Grafica e immagine di copertina
a cura di Ilenia Baronio:
www.ilesworld.blogspot.it
Progetto Tracce Ravenna
Progetto Tracce
Via Cavour 6
48100 – Ravenna
Aperto da lunedì a venerdì dalle 14.00 alle 17.00
Finito di stampare nel mese di novembre 2012
per i tipi della Litografia Optimus di Cesena (FC).
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).
Senza regolare autorizzazione,
è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Dedicato agli amici “invisibili” di Tracce,
oggi ancora più invisibili…
Carlone, Wouter “l’olandese cantante”,
Claudio R., Luca “Venezia”, Simonetta,
Mohamed “pescatore”, Cedric Z.,
Patrick, Andrej…
INDICE
pag. 9
FAVOLA DI TRACCE
pag. 11
FAVOLA AFGANA
pag. 25
FAVOLA ISRAELIANA
pag. 27
FAVOLA MAROCCHINA
pag. 31
FAVOLA MOLDAVA
pag. 35
FAVOLA NIGERIANA
pag. 39
FAVOLA PALESTINESE
pag. 43
FAVOLA RUMENA
pag. 49
FAVOLA SENEGALESE
pag. 55
FAVOLA TUNISINA
pag. 59
COS’È TRACCE?
FAVOLA DI TRACCE
Raccontata da Padre Claudio; illustrata da Ale G.
C’era una volta una domanda in cerca di
risposte circa la povertà, l’emarginazione… in
cerca di volti che potessero aprirle la conoscenza
delle cause che generano esclusione producendo
sotto-umanità. La domanda decise di mettersi in
strada, in quella strada che, da sempre, era la
parola chiave che scatenava in lei interrogativi…
era quello il luogo degli incontri, delle relazioni,
del dipanarsi delle vite concrete… quelle vere,
non quelle prese in prestito, di seconda mano. La
domanda capiva che doveva immergersi in esse,
sporcarsi, sentirne gli odori. Era quello il prezzo
della verità, era quello il modo per sentire, e non
solo sapere, la vita di chi arranca e fa fatica.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo
anno, la domanda prendeva domicilio nei luoghi
delle fatiche umane, abitando i volti, le storie, le
speranze e le fragilità del popolo degli invisibili.
Passarono dieci anni. Un giorno la
domanda, con altri amici, compagni di questa
ricerca, decise di aprire un posto dove le tracce di
queste persone potessero essere più evidenti e
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più impresse tanto da diventare nomi, ai quali
abbinare volti e, quindi, permettere loro di
esistere come persone e non come problemi. Un
posto dove ognuno potesse depositare la propria
vita, il proprio racconto… e riposare per un
attimo la loro stanca vita. Un luogo dove
umanizzarsi, dove la condivisione era un piatto
di pasta, un pezzo di pane mangiato insieme, un
momento di gioco per fare comunità e dare
appartenenza.
Dovunque nel cuore di un uomo nascerà
una domanda sulla vita dell’altro, importante e
uguale alla propria, e percepirà il grido di chi
cerca giustizia, diritti, cittadinanza… avrà il
permesso di imprimere le proprie tracce accanto a
quelle di chi ha dato vita a questo posto.
Tracce esiste perché i poveri di vita hanno
dato cittadinanza alle domande e permesso di
camminare loro accanto.
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FAVOLA AFGANA1
Raccontata da Nasser; illustrata da Stefy.
Una favola dovrebbe iniziare sempre con
“c’era una volta”. Ebbene, c’era una volta la terra
volatile sotto i piedi di Omar, e poi c’era Omar
che, ben prima della venuta dei draghi di
metallo, viveva con la sua principessa, Sharifa.
Non si poteva dire che non fossero felici, il loro
regno bambino li circondava giocoso nello
sterminato e poetico nulla che contornava
l’orizzonte sempre limpido di quelle terre, e
quante volte Omar accompagnava la sua amata
sulle ripide scarpate, tenendola per mano fino
alla sommità dalla quale poter ammirare con un
solo sguardo l’intero regno.
La cultura afgana si basa soprattutto sulla
tradizione orale, ricchissima di fiabe e di leggende che
hanno come temi dominanti l’acqua e la pietra, i due
elementi che maggiormente distinguono anche le
caratteristiche fisiche del paese. Molti miti afgani si
ritrovano anche in altre civiltà, come la trasformazione di
persone in statue o la leggenda di Orfeo ed Euridice. Nelle
fiabe e nelle leggende afgane la donna occupa uno spazio
preminente, uno spazio che le verrà poi sottratto con la
regressione imposta dai talebani.
1
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C’era una volta Omar, con i suoi sandali
scuciti e gli occhi sfrigolanti di gratitudine.
Quella terra gli ricordava costantemente suo
padre, il Re, ruvido nel carattere e nei modi di
fare, sudato come il clima e sgraziato come i
pochi arbusti del giardino incolto dietro casa. Era
il Re degli umili pascoli del deserto e il suo
impero consisteva in alcuni ettari di Niente,
reclamati in qualche epoca da qualche dio
obliato, proprietà intangibile del cielo. Ma quella
landa possedeva anche un che di soffice, un
aspetto non visibile agli occhi, che solo
quell’istinto di solidarietà sentito da alcuni, nei
confronti di ciò che ci circonda, può far emergere.
Era una di quelle sensazioni che possono essere
percepite solo da un orecchio che sa ascoltare
veramente.
Omar pensava che ogni uomo è portato ad
accomunare il proprio padre alla propria terra
d’origine, poiché essi parlano la stessa lingua,
quella delle radici. Sharifa ascoltava spesso questi
suoi pensieri, quando sedevano raminghi nelle
solitudini della sera, sovrastati dal cielo stellato e
armati soltanto dei loro sette anni. Ma tra i due, a
parlare più spesso, era la bambina, con i suoi
capelli color del petrolio e le mani custodite da
una luce sopita. A differenza di Omar, lei sapeva
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leggere e leggeva soprattutto quei libri nei quali
si possono trovare storie fantastiche, che parlano
di sultani e sogni disattesi. Erano fiabe quelle che
lei raccontava ogni sera a Omar e lui non osava
interromperla, per paura di non sentirle più.
La favola vera iniziò quando i draghi
rapirono Sharifa, la principessa, proprio come in
ogni favola che si rispetti. La portarono via in un
vortice di fiamme e strepiti, in una notte talmente
buia da far sembrare impossibile la nuova alba.
Era una storia che Omar aveva già sentito,
assorbita avidamente dalle parole della sua
amata, per mezzo delle quali veniva a
conoscenza di fatti tramandati dalla sua famiglia
e prima ancora dai suoi antenati. Solitamente in
quelle fiabe si parlava di palazzi sontuosi,
principi ornati di diamanti che brandivano spade
d’oro massiccio, armature e cavalli splendenti,
corridoi e pareti coperte da arazzi immensi, ma
lui non possedeva niente di tutto ciò, e per
qualche istante, quando vennero a dirgli che
avrebbe dovuto salvare la sua principessa da
quei mostri volanti che avevano attaccato la città,
si sentì piccolo e inadeguato. A lui rimanevano
un sacchetto di monete e la fionda con qualche
bel sasso da lancio, ma nulla più. Quando però
ricordò la voce di Sharifa, quando il chiasso della
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battaglia fu dissipato dalla sua mente confusa,
come una nebbia scacciata dal primo raggio di
luna, allora sentì chiaramente nel cuore che la
strada verso la sua sposa avrebbe dovuto
percorrerla lui. Nessun altro.
Ben sapeva che quei racconti, quelle storie
che la sua amata era solita narrargli, erano parte
del disegno che ora si apprestava a decifrare.
Non fu colto da disperazione, né da sgomento.
Subito si sentì risoluto, bramando di tornare sotto
quel cielo stellato a chiacchierare con la sua
giovane principessa.
Quando tornò al castello, suo padre, il Re,
era accovacciato sotto la scala che portava alle
camere da letto, in preda a un pianto
irrefrenabile. Omar si avvicinò a lui e ricordò
vivida una delle storie che Sharifa gli aveva
raccontato, quella di un sovrano che, perduto il
proprio trono dopo una battaglia, permise alla
follia di entrare sibillina nelle stanze del castello,
trovando conforto nel delirio e mal sopportando
le vicissitudini della realtà. Egli era inconsolabile,
non tanto per il fatto avvenuto, quanto piuttosto
per la debolezza della sua mente, e così da essa
venne sconfitto, non certo dal nemico in
battaglia. Omar osservò a lungo quella fronte
imperlata di sudore, quel tremare spastico, quella
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corona spezzata ai piedi d’un trono liquefatto,
quella debolezza incarnata, e decise che il
pericoloso momento non consentiva il conforto di
quel vecchio, il quale aveva abbandonato persino
la voglia di guarire.
“Allah”, si disse il bambino, “Allah avrà
cura di mio padre”.
Raggiunse il quartiere del mercato, ma
anche lì giganteggiava la confusione, essa
dominava tutto ciò che camminasse su quel suolo
riarso. C’erano randagi feroci che sfrecciavano da
una parte all’altra della strada inseguendo gatti e
topi enormi, uomini che gridavano contro il loro
Re e contro il loro dio, dando volentieri voce alla
pazzia. Il mercato era ridotto a un cumulo di
bancarelle timide, nascoste dietro l’indifferenza
di chi urlava al mondo la propria rabbia. I grandi
mercanti delle fiabe, quelli che portavano merci
magiche e preziose dagli oceani lontani, tutti quei
mercanti erano preda di disperazione e rovina,
dispersi nella rovina della piazza, sbraitavano
invocando dèi antichi, le vesti pregiate ridotte a
stracci inceneriti. Omar ricordò quella fiaba,
quella nella quale l’eroe, disperso nella caotica
insensatezza della battaglia, sull’orlo di una
ignobile resa, trovò inaspettatamente il sentiero
che l’avrebbe condotto attraverso le vicissitudini
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che lo attendevano. Ricordò persino le precise
parole uscite dalla bocca innocente di Sharifa:
“L’eroe ricordò l’insegnamento dei padri,
secondo il quale in ogni disordine, anche il più
terribile, un cuore sincero può scovare la strada
che porta lontano dalla morte”. Cercò di
rimembrare gli occhi della principessa i quali,
mentre pronunciavano quella frase, proiettavano
un bagliore verso il cielo. E si rallegrò nello
scoprire a terra la mappa di cui aveva bisogno,
un consunto foglio di papiro che il vento aveva
condotto ai suoi piedi. Riconobbe quei segni
sconnessi; disegnavano un percorso preciso, una
bussola stellare che indicava lucidamente il
compito assegnatogli.
Omar camminò a lungo tra le nere fumate
gettate nell’aria dalla furia dei draghi di metallo e
fuoco. La disperazione che lo circondava tentò in
ogni modo di contagiarlo, ma lui strinse a sé la
mappa, come fosse uno scudo impenetrabile. Il
terreno pullulava di uomini che cercavano di
rimediare alle loro piccole e grandi disperazioni,
ma essi avevano perduto la strada, guardando
troppo alla realtà, mentre troppo poco si
lasciavano guidare dal cuore. Tutta quella
sofferenza, tutta quella distruzione era, agli occhi
del principe, un velo sotto il quale si celava
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l’abbagliante luce della quiete, e, a lungo, cercò
tra gli anfratti di quel mosaico di dolore le tracce
della propria amata.
Un demone barbuto lo avvicinò,
emergendo d’improvviso da uno degli edifici
divelti dai draghi, egli portava un copricapo
sontuoso e parlava veloce, gli occhi guizzavano
come quelli di un serpente e la sua pelle era
diversa da quegli altri uomini, quelli a cavallo dei
mostri metallici, i quali brandivano oggetti che
sputavano fumo e pesante metallo. Era membro
di uno dei due eserciti che avevano invaso il
regno, approfittando della follia del Re, il quale
non poteva più guidare i suoi sudditi ormai allo
sbando. Ci si contendeva il potere, questo oscuro
personaggio che estrae sempre il peggio dagli
uomini di buon cuore e il meglio da quelli
crudeli. Omar comprese quanto inutile sarebbe
stato unirsi a quell’insensata contesa, ma prestò
comunque attenzione al concitato discorso del
demone. Costui rappresentava quello che Sharifa
descriveva in molte delle sue storie, il finto
consigliere dell’eroe, i sussurri del quale si
rivelano spesso fuorvianti rispetto ai reali intenti
di quest’ultimo. Egli parlò di “grandi piani”, di
“disegni straordinari”, ma nulla seppe dirgli a
riguardo della principessa. La sua voce era
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posseduta
da
un’impazienza
che
non
apparteneva a quei luoghi, brandiva un libro
consunto e ne leggeva ad alta voce alcuni passi,
come invasato; le fiamme possedevano i suoi
occhi riflettendo fedelmente quelle riversate sulla
terra dal volo dei draghi e Omar comprese che di
lui avrebbe dovuto diffidare. Ma, come in ogni
favola che si rispetti, l’eroe spesso deve fingere di
fidarsi del demone, seguendone le farneticazioni
fino al punto in cui, sufficientemente vicino al
successo della propria missione, torna a
perseguire il proprio genuino intento. L’astuzia,
più che la forza, è la qualità primaria di un
principe, soprattutto quando quest’ultimo è un
bambino senza altre armi che l’innocenza, e il
demone molte volte scarseggia di raziocinio, suo
reale punto debole. Le parole di Sharifa
conducevano i pensieri di Omar come un vento
di libeccio spinge la nave verso porti sicuri, nel
mezzo della tempesta incipiente.
Tra i tumulti della cittadina devastata,
proprio mentre un’altra orda di draghi sganciava
nuovo odio sulle teste dei sudditi, il demone
barbuto, occhi gialli e sbarrati, consegnò una
chiave d’accesso a Omar, legata a una cintura di
squame e cuoio. Nelle storie della principessa,
spesso si incontrava un oggetto quasi mistico, un
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cimelio che quotidianamente chiunque può
tenere tra le mani, ma che nell’ambito
dell’avventura assume un significato particolare,
acquisendo capacità che altrimenti non sarebbero
possibili in altri contesti. Omar prese la cintura e
la legò in vita, scatenando la barbarica gioia del
demone in turbante, le cui guance scavate nel
deserto si tinsero di rosso vivo. Egli pregò per
alcuni istanti in uno sproloquio indecifrabile e
fece segni agli altri demoni che stavano seduti
dietro a lui, nella stanza accanto, ricevendo un
clamore inconsueto. Il fragore delle fiamme e
della guerra imperversava nelle sale scoperchiate
sul cielo scuro, ma la mappa di Omar diceva
chiaramente che quella era la strada giusta.
Quando il principe uscì dalla catapecchia
bruciata nella quale i demoni attendevano il loro
destino, egli vide quegli altri mostri partoriti dai
draghi che imperversavano nelle strade, i
membri dell’esercito straniero che si contendeva
il potere con i barbuti. Essi erano verdi e grigi, la
loro lingua sconosciuta ricordava gli ingranaggi
dei robots che li accompagnavano e i loro volti
bianchi erano attraversati da smorfie spavalde.
Tutto questo non impaurì Omar. Egli vide i
mostri imprigionare alcuni sudditi che cercavano
di fuggire, e altri li vide morire sotto il fuoco di
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copertura, senza poter comprendere quale fosse
amico e quale ostile. Nonostante il caos
dominante, i suoi occhi proiettavano sicuri il
percorso che l’avrebbe accompagnato al cospetto
della principessa, senza esitazioni e i suoi passi
serpeggiavano sicuri tra le cruente esplosioni. Lui
sapeva che si sarebbe riunito a lei, come nelle
storie che Sharifa era solita raccontargli.
Avrebbero ritrovato l’uno la mano dell’altra,
sulle praterie sconnesse della terra afgana, nella
quale il sangue non sarebbe più stato versato.
Ma quando d’improvviso tutto divenne
buio e sembrava quasi che il sole fosse stato
ucciso, Omar credette per un istante di non
riuscire a portare a compimento la sua missione.
Dal cielo era disceso sulla sua testa uno di quei
draghi immensi, oscurando la tenue luce che già
faticava a penetrare nel fumo secco delle macerie.
La metallica voce martellava l’aria come volesse
squarciarla e quegli arti meccanici sferzavano il
vento, contrastando la sua naturale corsa verso
ovest. Esso partoriva in gran quantità quei mostri
grigi, i quali imbracciavano armi scure fatte di
piombo e fulmini. Scendevano al suolo
goffamente, scalciando, con stivali fatti di
materiali gommosi, i pezzi delle umili dimore
distrutte dal fuoco, insinuavano nel principe la
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paura del fallimento, come un inganno ordito per
fiaccarne
la
risolutezza.
Omar
percepì
chiaramente lo sguardo del drago metallico
puntato sul suo capo riverso al suolo, la mappa
ancora stretta tra le mani e gli occhi costretti dalla
polvere a una dolorosa serrata. Il drago ne
annusò l’anima spaventata, mentre i suoi
innumerevoli
figli
facevano
scempio
dell’ambiente circostante, tra lo strepitìo di madri
e lo sferragliare di sorde esplosioni. Il regno era
perduto.
Omar ricordò una delle storie di Sharifa,
come se d’improvviso la gentile voce si fosse
insinuata con passo delicato nella mente del
bambino, senza far rumore. Si trattava di una
favola dimenticata tra le sere d’estate, quando
ancora la terra non aveva conosciuto quel vomito
di fango e acciaio. In quella storia il principe era
convinto d’aver perduto la propria sposa,
creduta divorata da un brutale serpente, ed egli
abbandonò la voglia di vivere. Quando il
serpente, violando le difese della fortezza e
approfittando del vuoto di autorità, penetrò nella
sala reale per prendersi anche lui, la voce
dell’amata si propose all’animo del principe,
pronunciando queste stesse parole: “Non puoi
più attendermi, non attardarti nella disperazione,
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io sono più vicina di quanto tu pensi”. Il principe
comprese che la sua missione non apparteneva
più a quel mondo e affrontò il serpente con il
ritrovato coraggio della disperazione.
Le cronache di quella battaglia, quelle
narrate da chi non ha visto il mondo con gli occhi
di Omar, a noi interessano poco. La favola ebbe
una conclusione amara, ma solo per chi non
coltiva più la fantasia. Quando il drago diresse la
sua bocca fiammeggiante verso il corpo
rannicchiato del bimbo e i suoi finti consiglieri
gridarono allo scandalo di un principe codardo, il
nostro eroe non poté che ascoltare quella storia
raccontata da Sharifa, così come l’aveva ascoltata
durante la quiete delle sere passate. Strinse a sé la
mappa e quello strano oggetto legato attorno alla
vita, la cintura, sapendo che il momento era
giunto. La luce che scaturì dal piccolo punto
scuro di quella piazza divelta venne raccontata
da alcuni con orrore, da altri con stupore, ma
nessuno colse il reale significato di quell’evento.
La cintura aprì una sorta di portale, ed esso, nel
fragore della tempesta che imperversava, fermò il
tempo e la morte che, stupefatti, si arresero a
quell’antica
magia.
Nello
scaturire
di
quell’abbagliante sole, il drago e i suoi mostruosi
figli, i demoni barbuti con i loro vigliacchi
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inganni e il regno perduto furono spazzati via
come d’incanto, nel silenzio del più profondo
niente.
Ciò che Sharifa disse a Omar, quando
finalmente poterono ritrovarsi sulla soleggiata
scarpata dove erano soliti pascolare i greggi delle
loro nobili famiglie, non avrebbe potuto essere
più limpido, e allo stesso tempo meno chiaro. E
questo dipende da quanto tu riesca a far lavorare
la fantasia: “Tra colui che è morto combattendo e
chi è sopravvissuto uccidendo, solo Allah sa chi è
il più fortunato”.
Omar e Sharifa vengono ricordati soltanto
in questa breve e semplice favola, nessuno sa con
certezza se essi siano realmente vissuti o se
questo racconto possa essere archiviato tra le
innumerevoli storie inventate tra le solitudini
dell’Afghanistan. O forse, le storie come questa,
sono state talmente numerose da impedire a un
viandante sprovveduto di distinguere la realtà
dalla finzione.
Con ogni probabilità essa andrà a planare
serena nello stesso identico luogo dalla quale
ebbe origine, in un giorno lontano, dentro le
parole straniere di qualche favola dimenticata.
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FAVOLA ISRAELIANA
Raccontata da Guy2; illustrata da Padre Claudio.
Ci
fu un tempo in cui i Seleucidi3
occuparono il tempio di Beit Hamikdash a
Gerusalemme. Tolsero tutti i paramenti ebraici e
misero al loro posto le statue dei loro dèi. I
Maccabei decisero di riconquistare il loro tempio
e attaccarono i Seleucidi. Questi ultimi, quando
compresero che stavano perdendo la battaglia,
rovesciarono a terra ogni cosa, soprattutto l’olio
puro che era stato benedetto e sigillato dal
sommo sacerdote e che serviva per tenere accesa
la lampada sacra. I Maccabei entrarono a
Gerusalemme e riconquistarono il tempio. La
prima cosa che vollero fare era riaccendere la
lampada ma si accorsero subito del disastro che
avevano combinato i Seleucidi. Per la lampada
Sebbene non si tratti di una favola, bensì di una
leggenda o di un mito religioso, abbiamo naturalmente
pubblicato il prezioso contributo di Guy.
3 Dopo essere stati sconfitti dai romani i Seleucidi
furono costretti al pagamento di un’esorbitante indennità
di guerra e per rastrellare il denaro occorrente non
esitarono a saccheggiare i templi.
2
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serviva dell’olio d’oliva purissimo e benedetto.
Cercarono nel tempio se ve ne fosse rimasto
ancora. Trovarono una piccola brocca contenente
l’olio puro sigillato dal sommo sacerdote.
Purtroppo la quantità bastava solo per un giorno
mentre la lampada doveva ardere sempre. Per
fare il nuovo olio ci volevano otto giorni.
Decisero di utilizzare quell’olio e sperarono in un
miracolo. Il miracolo avvenne. L’olio fece ardere
la lampada per otto giorni di fila, il tempo
necessario per l’arrivo del nuovo olio che fu
preparato e benedetto.
In memoria di questo miracolo, ogni anno
si celebra hanukkah che consiste nell’accendere la
lampada, detta Menorah, per otto giorni. In quei
giorni si prega affinché il Creatore possa fare dei
miracoli per noi come fece allora per i nostri
padri.
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FAVOLA MAROCCHINA4
Raccontata da Jamal; illustrata da Stefy.
C’era
una volta una capra che voleva
andare a cercare da mangiare per i suoi figli.
Quando la capra uscì, il lupo la vide e subito si
recò alla porta di casa sua, dicendo ai piccoli:
“Apritemi, miei amori, sono la mamma, vi ho
portato l’erba tra le corna e il mio seno è pieno di
latte, forza aprite!”. I piccoli restarono fermi
dietro alla porta, senza dire neanche una parola,
poi scrutarono nella fessura sotto la porta e
dissero: “No! Tu non sei la nostra mamma, lei ha
le zampe bianche, le tue sono nere e anche la
voce non è la sua”. Il lupo, dopo aver udito le
parole dei piccoli, andò a ritirarsi nella sua tana.
Là si cosparse le zampe con la farina e si
esercitò a lungo per imitare perfettamente la voce
Non menzionato nelle due favole magrebine
raccolte in questo libro (FAVOLA MAROCCHINA e FAVOLA
TUNISINA) è un singolare personaggio di fantasia di nome
Giuhà, molto conosciuto in Marocco e negli altri Paesi del
Nord Africa. In alcune storie Giuhà è sciocco e ingenuo, in
altre è furbo e saggio e riesce a risolvere le situazioni più
complicate con le sue trovate.
4
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della capra. Dopo un po’ il lupo bussò di nuovo
alla porta e ripeté le stesse parole di prima; la
voce era uguale a quella della mamma e le zampe
erano bianche. I piccoli non ebbero dubbi e
aprirono. Il lupo li mangiò tutti, poi andò a
dormire nel bosco, sotto un albero. Quando la
madre tornò, non trovò più i suoi capretti. Povera
capra! Era molto preoccupata, ma capì subito di
chi era la colpa, perciò andò dagli altri animali e
raccontò loro ciò che era successo.
Tutti insieme andarono a cercare il lupo.
Quando lo trovarono, gli aprirono la pancia con
un coltello, fecero uscire i piccoli e la ricucirono
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dopo avervi introdotto tanti sassi pesanti. Dopo
di che lo gettarono nel pozzo. Finalmente la
capra era felice e fece festa con i suoi piccoli
accanto e con tutti gli animali che l’avevano
aiutata.
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FAVOLA MOLDAVA
Raccontata da Aurelio; illustrata da Stefy.
C’erano
una volta un vecchio e una
vecchia. Il vecchio aveva un gallo e la vecchia
una gallina che faceva le uova tutti giorni. Un
giorno il vecchio disse: “Ti prego, dammi un
uovo…”. Lei rispose: “Picchia anche tu il tuo
gallo e vedrai che farà le uova!”. Il vecchio prese
il gallo per picchiarlo, ma questo scappò e uscì in
strada dove trovò un portamonete con due soldi
d’oro. Mentre ritornava indietro, incontrò un
calesse. Sopra c’erano un ricco e un cocchiere. Il
ricco vide il gallo che aveva nel becco qualcosa e
ordinò al cocchiere: “Guarda che cos’ha quel
gallo nel becco!”. Il cocchiere si fermò e scese dal
calesse, afferrò il gallo e gli prese il portamonete.
Il gallo rincorse il calesse cantando: “Chicchirichì,
chicchiricò, restituiscimi il mio portamonete!”.
Allora il ricco disse al cocchiere: “Prendi quel
gallo e mettilo in quella fontana piena d’acqua”.
Il cocchiere lo fece. Il gallo bevve tutta l’acqua e
uscì fuori, poi inseguì il calesse. Cantò ancora:
“Chicchirichì, chicchiricò, dammi il mio
portamonete!”. Quando il ricco arrivò a casa
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disse al cocchiere: “Prendi quel gallo e mettilo nel
forno, così morirà e ci libereremo di lui”. Il gallo,
con l’acqua che aveva bevuto prima, spense il
fuoco e uscì dal forno. Poi si avvicinò alla finestra
del ricco: “Chicchirichì, chicchiricò, ridammi il
mio portamonete!”. Il ricco uscì di casa, prese il
gallo e lo mise nella stalla per farlo calpestare
dalle mucche. Anche da lì scappò insieme a tutti
gli animali della fattoria e ritornò dal ricco
cantando: “Chicchirichì, chicchiricò, restituiscimi
il mio portamonete!”. Il ricco prese il gallo e lo
mise in un cofanetto pieno di soldi. Il gallo li
inghiottì tutti e uscì dal cofanetto cantando
ancora la sua frase. Il ricco, stanco, gli restituì il
portamonete. Il gallo con tutti gli animali ritornò
dal vecchio e gli disse: “Stendi una coperta nel
cortile”. Così lui fece e il gallo riversò sulla
coperta i soldi che aveva inghiottito. Quando il
vecchio vide tutti quei soldi e tutti quegli animali
fu molto felice. La vecchia assistette alla scena e
chiese al vecchio di prestarle un po’ di soldi. Il
vecchio le rispose: “Non ti dò niente, perché tu
non mi hai dato neanche un uovo!”. La vecchia
prese la gallina, la picchiò e le disse: “Vai anche
tu sulla strada e portami tante monete, come ha
fatto il gallo”. La gallina scappò sulla strada e
trovò una perla, la inghiottì, poi tornò a casa. Si
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accovacciò nel suo nido cantando: “Coccodè!”. La
vecchia la sentì e corse per vedere quello che
aveva portato. Quando vide la perla, delusa e
piena di rabbia, con un colpo uccise la gallina.
Così la vecchia rimase senza niente e, per aiutarla
a guadagnare il cibo quotidiano, il vecchio la
assunse come guardiana di tutti i suoi animali.
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FAVOLA NIGERIANA
Raccontata da Isola5; illustrata da Stefy.
C’era
una volta un giovane di nome
Egudu che viveva nel villaggio Ogun. La sua
famiglia era molto ricca. Egudu era un ragazzo
gentile, intelligente, tranquillo e andava
d’accordo con tutti nel villaggio. Ma il Guru era
invidioso di lui e delle sue ricchezze. Un giorno
decise di fare un incantesimo contro Egudu
trasformando il suo corpo in quello di un
serpente, ma lasciandogli la testa da uomo. In più
gli tolse la facoltà di parlare. Gli abitanti, quando
Isola racconta che nel suo villaggio, Ligos, è
usanza che, nel tardo pomeriggio, gli anziani si siedano
intorno a un albero e che i bambini vadano da loro per
sentir raccontare delle storie. La storia di Egudu gli fu
raccontata da sua nonna. Quando Isola aveva 8 anni si
allontanò da casa; sua nonna lo andò a cercare e, quando lo
trovò, lo portò davanti alla foresta. Lì c’erano tante persone
che stavano dando del cibo a un cobra per tenerlo buono e
lontano dal villaggio. Quindi gli raccontò la storia di
Egudu dopodiché Isola non si allontanò più da solo dal
villaggio.
5
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lo videro, si spaventarono e lo cacciarono via.
Egudu allora si rifugiò nella foresta. Il suo
carattere cambiò e da persona gentile diventò
ostile verso tutti. Derubava la gente che andava
nella foresta a raccogliere la frutta. La notte
andava nel villaggio e sbranava il bestiame. Fino
a quando non si mise a rapire anche i bambini. La
gente del villaggio non sapeva più cosa fare.
Alla fine decisero di fare un sacrificio per
calmare le ire di Egudu. Portarono nei pressi
36
della foresta una pecora nera, dell’olio rosso,
frutta ed erbe medicinali. Poi, una volta lì,
pregarono Egudu di accettare i loro doni e di
lasciare vivere in pace il loro villaggio. Egudu,
sentendo il richiamo, si avvicinò e fece capire agli
abitanti che aveva gradito il loro dono e che se
loro avessero continuato tutti gli anni a portargli
le stesse cose li avrebbe lasciati in pace. La gente
accettò e non ci furono più problemi al villaggio6.
Le favole dell’Africa Nera offrono spesso
l’immagine di un mondo alle prese con le forze della
natura, con gli animali della foresta, con gli spiriti vaganti e
con il potere delle streghe. Lo scopo principale al quale
mira il narratore è insegnare: favola come lezione per
immagini. Le popolazioni africane si servono di oggetti
visibili, di fatti concreti, di azioni che coinvolgono i
presenti, come le danze e i canti. Le favole africane hanno
per protagonista sempre l'uomo, anche quando sono di
scena gli animali. Questi non sono che la controfigura
dell’uomo, ne riflettono le virtù e i difetti, le tribolazioni, i
fallimenti e i successi. Alcuni, impersonando con speciale
rilievo un difetto o una virtù, sono divenuti simbolo di un
tipo particolare di uomo (vedi più avanti la FAVOLA
SENEGALESE). La lepre e la rana, ad esempio, rappresentano,
in Africa, l’uomo saggio e coraggioso. Raccontare le
avventure della lepre, del leone o del leopardo, dello
scoiattolo o delle formiche, significa insegnare la prudenza,
il coraggio, l’amore o condannare la prepotenza, l’infedeltà,
l’ambizione.
6
37
FAVOLA PALESTINESE
“Il lamento dell’acqua”
Raccontata da Talal; illustrata da Stefy.
Dedicata ai bambini del villaggio di Sousya
(Palestina, sud di Al Khalil),
poiché stanno portando via la loro terra,
i loro sogni, le loro favole...
Un
giorno il sultano e il suo visir
andarono a fare una passeggiata nei boschi.
Giunti a una radura raccolsero un po’ di legna e
fecero un bel fuoco sul quale, per ristorarsi,
fecero bollire dell’acqua presa dal fiume. Mentre
l’acqua bolliva, la sentirono cantare e piangere.
“Cosa dice l’acqua?” chiese il sultano al visir. Ma
questi non seppe cosa rispondere. Il sultano si
adirò: “Se non sarai in grado di dirmi cosa dice
l’acqua, ti farò tagliare la testa. E ora vai, hai
quaranta giorni di tempo per scoprirlo”. Il visir si
allontanò impaurito e preoccupato. Dove poteva
trovare qualcuno che gli svelasse le parole
dell’acqua? Decise di vestirsi da derviscio e
cominciò a girare per tutta la regione. Nei paesi
la gente lo accoglieva sempre bene, gli offriva da
39
mangiare e da bere, ma appena si azzardava a
chiedere cosa dicesse l’acqua, tutti lo guardavano
come se fosse un pazzo. Un giorno un taglialegna
gli fece preparare un pranzo da sua figlia. La
figlia preparò dodici uova, una pagnotta e una
brocca d’acqua e disse al padre: “Padre mio, dà
queste cose che ho preparato al derviscio, e digli
che l’anno contiene dodici mesi, la luna è piena e
il mare è colmo”. E così fece il taglialegna quando
diede le offerte al derviscio. Ma questi rispose:
“Ringrazia tua figlia e dille che l’anno contiene
undici mesi, la luna non è piena e il mare non è
colmo”. Il taglialegna tornò dalla figlia e le riferì
il messaggio, e lei lo rimproverò: “Padre mio, che
hai fatto?”. Il taglialegna confessò: “Avevo fame,
e ho mangiato un uovo, un pezzo di pane e ho
bevuto un sorso d’acqua”. Ma intanto il derviscio
pensava: “Sicuramente questa ragazza può dirmi
cosa dice l’acqua”. Quando rivide il taglialegna si
fece accompagnare da sua figlia: “Ti prego,
fanciulla, dimmi cosa dice l’acqua e cosa significa
il suo canto sul fuoco, altrimenti il sultano mi farà
tagliare la testa”. “Non te lo dirò mai, lo dirò solo
al sultano in persona”. Così il visir, il taglialegna
e sua figlia decisero di partire e di recarsi dal
sultano. Il sultano le chiese: “Dimmi, ragazza,
cosa dice l’acqua quando è sul fuoco”. Ma lei
40
rispose: “Mio sovrano, te lo dirò solo dopo che
mi avrai sposata”. Il sultano non voleva sposare
la figlia di un umile taglialegna, ma il consiglio
dei saggi gli chiese di farlo, per salvare la vita al
visir.
41
Il giorno dopo le nozze, quindi, il sultano
chiese alla ragazza che era diventata sua moglie:
“Dimmi, ti prego, che cosa dice l’acqua mentre
bolle sul fuoco”. E lei rispose: “L’acqua parla e
dice: «Io vengo per prima, corro nel fiume,
abbevero gli alberi e le loro radici, e poi il loro
fuoco mi scotta». Questo vuol dire che l’acqua,
che è stata tanto generosa con la legna, la
rimprovera per ricompensarla così male”. Il
sultano fu così contento della risposta che disse:
“Adesso tu sei sultana come io sono sultano”.
42
FAVOLA RUMENA
“La figlia del vecchio e la figlia della vecchia”
Raccontata da Marian L. e Aurora; illustrata da Stefy.
C’erano
una volta un vecchio e una
vecchia e ognuno aveva una figlia. La figlia della
vecchia era cattiva, pigra, brutta e vanitosa… ma
visto che “era la figlia di sua mamma” era molto
vezzeggiata. Lasciava tutti i lavori casalinghi
sulle spalle della figlia del vecchio. Quest’ultima
era tutto il contrario: bella, di buon cuore,
obbediente e non si tirava indietro dal lavoro.
Dio l’aveva colmata con i migliori doni e virtù.
Questa ragazza aveva purtroppo la sfortuna di
avere una matrigna e una sorellastra che le
rendevano la vita impossibile. Per fortuna era
anche molto paziente. La figlia del vecchio
andava sulla collina e poi nella vallata, poi nel
bosco a cercare le oche, portare i sacchi di grano
al mulino. Si trovava in tutti posti dove c’era un
lavoro da fare. Durante tutta la giornata le sue
gambe non riposavano mai: se la vedevi arrivare
da una direzione, la vedevi ripartire poi
dall’altra. La vecchia e sua figlia avevano sempre
da ridire e da criticare. Quando la sera le ragazze
43
andavano a una festa nel villaggio, la figlia del
vecchio continuava a torcere la lana e tornava a
casa con tantissimi fusi mentre l’altra ne faceva al
massimo uno. Arrivate a casa quest’ultima,
facendo finta di aiutare la sorellastra, prendeva il
suo lavoro e, entrata in casa, lo spacciava come
suo. Inutile protestare. La domenica e i giorni di
festa la figlia della vecchia era tutta agghindata e
partecipava a tutti i balli e a tutti i giochi. La
sorellastra restava a casa. Quando il vecchio
tornava a casa la moglie continuava a sparlare di
sua figlia che non era ubbidiente… che era
disordinata… pigra… che dava cattivo esempio
alla sorella. Pensava di mandarla via, a servizio,
fuori casa. Il vecchio avrebbe voluto parlare in
difesa di sua figlia ma ormai in casa loro cantava
la gallina e il gallo doveva stare zitto. Un giorno
chiamò sua figlia e le disse: “Carissima figlia, tua
madre mi ha detto tante brutte cose sul tuo conto:
non ascolti, rispondi in malo modo e non si riesce
starti vicino. Pertanto devi andare via. Segui la
strada che il buon Dio ti indicherà e ti consiglio
di essere sempre paziente, brava e di lavorare
con impegno. Non si può sapere che tipo di
persone incontrerai. Forse non saranno disposte a
perdonare le tue manchevolezze, come abbiamo
fatto noi”. La povera ragazza capì che la
44
matrigna e la sorellastra la volevano cacciare via
a tutti costi, baciò la mano del padre e se ne andò
da casa, senza la speranza di un ritorno.
Camminò e camminò finché non vide, in mezzo
alla strada, una cagnetta malaticcia e magrissima.
La cagnetta disse: “Bella e brava ragazza abbi
pietà di me, curami per favore!”. Allora la
ragazza si fermò a lavare e curare la cagnetta e,
contenta di aver potuto fare una buona azione,
riprese la sua strada. Non si era allontanata di
molto quando vide un bellissimo pero fiorito, ma
pieno di bruchi. La ragazza pulì con molto
impegno l’albero dai rami secchi e da tutti
bruchi, poi ripartì. Vide poi una fontana, poi un
forno, molto rovinati. Si fermò e li aggiustò. Poi
camminò giorno e notte e alla fine perse la strada.
Stava attraversando un fitto bosco quando, in
mezzo a una radura, vide una bella casetta. Dalla
casa uscì una signora anziana che le disse: “Come
mai da queste parti figlia mia? Chi sei?”. “Chi
sono? Una poveretta senza madre e padre. Solo il
Signore sa quante ne ho passate da quando la
mia vera mamma ha incrociato le braccia sul
petto. Cerco lavoro ma, non conoscendo questi
luoghi, ho perso la strada e Dio mi ha portato
fino alla tua casa”. “Poveretta”, rispose la
vecchietta, “è veramente il Signore che ti ha
45
portato da me. Io sono Santa Domenica. Lavora
per me oggi e domani e sicuramente non te ne
andrai a mani vuote”. Incuriosita, la ragazza
chiese: “Ma che lavoro dovrei fare?”. “Devi aver
cura dei miei bambini mentre io vado alla Messa.
Poi far da mangiare per tutti”. Subito la ragazza
si rimboccò le maniche e si mise al lavoro. Fatto il
bucato uscì di casa per chiamare “i bambini”. Da
ogni angolo del bosco vennero fuori animali di
tutti tipi. C’erano perfino dei draghi. La ragazza
non si spaventò ed ebbe cura di loro, uno per
uno. La Santa fu molto contenta del lavoro della
ragazza e le disse di andare in soffitta a prendere
un baule come ricompensa. In soffitta si
trovavano molti bauli: alcuni belli, alcuni brutti,
grandi o piccoli, nuovi oppure vecchi. La ragazza
scelse un baule piccolo e vecchio. L’anziana
donna non sembrò tanto contenta, ma ormai la
scelta era stata fatta. La ragazza s’incamminò
verso casa. Sulla strada incontrò il forno che
aveva riparato, pieno di focacce per lei, poi la
fontana piena di acqua freschissima. Per bere
c’erano per lei due bicchieri d’argento! Per ultimo
mangiò delle magnifiche pere e la cagnetta tutta
bella e piena di salute le regalò il suo collare fatto
di monete d’oro. Arrivata a casa regalò al padre
le monete d’oro. All’arrivo della figlia il vecchio
46
piangeva e aveva il cuore pieno di gioia.
Aprirono il baule e dall’interno uscirono mandrie
di
cavalli,
bovini
e
pecore!
La matrigna era infelice e piena d’invidia.
Sua figlia disse: “Non saranno finiti i tesori di
questo mondo! Vado anch’io e ti porterò di più”.
Prese la stessa strada seguita dalla sorellastra e
incontrò pure lei la cagnetta malaticcia, il pero
invaso dai bruchi, la fontana e il forno da
riparare, ma disse di no a tutti perché non voleva
47
rovinare le sue manine. Giunta a casa di Santa
Domenica continuò a comportarsi allo stesso
modo. Non curò “i bambini” e rovinò i pasti.
Tornata a casa la Santa si spaventò per quello che
vide. La Santa, di animo buono, mandò
comunque anche lei a scegliersi un baule in
soffitta e, ovviamente, lei scelse il più grande e il
più bello. Senza salutare, la ragazza prese di
corsa la via del ritorno per paura di dover
restituire il baule. Le focacce erano nel forno ma
il fuoco non le permise di toccarle. Alla fontana
lo stesso: i bicchieri sprofondarono e l’acqua
evaporò. Quando volle prendere una pera,
l’albero divenne altissimo tanto da raggiungere le
nuvole. Quando volle prendere la collana di
monete d’oro la cagnetta la morse. Aperto il
baule vennero fuori bestie spaventose e draghi
che poi sparirono insieme alla cassa. La figlia del
vecchio sposò un bravo giovane e nella loro casa
cantava il gallo.
48
FAVOLA SENEGALESE
Raccontata da Fahl; illustrata da Stefy.
Leuk la lepre
7
è l’animale più intelligente
della foresta. Così hanno deciso un bel giorno gli
animali della foresta: Gaindé il leone, re della
foresta, Mame Gnèye l’elefante, il più vecchio e
saggio, Bouki la iena disonesta e stupida... Leuk
adesso che sa di essere la più intelligente vuole
scoprire i segreti del mondo e parte per un lungo
viaggio. Attraversa boschi e foreste e incontra
nuovi animali: la giraffa vegetariana, lo scoiattolo
dispettoso, il ragno che conosce il futuro, la
pantera dai lunghi artigli, la balena pacifica, la
tartaruga paurosa e l’elegante rondine che le
insegna come orientarsi con le stelle.
Ma sopratutto grazie alla sua intelligenza e
alla sua furbizia riesce a sconfiggere Bouki la
In molte favole dell’Africa Nera e, quindi in tante
storie senegalesi, la lepre Leuk impersona, insieme al ragno
Diargone, l’immagine che ha la volpe nelle favole europee:
astuta, furba, intelligente. La favola di Samba è uno dei
classici della letteratura africana. Tra le tante leggende, ci
sono, ad esempio, anche quelle degli spiriti djinné, degli
stregoni ma anche degli elementi naturali come il mare,
l’oceano, la pioggia, i tuoni, i fulmini.
7
49
iena, sempre pronta a imbrogliare e rubare, ma
troppo stupida per riuscire a portare a termine le
sue malefatte. Nel suo lungo viaggio Leuk
incontra anche l’uomo che la imprigiona e Mame
Randatoue la fata che la protegge e che le insegna
a essere prudente e ad ascoltare i consigli degli
animali più saggi... Nel suo lungo viaggio
incontra anche un cucciolo d’uomo, Samba…
Questa è, appunto, la storia di Samba8, un
cucciolo d’uomo che Leuk trova in un grande
termitaio.
Un giorno Leuk vede sotto l’ombra di un
grande albero, una donna che canta una canzone:
“Non piangere piccolo Samba. Un giorno sarai
grande e ricco...” e come per magia il termitaio lì
vicino si apre e ne esce un bel bebè che la donna
allatta con grande amore. Leuk non crede ai suoi
occhi ed è così curiosa che anche lei vuole
provare quella magia… Incredibile! Funziona! Il
termitaio si apre e Leuk prende Samba il bebè, lo
infila nella sua sacca e si mette in cammino...
Leuk cammina, cammina, ma Samba ha fame:
Fahl ci dice che in molte varianti vernacolari e
linguistiche dell’Africa sud sahariana samba significa
“leone” (così come il simile simba in lingua swahili).
8
50
vuole bere il latte, ma dove trovarlo? Pensa e
ripensa, Leuk ha un’idea: lascia Samba di fronte
alla tana di una leonessa e dei suoi tre cuccioli e
si nasconde un po’ più in là. Samba piange così
forte che la leonessa esce per vedere cosa sta
succedendo e grande è il suo stupore quando
vede quello strano cucciolo.
Appena Leuk sente il ruggito della
leonessa eccola apparire di fronte alla tana,
pronta a mettere in atto il suo piano.
“Buongiorno leonessa, cosa vedono i miei
occhi?”, chiede quella furbacchiona di Leuk,
“Assomiglia proprio a un cucciolo d’uomo... cosa
possiamo fare?”. “Mangiarlo!”, risponde la
leonessa. “Ti consiglio di non farlo: tienilo con te
e fallo crescere, quando sarà grande ti sarà molto
utile: gli uomini sanno molte cose che noi animali
ignoriamo”. La saggia leonessa ascolta il
consiglio di Leuk e accoglie Samba nella sua
famiglia. Lo allatta insieme ai suoi cuccioli e una
volta cresciuto gli insegna i segreti della foresta e
il linguaggio degli animali. Samba cresce, ascolta
e impara velocemente. Gioca con i cuccioli di
leone che lo prendono in giro perché non ha
artigli e denti. “Vedrete”, dice la buona leonessa,
“cosa sarà capace di fare una volta cresciuto”.
Una mattina, mentre i leoni sono a caccia,
51
finalmente torna Leuk che porta con sé un regalo
speciale per Samba: un arco e una freccia. “Tu sei
figlio dell’uomo e devi imparare a usare questi
strumenti: esercitati tutti i giorni ma mi
raccomando questo è il tuo segreto speciale:
nascondi l’arco e le frecce e non farli mai vedere
ai leoni”. Così Samba tutti i giorni, quando i leoni
sono a caccia, si esercita con il prezioso regalo di
Leuk. Le giornate trascorrono serene ma un bel
dì la leonessa torna da caccia ferita da una freccia
avvelenata scagliata da alcuni cacciatori. La
leonessa non vuole raccontare ai suoi cuccioli la
verità: ha paura che possano prendersela con
Samba per vendicarsi dei cacciatori. Quando i
leoncini sono a caccia, la leonessa racconta a
Samba della freccia avvelenata e gli raccomanda
di mantenere il segreto. Samba piange calde
lacrime perché ha capito che la leonessa presto
morirà. E infatti un giorno la leonessa non torna
più da caccia e i leoncini e Samba rimangono da
soli e devono imparare a nutrirsi.
I tre leoncini decidono di andare a cercare
da mangiare e Samba deve andare con loro. Il
ragazzo tira fuori arco e frecce e finge che sia un
gioco: la freccia diventa una trottola e l'arco una
chitarra. Gnari, Gnaru e Gnara, così Samba ha
chiamato i leoncini, guardano i giochi con aria
52
annoiata e si allontanano per andare a caccia. I
leoncini crescono e non sono più dolci e
giocherelloni: hanno un’aria feroce e comandano
Samba, minacciandolo con denti, artigli e paurosi
ruggiti. Samba chiama tutti i giorni Leuk, che con
la sua furbizia potrebbe sicuramente salvarlo, ma
l’amica non risponde. Sembra essere stata
inghiottito dalla foresta. Una sera però, all’ora del
tramonto, Samba sente una musica dolce: è il
suono di un flauto che sembra chiamare proprio
lui. Gnari, Gnaru e Gnara sono lontani e Samba si
mette alla ricerca del suonatore di flauto. Che
sorpresa per Samba quando vede Leuk in piedi
su un termitaio che suona il flauto. Samba corre
verso di lei e i due amici si abbracciano
commossi. Samba non riesce a trattenere le
lacrime “Non piangere, piccolo mio”, dice Leuk,
“non riuscivo più a trovarti ma Mame Randatou,
la fata, mi ha dato questo flauto magico che mi ha
aiutata”. “Sono molto infelice”, spiega Samba,
”Gnari, Gnara e Gnaru sono diventati grandi e
cattivi. Voglio scappare da loro, posso venire con
te?“. “Devi avere pazienza, amico mio. Quando
sarà il momento vincerai contro di loro. Ti ho
portato un grande arco e tre frecce. Due delle
frecce sono avvelenate, la terza ti servirà a
domare il meno cattivo dei leoni. Ma quel giorno
53
è ancora lontano. Nell’attesa verrò tutti i giorni a
trovarti e a raccontarti le storie degli uomini.
Sappi che tua madre è viva e ti aspetta al paese
dei tuoi antenati. Lei desidera che tu sia grande,
bello e ricco. E tu lo diventerai prima di
incontrarla”. Da lontano si sentono dei ruggiti… i
leoni stanno tornando. “Eccoli”, dice Samba,
“scappa presto amica mio”. “Addio”, risponde
Leuk allontanandosi. “Tonerò presto: segui il
suono del mio flauto e mi troverai!”.
54
FAVOLA TUNISINA
“El wahch” ovvero Il mostro
Raccontata e illustrata da Marwen9.
C’era
una volta un bambino di nome
Omar. Andava tutti i giorni nella foresta a
lavorare con suo nonno che faceva il taglialegna.
Un giorno, mentre lavorava, Omar vide nella
foresta una casa abbandonata. Si avvicinò
incuriosito. La luce all’interno era accesa. Tornò
dal nonno e gli disse della casa. Il nonno gli
rispose che aveva avuto un’allucinazione in
quanto non c’erano case nella foresta. Omar
insistette con il nonno di seguirlo per mostrargli
la casa. Ma il nonno rispose di no poiché
conosceva bene la foresta e non aveva mai visto
case lì. Omar arrabbiato decise di tornare a casa
sua e raccontò tutto ai suoi genitori. Ma anche
loro pensarono che si fosse immaginato tutto. La
mattina dopo Omar decise di tornare nel luogo
della casa abbandonata. Entrò dentro e vide che
Questa favola ci è stata raccontata da Marwen al
quale, a suo tempo, era stata raccontata dalla nonna.
9
55
era una casa sporca, disordinata. Poi notò una
grande ascia e del sangue a terra. Spaventato,
corse a casa del nonno per raccontargli cosa
aveva visto. Arrivato lì non trovò nessuno. Andò
a cercarlo nella foresta. In un sentiero trovò gli
occhiali del nonno a terra. Poi sentì le urla del
nonno che invocava aiuto. Si nascose dietro un
albero e vide un grande mostro che trascinava
suo nonno. Corse dai suoi genitori. Ma ancora
una volta non lo ascoltarono. Si ricordò che il
nonno teneva un fucile in casa. Andò a prenderlo
e si diresse verso la casa abbandonata. Sentì le
urla del nonno. Capì che il mostro stava per
uccidere suo nonno. Decise quindi di fare del
rumore sbattendo il vecchio cancello della casa in
modo da attirare l’attenzione del mostro.
Quest’ultimo, sentendo il rumore, uscì di casa
per vedere chi c’era fuori. Omar, lesto, senza farsi
vedere, entrò in casa, liberò il nonno e gli diede il
fucile. Il nonno diede fuoco alla casa e si nascose
con Omar dietro un albero. Il mostro, che si era
allontanato in cerca di chi aveva mosso il suo
cancello, vedendo la casa in fiamme, tornò
indietro. Allora il nonno gli sparò e lo uccise. Poi
corsero dai genitori di Omar e raccontarono
tutto. Chiamarono i gendarmi e li portarono sul
posto dove avevano ucciso il mostro. Ma una
56
volta lì si accorsero che il corpo era sparito. Il
nonno, temendo il ritorno del mostro, decise di
lasciare la sua casa e di andare via per sempre.
Una notte Omar sentì una voce dalla foresta che
gli sussurrava: “Omar, d’ora in poi sarai sempre
creduto”.
57
COS’È TRACCE?
Le mie due favole preferite?
Désirée e Manuel…
Questa breve raccolta rappresenta l’ennesimo
tentativo di rendere protagonisti i ragazzi di
Tracce, solitamente abituati a ogni tipo di
marginalità. Grazie ai loro ricordi, alle loro storie,
è stato possibile pubblicare questo piccolo, ma
prezioso libretto.
La Cooperativa Sociale La Casa è iscritta
all’Albo Regionale Enti Ausiliari che gestiscono,
senza scopo di lucro, strutture per il recupero e il
reinserimento di ragazzi tossicodipendenti,
ispirandosi al programma terapeutico Progetto
uomo del Ce.I.S. di Roma di Don Mario Picchi.
Programma terapeutico che ha la durata di circa
2 anni ed è suddiviso in 3 fasi distinte:
accoglienza
–
comunità
terapeutica
–
reinserimento sociale. La Comunità svolge
attività di prevenzione sul territorio, oggi tanto
più necessaria vista le sempre più giovane età dei
consumatori di stupefacenti e visto il crescente
numero di coloro che dall’uso passano all’abuso.
Il progetto Maggese, invece, è stato attivato
come
struttura
residenziale
a
sostegno
dell’inclusione sociale dei “nuovi” poveri e di
59
persone con pregresse problematiche di
dipendenza.
Uno degli ambiti operativi della Coop. è il
Centro di Accoglienza a Bassa Soglia denominato
Tracce.
Il
progetto
Tracce
che,
dopo
l’inaugurazione del 26 settembre 2003, ha
ufficialmente aperto i battenti il 1° ottobre
successivo, è un Servizio di accoglienza diurna
rivolto a persone con problematiche legate
all’abuso di droghe e alle patologie a esso
correlate, “senza fissa dimora”, persone che
vivono in condizioni psicofisiche “ai margini
della socialità” e a elevato rischio di devianza. Il
Servizio è svolto da educatori professionali e
volontari che, in orari definiti, accolgono gli
utenti negli spazi del centro senza impegni o
vincoli, offrendo l’opportunità di un primo
confronto e di informazione sulle opportunità
date dalla rete dei Servizi come la partecipazione
ad attività più strutturate, quali gruppi di autoaiuto, laboratori creativi ed educativi, risposte
specifiche a bisogni primari di carattere
assistenziale o sanitario. Orientato pertanto, in
prima istanza, ad ampliare il “diritto di
cittadinanza” degli utenti, il Servizio consente
inoltre alle persone di valutare e scegliere
percorsi riabilitativi e di reinserimento a pieno
titolo nella rete sociale.
60
Benché la particolarità di Tracce sia la
destrutturazione completa del Servizio (un “non
luogo” a bassa soglia) ci sono state, nel tempo,
anche proposte più o meno strutturate. Oltre alle
attività
ludico-ricreative
e
socializzanti
organizzate o improvvisate nell’orario di
apertura (tornei di scacchi, calcio-balilla, dardi,
ecc.), ci si è attivati per intraprendere altre
iniziative, progetti e collaborazioni:
 Tracce ha infatti anche ospitato il cineforum
Movi-amoci dell’Università della Strada di
Ravenna e la mostra fotografico-pittorica di
Gabrio Gabri e Hazem Harb Vite sul filo:
sguardi dal campo profughi di Gaza organizzata
dall’Assessorato alla Pace del Comune di
Ravenna e dall’Associazione Gruppo San
Damiano di Santarcangelo di Romagna;
 con gli Avv. Cristina Baldi e Andrea
Camprini, ad esempio, si è concretizzata la
possibilità di informazioni giuridiche e
consulti o percorsi legali gratuiti;
 sono state organizzate innumerevoli cene
socializzanti (in occasione del Natale o della
fine del Ramadan così come in occasione di
compleanni di utenti del Servizio), non ultime
quelle del progetto I sapori della cultura, e, in
seno al progetto Libera In-Formazione II dodici
merende culturali. Durante tutto il 2010 nella
prima serata del mercoledì abbiamo cenato
61






con gli utenti proponendo diverse proiezioni
di film;
grazie al supporto del Centro Servizi per il
Volontariato di Ravenna Per gli altri, sono stati
organizzati corsi di primo soccorso, di
approccio e conoscenza dei cani (Il cane
urbano), guide alla conoscenza della città di
Ravenna e alcuni laboratori artigianali di
cartapesta e ceramica;
sono stati dati alle stampe 2 numeri del
giornalino di Tracce che, anche se
estemporaneamente, ha dato voce a chi
solitamente sta in silenzio. La compilazione di
3 libretti di poesie di R., di un diario di K., la
parziale storia di C., le poesie di alcuni ragazzi
sono stati momenti di intimità particolare
dove i fruitori di Tracce hanno donato la loro
sensibilità raccontata attraverso l’arte della
parola;
sono state organizzate, inoltre, 2 mostre di
dipinti e fotografie di frequentatori di Tracce;
organizzate alcune escursioni anche in
collaborazione con il Servizio Guardie
Ecologiche;
proposto un corso di propedeutica teatrale con
il regista/scenografo Michele Zizzari;
curata la produzione e distribuzione natalizia
di maglie, zainetti, impermeabili, tracolle e
“kit invernali” (guanti, berretto e sciarpa);
62
 costante la collaborazione con lo sportello Link
con il quale si è sviluppata una stretta e
proficua collaborazione anche dal punto di
vista in-formativo;
 importante anche la collaborazione con il
Servizio comunale di CittàAttiva con adesioni
a molti progetti di rete come, ad esempio, a
LabLeg 2012, progetto di educazione alla
legalità o come, nel maggio 2012,
l’allestimento della mostra fotografica Welcome
to Palestine: in ricordo di Vittorio Arrigoni curata,
in seno alla rassegna Adotta una vetrina,
dall’educatrice di Tracce Stefania Ciccillo;
 nel 2012 importante la partecipazione di Tracce
alla “Giornata mondiale dell’ONU per
l’eliminazione della povertà”, con il patrocinio
del Comune e della Provincia di Ravenna,
attraverso la Passeggiata di solidarietà in visita ai
luoghi e ai Servizi della città rivolti ai
bisognosi.
Altri 3 progetti finanziatoci dalla FONDAZIONE
DEL MONTE DI BOLOGNA E RAVENNA (Libera InFormazione I, II e III) ci hanno permesso poi, nel
2008, nel 2010 e nel 2012, di intraprendere
numerose attività in-formative rivolte all’utenza
di Tracce. Una breve digressione visto lo spessore
progettuale: i progetti Libera In-Formazione I, II e
III hanno previsto una serie di attività formative
63
proposte e strutturate dalla realtà progettuale di
Tracce. Questa formazione ha fornito, ad esempio,
tante alternative artistiche e più dignitose
all’elemosina, riportando la marginalità al livello
di protagonismo. Il bagaglio di competenze
acquisite ha permesso e permette ai fruitori di
districarsi nelle difficoltà quotidiane di tante
tipologie, sollevando i Servizi in rete da
problematiche legate a incomprensioni e iter
errati. Intesi globalmente, i progetti, miravano al
miglioramento qualitativo della vita dei fruitori
di
Tracce
in
un
ottica
formativa
e
conseguentemente motivazionale. Le attività informative sono state strutturate in differenti
macro-aree.
Nel 2008: I. Area didattica (Corso di lingua
italiana per stranieri), II. Area artistica
(Laboratorio di espressione teatrale, laboratorio
di riciclo, laboratorio di mosaico, laboratorio di
palloncini artistici), III. Area In-Formativa
(Consulenze
mediche
e
giuridiche,
incontri/conferenze pubbliche), IV. Area ludicoculturale (Visite ed escursioni della città e dei
dintorni, laboratorio di educazione ambientale,
abbonamento quotidiani e/o riviste, acquisto
giochi di società e socializzazione).
Nel 2010: I. Area didattica (2 corsi di lingua
italiana per stranieri con relativo sostegno e
approfondimento), II. Area artistica (Laboratorio
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musicale, laboratorio creativo con sassi e
conchiglie), III. Area In-Formativa (Consulenze
giuridiche, incontro pubblico), IV. Area ludicoculturale (Visite ed escursioni della città e dei
dintorni, merende culturali, elaborazione di un
cortometraggio, abbonamento quotidiani e/o
riviste,
acquisto
giochi
di
società
e
socializzazione).
Nel 2012: I. Area didattica (Corso di lingua
italiana per stranieri con relativo sostegno e
approfondimento), II. Area artistica (Laboratorio
creativo di ceramica e découpage), III. Area
ludico-culturale
(Merende
culturali,
pubblicazione della presente raccolta Favole
dell’altro mondo). La presente pubblicazione
rappresenta, per la seconda volta (vedi sotto
l’edizione de I sapori della cultura), il tentativo di
coinvolgere gli utenti di Tracce nel passaggio
dalla marginalità al protagonismo.
Il progetto I sapori della cultura inoltre,
presentato nell’aprile del 2007 e finanziato dalla
FONDAZIONE DEL MONTE DI BOLOGNA E
RAVENNA, è stato centrato sui singoli valori
culturali
di
appartenenza
condividendoli
attraverso la strutturazione di momenti di cucina
etnica, anticipati dalla condivisione delle “parole
chiave” e dei significati etimologici delle parole
utilizzate in lingua madre. Lo sforzo di questo
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progetto voleva, attraverso i bisogni primari e
aspetti identificanti, passare dalla centralità delle
proprie
patologie/comportamenti
alla
consapevolezza di altri usi, costumi, parole e
identità, passando così dal “mio” al “nostro”.
Tramite incontri culinari che hanno ripercorso
culture, lingue e religioni differenti, promosse
dagli stessi utenti, si è giocato con la parola, con i
significati della propria lingua e dei propri rituali
che celano l’animo della cultura di ognuno,
trasformandola, tramite la condivisione, nel
sapere di tutti. Le cene, dopo esser state
preparate dagli utenti di Tracce, sono state
condivise anche dai volontari del Ce.I.S., dai
ragazzi dell’Università della Strada di Ravenna,
ecc., creando ulteriore integrazione e scambio.
Particolare attenzione ha rivestito un valore
aggiunto del progetto che, permettendoci di
acquistare per ogni cena delle stoviglie, ha fatto sì
che lo spazio cucina di Tracce sia ora ben
attrezzato per qualsiasi esigenza alimentare
(sovente gruppi di ragazzi fanno colletta e poi
cucinano e condividono qualcosa insieme, così
come sovente altri utenti trovano finalmente la
possibilità di fruire dei paradossali pacchi
alimentari che, sebbene distribuiti in larga misura
a senza fissa dimora, contengono spesso alimenti
da cuocere...). Il percorso linguistico ha formato e
appoggiato gli obbiettivi di integrazione; la
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convivialità ha aiutato e stimolato l’integrazione
e la crescita. Il principale aspetto innovativo e
sperimentale è stato rappresentato dal percorso
culturale e linguistico che ha preceduto,
affiancato e concluso ognuno degli undici
percorsi culinari internazionali. Il progetto si è
concluso con la pubblicazione di un particolare
“ricettario” multilingue che, accanto a un
percorso fotografico delle cene etniche, ripropone
momenti culturali condivisi col pretesto dei pasti
comunitari.
Da giugno 2012, infine, è stato attivato, presso
Tracce, uno sportello di assistenza legale gratuita
grazie alla disponibilità di alcuni avvocati di
Ravenna (Avvocato di strada aperto il venerdì
dalle 15.00 alle 17.00).
Tracce deve la sua esistenza, oltre che alla
FONDAZIONE DEL MONTE DI BOLOGNA E
RAVENNA, alla FONDAZIONE CA.RISP. DI
RAVENNA e alla CARITAS DELLA DIOCESI DI
RAVENNA-CERVIA che ci sostengono da sempre;
al COMUNE DI RAVENNA con i contributi ai
progetti di approvvigionamento alimentare
(Sopravviveri) e con l’importante inclusione nei
tavoli dei Piani Sociali di Zona;
all’ASP
(Ravenna, Cervia e Russi) per il prezioso e
continuo supporto.
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Il contributo del BANCO ALIMENTARE poi (che
ci ha accreditati nel 2011) ha facilitato le provviste
per i pasti agili offerti a Tracce riducendo la spesa
alimentare annua.
L’ASSOCIAZIONE VOLONTARI PROGETTO UOMO
DEL CE.I.S. ci ha sempre sostenuto anche con il
prezioso lavoro dei volontari.
Il C.S.V. di Ravenna PER GLI ALTRI ci ha
accompagnato attraverso importanti progetti di
sviluppo.
Grazie a questi aiuti sono stati approntati
anche Servizi di accompagnamento ad altri
Servizi (dormitori, mense, luoghi di cura alla
persona, ecc.), di informazione di rete, di ricerca
d’impiego e/o formazione, di invii alla Sanità,
ecc. Grazie a questi preziosi contributi si sono
potuti raggiungere, in molti casi, alcuni degli
obbiettivi di Tracce: il contrasto alla povertà
(qualsiasi sia la sua origine) e all’emarginazione,
anche relazionale, e il recupero dei diritti alla
dignità, alla cittadinanza, al reinserimento
sociale… al cambiamento...
Herbert Poletti
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