pregiudizialmente
negativo, in quanto il mercato avrebbe co-
" Dirigente della Sezione autonoma per l'edilizia residenziale presso la CDP. Intervento svolto al Convegno
«Le emissioni obbligazionarie degli Enti locali», Firenze,
I l novembre '95.
NOVEMBRE 1995
munque arricchito le amministrazioni locali di
nuove scelte e di ulteriori possibilità finanziarie, che col tempo avrebbero comportato benefici, sia in termini di sviluppo degli enti locali che di crescita professionale dei loro amministratori.
Naturalmente per poter rendere la finanza
locale italiana autonoma e responsabile si dovevano svincolare le entrate locali dalla diretta dipendenza dal bilancio statale. Dal 1989
ad oggi è, dunque, andato avanti quel processo che è ancora in corso e che in pochi anni ha
invertito la tendenza delle entrate locali. Le
entrate proprie, infatti, che nel 1989 rappresentavano soltanto il 25% delle entrate totali,
costituiscono attualmente circa il 60% delle
complessive risorse finanziarie locali.
2. I boc
Nello stesso tempo nei dibattiti di casa nostra si cominciò a considerare, prima soltanto
come teorica evenienza, ma in seguito con
sempre maggior convinzione, che i comuni e
le province sul libero mercato avrebbero avuto la possibilità di finanziare le loro opere di
investimento, rastrellando direttamente il risparmio attraverso emissioni di obbligazioni
locali.
L'ipotesi fu accolta con molto entusiasmo,
tanto da essere tradotta in facili slogans dalle
posizioni più autonomiste. Si riteneva, infatti,
che il ricorso diretto al mercato obbligazionario potesse procacciare ai comuni e alle province finanziamenti a minor costo. Tuttavia
man mano che si entrava nel problema con
maggiori dettagli gli entusiasmi vennero progressivamente meno. Da un lato il possesso di
un'adeguata capacità di organizzazione finanziaria, dall'altro l'esistenza di effettive possibilità di inserimento su un mercato già altamente concorrenziale, infine la necessità di spuntare sul mercato obbligazionario condizioni
comunque più favorevoli rispetto a quelle
conseguibili sul mercato dei prestiti, apparvero per la quasi generalità degli enti locali quali ostacoli pressocchè insormontabili.
Nel contempo l'abbrivio iniziale aveva fatto
il suo corso e la proposta, secondo la moda
italiana, pur se con molti interrogativi senza
risposta, si tramutò in apposite norme con
tanto di modalità, limiti e condizioni per l'emissione dei cosiddetti boc (buoni obbligazionari comunali) e bop (buoni obbligazionari
provinciali) (art.32, legge n. 142/90; art.35,
legge n.724/94; art.47, d.lvo.n.77/95). Era forse un salto nel buio, ma alcuni coraggiosi enti
locali, ancor prima deil'emanazione dell'ultimo decreto, avevano già intrapreso l'iter dell'emissione obbligazionaria, ripercorrendo
d'altronde esperienze già fatte dai nostri comuni in altri tempi, ma in simili circostanze.
Le posizioni assunte dagli operatori finanziari furono in proposito divergenti. Quelli
più aperti al mercato considerarono positiva-
mente le nuove aperture finanziare che si
schiudevano a favore degli enti locali, anche
perché, esaminando il totale delle sofferenze
bancarie, il settore locale era caratterizzato da
un grado di affidabilità molto elevato. H o in
proposito personalmente udito un rappresentante della Deutsche Bank affermare davanti
alle telecamere che il proprio istituto avrebbe
senza timore sottoscritto qualsiasi titolo obbligazionario emesso dagli enti locali italiani. Altri, forse più legati all'antico rapporto vincolato della finanza locale, considerarono inutile e
pericolosa la possibilità di emettere boc e bop,
in quanto sul mercato esistevano a loro dire
opzioni più favorevoli, come ad esempio i mutui deila Cassa depositi e prestiti.
A tal riguardo credo che vada sfatato un
mito. Non si può confrontare la convenienza
economica fra un regime vincolato ed un regime libero. Le possibilità che si offrono alla gestione di un rapporto assunto sul libero mercato non sono, infatti, sempre e comunque
oggetto di formale valutazione, cionondimeno
esse esistono, possono influire sulla scelta ed
essere anche al riguardo determinanti. Scegliere un regime o l'altro può dipendere, fra
l'altro, anche dalla volontà dell'ente di affrontare le proprie responsabilità nella chiarezza e
nella trasparenza.
Credo in proposito che il rapporto fra banchiere e cliente sia tendenzialmente complementare e che quindi in via generale l'interesse di un banchiere debba coincidere con quello dei propri clienti, nel senso che quanto più
egli riesce ad offrire ad essi condizioni di maggior gradimento, tanto più egli riuscirà a conquistare sul mercato una posizione di leader.
Allora, se l'interesse dell'ente locale è quello
di affermare nel campo finanziario la propria
autonomia, il banchiere scaltro saprà far coincidere tale interesse con quello proprio, favorendo nel modo il più completo possibile le
esigenze dei clienti locali, nel caso promuovendo le emissioni per loro conto o sottoscrivendo i titoli da loro emessi.
3. 11 rating comunale
È stato affermato che ai fini dell'emissione
dei boc e dei bop non sarebbe stata necessaria
alcuna referenza da parte dell'ente locale
emissore. Ciò in quanto, in presenza della garanzia costituita dalle delegazioni di pagamento rilasciate a favore dei sottoscrittori dall'ente locale emissore nei confronti della banca
che svolge per suo conto le funzioni di tesoreria, all'obbligazione assunta dal comune o dalla provincia si sostituirebbe in tutto e per tutto quella della banca tesoriera. Quindi, quest'ultima, divenendo il debitore principale
dell'operazione, dovrebbe al limite anche caratterizzare l'emissione con il proprio rating.
Se fosse così gli enti locali sarebbero immuni da ogni responsabilità e per loro non si porrebbero ulteriori problemi. Purtroppo per lo-
ro - ma io ritengo per loro fortuna - non è
così. Non è vero, infatti, che, come afferma
un'ardita tesi, la delegazione di pagamento rilasciata al tesoriere costituisca in senso tecnico
un titolo di credito letterale ed astratto ed, in
quanto tale, svincolato dal sottostante rapporto intercorrente fra ente locale e tesoreria. Nel
diritto italiano la categoria dei titoli di credito
è tassativa e comprende soltanto quei titoli
~ b b l i ~ a z i o n afunzionalmente
ri
destinati alla
libera circolazione. È proprio, infatti, per agevolarne la circolarità, garantendo l'occasionale prenditore, che il titolo viene sganciato dall'originario rapporto obbligazionario sottostante al suo rilascio.
I1 comune o la provincia delegante, quindi,
non può certamente con un atto unilaterale
obbligare il terzo delegato oltre i limiti del
proprio rapporto che lo lega ad esso. Tale non
condivisa ipotesi, infatti, costituirebbe una
fattispecie di responsabilità oggettiva, che in
via eccezionale può essere prevista solo per
esplicita disposizione di legge. Ma nel caso di
specie non esiste alcuna norma che la sancisca.
Nè può essere considerata tale la previsione
dell'art. 48, 2" comma, del d.lvo n.77/95, laddove definisce la non necessaria accettazione
della delegazione. In tale materia, infatti, non
sono ammissibili interpretazioni di tipo estensivo.
La delegazione di pagamento fatta dall'ente
locale al proprio tesoriere è dunque la normale delegazione regolata dagli artt. 1268 e ss.
del C.C.Essa, quindi, potrebbe operare nel
senso voluto dalla'ipotesi contestata, soltanto
nel caso in cui la stessa sia stata espressamente accettata dal tesoriere delegato ed entro i limiti dell'accettazione. Poiché normalmente i
tesorieri non esplicitano alcuna accettazione,
che peraltro - come già detto - non è necessariamente prevista dalla procedura di legge, essi risponderanno delle delegazioni soltanto entro i limiti del loro rapporto di provvista intercorrente con l'ente delegante.
In tal senso viene a rendersi necessario per
i comuni e le province di rafforzare la credibilità delle proprie emissioni ~ b b l i ~ a z i o n a r i e ,
accompagnandole col proprio rating. A presupposto corollario sussiste la necessità per gli
enti locali che vogliano finanziarsi sul mercato
di accrescere il loro grado di credibilità con
una gestione del proprio bilancio trasparente
e inappuntabile. Non è casuale che questo costituisca proprio uno degli obiettivi fissati a
monte della nuova politica della finanza locale, che marcia verso la tendenziale affermazione dell'autonomia dei bilanci locali rispetto allo Stato (maggiori entrate proprie e meno trasferimenti).
4. La responsabilità dell'ente emissore
L'operazione di emissione dei boc e dei bop
non è certamente un'operazione semplice, anzi tutt'altro. Non c'è quindi alcun bisogno di
complicare ulteriormente il campo con posizioni poco lineari. L'importanza dell'introduzione nel panorama finanziario locale dei boc
e dei bop sta nella loro rispondenza ad una
nuova concezione della finanza locale. Ma per
capire questo bisogna affrontare il problema
con occhi diversi, prescindendo, cioè, dai condizionamenti che per forza di cose abbiamo
subito, per aver sempre considerato la finanza
COMUNI D'EUROPA
pubblica, non sotto il profilo della convenienza in termini di mercato, ma sotto quello della legittimità in termini di bilancio di competenza.
Infatti, mentre colla vecchia impostazione
per i soggetti pubblici c'era sempre corrispondenza fra poter fare e dover fare, ora con l'apertura del libero mercato anche per essi le
opzioni restano opzioni e si trasformano in
impegni soltanto in presenza di una libera manifestazione della loro volontà. Quindi i comuni e le province, senza alcuna costrizione,
resteranno liberi di finanziare i loro investimenti, awalendosi o meno delle emissioni di
boc e bop. Ciò che avrà rilievo sarà soltanto
che, a prescindere dalla forma di finanziamento che sarà stata scelta, essi dovranno fornirne
un'adeguata giustificazione, predisponendo
un piano economico-finanziario, che dimostri
la convenienza del mezzo scelto attraverso
un'analisi comparata dei mezzi a disposizione.
Si sono udite in proposito affermazioni a
dir poco terroristiche, circa la responsabilità
contabile degli amministratori locali. Anche a
questo riguardo bisogna spezzare una lancia a
favore degli eletti. Dover predisporre un pian o economico-finanziario non significa che
l'ente locale non possa commettere errori di
valutazione. Pertanto, anche se a posteriori il
piano si dovesse dimostrare errato, gli amministratori non dovranno essere sempre e comunque civilmente e penalmente perseguibili
per danni al bilancio locale. La responsabilità
civile e penale degli amministratori sussisterà,
infatti, come sempre, soltanto se la corretta affermazione della volontà dell'ente locale sia
stata viziata da loro dolo o colpa specifica.
Diverso è invece il portato della responsabilità politica degli amministratori rispetto alla qualità della loro gestione. Tale responsabilità, infatti, obbligherà comunque tutti gli eletti, al termine del loro mandato, ad essere giudicati sulla bontà deila loro amministrazione.
In tal caso anche gli errori più lievi potranno
essere rilevanti per la determinazione di un
giudizio negativo da parte degli elettori. La
conseguenza di tale giudizio non potrà che
configurare il venir meno del rapporto fiduciario dal quale aveva tratto origine il loro
mandato di rappresentanza popolare.
La maggiore autonomia finanziaria degli
enti locali viene avvalorata proprio da questa
«nuova» possibilità di giudizio degli elettori
sugli eletti. Facoltà che non era possibile esercitare fintantochè gli enti locali erano in grado
di porre in essere perlopiù atti vincolati, dei
quali, per definizione, non potevano assumersi nel merito alcuna responsabilità.
Le obbligazioni locali, come ogni altra opzione finanziaria offerta dal mercato, rappresentano, dunque, per comuni e province una
ricchezza. Non tanto per una naturale e scontata vantaggiosità di tale sistema rispetto ad
altre forme di finanziamento, vantaggiosità
che, caso per caso, resta tutta da dimostrare,
quanto perchè, offrendo alla finanza locale
nuove possibilità, abitua gli amministratori ad
operare senza vincoli in un sistema pluralistico. In forza di questa apertura finalmente gli
eletti potranno essere direttamente responsabili deile loro scelte nei confronti dei cittadini
e, pertanto, le loro decisioni, rispetto al recente passato, dovranno essere tendenzialmente
assunte più vicino ai propri rappresentati.
a
Un'intensa attività istituzionale
(segue du pug. 1 0
valutazione delle proposte formulate da un
apposito gruppo di riflessione sul futuro ruolo del CCRE, sotto il profilo della sua incidenza politica e della sua capacità di servizio
agli Enti locali e regionali, con particolare riguardo ai rapporti con le Istituzioni europee,
all'adeguamento delle sue strutture operative, alle sue relazioni con il Comitato delle Regioni e degli Enti locali.
Un'ulteriore riunione del Bureau Exécutif
si è svolta a Viareggio il 5 ottobre presieduta
nella prima parte dal primo vicepresidente
Hofmann e nella seconda parte dal presidente Maragail. Tema centrale della sessione era
il rapporto Martini-Bongers su una riorganizzazione del CCRE: su questo tema hanno
parlato a lungo e hanno risposto ai quesiti dei
colleghi sia Martmi che il britannico Bongers. I1 Segretario generale dell'AICCRE
Martini ha peraltro ottenuto un chiarimento,
che a suo tempo egli stesso aveva chiesto di
introdurre nel rapporto, affinché, nella identificazione dei fini del CCRE, si sottolineasse
che essi dipendono e dovranno dipendere,
per cominciare, dallo Statuto del CCRE, che
prevede come fine essenziale e primario la
lotta per una Federazione europea basata
sulle autonomie territoriali.
Tornando al livello nazionale, si è preso atto che I'AICCRE intende affrontare le sfide
del 1996 ed i suoi sviluppi ulteriori intensificando la sua azione di informazione, di sensibilizzazione politica e di «servizio» agli enti territoriali del nostro Paese al fine di assicurare anche in detti enti una migliore coerenza tra i comportamenti interni e le prospettive europee, e farli partecipare attivamente al processo di integrazione: l'Associazione sta infatti predisponendo un consistente programma di attività in tal senso.
A tal fine un Consiglio nazionale, riunito a
Roma il 23 ottobre scorso, contestualmente
all'approvazione del bilancio preventivo, ha
deliberato i seguenti adeguamenti delle quote associative, svalutate dall'inflazione:
- per i Comuni, da £ 30 a £ 35 per abitante; rimane invariata la quota fissa di £
150.000
- per le Province, d a £ 15 a E 20 per abitante; rimane invariata la quota fissa di 6
150.000
-
per le Regioni, da £ 10 a £ 15 per abi-
tante.
Infine c'è da registrare una riunione dei
Segretari generali de!le Sezioni nazionali del
CCRE a Parigi il 3 0 e 3 1 ottobre. Incontro
importante perché in fine novembre si terrà
a Torino la periodica Assemblea dei Delegati, massimo organo statutario europeo della
nostra Associazione e il Comitato Direttivo,
per un approfondito dibattito politico sull'attuale situazione europea, sulle scadenze
del 1996 (Revisione del Trattato di Maastricht e Conferenza intergovenativa) per il rinnovo delle cariche europee e l'adozione del
bilancio di previsione 1996. Hanno partecipato, per l'AICCRE, il Segretario generale
Martini e il Segretario generale aggiunto Pellegrini.
NOVEMBRE 1995
l'azione della Commissione europea *
Il programma a mediotermine di azione sociale
Sia il Libro Verde che il Libro Bianco sulla politica sociale europea ribadivano che
l'Europa sta attualmente attraversando un periodo di profondo cambiamento e che tale
cambiamento pone importanti sfide alle nostre società. Sebbene l'Europa inizi ora a sentire gli effetti benefici della ripresa economica
dopo un periodo di grave recessione, i livelli
di disoccupazione in tutta l'Unione permangono troppo elevati e la stessa crescita presenta un'insufficiente intensità occupazionale. La creazione di nuovi posti di lavoro deve
quindi restare un obiettivo centrale dell'unione.
Più in generale la globalizzazione dell'attività economica costituisce un'importante sfida per la competitività europea. L'introduzione di nuove tecnologie e di nuovi sistemi di
comunicazione sul posto di lavoro e al di là di
esso e lo sviluppo della società dell'informazione comportano implicazioni per noi tutti.
L'Unione ha inoltre bisogno di assicurare una
priorità permanente alla tutela dell'ambiente,
tramite promozione di schemi e tecnologie di
produzione sostenibili suscettibili di contribuire alla creazione di nuovi posti di lavoro e
di promuovere la competitività. Inoltre, i livelli di finanziamento dei sistemi di protezione sociale gravano in modo crescente sui bilanci nazionali mentre la povertà e l'esclusione sociale diventano fenomeni fin troppo diffusi. Nel contempo, i mutamenti demografici
alterano la struttura delle nostre società.
I1 Libro Bianco intendeva creare un quadro di riferimento per lo sviluppo della politica sociale europea onde rispondere a tali sfide. Esso partiva dal principio che l'Europa ha
bisogno di una politica sociale su base ampia,
lungimirante e innovativa per poter' affrontare con successo le sfide del futuro. Il nuovo
programma di azione sociale intende fissare
tale strategia valorizzando e portando ulteriormente avanti le conquiste del passato - e
in particolare il Programma d'azione sociale
del 1989 al quale subentra - articolando nel
contempo una strategia volta a soddisfare i
nuovi bisogni e a rispondere alle nuove sfide.
In questa sua qualità il programma d'azione
va considerato una continuazione della strategia delineata nel Libro Bianco piuttosto che
un'iniziativa radicalmente nuova.
11 programma d'azione tiene debitamente
conto delle ampie consultazioni e del vivace
dibattito stimolati dal Libro Bianco e dal Libro Verde nonché dal Libro Bianco su Crescita competitività e occupazione. In particolare esso si rifà ai contributi degli Stati membri, alla risoluzione del Consiglio del 6 dicembre 1994, alla risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 1955 e ai pareri del Comitato economico e sociale, del Comitato delle Regioni e di tutti gli operatori socioeconomici, in particolare le parti sociali.
" Pubblichiamo a completamento di un'utile
documentazione, l'introduzione al programma di azione sociale
1995-1997, di cui abbiamo già ampiamente scritto nel
numero di giugno 1995 di «Comuni d'Europa».
NOVEMBRE 1995
Questo ampio processo consultivo ha evidenziato un accordo generale su diverse tematiche chiave che sottendono il presente
programma di azione.
La costruzione dell'Europa è un'impresa
unica, basata sul raggiungimento di un equilibrio tra l'impegno alla concorrenza, la cooperazione e la solidarietà. Ciascuna di queste tre
componenti deve essere sviluppata in rapporto alle altre e la dimensione sociale svolge un
ruolo importante in tale processo. Nel contempo, la diversità delle culture e prassi nazionali in Europa deve essere preservata proprio per il suo valore intrinseco e nel rispetto
del principio di sussidiarietà, anche se occorrerà assicurarne la compatibilità con il processo di costruzione dell'Europa e con il trattato. Un'armonizzazione assoluta delle politiche sociali non rientra quindi negli obiettivi
né della Commissione né dell'unione.
Gli Stati membri hanno in comune una serie di conquiste, valori e prassi che convalidano il loro approccio al modello sociale europeo presente e futuro. Questo comune retaggio sociale consiste essenzialmente nella erogazione generalizzata di elevati livelli di protezione e solidarietà sociale, nella qualità dei
sistemi d'istruzione e formazione, nei livelli di
protezione sul posto di lavoro, negli sforzi
volti ad assicurare la parità di opportunità e,
inoltre, nel ruolo svolto dalle parti sociali e
dalle autorità pubbliche a diversi livelli. Questi valori e obiettivi acquistano anche una dimensione universale, come evidenziato dai
dieci impegni sottoscritti in occasione del recente Vertice sociale mondiale di Copenaghen.
La progressiva integrazione economica dell'Unione e il completamento del mercato interno hanno sollevato tutta una serie di questioni in campo sociale, soprattutto per quanto concerne il loro impatto sulle condizioni e
sui livelli di vita e di lavoro dei cittadini. La
diffusa incertezza creata dalla crisi occupazionale ha evidenziato la necessità di trovare la
giusta combinazione di politiche onde promuovere la crescita e la competitività e garantire nel contempo la protezione sociale e la solidarietà. Si fa strada con evidenza il convincimento che l'obiettivo fondamentale dell'Unione europea «promuovere un progresso
economico e sociale equilibrato e sostenibile»
(cfr. Titolo I del trattato) deve valere per tutti. I cittadini di tutta l'Unione e le organizzazioni che li rappresentano, nonostante la loro
diversità, si attendono di percepire i benefici
tangibili dell'unione europea nella loro vita
quotidiana. La costruzione dell'Europa deve
essere quindi chiaramente fatta nel loro interesse e non a loro detrimento: a tal fine la politica sociale è uno dei principali strumenti.
La creazione di posti di lavoro rimane la
priorità dominante. La responsabilità in tale
campo compete essenzialmente ai singoli Stati membri, ma la Commissione può svolgere
un ruolo particolare di promozione dei mutamenti necessari per consentire alle economie
europee di superare le loro serie carenze
strutturali, poste in luce dal Libro bianco su
Crescita, competitività e occupazione, e
rafforzare la loro competitività. Per superare
tali carenze bisogna adattare i sistemi occupazionali in generale, compresa la sinergia tra
imposizione fiscale e politiche sociali, nonché
aspetti quali l'istruzione e la formazione su
tutto l'arco della vita, nonché le politiche industriali, ambientali e regionali. Tale adattamento non significa smantellare i dispositivi
di protezione sociale, bensì creare nuovi modi di incoraggiare il cambiamento degli schemi di lavoro e del tempo libero, nonché i ruoli familiari, oltre a promuovere una cittadinanza attiva e una partecipazione attiva al
mercato del lavoro. A tal fine il Libro Bianco
e le conclusioni del Consiglio europeo di Essen andranno portati avanti con vigore.
La dimensione economica e quella sociale
sono di fatto interdipendenti e devono quindi
progredire di pari passo. Non vi può essere
progresso sociale senza competitività e crescita economica. Per converso, non è possibile
assicurare una crescita economica sostenibile
senza tener conto della dimensione sociale. I1
progresso sociale e la solidarietà sociale devono costituire parte integrante dell'approccio
europeo alla competitività. Occorre raggiungere un nuovo equilibrio tra le dimensioni
economica e sociale, nel quale esse possano
fungere da obiettivi di mutuo rinforzo piuttosto che da obiettivi conflittuali.
L'azione comunitaria in campo sociale non
può limitarsi al mondo del lavoro. Esiste già
in ampia misura un pubblico supporto ad una
forte politica sociale europea in tutta 1'Unione. Un ulteriore sostegno alla futura costruzione dell'Europa progredirà soltanto con
un'azione che sia nel contempo credibile e visibile in cui si sentano coinvolti tutti i cittadini dell'unione. Ciò significa che, nel portare
avanti parallelamente le politiche economiche
e sociali, l'Europa deve adoperarsi per fornire
«opportunità per tutti» affinché essi possano
svolgere un ruolo attivo nella società negli anni a venire e impegnarsi assieme nella costruzione dell'Europa. Deve essere riconosciuto il
ruolo delle organizzazioni civiche e del volontariato, come pure quello di un ampia gamma
di organizzazioni che rappresentano le imprese, nonché il ruolo dei vari settori pubblico e
privato.
Tuttavia, rimane chiaro che i punti di vista
su taluni aspetti della politica sociale differiscono notevolmente o sono addirittura contraddittori. 11Libro Bianco ha evidenziato come gli Stati membri e determinati attori non
concordassero sulla necessità di un'ulteriore
azione legislativa a livello europeo, soprattutto per quanto concerne gli standard lavorativi. Mentre per alcuni ciò che conta è concentrarsi quasi esclusivamente s~ll'ap~licazione
della normativa esistente.lasciando da parte
eventuali nuove proposte, altri restano favorevoli ad una graduale estensione della piattaforma di standard di minima vincolanti e
esecutivi. Altri ancora auspicano che la Commissione presenti tutta una serie di nuove
proposte legislative alcune delle quali non
rientrano tra le competenze conferite dal trattato sull'unione europea o che possono non
essere conformi al principio di sussidiarietà.
Nel contempo aumentano le richieste affinché a livello dell'unione si intraprendano
attività in diversi settori che vanno al di là del
campo più propriamente tradizionale della
politica sociale europea. Via via che le sfide
che la società europea si trova ad affrontare
diventano più complesse e, in ampia misura,
interrelate, la risposta politica ad esse deve essere opportunamente modulata.
Ciò implica lo sviluppo di un tipo addizionale di risposta a livello europeo a integrazione e supporto dell'attività legislativa che è stata per il passato la spina dorsale della dimensione sociale e che continuerà ad essere portata avanti laddove necessario. In particolare,
ciò implica lo sviluppo del ruolo, da svolgere
a livello comunitario, di catalizzatore della
promozione di discussioni congiunte, scambi
di esperienze e azioni concertate su base transazionale per rispondere a problemi comuni.
Ad esempio, vari Stati membri si sono già
adoperati per rivedere, in maggiore o minore
misura, i loro sistemi occupazionali e sociali
mentre altri si accingono a farlo. La tematica
dell'occupazione e le azioni condotte nel 1993
e nel 1994 ricevono un rinnovato impulso dalle conclusioni del Consiglio europeo di Essen
e costituiscono un valido esempio a tale riguardo Questo processo potrebbe essere utilmente esteso a tutta una gamma di altre questioni di politica sociale - ad esempio la protezione sociale, l'impatto sociale della società
dell'informazione - ed il programma d'azione avanza proposte specifiche in materia (cfr.
sezioni 6 e 10).
O n d e intensificare questo processo di riflessione collettiva, la Commissione si adopera in particolare per indirizzare i propri sforzi
nei campi dell'analisi e della ricerca: tale
aspetto è sviluppato in una sezione separata
del programma d'azione (sezione IO). Inoltre,
considerate le crescenti richieste di sviluppo
di una politica sociale europea rivolta a tutti i
cittadini europei, sia occupati che senza lavoro, il programma pone un accento speciale
sulla promozione di opportunità per tutti. In
tale contesto, riveste particolare importanza
la proposta di awiare un dibattito sul futuro
della Carta sociale e sulla sua possibile estensione ad un'ampia gamma di diritti e responsabilità individuali(sezi0ni 4 e 6).
Questa strategia di largo respiro si rispecchia nella struttura del programma d'azione.
Pur articolato in una prospettiva iniziale di tre
anni, in tale arco di tempo esso è strutturato
in modo tale da consentire una grande flessibilità e apertura nella pianificazione dei lavori.
In tal senso, esso differisce dal Programma
d'Azione Sociale del 1989 - che aveva un
precipuo obiettivo legislativo - in quanto
presenta una più ampia e dettagliata rassegna
delle azioni nel campo della politica sociale.
I1 programma presenta una serie di nuove
proposte legislative, pur rispettando i principi
della sussidiarietà e della proporzionalità. Al
riguardo la Commissione è consapevole dell'interazione tra le proposte legislative e i nuovi poteri negoziali conferiti alle parti sociali
dall'Accordo sulla Politica Sociale introdotto
dal trattato sull'unione europea. Per quanto
COMUNI D'EUROPA
sia chiaro che, dati in particolare i risultati del
programma del 1989, vi sia attualmente una
scarsa portata o necessità di un programma di
ampio respiro di nuove proposte legislative, la
Commissione continuerà a riesaminare i bisogni in materia legislativa e non esiterà, qualora necessario e possibile, a presentare adeguate proposte.
I1 programma d'azione tenta inoltre di illustrare e di dare un nuovo impeto al crescente
numero di proposte attualmente in pendenza
presso il Consiglio nel!'intento di assicurarne
una rapida adozione. E stato peraltro ritirato
un certo numero di proposte in pendenza ormai superate.
Coerente con il suo approccio generale, la
Commissione si adopererà affinché le nuove
proposte siano precedute da una valutazione
dei costi e benefici per gli Stati membri, e i
pubblici poteri e tutte le parti interessate. La
commissione continuerà inoltre i propri sforzi per garantire un recepimento ed un'applicazione efficace della legislazione adottata.
In aggiunta a tale numero relativamente limitato di nuove proposte legislative, il programma d'azione awia inoltre una vasta serie
di studi e discussioni su temi specifici. L'obiettivo di tale esercizio è quella di esaminare
in ciascun caso la portata e la necessità di
azioni ulteriori - legislative o meno - e di
assicurare un'efficace preparazione di eventuali proposte future.
Al di là di questo, il programma è anche
strutturato in modo da rendere esplicita l'intenzione della Commissione di avviare dibattiti in settori d'importanza fondamentale per
la politica sociale. In tal senso esso destinato a
riflettere la natura sempre più pluridimensionale della politica sociale e a fornire un piano,
d'azione completo nel campo della politica
sociale.
In certa misura il futuro sviluppo del programma sarà determinato dagli esiti dei dibattiti e degli studi awiati o già in corso di svolgimento. Esso sarà indubbiamente influenzato dal dialogo permanente con le altre istituzioni europee, nonché da quello ad alto livello. I1 Libro Verde e il Libro Bianco hanno già
dimostrato il ricco contributo che deriva da
tale processo e il presente programma d'azione farà in modo di sviluppare ulteriormente i
processi consultivi onde assicurare che tale
dialogo continui (cfr. sezione 9).
I1 programma va inoltre visto nella prospettiva della Conferenza intergovernativa del
1996, nel corso della quale le questioni relative alla dimensione sociale nel futuro sviluppo
dell'unione europea avranno indubbiamente
un peso importante nelle deliberazioni. In tale contesto occorre osservare che la Commissione ha già palesato alcune delle proprie intenzioni al riguardo nel Libro Bianco sulla
Politica Sociale.
È inoltre importante ribadire la natura progressiva e flessibile di questo programma d'azione. Esso è stato deliberatamente concepito
quale «programma evolutivo» destinato ad essere aggiornato annualmente a mano a mano
che la situazione muta e si manifestano nuovi
bisogni da un lato e che si dispone dei risultati di studi e di consultazioni specifiche dall'altro. La trasparenza dell'azione sociale comunitaria ne sarà di conseguenza accresciuta e sarà
possibile tener conto passo dopo passo dei pareri delle altre istituzioni comunitarie.
Come ruota intorno alla
Germania..
.
(.segue da pag 4 )
«competenze concorrenti», per quella zona
grigia di competenze che non sono preventivamente attribuibili all'unione e agli Stati
membri. Attraverso una precisa determinazione delle competenze dell'unione si affermerebbe il principio del «do less to d o more». In prima approssimazione le politiche
dell'unione dovrebbero essere la politica monetaria e d economica (ivi comprese il mercato interno e le politiche di accompagnamento), la politica estera e della sicurezza, le relazioni esterne.
Una chiara lista di competenze abbinata all'applicazione del principio di sussidiarietà
hanno come corollario l'istituzione di un sistema di gerarchia di norme comunitarie attraverso cui il sistema di governo europeo articolerebbe la propria attività legislativa ed
amministrativa. In cima a questa gerarchia
dovrebbero porsi le leggi dell'unione alla cui
approvazione dovrebbero concorrere il Consiglio dei Ministri ed il Parlamento europeo.
L'applicazione delle leggi dell'unione spetterebbe, in mancanza di un rinvio a misure nazionali, alle istituzioni dell'unione che potrebbero operare attraverso regolamenti. Le
competenze di esecuzione, sia a carattere normativo che a carattere amministrativo, dovrebbero essere attribuite alla Commissione.
Al Parlamento ed al Consiglio verrebbe conferito un potere di avocazione nella fase che
precede l'entrata in vigore dei regolamenti di
applicazione delle leggi. Le leggi dell'unione
di fatto sostituirebbero le attuali direttive e
avrebbero le caratteristiche di generalità ed
astrattezza e sarebbero (a differenza delle direttive) direttamente applicabili. L'istituzione
di un sistema di gerarchia delle norme diminuirebbe l'utilizzazione della «comitatologia»
limitandola a casi molto ristretti.
Quanto alla struttura istituzionale, è evidente che u n sistema di governo europeo
debba basarsi su un triangolo il cui vertice
esecutivo sia costituito dalla Commissione e i
vertici legislativi dal Parlamento europeo e
dal Consiglio. Mentre queste istituzioni dovrebbero assicurare l'alimentazione legislativa
delle politiche dell'unione, eventualmente
con tipologie di voto modulate in base a criteri prestabiliti, la Commissione sarebbe chiamata a rispondere alle sue finalità pubbliche
europee sottostando ad un controllo politico
adeguato sulla propria attività esecutiva ed
amministrativa. Ciò per evitare le ricorrenti
accuse che provengono, a titolo di esempio,
dalla Corte dei Conti, a cui non corrispondono nella maggior parte dei casi dei comportamenti corretti da parte della Commissione.
Un autentico sistema di governo europeo
avrebbe la capacità di gestire o almeno di dirigere efficacemente progetti di grande apertura come il Libro bianco su «crescita competitiva e occupazione» ormai dimenticato da
tutti e destinato al fallimento proprio in ragione della mancanza di un sistema di governo in grado di applicarlo correttamente.
Un autentico sistema di governo europeo
permetterebbe inoltre una efficace attuazione
di una politica estera e della sicurezza conferendo alla Commissione stessa e non a segreNOVEMBRE 1995
tariati vari il compito di eseguire le azioni comuni decise e permettendo la necessaria coerenza dell'azione esterna dell'unione tra il volet economico e quello politico. Ciò vale anche per politiche di grande peso «esterno»
come la politica di immigrazione e la cooperazione giudiziaria.
Nell'ambito dell'unione economica, è necessario apportare delle modifiche alle attuali
disposizioni al fine di instaurare un'effettiva
capacità di decisione a livello dell'unione in
materia di politica fiscale. La previsione di un
potere autonomo e di governo a livello europeo aprirebbe la strada ad una politica fiscale
di stabilizzazione e di redistribuzione da realizzarsi in maniera significativa attraverso il
coordinamento delle politiche fiscali. Al contrario, senza una autonomia decisionale a livello dell'unione, il coordinamento delle politiche fiscali finirebbe per essere la somma di
politiche nazionali con effetti negativi nella
gestione della politica di stabilizzazione.
L'esistenza di un potere autonomo a livello
europeo non significherebbe affatto attivare
una politica fiscale autonoma dell'unione
poiché sarebbe sufficiente promuovere il
coordinamento delle politiche fiscali nazionali. È tuttavia necessario creare un quadro normativo entro cui questo coordinamento venga realizzato. In tale ambito, non si giungerebbe ad una politica di stabilizzazione gestita esclusivamente a livello comunitario poiché, in considerazione del rapporto tra bilanci nazionali e bilancio comunitario, il maggior
peso della politica di stabilizzazione resterebbe a carico degli Stati membri. In sostanza, il
livello europeo avrebbe il compito di governo
(e dunque di indirizzo) mentre le risorse da
utilizzare per la politica di stabilizzazione
proverebbero dai bilanci nazionali.
Oltre alle modifiche necessarie ad assicurare un coordinamento delle politiche fiscali, è
comunque opportuno integrare Maastricht I
per quanto riguarda la possibilità di attivare
dei meccanismi di stabilizzazione e di perequazione a livello dell'unione. I1 rapporto
della Commissione Stable Money, Sound Finances, avanza delle proposte che ricalcano,
pur correggendole, quelle avanzate dal Rapporto MacDougall del 1977. I1 rapporto propone di aumentare il bilancio comunitario
dell'attuale 1,2% al 2 % del PIL. Si tratta di
un aumento molto più contenuto di quello
suggerito dal Rapporto MacDougall (5.7%
del PIL) in considerazione dell'attuale congiuntura economica e politica e degli obiettivi di risanamento dei bilanci pubblici. Una
parte del bilancio comunitario dovrebbe essere riservata alla politica di stabilizzazione regionale. L'ipotesi che avanza il succitato rapporto è di creare una riserva di bilancio, lo
0,276 del PIL, che possa essere utilizzata automaticamente per sostenere l'economia di
uno Stato membro qualora variazioni del tasso di disoccupazione del paese in questione si
scostino in misura significativa rispetto alla
media comunitaria. Con uno strumento ad
hoc di stabilizzazione e di redistribuzione
congiunturale regionale, gli Stati membri in
difficoltà e vittime di shock esogeni o endogeni potrebbero adeguatamente operare anche
in mancanza degli strumenti di politica monetaria e di cambio non più utilizzabili nell'ambito dell'unione monetaria.
¤
NOVEMBRE 1995
Dov'è l'Unione europea?
(segue da pdg 61
cano assolutamente la lotta fraticida in corso.
Invece l'occidente ha preferito guardare
con sufficienza tanto alla cosiddetta pulizia
etnica quanto all'intolleranza religiosa come
se ne fosse immune, mentre il razzismo e il
settarismo riempiono interi capitoli della sua
storia. La verità è che trema all'idea di veder
affermarsi nel cuore del vecchio continente
un eventuale stato islamico (non si giustifica
forse così un embargo che ha colpito i più deboli?); perciò grida al pericolo del fondamentalismo, dimenticando che questi mussulmani vivono da sempre in Europa, che sono gli unici mussulmani europei. Ricompaiono così gli antichi e nuovi spettri dell'estraneità tra Occidente ed lslam, della presunta
incompatibilità dei due mondi: prevenzioni
che dalle crociate giungono fino a noi.
Accertata la dissociazione nel comportamento degli occidentali - a causa della scissione tra parole ed azioni e a motivo del rifiuto d' assunzione di responsabilità - si torna in conclusione ad Alexander Langer e Tadeusz Mazowiecki.
Essi non si sono riconosciuti in un sistema
di relazioni inquinato dall'ipocrisia e dal lavarsi le mani rispetto ad eventi drammatici;
tanto meno si sono ritrovati nel gioco della
vana ricerca di un comodo alibi. L,a parola è
tutto, la parola inventa e tesse il mondo recita
un adagio della saggezza africana, probabilmente noto ai due personaggi usciti dal circuito della comunicazione - l'uno tragicamente, l'altro polemicamente nella speranza
di ripristinare le regole. Chi ha dimestichezza
con la Bibbia, sa che l'espediente è antico:
Cosi disse Jahvé a Geremia: Va comprati
una brocca di terra cotta; prendi alcuni anziani
del popolo e dei saceudoti e esci nella valle
Ben-Hinnon che è all'entrata della porta del
Vasellame. Là proclamerai le parole che t i dirò
(. . .) Tu quindi spezzerai la brocca sotto gli occhi degli uomini che saranno venuti con te
(Geremia 19,l-2.10).
Gli atteggiamenti di Langer e Masowiecki
hanno lo stesso spessore di quello assunto da
Geremia con il quale essi condividono la carica profetica: non nel senso banale e scontato della previsione del futuro ma in quello
letterale e pregnante del parlare in luogo di.
Ad accomunare i tre soggetti è l'esperienza
fallimentare del dialogo e quella dell'inutilità
del proprio impegno, derivanti dalla presa d'
atto della sordità degli interlocutori.
Allora di necessità il loro messaggio ricorre ad un diverso veicolo, prendendo i toni efficaci della rottura di un vaso, di un corpo
penzolante da un ramo, di una porta sbattuta; nella speranza estrema di ottenere l'ascolto, di liberare le persone dalla cecità percettiva spalancando brutalmente sotto i loro occhi l'abisso della realtà e urlando la crudezza
lacerante dell'evidenza. A quel punto l'indicibile si è affidato al gesto.
A servizio concluso, giungono notizie di
bombardamenti aerei NATO sulle postazioni
d'artiglieria serbo-bosniache intorno a Sarajevo e sui dispositivi militari intorno alle
«enclaves» di Tuzla e Gorazde, tutte zone
sotto protezione ONU violate in continuazione nel corso dei quattro anni conflitto.
Agli attacchi dotti dalla forza di reazione rapida anglo-franco-olandese.
La molla che ha fatto scattare l'azione punitiva è stata la strage del mercato coperto di
Sarajevo del 28 agosto '95 seguita dalle granate contro l'ospedale pieno di feriti gravi,
per aumentare il numero dei morti (37) rimasti sul terreno. I serbo-bosniaci hanno voluto
replicare uno spettacolo già dato: il 27 maggio '92 le loro bombe erano cadute sul mercato di strada della città martire: 17 morti e i
cecchini a sparare sui feriti; il 5 febbraio '94,
nuova carneficina firmata dagli stessi serbi
nei mercato centrale: 68 morti, 200 feriti e
1'ONU ad attribuire ad ignoti l'atto di viltà.
La tempesta di fuoco, tesa a distruggere
l'arsenale militare dei serbobosniaci, riuscirà
a piegare gli aggressori al negoziato di pace?
I1 tardivo ricorso alla forza non cancellerà la
vergogna dell'immobilismo occidentale se esso è mirato alla spartizione della Bosnia-Erzegovina tra le repubbliche di Serbia e di
Croazia, liquidando le componenti locali
mussulmana e serbo-bosniaca. La svolta metterà almeno fine alla follia della pulizia etnica? Il fenomeno allarmante rischia di diffondersi in diversi paesi, contagiando un continente nel quale molte regioni sono caratterizzate e vivacizzate dalla presenza delle minoranze. Altre volte i Balcani, sono stati laboratorio per la sperimentazione di violenza da
esportare; e in Bosnia è in gioco la tenuta
strutturale delllEuropa, basata su rapporti
multietnici e multiculturali di popolazioni
differenti, che convivono all'interno degli
stessi territorio nella tolleranza guadagnata
faticosamente e perciò irrinunciabile.
Se deve essere..
.
(segue da pag. 21
nome ed indipendenti. È su questa linea che
si muove la proposta di mozione presentata
alla Camera ed al Senato dall'Intergruppo Federalista.
Il Comitato chiede al governo italiano di
annunciare. fin dall'inizio della Conferenza
intergovernativa (cercando su questo l'accordo di altri governi: Belgio, Paesi Bassi,
Germania, Lussemburgo...), che - nel caso
in cui non si raggiunga un accordo unanime
su un «minimo di riforme istituzionali)) (il
voto a maggioranza generalizzato nel Consiglio, la procedura di codecisione su tutti gli
atti legislativi, il rafforzamento del potere
esecutivo della Commissione, la «comunitarizzazione» della politica estera, della cooperazione giudiziaria e della politica verso I'immigrazione, il rafforzamento dei poteri deila
Corte di Giustizia, la personalità giuridica
dell'unione europea.. ) , esso sarà disposto a
sottoscrivere - insieme alla maggioranza un trattato autonomo e indipendente, definendo nello stesso tempo un nuovo quadro
di relazioni con la minoranza.
I1 Comitato e le associazioni che lo compongono - che coprono capillarmente tutto il
territorio nazionale - continueranno a condurre, con tenacia e coerenza, la loro opera di
vigilanza.
W
.
I LIBRI
Anni di un lavoro capillare, alla base della
do spesso a trascinare qualche statista pi2
cazione di due sercoli di federalismo politico
e anche teorico, ostacolato da interessi costituitz; da pregiudizi, da filosofie avverse. Si so-
con una parte della pizi attenta rzflessione autocritica di qualche leader comunista, con
nonché lo stesso concetto di federalismo sia
sovranazionale che interno ai singoli Paesi
e particolarmente all'ltalia, concetto sovente così confuso anche nel cervello di '>olitologi di rango".
Il volume si può acquistare, al prezzo
di copertina di L. 8.000, direttamente
presso:
AICCRE
Piazza di Trevi 86 00187 Roma
Tel. (06) 6994.0461
Fax (06) 67.93.275
-
Vi saranno viceversa inviate il numero di copie che desiderate (al prezzo
di L. 8.000 cadauna) dietro invio di
fotoco~iadella ricevuta di versamen-
È una breve storia di 45 anni di straordinario impegno federalista europeo, con I'acquisizione di una mentalità planetaria an-
che da parte dei contadini di un61 Coi~irriiitu
montana e dei marinai di un borgo povero
sperduto sulla costa marina.
mensile dell'AICCRE
Direttore responsabile: Umberto Serafini
Condirettore: Maria Teresa Coppo Gavazzi
Redazione: Mario Marsala
Direzione e redazione: Piazza di Trevi 86 - 00187 Roma
Indir. telegrafico: Comuneuropa - Roma
te]. 69940461-2 -3-4-5, fax 6793275
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NOVEMBRE 1995
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Anno XLIII Numero 11