Luigi Allegri Teatro e spettacolo nel Medioevo Bari, Laterza 1988, pp. 80-109 Capitolo secondo I GIULLARI: CONDIZIONI E MODI DELLO SPETTACOLO Ormai l’accordo tra gli studiosi è praticamente unanime: l’unico filo di continuità, sul piano della pratica e non della memoria del teatro, tra lo spettacolo romano e quello medievale, non è costituito certo dal repertorio dei testi e dunque dalla letteratura teatrale, ma dall’attività degli attori. Nessun dubbio dunque che l’attore medievale, nelle sue diverse determinazioni fino al giullare, discenda in modo diretto e senza fratture dagli istrioni tardo-antichi, secondo una ricostruzione storica che era già del vecchio Petit de Julleville, oltre un secolo fa: L’interruzione del repertorio comico era assoluta: ma lo era anche nella derivazione degli attori? Se la farsa quando rinasce non deve niente a Plauto, i giullari, questi più antichi attori dei Medioevo, non erano gli eredi diretti degli istrioni e dei mimi romani? [...] Razza imperitura e, sotto venti nomi diversi, sempre simile a se stessa, ha attraversato dieci secoli senza molto modificare né i propri costumi né la propria fisionomia.1 Il quesito che ha animato il dibattito tra gli studiosi è stato invece un altro: questa dai mimi romani è l’unica linea di discendenza riconoscibile nei giullari, oppure occorre individuarne un’altra nella tradizione attorica delle culture barbare, quella degli scaldi islandesi e norvegesi e soprattutto degli skops anglosassoni? Gautier, De Bartholomaeis e Faral, ad esempio, ritengono unica la derivazione romana, tanto che quest’ultimo arriva ad ipotizzare una azione inversa, per cui sarebbero gli attori di discendenza tardo-romana ad influire sugli skops, obbligandoli ad una mutazione antropologica che porterà alla loro scomparsa: sarebbe accaduto cioè che gli attori barbari, che erano soprattutto cantori epici con un ruolo sociale molto più alto e dignitoso dei loro colleghi proto-giullareschi, per contrastare l’invadenza ed il crescente successo di questi ultimi, si siano fatti giullari essi stessi, adottandone le tecniche basse e dunque degradandosi socialmente fino a scomparire come categoria autonoma.2 Chambers o Menéndez Pidal, invece, e più recentemente Zumthor, danno credito alla doppia discendenza, sia pur con argomentazioni differenti. Zumthor, in realtà, dandola come per scontata3; Chambers deducendo da questa duplice paternità la doppia natura del giullare medievale che, in quanto figlio del mimo romano, è turpe, socialmente degradato e portatore di tecniche basse, e in quanto figlio dello skop anglosassone è invece cantore e poeta e dunque socialmente e culturalmente più accreditabile4; e Menéndez Pidal affidandosi in certo modo al buon senso: se il giullare ha, tra le sue altre attività, quella di cantare le gesta epiche della nobiltà barbara, viaggiando di castello in castello, pare naturale che per questo aspetto derivi dai cantori barbari che viaggiavano di corte in corte, cantando come autori o come semplici recitatori narrazioni eroiche, sconosciute ai romani; è impossibile credere che la vita signorile del Medioevo, che contiene tanti elementi di origine germanica, non debba per quanto riguarda i giullari nulla ai costumi degli 1 Petit de Julleville, 1889, p. 17. Gautier, 1892, lI, p. 6; Faral, 1910, pp. 4-9 e 23; De Bartholomaeis, 1924, p. 22. 3 Zumthor, 1986, p. 4. 4 Chambers, 1903, I, pp. 65-69. 2 invasori, dato oltretutto che sappiamo che dal VI secolo al tempo di Carlomagno quei poeti e cantori barbari percorrevano le corti dell’Europa occidentale convivendo coi mimi e con quelli che già erano i nuovi giullari.5 Ed è questa, credo, l’ipotesi più probabile. Purché sia chiaro che, alla fine di quel processo di omogeneizzazione culturale che ha portato alla riconoscibilità di una cultura medievale riscontrabile con pochi scarti nelle società almeno dell’Europa occidentale, anche la mescolanza tra le due tradizioni attoriche è ormai compiuta. Dunque, quando i giullari sono a pieno titolo tali, dall’XI-XII secolo in poi, le distinzioni, salvo casi particolari, sono di gerarchia all’interno di questa unica categoria, che è il prodotto finale del processo. Non mi sembra condivisibile insomma la tesi secondo cui, semplicisticamente, il giullare colto che si risolverà nel trovatore discende in linea diretta dal cantore barbaro mentre il giullare circense viene dal mimo romano, perché prima si è in realtà compiuto un generale rimescolamento di pratiche attoriche e di ruoli sociali che ha ricondotto in sé e dunque in qualche modo azzerato le due tradizioni precedenti. Piuttosto, in quest’epoca, mi paiono da tenere in conto maggiore di quanto generalmente non si faccia quelle influenze diverse, che Menéndez Pidal ha avuto modo di constatare nel contesto culturale che più lo interessa, quello iberico, ma che sono operanti anche in altre zone d’Europa, cioè quelle tartare, ebraiche e soprattutto musulmane6. Nelle corti spagnole del XIII secolo, ma anche in quella siciliana, i rapporti reciproci tra attori cristiani e attori mori sono intensi: basti pensare, ad esempio, che tra i giullari al servizio della corte di Castiglia, nel 1293, uno era ebreo, 12 erano cristiani e ben 13 erano musulmani7. Nel concreto, non siamo in grado di stabilire con sicurezza il contributo di queste diverse tradizioni alla formazione del repertorio e del bagaglio di tecniche del giullare cristiano, ma è probabile che l’attività principale degli attori musulmani sia quella di musici, cantanti e soprattutto danzatori, sia che si tratti di uomini che, come sovente accade, di donne. Ma quello del rapporto tra peculiarità culturali regionali e possibilità di generalizzazione, per quanto riguarda specificamente i giullari, è discorso da affrontare in modo non tangenziale. È evidente anche da questi esempi che, soprattutto per le epoche meno remote per le quali possediamo una maggiore documentazione, la figura del giullare si colora di caratteristiche particolari secondo la zona e dunque il contesto politico e sociale in cui opera, e perciò le influenze che si esercitano su di lui. Così appunto il giullare iberico può interagire più di ogni altro con quello musulmano o ebreo, mentre ad esempio il giullare francese è l’esecutore primario delle canzoni di gesta. Ma l’aspetto che non bisogna sottovalutare è quello della permeabilità delle culture locali, in un processo di scambio reciproco di cui proprio i giullari sono forse l’elemento più attivo. Da un lato, infatti, è proprio la relativa universalità delle tecniche di base dell’attività giullaresca — la musica, la danza, i giochi — a rendere esportabili questi spettacoli anche al di fuori dell’ambito culturale in cui sono nati. Dall’altro lato, poi, il nomadismo è caratteristica fondante della giulleria, e i giullari infatti viaggiano molto, al seguito di qualche signore o attirati dalle occasioni festive che possano servire da contesto alle loro esibizioni, come ad esempio le corti bandite, e traversano così confini geografici, politici e culturali, esportando tecniche, temi, formule letterarie e musicali. In tal modo, ad esempio, i giullari francesi portano le canzoni di gesta in Spagna, specie lungo il cammino di Santiago, accompagnando i pellegrinaggi verso Santiago di Compostela, e consentono in tal modo anche ai giullari spagnoli di assumere le stesse tecniche e gli stessi temi, magari con l’introduzione di personaggi iberici nelle vicende cantate. Oppure esportano le vicende di Orlando e dei paladini, e l’abilità di raccontarle, in Germania o in Italia, favorendo anche da noi l’interesse e la passione per quei temi di cui resta traccia ad esempio nella decorazione plastica della Cattedrale di Modena ma anche in alcuni documenti. Nel 1288 si registra ad esempio 5 Menéndez Pidal, 1957, p. 7. Ivi, pp. 7-8 e 95-98. Per le danzatrici saracene alla corte siciliana, Meldolesi, 1973, pp. 41-42 e 50. 7 Menéndez Pidal, 1957, p. 97. 6 l’interdizione ai giullari francesi a far spettacolo nelle piazze di Bologna, forse come conseguenza di quella condanna all’infamità ipso jure pronunciata qualche decennio prima dal giurista Odofredo nei riguardi dei cantori di gesta professionisti che evidentemente a Bologna erano popolari. Ma ancora più interessante, perché ci fornisce anche un quadro delle modalità approssimative con cui a forza di tramutazioni e deformazioni successive arriva al popolo lo spettacolo di questi cantori di gesta — giunti evidentemente in Italia al seguito dei pellegrini in viaggio verso Roma ma poi adattatisi a cantare anche per i pubblici italiani —, è una epistola in latino di Lovato dei Lovati, circa della fine del XIII secolo: Passeggiavo a caso per la città ricca d’acque sorgive che prende nome dai tre ‘vici’ [Treviso], ingannando il tempo col camminare senza fretta, quando scorgo su un palco in piazza un cantore che declama le gesta di Francia e le imprese militari di Carlo. Pende il popolino intorno, intende le orecchie, affascinato da quel suo Orfeo. Ascolto in silenzio. Egli con pronuncia straniera deforma qua e là la canzone composta in lingua francese, tutta stravolgendola a capriccio senza curare filo di narrazione né arte di composizione. E tuttavia piaceva al popolo. 8 Il nomadismo istituzionale è dunque una caratteristica fondante del giullare come categoria. Il topos del giullare giramondo, alla continua ricerca di un nuovo pubblico o di un signore più munifico, è presente in tutte le descrizioni, a partire dalle prime generazioni di giullari identificabili con un nome — d’arte naturalmente —, come quel guascone del XII secolo che assume il nome indicativo di Cercamon e che appunto ritroviamo attivo in Spagna. Ma il nomadismo del giullare — beninteso al di fuori di quelle forme di stanzialità che, come vedremo, lo trasformeranno in menestrello e in parte ne cambieranno natura e funzioni — non è che uno dei termini di una costellazione solidale di valori, o forse meglio di disvalori, che caratterizzano il ruolo sociale degli attori. Nomadismo, infatti, significa instabilità, e instabilità vuol dire festa9: il denominatore comune di questa costellazione di termini è dunque lo spiazzamento, l’essere continuamente e istituzionalmente fuori posto. Intanto, come si è ampiamente sottolineato nel capitolo precedente, il giullare non ha ruolo sociale: come persona, come soggetto produttivo dunque non esiste, non ha identità. L’unica sua esistenza è su un piano altro rispetto a quello produttivo, ed è il territorio dello spettacolo e della festa. Per questo, spesso, l’unica identità che gli è concessa e con la quale è conosciuto anche da noi, è un’identità fittizia, un nome che non designa una persona ma un’attività, il nome d’arte. Certo non si tratta di una regola fissa, perché a volte il giullare mantiene il proprio nome di battesimo, magari a volte con l’aggiunta della sua qualifica, come ad esempio Boudec le Tabourer, Ricardo Citharistae o Janyn le Citoler, ma è la diffusione del nome d’arte a dare il segno vero del rapporto del giullare con la propria identità sociale. È un nome, questo, che non ricopre un essere concreto ma un vuoto d’identità, che spiazza il soggetto dal territorio economico-sociale a quella dimensione ludica che da questo territorio è fuori, e di cui è evidente testimonianza l’intenzione auto-ironica e immediatamente connotante che il giullare gli assegna. Quando non lo identifica metonimicamente col proprio strumento, come Citola o Cornamusa, il nome d’arte consegna infatti con chiarezza il giullare all’universo metaforico di chi si designa non con un nome ma con una funzione, uno stato d’animo, una situazione particolare. Dolcibene, Malanotte, Maldecorpo, Aenvistevoi, Clarinus, Malapareillez, Pelez, Quatuorova, Passerellus, Sauvache, Simples d’amors, Cercamon, Marcabru, Alegre, Saborejo, Pedro Agudo, Bon amis, Corazón, Maria Sotil, Graciosa, Preciosa, Reginaldo Le 8 Si vedano testo e traduzione in Roncaglia, 1965, pp. 736-37. Sui cantori di gesta a Bologna, Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, lI, col. 844, e Levi, 1914, p. 6. Sulla diffusione dei cantori di gesta in Italia, Farai, 1910, pp. 261-62. 9 Zumthor, 1986, p. 16. Menteur, Perle in the eghe, Guillaume sans manière: ecco alcuni nomi di giullari, di epoche diverse, citati quasi a caso tra quelli di cui resta traccia tra Italia, Francia, Spagna, Inghilterra 10 La dimensione metaforica del nome d’arte è tanto lampante che, come ci tramandano diverse testimonianze tra cui un aneddoto molto citato, facendo scivolare questo nome sul piano dei rapporti sociali, allo stesso modo che prendendo alla lettera una metafora, si ottengono effetti grotteschi. È il caso degli scherzi giocati ai giullari da Guidoguerra e riportati da Boncompagno da Signa: Gli istrioni di tal sorta s’impongono nomi scherzosi, sia per acquistar notorietà con nomi fuor dell’ordinario o per trarre dal proprio nome materia di scherno e per trar l’uditorio alle risa. E così Guidoguerra, conte palatino di Toscana, con l’interpretazione di siffatti motti, beffò molti giullari. Uno aveva in volgare tal nome che letteralmente significava Pica: e lo costrinse a salir su un albero per volare. E così pure due eran venuti insieme da lui, l’uno che si chiamava Malanotte e l’altro Maldecorpo. E perciò lasciò nudo sul tetto quel che si chiamava Malanotte e mentre nevicava e soffiava all’incontro il vento di tramontana; fece poi distendere Maldecorpo ignudo fra due fuochi e gli fece fregare il corpo con sugna di maiale fintantoché disse forte: sono liberato del tutto. Similmente un giullare si chiamava Abbate: e perciò gli fece radere tutto il capo lasciandogli solo una coroncina di capelli. 11 Dunque quest’uomo che spesso non ha un nome se non per metafora, che non ha un luogo fisso di stazionamento, che non ha uno spazio deputato in cui compiere il proprio lavoro, che non ha un posto né nel sistema economico e produttivo né di conseguenza in quello dei ruoli sociali e delle gerarchie di valori, è costretto ad essere sempre fuori luogo, ad essere sempre altro rispetto al contesto con cui entra in contatto. Non c’è posto, come s’è visto nel capitolo precedente, per il giullare nel sistema simbolico della società e dunque non c’è un ruolo sociale e uno spazio reale in cui sia possibile collocarlo: e per questo, nella vita quotidiana e concreta, il giullare è sempre ospite di qualcuno, occupa sempre precariamente e temporaneamente uno spazio altrui, nel quale viene a collocarsi geograficamente come uno straniero e socialmente come un diverso. 12 Diverso innanzi tutto per l’aspetto fisico, che deve immediatamente marcare, al solo sguardo, l’estraneità del giullare ai parametri della quotidianità. Così, soprattutto in Francia, si rade la barba e i capelli, e in generale prende a vestirsi in modo anomalo, molto vistoso, specie con quell’abito di seta vergata, di due colori accostati nel senso dell’altezza, che ne diventa l’abbigliamento caratterizzante. In questo modo il giullare compie un’operazione analoga a quella con la quale si sceglie un nome d’arte, rifiutando cioè quell’identità sociale che l’abito da sempre assegna al proprio portatore, e che del resto per il suo caso non è prevista. Così anche per questa via si autoconsegna al territorio degli emarginati, assumendo un’identità vestimentaria fittizia che lo colloca in un universo spiazzato e spiazzante in cui convive col classico rappresentante di chi è senza identità, il matto, col quale spesso tende a confondersi. E questa diversità istituzionale, il giullare la manterrà anche quando si troverà stabilmente al servizio di un signore, intruppato in una squadra di addetti ai divertimenti per i quali è prevista una vera e propria divisa, che ne segni a un tempo l’appartenenza alla categoria professionale e alla scuderia del suo padrone. 13 10 Chambers, 1903, 11, pp. 234-58; FaraI, 1910, p. 312; Menéndez Pidal, 1957, p. 4. Per un corposo elenco di nomi e di specializzazioni, soprattutto musicali, desunti da un documento inglese degli inizi dei XIV sec., si veda Bullock-Davies, 1978. 11 La traduzione qui utilizzata è quella che del brano dà Apollonio, 1981, p. 101. Si veda il testo latino di Boncompagno, che è del 1218 circa, in Faral, 1910, p. 305. 12 Istrioni, giullari e stranieri sono messi sullo stesso piano e assoggettati alla medesima normativa limitante ad esempio in uno statuto di Goslar del 1219: Le Goff, 1983, p. 345. 13 Menéndez Pidal, 1957, p. 5. Ma diverso il giullare è anche in quanto portatore di tecniche e soprattutto di una modalità di dispendio improduttivo del tempo e dell’azione che sono incompatibili con le strutture della quotidianità e che possono essere coerenti solo con un luogo ed un tempo già a loro volta spiazzati rispetto a quelli della quotidianità, cioè con la situazione festiva. Che ha poi, naturalmente, un amplissimo spettro di possibilità concrete, dalla microfestività anche giornaliera del momento del pranzo del signore, alla festa popolare, alla macrofestività delle grandi occasioni o ricorrenze dinastiche. In tutti questi casi il giullare può portare la propria attività, dalla forma minima che lo vede allietare col canto e con la musica un banchetto in un giorno qualsiasi, avendo per compenso solo di sedersi a quella tavola, alle grandiose occasioni che lo vedono concorrere con centinaia o migliaia di suoi colleghi ai grandi avvenimenti. Sempre relegato in un altrove spaziale e sociale — e si pensi, come estremo di questo meccanismo, addirittura all’altrove temporale in cui lo colloca Ugo di San Vittore — il giullare patisce naturalmente la mancanza di luoghi reali e simbolici che gli siano propri, ma proprio per questo ha il privilegio di poter percorrere trasversalmente i territori della società medievale, che per gli altri soggetti, dotati invece di spazi e ruoli, sono rigidamente determinati. Così, come s’è detto, il giullare attraversa confini geografici e politici, toccando paesi e culture lontane e irraggiungibili per gli altri uomini di qualsiasi condizione; così attraversa confini sociali all’interno della stessa comunità, facendo spettacolo indifferentemente per il popolo, per i borghesi ricchi, per i signori, per i vescovi; così infine, e ciò che è per tanti versi più stupefacente in una società rigida come quella medievale, egli stesso come soggetto sociale attraversa le barriere di classe, sia quando da chierico, da borghese o addirittura da nobile si fa giullare e dunque emarginato, sia quando compie il tragitto inverso divenendo attraverso donativi ricco possidente quando non feudatario. 14 Per queste ragioni il giullare, privo di luoghi istituzionali, diviene egli stesso un luogo istituzionale, la sede in cui trovano posto una pratica e un meccanismo simbolico che fanno parte a pieno titolo della cultura medievale, quelli del viaggio, dello spostamento. Più del pellegrino, che spesso è tale solo contingentemente e non come categoria sociale, più del soldato che se pure si sposta non ha nel viaggio l’elemento primario che lo definisca, il giullare è l’espressione simbolica e il veicolo concreto della mobilità e dello spostamento come valore non secondario della cultura medievale. Non stupirà, allora, rintracciare forme di istituzionalizzazione di questa funzione sociale conquistata proprio viaggiando tra gli interstizi dei ruoli sociali altrui, da un lato con la consuetudine, ampiamente documentata, di assegnare ai giullari compiti di ambasciatore, sia come semplici latori di messaggi sia anche come incaricati di trattative 15. E dall’altro con la prassi delle lettere di presentazione, che costituiscono appunto il trait d’union tra un luogo e l’altro dell’operare del giullare. Per queste lettere esistono addirittura precisi formulari, di cui ci sono state tramandate diverse redazioni, che costituiscono una testimonianza indiretta ma decisiva insieme del riconoscimento, sia pure informale, della professionalità specifica degli attori, e del loro nomadismo istituzionale. In alcuni casi si tratta di lettere di raccomandazione molto dettagliate, che specificano con cura l’abilità o la specializzazione del singolo giullare, altre volte i formulari sono costruiti per presentare un operatore appartenente a una categoria determinata (danzatore. suonatore d’arpa o di viola, imitatore del canto degli uccelli o del verso degli animali, ecc.), altre volte infine sono del tutto generici come questo, tratto dal trattato di Boncompagno: 14 Si vedano ad esempio i casi citati da Faral, 1910, p. 29. La documentazione al riguardo è numerosa. Si vedano Milá y Fontanals, 1889, p. 263; Bonifacio, 1907, p. 96; Faral, 1910, p. 114; Menéndez Pidal, 1957, p. 56. 15 Il latore o la latrice della presente, giullaressa o giullare, il quale o la quale ha voluto intervenire alla nostra corte o alle nostre nozze, raccomandiamo con particolare cura alla vostra cortesia, pregando per riguardo al nostro affetto che lo o la vogliate ricompensare. 16 Del resto, nessun luogo e nessun contesto in cui potremo trovare i giullari dovrà stupirci, perché essi sono davvero presenti ovunque la vita sociale si addensi e dunque presso ogni soggetto sociale e vicino ad ogni nucleo di potere. Li troviamo, ad esempio, malgrado le condanne ufficiali della Chiesa e della tradizione cristiana, in occasioni religiose e anche in spazi religiosi. L’inconsuetamente ricca dotazione di documenti farfensi segnalataci da De Bartholomaeis 17 ci attesta ad esempio che nell’Abbazia di Farfa, non lontano da Roma, già in epoche relativamente antiche come i secoli XI e XII, giullari italiani, tra i primi di cui si abbia notizia, operano con continuità in stretto contatto coi religiosi, coi quali allestiscono spettacoli come la celebre Cena Cypriani, e dai quali ottengono anche donativi di terre. In seguito i giullari entreranno anche dentro alle chiese, trasportando le loro abilità tecniche soprattutto di musici nelle feste liturgiche spettacolarizzate e nel teatro religioso. E più in generale non è affatto infrequente, accostandosi alla vita medievale nella sua quotidianità e fuori dai parametri ideologici, incontrare giullari che siedono alla mensa di vescovi e abati, non diversamente che a quella dei signori laici, e che addirittura li accompagnano nelle visite pastorali alle comunità di fedeli. Per il fedele del resto, proprio come tale e non solo come uomo del popolo, la presenza del giullare è una costante difficilmente prescindibile. Se lo trova infatti a dettare il passo con la musica nelle processioni e, ancor più, a scandire le stazioni dei pellegrinaggi verso i santuari, ricreato dalla sua musica e dalle canzoni di gesta o più spesso educato dal racconto edificante delle vite dei santi. Se lo trova in quelle feste religiose in cui non è facile scindere la festività ritualizzata di tipo sacro da quella profana di cui appunto il giullare è portatore. Se lo trova, a volte, accanto al letto in cui giace malato, come medicina per sollevare l’animo, o addirittura vicino al catafalco a cantare durante la veglia funebre 18. Proprio a causa di situazioni come queste è facile capire come l’uomo del popolo non possa nella sostanza recepire le condanne ufficiali che la Chiesa continua ad emanare, e come dunque accetti, presumibilmente con gioia, la presenza dei giullari in tutte le innumerevoli occasioni in cui ne viene toccato. Cosa che avviene principalmente o quando lo spettacolo è offerto da un qualche potere costituito — signore, vescovo, municipalità —, oppure nella situazione del mercato e della fiera, contenitore naturale, in quanto denso grumo di socialità, dell’attività giullaresca. Le forme più diffuse in queste situazioni popolari sono naturalmente quelle di tipo basso, circense, ma, in Francia soprattutto ma anche in Italia o in Spagna 19, non mancano altri generi, come le canzoni di gesta. La piazza del mercato è tanto il luogo privilegiato dell’incontro tra popolo e giullari che uscire al mercato è espressione tipica per indicare uno spettacolo rivolto al popolo e ai borghesi, così come andar per corte o simili significa naturalmente rivolgersi ai signori. L’altro grande momento di primaria rilevanza nella vita dell’uomo medievale, oltre a quelli che scandiscono la vita religiosa nei luoghi sacri e la vita sociale nella piazza del mercato, è la guerra, momento così drammatico e poco festivo che si fatica ad intravedervi la presenza del giullare. Eppure è assodato da non pochi esempi che varie specie di giullari, dai suonatori ai cantori di gesta, accompagnano i soldati nelle campagne militari. Spesso con finalità ricreative durante le pause dei combattimenti, con modalità dunque non dissimili da quelle ancora utilizzate nelle guerre moderne, ma a volte anche con scopi per così dire operativi. Ci è stato tramandato ad esempio di una banda di 16 Il testo latino è in Faral, 1910, p. 305. Altri di questi formulari, tratti da manoscritti della Bibl. de l’Arsenal, sono pubblicati da Faral a p. 122. Diverse testimonianze sul fenomeno sono riportate da Menéndez Pidal, 1957, pp. 86-87. 17 De Bartholomaeis, 1928, pp. 37-47. 18 Si vedano Faral, 1910, pp. 97 e 293; Menéndez Pidal, 1957, pp. 75-77. 19 Per quanto riguarda l’Italia si veda la documentazione citata alla nota 8; per la Francia, Faral, 1910, p. 59; per la Spagna, Menéndez Pidal, 1957, pp. 255-58. saccheggiatori borgognoni dell’XI secolo che, allo scopo di intimidire e di scoraggiare eventuali resistenze, si fa precedere da un giullare che canta le gloriose azioni degli avi accompagnandosi con uno strumento 20. E soprattutto ci è stato consegnato, da numerose fonti, il personaggio di Tagliaferro, che partecipa alla battaglia di Hastings del 1066 dalla parte dei normanni di Guglielmo il Conquistatore. Quella di Tagliaferro è una figura controversa, su cui molto si sono soffermati gli studiosi, perché le fonti al riguardo non sono concordi. Potrebbe trattarsi di un guerriero che si presta a fare l’istrione per disorientare il nemico, così come potrebbe essere un professionista che canta le canzoni di gesta per fortificare i suoi in vista del combattimento. Delle dieci cronache che raccontano la battaglia, tra il 1070 e l’inizio del XIII secolo, sette fanno menzione di questo giullare che, marciando davanti all’armata, dà col suo canto il segnale della battaglia; tre di questi testi lo individuano come Tagliaferro e due specificano che il canto è la Chanson de Roland 21 Forse non è un caso comunque che la versione forse meno eroica e più grottesca, tesa a sottolineare l’aspetto istrionesco più di quello guerresco di Tagliaferro, sia di uno scrittore della parte degli sconfitti, l’inglese Enrico di Huntingdon, quasi a giustificare con lo spaesamento provocato da qualcosa fuori posto, come appunto un giullare in una battaglia, gli iniziali successi di Tagliaferro: Un tale dell’appropriato nome di Tagliaferro, poco prima che i guerrieri si scontrassero, giocando ad agitare le spade di fronte agli Angli, mentre tutti lo guardavano stupiti, uccise un vessillifero degli Angli, poi ugualmente una seconda volta, e una terza. Alla fine egli stesso fu ucciso. 22 Anche a me piace credere a questa immagine, forse non vera, di un giullare che muore collocando le proprie abilità tecniche e la propria capacità di stupire con lo spettacolo ancora una volta in un contesto improprio, ostentando insomma la funzione di spiazzamento della propria attività e dimostrando con ciò la fecondità potenziale di questo suo essere continuamente altro, o altrove. Questo istituzionale essere fuori ruolo e fuori luogo si attenua ma non si perde del tutto quando il giullare si stanzializza, ponendosi stabilmente al servizio di qualche signore o anche, come spesso accade, di una municipalità. Questo aspetto non scompare, da un lato, anche banalmente, perché il giullare di corte non cessa per questo di viaggiare, come messaggero ma anche proprio come soggetto per lo spettacolo, inviato come dono dal suo signore a qualche suo pari. Ma dall’altro lato, soprattutto, perché l’essere spiazzato è per il giullare in primo luogo essere comunque altro rispetto a qualsiasi luogo, è porsi come bolla di un vuoto sociale che — già lo si diceva — deve comunque risolversi sul piano ludico, che al sociale è al massimo giustapponibile ma non integrabile. E la sola integrazione possibile avverrà quando anche all’attività ludica professionale saranno riconosciute, come vedremo, una funzione sociale e la liceità di una contropartita economica non occasionale, cioè un salario. Allora il giullare, come stipendiato, avrà anch’esso un luogo specifico di residenza e di azione, delegando la sua differenziazione dagli altri servitori del signore solo alle sue abilità tecniche, caratterizzanti e per certi versi esclusive, e in grado di renderlo comunque ancora un personaggio anomalo e particolare della corte. Anche quando il giullare si insedia in qualche corte, comunque, o mantiene a grandi linee queste caratteristiche di professionista dello spettacolo, e allora non muta di molto la propria immagine e il proprio repertorio, o tende a divenire, come il trovatore, poeta e intellettuale, abbandonando il piano 20 Menéndez Pidal, 1957, p. 264. Zumthor, 1986, pp. 17-18. 22 Enrico di Huntingdon, Historiae Anglorum, VI, 30 (Rerum britan. Scriptores). Il testo latino è riportato, assieme ad altri brani di autori che citano l’episodio, da Faral, 1910, pp. 275-76. Il punto sulle ipotesi di credibilità della figura di Tagliaferro così come ci è stata consegnata dalle stratificazioni successive è fatto anche in Oldoni, 1978, pp. 30-31. 21 ludico. Non bisognerà dunque confondere, almeno per quanto ce lo consente la labilità di confini tra le varie figure, l’ospitalità offerta dalle varie corti d’Europa ai trovatori, che anche quando eseguono essi stessi le loro composizioni tendono comunque a porsi primariamente come letterati e come tali sono accolti dai signori, con l’assunzione in servizio di giullari esecutori, specie musici e cantori, destinati alle necessità spettacolari ordinarie della corte. Esempi del primo tipo li troviamo anche in Italia. Non solo in quella corte di Federico II che produrrà con la scuola siciliana uno dei primi momenti di letterarietà romanza in Italia, ma anche in corti minori dell’Italia settentrionale come quelle dei Monferrato, dei Malaspina, degli Este, dei Saluzzo, dei Da Romano, dei Savoia, dei Del Carretto, che, tra XII e XIII secolo, ospitano e si scambiano trovatori provenzali e trovatori italiani, da Raimbaut de Vaqueiras e Aimeric de Peguilhan a Lanfranco Cigala e Sordello 23. Ma è fatto questo, pur importantissimo nell’ambito della storia delle letterature, che è ormai marginale rispetto al discorso sulla teatralità. Più ci deve interessare invece il caso dei giullari di servizio, che è fenomeno assai diffuso ed è causa di un mutamento sociale e professionale importante della figura dell’attore. Dal XIII e soprattutto nel XIV e XV secolo non c’è corte che non abbia giullari fissi in numero più o meno cospicuo, con compiti di intrattenimento quotidiano e che spesso si trovano in una situazione di notevole familiarità, data dalla consuetudine, col signore. Particolarmente conosciuti, anche per il favore con cui il sovrano guarda al mondo giullaresco, sono ad esempio i giullari della corte di Alfonso X di Castiglia, nel XIII secolo, da quel Citola, identificato col suo strumento musicale, di cui lo stesso re si burla in un componimento perché tenta di riscuotere due volte il salario, a quella giullaressa o soldadera, Maria Pérez la Balteria, la cui popolarità fu grandissima 24. Ma queste assunzioni stabili e dunque istituzionalizzate non possono non portare un mutamento su1 piano dell’immagine sociale del giullare. Non dimentichiamo che sino a San Tommaso e a San Bonaventura alla professione del giullare manca un riconoscimento di liceità morale, e che anche in seguito la sua accettazione sociale è sempre più una prassi che contrasta con le enunciazioni teoriche ed anche legislative che non una legittimazione sancita da qualche norma. Anche il potere civile, infatti, fa a gara con quello religioso nel prendere le distanze dagli attori con ordinanze e leggi che ne marcano continuamente la condizione degradata. Nell’Italia del XIII secolo, ad esempio, Federico Il stabilisce che non vada punito chi offende i giullari maldicenti, negli statuti di Ivrea del 1237 gli attori sono accomunati alle prostitute, e negli statuti di Parma si decreta che i giullari non devono pagare tasse, il che, se pure si risolve in un vantaggio economico, è comunque da considerarsi un segno di discredito sociale 25. Anche se poi le municipalità stesse, in Italia e fuori, non si fanno scrupolo di assoldare giullari per occasioni particolari o addirittura di assumerne di stabili 26. Questa situazione di contraddittorietà manifesta dunque la necessità di essere superata, con forme di legittimazione anche istituzionale di quella professione attorica che è ormai patrimonio stabile e, nei fatti almeno, anche socialmente apprezzato, di tutte le corti, ossia nei centri di potere politico e di decisionalità legislativa. E questo avviene anche con atti formali, ad esempio nelle corti spagnole della prima metà del XIV secolo, a iniziare dalle Leges Palatinae del re di Maiorca nel 1337: Nelle case dei principi, come tramanda l’antichità, sono permessi mimi ossia giullari, in quanto il loro lavoro porta letizia, che i principi devono sommamente desiderare e con onestà coltivare, per scacciare tristezza e ira e mostrarsi più gradevoli a tutti. Per la qual ragione vogliamo e ordiniamo 23 Si vedano Bertoni, 1967, pp. 3-35, e Roncaglia, 1982, pp. 105-22. Menéndez Pidal, 1957, pp. 167-72. 25 Bonifacio, 1907, pp. 20-23. I documenti dell’epoca di Federico 11 sono pubblicati in Meldolesi, 1973. 26 Gautier, 1892, 11, pp. 57-58; Chambers, 1903, I, p. 51; Levi, 1914, pp. 12-18; Menéndez Pidal, 1957, pp. 59-62; Zumthor, 1986, p. 15. 24 che nella nostra corte vi debbano essere cinque giullari, dei quali due siano suonatori di tromba e uno suonatore di timpani. 27 Qualche anno più tardi una legislazione simile, tradotta dal latino in catalano quasi parola per parola, è adottata dal re di Aragona, con la sola differenza che i giullari ammessi sono quattro, tutti suonatori di trombe e timpani. Ma il fatto che da documenti del 1352 sappiamo che in quella stessa corte sono in servizio altre tipologie di giullari, come cantanti e suonatori di cornamusa28, ci conferma nell’ipotesi che quelle leggi valgano soprattutto come affermazione del principio giuridico della liceità della presenza dei giullari a corte, e non come prescrizione delle modalità concrete, che possono cambiare nel tempo, con cui questa presenza si deve manifestare. Come si vede, comunque, il giullare di corte è essenzialmente un musico. Non stupirà dunque che il nuovo nome con cui cominciano a venire chiamati appunto i giullari al servizio stabile di un signore, menestrello o simili a seconda delle diverse lingue, ancora oggi mantenga valenze semantiche quasi esclusivamente musicali. La denominazione menestrello ha particolare fortuna in ambito francese, dove inizia ad essere utilizzata in senso proprio, ossia per designare i giullari di corte, fin dal XII secolo, e già nel XIII secolo è usata in senso lato, per designare tutti i giullari. Ed è con questa accezione allargata che il termine entra anche in altre lingue e in altre culture: in Spagna o in Italia, ma soprattutto in Inghilterra, dove ministrel è appunto termine generale per indicare i giullari. Il meccanismo di questa estensione di senso non è difficile da comprendere. È chiaro che quando il giullare è assunto stabilmente a corte arriva ad una promozione sociale decisiva, ottiene un riconoscimento della propria professionalità dal soggetto sociale più alto che possa fornirglielo, acquisisce anche, sotto la protezione del signore, una sicurezza giuridica ed economica prima sconosciuta. In tal modo tra il menestrello e il giullare che mantiene le vecchie caratteristiche di instabilità sociale e di nomadismo si crea una gerarchia evidente a tutto vantaggio del primo, che trova una rispondenza proprio nella differenza di denominazione. Naturalmente, se il nome menestrello diventa distintivo di una condizione sociale più alta, la finalità di tutti i giullari sarà quella di divenire menestrelli, se non di fatto almeno di nome. Così poco alla volta si produce uno slittamento semantico, con la tendenza a lasciare il termine giullare sempre più ai rappresentanti più degradati e professionalmente meno preparati della categoria. Nel XV secolo, infatti, il percorso è totalmente compiuto, al punto che la strada di Parigi che dalla fine del XIII secolo si chiamava Rue aux Jongleurs, due secoli dopo si chiama Rue des Ménestriers 29. Col risultato tuttavia di vanificare ogni possibilità discriminatoria del nuovo termine e dunque di trasferire su di esso, quando non gli corrisponda la condizione sociale che ne aveva determinato l’uso, tutte le connotazioni negative prima associate al nome giullare. Del resto, la categoria dei giullari, specie quella dei giullari nomadi, proprio per il vuoto di identità sociale e la condizione di reale emarginazione esistenziale che la denominazione serve a coprire, è per tutto il Medioevo un enorme calderone, un contenitore in cui spesso vengono a confluire, per una sorta di contagio sociale, molti generi di soggetti ugualmente sradicati. Un caso tipico è quello della confusione, che è ideologicamente a priori ma anche nelle pieghe della realtà concreta, tra la professione di giullaressa e quella di prostituta. Consideriamo che il fenomeno della diffusione e del successo delle giullaresse è tutt’altro che marginale, specie a partire dal XIII secolo e particolarmente nelle situazioni spettacolari di corte: nell’ambito gallego-portoghese cui il Cancioneiro da Ajuda si riferisce, ad esempio, su sedici miniature, ben dodici rappresentano anche la giullaressa, soprattutto in veste di cantante, a fianco del giullare che suona 30. Ebbene questa figura, che non di rado è la moglie del giullare che decide di seguirlo nei suoi viaggi per il mondo, è 27 Se ne veda il testo latino in Menéndez Pidal, 1957, p. 199. Menéndez Pidal, 1957, pp. 200-2. 29 Faral, 1910, p. 106. 30 Menéndez Pidal, 1957, pp. 31-36. Sull’argomento si veda anche Faral, 1910, p. 63. 28 spesso, specie nelle sue determinazioni meno professionali come la soldadera, confusa con la prostituta. Certo giocano qui diversi fattori, dal tradizionale pregiudizio anche del mondo classico verso le donne attrici alla condizione già degradata e ambigua che le giullaresse hanno ricevuto in eredità dalle mime tardo-romane, all’ostilità ancor più virulenta della cultura cristiana, che in un attore donna non può che vedere il risultato di due principi negativi che si moltiplicano a vicenda. Ma è certo che la presenza costante di donne, a torto o a ragione accusate di esercitare anche la prostituzione, costituisce un ulteriore strumento di degradazione sociale della professione attorica. E comunque, anche quando la figura della giullaressa subisce un processo analogo a quello del giullare, con l’accettazione sociale e professionale in seno alle corti, il suo ruolo, salvo rari casi, è comunque sempre subalterno, esecutivo, con le funzioni primarie di danzatrice e cantante. Altro caso esemplare è quello dei goliardi, i chierici vaganti che, abbandonati gli studi o gli ambienti religiosi, prendono a girare il mondo, conducendo una vita da sradicati, da emarginati e molte volte anche da esecutori di spettacolo, come i giullari. Ma quantunque ai giullari spesso siano sovrapposti, soprattutto nelle elencazioni dei soggetti sociali da condannare, i goliardi restano tuttavia altra cosa, sia per la provenienza colta che li porta a scrivere componimenti raffinati come i Carmina burana, sia perché essi non sono primariamente professionisti dello spettacolo, anche se a volte possono mettere le loro abilità e il loro sapere al servizio di quei loro compagni di strada e di taverna che sono i giullari. È l’autorità ecclesiastica, soprattutto, che tende a sovrapporre le due categorie, perché naturalmente quello dei goliardi o addirittura dei chierici che si fanno giullari, è problema costante per la Chiesa, la cui preoccupazione primaria è di tagliare ogni legame, in modo che questi soggetti siano identificati senza ambiguità come estranei all’ambiente ecclesiastico, e diversi da quel che erano. Questa linea di condotta è stabile per secoli, a partire dalle prescrizioni di Gautier de Sens, del X secolo: Stabiliamo che ai chierici ribaldi, soprattutto quelli che dal popolo sono chiamati della famiglia di Golia, sia ingiunto da parte di vescovi, arcidiaconi, ministri e decani, di tagliare i capelli oppure di raderli di modo che in essi non rimanga la tonsura clericale. 31 E questa preoccupazione la ritroviamo identica, quasi quattro secoli dopo, in una decretale di Bonifacio VIII del 1301, che stabilisce che i chierici che si fanno giullari, goliardi o buffoni, se esercitano questa professione per almeno un anno, ipso jure decadano da ogni privilegio clericale 32. Naturalmente sarebbe una forzatura eccessiva vedere in certe operazioni compiute dai giullari a partire dal XIV secolo, come l’associarsi in corporazioni e confraternite 33, dei meccanismi di difesa della propria identità professionale, minacciata dalla confusione corrente con soggetti sociali contigui. Certo è che le corporazioni, inaugurate a Parigi nel XIV secolo e poi nei due secoli successivi diffuse anche nelle città francesi di provincia e in Inghilterra, costituiscono un tentativo di riconoscersi e di farsi riconoscere come categoria, e una rivendicazione di quel ruolo sociale che al giullare singolo viene negato. Ma sul piano della penetrazione nel tessuto sociale, della integrazione quindi con le altre componenti della società, soprattutto con quella dei borghesi che non può non venire individuata come alleato naturale, sono di certo più importanti le confraternite, come quella famosa di Arras, nelle quali il giullare si trova fianco a fianco col borghese e con esso intraprende imprese sociali, culturali, spettacolari. Come si vede anche dall’approdo finale di questo discorso, sinora si è trattato delle condizioni e del contesto in cui si esplica l’attività del giullare, in un’ottica in sostanza di sociologia dello 31 Gautier de Sens, Statuta, 13, P.L., 132, col. 720. Se ne veda il testo in Faral, 1910, p. 327. In generale sui fenomeno dei goliardi, si vedano ancora Faral a p. 43 e Menéndez Pidal, 197, pp. 28-31, in entrambi i casi con abbondante citazione di documenti, soprattutto di condanne ecclesiastiche. 33 Se ne veda una trattazione ampia in Faral, 1910, pp. 129-42, e anche in Chambers, 1903, II, pp. 258-62. 32 spettacolo. È tempo ora di provare a descrivere e a comprendere quel che è più difficile ma anche più importante da ricostruire, ossia le modalità e gli strumenti della teatralità giullaresca. Pagato il debito d’uso al riconoscimento della difficoltà istituzionale di conoscere retrospettivamente un fenomeno per definizione effimero come la performance spettacolare, mi pare di poter individuare in due serie di documenti i cardini essenziali per una più approssimata ricostruzione: le fonti iconografiche da un lato — decorazione plastica dei monumenti e soprattutto miniature — e le classificazioni delle tipologie dei giullari dall’altro. Anche se occorre ricordare come, in entrambi i casi, si tratti di fonti in parte sospette, spesso viziate da pregiudizi ideologici o da tesi precostituite da dimostrare. Per quanto riguarda le immagini, ad esempio, specie quelle di committenza ecclesiastica, è visibile ad esempio il riflesso della concezione negativa dei giullari. Intanto, in generale, il giullare raffigurato è quasi sempre un musico, essendo molto più rare, e rintracciabili prevalentemente nelle epoche più antiche, le immagini del giullare circense, che compare sporadicamente sotto forma di acrobata, di giocoliere o di lanciatore di coltelli. E il musico, in possesso di un’abilità tecnica più specializzata, è da sempre superiore all’acrobata. Ma anche all’interno della categoria dei musici affiorano precise differenziazioni gerarchiche 34. Dapprincipio il musico è usato spesso come figura tipica, come segno per indicare il male e soprattutto il demoniaco: raramente ad esempio nelle raffigurazioni del Giudizio Universale mancano le figure diaboliche che suonano qualche strumento, prevalentemente a fiato e a percussione. È solo dal XIV secolo che la musica comincia ad essere anche un attributo del mondo divino, con la rappresentazione di angeli che suonano, ma soprattutto strumenti a corde come l’arpa o la viola. Ed è una caratteristica, questa, che testimonia più dell’attenzione a un modello culturale contemporaneo e alle sue determinazioni ideologiche che del rispetto delle Sacre Scritture, le quali propongono con frequenza gli angeli che suonano le trombe. Nell’iconografia è invece proprio da questa contrapposizione, tra fiati e soprattutto percussioni da un lato e corde e archi dall’altro, che passa una linea di discriminazione che è inizialmente ecclesiastica ma diviene anche generale, tra musica negativa e musica positiva. Non è solo una questione di qualità del suono — anche se la rumorosità ad esempio dei tamburi mal si concilierebbe con la natura celeste degli angeli —, ed è invece soprattutto una questione di specializzazione. Gli strumenti a corda e ad arco prevedono uno studio anche teorico della musica che per gli altri non è necessario e comunque comportano un grado maggiore di competenza e di abilità tecnica: sarà per questo, allora, che nelle raffigurazioni positive e non demonizzanti del suonatore, sarà sempre particolarmente visibile la chiave per gli accordi. Del resto, come vedremo nei prossimi capitoli, proprio la mancanza di musica o la cattiva musica è una delle discriminanti che ghettizzano i diavoli nel teatro religioso. Dalla documentazione iconografica, poi, possiamo ricavare altre informazioni o conferme particolari, come ad esempio l’esibizione in coppia di giullari cristiani e musulmani, il ruolo tutt’altro che secondario delle giullaresse, in veste soprattutto di danzatrici e di cantanti, oppure il rapporto di subalternità anche comportamentale e vestimentaria tra giullare e trovatore, il quale ultimo spesso sovrintende da seduto alle performances degli attori. 35 Ma è l’altra fonte primaria, quella delle classificazioni e delle descrizioni, che ci permette di entrare con maggiore completezza dentro alle forme della teatralità giullaresca e ci fa incontrare una multiformità di prestazioni difficilmente immaginabile. Con un ordine che non è correttamente cronologico, ma che è ad estuario, in quanto procede da descrizioni generali a descrizioni sempre 34 Settis Frugoni, 1978, pp. 118-20, Allegata a questo saggio si trova anche una ricca documentazione iconografica, almeno fino al XII-XIII secolo. Sull’iconografia del giullare nei manoscritti si veda anche Leclercq, 1973, e nella decorazione degli edifici in Francia e Italia nel XII secolo, Di Giovanni, 1975. Un corredo di immagini esteso e interessante è poi anche in Menéndez Pidal, 1957. 35 Menéndez Pidal, 1957, pp. 34-35, che pubblica anche una miniatura a questo proposito significativa del Cancioneiro da Ajuda. più particolareggiate, mi servirò qui di quattro documenti, tra cui due che già abbiamo incontrato: il brano del Penitenziale di Tommaso di Cobham che gerarchizza i giullari in base alla ammissibilità morale; la Supplica di Guiraut Riquier; il Libro de Buen Amor dell’Arcipreste de Rita, Juan Ruiz; il romanzo provenzale Flamenca. Il testo di Tommaso di Cobham, della fine del XIII secolo, citatissimo in quanto, oltre a classificare per generi gerarchizzati gli attori, è documento importante per testimoniare l’accettazione di certi tipi di professionalità da parte della cultura cristiana, è molto preciso nel disegnare i confini delle categorie quanto invece superficiale nella descrizione concreta. Di rilevante interesse, comunque, è il collocare ai due lati estremi della scala di valori, secondo uno schema che si va sempre più riconoscendo come generale, il mimo e il musico: Vi sono tre generi di istrioni. Alcuni trasformano e trasfigurano il proprio corpo sia con turpi salti o gesticolazioni sia turpemente denudandosi, sia ancora indossando orribili maschere, e tutti questi sono condannabili se non abbandonano il loro mestiere. Vi sono poi altri che non lavorano e vivono in maniera criminosa, sono senza domicilio e seguono le corti dei signori, e con spirito calunniatore sparlano degli assenti per piacere agli altri. Anche questi sono da condannarsi, poiché l’Apostolo proibisce di mangiare insieme ad essi, e sono detti buffoni erranti, poiché a nulla sono utili se non alla crapula e alla maldicenza. Vi è poi un terzo genere di istrioni, dotato di strumenti musicali per dilettare gli uomini, e anche questi sono di due specie. Alcuni infatti frequentano le taverne e le compagnie disoneste, e lì cantano diversi canti per muovere gli uomini alla lascivia, e questi sono condannabili come gli altri. Ma vi sono alcuni, che si chiamano giullari, che cantano le canzoni di gesta e le vite dei santi, e portano sollievo agli uomini sia quando sono malati sia quando sono in difficoltà, e non fanno tutte quelle turpitudini che invece fanno i saltatori e le saltatrici e gli altri che si servono di immagini disoneste e fanno apparire come dei fantasmi per magia o in altro modo. Così, se non fanno queste cose ma cantano coi propri strumenti le canzoni di gesta ed altre cose utili per ricreare gli uomini, come abbiamo detto, questi ultimi si possono tollerare. 36 Come si vede, questo brano è coerente col quadro concettuale e storico che siamo andati componendo: c’è il disprezzo per i buffoni di tipo circense, che si affidano solo alla corporeità, c’è il rifiuto del giullare nomade e meno professionalizzato, c’è il privilegio accordato al musico, purché non sia musico da taverna, ma quello che canta le canzoni di gesta e le vite dei santi. Se si considera che solo per quest’ultimo Tommaso di Cobham ritiene legittima la professione, ammettendo che gli si possa dare assistenza e compenso, non è difficile individuare in questa unica figura legittimata quella che effettivamente si va affermando come categoria più rispettata, quella dei giullari di corte, dei menestrelli. Ed è la stessa direzione in cui va, in quello stesso torno d’anni e con una consapevolezza ancora maggiore perché è una voce che viene dall’interno stesso della giulleria, la Supplica di Guiraut Riquier, o meglio ancora la seconda parte, quella che si finge essere la Declaratio di risposta del re. Anche qui la classificazione lascia all’estremo basso il giullare non specializzato, che si propone di chiamare buffone, mentre al vertice è messo non il musico o il cantore di gesta bensì il letterato senza più alcun rapporto con l’attività spettacolare, quale appunto Guiraut si sente. In sostanza si propone una tripartizione di condizioni — che nel contesto del discorso ci sono anche sommariamente descritte —, con quella generale e più numerosa dei giullari a costituire il variegato corpo intermedio, e quella dei trovatori di corte, dalla corte pagati solo per comporre, chiamati a staccarsi inventandosi una professione diversa. L’esempio per la classificazione è preso dalle denominazioni che usano in Spagna: [tutto ciò] è ordinato molto bene in Spagna, e non vogliamo che venga meno, ma che si continui a dire come si dice, poiché le specialità di ciascuno sono ben distinte da nomi speciali: si chiamano 36 Se ne veda il testo latino in Chambers, 1903, II, pp. 262-63. ‘joglars’ tutti quelli che suonano strumenti, mentre gli imitatori sono detti ‘remendadors’, e i trovatori sono chiamati in tutte le corti ‘segriers’; si dicono infine ‘cazuros’ per loro umiliazione quegli uomini ciechi e sordi, dal punto di vista di una decorosa condotta, che cantano senza garbo e rappresentano maldestramente per vie e per piazze il loro basso repertorio, e si uniscono a gentaglia, vivendo in modo disonorevole. 37 Questa è la situazione nei casi migliori, come appunto in Spagna, scrive Guiraut, ma meglio sarebbe se si facesse ancora maggiore chiarezza, individuando tre categorie e stabilendo per ciascuna compiti e ruoli. La più bassa deve essere quella dei buffoni nomadi e non specializzati: Diciamo quindi e fondatamente affermiamo che ogni indegno, che vive bassamente, sia o no sapiente, non debba presentarsi in alcuna corte di pregio; così quelli che fanno saltare scimmie o caproni o cani, o che fanno i loro giochetti sciocchi, come quello dei burattini, oppure imitano il canto degli uccelli o suonano strumenti e cantano per pochi soldi in bassi ambienti, non devono esser compresi nell’ambito della giulleria; e, come in Italia, si chiamino ‘buffoni’ quelli che, pur frequentando le corti, si fingono pazzi, e non si vergognano di alcuna abiezione, mentre, al contrario, non apprezzano ciò che è piacevole ed ha valore. 38 La categoria successiva, che già trova una legittimazione, e per la quale si propone di mantenere la denominazione tradizionale, è quella dei giullari di corte, quelli che già in Francia e il secolo dopo anche in Spagna si chiamano menestrelli: E quelli che sanno vivere tra i potenti con cortesia e con decorose capacità, suonando strumenti o raccontando ‘novas’ di altri autori, o cantando ‘vers’ e canzoni altrui, ben fatte e piacevoli ad ascoltarsi, possono a buon diritto portare quel titolo di ‘giullari’. Egualmente, chi lo preferisca, può designare ognuno di questi per sé; ma poiché tale è ormai l’uso corrente, siano chiamati pure giullari, in quanto a ragione devono stare in corte e non avere preoccupazioni economiche, poiché di tali persone c’è gran bisogno nelle corti, in quanto vi portano molti generi di intrattenimento che ricreano piacevolmente lo spirito. 39 Si sarà notata l’insistenza di Guiraut, oltre che sulle abilità professionali, sulla decenza del comportamento, con una decisa presa di distanza dall’immagine morale e sociale degradata del giullare vagante, che viene abbandonato al suo destino di emarginazione e che anzi viene dipinto in modo non meno fosco di certe condanne ecclesiastiche, pur di salvare per contrapposizione le uniche due figure che a Guiraut interessano, quella del giullare di corte, che è l’esecutore indispensabile delle composizioni di un trovatore che non voglia più essere anche uomo di spettacolo, e il trovatore stesso, che appunto non deve far altro che comporre e che può addirittura sfociare in quel dottore in poesia che lo trasforma definitivamente in intellettuale quasi accademico: [i trovatori] sono coloro che conoscono il modo di far cobbole e danze doppie, sirventesi di valore, albe e ‘partimens’, e comporre versi e musica, i quali non si occupano mai d’altro nelle corti, ma dicono o trasmettono il proprio sapere ai valenti. Questi è più che giusto chiamare 37 Bertolucci-Pizzorusso, 1966, pp. 111 (trad.) e 103 (testo), vv. 162-183. Occorre tuttavia sottolineare che sul termine segrier e sulla sua interpretazione c’è stata a lungo polemica tra i filologi, alcuni dei quali, traducendo in maniera differente questo brano ed appoggiandosi ad altre testimonianze, hanno inteso il segrier come una figura intermedia tra quella del giullare vagabondo e quella del trovatore: tra questi anche Menéndez Pidal, 1957, pp. 16-18. Si veda comunque l’esposizione del problema, con la difesa della tesi che, qui e altrove, segrier o segrel non designano figure diverse dal trovatore, nell’introduzione di Bertolucci-Pizzorusso, 1966. 38 Ivi, pp. 111 e 104, vv. 198-221. 39 .Ivi, pp. 111-12 e 104-5, vv. 222-245. trovatori, e sian detti ‘dottori in poesia’ quei valenti che fanno ‘vers’ e canzoni, ed altre valide composizioni profittevoli e piacevoli per i begli insegnamenti che contengono; così la loro condizione [oppure: merito] sarà ben chiarita [oppure: resa illustre]. 40 Ma accanto a queste classificazioni gerarchizzanti, che hanno una finalità appunto più nelle partizioni che disegnano che nelle descrizioni che accessoriamente forniscono, ci sono poi quelle enumerazioni di attività senza giudizio di valore che costituiscono la primaria fonte di conoscenze degli strumenti e delle modalità di spettacolo. In un brano famoso del Libro de Buen Amor del 133041, Juan Ruiz, religioso e letterato molto vicino all’universo giullaresco per il quale dichiara di aver scritto diversi componimenti, descrive una sorta di corteo giullaresco in cui ognuno è identificato tramite lo strumento che suona e ci dà così modo di conoscere in un sol colpo oltre una ventina di strumenti utilizzati in quell’epoca. Gli strumenti che si trovano in numero maggiore sono quelli a corda, dalla viyuela de peñola alla viyuela dë arco, dalla citola alla harpa, dalla rota al rabé (sorta di violino primitivo), dalla cinfónia (accompagnandosi con la quale si cantano le canzoni di gesta) alla guitarra nelle sue due versioni mora e latina, dal salterio (di origine orientale) ai similari medio canón e canón entero (con ben 78 corde), dall’alaút alla baldosa, con una varietà di nomi e di oggetti da cui riesce molto difficile districarsi, distinguendo l’uno dall’altro ed assegnando a ciascuno la propria funzione. Tra gli strumenti a fiato, che sono meno numerosi, troviamo l’albogón, grande flauto a canne parallele, la flauta, la trompa, l’añafil di origine mora e l’odrezillo di origine francese. Solo quattro gli strumenti a percussione, l’atabor, il taborete, l’atabal e il panderete. Ma anche questa enumerazione di strumenti e dunque di strumentisti è incompleta in quanto prende in considerazione solo una categoria di giullari, quella dei musici, la quale tuttavia, pur se è ormai diventata la categoria più rappresentativa, è ben lungi dall’esaurire la molteplicità delle specializzazioni giullaresche. Sotto questo profilo, il documento più interessante e più completo è un’opera di fantasia, il romanzo anonimo Flamenca, della metà del XIII secolo, che in una fittissima pagina descrittiva ci fornisce un affresco impressionante di un dopo-banchetto in cui cinquecento giullari offrono, contemporaneamente, il proprio spettacolo ai signori convenuti. Si tratta di una pagina che nella sua concitata ellitticità può lasciare nell’ombra molte allusioni a specifiche pratiche attoriche, soprattutto quelle che riguardano i racconti, ma che mi piace lasciare così, nella sua forma di affastellamento paratattico, per chiudere con questo elenco che sembra non finire mai un discorso sulle tipologie delle pratiche giullaresche che, comunque, non si riuscirebbe a definire compiutamente: Ed ecco avanzare i giullari. Ciascuno vuole farsi ascoltare. Avreste potuto udire le corde degli strumenti modulate su tutti i toni. Chi conosce una nuova sonata sulla viola, una canzone, un discordo o un ‘lai’ si mette in mostra più che può. L’uno suona sulla viola il ‘lai’ del Caprifoglio, l’altro quello di Tintagel; l’uno canta quello del Fino Amante, l’altro quello che compose Yvain; l’uno trae accordi dall’arpa, l’altro dalla viola; l’uno modula il flauto, l’altro il piffero; l’uno suona la giga, l’altro la rota. L’uno recita i versi, l’altro lo accompagna con la musica; l’uno suona la cornamusa, l’altro la zampogna; l’uno pizzica la mandola e l’altro accorda il salterio e il monocordo. L’uno fa ballare le marionette, l’altro si esibisce coi coltelli; l’uno cammina carponi, l’altro fa capriole; l’uno danza tenendo in mano la propria coppa, l’altro passa attraverso un cerchio, un altro spicca salti. Tutti sono abilissimi. Chi vuole ascoltare racconti di re, marchesi e conti, può udirne a sazietà; nessun orecchio se ne sta in ozio; infatti l’uno narra la storia di Priamo e l’altro di Piramo; l’uno di Elena la bella, come Paride l’amò e la rapi; l’uno di Ulisse, l’altro di Ettore e di Achille; c’è chi racconta di Enea e Didone che per lui fu dolente e infelice; o di Lavinia che dalla 40 Ivi, pp. 113 e 108, vv. 356-375 Ruiz, 1973, pp. 473-77, vv. 1225-1234. Per una analisi del brano, oltre alle note del curatore dell’edizione citata, si veda Menéndez Pidal, 1957, pp. 47-51, 202-14 e passim. 41 sentinella della torre più alta fece lanciare un messaggio attaccato ad una freccia; alcuno favoleggia di Polinice, di Tideo e d’Eteocle; altri di come Apollonio tenne Tiro e Sidone; c’è chi racconta del re Alessandro, di Ero e di Leandro; chi di Cadmo, che fu esiliato e fondò Tebe; di Giasone e del drago insonne; l’uno esalta il vigore di Alcide, l’altro ricorda come Fulide si diede morte violenta per amore di Demofonte. L’uno racconta come il bel Narciso annegò, specchiandosi nella fonte; l’altro come Plutone rapì ad Orfeo la bella moglie; l’uno ricorda la storia di Golia, ucciso da David con tre pietre, l’altro il sonno di Sansone allorché Dalila gli tagliò i capelli; c’è chi narra di Maccabeo, che combatté per il Signore; chi di Giulio Cesare che, solo, traversò il mare e non invocò l’aiuto di Nostro Signore perché non aveva timore alcuno; chi rievoca della Tavola Rotonda, ove non si presenta alcuno cui il re non dia responso per quanto sa, e dove mai vengon meno valore e pregio; chi di Gauvain e del leone, che fu compagno del cavaliere che liberò Lunete; chi della fanciulla bretone che imprigionò Lancelot perché questi ne rifiutò l’amore; chi di Perceval, che giunse a corte a cavallo; chi d’Erec e d’Enide, d’Ugonet e Pende; di Governal, che a cagione di Tristano soffrì tante pene; di Fenice, cui la nutrice diede morte apparente; del ‘Bello Sconosciuto’ e dello scudo vermiglio che Myras trovò accanto alla posteria; di Guiflet, di Calobrenan; chi racconta come Deliez tenne rinchiuso in prigione Keu il senescalco, che aveva sparlato di lui; chi narra di Mordret; chi riferisce la storia del conte d’Ivet che fu cacciato dai Ventres e accolto dal Re Pescatore; chi si rifà alla buona stella di Merlino; chi espone come gli Assassini uccidano, per suggestione del Vecchio della Montagna; chi racconta come Carlo Magno resse l’Alemagna prima di dividerla; chi le vicende di Clodoveo e di Pipino; l’uno ricorda come Lucifero fu per il suo orgoglio escluso dalla gloria dei cieli; altri narrano le storie del giovinetto di Nanteuil e di Olivieri di Verdun; l’uno recita il ‘vers’ di Marcabru, un altro racconta come Dedalo riuscì a volare e come Icaro annegò per la sua imprudenza. Ognuno dice quanto sa di meglio. La sala risuona per lo strepito dei suonatori di viola e per il vociare dei narratori. 42 Come si vede, in questo che può considerarsi un esempio adeguato di corte bandita, il catalogo è veramente ampio e multiforme, anche se, c’è da giurano, nient’affatto completo. Così ci sono gli acrobati e i giocolieri, i musici di vario tipo e i cantori, e questi ultimi sono indicati con un’ampiezza di repertorio che non troveremo in altre fonti: dalle canzoni di gesta sul ciclo di Carlomagno al ciclo arturiano, dagli episodi biblici ad un numero sorprendente di racconti desunti dalla cultura classica, specie greca. Certamente, trattandosi di un romanzo e non di una cronaca, è legittimo il sospetto di trovarsi di fronte a una sorta di catalogo più che alla descrizione di una situazione verosimile, anche per il fatto di vedere qui riuniti, senza gerarchia alcuna, tutti i tipi di giullari, da quelli circensi ai cantori di gesta, in un’epoca in cui invece gerarchie cominciano a darsi. Ma la situazione qui raffigurata, pur costituendo certamente anche un catalogo astratto, è in realtà credibile, poiché si tratta di una di quelle corti bandite destinate a far corona ad avvenimenti speciali, come in questo caso un grande matrimonio, in cui i giullari accorrono da ogni parte sapendo che c’è spazio e possibilità di spettacolo per tutti, proprio perché il senso primo dell’evento non sta nel contenuto degli spettacoli che presenta ma proprio nel numero e nella varietà. Una corte bandita, insomma, tanto più si qualifica come evento festivo indimenticabile quanti più giullari — o uomini di corte come appunto in Italia sono anche chiamati 43 — riesce ad attirare e a ricompensare. Al di fuori di queste occasioni, o anche di quelle feste di giullari che a volte diventano grandiosi raduni come quello del 1313 a Parigi descritto nella Chronique de Geoffroy44 spesso ogni 42 La traduzione utilizzata è quella dell’edizione italiana Il romanzo di Flamenca, 1971, alla quale si rimanda anche per le note esplicative — peraltro non copiose — e per il testo originale. In generale sulle presenze di suonatori e di danzatori nei banchetti, si vedano Salmen, 1983, e Busch-Salmen, 1983. 43 Si veda Muratori, 1739, col. 842, e in generale Bonifacio, 1907. 44 La chronique métrique attribuée à Geoffroy de Paris, a cura di A. Diverres, Paris 1967, vv. 47035098. specializzazione di repertorio si ritaglia anche un proprio pubblico preferenziale. Alcuni specialisti, ad esempio, godono di un privilegio che si traduce in accettazione sociale e dignificazione culturale: soprattutto alcuni generi di giullari di bocca, come vengono chiamati, ossia i cantori delle vite dei santi da un lato, e i cantori di gesta o in genere di repertori alti come i romanzi d’avventura, i lais e i romanzi del ciclo bretone, dall’altro. Differenti sono tuttavia le motivazioni sociali di questa dignificazione. Nel secondo caso essa risiede nel pubblico, cortese e raffinato, nel primo invece nella committenza, che è la struttura ecclesiale. Il destinatario naturale di questi racconti edificanti, infatti, è chiaramente il popolo, tanto che abbiamo segni non equivocabili che in casi di doppia destinazione degli spettacoli giullareschi, è al popolo che sono riservate le vite dei santi e al clero le canzoni di gesta 45. Fenomeno peraltro non sorprendente se si considera che la forma narrativa, quella stessa cui i giullari abituano la gente ad esempio recitando i fabliaux, è spesso individuata dalla Chiesa come forma molto più idonea dell’enunciazione dottrinale a far breccia nella coscienza dei semplici 46. Se cantando le vite dei santi o sfruttando le proprie abilità musicali il giullare perfora le spesse mura della chiesa, aggirando pratiche di secolare ostracismo, se divertendolo coi giochi o raccontandogli storie si rende presente in ogni istante della vita del popolo, se facendosi interprete dei valori della nuova cultura cortese e cavalleresca si insedia nelle corti, come strumento indispensabile perché i signori si vedano rappresentati come vorrebbero e dovrebbero essere, è poi come induttore di danza e di festa che entra in contatto con tutti gli strati sociali. Il giullare è sempre, lungo tutto il Medioevo e in ogni contesto, legato alla danza. Sia in quanto portatore di musica che alla danza è strumento indispensabile, sia in quanto egli stesso danzatore professionista padrone della tecnica dei diversi balli, sia proprio come elemento scatenante della danza e della festa. Non è dunque solo un fatto tecnico, come quello ad esempio descritto in due versi del Roman des sept Sages, della metà del XII secolo: Mentre i giullari suonano i borghesi ballano. 47 È soprattutto una questione di altro tipo, più generale, per cui è nella danza, è non nella danza virtuosistica del danzatore professionista ma in quella collettiva che si dà nelle situazioni festive, che si può vedere il luogo più preciso per l’individuazione del ruolo antropologico della giulleria, prima almeno che i giullari divengano assennati servitori di un signore. È nella danza, indotta e guidata ed eseguita assieme agli altri, che le valenze della corporeità come strumento per comunicare e per essere, della festività come mezzo per uscir fuori dalla quotidianità, di una azione che lega insieme occasione contingente48 e pura gratuità non riducibile ad alcuna economia, di un fare che è occupazione abusiva e straniata di uno spazio che nel quotidiano contiene altre valenze, è qui che il giullare trova l’unico vero luogo che gli sia proprio nei meccanismi della società. Per queste e per altre ragioni consimili, l’universo antropologico del giullare e dunque il modo con cui organizza i propri strumenti espressivi e con cui si rapporta al pubblico è popolare, nel senso in cui si intendeva questa nozione, pur fra molte cautele, nei capitoli precedenti, o almeno risponde a delle modalità che sono quelle tipiche della cultura folklorica. Dal punto di vista della 45 Si veda Faral, 1910, pp. 45-46. Gurevič, 1986, pp. 80 e sgg., insiste sulle differenze strutturali tra i messaggi indirizzati dalla Chiesa ai dotti e quelli rivolti al popolo, con una accentuazione appunto della dimensione narrativa in quest’ultimo caso. 47 Il testo originale è riportato da Faral, 1910, p. 285. 48 È Zumthor, nel contributo inviato al V° Colloque International de la Société Internationale pour l’étude da Théâtre Médiéval (S.I.T.M.), svoltosi a Perpignan dal 7 al 12 luglio 1986, a p. 7 del dattiloscritto, a insistere sull’importanza dell’occasione per definire il senso delle performances dei giullari. 46 delineazione di una figura sociale, di un personaggio, è appunto con queste caratteristiche che il giullare entra tra i protagonisti della novellistica, soprattutto toscana, tra XIII e XIV secolo, dal Novellino, al Trecentonovelle al Decamerone. Si pensi ai vari Dolcibene, Gonnella, Ribi, Pietro Guercio, Agnolo Moronti o Popolo d’Ancona raffigurati nel Trecentonovelle di Sacchetti, o ai Martellino, Stecchi e Marchese dipinti come «uomini li quali, le corti de’ signori visitando, di contraffarsi e con nuovi atti contraffacendo qualunque altro uomo, li veditori sollazzavano» (Decameron, II, 1). Si tratta, appunto di un personaggio che corrisponde spesso ai canoni del popolare di Bachtin, le cui caratteristiche costanti sono l’irriverenza, il rovesciare di segno le situazioni, il ricorso continuo al grottesco, l’ostentazione della corporeità e delle sue funzioni più basse. Dal punto di vista, invece, dei meccanismi dello spettacolo, questa dimensione popolare si traduce, ad esempio, in una estrema convenzionalità (nel senso evidentemente di non verosimiglianza) dei segni che il giullare utilizza e dei processi che innesca, che è figlia della povertà di mezzi ma anche madre di un rapporto molto più stretto e più complice col pubblico; oppure nella costruzione del proprio prodotto con una tecnica di assemblaggio di frammenti che cura molto poco l’unitarietà e la coerenza dell’opera a tutto tondo, lasciando in vista le fessure semantiche 49, come abbiamo visto ad esempio nel caso dei cantori di gesta a Treviso; oppure ancora nel far riferimento ad un universo culturale comune al proprio pubblico, nell’appoggiarsi più sul già conosciuto che sulla novità. 50 È questa la ragione dei rifacimenti innumerevoli di storie che invece restano prevalentemente le stesse, con una gara anzi per accreditare la propria versione come la migliore51, oppure anche dei meccanismi interni con cui si determinano le stesse opere scritte dei giullari. Quando, ad esempio, in epoche ormai tarde, nel XIV secolo, i giullari, proprio in quanto tali e dunque separati dall’uomo di lettere, accedono anch’essi alla scrittura, lo fanno con meccanismi che indicano la particolare destinazione, popolare appunto, degli spettacoli di cui quegli scritti sono il libretto: si veda ad esempio il caso dello Zaffarino studiato da Ezio Levi 52, che produce drammatizzazioni con rimandi dall’una all’altra, presupponendo un rapporto col proprio pubblico che è di costanza, di complicità, di ripetizione di temi conosciuti. È, naturalmente, l’esatto opposto da cui parte il trovatore, che fa della novità del proprio dire il perno della sua qualità e che anzi utilizza il trobar clus, il poetare difficile che istituzionalizza la distanza di saber tra il poeta e chi lo ascolta, come strumento per differenziarsi dal giullare e dal suo universo culturale troppo poco staccato da quello del pubblico. Da un certo momento, dunque, dal fiorire almeno della cultura cortese, il giullare restringe il proprio raggio d’azione, è costretto a ritagliarsi il proprio pubblico in quella porzione di società il cui mondo culturale resta sostanzialmente immutato. Ma fintanto che la società medievale si mantiene sufficientemente instabile e produce interstizi discrepanti negli equilibri dei suoi diversi centri di potere, anche l’instabilità istituzionale del giullare riesce a trovare luoghi e momenti generali di ascolto e di azione. Quando la società si stabilizza, poi, e i poteri si definiscono meglio e tendono a riordinare tutti i disequilibri, al giullare come portatore dei valori antropologici della festa e della trasgressione non resta che marginalizzarsi ad operatore popolare, o trasformarsi in menestrello stanziale e stipendiato oppure avviare quei processi di inserimento nelle strutture drammaturgiche che si vanno determinando, quelle del teatro comico o del teatro religioso, e trasformarsi in attore in senso stretto. In quest’ultimo caso, che per la storia del teatro è naturalmente il più rilevante, sarà finalmente interprete, joueur de personnage o player of Interludes, lascerà il titolo di giullare solo ai buffoni da fiera, e diventerà in senso pieno operatore di 49 Mukařovský, 1973, p. 410. Mi si consenta di rinviare, per una trattazione più estesa di questi temi relativi alla teatralità popolare, a Allegri, 1978, pp. 55-99. 51 Si veda quanto riferisce Faral, 1910, p. 125, a proposito dei cantori di gesta che ricorrono appunto a questi espedienti. 52 Levi, 1915, p. 57. 50 teatro, intrattenendo col proprio pubblico non più rapporti di coinvolgimento ma di alterità spettacolare.