Bambini ebrei
e leggi razziali
Nel racconto di Mirjam Viterbi e in altri casi
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IO NON
MI VERGOGNO
DEL VANGELO
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D
urante il
passaggio
del piccolo
corteo, alcuni ignari soldati tedeschi
scattarono sull’attenti»: belli questi
guerrieri ariani che salutano l’accompagnamento al cimitero di una
donna ebrea morta ad Assisi nel monastero delle clarisse di San Quirico,
dov’era rifugiata durante l’occupazione tedesca. Più bello ancora il fascistissimo podestà di Assisi, che per
rassicurare gli ebrei che si sono messi sotto la sua protezione telefona in
loro presenza al comando tedesco
chiedendo se in zona ci siano dei
«porci ebrei» e tira «un grosso respiro di sollievo» alla risposta negativa.
Anche il lettore respira leggendo il
racconto del salvataggio di un gruppo di famiglie ebraiche attuato ad Assisi da un’organizzazione clandestina
che faceva capo al vescovo Placido
Nicolini: M. VITERBI BEN HORIN, Con
gli occhi di allora. Una bambina ebrea e
le leggi razziali, Morcelliana, Brescia
2008 (Regno-att. 18,2008,629).
«L’INVERNO PIÙ LUNGO»
DI ANDREA RICCARDI
Il racconto è sobrio ma vivo. Mi
ha provocato ad approfondire – co-
me dirò – la conoscenza di Mirjam
Viterbi e della sua vicinanza al cristianesimo. Mi ha anche spinto a leggere di altri e più vasti salvataggi di
ebrei nei volumi Nascosti in convento
di Antonio Gaspari (Àncora, Milano
1999) e Salvàti dai conventi di Alessia
Falifigli (San Paolo, Cinisello Balsamo 2005). Soprattutto mi ha deciso a
prendere in mano un’opera maestra
che già mi era arrivata in omaggio,
ma che sonnecchiava sullo scaffale:
A. RICCARDI, L’inverno più lungo.
1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a
Roma, Laterza, Bari 2008.
Consiglio a tutti di leggere questo volume di Riccardi che vedo oggi come il suo capolavoro. In esso
c’è un passo che richiama il titolo
del volumetto della Viterbi: «La storia della persecuzione degli ebrei (e
dell’ospitalità) è pure una storia di
bambini: vista con gli occhi dei
bambini, è una vicenda diversa da
come la si ricostruisce attraverso le
testimonianze degli adulti» (264).
Mirjam Viterbi intitola il suo racconto Con gli occhi di allora, cioè di
quando era bambina; e Riccardi ragiona sulla persecuzione degli ebrei
«vista con gli occhi dei bambini», riferendo testimonianze toccanti. Lia
Levi e la sorella che si vedono affidare alle suore come fossero «orfanelle». Renato Di Castro che consola il fratello più piccolo, Aldo, che
piange di notte. Giuseppe Fuà ospite al Pio XI che racconta come la
mattina dovesse «andare a messa e
dire le preghiere che io tra l’altro
mica conoscevo». Virginia Nathan
che si ritrova anche lei dalle suore
che le sembrano «tutte uguali, come tanti pinguini».
Lo storico ci dà un quadro convincente e in esso colloca lo «spaesamento» dei bambini. La Viterbi narra di se stessa bambina e insieme allude al quadro in cui la sua storia
andrebbe collocata.
Per questo doppio registro, della
presa immediata e del campo lungo
della voce narrante, il testo di
Mirjam Viterbi risulta di rara efficacia, sereno e drammatico insieme.
Dalle sue pagine veniamo a sapere
che «a tutti i conventi, compresi
quelli di clausura, era stato impartito l’ordine di aprire le loro porte ai
perseguitati per ospitarli». L’«identità religiosa» degli ospiti «veniva rispettata a tal punto che al termine
del digiuno del kippur le clarisse di
San Quirico avevano preparato una
grande tavolata adorna di fiori, volendo servire loro stesse il pasto che
chiudeva la lunga giornata di preghiera e di penitenza» (23).
IL VESCOVO NICOLINI OSPITAVA « UN
INCREDIBILE NUMERO DI SFOLLATI»
Ecco la famiglia Viterbi a colloquio con il vescovo, che sarà riconosciuto – insieme a cinque suoi collaboratori – come «giusto delle nazioni»: «La mamma e il papà gli spiegarono chi eravamo e gli consegnarono quei pochi oggetti ebraici che ci
avevano seguito da Padova e che, se
scoperti, avrebbero potuto denunciare la nostra identità. Mons. Nicolini li prese con attenzione e delicatezza, assicurando che li avrebbe
messi personalmente in un luogo sicuro. Infatti, come poi si venne a sapere, era solito nasconderli lui stesso nei sotterranei del palazzo vescovile, picconando e murando, mentre don Aldo Brunacci gli faceva luce con la candela» (27).
Un giorno papà Viterbi «andò a
consigliarsi» col vescovo e a chiedergli se in caso di «estrema necessità»
avrebbe potuto accoglierli in vescovado, «già asilo di un incredibile numero di sfollati e perseguitati».
Questa fu la risposta del vescovo,
anche se quell’estrema necessità infine non si verificò: «Sono rimaste
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ALLA RICERCA DI FOTO
NON SOMIGLIANTI
Sulle carte d’identità veniamo a
sapere che esse «erano state stampate con una semplice macchina a pedale da un piccolo tipografo assisano, Luigi Brizi, che insieme al figlio
Trento, di notte, nel retrobottega
del suo negozio a S. Chiara, si dedicava a questa pericolosissima collaborazione» (46). Divertente è il racconto delle fotografie per le nuove
carte, che «chiese un piccolo lavoro
di fantasia» a quanti venivano fotografati per apparire dissimili da
«quello che erano stati». La mamma «che non aveva mai portato
orecchini si mise due piccole rane
luccicanti alle orecchie», mentre il
papà – professore universitario – «si
vestì come peggio non poteva e
guardò l’obiettivo con un’espressione che non sembrava certo molto
intelligente» (ivi).
Bella la pagina in cui Mirjam racconta come gli ebrei partecipavano
al culto cristiano: «Si andava a messa ogni domenica mattina, per non
creare sospetti. Di solito ci piazzava-
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mo nel fondo, in un angolo dove
non potessimo essere osservati; io
ero molto attenta ad alzarmi quando ci si doveva alzare, a sedermi
quando ci si doveva sedere e a non
perdere il momento in cui i fedeli si
facevano il segno della croce: allora,
come ci era stato insegnato, ci segnavamo senza segnarci, con un
movimento della mano tanto rapido quanto impreciso. Un percorso
simile a una croce, ma che non lo
era: o mancava qualcosa, o era in
senso inverso. E ciò non aveva nulla
di blasfemo, né per la religione cattolica né per la nostra. Mi sentivo assolutamente in pace con me stessa.
Così come lo ero nell’entrare in
chiesa e facendo il gesto di immergere le dita nell’acqua santa, senza
però mai toccarla. Mi dicevo che
Dio guarda, in certi casi, ai movimenti del cuore, non della mano. E
il mio cuore era pieno di rispetto in
entrambe le direzioni» (45).
È anche da quella contaminazione delle preghiere che è venuto
l’avvicinamento tra ebrei e cristiani,
che è uno dei doni per l’umanità
della nostra epoca. Testimonianze
simili – relative al momento della
preghiera – sono narrate da Falifigli
e da Riccardi nei volumi citati sopra. Episodi analoghi avevo estratto
qualche tempo addietro dal volume
I giusti d’Italia (Mondadori 2006)
curato da Liliana Picciotto sulla base della documentazione in possesso di Yad Vashem, dedicandogli alcune puntate di questa rubrica e in
particolare quella pubblicata nel
2006: «1943-1945: tra i “giusti” e gli
ebrei nasce il primo dialogo» (Regno-att. 12,2006,431).
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libere solo la mia stanza da letto e lo
studio. Ma posso benissimo sistemarmi nello studio e la stanza da
letto è per voi».
Il podestà di Assisi, avvocato Fortini, che aveva fama di «persona retta», era stato all’origine della scelta
dei Viterbi di dirigersi ad Assisi invece che a Roma, al momento della
fuga da Porretta Terme, luogo del
primo rifugio. Un giorno la signora
Viterbi l’affrontò a viso aperto: «Gli
disse che eravamo ebrei e terminò
la breve presentazione con una
semplice domanda: avvocato, adesso che lei sa chi siamo, vuole denunciarci o aiutarci?».
Il buon Fortini si adopera per
aiutarli, facilitando l’ottenimento
delle «carte di soggiorno» con false
identità, ma si coinvolge anche personalmente nel salvataggio: «Egli
stesso andò di persona a Perugia
per riscuotere una cifra piuttosto
considerevole derivante dalla vendita di titoli nominali che il papà
aveva fatta, proprio su suo consiglio» (43).
A conclusione di quell’indagine
avevo intervistato – sempre per questa rubrica – Nathan Ben Horin,
che fu ambasciatore d’Israele in Vaticano ed è membro dal 1994 della
Commissione di Yad Vashem per il
riconoscimento dei «giusti»: egli è
sposato con Mirjam Viterbi e lei fu
presente al nostro colloquio, nella
loro casa romana ai Parioli, dove mi
avevano accolto come un fratello.
NESSUNA PRESSIONE
PERCHÉ SI CONVERTISSERO
Già in quell’occasione Mirjam
mi aveva parlato dei mesi in cui era
stata a contatto, ad Assisi, con i salvatori della sua famiglia, affermando che mai aveva subito pressioni
perché si convertisse. Sostenne anzi
che doveva «a quell’esperienza di
religiosità autentica e di aiuto dato
con il cuore» se poi divenne «quello
che è attualmente» e cioè un’interlocutrice attiva del dialogo ebraicocristiano, come attesta il volume
che ha pubblicato nel 2005 con
l’EDB, Verso l’Uno. Una lettura ebraica della fede, che raccoglie i suoi interventi ai «colloqui» di Montegiove
(Pesaro), condotti con dom Benedetto Calati dal 1990 al 1995, alla ricerca appassionata di una religiosità
senza frontiere.
Anche questo libretto suggerisco
al lettore che voglia cogliere una voce non inquadrata in nessuna scuola – Mirjam è medico neuropsichiatra e lettrice dilettante della Bibbia
– che muove dalla spiritualità ebraica e incontra quella cristiana senza
alcuna forzatura, riuscendo con
una serenità rara a guardare a Gesù
come a «un ebreo osservante, ma
non convenzionale, che visse duemila anni fa», provando per lui «un
sentimento misto di responsabilità e
d’amore: amore per questa creatura
che mi parla, attraverso un vuoto di
quasi duemila anni, come un fratello perduto e ritrovato». Io dico qui
la mia gratitudine di aver incontrato in Mirjam e in Nathan una sorella e un fratello maggiori – in età e
nella fede –, dei quali vado fiero.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it
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