V
E T E R A
N
O V A
di Corigliano Calabro
anno 1, numero 7, novembre 2013
foglio di storia locale a diffusione gratuita realizzato da Giulio Iudicissa
Nel mese
dei crisantemi
di Giulio Iudicissa
Aspira alla varietà, anche questo
numero, pur nella modestia imposta dallo spazio cartaceo. C’è
l’incontro fra due sacerdoti,
mons. Loris Capovilla e don Gaetano Federico, un vescovo emerito ed un giovane parroco; c’è il
profilo di un coriglianese esemplare, Fortunato Bruno, maestro
nella vita e nella scuola, quando
ancora un pedagogismo miserando non aveva screditato la
sacralità di tante cattedre; c’è
l’antico rituale della morte e del
lutto, raccolto e raccontato da
Antonio Russo, pioniere nella
ricerca delle tradizioni popolari;
c’è, infine, una traccia di poesia
semplice e calda, quella di Saverio Avella, di Pasquale Bennardo, di Salvatore Garasto, di Pierino Le Pera, di Franco Scarcella, di Antonio Siinardi, di Luigi
Ungaro, che s’intona all’anima
mesta del mese. A lato, un contributo di storia locale, firmato
da Enzo Cumino, mio amico da
sempre e storico della città. Da
lui attingo anche la preghiera, in
dialetto, per i morti. Poco, forse,
ma messo insieme con l’amore,
che alla città continuo a portare,
così come chiedono le sue pietre
e le sue tombe. Poco, forse, ma
opportuno, in un contesto sociale sfilacciato e, a volte, sfrangiato dal segno del malaffare. Il
domani non è, certo, roseo. Così
almeno lo percepisco, quando
considero che tante antiche istituzioni sembrano essersi adagiate nel quotidiano e nell’effimero.
Ci rincuori, almeno, e ci dia speranza la foto, che a modo di augurio, ho voluto porre a pie’ della pagina: raffigura il Ponte Canale, maestoso, che da cinque
secoli saluta i Coriglianesi e
quanti nella città entrano. Ecco:
come il bel manufatto dissetò i
nostri avi, recando loro l’acqua
fresca di sorgente, così una rinnovata, operosa concordia ridesti
noi dal presente torpore. Ci aiutino i santi morti.
Ppi ri tua bbattituri,
misiricordia, Signuri.
Ppi ri tua ĉhiaghi secreti
l’armi ‘i ri muorti mii
siini rifriscati.
O Ggesù, patri amurusi,
runa a ttutti ‘i muorti mii,
pacia e rripuosi
foto G. Iudicissa
La lunga storia del cimitero
Con la legge 11 marzo 1817, riguardante
il seppellimento dei cadaveri fuori le
mura delle città, anche il Regno di Napoli si uniforma allo spirito del famoso
editto di Saint-Cloud del 1804. Vengono
invitati i comuni all’adempimento delle
nuove disposizioni di legge, ma ci vorranno molti decenni, anche dopo l’Unità,
prima che si arrivi al rispetto pieno e
definitivo delle norme emanate. Corigliano, purtroppo, appartiene al numero
di quei comuni dove l’iter per la costruzione del cimitero è tra i più tortuosi e
lunghi. Il 14 agosto del 1929 il sindaco
Giovanni Terzi invia a Cosenza una perizia redatta dall’ing. Ruggiero La Segna,
dalla quale si evince che si è scelto per la
costruzione del cimitero un luogo, denominato Varìe, di proprietà del comune.
Dopo ripensamenti e ricorsi, concernenti
ipotesi di diverse ubicazioni, dinanzi alla
fermezza del Ministro degli interni e del
Re nel considerare valida la scelta di
Varìe (il terreno, intanto, è diventato
proprietà Quintieri), nel 1882, cominciano i lavori. Su sollecitazione delle autorità superiori, l’8 settembre del 1882,
mentre ancora fervono i lavori, finalmente, alle cinque pomeridiane, viene
inaugurato il nuovo cimitero dal sindaco
ff., notaio Francesco De Vulcanis, da
due assessori e due consiglieri. Segue la
benedizione del sacro recinto. Al clero e
ai rappresentanti delle congreghe, si uniscono oltre mille cittadini, preceduti dalla banda municipale. Intanto, i lavori
procedono. Nel 1884, vengono concessi i
primi dodici suoli per costruire delle
cappelle gentilizie. Nel 1886, si dà inizio
alla costruzione della strada di accesso al
camposanto. E, finalmente, nel 1887,
vengono ultimati i lavori del cimitero
definitivo, il cui collaudo viene affidato
all’ing. Emilio Mayer di Napoli. Nel
1890, viene nominato per un triennio, il
primo cappellano del camposanto: don
Stefano Ciollaro. Dopo oltre sessanta
anni di attese, Corigliano vede realizzata,
con la costruzione del cimitero, l’ultima
grande opera pubblica dell’Ottocento.
Enzo Cumino
Don Gaetano Federico giovane Parroco in S. Antonio di Corigliano
e Mons. Loris Capovilla Vescovo emerito e gia segretario di Papa Giovanni XXIII
A seguito della morte del card. Esilio Tonini,
mons. Loris Capovilla è il secondo ordinario
diocesano italiano più anziano vivente. Nella sua
lunga vita ha incontrato molte persone e raccontato tanto su Papa Giovanni. L’incontro che ho
avuto la gioia di vivere a Sotto il Monte (Bg),
nella casa estiva di Cà Maitino il 20 agosto 2013
ha fatto aprire la mente ed il cuore all’antico
segretario del Papa Buono, il quale ha rievocato
momenti e volti dei 5 anni in Vaticano ed anche
una riflessione sulla chiesa e la società di ieri e
di oggi. Un incontro preceduto da una telefonata
una settimana prima. A tale mia richiesta la sua
cortese risposta: “spero mi trovi ancora in vita,
sa, a 98 anni, ogni giorno è dono di Dio”. Arrivo
intorno alle 11 del 20 agosto nella sua stanza, lo
trovo seduto e sorridente. In precedenza aveva
avuto altri incontri e ne avrebbe avuti ancora
fino al termine della mattinata. Giornate intense
le sue, tra incontri e telefonate.
Eccellenza, partiamo dalla visita di Mons.
Roncalli a Rossano in Calabria nel 1922.
Nel 1921 fu chiamato a Roma come presidente
per l'Italia della Pontificia Opera Propagazione
della Fede e qui alimentò il suo amore per le
missioni. Fece visita a tutte le Diocesi italiane e
venne a Rossano, ospite in seminario del venerato Rettore, mons. Altavista.
Alcuni nomi: mons. Dell’Acqua e don Giuseppe De Luca, che ricordi affiorano nella sua mente?
Papa Giovanni mi raccontò la leggenda di San
Francesco di Paola che porta l’acqua potabile nel
convento da lui fondato a Corigliano Calabro.
Scrisse poi di questo miracolo in una bella lettera a Mons. Angelo Dell’Acqua, al quale, quando
si incontrarono, domandò: “ma Lei non è Angelo
dell’acqua? Come San Francesco di Paola, anche
lei porta l’Acqua?”
Don Giuseppe De Luca?
Don Giuseppe De Luca, grande letterato, grande
collaboratore della Santa Sede. Ricordo che era
stato operato ed era allora morente all’ospedale
“Fate bene Fratelli” dell’isola Tiberina a Roma.
Aveva 64 anni. Il Santo Padre, dopo aver celebrato, nella sua cappella privata in Vaticano, presente il Presidente della Repubblica d’Irlanda De
Valera, cattolico, finito questo grande gesto
d’amore, dice: “adesso devo andare a trovare
una persona gravemente malata”. Questo accade
nel pomeriggio della medesima giornata; la
tappa fu presso il letto di don Giuseppe De Luca,
il quale si apre al Papa, con espressione tale di
fede da consolarlo e confortarsi vicendevolmente; se vogliamo dire tutti i particolari il De Luca
aveva affidato il suo piccolo testamento spirituale al segretario di papa Giovanni: “Santo Padre
sto per andarmene, mi piace dirvi tre cose: prima, non troverete un libretto in banca intestato
a me, muoio povero; secondo, Santità, l’unica
donna della mia vita è stata Maria Vergine; terzo,
ho la lingua lunga, ho peccato molte volte di
lingua, ho criticato anche istituzioni ecclesiastiche, però ho amato perdutamente Gesù e la sua
Chiesa”. Suggella quest’incontro stupendo con
un abbraccio paterno e affettuoso. Papa Giovanni
con molta delicatezza dice: “ci vediamo presto”.
Papa Giovanni come si pose dinanzi alla
necessità della nomina dei Vescovi in
Italia, in particolare come affrontò il
pregiudizio meridionale secondo cui un
vescovo del sud non poteva essere guida
di una diocesi del nord?
Lui aveva grande stima di tanti uomini prelati
del sud che conosceva ed apprezzava ed io dicevo: “Santità, ma com’è possibile che la Lombardia, il Piemonte, Il Veneto mandano parroci a
fare i vescovi nel sud e non c’è una sola diocesi
del nord che ne abbia uno del sud?” E lui era
d’accordo su questo e diceva che le operazioni
per nominare un vescovo del sud erano più
complicate, perché sovente veniva detto “questo
vescovo è borbonico”.
Finora l’unico vescovo che ha varcato i
“confini” è stato Mons. Girolamo Grillo a
Civitavecchia.
Grillo, sì, mi ricordo, io l’ho visto una volta sola,
è di Parghelia, vicino Troppa.
La sfida più grande di oggi:
l’immigrazione e l’integrazione.
Chiunque incontro, non conoscendolo, non domanderei minimamente se è italiano, potrebbe
essere un asiatico, potrebbe essere uno del medio oriente, non gli domando ‘sei cristiano, sei
cattolico o protestante ortodosso o sei musulmano, sei ricco o sei …?’ Anche papa Francesco ci
ha abituato ad avere il cuore aperto. Io ero giovane vescovo, c’è stato un raduno dei cappellani
delle carceri e siccome questo raduno è stato
fatto a Chieti, dove io ero vescovo, ho parlato di
questi diritti perché eravamo ai tempi in cui
c’era ancora la casacca col numero scritto sopra;
mi ricordavo il primo incontro di Papa Giovanni
con i carcerati di Regina Coeli.
Cosa ne pensa delle missioni dei nostri
soldati in Iraq, in Afghanistan.
Io non faccio lo sfegatato patriota, ma ogni qualvolta sento l’inno di Mameli mi commuovo;
anche quando muore un ragazzo. Davanti alla
morte siamo rispettosi.
Eseguono degli ordini in nome dello Stato Italiano.
Si, un po’ discutibile perché noi siamo aggressori, parliamoci chiaro, ma comunque un grande
rispetto qui ci vuole e non so non commuovermi
davanti a questo. Ogni volta che sento …, penso,
uomini che non sono stati certo clericali o cristiani esemplari, ma su questa terra qualcosa di
buono l’avran fatta anche loro, no? I romani ci
hanno insegnato, muore uno? ‘Parce sepulto’.
Don Mazzolari diceva: “non possiamo discriminare quelli che son morti per la Repubblica di
Salò, da quelli che son morti per l’Italia”.
Vi porto i saluti dell’Arc. di Rossano,
mons. Santo Marcianò
Si lo conosco, era Rettore del Seminario di Reggio. M’ha lasciato una bella, dolce impressione.
( un momento dell’incontro-intervista tra don Gaetano Federico e mons. Loris Capovilla)
In epoca in quando la scuola coniugava vera umanità e sano rigore e
con
cui censo e
l’esempio, per
Fortunato Bruno professore d’altri tempi
casato ancocinquant’anni
breve
profilo
a
136
anni
dalla
nascita
ra decidevaed oltre.
no il destino
Oggi, potremdei più e ai giovinetti di origine popolare toccava mo additarlo a modello di coerenza; un tutt’uno
la via della campagna o dei mestieri, lui sfuggì di naturale semplicità, in cui l’uomo pubblico ed
alla regola.
il padre di famiglia perfettamente coincidono. Mi
Figlio di un commerciante di stoffe e di una casa- dicono pure che in cucina si destreggiava tra i forlinga, frequentò la scuola elementare ed il ginna- nelli come a scuola tra i libri.
sio a Corigliano, dove era nato il 31 dicembre del Di dispiaceri n’ebbe tanti, resi acuti dalla sensibi1877, per proseguire,
lità; e, però, giammai lo
poi, gli studi liceali a
abbandonarono la fede
Napoli ed, infine, quele l’ottimismo. Patì la
li universitari, in letteperdita d’una figlioletre classiche, a Roma.
ta e quella del giovane
Gli esiti, furono semfratello e subì la grave
pre brillanti. Evidenmalattia d’un altro fitemente, sacrificio e
glio. L’animo suo si
tenacia ebbero la memantenne quello di
glio sulla modestia delsempre; comprensivo
la
famiglia
e
con gli alunni, con gli
sull’avarizia del temamici generoso, mite ed
po.
oltremodo accomodanDi qualità Fortunato
te in famiglia.
affacciata di casa Bruno sulla villa Margherita
Bruno ne possedé più
Ogni tanto diceva: “Mi
e di fronte all’istituto Garopoli
d’una: la professionalichiamo Fortunato per
tà se l’era guadagnata, studiando spassionata- ironia”.
mente; l’equilibrio gli era stato dato dalla natura; Prima di morire, d’un brutto tumore, il 20 marzo
l’umanità gliela conferivano la quotidiana soffe- del 1951, volle mandare, dal balcone di casa, un
renza ed il rapporto coi giovani.
ultimo saluto alla sua scuola. La conosceva in oDocente dal 1901 al 1946, prima presso il ginnasio gni pietra, tanto da indovinare l’ora del giorno
e, poi, presso il liceo scientifico, da lui fortemente dal passaggio del sole sulla facciata.
voluto, nonché preside nella stessa scuola, mai Due ex-alunni, che quotidianamente gli tennero
ebbe tensione coi discepoli o screzio coi docenti; i compagnia, ne registrarono, negli ultimi tempi,
primi lo elessero a maestro di vita, gli altri a gui- l’immeritata povertà, cui lo costringeva una verda illuminata. Francesco Antonio
gognosa pensione; l’uno ne colse anArena lo dipinse così: “Italiano per
che gli irrealizzati sogni di padre,
sentimento, europeo per cultura,
l’altro, commemorandolo, disse: “I
cristiano per fede e per tradizione,
tuoi affettuosi consigli hanno rifu democratico, anche nella scuola,
schiarato il cammino di tante geneper istinto. Geloso della propria dirazioni. Padre buono, addio”.
gnità, era rispettoso della dignità
Le autorità comunali ben fecero a
altrui”.
dichiarare, per la sua scomparsa, il
Alla politica non si applicò mai, ma
lutto cittadino. Oggi, a don Fortui politici, d’ogni colore, lo ritennero
nato, il vecchio professore buono col
uomo giusto e buono e lo rispettaromantello, restano intitolati il liceo
no. Politico don Fortunato lo fu a
scientifico ed una strada.
modo suo, servendo la patria, gene(da Coriglianesi
roso combattente, negli anni della
di Giulio Iudicissa)
Fortunato Bruno
prima guerra mondiale, ed educando, poi, tanta gioventù coriglianese con la parola
Novembre è il mese della Commemorazione dei defunti. Per l’occasione, VeteraNova
ripropone un brano tratto da ‘A Purtella di
Antonio Russo. In esso il ricordo di antiche
tradizioni, che si mantennero rigide almeno fino agli anni ’60 del Novecento.
‘I muorti
Fino a non molti anni fa, i rituali funebri erano
numerosi, complessi e rigidi, ma strettamente
connessi col vincolo di parentela tra il morto e la
famiglia. Un solo rituale aveva carattere generale
e prescindeva da questo vincolo, infatti appena
un uomo o una donna esalava l’ultimo respiro, un
familiare accendeva un lumino ad olio e lo posava
sulla parte esterna del davanzale della finestra:
quella luce fioca doveva rischiarare il cammino a
quell’anima che, abbandonato il corpo, si accingeva a raggiungere l’aldilà. Se il morto era capofamiglia, la vedova si toglieva gli ori, si vestiva di
nero, si scioglieva i capelli e, seduta accanto al
letto prima e alla bara poi, iniziava il lamento funebre con il quale commiserava se stessa per la
grave ed irreparabile perdita, ricordava le virtù
dell’estinto e rievocava i momenti più felici della
loro unione. La stessa nenia, con delle varianti,
intonavano a turno i parenti più stretti e, alcune
volte, delle donne a pagamento o anche delle donne del vicinato in segno di affetto o di riconoscenza. Il corteo funebre si apriva con il gonfalone della confraternita religiosa della quale il defunto da
vivo aveva fatto parte; seguivano i confratelli disposti su due file distanziate; seguivano poi le corone di fiori portate da ragazzi, la banda musicale,
condizioni economiche permettendo, ed il prete.
Il tempo
di Saverio Avella
Il tempo è come un vecchio cappellano
e i giorni nostri come le candele;
ei ad ogni passo con spietata mano
ne smorza una senza far loquela.
Serale
di Pasquale Bennardo
Non erano così vuote
le mie giornate
quando anche tu andavi
a far la spesa
e tornavi
con due o tre buste piene
con dentro non di rado
qualche sorpresa.
A mio padre
di Salvatore Garasto
Tu dormi e non ti muovi a tanti lai
Dietro il feretro la vedova continuava l’accorata
lamentazione affiancata dalle sue sorelle e da
quelle del marito, dalle cugine di vario grado e
dietro, tutte le amiche e le conoscenti. Il corteo
funebre terminava all’inizio della strada di Rossano, all’incrocio con quella che porta alla chiesa di
S. Antonio. A quest’incrocio, i parenti più stretti
(ramo maschile), dopo aver dato l’estremo saluto
al feretro, si disponevano in riga e gli intervenuti
si licinziàvini con la formula cient’anni ’i bbona
saluta. La vedova, dopo tre giorni di lutto, era
lasciata sola con il suo dolore. Per una settimana
non riassettava le stanze, non accendeva il focolare e non si coricava nel letto matrimoniale che rimaneva disfatto. Al mangiare provvedevano a
turno i parenti o le amiche del vicinato. Dopo il
settimo giorno, se c’erano figli, riprendeva a cucinare, ma continuava a non coricarsi al letto matrimoniale e a non aprire la porta, se abitava in
un basso, e le ante delle finestre. Dopo il trigesimo, apriva uno spiraglio della porta e delle finestre, aggiustava il letto per coricarvisi, ma continuava a non uscire da casa e a portare sulla testa
‘na tavaĝĝhiula nìvura. Dopo l’anno apriva porte
e finestre ed incominciava ad uscire, ma solo per
delle ragioni molto serie ed urgenti. Se i figli erano
già grandi e sposati, il lutto continuava a portarlo
per tutto il resto della sua vita; in caso contrario,
lo portava per un numero variabile di anni, ma
comunque non mai inferiore a cinque. Quando
invece moriva la moglie, il marito non si faceva la
barba per una settimana, portava il lutto per tre
anni e per tutto questo tempo indossava ‘nu
cammisini nìvuri (un colletto con sparato nero che
si legava addietro alle spalle con due fettucce). Il
marito, rimasto vedovo, veniva chiamato cattivi.
che fan dinanz’a te figli e parenti;
ti sfiora invan il sol con i suoi rai
ché tu sei gelo e nulla ormai più senti.
Da lungi una campana lentamente
manda rintocchi mesti e suona e suona.
Confusa un’armonia errar si sente:
è il cor degli Angel che ti fan corona.
versi in memoria
A mio padre
di Pierino Le Pera
Dovrò lasciarti la mano, padre,
perché il serpente ha morso
ed il tuo fiume in secca.
Solo le grandi pietre rimangono
e le tue impronte nel cuore.
Congedo in musica
di Franco Scarcella
Andare via con la musica,
in un finale sobrio:
vorrei congedarmi così,
senza inutili sermoni
e lacrime di rito,
poiché ogni ciclo si chiude.
La cedronella
di Antonio Siinardi
Ora è rimasta sola
la profumata cedronella.
Chi aveva per lei cure amorevoli,
chi la dissetava mattina e sera
con l’ampia brocca
e ne carezzava il profumo
con mano mendica d’affetto,
ora non c’è più.
Alla madre
di Luigi Ungano
Una cupola di rose
bianche, grande quanto il cielo,
sia il tuo tempio in Paradiso,
quando, mamma, vi entrerai. (supplemento a Punto)
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