GIOVANNI CIPRIANI La voce di Medea: dal testo alla scena, da Seneca a Cherubini [in appendice: Seneca, MEDEA, IN LINGUA ORIGINALE E CON TRADUZIONE PERFORMATIVA A CURA DI GIOVANNI CIPRIANI] *Medea ‘in memoria’! Roma, 16 dicembre 383: si celebra la festa dei Saturnali e per tre giorni, fino al 19, un gruppo di 12 intellettuali (8 romani, 3 greci e 1 egiziano: il numero coincide con la somma delle nove muse e delle tre grazie), convenuto a banchetto a casa di Vettio Agorio Pretestato per celebrare la ricorrenza delle feste annuali di Saturno, si intrattiene in vivaci e raffinate conversazioni. Stando alla cronaca scritta, che di quegli incontri Macrobio Ambrogio Teodosio ci ha lasciato nei suoi 5 libri di Saturnalia, al terzo giorno tocca al dotto filosofo greco Eustatio accingersi ad disserendum: lo fa intrattenendo i suoi ascoltatori sui pesanti debiti, a livello di immagini e di figure retoriche, contratti da Virgilio non solo nei confronti di Omero, ma anche di altri autori greci: Alium non frustra dixi, quia non de unius racemis vindemiam sibi fecit, sed bene in rem suam vertit quidquid ubicumque invenit imitandum; adeo ut de Argonauticorum quarto, quorum scriptor est Apollonius, librum Aeneidos suae quartum totum paene formaverit, ad Didonem vel Aenean amatoriam incontinentiam Medeae circa Iasonem transferendo. quod ita elegantius auctore digessit, ut fabula lascivientis Didonis, quam falsam novit universitas, per tot tamen saecula speciem veritatis obtineat et ita pro vero per ora omnium volitet, ut pictores fictoresque et qui figmentis liciorum contextas imitantur effigies, hac materia vel maxime in effigiandis simulacris tamquam unico argumento decoris utantur, nec minus histrionum perpetuis et gestibus et cantibus celebretur (Macrobio, Saturnalia V,17,4)1. Il passo or ora riportato dà la misura -in termini di vocaboli, di allusioni e di metafore- della diffusione di una fabula, al di là dei confini temporali e spaziali della letteratura, fino ad invadere altri campi artistici ed espressivi: tutto questo, ovviamente, grazie alla perizia del suo autore, Virgilio nel frangente, in grado di assicurare al suo personaggio femminile (e di fatto a se stesso) una fama ben più ampia di quanta l’avesse conseguita il poeta dal quale aveva mutuato -fatte salve le dovute differenze- la struttura e lo svolgimento. La fabula in questione è dunque quella di Didone, il movente della fabula è l’insana passione per Enea, una passione che la induce, nonostante il suo regale statuto, a lascivire; a monte, però, di una simile ‘performance’ conclusasi tragicamente c’è l’amatoria incontinentia Medeae circa Iasonem. ‘E silentio’, peraltro, quanti studiano la retorica sub specie di riserva di luoghi comuni avranno colto, nei giudizi del dotto critico e esegeta greco, la ripresa di quel ‘topos’ che continua a vantare di generazione in generazione lo straordinario potere eternatore della poesia [il rinvio alla straordinaria opera del Curtius è inevitabile2]. Ad ammonire in tal senso -se si vuol essere più puntuali -è soprattutto la ‘iunctura’ per ora omnium volitet, a meno che non si intenda chiamare in causa la successiva allusione ‘all’andar a fior di labbra’, così come spinge a intendere l’etimologia del verbo celebretur. 1 “Non a caso ho parlato di un altro poeta[oltre Omero], giacché egli non fece vendemmia dalla vigna di uno solo, ma seppe utilizzare tutto ciò che trovò da imitare in ogni autore. E così dal libro IV delle Argonautiche, opera di Apollonio Rodio, desunse quasi completamente il libro IV della sua Eneide, trasferendo alla coppia di Didone e Enea l’incontenibile passione amorosa di Medea per Giasone. E in ciò riuscì superiore al suo modello, tanto che la fabula di Didone dalla sensualità dissoluta, che, come tutti sanno, è falsa, mantiene ancora dopo tanti secoli l’apparenza di verità; essa passa per vera sulla bocca di tutti: perfino pittori, scultori, tessitori di arazzi sfruttano questo argomento più di ogni altro nelle loro figurazioni come se fosse l’unico motivo di decorazione, e non sono da meno gli attori che lo divulgano continuamente in rappresentazioni mimiche e cantate” (trad. di N.Marinone). 2 E.R.Curtius, Letteratura europea e Medio evo Latino, trad.it., Firenze 1992, pp. 529sgg. La metafora del ‘volare continuamente di bocca in bocca’ (per ora volitare) -lo sappiamo bene- non è creazione originale di Macrobio e per quanto riguarda la letteratura latina rinvia ad un epigramma sepolcrale attribuito in due distinte occasioni da Cicerone a Ennio3: Nemo me dacrumis decoret neque funera fletu Faxit. Cur? Volito vivus per ora virum Per la precisione, Cicerone (Cato Maior 73), citando l’epigramma, attribuisce a Ennio la convinzione che non debba essere compianta una morte, cui tenga dietro l’immortalità; in Tusc.1,34,invece, l’Arpinate fa precedere la citazione, per quanto incompleta, di questo epigramma dal riferimento alla nobile aspirazione del poeta latino, di cui ha appena riportato identica testimonianza: mercedem gloriae flagitat ab is quorum patres adfecerat gloria, idemque: 'Nemo me lacrimis . . . Cur? volito vivos per ora virum.' sed quid poetas? opifices post mortem nobilitari volunt. quid enim Phidias sui similem speciem inclusit in clupeo Minervae, cum inscribere <nomen> non liceret? quid? nostri philosophi nonne in is libris ipsis, quos scribunt de contemnenda gloria, sua nomina inscribunt?4 In verità e per completezza, poco prima Cicerone aveva citato tra analoghi aspiranti alla fama post mortem anche gli uomini politici5: “Ma qui” -si era interrogato- “nella nostra patria, quale pensiamo fosse l’idea di tutti quegli uomini così grandi che si lasciarono morire per la repubblica? Forse che con la loro vita cessasse anche la loro fama? Nessuno mai accetterebbe di morire per la patria se non sperasse davvero nell’immortalità…. Dico questo degli uomini di Stato; ma vale anche per i poeti: non vogliono forse anch’essi la fama dopo la morte? ”. L’epigramma enniano insomma aveva ovviamente aperto la stura a simili accenti con cui orgogliosamente -come osserva G.Pasquali 6 , prima di citare i precedenti greci 7 - si pronuncia questo “grido verso l’immortalità”8: memorabile rimane, da questo punto di vista l’oraziano exegi monumentum del carme III,30 e l’analoga chiusura del II libro dei carmina, laddove (c.II,20) il poeta, trasfigurato in cigno, volerà più sicuro di Icaro e sarà conosciuto ovunque9. Lo stesso volo guarda caso- che Ovidio preconizza per sé accomiatandosi dal lettore delle Metamorfosi (XV, 871879): “Ecco ho compiuto l’opera che non potrà l’ira di Giove, né il fuoco, né la spada distruggere, 3 Ennio, varia 17 Vahlen. “La gloria è la ricompensa che Ennio chiede a coloro ai cui antenati aveva dato gloria”. E ancora: Nessuno di lacrime mi onori… …. Perché? Vivo io volo sulle bocche dei vivi. Ma perché parlare dei poeti? Anche gli artisti vogliono la fama dopo la morte. Altrimenti, perché Fidia avrebbe scolpito il suo autoritratto sullo scudo di Minerva, dal momento che non era consentito incidere il nome? E i nostri filosofi? Non oppongono forse la loro firma proprio ai libri che scrivono sul disprezzo della gloria?” (trad. di Lucia Zuccoli Clerici). 5 Era stato lui stesso ad accennare a una simile preoccupazione a proposito di Servio Sulpicio Rufo (Phil. IX,10) e di Cesare (Pro Marcello,28), così come aveva fatto un sottile ‘distinguo’ fra commemoratio e memoria in Phil. II,51 e III,33; non solo: aveva teorizzato sull’argomento anche in Pro Archia, 29,44. Lo stesso riguardo aveva avuto Lucano per Pompeo in civ. VIII,608 sgg. 6 Cfr. G.Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1923, pp.323 sgg. e 551. 7 In primis, Teognide, ma altri ragguagli si trovano negli epigrammi funerari dell’ Anthologia Palatina: cfr. G.Mazzoli, Il fr. Enniano ‘laus alit artis’ e il proemio al XV libro degli Annales, “Athenaeum” N.S. 43 (1964), pp.317-322; M. Nastasi, Contributi allo studio della poetica enniana, in S.Costanza (a cura di), AA.VV, Poesia epica greca e latina, Soveria Mannelli, 1988, pp.119-134. 8 Vanno altresì ricordate le riprese del per ora volitare in Verg. georg.III,8-9; Aen. XII, 234-237; Plin. Epist. II,10,2; V,8,3. 9 Con un andamento enniano Orazio (c.II,20,21-22) si congeda così: absint inani funere neniae luctusque turpes et querimoniae (“Manchino alle esequie senza bara / le nenie, i lamenti, il pianto che sfigura”, trad. di L.Paolicchi). 4 né il tempo che tutto divora. E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia incerta vita. Con la parte migliore di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare: fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno (ore legar populi), e per tutti i secoli, se sono veri i presentimenti dei poeti, vivrò della mia fama”(trad.di Giovanna Faranda Villa)10. Corollario importante di questo ‘topos’ -come ben sappiamo- è quello che ruota intorno alla superba (e talvolta utilitaristica e funzionale) convinzione, da parte del poeta, che anche l’oggetto del canto sia destinato a beneficiare di questa capacità mnemotecnica insita nella generale e complessa vis poietica del carmen. Tale convinzione e certezza si rivelano quanto mai utilitaristiche e funzionali allorché l’oggetto del canto coincide con la donna amata, con la propria coniuge o con un amico sulla cui solidarietà umana e politica si fa affidamento nel momento del bisogno. Valga un caso per tutte, fra le figure femminili: quello di Fabia, moglie di Ovidio, destinataria -nella produzione poetica dell’esilio- delle stesse profferte solitamente riservate all’ amica nell’ambito della poesia elegiaca e nel frangente beneficiaria dello stesso monumentum di oraziana memoria. Si leggano le parole del poeta di Sulmona: “Quale mnumnto io ti abbia innalzato con i mei libri lo vedi tu stessa, o consorte, a me cara più di me stesso.. La fortuna potrà togliere molto al nome dell’autore ma tu diverrai ugualmente celebre ad opera del mio genio e finche qualcuno mi leggerà, leggerà parimenti la tua fama, né puoi scomparire del tutto nelle tristi fiamme del rogo (nec potes in maestos omnis abire rogos)… Quel che ti ho dato è di godere di un nome immortale e tale è il tuo dono che nulla di più grande ti potevo dare” (Ov. trist.,V,14, 1sgg; trad.di R.Mazzanti)11; fra gli amici, oltre che a Allio, cantato da Catullo nel carmen 64, si pensi alla cerchia di persone cui Ovidio indirizza l’epistula ex Ponto III,2,25-36: “Voi siete una piccola parte di amici, la più generosa, voi che avete ritenuto vergognoso non portarmi aiuto nelle mie angustie. Allora, dunque, il ricordo dei vostri meriti perirà, quando io sarò divenuto cenere, una volta che sia stato consumato il mio cadavere. Mi inganno: quel ricordo durerà più a lungo della mia vita, se tuttavia sarò ricordato e letto dalla posterità. I corpi esangui sono assegnati ai tristi roghi: la fama e la gloria sfuggono ai roghi innalzati. Sono morti Teseo e il compagno di Oreste, ma ognuno di loro vive per la propria lode (v. 34 sed tamen in laudes vivit uterque suas ). Anche voi spesso loderanno i lontani nipoti e la vostra gloria sarà splendida grazie ai miei versi” (trad. di Silvana Fasce) 12 . Per completezza, va detto che ovviamente non è da escludere anche l’utilizzazione, in malam partem, di una simile arma implicita nella diffusione della fama agìta a cura dei versi (cfr. Ov., trist. IV,9,232613). Nell’inventario di quanti devono la loro fama nei secoli al canto dei poeti sono inoltre da annoverare ovviamente anche gli eroi e le eroine del mito, ma il caso di Medea e il suo rimanere ‘in memoria’ -tanto per usare un gergo apparentemente informatico, ma sostanzialmente latino e autenticamente ciceroniano- meritano attenzione perché qui è il personaggio in prima persona a propiziare il ricordo di sé secondo una strategia mnemotecnica e un meccanismo di identificabilità, che non ammette intrusioni altrui o equivoci depistanti. Qualcosa di appena assimilabile dall’interno delle Metamorfosi ovidiane- l’aveva già curata l’infelice Ifi, suicidatosi per impiccagione dopo essere stato respinto e umiliato nelle sue profferte d’amore dalla insensibile Anassarete (Ov.Met. XIV, 724sgg); prima di pendere all’esterno della porta rimasta ostinatamente chiusa, Ifi si era lasciato andare a un simile ‘memento’: “Tuttavia ricorda che il mio amore non è svanito prima della mia vita e che ora rimango nello stesso tempo privo di entrambe queste luci. Né la fama ti porterà la notizia della mia morte: perché tu ne sia certa, io stesso verrò da te e ti sarò ben 10 Ovidio aveva accennato in altri punti a questa sua aspirazione: cfr., e.g., am. III,15,7. Cfr., su questa materia, il recente saggio di P.Fedeli, L’elegia triste di Ovidio come poesia di conquista, in R.Gazich (a cura di), AA.VV, Fecunda licentia. Tradizione e innovazione in Ovidio elegiaco, Milano 2003, pp.11; 18-19; 27-31. 12 Cfr. il commento ad loc. presente in A.Luisi- N.F.Berrino, Culpa silenda. Le elegie dell’ error ovidiano, Bari 2002, p.222, ricco di altri loci similes. 13 Trans ego tellurem, trans altas audiar undas, / et gemitus vox est magna futura mei; / nec tua te sontem tantummodo saecula norint, / perpetuae crimen posteritatis eris. 11 visibile, sicché possa saziare i tuoi occhi spietati della vista del mio corpo senza vita. O dèi, se poi voi osservate le azioni dei mortali, ricordatevi di me (la mia bocca non osa chiedere di più) e fate che la mia storia sia narrata per lungo tempo ( et longo facite ut narremur in aevo) e concedete alla fama i tempi che avete sottratto alla mia vita”(trad.di Giovanna Faranda Villa)14. Ma andiamo per ordine. Si deve a Guido Paduano una icastica definizione della tragedia in cui annega Medea: “Medea” -egli scrive- “è una tragedia di memoria”15. La suggestiva definizione è preceduta nel frangente da una stringata e stringente argomentazione: “La compagine poetica e drammatica della Medea ha non il suo presupposto, ma il centro indispensabile della sua tematica in un fenomeno appartenente agli antefatti: il fatto che muove Medea e rende possibile la sua azione in apparenza assurda è l’amore per Giasone, che appare la forza viva di un passato lontano e ormai inattuale. Naturalmente questo non significa che l’antefatto abbia maggiore importanza dell’azione direttamente rappresentata, significa, bensì che quest’ultima ha come sua disposizione più profonda una dimensione rivolta al passato; in altre parole Medea è una tragedia di memoria”. D’altronde -ci sarebbe da chiosare- come si fa a non cogliere nella sua vicenda il violento passaggio da un olim, contrappunto da un felix coniugium, a un nunc dolorosamente angosciato dalla percezione dell’abbandono e della solitudine e assurdamente umiliato dalle insinuazioni circa una sua sfrenata e incontenibile libido 16 ? Medea, insomma, appare sfibrata dalla coscienza del passato, una coscienza vigile solo alla mente di chi, fra i due, è stata abbandonata; una coscienza, per converso, completamente assente dal cuore del fedifrago. Non solo: Medea ha la consapevolezza di una condizione presente quanto mai immeritata, tanto più se commisurata alla sua vita di relazione ante acta con Giasone17; anzi, io aggiungerei che è tragedia di memoria scatenata dalla persistente smemoratezza di Giasone, eroe inmemor (“dimentico”), sommerso da un quanto mai interessato oblio dei bene facta della sua donna18. Credo, allora, che questa prospettiva possa dare ancora spunti interessanti di analisi e possa permettere, con il sussidio del cosiddetto vocabolario latino della ‘rimembranza’, ulteriori incursioni nel laboratorio dell’autore alle prese con i vuoti o i ritorni di memoria dei suoi personaggi. L’autore al momento è Seneca, i personaggi continuano ad essere Medea e Giasone, mentre assillante in questa rivisitazione si rivela la presenza dei vocaboli della memoria19 così come dei vocaboli della dimenticanza (oblitus è qualificato Giasone in Seneca, Medea, 560; inmemor è 14 Cfr. al proposito in J. Fabre, L’être et les figures. Une réflexion sur le récit dans le récit chez Ovide (Mét. XIV, 622771), “Lalies” 6 (1984), pp.170-171. 15 Cfr. G. Paduano, Medea e la fondazione dell’ideologia euripidea sull’amore, la donna, il matrimonio, in Idem, La formazione del mondo ideologico e poetico di Euripide. Alcesti e Medea, Pisa 1968, p.220. 16 Cfr. le parole del primo Coro in Seneca, Medea, vv.102-106: Ereptus thalamis Phasidis horridi, / effrenae solitus pectora coniugis / inuita trepidus prendere dextera, /felix Aeoliam corripe uirginem / nunc primum soceris sponse uolentibus (“E tu che finora, in preda all’ansia, usavi abbracciare controvoglia una moglie restia ad ogni freno, adesso invece con lieti auspici abbraccia con forza la vergine eolia; finalmente, per la prima volta, vai sposo con il consenso di tuo suocero”). [la traduzione della Medea di Seneca qui e in seguito è la mia]. C’è chi giustamente vi vede il punto d’arrivo della manipolazione tutta elegiaca di exempla di libido mulierum, una manipolazione attuata in modo paradigmatico da Properzio, III, 19,2-4 (vos, ubi contempli rupistis frena pudoris / nescitis captae mentis habere modum): cfr., in merito, G. Lenoir, Le personnage de Médée dans la poésie élégiaque, in AA.VV., La mythologie clef de lecture du monde classique, Collection “Caesarodunum XXIbis”,Tours 1986, p.71. 17 Per citare le parole di Annalisa Németi (Lucio Anneo Seneca, Medea, Introd., trad. e commento di A. Németi, con un saggio di G.Paduano, Pisa 2003, p.226), alle prese con l’identificazione del Leit-Motiv della Medea senecana nell’ira irrefrenabile, si assiste anche qui -oltre che in altri loci della poesia d’amore infelice- “al potere sovrumano e devastante dell’ira vendicativa messa in atto dalla donna quando viene privata dello sposo…, un’ira che la Medea di Euripide assimilava alla furia omicida tradizionalmente ascritta al polemos maschile”. 18 Cfr., su questo, anche F. Bessone (a cura di), P. Ovidii Nasonis Heroidum Epistula XII, Medea Iasoni, Firenze 1997, pp. 25-26. 19 Utile, in questa prospettiva, è il saggio di J. F. Miller, Ovidian Allusion and the Vocabulary of Memory, “MD” 30 (1993), pp.153-164. qualificato invece in Ovidio her. XII,1620), vocaboli, che, all’interno della loro storia d’amore, si scoprono distribuiti in maniera sperequata (a lei tutto il pesante fardello del ricordo, all’altro tutta la ineffabile leggerezza dell’oblio); vocaboli, che, al di fuori della loro ristretta cerchia personale, si scoprono invece naturalmente volti a far parlare di lei, e per di più -se Medea non imprime urgentemente una decisa e vigorosa sterzata- in termini che rinviano in modo inesorabile e umiliante a quella spregevole diffamazione che i latini bollano con la parola fabula, antenata delle nostre “dicerie”21. Medea insomma, se pensa a quello che si dirà di lei, si ritrova a fare le stesse amare previsioni di un qualsiasi amante elegiaco, ‘sedotto e abbandonato’: vuoi con tono ironico, vuoi con tono beffardo su di lei si diffonderanno pettegolezzi e si rovesceranno espressioni di derisione, autentici attentati alla sua buona fama. Si tratta allora di operare, nel corso della tragedia, una singolare vendetta22, una vendetta che faccia tornare la memoria, in prima battuta, presso lo smemorato per eccellenza, Giasone; una vendetta, che, in seconda battuta, faccia insediare stabilmente nei processi mnemopoietici delle generazioni future una siffatta memoria scellerata, d’ora in poi sempre più inestricabilmente ancorata a misfatti fra i più terribili che l’umanità conosca23. Il merito di questa svolta sentimentale, condotta sull’onda agitata dei ricordi dell’eroina, è senza dubbio di Seneca24. Prima, a prepararla, ha contribuito l’esperienza della poesia elegiaca, nella quale rientra pure la lasciva Didone, così come ha contribuito l’interpretazione ovidiana di quel mito e di quell’eroina. Dopo, a conservarla, ha contribuito, se non altri, almeno William Shakespeare nel suo Titus Andronicus25. Nella Medea di Seneca, dunque, l’ira e il furor -a contatto con un reagente come l’ amorhanno portato l’eroina ad uno status di invasamento sospeso fra impulsi erotici e vendicativi: tale 20 Vd. commento della Bessone, ad loc. Questo motivo è indagato dalla Bessone, op.cit., pp.235-239 (vi si trovano raccolti una serie esaustiva di loci similes; ancor prima se n’era occupato G.Rosati, L’elegia al femminile: le Heroides di Ovidio (e altre heroides), in “MD” 29 (1992), pp.81sgg. 22 Sul tema della vendetta, come corollario del sospetto che l’amante tradito nutre circa il suo essere diventato oggetto di riso e di scherno, cfr. le pagine or ora citate di Bessone e Rosati. Più specificatamente, per quel che concerne Medea è d’obbligo il rinvio a G.Guastella, L’ira e l’onore. Forme della vendetta nel teatro senecano e nella sua tradizione, Palermo 2001, passim. 23 Sulla ricerca di maiora scelera come suggello di una sfida da tentare per imporsi come modello nella strategia e nell’esecuzione del male, cfr. Németi, op,.cit., pp. 148-149 e la bibliografia più recente ivi raccomandata. 24 Scrive al proposito Gianna Petrone (cui si deve un importante saggio sul delitto familiare come centro ideologico del teatro senecano –Metafora e tragedia. Immagini culturali e modelli tragici nel mondo romano, Palermo 1996), Medea, le Medee, in AA.VV., Scienza, cultura, morale in Seneca, Bari 2001, p.128: “Se Euripide con l’episodio di Egeo pensava ad assicurare a Medea una via d’uscita e un futuro possibile, Seneca viceversa la costringe a ritornare indietro verso il suo passato, come nell’impossibile e disperato tentativo di annullarlo. Seneca ha dunque letto altrimenti nel mito di Medea, con una forza interpretativa che ha trasformato in nuovo paradigma, destinato ad imporsi e a durare, i ‘pezzi’ che gli provenivano da una lunghissima tradizione. Nella sua intellettualistica riscrittura e nello stesso atteggiamento con cui posiziona i particolari sparsi in un nuovo ordine dal fortissimo significato è però particolarmente evidente il segno della retorica e del trattamento che questa riservava all’esemplificazione tragica. Oltre che il succedersi di ‘Medee’ nei precdenti modelli poetici, va considerata perciò anche la piccola ma niente affatto trascurabile storia della ‘selezione’ operata dalla retorica sul racconto di Medea e sui testi ad esso relativi”. 25 Cfr. G. Guastella, op.cit., pp. 200-205. In queste pagine, in verità, l’autore mira a due obiettivi: da un lato evidenziare come nella redazione della tragedia shakespeariana, siano assai più vistosi i debiti ovidiani di quelli autenticamente senechiani, circoscritti, questi ultimi al Thyestes: [il rinvio al sesto libro delle Metamorfosi ovidiane e all’episodio di Procne e Tereo, infatti, è reso esplicito in numerose occasioni nel dramma (in cui, ricordiamo, Lavinia, mutilata nella lingua e nelle mani, rivela di aver subito uno stupro, proprio servendosi della fonte ovidiana)]; dall’altro rilanciare la relazione con il modello di Seneca ad un livello di ‘storia della cultura e delle idee’, che, in un certo senso, potrebbe ritenersi più alto, perché svincolato dal contingente della citazione più o meno letterale dalla fonte antica. Conclude, infatti, Guastella, op. cit., pp. 204-205: “<Vediamo nel Titus, quando lo definiamo ‘senecano’> non molto più di un oggetto culturale sfocato, che risulta dalla somma di vari pregiudizi critici. Le cose cambiano se Seneca viene considerato non come il modello necessario, ma solo come uno fra i molti filoni della tradizione letteraria, a cui un autore come Shakespeare guardava contemporaneamente e senza preferenze gerarchiche. Ancora una volta, gli elementi che siamo abituati a chiamare senecani non vengono direttamente dal testo di Seneca, ma fanno parte di una complessa tradizione culturale, che li ha in gran parte sviluppati indipendentemente”. 21 status finisce addirittura per diventare, come si diceva dianzi, vero e proprio Leit-Motiv della rivisitazione senecana del mito 26 . E’ in questo clima che si inserisce l’aspirazione da parte dell’eroina a far parlar certo di sé, ma sugli argomenti dettati da lei: sarà lei a indicare il tema e a indicarne lo svolgimento attraverso il confronto fra modelli di comportamenti affini certo, ma altresì discendenti da situazioni diametralmente opposti. ......................... Effera ignota horrida, 45 tremenda caelo pariter ac terris mala mens intus agitat: uulnera et caedem et uagum funus per artus –leuia memoraui nimis: haec uirgo feci; grauior exurgat dolor: maiora iam me scelera post partus decent. 50 accingere ira teque in exitium para furore toto. paria narrentur tua repudia thalamis: quo uirum linques modo? hoc quo secuta es.rumpe iam segnes moras: quae scelere parta est,scelere linquenda est domus27. 55 In Euripide non c’è assolutamente nulla che somigli a una tale dichiarazione programmatica (paria narrentur tua repudia thalamis28), una dichiarazione che, grazie ad una raffinata antitesi lessicale e concettuale (repudia/thalamis), ammicca -e in modo non certo evasivo- alla nuova strategia concepita da Medea, una strategia, che -come dice Annalisa Németi- ha come fine quello di ricomporre la parabola esistenziale della protagonista, superando, nella continuità dello scelus, “la frattura temporale ed emotiva avvenuta in seno al rapporto amoroso”29. D’altronde che al verso senecano fosse da attribuire una tale spiegazione lo chiarisce già a metà del XIV secolo Nicola Trevet nel suo commento alla Medea di Seneca: id est sicut commisisti scelus in nupciis tuis dum, relicto patre, hosti et extraneo nupsisti, sic et ripudia tua dicantur scelerata dum ulcionem exerces in maritum te repudiantem30. Seneca, dunque, nel frangente fa trovare il suo lettore di fronte ad una forma di vera e propria metaletterarietà, non rara peraltro in altri loci della sua produzione teatrale; non solo: lo fa anche assistere in diretta al recupero memoriale che del suo passato la protagonista del dramma sta progressivamente realizzando (memoravi), nel corso di un’anamnesi feroce e drammatica, ma altresì funzionale al suo percorso a ritroso alla ricerca della propria identità da ripristinare 31 . Sarà sempre un vocabolo appartenente alla stessa famiglia, memor (Sen., 26 Cfr. Guastella, op.cit., pp.124-154. “Sono misfatti efferati, ancora sconosciuti, orribili e tremendi quelli che la mia mente sta agitando dentro di sé, e non risparmieranno allo stesso modo né il cielo né la terra. Ho inferto ferite, ho fatto a pezzi, ho portato morte di qua e di là lungo tutte le membra. Lo so: il mio ricordo si associa a delitti fin troppo blandi: e già! questi li ho commessi quando ero ancora ragazza! Un dolore più atroce, allora, si levi fuori di me! E già! Ora che ho partorito, mi si addicono reati di gran lunga più gravi. Ira, àrmati, mettici tutta la tua rabbia e prepàrati a portare distruzione! Il tuo ripudio, Medea, farà notizia allo stesso modo del tuo matrimonio”. 28 “La dichiarazione programmatica di Medea paria narrentur… -scrive la Németi, op.cit., p.151- ci pone di fronte ad una forma di vera e propria metaletterarietà, non estranea del resto al teatro senecano… Il carattere metadrammatico di Medea… viene ad inserirsi nell’ambito di una sottile complicità fra il personaggio, che porta avanti l’azione del nefas, ed il poeta che tesse la scrittura del nefas”. 29 Cfr. Németi, op. cit, pp.151-152. 30 L. Roberti (a cura di), Nicola Trevet, Commento alla Medea di Seneca, Bari 2004, ad loc. 31 Cfr. Sen. Medea ,vv. 40-50: Per uiscera ipsa quaere supplicio uiam, / si uiuis, anime, si quid antiqui tibi / remanet uigoris; pelle femineos metus / et inhospitalem Caucasum mente indue. / quodcumque uidit Phasis aut Pontus nefas, / uidebit Isthmos. effera ignota horrida, / tremenda caelo pariter ac terris mala / mens intus agitat: uulnera et caedem et uagum / funus per artus–leuia memoraui nimis: / haec uirgo feci; grauior exurgat dolor: / 27 Medea,142), a far immaginare al lettore, dall’altra parte, l’ambiguo rapporto che Giasone conserva con la memoria del suo passato. Quid tamen Iason potuit, alieni arbitri iurisque factus? debuit ferro obuium offerre pectus –melius, a melius, dolor furiose, loquere. si potest, uiuat meus, 140 ut fuit, Iason; si minus, uiuat tamen memorque nostri muneri parcat meo. Culpa est Creontis tota, qui sceptro impotens coniugia soluit quique genetricem abstrahit gnatis et arto pignore astrictam fidem 145 dirimit: petatur, solus hic poenas luat, quas debet. alto cinere cumulabo domum; uidebit atrum uerticem flammis agi Malea longas nauibus flectens moras32. Fortemente ambiguo oltre che pericolosamente allusivo si rivela, ‘per incidens’, il sintagma memorque nostri: non è difficile infatti recuperarvi, da un lato, il romantico cenno ad una storia d’amore passata nel tempo, ma ancor viva nella coscienza dell’eroina e, dall’altro, una velata minaccia nei confronti di chi unilateralmente ha scelto di non viverla più quella storia d’amore e magari di confinarla in un angolo della memoria, il più attiguo alla sede dell’oblio. “Lungo un percorso che parte dall’Ulisse omerico (cf. Od. 10,472) -scrive la Németi 33 - per giungere alle estreme conseguenze del Teseo catulliano (cfr. Catull. 64,58, 123…) o dell’Enea di Virgilio, la smemoratezza di Giasone, oblitus (v.560), immemor (cfr. Ov. Heroid. 12.16) per antonomasia, è infatti segno palese di ingratitudine, suscettibile tuttavia... di mutarsi in pericolosa vulnerabilità”. Che le cose stiano così lo rivela acutamente il moto di stupore, nient’affatto rassegnato e disarmato, con cui Medea reagisce al vile commiato del marito di un tempo. maiora iam me scelera post partus decent. E’ facile l’associazione con l’inizio della dodicesima epistola ovidiana (Ov. her., XII,1), così come è facile convenire con la Németi, secondo cui (op.cit.,p.147) “nel verbo memoravi convergono sinergicamente memoria letteraria e memoria esistenziale; con la formula ‘memoria letteraria’ si vuole alludere a quel sottile gioco di richiami intertestuali messo in atto dall’autore, un dialogo continuo con la tradizione ed i modelli di riferimento, al quale si è costantemente invitati a partecipare. Una piena conoscenza del mito di Medea, come è venuto sfaccettandosi nelle sue molteplici rielaborazioni, permette di illuminare la zona d’ombra che inevitabilmente crea l’aposiopesi dopo artus. Alla memoria letteraria si lega indissolubilmente la memoria esistenziale”. Sul memoravi e il memini ovidiano dell’eroide, cfr., inoltre, infra, n. 103. 32 “Ma cosa avrebbe dovuto fare il mio Giasone? Ormai, decidono gli altri per lui. Non è più padrone di se stesso. Certo, avrebbe dovuto almeno offrire il suo fiero petto all’arma omicida! Ma cosa mi fai dire, o mio folle rancore! Non così! Non così! Sii più buona! Se ce la fa, viva, tutto mio come sempre! Altrimenti, viva pure, ma si ricordi sempre di me e tenga sempre a cuore quello che gli ho dato. E’ tutta colpa di Creonte: lo strapotere dello scettro gli fa sciogliere le unioni coniugali, gli fa sottrarre i figli a chi li ha messi al mondo, gli fa spezzare un legame di coppia reso ancor più saldo dal pegno di una prole. Addosso a lui, ora! Solo lui deve scontare il fio! non ha scampo! Seppellirò la reggia sotto un alto tumulo di cenere. La parte più alta, nera per il fumo e avvolta dalle fiamme, la si vedrà dal Capo Maléa, quello che costringe le navi a una lenta virata”. 33 Cfr. Németi, op. cit., p.172. D’altronde, “Il tema della memoria” –aveva anticipato la Németi, op.cit., p.171- “è per eccellenza Leit-Motiv elegiaco (Prop. 1,11,5; 3,20,1; Ov. trist. 4,3,10; cfr. inoltre Verg. Aen. 4,335-336) e non a caso risuona quasi ossessivamente nelle Heroides ovidiane quale formula di amaro rimprovero che l’eroina muove all’amante lontano ed inmemor , in un tempo di attesa angosciante, sospeso fra il rimpianto del passato e la solitudine del presente: cfr. Penelope ad Ulisse in Her. 1,41… Alla smemoratezza, generalmente di segno maschile ed associata al tema del foedus ruptum, si oppone per converso il ricordo fervido della donna… tenacemente impegnata a ricostruire le coordinate spazio-temporali della propria Liebschaft”. Discessit. itane est? uadis oblitus mei 560 et tot meorum facinorum? excidimus tibi? numquam excidemus. hoc age, omnis aduoca uires et artes. fructus est scelerum tibi nullum scelus putare. uix fraudi est locus: timemur. hac aggredere, qua nemo potest 565 quicquam timere. perge, nunc aude, incipe quidquid potest Medea, quidquid non potest 34. Solo alla fine della tragedia l’amnesia di Giasone sembra fugata per sempre: il momento dell’agnizione (agnoscis,v.1021), che altrove normalmente sigla la presa di coscienza dell’atrocità del misfatto compiuto, qui è fatto ironicamente coincidere con il ritorno di memoria che induce obbligatoriamente Giasone a ricordarsi delle potenzialità, ingenuamente o stupidamente sottovalutate, di Medea maga e assassina: troppo tardi, solo il tempo di un vano imprecare e di un tardivo protestare circa l’assenza degli dèi. Medea ………………….. Misereri iubes. bene est, peractum est. plura non habui, dolor, quae tibi litarem. lumina huc tumida alleua, ingrate Iason. coniugem agnoscis tuam? sic fugere soleo. patuit in caelum uia: squamosa gemini colla serpentes iugo summissa praebent. recipe iam gnatos, parens; ego inter auras aliti curru uehar35. 1020 1025 Siamo però ancora al primo livello di riaffermazione della propria identità da parte di Medea: il fatto che ora, insomma, ci si sovvenga della sua autentica cifra non può essere affaire del solo Giasone o dei cittadini di Corinto. Il suo nefando exploit deve concorrere contestualmente a farle conseguire la fama futura, secondo una esplicita affermazione di titanica volontà, un’affermazione che non può non tradire la sua valenza metateatrale. Si quaeris odio, misera, quem statuas modum, imitare amorem. regias egone ut faces inulta patiar? segnis hic ibit dies, tanto petitus ambitu, tanto datus? 400 dum terra caelum media libratum feret nitidusque certas mundus euoluet uices numerusque harenis derit et solem dies, noctem sequentur astra, dum siccas polus uersabit Arctos, flumina in pontum cadent, 405 34 “E così se n’è andato via da me. Proprio così? Eh? Te ne vai senza ricordarti di me e di tutto quello che ho fatto per te? Mi hai spazzato via dalla tua memoria? Eh, no, non svanirò mai dalla tua mente! Dàtti da fare, chiama a raccolta tutte le tue capacità e tutte le tue arti. Il vantaggio che hai ricavato dai tuoi delitti sta nel fatto che per te il delitto non esiste. Ma mi si dà poco spazio per nuocere, perché hanno paura di me. Allora dài l’assalto da questa parte: di qui nessuno si aspetta di avere qualcosa da temere. Va avanti, ora è il momento di agire; dà inizio a tutto ciò di cui è capace Medea, e anche a quello di cui non è mai stata capace”. 35 “Cosa mi chiedi? Pietà? Ma sì: tutto è stato compiuto nel modo migliore. Mio dolore, non avevo altre vittime in più da offrirti in sacrificio. E tu Giasone, alza da questa parte i tuoi occhi gonfi, ingrato che non sei altro! La riconosci ora tua moglie? Sono io, e fuggo sempre alla stessa maniera. C’è una strada aperta in cielo per me: una copia di draghi docilmente offre il proprio collo coperto di squame al giogo. Mi raccomando, abbi cura ormai dei tuoi figli, tu che li hai generati! Io, per parte mia, mi farò trasportare su di un cocchio alato”. numquam meus cessabit in poenas furor crescetque semper–quae ferarum immanitas, quae Scylla, quae Charybdis Ausonium mare Siculumque sorbens quaeue anhelantem premens Titana tantis Aetna feruebit minis? 410 non rapidus amnis, non procellosum mare pontusue coro saeuus aut uis ignium adiuta flatu possit inhibere impetum irasque nostras: sternam et euertam omnia. Timuit Creontem ac bella Thessalici ducis? 415 amor timere neminem uerus potest. sed cesserit coactus et dederit manus: adire certe et coniugem extremo alloqui sermone potuit–hoc quoque extimuit ferox; laxare certe tempus immitis fugae 420 genero licebat–liberis unus dies datus est duobus. non queror tempus breue: multum patebit. faciet hic faciet dies quod nullus umquam taceat–inuadam deos 425 et cuncta quatiam36. E’ questa la singolare e inequivocabile ‘sphraghìs’ che mette a nudo la valenza ideologica di questa figura allo stesso modo di come metteva a nudo quella di un altro personaggio quanto mai a lei affine37: Atreo38. Si legga Seneca, Thyestes, 192-204: 36 “O sventurata, vuoi sapere fin dove puoi arrivare con il tuo odio? Régolati come quando amavi! Ed io dovrei sopportare questo matrimonio regale senza vendicarmi? Veramente rischierò di sprecare questo giorno che mi è costato tanto chiedere, che mi è costato tanto ottenere? Fino a quando la terra, rimanendo al centro, terrà sospeso in equilibrio il cielo, e il firmamento sfolgorante continuerà ad obbedire a leggi fisse, e la sabbia non conoscerà mai il numero dei suoi granelli, e il giorno terrà dietro alla notte e la notte al giorno, fino a quando il polo si avviterà intorno alle secche Orse, e i fiumi sfoceranno nel mare, giammai il mio furore troverà un limite al castigo e anzi aumenterà sempre di più; chi mai, più di me, potrebbe ribollire di sì grandi minacce? Non certo le belve più disumane, e nemmeno Scilla, nemmeno Cariddi, capaci d’inghiottire il mare di Ausonia e di Sicilia; e tanto meno l’Etna, che schiaccia sotto di sé Titano, che respira a fatica. Né un fiume in piena, né un mare in tempesta, né una distesa di acque sferzata dal maestrale, né la violenza delle fiamme favorite dal soffio del vento potrebbe arrestare la mia foga e la mia ira: sterminerò e sconvolgerò ogni cosa. Di cosa aveva paura? Di Creonte e della guerra del re di Tessaglia? Il vero amore non ha paura di nessuno. E se fosse stato costretto? E se si fosse dovuto arrendere? Almeno, però, poteva venire a trovarmi e parlarmi per l’ultima volta! Anche di questo ha avuto paura il nostro spietato eroe. E in ogni caso, come genero del re, avrebbe potuto allungare il tempo di questa crudele andata via. Un solo giorno mi è stato concesso, eppure i figli erano due. Non mi lamento: il tempo ora è poco, ma dopo si allungherà tanto! Ce la farà, questo giorno, e sì che ce la farà: farà quello che nessuno potrà mai tacere: e ora, addosso agli dèi! Giù tutto!” 37 Cfr. G.Picone, La fabula e il regno. Studi sul ‘Thyestes’ di Seneca, Palermo 1984, p.42. Questo segmento di testo sottolinea, per il Picone, “la valenza ideologica di questa figura”, oltre ad illustrare “l’enormità dell’ira che pervade il personaggio sulla scena”. Il sovrano , infatti, pone “il nefas come sovvertimento dell’ordine naturale, cui è demandato il compito di assicurare al suo autore una fama imperitura, sia pure nella disapprovazione dei posteri… Tutti i valori risultano capovolti: la virtus si esplica nel compiere la vendetta; la gloria è assicurata dalla grandezza del crimine. E tuttavia ciò non è determinato dalla malvagità individuale di Atreo, ma dalla logica interna del regnum”. La controprova è data dal ‘ritorno’ operato da Atreo sullo stesso tema ai versi 508-545 della medesima tragedia, in una cornice dominata però dalla simulazione: At. Fratrem iuuat uidere. complexus mihi /redde expetitos. quidquid irarum fuit /transierit; ex hoc sanguis ac pietas die /colantur, animis odia damnata excidant. / Th. Diluere possem cuncta, nisi talis fores. / sed fateor, Atreu, fateor, admisi omnia / quae credidisti. pessimam causam meam /hodierna pietas fecit. est prorsus nocens / quicumque uisus tam bono fratri est nocens. /lacrimis agendum est: supplicem primus uides; / hae te precantur pedibus intactae manus: /ponatur omnis ira et ex animo tumor / erasus abeat. obsides fidei accipe /hos innocentes, frater. At. A genibus manum / aufer meosque potius amplexus pete. / Vos quoque, senum praesidia, tot iuuenes, meo / pendete collo. Squalidam uestem exue, / oculisque nostris parce, et ornatus cape / pares meis, laetusque fraterni imperi / capesse partem. maior haec laus est mea, / fratri paternum Age, anime, fac quod nulla posteritas probet, sed nulla taceat. aliquod audendum est nefas atrox, cruentum, tale quod frater meus suum esse mallet–scelera non ulcisceris, nisi uincis. et quid esse tam saeuum potest quod superet illum? numquid abiectus iacet? numquid secundis patitur in rebus modum, fessis quietem? noui ego ingenium uiri 195 reddere incolumi decus: / habere regnum casus est, uirtus dare. / Th. Di paria, frater, pretia pro tantis tibi / meritis rependant. regiam capitis notam /squalor recusat noster et sceptrum manus / infausta refugit. liceat in media mihi / latere turba. At. Recipit hoc regnum duos. / Th. Meum esse credo quidquid est, frater, tuum. / At. Quis influentis dona fortunae abnuit? / Th. Expertus est quicumque quam facile effluant. / At. Fratrem potiri gloria ingenti uetas? / Th. Tua iam peracta gloria est, restat mea: / respuere certum est regna consilium mihi. / At. Meam relinquam, nisi tuam partem accipis. / Th. Accipio: regni nomen impositi feram, / sed iura et arma seruient mecum tibi. /At. Imposita capiti uincla uenerando gere; / ego destinatas uictimas superis dabo. Nel dialogo con Tieste, fingendo volontà di riappacificazione e fraterno affetto, Atreo ripone nella restituzione del regnum al supplice la possibilità, per sé, di attingere alla gloria (laus, v.527; gloria, v.538): in questo caso (in evidente antitesi con i vv. 190 sgg), il modello perseguito da Atreo è quello del rex iustus e la fedeltà a questo paradigma si esplica, coerentemente, anche nell’idea che gloria imperitura possa derivare solo da clemenza [Picone, op.cit.p.81, al proposito rinvia a Cic.Marc.3,8]. Evidente è il rovesciamento in atto rispetto ai singolari propositi di fama espressi nel primo segmento di testo, ma altrettanto evidente è il condizionamento esercitato, nell’ambito di questo secondo segmento, dal ricorso all’ipocrisia, quanto mai funzionale alla riuscita del macabro inganno. 38 Va detto, per incidens, che A. Schiesaro (Estetica della tirannia, in Seneca e il suo tempo, Atti del Convegno internazionale di Roma-Cassino - 11-14 novembre 1998, Roma 2000, pp.135-159; si tratta di un saggio poi rielaborato dallo stesso Schiesaro per il più ampio lavoro dal titolo: The passions in play. Thyestes and the Dynamics of Senecan Drama, Cambridge, 2003)] punta a rileggere il personaggio di Atreo come figura poetae. L’ipotesi interpretativa è resa valida sia a mezzo di riferimenti alla teoria poetica antica, sia, in particolare, attraverso la messa a fuoco degli specifici tratti di Atreo. Se la poesia, stando alle memorabili definizioni platoniche (Rep. 10, 603c sgg.) condivide con il “carattere tirannico” il “cedimento all’☯” (una sorta di “sonno della ragione” capace di neutralizzare ogni freno inibitorio) e la possibilità di violare la norma e agire supra… fines moris humani (Cfr. Sen. Thyestes 267-270 Nescioquid animus maius et solito amplius / supraque fines moris humani tumet / instatque pigris manibus–haud quid sit scio, / sed grande quiddam est), è Atreo, nella fattispecie, a incarnare il ‘vates-poeta’, lo scrittore “sublime” deciso a c r e a r e e porre le fondamenta per una realtà nuova, grandiosa e inaudita in nome della quale dovrà smettere di essere ignavus, iners, enervis (Thyestes 176), aggettivi che lo studioso, affidandosi a rinvii extratestuali, coglie nella loro connotazione metateatrale (metapoetica). Coerentemente con il principio di speciosum ex horrido espresso da Seneca in ad Luc. 41, Atreo rivela la propria grandezza nel delitto. D’obbligo, naturalmente, il riferimento al trattato di Longino (pur senza la pretesa di stabilire dirette relazioni di causa-effetto tra le riflessioni contenute nel Del Sublime e i caratteri drammatici di Atreo): ad ogni modo, i principi di meraviglia, smarrimento ed enorme forza di attrazione generata dalla poesia e, in particolare, dal Del Subl. 10, 6) paiono andare di pari passo con i propositi esposti dal personaggio senecano. Anche la relazione che Longino pone tra il poeta e il suo futuro prossimo e remoto (14, 3: “Se io scrivo questo, come lo accoglieranno i posteri?”) pare a Schiesaro simile all’auspicio di Atreo a godere -mediante, naturalmente, il ricorso a ciò che è maius (per il ‘maius-Motiv’ l’autore rinvia a B. Seidensticker, Maius solito: Senecas’ Thyestes und die Tragoedia rhetorica, “Antike und Abendland” 31,1985, pp. 116-136) - di imperitura fama (ma non di approvazione) nella posterità. Visto che lo studioso non manca di sottolineare lo specifico ‘metateatrale’ del personaggio di Atreo (scena di simulazione; appelli ad assistere al proprio delitto), parrebbe lecito estendere queste stesse riflessioni al carattere di Medea, giacché medesimi sono i tratti dell’eroina, capace di simulare, ossessivamente alla ricerca di spettatori che siano diretti testimoni del proprio nefas (cfr. in particolare, il finale). Quanto all’idea senecana della poesia, dei modi e delle funzioni di questa, Schiesaro rintraccia in Sen. Oed. 390 sgg. una significativa inversione del tradizionale paradigma virgiliano: la conoscenza (e la poesia) provengono secondo il parlante Tiresia, dai morti e, quindi, per catabasi, dalla comunicazione con le forze ctonie. Al contrario Virgilio in Georg. 3, 8-9 (temptanda est via, qua me quoque passim / tollere humo victorque virum volitare per ora) aveva auspicato la gloria futura per sé con immagini (non casualmente) di verso opposto: il poeta conquista la fama degli uomini, per il mantovano, allontanandosi da terra e balzando al cielo al pari di un uccello. Non sarebbe, a tal proposito, fuori luogo probabilmente meditare sul volo finale di Medea, alla luce anche di altri finali (Herc. fur., Herc. Oet., ma anche lo stesso Thyestes dove pure -con G. Paduano, Tipologie dell’apoteosi in Seneca tragico, in Seneca e il suo tempo… cit., pp. 417-431- si può parlare di apoteosi “metaforica”), in cui l’ascesa ad astra è indiscutibilmente indizio di fama (“gloria” nel caso di Ercole) presso i posteri. indocile: flecti non potest–frangi potest. 200 proinde antequam se firmat aut uires parat, petatur ultro, ne quiescentem petat. aut perdet aut peribit: in medio est scelus positum occupanti39. oppure, al momento del racconto del tragico operare di Atreo (Sen. Thyestes 743-758): CHORUS O saeuum scelus! NUNTIUS. Exhorruistis? hactenus si stat nefas, pius est. CHORUS. An ultra maius aut atrocius 745 natura recipit? NUNTIUS . Sceleris hunc finem putas? gradus est. CHORUS Quid ultra potuit? obiecit feris lanianda forsan corpora atque igne arcuit? NUNTIUS. Vtinam arcuisset! ne tegat functos humus nec soluat ignis! auibus epulandos licet 750 ferisque triste pabulum saeuis trahat– uotum est sub hoc quod esse supplicium solet: pater insepultos spectet! o nullo scelus credibile in aeuo quodque posteritas neget: erepta uiuis exta pectoribus tremunt 755 spirantque uenae corque adhuc pauidum salit; at ille fibras tractat ac fata inspicit et adhuc calentes uiscerum uenas notat40. ‘Mutatis mutandis’ la ricerca della fama per simili strade -come si anticipava all’inizioritornerà fra l’altro nel teatro shakespeariano e, in particolar modo, nella tragedia Titus Andronicus (3, 1, 133-5) : sarà lui, il nobile Titus, nel prendere coscienza dell’assurdo torto fattogli subire da Talora, regina dei Goti, e nel contemplare il corpo mutilato di sua figlia Lavinia, cui sono state mozzate le mani e troncata la lingua, sarà lui, dicevo, a meditare una vendetta che farà parlare a lungo: “What shall we do? Let us that have our tongues / Plot some device of further misery / To make us wondered at in time to come”. La ‘presumibile’ citazione senecana, poco importa se tratta dalla Medea o dal Thyestes, non vuol banalmente significare -ribadisco quanto già detto poc’anziuna dipendenza univoca del tragediografo inglese da questi specifici precedenti latini del poeta di Cordova, ma vuol dar possibilmente ancor più ragione a quanti come lui pongono la relazione con il modello di Seneca ad un livello di “storia della cultura e delle idee”: a conferire originalità a questo riuso shakespeariano contribuirà peraltro l’innovazione da lui introdotta nel momento in cui Titus 39 “Su, anima mia, fa qualcosa che la posterità non possa mai approvare, ma nè anche mai passare sotto silenzio. Devo osare un’infamia atroce, sanguinosa, tale che mio fratello l’avrebbe desiderata sua. Non puoi vendicarti di un crimine se non lo superi. E che può esserci di tanto crudele da andare oltre Tieste? Forse soggiace alla sua abiezione? Forse accetta una misura nella prosperità e la serenità nella disgrazia? Conosco bene, io, l’indole ribelle di quest’uomo: non lo si può piegare. Ma lo si può spezzare. Dunque, prima che si rinsaldi e raccolga le forze, lo attaccherò di mia iniziativa, perché non mi attacchi lui mentre sto in pace. O mi ucciderà o resterà ucciso: il delitto giace fra noi due, offerto al primo che lo colga” (trad. di Giancarlo Giardina). Cfr., su questi loci paralleli del Thyestes e della Medea di Seneca, il commento di R.J. Tarrant, Seneca’s Thyestes, Atlanta 1985, ad loc. 40 “CORO : Che atroce delitto ! NUNZIO : Rabbrividite d’orrore ? se questa infamia si arrestasse a questo punto, quello potrebbe essere definito un uomo pio. CORO: Forse che la natura può accogliere qualcosa di più immane o di più atroce? NUNZIO: Credi che sia questo il termine finale del delitto? Ne è solo un gradino. CORO: Cosa ha potuto oltre un tale limite? Forse ha gettato in pasto alle belve i loro corpi e li ha sottratti al fuoco della cremazione? NUNZIO: Magari li avesse sottratti al fuoco! Facciano pure il caso che la terra non ricopra questi morti o il fuoco non li dissolva; li trascini pure a far da pasto agli uccelli o da triste pascolo per le belve feroci; sotto questo tiranno sarebbe auspicabile ciò che normalmente è un supplizio: che il padre possa vederli insepolti! Che misfatto incredibile in qualsiasi tempo, tale che la posterità non potrà ammettere che sia avvenuto! Estratte dai petti ancor vivi palpitano le viscere e respirano le vene e il cuore ancor spaventato sussulta; ma quello ne tasta le fibre, vi scruta il destino e osserva le vene ancor calde delle viscere”(trad. di Giancarlo Giardina) penserà di rimediare all’handicap della figlia, impedita nell’uso dello strumento più naturale di comunicazione, ossia la lingua, con un ancor più eloquente crimine, destinato a tradursi in una disumana dimensione cannibalica. Tutto, dunque, è mirato al conseguimento di un ambizioso progetto, quello che, all’inizio del mio discorso, accomunava poeti, artisti e uomini di Stato: il desiderio di fama presso i posteri. Cambia la tipologia del monumentum, al quale i personaggi della tragedia senecana affideranno appunto la funzione di trasmettere e conservare il ricordo. Nella loro perversa interpretazione delle conseguenze dell’ira e della vendetta, questo monumentum coinciderà con il nefas 41 , un valore nettamente invertito rispetto a quella virtus, che, come si è visto in precedenza, assicura eterna memoria nei secoli a venire. Siamo al capovolgimento della morale generalmente condivisa: “la virtus si esplica nel compiere la vendetta; la gloria è assicurata dalla sproporzionata grandezza del crimine”42. Di qui l’appello ai posteri: anche loro, nell’unica forma ad essi consentita (ossia la fama o la fabula teatrale), dovranno essere testimoni del delitto commesso: l’aspirazione, se per un verso -si è visto- è il frutto di un prevedibile processo di amplificazione del ‘principio spettacolare’ che regola la vendetta anche nell’ hic et nunc, per l’altro verso risponde all’esigenza per questi due personaggi, Atreo e Medea, di non ‘essere da meno’ rispetto al proprio passato (e presente) mitologico-letterario di cui essi hanno piena coscienza. Il riconoscimento che verrà in futuro sarà, com’è ovvio, indiscutibile segno di un potere che si prolunga oltre la morte e che persino esula dalla volontà dei posteri43. Questo, dunque, prevede il copione: mentre progetta e agisce, Medea sta già pensando al successo futuro della sua ‘performance’, sta già acquisendo coscienza del suo stesso configurarsi in futuro come personaggio di enorme spessore letterario44; inaspettatamente, insomma, sta lei stessa 41 E’ d’obbligo qui il riferimento a G.G.Biondi, Il nefas argonautico. Mythos e Logos nella Medea di Seneca, Bologna 1984, pp.44sgg: l’alterazione subita dal mare e, per espansione, dal cosmo in seguito all’audace viaggio per mare intrapreso dagli Argonauti prevede una vendetta analoga a quella sospirata e meditata da Medea,anche lei vittima -per volontà di Giasone- di una rottura dei propri equilibri sociali e psicologici. 42 Cfr. G.Picone, op.cit., p.42. 43 Cfr. C.A.J., Littlewood, Self-Representation and Illusion in Senecan Tragedy, Oxford 2004, pp.180 sgg.: il desiderio di fama presso i posteri (che lo studioso rileva per il solo Atreo, in Sen. Thyest. 192 sgg.) trova giustificazione all’interno della più ampia strategia – questa volta registrata e nel Thyestes e nella Medea - di messa in opera di una vera e propria ‘regia’ teatrale, prerogativa, questa, rivendicata in più occasioni – con movenza evidentemente metascenica - dai due protagonisti in preda al furor. Se Atreo punta ad essere universalmente noto in fabula presso coloro che verranno (ma si è visto che l’aspirazione è condivisa dall’eroina colchica), analoga sarà in entrambi i personaggi la ricerca di un pubblico (audience) che v e d a, assista allo scelus prossimo ad essere inscenato. Si tratterà, naturalmente, di audience non volontaria ed anzi coatta (cfr. Thyest. 892 sgg.: Utinam quidam tenere fugientes deos / possem, et coactos trahere, ut ultricem dapem / omnes viderent – quod sat est, videat pater; Med. 44-7; 992-4) e, in entrambi i casi, la reazione degli “spettatori involontari” sarà di orrore dinanzi al nefas cui, loro malgrado, avranno assistito (cfr. Thyest. 627-32; Med. 1026-7). 44 Cfr. Schiesaro, The passions in play… cit., p. 18. I vv. del Thyestes qui oggetto di esame sono accostati a Med. 52 sgg. Medesima, in Atreo e Medea, l’aspirazione a far parte della fama futura, elemento, questo, interpretato dallo studioso nella sua cifra metateatrale. La stessa tragedia in scena, infatti, sarebbe in primis compimento effettivo degli auspici dei due personaggi. La Medea di Seneca, dunque, sarebbe non solo eroina protagonista di “tragedia che ha per argomento se stessa” (“tragedy about herself” definizione attribuita all’opera euripidea da Wilamowitz-Moellendorff, U. von, Euripides. Griechische Tragödien, III, 162, Berlin, 1919), ma anche un personaggio consapevole del proprio spessore letterario. A pp.43sgg. lo studioso torna sull’argomento con ulteriori precisazioni: nell’aspirazione di Atreo e Medea a eternarsi nella parola dei posteri (i vv. citati sono ancora Thyest. 192-193 e Med. 52-53), infatti, Schiesaro vede soltanto uno dei segni del perenne conflitto tra discorso e non-discorso, ovvero tra poesia tragica preposta ad esprimere il nefas (ciò che non si può dire e che tuttavia la parola tragica, a-moralmente, rivela) e silenzio generato (e generabile) solamente dal non compimento del nefas (cfr. “moralità repressiva del silenzio”). Lo scontro, che per lo studioso percorre l’intero dramma, è inaugurato nel prologo dal faccia a faccia tra l’ombra di Tantalo (impotente, passiva spettatrice propensa a respingere il nefas) e la Furia (che, al contrario, rifiuta qualsiasi inibizione: v. 39: nihil sit ira quod vetitum putet). A vincere, naturalmente, sarà la parola e, in tal senso, la fabula tragica in sé (e, in particolare, l’auto-presentazione di Atreo, ma anche di Medea) ne sarà una prova inconfutabile. Il mandato eversivo della poesia è evidente: dare voce, contro la morale comune, al nefas, ossia a quel che la censura prevede sia taciuto mediante damnatio memoriae (cfr. Sen. Ad Marc. 1, 4 a proposito dei carnificum scelera del passato, che passeranno sotto silenzio e, di contro, Tac. Ann. 6, 7, 5, sull’opportunità di dare voce ai pericula et poenas che altri autori di storia di dando vita, mentre la toglie ai figli, a una sapiente regia teatrale con tanto di passione in scena e con tanto di spettatori fissi e ammutoliti a guardare: poco importa se sono spettatori tragicamente coinvolti e se avrebbero volentieri fatto a meno, se non costretti, di assistere a quello scempio di innocenti e a quel naufragio di umanità. MEDEA … paenitet facti, pudet. quid, misera, feci? misera? paeniteat licet, 990 feci. uoluptas magna me inuitam subit, et ecce crescit. derat hoc unum mihi, spectator iste. nil adhuc facti reor: quidquid sine isto fecimus sceleris perit45. La recita è andata bene: l’unico spettatore, il perfido Giasone, è ora invitato a lasciare il luogo della rappresentazione e a meditare sulla tragedia che ha visto, che è poi la sua stessa tragedia46: c’è una movenza inequivocabile a dare il segno del ‘si cali il sipario’, una movenza pregna di storia culturale e di retorica della comunicazione, un concentrato di fiero sarcasmo e di malcelata soddisfazione: i nunc!47 MEDEA Congere extremum tuis natis, Iason, funus ac tumulum strue: coniunx socerque iusta iam functis habent a me sepulti; gnatus hic fatum tulit, 1000 hic te uidente dabitur exitio pari. IASON Per numen omne perque communes fugas torosque, quos non nostra uiolauit fides, iam parce nato. si quod est crimen, meum est: me dedo morti; noxium macta caput. 1005 MEDEA Hac qua recusas, qua doles, ferrum exigam. i nunc, superbe, uirginum thalamos pete, relinque matres48. certo avrebbero omesso: cfr., al proposito, T. J. Luce, Tacitus on “history’s highest function”: praecipuum munus annalium (Ann. 3, 65), “ANRW” 11, 33, 4, Berlin 1991, pp. 2904-2927). 45 “Mi pento di quello che ho fatto, che vergogna! Disgraziata, che ho fatto? Disgraziata? E perché? Anche se me ne pento, l’ho comunque fatto. Un piacere intenso si insinua in me e pian piano, ecco, mi allaga. Una cosa soltanto mi mancava, avere questo qui come spettatore. Finora è come se non avessi ancor fatto nulla di importante: qualsiasi misfatto ho compiuto, senza questo qui davanti, è come se fosse andato sciupato”. 46 Su questo particolare ‘scenico’, che caratterizza la ‘performance’ della Medea senecana, cfr. R. Trombino, Spectator in fabula: lo spettatore dentro al testo nel teatro di Seneca, “QCTC” 8 (1990), pp.109 sgg. 47 Sulla valenza espressiva e comunicativa di questo stilema, cfr. D.Gagliardi, I Nunc: per la storia di uno stilema poetico, AA.VV, Studi in onore di Anthos Ardizzoni, Roma 1978, pp.375-379 e, ancor prima, E. B.Lease, I Nunc and I with another Imperative, “AJPh” 19 (1898), pp.59-69. 48 “MEDEA: E adesso dèdicati al funerale dei tuoi figli, Giasone, innalza il rogo. Per tua moglie e per tuo suocero il funerale dovuto è cosa fatta: ci ho pensato io a seppellirli; questo figlio qui ha già finito di vivere; quest’altro ha bisogno che tu lo veda mentre farà la stessa fine. GIASONE: Per tutti gli dei, per tutte le volte che siamo fuggiti insieme, per quel nostro talamo, che la mia lealtà non ha mai tradito, basta! Risparmia almeno questo figlio! Se un crimine è stato perpetrato, la colpa è solo mia. Eccomi: sono pronto a pagare con la morte; sacrifica questa mai vita! MEDEA: Eh, No! E’ li che non vuoi? E’ lì che ti fa male. Ebbene, è proprio lì, invece, che ti trafiggerò. E adesso, va pure, vàntati se riesci! Infìlati ancora nei letti delle ragazze da marito! E continua ancora a lasciare il letto di chi hai reso madre!”. In tutta questa peculiare proposta, culturale e scenica, del ruolo di Medea -è forse superfluo ribadirlo- Seneca ha le sue enormi responsabilità o i suoi enormi meriti (dipende dai punti di vista!): ha infatti, risagomato il personaggio proiettandolo verso un’apoteosi (una sorta di raddoppio del volo sul carro alato con il quale si sottrae alla punizione) guadagnata con la pratica della vendetta più sanguinaria, anziché del bene verso la patria o verso la collettività. Medea, per mano di Seneca, fonderà un modello di teatro della comunicazione, perverso nei contenuti, ma efficace negli effetti, se è vero, come è vero, che ancor oggi non si fa che parlare di lei. *Medea: da Seneca a Cherubini 1.Le inutili metamorfosi del mito Che strano destino quello dei personaggi del mito: di generazione in generazione, infatti, ogni volta che capitano nel laboratorio di un nuovo scrittore/rifacitore sono costretti infaticabilmente a ripercorrere il loro cammino esistenziale così come per loro è stato tracciato dagli autori originari della fabula: si illudono, nella loro secolare ingenuità, che alla fortuna letteraria e artistica, che li riguarda, si associ finalmente la fortunata eventualità che lo scrittore di turno possa ‘fingere’ per loro un nuovo exitus; si illudono che, se davvero è impossibile il tanto auspicato ‘lieto fine’, almeno tocchi loro un exitus meno drammatico di quello impostogli dal primo ideatore (i Ingenui, dicevo: perché, anche se greci direbbero dal ☺ ). si prospetta loro un diverso intreccio, inesorabilmente la fabula che essi dovranno recitare andrà diritta verso un finale tragicamente fin troppo noto e, d’altronde -diciamolo pure- fin troppo atteso. Chiedete notizie al personaggio di Euridice! Costei ha sperato che Orfeo, nelle ‘performances’ successive alla ‘prima’, non si distraesse e soprattutto non si girasse in preda a un assurdo errore o a un esagerato amore; Euridice ha sperato che l’appassionato e appassionante cantore la lasciasse arrivare definitivamente alla luce e la sottraesse con la forza della musica al mondo dei morti. E invece cos’è successo? E’ successo che non solo Orfeo ha continuato a girarsi, infrangendo incautamente e anche pervicacemente il divieto, ma addirittura -nella riscrittura di Cesare Pavese, ad esempio- provocando lo straniamento tipico dell’inatteso (i greci lo chiamerebbero ), lo ha fatto in piena coscienza, avendo compreso che la sua Euridice, dopo il soggiorno presso l’Ade, non sarebbe stata più la stessa. E così la sfortunata ‘eroina’ si è ritrovata per sempre, suo malgrado, alla corte di Proserpina, né ha più trovato nell’incredibile leggerezza compiuta da Orfeo la rassegnata ragione della sua emarginazione definitiva dal mondo dei vivi: anzi ha dovuto scoprire, grazie all’intellettuale del Novecento, che è stato Orfeo, sua sponte, a confinarla per sempre lì, dopo l’iniziale illusione -subito accantonata- che la cosa più importante fosse la restituzione, a tutti i costi, della sua donna.Stessa fatale conclusione anche per il personaggio di Medea e dei suoi figli, di Giasone e di Creusa, nonché del re Creonte, nonostante il tentativo di modificare l’iter, ormai scontato, della vicenda dei protagonisti di quel tragico mito: succederà per lo più che Giasone, dopo che Medea -a prezzo di mille misfatti- lo ha aiutato a superare infinite prove fino alla conquista del vello d’oro, una volta giunto a Corinto accoglierà la proposta, lui già sposato con la maga della Colchide, di convolare a nuove nozze con Creusa, la figlia del re Creonte; succederà che Medea proverà a dissuaderlo, proverà a non farsi mandare in esilio, proverà ad appellarsi alle ragioni di moglie e di madre di due figli avuti da quel marito fedifrago; succederà che, sfinita dall’umiliazione e sviata dalla folle gelosia, Medea si vendichi uccidendo con finti regali la nova nupta e di conseguenza il di lei padre, accorso a spegnere disperatamente l’incendio che bruciava il corpo della principessa corinzia; succederà che Medea arrivi a meditare e a eseguire un assurdo e al tempo stesso logico infanticidio, pur di far soffrire Giasone e avere ancora qualcosa in comune con lui, foss’anche l’indicibile dolore di genitori che hanno, per così dire, perso i propri figli. Tutto già scritto, quindi; un autentico ‘déjà vu’: ineluttabilmente, nonostante la loro velleitaria aspirazione a ‘cambiare vita’. Si pensi proprio a Creusa, e al patetico tentativo di cambiarle il nome: nelle diverse pièces, ella proverà a chiamarsi Glauce in Corneille, Dircé in Cherubini, ma impietosamente farà sempre la stessa fine. E sì, perché talvolta è successo che a ‘implorare’ un diverso finale fossero gli attori più ‘deboli’ e più ‘innocenti’ di quella fabula, convinti che l’autore, di cui erano andati ‘in cerca’, ricamasse per loro una salvifica ‘via di fuga’ rispetto all’ineluttabilità della loro sorte teatrale. Hanno avuto fiducia, ad esempio, in Pierre Corneille, contando sulle ovvie ragioni legate alla ricerca di originalità da parte del tragediografo francese. Pierre Corneille nel frangente, secondo quanto da lui stesso confidato in un ‘avant-propos’ (una sorta di introduzione ragionata), ha provato a salvare da quella terribile morte Creusa/Glauce e suo padre facendo entrare in gioco Polluce, uno degli Argonauti compagni di Giasone. Polluce, appunto, ha provato a insinuare nell’animo di Creonte il legittimo sospetto che i doni di una maga ‘di professione’ potessero essere davvero letali; il virgiliano timeo Danaos et dona ferentes, nella sua dimensione ormai proverbiale, da tempo infatti metteva in guardia dall’accettare regali da gente nota per la sua astuzia e la sua perfidia; questa legitima suspicio ha indotto dunque il sovrano di Corinto a sperimentare la presenza di un eventuale inganno, di cui la corona e il peplo fossero agenti, sulla pelle di una donna/cavia, su di una criminale già condannata a morte e il cui nome nella pièce di Corneille è Nise: in effetti quei doni al momento sono risultati innocui. Che umana leggerezza quella del re! tutta la cautela messa in campo non è però servita a nulla, perché all’improvvido padre di Creusa è sfuggita la diabolica ipotesi che quei doni avessero un unico inequivocabile destinatario, sul cui corpo sprigionare la violenza del fuoco, portatore di morte: quel destinatario sarebbe rimasto, ossessivamente, Glauce, sua figlia, cui si sarebbe aggiunto, per espansione, il re medesimo. Dopo l’esordio nel 431 a.C. ad Atene per mano di Euripide, dunque, il faticoso viaggio storico e culturale, che porta questi personaggi, stremati da tanto girovagare (i latini direbbero errare), a calcare il palcoscenico del Teatro Feydeau a Parigi, il 13 marzo del 1797, sembra registrare una ‘stazione’ importante: in quel teatro, e non -come vedremo più in là- in quello più degno di accogliere materia tragica, si rappresenta l’ opéra-comique ‘Médée’; il libretto è quello di F.-B. Hoffman, la musica è quella di Luigi Cherubini; l’artata modifica dell’intreccio, nei fatti, si è accompagnata, nel frattempo, all’esasperazione degli specifici tratti emozionali, distintivi dell’agire dei singoli personaggi: la paura del ripetersi dell’infausto finale si alterna alla debole speranza che il circuito della violenza e della vendetta si interrompa (di queste oscillanti sensazioni si fanno attori Creusa/Dircée, Giasone e il re Creonte stesso); d’altra parte l’odio si intensifica di pari passo con la passione amorosa giungendo a un’insopportabile tensione che sfocerà nella disumana follia dell’infanticidio (di questo ossimòro sentimentale è Medea a farsi carico): a conti fatti, però, i moderni hanno portato semplicemente a maturazione quei semi strategicamente sparsi dai veteres auctores, ‘in primis’ Euripide, ma ‘in extenso’ i recentiores Ovidio e Seneca. Quelle curae (“gli affanni”), quegli adfectus (“i sentimenti”) delle dramatis personae del mondo classico hanno semplicemente trovato un altro canale comunicativo, quello dello spartito musicale, quello delle note, spartito e note che hanno assicurato un tono ancor più drammatico e incisivo alla disperazione di una donna tradita e ai propositi di vendetta nei confronti di chi ha minato la felicità coniugale di un tempo. In questa prospettiva, l’ ouverture del maestro Cherubini immette di fatto nello stato d’animo di quest’eroina stanca di essere umiliata, ma sempre più intenzionata a portare avanti il riscatto della propria identità. 2. Le ‘note’ di Medea: l’ouverture della Médée di L. Cherubini (1797) Nel 1925, dalle pagine della prestigiosa rivista “Neues Beethoven-Jahrbuch”, Arnold Schimtz poneva a confronto il fraseggio di Luigi Cherubini con quello di Ludwig van Beethoven49: servendosi di argomentazioni quanto mai serrate e convincenti, il musicologo individuava nel ‘sinfonismo’ del compositore di Bonn, nella grandiosità del suo eloquio musicale e nelle masse 49 A. Schmitz, Cherubinis Einfluss auf Beethovens Ouvertüren, “Neues Beethoven-Jahrbuch” 2 (1925), pp. 104-118. Per parte mia dichiaro fin d’ora i miei debiti di riconoscenza nei confronti della mia allieva Tiziana Ragno, della cui competenza nel campo musicale mi sono ‘generosamente’ giovato nel corso dell’intero capitolo. sonore che giganteggiavano specie nelle sue ‘Ouvertüren’, il segno più evidente del “Cherubinis Einfluss”. Ironia della sorte, al fiorentino Cherubini50, trasferitosi a Parigi negli anni che precedettero la presa della Bastiglia, toccò quasi sempre fare i conti con le definizioni (discutibili, ma efficaci) che fecero di lui un compositore “pre-beethoveniano”, un “anticipatore” di stilemi e di architetture musicali che, negli anni a venire, sarebbero state più consapevolmente elaborate e perfezionate dall’amico e collega d’oltralpe. Cherubini, insomma, la cui memoria ha dovuto spesso misurarsi con quella di Beethoven, è parso essere (a torto o a ragione) una felice ma minore “prolessi” di un grande, inarrivabile genio51. Così è stato anche per la notissima ‘ouverture’, esempio eccelso di musica sinfonica tardosettecentesca, che Cherubini pose ad esordio della sua Médée, andata in scena per la prima volta (con grande successo di pubblico e di critica52) a Parigi nel 179753. Questa sinfonia d’apertura, 50 A proposito della vita e delle opere di Cherubini, cfr. soprattutto E. Bellasis, Cherubini: Memorials Illustrative of his Life and Work, London 1874 (19052; 19123; rist. 1971 con il catalogo delle opere tratto da A. Bottée de Toulmon, Notice des manuscrits autographes de la musique composée par feu M. L. C. Z. S. Chérubini, Paris 1843 [rist. 1967]); R. H. Hohenemser, Luigi Cherubini: sein Leben und seine Werke, Leipzig 1913; G. Confalonieri, Prigionia di un artista: il romanzo di Luigi Cherubini, Milano 1948; V. G. Haft, Cherubini: a Critical Biography, diss. Columbia U. 1952; A. Damerini, (a cura di), Luigi Cherubini e il II centenario della nascita, Firenze 1962; C. F. Reynolds, Luigi Cherubini, Ilfracombe 1963; B. Deane, Cherubini, London 1965; C. G. Parker, A Bibliography and Thematic Index of Luigi Cherubini’s Instrumental Music, diss. Univ. of Kent State 1972; S. C. Willis, Luigi Cherubini: the Middle Years, 1795-1815, Ann Arbor 1981; V. Della Croce, Cherubini e i musicisti italiani del suo tempo, 2 voll., Torino 1983. In particolare, sulla sola produzione operistica di Cherubini, si soffermano, fra gli altri: M. J. S. Selden, The French Operas of Luigi Cherubini, diss. Yale U. 1951; S. C. Willis, Cherubini: from Opera Seria to Opéra Comique, “Studies in Music” 7 (1982), pp. 155-182. 51 L’argomento è fatto oggetto di specifica indagine da J. Boyer, Sur les relations de Beethoven avec Chérubini, “Revue de Musicologie” 36 (1954), pp. 134-142. Successivamente R. C. Marek (The Use of Harmonic Patterns of Similar Sonorities in the Music of Gluck, Haydn, Cherubini, and Beethoven, Diss. Univ. of Rochester 1957) ha esteso il confronto anche a Gluck e Haydn, specie sulle scelte armoniche praticate dai singoli compositori. 52 Ne sono testimoni le cronache, più che positive, pubblicate dai fogli quotidiani l’indomani della ‘prima’. A titolo d’esempio, qui si cita la sola recensione (la prima, in ordine di tempo) apparsa sul numero del Courier des Spectacles, datato 14 marzo 1797: “Jamais première représentation n’attira plus de monde que l’on en vit hier au théatre Feydeau. La tragédie lyrique [sic !] de Médée a eu le succès le plus brillant et le plus mérité. La musique, à laquelle on ne peut donner trop d’éloges, est de M. Cherubini [...] les décorations sont magnifiques, enfin rien n’a manqué pour rendre cet opéra digne de la plus grande admiration [...]”. Un utile resoconto e un’utile raccolta delle cronache coeve alla prima rappresentazione sono riportati da Della Croce, op.cit., I, 270 sgg. 53 La bibliografia avente per oggetto la Médée cherubiniana annovera, fra i più recenti studi, una dissertazione di Tsippi Fleischer (T. Fleischer, Luigi Cherubini’s Médée (1797): A Study of Its Musical and Dramatic Style, Un. of Bar-Ilan 1995), alla quale ha fatto seguito un più sintetico contributo della medesima autrice (T. Fleischer, The opera Médée by Luigi Cherubini (1797): overview, sources, and cuts, “Israel studies in musicology” 6 [1996], pp. 133-152). Su questo melodramma, specie sulla genesi del libretto e sui rapporti con le possibili fonti, si è, inoltre, soffermato in più sedi Paolo Russo (P. Russo, Visions of Medea: Music-dramatic transformations of a myth, “Cambridge Opera Journal”, 6.2 [1994], pp. 113-124, poi pubblicato con poche variazioni in Russo, Attraverso Médée, in Id., La parola e il gesto. Studi sull’opera francese nel Settecento, Lucca 1997, pp. 193-206). Le relazioni con i precedenti letterari – anche antichi – più noti sono state oggetto d’indagine (talora analitica, talora soltanto sommaria) anche da parte di J. Schondorff (a cura di), Medea: Euripides, Seneca, Corneille, Cherubini, Grillparzer, Jahn, Anouhil, Jeffers, Braun, München 1963; C. Dalhaus, Euripide, il teatro dell’assurdo e l’opera in musica. Intorno alla recezione dell’antico nella storia della musica, in L. Bianconi (a cura di), La drammaturgia musicale, Bologna 1986, praes. pp. 294-298 (pp. 281-308); D. Del Corno, Medea in musica: una figura del mondo classico nel melodramma, in R. Uglione (a cura di), Atti delle giornate di studio su Medea (Torino, 23-24 ottobre 1995), Torino 1997, pp. 112-113 (pp. 107-115); L. Belloni, Tre Medee, Euripide, Cherubini, Grillparzer. E una postilla su Norma, “Lexis” 16 (1998), pp. 63-75; C. Rauseo, Von Médée zu Medea: von Corneille zu Cherubini, in H. Thorau – H. Kohler (a cura di), Inszenierte Antike – die Antike, Frankreich und wir: neue Beiträge zur Antikenrezeption in der Gegenwart, Frankfurt 2000, pp. 221-234. Sui possibili apporti venuti, in particolare, da Seneca si è di recente soffermata Sabrina Trentin (S. Trentin, Seneca fonte di Médée di Luigi Cherubini,”Rivista Italiana di Musicologia” 36 [2001], pp. 25-63). Va detto che la bibliografia prodotta negli anni passati, su questioni sia specificamente musicali sia librettistiche, non appare particolarmente cospicua (probabilmente anche a causa della scarsa fortuna della quale, per ragioni storico-musicali, ha goduto quest’opera: cfr. infra); tra gli altri studi, qui si ricordano: E. Prout, Some Forgotten Operas, IV: Cherubini’s Medea, “The Monthly Musical Record” 35 (1905), pp. 21-25; 41-46; 62-65; A. Lega, Cherubini e l’opera ‘Medea’: cenno biografico con brani musicali, infatti, deve parte della sua notorietà proprio a Beethoven: ai suoi sperticati elogi, in primis (fu la sua “musica del cuore”, come ebbe a dire il biografo Anton Schindler54), e, inoltre, ai marcati tratti di nuovo ‘pre-beethoveniani’, che critici e musicologi hanno voluto attribuirle55. D’altro canto, si è pronti ormai a riconoscere che la “tempesta e assalto” (Sturm und Drang), che erompe da questa pagina orchestrale, sia il frutto della sapienza contrappuntistica autenticamente cherubiniana, unita alla capacità, che fu sempre del compositore, di farsi interprete degli emergenti orientamenti estetico-musicali56 e dei loro principali connotati: il tumultuoso ed incalzante patetismo delle frasi, l’urgenza di dare adeguata espressione formale e timbrica anche alle emozioni più intense, la volontà di ‘tradurre’ in suoni persino i recessi più inquieti e cupi dell’umana psiche. Questi tratti rivendica, al fondo, l’icastica e ponderatissima ouverture della Médée cherubiniana. Vi si odono da un lato la forza inarrestabile del desiderio e del destino di vendetta (quello che toccherà alla fiera principessa della Colchide, vittima della perfidia del suo fedifrago Milano 1909; A. Damerini, Rivive Medea di Cherubini, “Rivista Musicale Italiana” 1vi (1954), pp. 61-67; M. Cooper, Cherubini’s Medea, “Opera” 10 (1959), pp. 349-355; A. L. Ringer, Cherubini’s Médée and the Spirit of French Revolutionary Opera, in Essays in Musicology in Honor of Dragan Plamenac, Pittsburgh 1969 [rist. 1977], pp. 281299; J. Malte Fischer, ‘Die Wahrheit des weiblichen Urwesens’. Medea in der Oper, in H. Flashar (a cura di), Tragödie. Idee und Transformation, Colloquium Rauricum Band 5, Stuttgart-Leipzig 1997, pp. 116-120 (pp. 110-121); M. McDonald, Medea è mobile: The Many Faces of Medea in Opera, in E. Hall – F. Macintosh – O. Taplin (a cura di), Medea in performance, 1500-2000, Oxford 2000, pp. 112-115 (pp. 100-118). Sempre utili, sebbene prevedibilmente generiche e quasi mai esaustive, le voci dedicate all’argomento dai correnti repertori enciclopedici; tra gli altri: B. Deane, s.v. Cherubini, Luigi, in S. Sadie (a cura di), The New Grove Dictionary of Music and Musicians, London 1980, vol. 4, pp. 203-213, praes. 206; V. Della Croce, s. v. Cherubini, in A. Basso (a cura di), Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, Torino 1985, vol. 2, pp. 321-326; K. Hortschnsky, Cherubini, Médée, in C. Dalhaus (a cura di), Pipers Enzyklopädie des Musiktheaters, München-Zürich 1986, vol. 1, pp. 558-561; Y. Ferraton – P. Prevost, Médée, in Dictionnaire des oeuvres de l’art vocal, Paris 1991, vol. 2, pp. 1216-1218; S. C. Willis, s.v. Médée (II) (‘Medea’). Opéra comique in three acts by LUIGI CHERUBINI to a libretto by FRANÇOIS-BENOÎT HOFFMAN, in S. Sadie (a cura di), The New Grove Dictionary of Opera, London 1992, vol. 3, 297-298; Id., s.v. Cherubini, (Maria) Luigi, in S. Sadie (a cura di), The New Grove Dictionary of Opera, London 1992, vol. 1, 833-837, praes. 835; A. Batisti, s.v. Médée, in P. Gelli (a cura di), Dizionario dell’opera, Milano 1996, pp. 804-806. 54 Cfr. A. Schindler, Biographie von Ludwig van Beethoven, München 1860. La nota sulla predilezione di Beethoven verso l’ouverture di questo melodramma cherubiniano è riportata, fra l’altro, da A. Porter, Una musica assassina, “Amadeus” 2,1 (2003), p. 25 (pp. 25-31). Tra i giudizi “illustri” che di norma si citano, a proposito di questa sinfonia e, più in generale, dell’intera Médée, particolarmente celebre è quello espresso da Johannes Brahms, il quale ebbe a definire quest’opera di Cherubini “das Höchste an dramatischer Musik” (cfr. M. Kalbeck [a cura di], Johannes Brahms, Berlin 1910, vol. 2.2, p. 367), aggiungendo, in altra sede, che “Über Tristan werden wir mit dem Schwatzen nicht fertig, und dies herrliche Werk nehmen wir so stillschweigend, so ganz selbstverständlich hin” (J. Brahms, Briefwechsel, vol. 7, Berlin 1910, p. 83). 55 E’ quanto meno significativo, in tal senso, l’esordio con il quale Eduardo Rescigno [E. Rescigno (a cura di), Guida all’ascolto, “Amadeus” 2,1 (2003), p. 44 (pp. 44-72)] avvia la guida all’ascolto di questa sinfonia: “Se a qualcuno degli ascoltatori fosse sfuggita la data, ritengo opportuno ricordargliela: il 1797. Come dire che Coriolano (1807) ed Egmont (1809), ma anche Sonata ‘Patetica’ (1798-99) e Quartetto op. 18 n. 4 (1798) erano di là da venire”. Con argomentazioni non sempre convincenti, G. Dalfone (Il teatro tragico greco in… Musica. Riflessioni su Ifigenia in Tauride di Piccinni e su Medea di Cherubini, Fasano 1997, pp. 20 sgg.) estende il confronto con Beethoven all’intera opera cherubiniana e, in generale, alla “mostruosa fatalità del destino” che s’impone in questa Médée; lo studioso, nel frangente, non si sottrae a suggestive (e tuttavia assai rischiose) annotazioni in ordine alla presunta posizione ideologica dei due compositori, sottolineando la differenza tra “Beethoven […], acceso estimatore e sostenitore della filosofia di Kant, del suo imperativo categorico, dell’uomo che si impone e vince persino il Destino” (così nella Quinta Sinfonia), e Cherubini, per il quale (così, almeno, nel melodramma dedicato alla maga colchica) “l’uomo non può nulla contro il Fato, il Destino” (Dalfone, op. cit., p. 21). Va detto che un certo colore per così dire “beethoveniano” è stato sovente riconosciuto non soltanto alla sinfonia di apertura, ma anche ai due preludi posti ad esordio del secondo e del terzo atto (cfr., e. g., Della Croce, op. cit., II, p. 362: “[…] questi due brani che nulla hanno da invidiare al primo [scil. alla sinfonia di apertura] e, anche più di questo, potrebbero esser tranquillamente firmati dal Beethoven più maturo”). 56 Già H. Kretzschmar, Über die Bedeutung von Cherubinis Ouvertüren und Hauptopern für die Gegenwart, “Jahrbuch der Musikbibliothek Peters” 13 (1906), pp. 75-91 individuava ed analizzava le influenze esercitate, fra l’altro, dalle ‘ouvertures’ cherubiniane su stili musicali anche di molto successivi. In particolare, sulla sinfonia di apertura ad introduzione di Faniska (andata in scena per la prima volta a Vienna, il 25 febbraio 1806) e sull’eco di questa, ravvisabile in talune composizioni di Schubert, si è soffermato M. Chusid, Schubert’s Overture for String quartet and Cherubini’s Overture to Faniska, “Journal of the American Musicological Society”15 (1962), pp. 78-84. coniuge), dall’altro la dolcezza inesausta dell’amore (quello al quale, malgrado tutto, Medea non sa e non vuole rinunciare, delirante e ancora fiduciosa in un possibile ritorno di Giasone). Il compositore affida ciascuna di queste due idee a un proprio tema musicale. Il primo, vigoroso irruento impetuoso, consente, per così dire, di ‘visualizzare’ la catastrofe imminente ed anzi è già, di per se stesso, ‘catastrofe’: Cherubini non dà avvio alla sua sinfonia con il consueto adagio introduttivo, né adopera una tonalità maggiore, come pure avrebbero preteso le norme del genere; il compositore sceglie, al contrario, la più angosciante e inquieta delle tonalità minori (quella di fa), mentre l’andamento della prima frase (allegro vivace) nella quale, precipitoso e improvviso, si consuma l’esordio dell’ouverture, rilascia bagliori oscuri e sinistri. La massa sonora che subito esplode nell’incipit – disegnando una curva melodica che, in sole quattro battute, precipita rovinosamente di ben due ottave e poi, freneticamente, risale – rappresenta l’impeto, la violenza, l’incoercibile furia di Medea: la necessità che la vendetta vada a segno non si può evitare (lo dimostra l’esordio ‘in medias res’, imprevisto e così rapido da potersi ritenere già ‘passato’ un attimo dopo essere stato eseguito); d’altra parte, il proposito di dare voce al proprio dolore, alla propria ferita di donna umiliata e offesa, di amante sedotta e di moglie ripudiata, non può sottrarsi alle estreme oscillazioni e agli incessanti “andirivieni”, agli andamenti dissociati e, per così dire, schizofrenici dell’umano sentire. Così è in questo tema d’inizio d’opera: il rapido alternarsi tra scale discendenti e scale ascendenti, iterato più e più volte, pare essere il segno che l’ ‘effrena’ Medea, ancorché volta verso il pieno compimento della vendetta, non darà seguito ai suoi propositi né in modo lineare né – tanto meno – in modo indolore (viene in mente e qui si riporta, ma solo a titolo di suggestione, uno dei due versi superstiti della perduta tragedia di Ovidio: feror huc illuc, vae, plena deo [frg.2]57). Nella medesima direzione, del resto, pare procedere anche il secondo, giustapposto elemento tematico. Dopo una vistosissima pausa, che segue al “tutti” (fortissimo) con cui si chiude il primo tema, gli archi introducono un “cantabile” in tonalità la bemolle maggiore. Taluni studiosi58 hanno sostenuto che questa nuova idea musicale sia espressione (simbolica e prolettica) dello ‘stato’ di acquiescenza e reazione, contrario e conseguente al ‘moto’ di asserzione e rivoluzione rappresentato dalla prima parte della sinfonia, e che, ancora, il morbido timbro delle viole e dei fagotti, al quale si affida l’ ‘entrata’ del secondo tema, sia, in definitiva, anticipazione di Dircé, l’amabile e pietosa principessa di Corinto, ‘nova nupta’ di Giasone. In verità, l’andamento cantabile di questa nuova idea melodica risulta compromesso – sin dal primo momento – per effetto di alcuni dispositivi di ‘retorica musicale’ sapientemente sviluppati da Cherubini. Non solo la tonalità maggiore presto rivela la sua precarietà e “fallacia” (essa è destinata rapidamente a sfociare nella sua relativa minore, di nuovo l’ossessiva fa), ma la stessa 57 Il frammento è giunto per il tramite di Seneca Retore (Sen. Rhet. Suas. 3,7). Utile, anche per le riflessioni che saranno elaborate nel seguito di questo contributo, riferire dei loci similes che, riguardo al citato verso ovidiano, già Friedrich Leo (Fr. Leo [a cura di], L. Annaei Senecae Tragoediae, vol. I. De Senecae Tragoediis Observationes criticae, Berlin 1878, 167) individuava nella Medea senecana: Sen. Med. 123 sgg.; 382 sgg.; 675 sgg.; 738; 806 sgg.; 849 sgg.; 862. In generale, sulla probabile (ma non ancora provata) dipendenza della tragedia di Seneca dalla perduta ovidiana, ottimi spunti si trovano ancora, oltre che nella trattazione di Leo (op. cit., 166 sgg.), anche nel successivo contributo di H. L. Cleasby, The Medea of Seneca “HSPh” 18 (1907), pp. 39-71. Sulla medesima questione, si sono più di recente espressi Jacoby, (R. Jacoby Der Einfluß Ovids auf den Tragiker Seneca, Berlin 1988, pp. 46 sgg.), Bessone (Federica Bessone [a cura di], P. Ovidii Nasonis Heroidum Epistola XII, Medea Iasoni, Firenze 1997, pp. 11-19) e Heinze (Th. Heinze [a cura di], P. Ovidius Naso. Der XII Heroidenbrief: Medea an Iason. Enleitung, Text, Übersetzung und Kommentar. Mit einer Beilage: die Fragmente der Tragödie Medea, Leiden/New York/Köln 1997, pp. 221-252). In particolare, sulle dibattutissime affermazioni di Leo, cfr. Perutelli, art. cit., p. 99, n. 1. Inoltre, studi di riferimento, a proposito della perduta tragedia di Ovidio, sono, fra gli altri: F. Della Corte, La Medea di Ovidio, “SCO” 19-20 (1970-1971), pp. 8589; A. G. Nikolaidis, Some observations on Ovid’s lost Medea, ”Latomus” 44 (1985), pp. 383-387; P. E. Knox, Ovid’s Medea and Heroides 12, “HSPh” 90 (1986), pp. 207-223. 58 Cfr. M. Reynolds, Performing Medea; or, Why is Medea a Woman, in E. Hall – F. Macintosh – O. Taplin (a cura di), op. cit., p. 130 (pp. 119-143): “This form set out the musical plot for the whole opera. It is Medea and Glauce [...], it assertion and acquiescence, it is revolution and reaction – and revolution always wins”. sintassi compositiva tradisce un’endogena tensione, che non potrebbe, quindi, essere in nessun modo rappresentativa di personaggi condiscendenti e mansueti. Si vede, infatti, come il fraseggio, che all’inizio appare assai più disteso, divenga poco dopo ansimante, in forza sia dell’uso del ‘canone’ (la stessa frase, “imitata” da più “parti”, viene ripetuta a distanza di un certo intervallo di tempo con il medesimo disegno melodico: nel frangente ne sono coinvolti dapprima le viole e i fagotti, poi i violini secondi e, subito dopo, i violini primi con un flauto), sia dell’introduzione di una nuova ‘figura’ musicale (un vero e proprio ‘controsoggetto’59) che, come in una ‘fuga’, provvede a “trascinare” la melodia, traendola verso nuovi esiti. A questa ‘figura’ (sei crome in levare, eseguite dapprima dagli archi, in seguito dai fiati) Cherubini affida la sensazione che sia in agguato qualcosa di inaudito e di più grande (si direbbe “nescio quid […] maius”, a voler parafrasare di nuovo il dettato ovidiano, citando questa volta la chiusa dell’eroide dodicesima – Her. 12, 212). Quasi superfluo, inoltre, è dire che, sotto il profilo della dinamica, il crescendo che accompagna il secondo tema per tutta la sua durata certamente asseconda questo presagio, mentre, ad accentuare la tensione, è l’uso sapiente delle pause, che, in questa sinfonia, sono vero e proprio nucleo tematico: la musica, che pare susseguirsi incessantemente (una cascata di note senza ‘respiri’), spesso si arresta dinanzi a soste improvvise, “silenzi paurosi” che anziché smorzare la tensione, l’amplificano, preludendo anch’essi alla catastrofe finale. Quanto al disegno melodico, esso, con andamento sempre più serrato, scivola e infine sfocia, passando per una scala cromatica ascendente, nella ripresa – quasi “un’esplosione” – del primo tema, che, dunque, una volta in più si rivela terribile e inevitabile. Si scopre, pertanto, che anche nel secondo elemento tematico era racchiusa ‘Medea’, con il suo mai spento desiderio di ricongiungersi con Giasone e con le sue disperanti suppliche d’amore intrise di nostalgia e rimpianto (sbagliato pensare, invece, ad un’allusione al suo istinto di maternità60). Il fatto che questa melodia, apparentemente dolce e rassicurante, precipiti inesorabilmente verso la ripresa del primo elemento tematico è non solo, come si è detto, indizio dell’ineludibile destino di distruzione che attende Medea 61 (soggetto e insieme oggetto della sua stessa forza distruttrice): la rapida ‘traslazione’ dalla dolce melodia alle folgoranti e fortissime note del primo tema è il segno che non vi può essere, per Medea, amore senza distruzione e che, di converso, l’annientamento degli altri (e, in questo adattamento operistico, anche di se stessa) non ha altre radici che il suo stesso amore, furioso e invitto. La mole sonora che, con il lungo pedale conclusivo, pone fine alla sinfonia è un tripudio di “suoni cattivi”, voce infausta ed assordante di vendetta che finalmente si compie. 3. Le fonti classiche della Médée di Cherubini La “prima” della Médée, andata in scena nel 1797, fu -come si diceva dianzi- il frutto del proficuo incontro tra la musica di Cherubini e un testo redatto, qualche anno prima, da FrançoisBenoît Hoffman62, allora poco meno che quarantenne, già noto al grande pubblico per alcuni lavori 59 La definizione, certamente efficace, si deve a Rescigno, art. cit., p. 44. Dalfone, op. cit., p. 21. 61 Giungono a proposito le parole usate, in riferimento allo spirito che, in generale, pervade l’intero melodramma, da J. Malte Fischer, art. cit., p. 117: “Stärker als alle Vorläufer beschränkt sich Médée auf die Darstellung der mit monumentaler Wucht eintretenden Katastrophe. Alles Beiwerk, alle Vorgeschichte ist fast zum Verschwinden gebracht, so als wollten die Autoren uns bedeuten, wie unwesentlich das alles ist”. 62 Notizie sull’opera di questo librettista, critico e drammaturgo, famoso soprattutto per i suoi intensi rapporti di collaborazione con il compositore Étienne Nicolas Méhul, si ricavano dal sempre utile L. Castel, Notice biographique et littéraire sur F.-B. Hoffman, in Œuvres complètes de F.-B. Hoffman avec une notice biographique et littéraire par L. Castel, Paris 1828, vol. 1, pp. V-LV. Si vedano, inoltre, P. Jacquinet, François Benoît Hoffman: sa vie, ses oeuvres, Nancy 1878; T. La May, s. v. Hoffman, François Benoît in S. Sadie (a cura di), The New Grove Dictionary of Music and Musicians, London 1980, vol. 8, p. 617; M. E. C. Bartlet, s. v. Hoffman, F. B. H. in S. Sadie (a cura di), The New Grove Dictionary of Opera, London 1992, vol. 2, pp. 731-732; Russo, Attraverso Médée… cit., pp. 175 sgg. passim. Ulteriori informazioni, infine, si ricavano da J. Rushton, Music and Drama at the Académie Royal de Musique (Paris), 177460 di pregio [fra gli altri, l’opera d’esordio, Phèdre (1786), libretto musicato da Jean Baptiste Lemoyne, e, ancora, Nephté (1789), per lo stesso Lemoyne e Euphrosine (1790) per Méhul) e certamente destinato a diventare ancora più celebre in anni a venire, specie per la sua intensa attività di critico teatrale (per il “Journal de l’Empire” e il “Journal des dèbats”, nei primi anni del sec. XIX63). Ancora dibattuta è la ‘querelle’ sulle fonti adoperate da Hoffman nella redazione del libretto offerto a Cherubini64: se, di norma, in passato si è preferito accordare alla tragedia di Euripide il privilegio d’essere stato modello di riferimento per il librettista65 , tuttavia - di recente - analisi meglio condotte hanno dimostrato la pervasiva presenza, nel testo musicato da Cherubini, della Medea di Seneca66 e, ancora, dei numerosi adattamenti secenteschi e settecenteschi che, insieme con il testo latino e certamente con quello greco, agirono da ‘ipotesti’ di partenza67: un po’ in ombra è rimasto l’apporto di Ovidio, che -come si vedrà- risulta invece determinante ai fini della ‘originale’ riproposizione di una trama, che evidentemente sapeva fin troppo di antico. Ma guardiamo più da vicino questa pièce di fine settecento. Innanzitutto, l’avvio della ‘nuova tragedia’ elaborata da Hoffman presenta una scenografia davvero singolare. Sulla scena, infatti, fervono i preparativi per le nozze di Giasone e Dircé; Le ancelle, alla vigilia della solenne cerimonia, esortano la principessa corinzia a gioire della loro stessa “allégresse”, giacché il cielo presto le concederà ogni beneficio. Tutt’altro che festosa è, però, in quest’esordio d’opera, l’atmosfera ricreata da compositore e librettista; vi contribuisce innanzi tutto la musica: si ode, ad esempio, quasi un doloroso lamento nelle due crome di registro grave, ribattute più volte nel corso della prima scena; in generale, poi, l’orchestra tutta - specie la sezione degli archi - non sostiene semplicemente il canto, dando valore aggiunto al testo, ma pare anticiparlo grazie al concorso di figure musicali significative di uno stato di ansia e allusive della presenza di un funesto e insopprimibile presagio68. Cherubini mostra, in tal senso, di comprendere a fondo le scelte già compiute da Hoffman, “vestendo” il testo di melodie ed armonie perfettamente calzanti. La soluzione adottata dal letterato francese prevedeva, infatti, che sin dal primo “fotogramma” lo spettatore avesse la netta percezione dello stato di tensione in atto, tensione alimentata da una struttura drammaturgica bipartita e irreversibilmente scissa: in fondo -è questa la tesi di un fine musicologo qual è Carl Dahlhaus69- Hoffman, probabilmente mosso da intuibili difficoltà nel drammatizzare per le rinnovate scene del teatro d’opera il notissimo soggetto antico (conservandone intatta l’essenza tragica), scelse di tradurre in evento drammatico e concretamente agìto nella finzione scenica l’inusitata e straziante ‘dialettica’70 certamente estranea al più illustre 1789, Diss. U. of Oxford 1969; M. E. Bartlet, Étienne Nicolas Méhul and opera during the French Revolution, Consulate and Empire: a source, archival and stylistic study, Diss. Univ. of Chicago 1982. 63 Cfr. Russo, Attraverso Médée… cit., p. 175, n.1. 64 Pare opportuno ricordare, sull’abbrivio della nota contenuta in Bartlet, art. cit., 731, che contatti tra il librettista e il compositore fiorentino erano già intercorsi qualche anno prima a proposito di Adrien, dramma che Hoffman pose all’attenzione di Cherubini. Questi, tuttavia, si rifiutò di attendere alle musiche per questo libretto, delle quali, invece, volle farsi carico Méhul nel 1799. 65 Fornisce un resoconto bibliografico sull’argomento, Trentin, art. cit., p. 25, n.2. 66 Un decisivo contributo, in tal senso, è venuto dal già citato lavoro della Trentin (Trentin, art. cit., passim). 67 Senza dubbio incisiva, più delle altre, l’indagine condotta da Russo, Attraverso Médée… cit., praes. 177 sgg., a proposito dei prestiti contratti da Hoffman nei confronti della tradizione teatrale francese. Ad essi, peraltro, si farà riferimento, più analiticamente, nel seguito del lavoro. 68 Una sintetica analisi musicale dell’incipit della prima scena, che precede l’aria di Dircé, si trova, fra l’altro, in Rescigno, art. cit., p. 45. 69 C. Dahlhaus, art.cit., p. 297. 70 Ivi: “Era impensabile che Cherubini potesse comporre un monodramma per la sola Médée o un dramma a due tra Médée e Giasone con pochi ‘numeri’ di contorno […]. L’espediente cui Hoffman […] ricorse per adeguare il libretto allo stadio evolutivo della forma operistica intorno al 1800 e, nel contempo, alle aspettative psicologiche del pubblico, consistette piuttosto nel creare una tensione sempre presente tra i preparativi nuziali e i festeggiamenti per Creusa (Dircé), che in Euripide non compariva affatto in scena, e la minaccia rappresentata da Medea; una tensione che si può, senza timore di esagerazione, definire dialettica” [corsivo mio]. modello antico (quello euripideo) e, però, come si cercherà di dimostrare in queste pagine, tutt’altro che sconosciuto alle probabili fonti latine71. Innanzitutto pare evidente che Hoffman punti a “psicologizzare”, in un prevedibile orizzonte di valori borghesi, l’intero spazio scenico, dilatandovi al massimo l’ombra di Medea ed estendendo a personaggi altri il lato scuro e spaventoso del suo (non di barbara reietta, ma di moglie ripudiata72). In questa e nelle successive scene dell’opera, si avverte la presenza di Medea,a dispetto o proprio in virtù della sua tarda apparizione (quasi mezz’ora sarà trascorsa dall’inizio del dramma, quando gli spettatori vedranno la protagonista calcare il palcoscenico per la prima volta): più e più volte ne viene evocato il nome, prima nell’incalzante declamato, poi nell’aria appena più distesa innalzata da Dircé. Costei teme la “fatale étrangère”, resasi capace persino, con i suoi incantesimi, di portare dalla sua parte un eroe: teme - Dircé - che “son aspect […], sa colère” possano turbare i dolci nodi nuziali che legheranno presto il suo destino a quello di Giasone. Nella principessa di Corinto, evidentemente, è il primo polo della tensione ‘dialettica’, che compositore e librettista vollero porre in essere sin da principio e tenere alta lungo gran parte della durata del dramma (almeno nel corso dei primi due atti). Orbene, l’idea di configurare il dramma di Medea come tragico “gioco di specchi” tra due spose non era nuovo. Un secolo prima vi aveva pensato Hilaire-Bernard de Requeleyne, baron de Longepierre, autore di una tragédie in versi alessandrini (Médée, 169473), che, pur oggi considerata mediocre, godette di enorme successo soprattutto a partire dal 1728 quando il ruolo della protagonista fu della Balincourt: segno della fortuna di questa pièce furono, tra l’altro, le numerose parodie che se ne trassero74 in quegli anni. L’opera di Longepierre, del resto, beneficia tuttora di una discreta fortuna (almeno nel panorama degli studi su Medea) soprattutto per il fatto di aver inscenato, nel finale, il suicidio di Giasone – scelta, questo, affatto frequente negli adattamenti moderni del mito. Non va trascurato, tuttavia, il fatto che fra i primi a sperimentare il drammatico congegno dell’antitesi tra le due nuptae era stato, moltissimi secoli prima, Seneca75. Si deve, infatti, all’autore latino la prima applicazione autenticamente scenica dell’impatto fra colei che nell’opera di 71 Un’eventualità, questa, non contemplata dalla pur feconda proposta di analisi formulata da Dalhaus (cfr. supra, n. 70). 72 Ancora Dalhaus, art. cit., 295 sgg. coglie la differenza tra l’impostazione scelta da Hoffman e il presunto modello euripideo, senza – di nuovo – avanzare ipotesi in merito a possibili forme di eco da ipotesti latini (Cfr. p. 296: “[Nel modello euripideo] i valori sociali sono più forti del sentimento individuale. Nella tragedia di Euripide sono dunque inequivocabili i conflitti che tormentano Medea e gl’impulsi che guidano la sua azione […]: la sciagura dell’essere priva di patria e quindi esposta al ludibrio […]”; p. 298: “Per rendere comprensibile al pubblico postrivoluzionario un intreccio il cui fondamento storico-sociale aveva da lungo tempo cessato di sussistere, Hoffman […] attuò una psicologizzazione del tutto aliena al mondo euripideo” [corsivo mio]. 73 Tra le edizioni moderne dell’opera, qui si citano H. B. Longepierre, Médée: tragédie (1694), Paris 1967, e la più recente H. B. Longepierre, Médée: tragédie [suivie du Parallele de Monsieur Corneille et de Monsieur Racine (1686) et de la Dissertation sur la tragédie de Médée par l’abbe Pellegrin (1729)], a cura di E. Minel, Paris 2000. Tra gli specifici contributi d’interesse, si veda J. D. Hubert, Une tragédie de la sensibilité: la Médée de Longepierre, “Romanische Forschungen” 69,1/2 (1957), pp. 28-46. Si deve a I. Chiazza [Medea: fortuna di un mito, (prima parte), “Dioniso”, 59 (1989), pp. 27-29 (pp. 9-85)] un breve resoconto della trama di questa tragedia. 74 Médée et Jason di Dominique [= Pierre François Biancolelli: cfr. D. Gowen, Medeas on the Archive Database, in E. Hall – F. Macintosh – O. Taplin (a cura di), op. cit., p. 235 (pp. 232-274)], Romagnesi e Riccoboni figlio (1727); La Mechante femme ancora di Dominique (1728); Médée et Jason di Carolet (1736). A dare conto di questi titoli è ancora lo stesso Caiazza, art. cit. p. 27, n.47. Giusto segnalare, in questa sede, che l’uso di “fare il verso” ad opere particolarmente celebri toccò anche al melodramma cherubiniano, del quale sempre Gowen, art. cit., p. 237 segnala tre parodie allestite a Parigi, a pochi mesi dalla prima di Médée: C. Sewrin, La Sorcière, P. A. Capelle, – P. Villiers, Bébé et Jargon, ‘Citizen’ Bizet- H. Chaussier, Médée ou l’Hôpital des Fous. 75 L’antitesi tra Medea e la nova nupta è pure presente in Ov. Her. 12,. 25 sgg.: Hoc illic Medea fui, nova nupta quod hic est; / quam pater est illi, tam mihi dives erat; / hic Ephyren bimarem, Scythia tenus ille nivosa / omne tenet, Ponti qua plaga laeva iacet. Il luogo ovidiano merita certamente di essere citato, alla luce anche di quel che si dirà qui di seguito in merito alle corrispondenze tra l’eroide dodicesima e il libretto di Hoffman. Cherubini sarebbe divenuta épouse inhumaine76 (coniunx effrena nel testo di Seneca: Sen. Med. 103) e le imminenti nozze, che, al posto della legittima ma ripudiata sposa Medea, avrebbero visto al fianco dell’eroe tessalo la virginea principessa di Corinto (Creusa, secondo la nomenclatura adottata dal tragediografo di Cordova) 77. Il serrato ordito senecano esordiva con un “epitalamio alla rovescia” innalzato dalla ‘nera’ Medea78 (colta già nel punto più alto del ‘furor’) e proseguiva, per giustapposizione, dando spazio subito dopo alle note di giubilo pronunziate dal coro79, che invocava e pregava gli dei ‘superi’ perché assistessero propizi ai prossimi ‘regum thalami’ [Sen. Med. 56]. Come nel libretto approntato da Hoffman, la folla di astanti prevista da Seneca avrebbe poi tributato lodi alla bellezza della novella sposa ed evocato la splendida e mite Venere, capace di trattenere i sanguinosi furori marziali80. Eppure vi sono, nella soluzione drammaturgica adottata da Hoffman, talune componenti, non trascurabili, di originalità. Innanzi tutto, nell’ ‘opera nuova’ andata in scena sul finire del secolo XVIII, Medea non è più maga o, almeno, non fa mostra dei consueti attributi “stregoneschi” che, talora anche in maniera stucchevole, drammaturghi e operisti del passato le avevano massicciamente accordato81. Nulla di 76 Cfr. Hoffman, I,1,25 I prestiti senecani, in tal senso, sono circoscritti e ben evidenziati da Trentin, art. cit., pp. 53 sgg., in particolare a proposito della settima scena del secondo atto del testo di Hoffman, a confronto con Sen. Med. 116 sgg.: una corrispondenza, questa, della quale meglio si dirà qui di seguito. Peraltro, non si vede la necessità di escludere dal novero delle possibili fonti del libretto (così ritiene, invece, la studiosa: ivi, n.56) una qualche suggestione venuta anche dalla tragedia di Longepierre (praes. Atto II, scena prima), suggestione già evidenziata da Russo, Attraverso Médée… cit., p. 186 e n.31; pur notando, infatti, le differenze di contesto, pare comunque utile fare presente, anche per la tragedia andata in scena nel 1694, l’uso del paradigma dell’antitesi fra la ‘legittima sposa tradita’ (Medea) e la ‘nuova sposa’ (la principessa corinzia) come asse portante di taluni momenti del dramma. 78 Sul prologo affidato a Medea (Sen. Med. 1-55) e, in particolare, sulle relazioni di antitesi che legano l’esordio della tragedia al primo coro (Sen. Med. 56-115), si diffonde M. H. Hine, Medea versus the Chorus: Seneca Medea 1-115, “Mnemosyne” 42 (1989), pp. 413-419. A proposito del paradigma del ‘rovesciamento’ come modulo ermeneutico da estendere all’intera tragedia, d’obbligo il riferimento al contributo di G. Picone, La Medea di Seneca come fabula dell’inversione, in G. Aricò (a cura di), Atti del I seminario di studi sulla tragedia romana (Palermo 26-27 ottobre 1987) [“QCTC” 4-5] Palermo 1987, pp. 181-192 [=Picone, La Medea di Seneca come fabula dell’inversione, “Pan” 9 (1989), pp. 53-63; Picone, La Medea di Seneca come fabula dell’inversione, in A. López- A. Pociña (a cura di), Medeas. Versiones de un mito desde Grecia hasta hoy, Granada 2002, vol. I, pp. 639- 650]. Sul ‘motivo nuziale’, reso sin da principio centrale dal tragediografo latino, e sulle sue implicazioni con la legislazione romana sul matrimonio, cfr. L. K. Abrahamsen, Roman marriage law and the conflict of Seneca's «Medea», “QUCC” N.S. 62 (1999), pp. 107121. 79 Oltre che dal contributo di Hine (cfr. supra, n. 78), utili spunti di analisi di questa prima sezione corale della tragedia possono essere tratti, fra l’altro, da R. M. Krill, Allusions in Seneca’s Medea 56-74, “CJ”68 (1972-1973), pp. 199-204, e da A. Perutelli, Il primo coro della Medea di Seneca, “MD” 23 (1989), pp. 99-117. 80 Hoffman, Médée I,3,71 sgg. = Sen. Med. 62 sgg. 81 A fare propria questa tesi è, ad es., Russo, Attraverso Médée… cit., pp. 179 sgg., il quale, tuttavia, pare estendere l’operazione di spoliazione della vicenda della colchica dal nugolo di attributi magici (viceversa accordati ad altre celebri figure femminili dell’opera francese: ad es. Alcina, Armida) all’intera tradizione teatrale e specificamente melodrammatica del mito di Medea, dal momento che questa, “con il necessario finale cruento, con la tradizione consolidata del teatro letterario, con il personaggio stesso che è sì maga, ma attira l’interesse per le sue caratteristiche umane e psicologiche, ha un rapporto conflittuale con la scena musicale [più avvezzo alle “maravigliose” scene di magia, nda]”; in ultima analisi, secondo Russo (ivi), “per Médée sono […] essenziali la vendetta e l’uccisione dei figli, non già la magia”. In verità, soprattutto le prime attestazioni della fortuna operistica di questo personaggio evidenziano una sensibile attenuazione, quando non una vera e propria censura, dell’identità infanticida di Medea, e, di converso, un’accentuazione della sua condizione di maga: l’argomento – specie in relazione alle rivisitazioni melodrammatiche registrate in Italia, nel sec. XVII – è oggetto di trattazione in T. Ragno, L’infanticidio negato. Note sulla fortuna di Medea nel teatro musicale italiano del XVII secolo, in G. Cipriani (a cura di), Parola alla magia. Dalle forme alle metamorfosi, Bari 2004 [= “Kleos” 8 (2004)], pp. 227-292: a questo contributo si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici d’interesse. A proposito delle rivisitazioni del mito di Medea, avvenute sulle scene del teatro musicale francese sempre nel sec. XVII, utile si rivela, fra l’altro, la consultazione di K. Jaffee, Medea among the ancients and moderns: morality and magic in French musical theatre of the seventeenth century, New York 2001. Più ampio lo 77 strano, tenuto conto del fatto che il librettista si sforzò sempre (non solo in quest’occasione) di epurare la drammaturgia di prosa e d’opera di quegli anni dall’eccesso di ‘merveilleux’ 82 , che, unitamente alle galanterie in stile rococò, aveva trovato larghi spazi di accesso e ulteriore sviluppo soprattutto (ma non solo) nei melodrammi dedicati alle più celebri maghe della letteratura e del mito: fra queste la stessa Medea, che dovette la sua fortuna, nel ‘700, agli oltre trenta adattamenti operistici prodotti solo in quel secolo83. Si dirà, allora, che, nel lavoro di Hoffman (ma anche nella tragedia in versi – Médée – redatta da Jean-Marie-Bernard Clément e pubblicata nel 177984), la Medea infera partorita da Seneca ha definitivamente passato il testimone a una ‘donna’, che, del suo originario statuto di maga, ha conservato, per via di un’operazione di mirata e stringente selezione, soltanto pochissimi tratti: la facies rabbiosa, l’indomito ‘furor’, l’inesauribile bramosia di vendetta. Quasi per processo metonimico, la ‘Furia-Medea’ si è “ridotta” a ‘furiosa-Medea’; il demone femminile del quale ella stessa era stata emblema si è convertito in ‘donna demoniaca’. Come dire che si è passati da una persona, dotata di una ben definita identità teatrale a una serie di astratte (ma visibilissime) qualità, peraltro non necessariamente riconducibili – in senso assoluto – alle prodigiose virtutes del personaggio. Inutile dire che, diluito di molto il suo status di maga (oltre che quello di straniera “priva di patria”85), Hoffman ha gioco facile a fare di Medea “soltanto” una moglie, che, tradita dal proprio coniuge, si arroga il diritto – fondato unicamente sulla sussistenza dei sacri pacta nuziali e sull’ d’amore subìta – di riprendere pieno possesso del proprio legittimo marito. La tragica tra le due spose viene, inoltre, amplificata dal librettista francese, fino a diventare principale ‘cardine’ drammaturgico a sostegno almeno dei primi due atti; né sarà corretto, pertanto, parlare di semplice ‘posticipazione’ 86 di alcune scene sul tema matrimoniale (scene di sicura derivazione senecana), quand’anche questi frangenti siano stati sensibilmente “prorogati” nella nuova versione operistica: non saremo di fronte, infatti, a una banale ricollocazione di un ‘tableau’, ma piuttosto a una vigorosa ‘dilatazione’ del motivo nuziale. E’ quel che si verifica, ad esempio, nel caso della scena che, nella tragedia di Seneca, vedeva Medea prostrata dall’ascolto del canto imeneo innalzato in omaggio alla novella sposa corinzia: se tale momento (sul quale si tornerà più diffusamente anche nel seguito di questo saggio) trovava spettro delle indagini nelle quali, di nuovo a proposito della fortuna operistica di Medea, si inoltra H. Corinna, Medeas Zorn. Eine ‚starke Frau’ in Opern des 17. und 18. Jahrunderts, Herbholzheim 2000. 82 Bene fa Russo, Attraverso Médée… cit., 183 sgg. a contestualizzare l’operazione di ‘psicologizzazione’ (cfr. supra, n. 72), posta in essere da Hoffman nella riscrittura della fabula antica, alla luce del saldo orizzonte di teorie drammaturgiche alle quali contribuì lo stesso librettista, autore di scritti sull’opéra comique e sulla necessità di rifarsi a esempi di letteratura illustre e tragica, anche nell’ambito di questo genere teatral-musicale di norma leggero e intrinsecamente “comico” (cfr. F.- B. Hoffman, Théâtre de l’Opéra-Comique, in Œuvres complètes de F.-B. Hoffman… cit., vol. 9, pp. 509-542). In tal senso – dice bene sempre Russo, Attraverso Médée… cit., p. 185 n. 27 – “la distinzione […] tra tragédie lyrique ed opéra-comique, era quindi per Hoffman di scarso rilievo”. Neppure il pubblico, del resto, parve percepire la distanza del lavoro di Hoffman e di Cherubini dal più nobile genere tragico (per quanto, come si vedrà sotto, le convenzioni imposte dall’opéra-comique influenzeranno di molto l’alterna storia della ricezione di questo melodramma): si legge, infatti, in una delle recensioni che apparvero a seguito della prima rappresentazione di Médée, l’errata definizione, attribuita all’opera, di “tragédie lyrique” (cfr. Courier des Spectacles del 14 marzo 1797: della cronaca si è già dato conto sopra, n. 52). 83 La lista delle occorrenze, ottenuta incrociando i dati raccolti dal catalogo Sartori (C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800: catalogo analitico con 16 indici, Cuneo, 1913-) per i libretti italiani pubblicati entro il 1800, le altre indicazioni rinvenute in studi e contributi recentemente apparsi (cfr. M. McDonald, Theodorakis e Euripide. Medea: Una moglie e una madre infernale, in Canta la tua pena. I classici, la storia e le eroine nell’opera [= “Kleos” 6 (2002)], pp. 311 sgg. [pp. 291-314] e le statistiche riportate da D. Gowen, Medeas on the Archiv… cit., pp. 234 sgg.), rivela che sono ben 42 i titoli attestati nel sec. XVIII: seguono il secolo scorso (27 opere nel ‘900) e il secolo XVII con 17 titoli, mentre in coda è il sec. XIX (16 libretti). 84 J.-M.-B. Clément, Médée: tragédie en 3 actes, Paris 1779. Sempre Russo [Attraverso Médée… cit., pp. 183; 186-187] sottolinea la scelta, nettissima, operata da Clément di epurare la fabula di Medea di ogni riferimento alle facoltà sovrannaturali dell’eroina. 85 Dalhaus, art. cit., p. 296 (cfr. supra, n. 72). 86 Cfr. Trentin, art. cit., p. 52. posto -nel testo antico – nella prima parte della tragedia 87 , lasciando poi spazio al compiuto articolarsi del disegno di vendetta predisposto dall’eroina, nell’opera di Hoffman il frangente, ripreso in maniera del tutto analoga, sarebbe comparso soltanto al termine del secondo atto88, non senza ulteriori ed apprezzabili variazioni. Nei versi senecani, infatti, la costernazione di Medea, ferita e sfinita dalle note di giubilo dell’epitalamio per Creusa, seguiva, affiancandosi e giustapponendosi per antitesi, alla messa in scena del coro elevato in onore del dio Imeneo. Prima le liete note nuziali, insomma; poi, in successione, il delirante monologo della moglie tradita. Non così nel libretto di Hoffman: il drammaturgo moderno, che sa bene di poter contare sull’efficacia della componente musicale, fa appello non soltanto alla contiguità spaziale consentita dal mezzo scenico (la didascalia posta all’inizio dell’ultima sezione del secondo atto indica, infatti, la presenza in primo piano di Medea e della nutrice, mentre sullo sfondo si vedranno sfilare Creonte, Giasone, Dircé e tutto il corteo in festa89), ma anche alla contemporaneità temporale resa possibile soltanto dalla musica90. Si noterà, inoltre, che, se a livello di concezione dello spazio, sarà certamente significativa – nella percezione degli spettatori – la condizione statica di Medea e della in contrasto col movimento del corteggio nuziale, la stridente sincronia tra le liete armonie dell’epitalamio e le maledizioni proferite dalla colchica verrà accentuata da un ennesimo particolare, forse il più rilevante: le disperate e rabbiose parole che Hoffman attribuì a Medea non erano originariamente destinate al canto, né al recitativo, ma alla pura declamazione. Medea, nella versione originaria del melodramma, così come portato in scena nel 1797 presso il Teatro Feydeau, recitava91: di contro, il gaio fraseggio eseguito simultaneamente dal coro in marcia, avrebbe fatto da “sfondo” (quasi da “bordone”) in un disegno compositivo, ove il portato melodico del canto corale sarebbe stato di fatto profondamente inciso, quando non mutilato, dal durissimo parlato di Medea. In tal modo Hoffman – con il determinante concorso di Cherubini s’intende – avrebbe dato origine ad un aspro, sgradevole ed efficacissimo ‘ossimoro’, sintetizzando nell’unità verticale delle battute musicali, l’antitesi92 che aveva visto giustapporsi in maniera orizzontale, nel testo di Seneca, 87 Sen. Med. 116 sgg.: Occidimus, aures pepulit hymenaeus meas./ Vix ipsa tantum, vix adhuc credo malum. / Hoc facere iason potuit, erepto patre / patria atque regno sedibus solam exteris / deserere durus? [...]. 88 Hoffman Médée II, 7, 614 sgg.: “MÉDÉE – Mais quels sons...quels chants se font entendre? / CHOEUR (au fond, et marche) – Fils de Bacchus, descend des Cieux, / Le front paré d'immortelles guirlandes. / NÉRIS – Créon et votre époux au Temple vont se rendre. / CHOEUR – Doux Hymen, écoute nos voeux! / Hymen, accepte nos offrandes. / MÉDÉE – Ah! que j'aime ces chants! qu'ils plaisent à mon coeur!”. 89 Scène VII – Médée, Néris su le devant de la scène; Créon, Jason, Dircé, Prêtres, Soldats, Femmes, Peuple dans le fond. On voit passer sous le portique Créon, Jason, Dircé et tout le cortège. Ils entrent dans le temple; une partie du peuple reste devant la porte; on entend leur chans, et on voit leur sacrifice. 90 Alla “resa contemporanea”, cui attende Hoffman rielaborando il modello senecano, fa cenno Trentin, art. cit., pp. 53 sgg., senza tuttavia esplicitare del tutto le ricadute drammaturgiche della scelta operata dal librettista. 91 Di nuovo vi fa cenno Trentin, art. cit., p. 55. Pienamente condivisibili le argomentazioni, condotte a proposito di questa scena, da Russo, Attraverso Médée… cit., pp. 187-188, secondo il quale “la legge del contrasto che è caratteristica della tragédie lyrique classica” [corsivo mio] viene portata “alla massima tensione nella scena 7 del secondo atto […] dove l’elemento drammatico è dato dal contrasto patetico tra i personaggi […]. Qui la musica esaspera la situazione sovrapponendo ai canti del coro dietro la scena il recitato in scena di Médée”. L’annotazione sulla posizione del coro e su quella di Medea, l’una retrostante la scena, l’altra antistante, viene, evidentemente, dalla lettura delle didascalie che corredano questa sezione del libretto. Va detto che non sempre le scelte di regia hanno rispettato l’intenzione del librettista, avendo sovente previsto (probabilmente per semplici ragioni di gusto scenografico) che la fastosa pompa nuziale si manifestasse al pubblico, guadagnando le prime posizioni sulla scena; così fu, ad esempio, nella recita tenutasi a Merida, nel 1989, con Montserrat Caballé nel ruolo di Medea: al contrario, fedele al testo originale, fu, ad esempio, la messa in scena – della quale tuttavia si possiede soltanto la registrazione audio – che si tenne a Milano, presso il teatro “La Scala”, nel 1957 (protagonista: Maria Callas). 92 Giungono a proposito le riflessioni esposte, a proposito della scena senecana in questione, da A. Martina, La “Medea” di Seneca e la XII delle “Heroides” di Ovidio, in R. Gazich (a cura di), Il potere e il furore. Giornate di studio sulla tragedia di Seneca (Brescia, febbraio 1998), Milano 2000, p. 21 (pp. 3-29): “Seneca procede per quadri, attraverso contrapposizioni antitetiche e con forti tinte chiaroscurali […]. Qui gli effetti sono accentuati dalla forte, anzi violenta, contrapposizione”. Va detto che le perplessità avanzate dai critici (dallo stesso Martina, La “Medea” di Seneca... cit.,, p. 21, n. 55), in ordine alla “reale” drammatizzazione (o, viceversa, alla sola descrizione) del rito nuziale il giubilo tributato alla nuova sposa da un lato e, dall’altro, i disperati anatemi scagliati dall’antica, effrena coniunx. In tutta questa catena di precedenti letterari e di riprese librettistiche un anello fondamentale è costituito -val la pena di ribadirlo - dall’interpretazione che Ovidio diede del personaggio di Medea, una interpretazione, che, in mancanza della mai ripianta abbastanza tragedia Medea da lui composta, risulta visibile dalla XII delle Epistulae Heroidum. E’ innegabile l’influenza che il poeta di Sulmona ha esercitato sia su una tradizione già da tempo consolidata intorno alla saga di Medea, sia sulla configurazione di un nuovo paradigma dell’eroina venuta a contatto, e rimasta contagiata sia pure per poco-, dallo statuto delle altre donne sedotte e abbandonate, inserite nella galleria delle Heroides, colte mentre scrivono ‘impossibili’ lettere ai loro amanti di un tempo. Detto in altre parole, sarà abbastanza agevole scoprire che nell’aria musicale, che nella scena VII del I atto Cherubini e il suo librettista Hoffman riservano allo straziante appello che Medea rivolge al durus Giasone perché rimanga con lei in nome dei loro figli e dei giorni felici del loro amore, riprende vita lo scenario, anch’esso suggestivamente teatrale, delle eroine ovidiane, accomunate da un medesimo infelice destino: sono lì, al loro scrittoio, in continua e bloccante attesa del proprio uomo, completamente soggiogate dal destino imposto loro dal marito/amante -è lui infatti l’autentico centro di gravità della sua quotidiana esistenza, capace di conferire loro identità con la sua presenza e di arrecare loro taedium con la sua assenza-. Di qui il ricorso anche di Medea alla querela (ossia al ‘lamento’), di qui il reclamare solo per sé il ‘sedicente’ uomo della sua vita; di qui il recupero, sia pure maldestro, di quell’arrangiamento languido e sentimentale che giunge fino alla perdita della dignità. La Medea di Cherubini -sulla scorta dell’esperienza ovidiana- torna dunque a recitare il ruolo di vittima innocente della passione per un uomo infedele e traditore, di soggetto destinato a una perpetua condizione di sofferenza e di abbandono, di solitudine e di minorità psicologica e civile, di persona costituzionalmente adatta a rappresentare -nella storia della cultural’‘ideologia della debolezza’93. Sul ‘fantasma’ di Ovidio, comunque, si ritornerà fra breve. *“Dei tuoi figli la madre”: la ‘suasoria’ di Medea (F.-B. Hoffman – L. Cherubini, Médée, Acte premier, scène VII: Anche se superfluo, va ribadito che la voce di Medea -sul palcoscenico europeo riservato alla musica lirica- ha coinciso, a partire dalla memorabile interpretazione a Firenze nel 1953, con quella di Maria Callas 94 . Il soprano greco non si limitò solo alla recita, ma vi aggiunse anche ‘istruzioni per l’uso’. E’ il 1971: Maria Callas tiene una serie di master-classes a New York, presso la prestigiosa Juilliard School. Tema del corso: analisi ed esecuzione de “Dei tuoi figli la madre”95, la prima delle tre arie che la Médée cherubiniana riservava alla protagonista infanticida96. nel contesto senecano, si dissipano, naturalmente, nel caso della concreta azione esperita sulla scena della Médée cherubiniana. 93 Cfr. G.Rosati, L’elegia al femminile… cit., p.93. 94 Nel frattempo -va detto ora per precisione e sarà oggetto fra poco di un paragrafo a parte- il testo del libretto d’opera ha subìto integrazioni e traduzione rispetto a quello originale di Hoffman. 95 Zangarini, Medea, Atto primo, scena VII: “MEDEA - Dei tuoi figli la madre / Tu vedi vinta e afflitta, / fatta trista per te, / e pur da te proscritta. / Tu lo sai quanto un giorno t'amò / crudel! A te fu cara un dì. / Sola qui, senza amor, / scacciata, dolorosa, / se mai mi fossi apparso, / buona sarei ancora, / sarei pietosa! / Il cor non sapea / le orrende passioni; / scorrea la notte in sogni buoni, / splendea a me sereno il dì. / Ero felice allor, / Avevo un padre, un nido: / ho dato tutto a te! / Torna sposo per me! / Crudel! Crudel! / Io non voglio che te, / T’implora qui Medea: / ai piedi tuoi starà! / Pietà! Per tanto amor che volli a te. / Pietà! Torna a me! / Torna sposo per me!”. Il testo originale (Hoffman, Médée, Acte premier, scène VII) riporta: “MÉDÉE - Vous voyez de vos fils la mère infortunée / Criminelle pour vous, par vous abandonée. / Vous savez quel fut son amour, / Ingrat! il vous fut cher, un jour! / Délaissée aujourd'hui, proscrite malheureuse, / Avant de vous connaître elle était vertueuse! / Son coeur ignorait les chagrins, / Enfants des passions terribles. / Toutes ses nuits étaient paisibles / Et tout ses jours étaient sereins. / Je possédais alors une famille, un père: / J’ai tout sacrifié pour vous; / A l’univers entier je deviens étrangère,/ Pour tant de biens perdus rendez-mois mon Époux, / Je ne veux que vous seul, j’abjure ma colère, / Médée en pleurs, Médée embrasse vos genoux; / pour tout ce qu'elle a fait, rendez-lui son Époux... / Ingrat!”. 96 Informazioni, pur sintetiche, sulle lezioni tenute da Maria Callas a New York si traggono da Porter, art. cit., pp. 26 sgg. I clamorosi successi raccolti per ogni dove dal soprano greco nel ruolo dell’eroina colchica, dopo la memorabile recita fiorentina del 1953, sono ormai storia97. La Callas, divenuta ora non solo interprete privilegiata di Medea (persino sul grande schermo), ma anche “esegeta” dei tratti musicali e drammaturgici di questo personaggio, spiega alle sue allieve che, quando, sul finire del primo atto, l’orchestra introdurrà il “levigato e mozartiano”98 canto di Medea, sarà indispensabile non affidarsi completamente alla melodia, non offrire tutta se stessa, né spendere subito ogni risorsa vocale, giacché quel frammento cherubiniano è “un pezzo classico”, per il quale occorre “precisione d’altezza, ritmo pulito, linea di canto forte”99. Le indicazioni fornite dalla Callas, in ordine alle modalità di esecuzione della più celebre aria di Médée, non si limitano, tuttavia, ai soli suggerimenti tecnici, ché, anzi, mirano a trasferire nel canto – proprio per il tramite di una giusta impostazione vocalica – un’idea, un profilo retorico e drammaturgico disegnato da Hoffman e Cherubini, e puntualmente colto dal fine ingegno interpretativo della “divina”. La rischiosissima Dei tuoi figli la madre (“aria assassina”, come la definì la stessa Callas) era, per Medea, “la prima e l’ultima occasione per dimostrarsi buona e amorevole”100. La moglie ripudiata, insomma, dopo aver fatto irruzione nel mezzo delle celebrazioni nuziali in onore della rivale, di nuovo mossa dalla volontà di imprimere un altro corso agli eventi che stanno per travolgerla, diviene supplice e persino scaltra oratrice al cospetto dell’amato, perfido marito. C’è da immaginarsela in scena: pochi minuti prima di effondersi nella sua prima aria, Medea è finalmente sola con il suo uomo; Creonte e Dircé sono lontani dalla scena, quando la maga, con toni dolci, sorretta da un discreto accompagnamento dell’orchestra (muta da principio, poi impegnata a fare solo da “bordone”101) indirizza a Giasone le proprie parole, proferite in forma di recitativo 102 : dapprima un’esortazione (“Taci, Giason, e affissi immoto il suolo?”), poi una 97 Per uno sguardo complessivo sulle esibizioni, fra l’altro, di Maria Callas nel ruolo di Medea, si veda di nuovo Della Croce, op. cit., vol. 2, pp. 584 sgg. 98 Le definizioni sono mutuate da Rescigno, art. cit., p. 53. 99 Le parole della Callas sono riportate da Porter, art. cit., p. 29. Vale la pena citare, in questa sede, le parole che lo stesso Porter usò nel 1959, in occasione dell’esibizione della “divina”, di nuovo come Medea, presso il Covent Garden (su questa recita memorabile si veda anche J. Noble, Cherubini’s Medea at Covent Garden, “Canon” 12,12 [1959], pp. 379-381): “Il suo senso dello stile [scil. di Maria Callas] è talmente accurato che ella dava espressione alla musica con un tale sentimento della dignità da pareggiare quello di Cherubini. Non come una tigre impazzita […]. Coloro che si aspettavano un’esecuzione tutta fuoco infernale devono essere rimasti delusi; perché Madame Callas sa che la musica di Cherubini deve essere cantata al massimo grado di bellezza possibile, e in una maniera molto diversa da quella di Donizetti o di Verdi” (cfr. Porter, art. cit., p. 31). 100 Si veda, di nuovo, Porter, art. cit., p. 29. Singolare è il fatto che Martina, La “Medea” di Seneca... cit.,, p. 19, a proposito dell’eroide ovidiana, si esprima con argomentazioni molto simili a quelle adoperate dalla Callas, in riferimento all’aria cherubiniana, segno che, stando almeno alla ricezione del pubblico (peraltro esperto), analoghe possano essere ritenute le intenzioni ultime del testo antico e del libretto moderno (“La Medea ovidiana induce a domandarci se quest’eroina sia sempre stata ferox. Orazio però aveva ben altre ragioni per raccomandare sit Medea ferox [v. 123]: leggendo Orazio non si può prescindere né dalla tragedia ellenistica né dai trattati teorici post-aristotelici sulla tragedia”. 101 Cfr. Rescigno, art. cit., p. 53 “Lachner […] dapprima lascia la voce sola, poi si accontenta di alcuni accordi tenuti, fidando nell’abilità dell’interprete”. 102 Zangarini, Medea, Atto primo, scena VII: “MEDEA - Taci, Giason, e affissi immoto il suolo? / Un’aspra guerra si combatte in te: / il nuovo e il vecchio / amore in te fan guerra. / GIASONE - Non più! / Me stesso un di tradii, / quel dì que amore a te giurai! / Del mio valor fu traditor, / Nel fango l'onor mio gettai! / MEDEA - Falsa è la tua parola / e ben crudel: / indegna di Giason! / Ricordi il giorno tu / la prima volta / quando m'hai veduta? / Sognato abbiam celesti gioie in terra, / insiem legati in sacro eterno amor! / Non io vegliai allor a tua difesa? / Non io spezzai de tuoi nemici il vanto? / E man regal, per darmi a te, sdegnai? / Non mio fratello a te sacrificai? / Giasone ascolta! / Senti, senti ancor!”. Nel testo francese (Hoffman, Médée, Acte premier, scène VII) si legge: “MÉDÉE - Eh bien, Giasone,vous gardez le silence, / Vous détournez les yeux, vous fuyez mon aspect? / Ingrat, de tout ce que j’ai fait, / voilà donc la reconnoissance! / Dans les plus grands périls m'oser abandonner? / M’enlever mes enfants, choisir une autre épouse? / Ne redoutais-tu rien de ma fureur jalouse? / Pensais-tu que mon coeur sût jamais pardonner? / Mais parle! à qui dois-tu les lauriers et ta gloire, / La superbe toison qui brille en ce palais... / Tout enfin? / JASON - Je vous dois une illustre victoire, / je le sais; mais mon coeur rejette des bienfaits / qui vous couvrent de honte et coûtent des forfaits. / MÉDÉE - Parjure! Oses-tu bien me reprocher mes crimes? / Ne sont ils pas les tiens? Et n'est-ce pas pour toi / que j'immolai tant d'augustes victimes? / Comme le tien mon coeur a-t-il manqué de foi? / Pour toi seul je trahis, j’abandonnai mon père, / pour toi “diagnosi”, lucida e però per niente disinteressata (“un’aspra guerra si combatte in te: / il nuovo e il vecchio amore in te fan guerra”). Medea fa appello, di seguito, all’arma del ricordo 103 , della nostalgica rievocazione dei tempi che furono e della felicità, che, pur lontana, la donna non si rassegna a perdere del tutto (“ricordi il giorno tu, la prima volta quando m’hai veduta? / Sognato abbiam celesti gioie in terra, / insiem legati in sacro eterno amor!”); il passato, inoltre, è la storia dei meriti, dei beneficia, delle azioni delittuose con le quali Medea, ora tradita e offesa, aveva “ipotecato” il proprio presente ed il proprio futuro al fianco del greco Giasone (“Non io vegliai allor a tua difesa? / Non io spezzai de’ tuoi nemici il vanto? / Non mio fratello a te sacrificai?”). Resta però l’impressione che la colchica brandisca l’arma della rivendicazione non a scopo di minaccia, ma con deliberata volontà di persuasione: occorre rievocare ciò che si è dato (nel caso di Medea, tutta se stessa), per sollecitare l’interlocutore, già beneficiato, ad “appianare il debito” e a restituire quanto ha ricevuto. Solo a questo punto, dopo iterata esortazione all’ascolto (“Giasone, ascolta! Senti, senti ancor!”), Medea canta104. E ritrova nel canto, nella morbida e distesa linea melodica elaborata da Cherubini, un ennesimo strumento di parenesi: i figli. Maria Callas, volendo spiegare alle sue allieve d’oltre-oceano come l’esecutrice dovesse strutturare l’esordio di quell’aria, chiariva che la prima battuta accentata cade sulla parola “figli”105: tuttavia, puntualizzava la soprano, quel che si deve sottolineare nel canto è la breve, apparentemente insignificante nota con la quale la musica di Cherubini “veste” la parola “tuoi”. Ovvio che, riferendosi la Callas alla versione italiana prodotta da Zangarini, non esiste possibilità alcuna di vincolare quest’interpretazione all’intento originario del compositore (giacché il testo, musicato e portato in scena nel 1797, reca, ad inizio dell’aria: “Vous voyez de vos fils la mère infortunée”, con “voyez” nella posizione poi occupata, nella traduzione italiana, da “tuoi”106). Singolare, tuttavia, e certamente degno di nota è il fatto che la Callas cogliesse e intendesse sottolineare con l’esecuzione l’atteggiamento supplice al quale la maga, con il ricorso alla memoria dei figli, faceva appello nel tentativo – forse l’ultimo – di ricongiungersi con Giasone: i figli, infatti, erano ormai il solo elemento coesivo, il solo vincolo “connettivo”, documento del legame comune j’assassinai, je déchirai mon frère; / et lorsque Pélias déscendit au tombeau, / parle, était-ce pour moi qu’un pieux parricide / au sein de ce vieillard enfonça le couteau? / Voilà mes attentats; je les connais, perfide; / je n’en perdrai jamais le cruel souvenir; / mais crains; la source encor n’en est point épuisée; / a les surpasser tous, je mettrai mon plaisir, / tu te repentiras de m'avoir abusée; / et si j’ai tant osé pour te prouver ma foi, / que n’oserai-je point pour me venger de toi?”. 103 Cfr. supra, n. 31. Superfluo dire che, anche in questo frangente (precedente l’aria di Medea), le parole della protagonista, orientate a rievocare il passato, bene si inseriscano in una complessiva strategia di parenesi, alla quale ancora meglio attenderà la successiva sezione cantata. Non sembra casuale, anche alla luce di quel che si è detto e si dirà ancora a proposito delle coincidenze tra questo libretto e le riscrittura ovidiana-elegiaca del mito, la corrispondenza tra la ‘memoria’ sollecitata qui da Medea, al cospetto di Giasone, e quella pure stimolata dalla colchica nella fittizia epistola di Ovidio, sin nell’incipit (Her. 12, 1 sgg.: At tibi Colchorum, m e m i n i , regina vacavi, / ars mea cum peteres ut tibi ferret opem […]). Utili spunti, in proposito, contiene, fra gli altri, Verducci, op. cit., p. 71: “The word memini at the center of the poem’s first line, emphatically separated by caesurae from the words around it [...] is the key to the poem’s achievement and to the character of the Medea who emerges from this poem”. Quanto a Giasone, definito nella lettera inmemor (cfr. Her. 12, 16), la sua incapacità di ricordare pare allo stesso Verducci (op. cit., p. 72) complementare e del tutto funzionale alla complessiva strategia che sottende l’epistola: “[…] just as the mature Medea remembers and in remembering creates the creature she once was, so she throughout the poem creates the young hero [...] on the model of the Giasone he now is. This a Giasone [...] forgetful of who his wife is and was [...]. Whether through an act of memory Medea creates the young Medea in the light of what she now is or whether she creates the young and faithless Giasone in the light of that treachery she has only now discovered in him, memory is the agency of that creation [...]”. 104 Della interpretazione della Callas -come si è già detto- esiste solo la registrazione sonora; per apprezzare, in toto, il personaggio di Medea e la sua ambientazione nell’opera di Cherubini ci soccorre comunque il video che ritrae un altro soprano che ripercorre lo stesso sentiero tracciato dalla divina: alludo, infatti, alla interpretazione eseguita, presso il Teatro romano di Merida, nel 1989, dal soprano Montserrat Caballé. 105 Cfr. Porter, art. cit., p. 31. 106 Nota il particolare lo stesso Porter (ivi), il quale conclude che “un accento sulla prima sillaba di ‘voyez’ (il ‘tuoi’ di Zangarini [sic]) non avrebbe senso”. fra i genitori, segno visibile dei pacta coniugali siglati in passato e ancora validi nel presente. I figli sono, in questo punto del melodramma, ancora di entrambi, di Medea e anche di Giasone (“tuoi”), ed è a loro che, in maniera strumentale, la donna innamorata affida la sua estrema, disperata supplica. Così, del resto, era stato nella citata eroide ovidiana107: messa da parte – ma solo per un attimo – la propria identità di compagna innamorata e di moglie tradita (“Si tibi sum vilis […]”: Ov. Her. 12,187) Medea aveva fatto appello ai c o m m u n e s nati, ai pignora n o s t r a (Ov. Her. 12,192), segni di un destino comune scelto e voluto da entrambi i coniugi (“te peto […] cum quo sum p a r i t e r facta parente parens”: Ov. Her. 12,197-8)108. L’aria “Dei tuoi figli la madre”, aveva detto la Callas, rappresentava l’ultima opportunità, per Medea, di mostrarsi benevola, di dare di sé un’immagine diversa da quella che sempre (specie sul palcoscenico dell’opera, talora anche nei modi di una rappresentazione “fumettistica”) le era stata accordata: quella di strega crudele, di maga gelosa e capace di compiere qualsiasi misfatto pur di fare vendetta dell’onta subita109. Anche in questa deliberata volontà di dare di se stessa un ritratto edulcorato, patinato, piccolo-borghese (non la portentosa e demoniaca maga, ma la disperata e supplichevole moglie innamorata), si deve leggere il tentativo di sottrarsi “artatamente” a un’identità pre-costituita, a un’etichetta, a un destino per così dire “archetipico”, che fino a quel momento aveva attribuito a Medea, senza possibilità di appello, odiosi sentimenti e ancor più riprovevoli azioni. Il merito di questa operazione va ascritto ad Ovidio, ma altresì ad Hoffman e a Cherubini, che fecero immediatamente propria l’azione di ‘maquillage’ predisposta per tempo dal poeta di Sulmona e cercarono di cancellare (almeno in questo frangente dell’opera), i nei della malvagità e della follia dal volto della principessa della Colchide, a dispetto di quanto Orazio (Ars poetica 123) aveva perentoriamente raccomandato: sit Medea ferox invictaque. Autenticamente ovidiana anche in questo110, dunque la colchica forgiata da Hoffman e da Cherubini (almeno in questo frangente dell’opera), situandosi cronologicamente in una fase che preludeva alla tragedia111, poteva ancora permettersi (certamente mossa da intuibili scopi psicagogici) di porsi in distonia rispetto ai tratti feroci, che, un attimo dopo, tutti i tragediografi (ivi compresi quanti avessero voluto tradurre in musica gli sciagurati eventi occorsi alla maga) avrebbero dovuto, “per statuto”, attribuirle. Ma torniamo alla nostra Aria e alle scelte musicali di Cherubini, che evidentemente rivelavano una lucidissima strategia comunicativa. Cherubini, infatti (anche in virtù del fatto che il libretto di Hoffman tendeva ad evidenziare le ambiguità del supplichevole eloquio di Medea: così non avrebbe fatto, invece, soprattutto nel 107 Ov. Her. 12, 187 sgg.: Si tibi sum vilis, communis respice natos; / saeviet in partus dira noverca meos. / et nimium similes tibi sunt, et imagine tangor, / et quotiens video, lumina nostra madent. / per superos oro, per avitae lumina flammae, / per meritum et natos, pignora nostra, duos– / redde torum, pro quo tot res insana reliqui; / adde fidem dictis auxiliumque refer! / non ego te inploro contra taurosque virosque, / utque tua serpens victa quiescat ope; / te peto, quem merui, quem nobis ipse dedisti, / cum quo sum pariter facta parente parens. 108 Su queste questioni, cfr. G. Guastella, Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca), in B. Gentili - F. Perusino (a cura di), Medea nella letteratura e nell’arte, Roma 2000, pp. 149 sgg. (pp. 139-175). 109 A proposito della tradizione secentesca di ‘Medea-maga’, si veda Ragno, art. cit., praes. pp. 236-254. 110 Landolfi, op. cit., praes. 159 sgg. sottolinea bene questa nuova identità conferita al personaggio da Ovidio nella dodicesima eroide (un’identità ispirata a paradigmi muliebri fragili e certamente distante dal prototipo tragico). In particolare, lo studioso riconduce i “verba minora” della Medea ovidiana (Her. 12,184) al ritratto di “un’inusuale maga colchica, supplichevole quanto ansiosa, costantemente in conflitto con il suo archetipo”, anche se “incline a ricongiungersi ad esso” (p. 160). Le stesse “umili parole” dell’eroina sono il segno – sempre a detta di Landolfi – della “chiave ermeneutica con la quale Ovidio spiega la ‘riduzione’ dell’eroina ad uno spazio letterario, meno ambizioso, meno sublime, uno spazio d’amore ‘borghese’” (pp. 160-161). 111 Sempre a proposito della strategia di riscrittura del mito, individuabile nell’epistola ovidiana, si leggano le annotazioni di Martina, La “Medea” di Seneca... cit.,, p. 19, il quale, rinviando nel frangente a L. P. Wilkinson, Ovid recalled, Cambridge 1955, p. 116, osserva che “l’Epistola XII riflette una Medea di un momento prima della tragedia”, aggiungendo: “Se oltre la Medea di Euripide, se oltre la Medea di Seneca non avessimo altro e ci chiedessimo cosa sia successo a Medea che è così infuriata contro Giasone, non avremmo che rispondere: vedi l’Epistola XII e in qualche modo saprai”. recitativo che precedeva l’aria, la più stringata versione di Zangarini112), non rinunciò ad immettere, nel languido e struggente canto elevato dalla protagonista, segnali evidenti dell’imminente catastrofe: sin dalla diciottesima battuta l’ampia melodia cede il passo, infatti, a una sorta di “declamato”, tutto proiettato verso l’acuto (“orrende passioni”); ancora: nella seconda parte, (“Scorrea la notte […]”), pur conservando un andamento disteso (“larghetto”), affiora una tensione ritmica che guida il canto verso l’iterato grido: “Crudel, crudel”. Nel finale, l’aria non ha più nulla della levigatezza iniziale113: segno, questo, che la svolta tragica, prossima a manifestarsi in tutta la sua violenza (sin nelle furiose maledizioni che Medea rivolgerà a Giasone nel duetto, a conclusione del primo atto), è già avvertita come irreversibile. Una pausa, brevissima, isola l’ultimo, accorato appello alla “Pietà”: ma la voce dell’eroina si è già fatta metallica, le indicazioni riportate dallo spartito ingiungono di abbandonare il suadente languore dell’incipit e di lasciare che la voce, tutta, produca un “forte”. Medea non può restare supplice: il suo destino di infanticida, inesorabilmente segnato, le impone – nel finale dell’aria, siglata dagli ardui e drammatici si bemolle – di votarsi ai terribili e feroci suoni della tragedia. * Medea fra Ovidio e Seneca: nel segno della continuità D’altronde non poteva che essere così: nella cornice teatrale, in cui acquista vita la dimensione elegiaca dei personaggi femminili ovidiani114, Medea, solo e soltanto Medea fra tutte le heroides, se da un lato si sentiva perfettamente a suo agio, perché quello era l’unico orizzonte che procurava tensione esistenziale alla sua persona, dall’altro finiva per mostrarsi recalcitrante a indossare a lungo i panni della donna innamorata, costituzionalmente debole e ossessivamente succuba degli andirivieni del proprio uomo; anzi la dramatis persona di Medea non vedeva l’ora che la messa in scena della donna sedotta e abbandonata115 finisse per correre a rivestire il ruolo dell’eroina tragica e proiettarsi su quel palcoscenico dove stavano dando la pièce drammatica firmata da Ovidio, o, in mancanza di questa, la pièce firmata da Seneca, una pièce dove l’originale e innovativa svolta -introdotta dal poeta di Sulmona rispetto al modello euripideo- è stata opportunamente recepita dal poeta di Cordova. La ‘vocazione’ alla tragedia da parte di Medea ha avuto insomma la meglio rispetto alla proposta del melodramma, fattale da Ovidio nelle Heroides; il paradigma della donna decisa a farsi valere rispetto alle ingiustizie -così come predisposto per tempo da Euripide- ha retto anche alla ‘ventata’ della poesia elegiaca; sicché, dopo aver simulato acquiescenza allo statuto elegiaco e aver ‘astutamente’ approfittato dell’opportunità offertale dal momentaneo travestimento per ‘scaricare’ addosso a Giasone -secondo una prassi seguita da tutte le altre eroine- tutta la delusione per un comportamento inatteso e per rivendicare, sulla scorta dei benefici assicurati al marito, la sua preminenza sulle rivali che insidiano il proprio talamo nuziale, ella sta già progettando la cruenta vendetta, per cui la violenta tirata contro l’ingrato altro non è che uno schermo rassicurante con cui velare le sue vere intenzioni omicide. C’è di più: per sottostare alla condizione impostale dalla sua contingente scribentis imago, Medea è stata costretta in qualche modo a disciplinare i propri impulsi, ad oggettivare lo stato d’animo in cui versa, assumendo le vesti del narratore e deponendo quelle di persona agens; lo scarto prodotto da un tale mutamento di ruoli consente nel frangente di valutare appieno la distanza scavata da Ovidio rispetto al modello tragico, fornendo al personaggio Medea un’insospettata dose di razionalità in contrasto con la dismisura e la barbarie ripetutamente sottolineate nel corso della tragedia da Euripide e al tempo stesso confermando, dopo il rifiuto di questa donna a far uso, fra i suoi cosmetici, del trucco implicito nel 112 Cfr. supra, n. 95. A rilevare la differenza tra la prima sezione dell’aria e la ripresa, è anche Rescigno, art. cit., p. 53, il quale spiega il fatto che, nel prosieguo, il canto (la linea melodica, le scelte armoniche, la dinamica prescritta dal compositore) non abbia “più la compostezza dell’inizio”, alla luce del fatto che “Medea è ormai incapace di mascherare la volontà tesa a impossessarsi nuovamente dello sposo”. 114 Cfr. G.Rosati, Epistola elegiaca e lamento femminile, Saggio introduttivo a Publio Ovidio Nasone, Lettere di Eroine. Introd., trad. e note, a cura di G.Rosati, Milano 19982, p.16. 115 Ampio l’inventario presente in H.Hross, Die Klage der verlassenen Heroiden in der lateinischen Dichtung, Diss., Muenchen 1958: la parte riguardante la figura di Medea si trova a pp.144-164. 113 codice della poesia d’amore, la difficile riducibilità di Medea ad eroina elegiaca tout court 116 . Medea insomma, mentre scrive dal suo laboratorio di sofferenze e privazioni, è già transfuga, in direzione del teatro tragico; la sua è una voce ambigua, doppia, dolce e amara, tenera e spietata, supplichevole e orgogliosa, femminile e virile; basterà un semplice balzo da un codice espressivo all’altro, perché ella riprenda definitivamente la propria identità o, se si vuole, torni ad essere il simbolo della femminilità selvaggia e passionale, perché cessi la sua inadeguata e scomoda sosta nello spazio elegiaco, dove l’attendeva -senza grande successo- un’interpretazione di ‘amore borghese’, tutta lacrime e recriminazioni. La fanciulla che si affaccia all’amore, la donna disposta a passare per amore sui più sacri vincoli familiari, la maga potente si ripresentano sulla scena, per essere finalmente sottratte a quanto di lezioso, larmoyant o avventuroso esse avevano acquisito nell’elegia e nell’epos, ed essere illuminate dal bagliore sinistro dell’ira117. Ovidio, insomma, mentre sperimentava nelle heroides una Medea ‘diversa’ da quella del paradigma mitico, le teneva comunque riservata una via di fuga perché, all’occorrenza, potesse tornare ad essere la vera Medea, non quella ingiustamente mortificata118; la fuga, per riuscire, aveva però bisogno di una contiguità teatrale, di tecniche drammaturgiche apparentemente affini, prima che ai suoi lettori, me compreso, fosse data la possibilità di apprezzare la differenza che esiste fra una serata di prove e la serata della ‘prima’, quella per l’appunto della regia affidata a Seneca. Quale il luogo di verifica? Orbene, l’imminente matrimonio fra Giasone e Creusa, quel matrimonio che farà sentire Medea un doppione inutile, quel matrimonio a cui gli spettatori latini assisteranno dal vivo, a differenza di quelli ateniesi, che avevano ascoltato, a cerimonia già inesorabilmente finita, il commento della nutrice e del pedagogo e avevano percepito i lamenti, ai quali Medea dall’interno della casa affiderà lo sfogo legittimo di chi si vede umiliata e ripudiata da un ingrato, che da poco ha scelto di unirsi ad un’altra donna e di rimanere a Corinto, nella reggia di Creonte. Val la pena, pertanto, spostarsi ora in un altro teatro, quello della Roma di 2000 anni fa: la recita è già cominciata e Medea, a differenza del suo precedente euripideo, vive in diretta il momento del tradimento perpetrato da Giasone: a rivelarglielo, sia all’interno della cornice epistolare dell’eroina ovidiana sia all’interno della cornice drammatica curata da Seneca -tant’è stretto il rapporto fra i due intellettuali!-, è il suono dell’inno nuziale che giunge proditoriamente alle orecchie di Medea, dis/turbando i suoi pensieri e lacerando irrimediabilmente la fede da lei ciecamente riposta nel proprio uomo. E’ il momento della irreversibile presa di coscienza della sua fine come donna, come moglie e come madre; è -direbbe Lessing119- un ‘fecondo istante’ della storia; ‘fecondo’, ahimé, nel senso più agghiacciante della sua storia al femminile o, se si vuole, della sua storia da ‘femminista’. “Il punto della cronologia mitica, insomma, in cui Ovidio situa la lettera di Medea è, inevitabilmente, un punto pericoloso: l’epistola nasce come reazione alle nuove nozze di Giasone con Creusa e rappresenta una fase immediatamente preliminare alla tragedia euripidea. La scelta di tempo esalta il conflitto tra un personaggio ‘costituzionalmente’ tragico e la forma elegiaca ad esso provvisoriamente prestata. Per tutta la lettera, lo scontro si protrae con una serie di stridori tra i due codici, eroico ed elegiaco, finché la chiusa minacciosa e programmatica dissolve lo spazio precario dell’elegia, annunciando la tragedia. Il contrasto tra la ‘natura’ irriducibile del personaggio e le convenzioni del genere poetico che lo ospita conduce a un esplicito riconoscimento finale: la misura minore dell’elegia è insufficiente per Medea”120. In quell’istante, a voler assecondare lo statuto della donna elegiaca, Medea si sarebbe dovuta impegnare a conquistare, a riconquistare, o perpetuare l’amore di Giasone; avrebbe dovuto farsi attrarre, come nella convenzione del genere, dalla persona del suo innamorato e 116 Nel frangente, riproduco sostanzialmente il pensiero di L.Landolfi, Scribentis imago. Eroine ovidiane e lamento epistolare, Bologna 2000, p.160. 117 Cfr., al proposito, A. M..Morelli, L’elegia e i suoi confini. Fedra e Medea tra Ovidio e Seneca, in AA.VV,Percorsi della memoria II, Firenze 2004,p.65. 118 Cfr. le osservazioni presenti in Bessone, op.cit., pp.40-41. 119 Mutuo questa espressione da A. Barchiesi, Narratività e Convenzione, saggio introduttivo a P. Ovidii Nasonis, Epistulae Heroidum 1-3, a cura di Barchiesi, Firenze 1992, p.16. 120 La citazione è tratta da Bessone, op.cit., pp.11-12; ma cfr. anche pp. 18; 21; 29;30;40. contemporaneamente fare resistenza al suo tentativo di abbandono ricorrendo alle suppliche, alle preghiere, perfino alle minacce del proprio suicidio, in un appello assillante a tutte le risorse a disposizione per difendere il proprio amore 121 . Se pallida Medea doveva essere, il suo pallore doveva essere ‘pallore d’amore’; se poi, di fronte alla decisa risoluzione del proprio uomo, bisognava aprire precoci spazi alla morte, allora Medea doveva ‘morire d’amore’ e non limitarsi a ‘trasecolare’, prima di ‘uccidere per amore’122. Si sa che nella poesia d’amore latina (Catullo,Tibullo e Properzio) la ‘parte debole’ nella coppia era stata recitata dal poeta-innamorato, disponibile ad assecondare fino in fondo la logica del servitium amoris, in cui rientravano abbandoni e tradimenti messi in atto dalla domina, di cui si era invaghito. Si sa pure che con Ovidio il languore e il sentimento angoscioso fino alla perdita della dignità tornavano ad essere appannaggio della donna sedotta e abbandonata: “Nel sostituire alla persona maschile dell’ego elegiaco una persona femminile, -scrive Rosati 123 - Ovidio intendeva mostrare quante volte la ‘storia del mito’ presenti situazioni che vedono la donna nel ruolo di vittima innocente della passione per un uomo infedele e traditore, a conferma che è appunto questa la condizione abituale, ‘storica’, la subordinazione della donna all’uomo, non quella contemplata dall’elegia. Rovesciando i termini del rapporto elegiaco…, Ovidio sanava perciò l’ ‘anomalia’ elegiaca restituendo alla figura maschile il ruolo ‘forte’ e a quella femminile quello di vittima della passione d’amore. E nel fare questo Ovidio mostrava come l’elegia… costituisca la forma d’espressione più adatta alla donna, sia in quanto innamorata infelice, sia appunto in quanto donna, soggetta cioè a una condizione di sofferenza e abbandono, di solitudine e di minorità psicologica e civile. In quanto ‘ideologia della debolezza’ (così la potremmo chiamare), l’elegia tornava ad essere perciò la più adatta ad accogliere la voce delle donne: in questo modo essa rivelava una sua intima coerenza che non possiede come ideologia maschile”. A sfuggire però alle strette maglie di questa ricatalogazione - lo ripeto- è soltanto Medea, che nella cornice epistolare per lei predisposta dal Sulmonese si appresta a riprodurre il tono tipico della donna ormai tragicamente alla deriva. Ma guardiamo più da vicino la sequenza cardine della XII epistula heroidum: nel resoconto che l’eroina dedica al marito assente, il ‘flashback’ più struggente riguarda il momento in cui il proprio equilibrio è messo a dura prova da un evento inatteso. Alle sue orecchie, infatti, arriva nitida l’eco di un inno nuziale, davvero sconvolgente, visto che il matrimonio in questione è quello fra suo marito e la figlia del re di Corinto. Lo scotimento subìto si accompagna a tremore e a gelo per tutto il corpo, talmente forte è la reazione a un avvenimento che può segnare la fine del suo rapporto coniugale e l’inizio di una nuova esistenza, piena di incognite e di umiliazioni. Di qui il suo velleitario tentativo di rimuovere lo spettro delle nuove nozze e di sfuggire all’incubo che la assale, cercando di autoconvincersi dell’impossibilità di un tale tradimento. Ad aggravare il peso dell’atmosfera è la contemporanea reazione dei servi alla vista dello sbandamento della propria padrona: c’è chi fugge da una parte e dall’altra, pur di non dover essere costretto a rendere la propria testimonianza circa le nozze in corso; c’è chi si rifugia in un pianto appartato pur di risparmiare a Medea altre fonti di emozioni. E’ in questo frangente così pregno di intensità emotiva che la voce del più piccolo dei figli dell’eroina finisce per confermare alla donna che quell’incubo, di fatto, è una tremenda realtà: il ragazzo, infatti, informa sua madre che Giasone, suo padre, è alla testa del corteo nuziale e la invita ad accorrere per assistere alla scena. Il tutto concorre a produrre uno sdoppiamento della scena, visto che da un lato c’è una atmosfera gioiosa e dall’altro invece si profila una fosca prospettiva di solitudine e di tristezza. 121 Su questa disponibilità al pianto e alla denuncia da parte delle eroine abbandonate,cfr. R.L. Fowler, The Rhetoric of Desperation, “HSCPh” 91 (1987), pp.5-38; F. Navarro Antolìn, El suicidio, “Emerita, Revista de linguistica y filologia clasica” 65,1 (1997), pp.41-55; S. Romani, Donne abbandonate sulla riva del mare. Arianna, figura del lamento, “Acme” 52,3 (1999), pp.109-128; L. Landolfi, Fondali del pathos elegiaco. Natura e lamento nelle Heroides, “RCCM” 42,2 (2000), pp.191-214. 122 La suggestione per questo genere di commento mi è derivata da Barchiesi, op. cit., p.40-41. 123 Cfr. G.Rosati, L’elegia al femminile… cit., p.93. Ut subito nostras Hymen cantatus ad aures venit, et accenso lampades igne micant, tibiaque effundit socialia carmina vobis, at mihi funerea flebiliora tuba, pertimui, nec adhuc tantum scelus esse putabam; sed tamen in toto pectore frigus erat. turba ruunt et 'Hymen,' clamant, 'Hymenaee!' frequenter– quo propior vox haec, hoc mihi peius erat. diversi flebant servi lacrimasque tegebant– quis vellet tanti nuntius esse mali? me quoque, quidquid erat, potius nescire iuvabat; sed tamquam scirem, mens mea tristis erat, cum minor e pueris casu studione videndi constitit ad geminae limina prima foris 'huc modo, mater, adi! pompam pater,' inquit, 'Iason ducit et adiunctos aureus urget equos!' protinus abscissa planxi mea pectora veste, tuta nec a digitis ora fuere meis. ire animus mediae suadebat in agmina turbae sertaque conpositis demere rapta comis; vix me continui, quin dilaniata capillos clamarem 'meus est!' iniceremque manus. Laese pater, gaude! Colchi gaudete relicti! inferias umbrae fratris habete mei; deseror amissis regno patriaque domoque coniuge, qui nobis omnia solus erat! (Ovidio, Heroides, XII, 137-162)124 Inutile cercare paralleli in Euripide: l’invenzione -per quello che ne sappiamo- è da ascrivere a Ovidio, che a sua volta non ha mancato di contaminare anche Seneca, visto che il lettore della tragedia senecana si imbatte in un simile ‘a parte’ recitato dalla protagonista della sua Medea. A proposito di questa inconfutabile nota di originalità da riconoscere a Ovidio, scrive il Landolfi: “Nello spazio teatrale ipotizzabile, dunque, per una simile ‘svolta’ drammatica, un messaggero avrebbe riferito a Medea le fasi della cerimonia nuziale condendo con particolari minuziosi il resoconto delle sue fasi e, magari, provocando reazioni incontrollate. Da una 124 “Ed ecco: d’improvviso giunge alle mie orecchie il canto nuziale, e, appiccato il fuoco, guizzano davanti ai miei occhi, le fiaccole rituali; un flauto, poi, manda per l’aria le note dell’inno che vi lega (su di me hanno l’effetto deprimente di una tromba funebre), ed immediatamente mi sento sconvolta da un tremito; davvero non riuscivo ancora a pensare ad un crimine così scellerato; in ogni punto del mio cuore si diffuse un’ondata di gelo.Accorre una folla di persone e urla di continuo: “Imene,Imeneo”. Più vicina sentivo quella voce, peggio mi sentivo. La servitù piangeva e nascondeva le lacrime: per questo si era allontanata! Chi mai avrebbe voluto portarmi una tale notizia? Il mio cuore era triste, era come se avessi un presentimento. Quand’ecco, il più piccolo dei miei figli –qualcuno ve lo aveva mandato, o lui stesso ci era andato per la curiosità di vedere- si arrestò sulla soglia del possente portone, sul lato esterno, e di lì, rivolto a me: “Accorri, subito, qui, mamma! Giasone, mio padre, sta in testa al corteo e, avvolto di vesti dorate, sprona una coppia di cavalli”. Tutto in un lampo! Mi strappai le vesti e mi percossi il petto; nemmeno il volto fu al sicuro dalle mie unghie. Il cuore mi spingeva ad andare in mezzo a quella folla, a strappare dalle chiome ben acconciate le corone di fiori e a portarle via. A stento riuscii a trattenermi: avrei voluto, afferrandole i capelli, gridare: “è mio”; e poi reclamare il possesso, mettendo le mani addosso al mio uomo. Padre mio, chissà come stai godendo ora! E anche voi, uomini della mia terra, che io ho abbandonato. Voi pure, spiriti di mio fratello, ricevete il giusto sacrificio di espiazione! Mi ha lasciata sola; ho perso tutto: il regno, la patria, la casa, mio marito, sì, anche lui, che da solo era tutto per me (trad. di G.Cipriani) soluzione drammaturgica del genere, alquanto scontata, l’Ovidio elegiaco devia sfruttando le opportunità offertegli dal registro epistolare: dato che la lettera non è destinata in prima istanza alla rappresentazione, l’annunzio delle nozze fra Giasone e Creusa può essere dato durante il loro svolgimento e non ad evento concluso, il che conferisce al testo particolare tensione drammatica. Proprio allorché si sfugge alle convenzioni teatrali, l’acme del pathos è raggiunta tramite un espediente… teatrale, l’ironia tragica.[…] Infatti, a chiamare l’eroina alla sfilata aperta da Giasone è il minore dei due figli, il quale, ignaro della vera natura del corteo, esclama: Hinc mihi ‘mater,abi! Pompam pater’ inquit ‘Iason / ducit et adiunctos aureus urget equos!’ («Di qui rivolto a me: ‘Accorri, subito, qui, mamma! Giasone, mio padre, sta in testa al corteo e, avvolto di vesti dorate, sprona una coppia di cavalli’ ») sollecitando la madre a partecipare al tripudio del marito. Nunzio paradossale di sciagure, il bimbo funge da elemento scatenante delle ire di Medea. La vivacità del quadro è intanto assicurata dall’intreccio dei codici letterari: il tono diegetico della lettera viene interrotto da uno spaccato ‘live’ che trasforma la diegesi in mimesi. Con l’espediente della doppia scena, l’una orientata verso l’interno del palazzo, l’altra verso il suo esterno, Medea ha modo peraltro d’intensificare la propria condizione di donna abbandonata, in preda a topiche manifestazioni di lutto, un lutto, questo, precorso dagli effetti stessi del flauto che accompagna l’epitalamio e percepito da chi scrive come funerea ..tuba. All’esultanza generale si contrappone la disperazione di Medea pronta, a meno che non intervenga un ripensamento, a correre in mezzo alla calca per strappare via le ghirlande nuziali dal capo dei due sposi e a rivendicare, secondo il canone tutto romano dell’ iniectio manus, la proprietà su Giasone”125. Dopo poco, però, sarà il finale della lettera a riorganizzare tutta la materia dei ricordi nella direzione e nel senso della tragedia: si tratta insomma del passaggio del ‘testimone’ nelle mani di Seneca, che, come succede in una ‘staffetta’, raccoglie la provocazione e restituisce alla disperazione naturalmente tragica il canto di Medea. Anche nella pièce senecana, dunque, l’inno nuziale svolge la sua parte destabilizzante: la voce verbale occidimus, usata all’inizio della sequenza da Seneca, è la spia di un’emozione anche fisica che va partecipata a chi sta di fronte; al momento, insomma, lo spettatore coglierà solo l’effetto di disorientamento e di cedimento; la causa la si apprenderà subito dopo e avrà l’aspetto di un boato che irrompe nelle orecchie di Medea e scaccia dal padiglione auricolare qualsiasi altra presenza, compresa anche quella, metaforica, di un passato che, anche se non del tutto felice, l’aveva almeno vista in coppia con Giasone. L’impatto con l’imeneo ha provocato spostamenti e nuovi insediamenti nella coscienza dell’eroina: si è insediato insomma un nuovo profilo di Giasone, e insieme a questo una nuova prospettiva di solitudine e di esilio. Occidimus: aures pepulit hymenaeus meas. uix ipsa tantum, uix adhuc credo malum. hoc facere Iason potuit, erepto patre patria atque regno sedibus solam exteris deserere durus? merita contempsit mea 120 qui scelere flammas uiderat uinci et mare? adeone credit omne consumptum nefas? incerta uecors mente non sana feror partes in omnes; unde me ulcisci queam? utinam esset illi frater! est coniunx: in hanc 125 ferrum exigatur. hoc meis satis est malis? si quod Pelasgae, si quod urbes barbarae nouere facinus quod tuae ignorent manus, nunc est parandum. scelera te hortentur tua et cuncta redeant: inclitum regni decus 130 125 Landolfi, op.cit., p.154. raptum et nefandae uirginis paruus comes diuisus ense, funus ingestum patri sparsumque ponto corpus et Peliae senis decocta aeno membra: funestum impie quam saepe fudi sanguinem–et nullum scelus 135 irata feci: saeuit infelix amor. Quid tamen Iason potuit, alieni arbitri iurisque factus? debuit ferro obuium offerre pectus–melius, a melius, dolor furiose, loquere. si potest, uiuat meus, 140 ut fuit, Iason; si minus, uiuat tamen memorque nostri muneri parcat meo. Culpa est Creontis tota, qui sceptro impotens coniugia soluit quique genetricem abstrahit gnatis et arto pignore astrictam fidem 145 dirimit: petatur, solus hic poenas luat, quas debet. alto cinere cumulabo domum; uidebit atrum uerticem flammis agi Malea longas nauibus flectens moras. (Seneca, MEDEA,116-149)126 *Nutrix ‘adiuvans’ (Alfieri,1796) Negli stessi anni in cui la ‘mitica’ nutrice continuava a cambiar pelle e anche idioma, visto che a Parigi si esprimeva ancora una volta in lingua francese, in Italia c’era chi -come Vittorio Alfieri- la costringeva a indossare nuovamente il vestito classico e magari a scoprire, suo malgrado, ‘quam mutata esset’ rispetto all’inimitabile precedente euripideo. E’ appunto il 19 settembre del 1796127 quando Vittorio Alfieri, alle prese con un impietoso confronto fra originali di tragedie greche e rifacimenti delle stesse opere a cura di Seneca, pone fine alla lettura della Medea del Cordovese. Aveva cominciato questo straziante andirivieni fra mondo 126 “Mi sento morire! Un canto di nozze mi ha scosso le orecchie. A mala pena, io stessa, una disgrazia tanto grande, stento ancor ora a crederla. Giasone mi avrebbe fatto questo? mi ha già tolto il padre, mi ha già tolto la patria, e insieme il regno, e ora ha il coraggio di abbandonarmi, sola, in una terra straniera. Quel senza cuore! E così, dopo che le mie malefatte hanno avuto ragione del fuoco e del mare -e lui mi ha visto con i suoi occhi!-, ora non sa che farsene dei favori che gli ho fatto! Crede veramente che la mia capacità di far del male è del tutto esaurita? Non sto più in me, non so che fare. La follia mi ha sconvolto la mente; mi sento trascinata in mille direzioni. E adesso come mi vendico? Da dove comincio? Maledizione! Oh, se avesse un fratello! Non ce l’ha! Però ha una moglie! è su di lei che devo dirigere la mia arma! Ma, questo mi basterà? Le mie sventure sono tante! Ci sarà pure un crimine di cui le città greche o le città barbare hanno esperienza e di cui le tue mani sono all’oscuro! orbene è proprio a questo che ti devi dedicare. Fatti consigliare dai tuoi stessi misfatti: ora, tutti a mente ti devono tornare! Te li ricordi? Il prestigio di un grande reame: non ti appartiene più! Tuo fratello, il piccolo compagno di giochi di quando eri ragazza, maledetta! Fatto a pezzi con la spada! Il suo omicidio: sbattuto in faccia al padre! Il suo corpo: sparpagliato per il mare. E le membra del vecchio Pelia, messe a cuocere nel calderone? Quante volte, senza nessuna morale, ho fatto versare sangue maledetto. Eppure, non una volta ho peccato perché in preda all’ira! E’ stato questo amore sciagurato a rendermi violenta. Ma cosa avrebbe dovuto fare il mio Giasone? Ormai, decidono gli altri per lui. Non è più padrone di se stesso. Certo, avrebbe dovuto almeno offrire il suo fiero petto all’arma omicida! Ma cosa mi fai dire, o mio folle rancore! Non così! Non così! Sii più buona!Se ce la fa, viva, tutto mio come sempre! Altrimenti, viva pure, ma si ricordi sempre di me e tenga sempre a cuore quello che gli ho dato. E’ tutta colpa di Creonte: lo strapotere dello scettro gli fa sciogliere le unioni coniugali, gli fa sottrarre i figli a chi li ha messi al mondo, gli fa spezzare un legame di coppia reso ancor più saldo dal pegno di una prole. Addosso a lui, ora! Solo lui deve scontare il fio! non ha scampo! Seppellirò la reggia sotto un alto tumulo di cenere. La parte più alta, nera per il fumo e avvolta dalle fiamme, la si vedrà dal Capo Maléa, quello che costringe le navi a una lenta virata”. 127 Apprendo queste notizie da C. Domenici, Seneca nel giudizio di Alfieri: Poeta magnus o declamator, in AA.VV., Alfieri in Toscana, Firenze 2002, p.476-479. greco e mondo latino il 28 agosto dello stesso agosto con l’Edipo re di Sofocle, seguìto il giorno dopo dalla lettura dell’Oedipus di Seneca: il commento finale suonava a disdoro dell’opera compiuta da Seneca con accenti che sapevano di pura e inequivocabile umiliazione: “heu quam inanis lectura post Sophocleum”. Non diverso l’atteggiamento critico riservato alla Medea di Seneca all’indomani della lettura dell’omonima opera di Euripide; fatta salva, però, un’unica, importantissima, osservazione, questa volta a tutto onore del poeta d’età neroniana. Allorché il testo latino, dopo che la nutrice ha prospettato alla propria prediletta la perdita di ogni bene e di ogni felicità, restituisce la parola alla fiera eroina facendola sublimare in una roboante affermazione Medea superest, Vittorio Alfieri così postilla la sua edizione ad loc. : “hoc sublime responsum non est Euripidis, sicuti pene haec tota tragedia; sed totum Senecae”. Val la pena, nel fragente, cogliere il senso e l’efficacia scenica della versione alfieriana, una versione volutamente parziale rispetto al testo senecano, ‘sforbiciato’ in più di un punto, e che comunque non è mai stata edita128: l’altezza poetica raggiunta dall’Afieri nel ‘vertere’129 il punto più alto raggiunto da Seneca nel tentativo di aemulatio del modello euripideo sarà ancora più apprezzabile se confrontata con la mia traduzione in prosa, alquanto ‘pedissequa’130. Nvtrix Sile, obsecro, questusque secreto abditos 150 manda dolori. grauia quisquis uulnera patiente et aequo mutus animo pertulit, referre potuit: ira quae tegitur nocet; professa perdunt odia uindictae locum. NUT. Chi, d’acerbe punture il cor trafitto, tacito mostra imperturbabil volto può trafigger l’altrui. L’ira nascosta terribil fia: l’apertura al tutto è vana MedeaLeuis est dolor, qui capere consilium potest et clepere sese: magna non latitant mala. libet ire contra. MEDEA Quel ch’asconder si puote o tor consigli Ben è lieve dolor: scoppian dal cuore Mal rattenuti i violenti affetti 155 Nvt. Siste furialem impetum, alumna: uix te tacita defendit quies. NUT. Sicura appena sei Medea tacendo Me. Fortuna fortes metuit, ignauos premit. MED. Teme i prodi fortuna: i vili opprime MED. Fortuna serve ai forti: i vili opprime Nvt. Tunc est probanda, si locum uirtus habet. Me. Numquam potest non esse uirtuti locus. 128 160 Devo la possibilià di citarla per questa parte a Patrizia Paradisi, che sta appunto trascrivendo il testo dalle carte autografe del poeta astigiano. 129 Preziosa è l’analisi condotta nel frangente da A.Traina, Alfieri traduttore di Seneca, in Idem, La lyra e la libra, Bologna 2003, p. 215. In verità tutto il saggio di Traina è esemplare per l’approccio alla tecnica con cui Alfieri ‘tratta’ il teatro senecano e per la finezza dei risultati conseguiti. 130 Visto che, ‘per incidens’, faccio riferimento alla mia traduzione, è giusto che, sia pur tardivamente, ammetta di essermi molto giovato -per ‘entrare nella parte’- vuoi dell’articolo di E. Paratore, Le versioni italiane di Seneca tragico, in AA.VV, La traduzione dei testi classici, Napoli 1991, pp.289-305, vuoi della traduzione eseguita da B.Gentili, Seneca, Medea. Tragedia, Urbino 1956. Nvt. Spes nulla rebus monstrat adflictis uiam. NUT. Non v’ha più speme : è disperato il tutto Me. Qui nil potest sperare, desperet nihil. MED. Chi nulla può sperar, nulla disperi Nvt. Abiere Colchi, coniugis nulla est fides nihilque superest opibus e tantis tibi. NUT. Lungi i Colchi: Giason rimanti infido Che più t’avanza omai? 165 Me. Medea superest: hic mare et terras uides ferrumque et ignes et deos et fulmina. MED. Medea m’avanza. Medea, cui serve il ciel, la terra il foco, il ferro, la morte, i numi istessi Nvt. Rex est timendus. NUT. Temi dal Re Me. Rex meus fuerat pater. MED. Figlia di re son io Nvt. Non metuis arma? NUT. L’armi non temi? Me. Sint licet terra edita. MED.No, qualunque sieno Nvt. Moriere. NUT. Morrai Me. Cupio. MED. Morrò Nvt. Profuge. NUT. Fuggi Me. Paenituit fugae. MED. Fuggir? Il fuggir mi dolse Nvt. Medea– Me. Fiam. Nvt. Mater es. Me. Cui sim uide. NUT. Sei madre MED.a Giason sposa qual e di che sposo 170 Nvt. Profugere dubitas? Me. Fugiam, at ulciscar prius. NUT. Dunque fuggir non vuoi? MED. Pria vendicarmi Nvt. Vindex sequetur. Me. Forsan inueniam moras. NUT. T’inseguirà Giason MED. Forse arrestarlo Medea saprà Nvt. Compesce uerba, parce iam, demens, minis animosque minue: tempori aptari decet. Me. Fortuna opes auferre, non animum potest. Sed cuius ictu regius cardo strepit? ipse est Pelasgo tumidus imperio Creo131. NUT. L’ira il dolor raffrena Ceder conviene e adattarsi a’ tempi. MED. Può i mezzi tor, l’animo no, fortuna non il valor 175 E’ il riscatto di Seneca e della sublimità da lui raggiunta, una meta quella del ‘sublime’, che, a dir il vero, Alfieri aveva già intravisto nella produzione tragica di Seneca, una meta da cui venti anni prima si era sentito attrarre per poter poi personalmente raggiungere altezze affini, quelle della sua stessa ispirazione tragica ancora ‘in fieri’. Si legge così nella sua Vita, in riferimento alle traversie da lui patite con il latino durante gli anni della irrequieta adolescenza: “Verso il principio dell'anno '76, trovandomi già da sei e più mesi ingolfato negli studi italiani, mi nacque una onesta e cocente vergogna di non più intendere quasi affatto il latino; a segno che, trovando qua e là, come accade, delle citazioni, anco le più brevi e comuni, mi trovava costretto saltarle a pie pari, per non perder tempo a diciferarle. Trovandomi inoltre inibita ogni lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva affatto privo d’ogni soccorso per la lettura teatrale. Questa ragione, aggiuntasi al rossore, mi sforzò ad intraprendere questa seconda fatica, per poter 131 “Nutrice Sta zitta, ti prego!Soffoca i tuoi lamenti nel segreto del tuo dolore. Solo chi, standosene muto, è capace di subire le ferite più gravi con sopportazione ed equilibrio, poi può restituirle. Fa veramente male l’ira, dopo che la si è tenuta nascosta; l’odio, quando si manifesta apertamente, allora sì che si lascia sfuggire l’occasione della vendetta. Medea Solo quando un dolore è lieve, è ancora capace di ragionare e di starsene rintanato; le sciagure quando sono grandi, invece, non ce la fanno a rimanere nascoste. L’unico piacere allora è quello di andare all’assalto. Nut. Sei diventata una furia! Frena il tuo impeto, mia piccola! è già molto se il controllo dei tuoi gesti e della tua voce riesce a proteggerti! Med. La fortuna ha paura dei forti, mentre schiaccia i deboli. Nut.Vuoi metterla alla prova? Devi allora trovare l’occasione giusta per il tuo ardire. Med. C’è mai un momento, in cui non si possa dar spazio all’ardire? Nut. Siamo alla disfatta totale: nemmeno un barlume di speranza che possa indicare una via d’uscita! Med. Ah, sì! Non c’è più nulla da sperare? E allora non c’è nemmeno nulla da disperare. Nut. Rifletti! Quelli della Colchide? Se ne sono andati tutti! Il matrimonio con tuo marito? Non esiste più! Le tue ricchezze? Erano davvero enormi: ora non ti è rimasto più nulla! Med. Medea! Ecco chi rimane! Rimane viva Medea,sì! Lei è tutto: il mare e la terra, il ferro e il fuoco, gli dei e i fulmini. Nut. Ma tu devi avere paura di un re! Med. Anche mio padre era un re! Nut. E non hai paura delle armate? Med. No! Anche se fossero quelle partorite dalla terra! Nut. Ma tu, lo sai che morirai? Med. E’ il mio più grande desiderio! Nut. Vattene, prendi la fuga! Med. Sono già fuggita una volta: e mi sono pentita! Nut. Medea! Med. Non lo sono più! Ma lo ridiventerò! Nut. Sei una madre! Sai? Med. Eh, già! Si è visto per chi lo sono! Nut. Fuggi! Che aspetti? Med. Sì che fuggirò! Prima però mi devo vendicare! Nut. Poi però ti inseguiranno per fartela pagare! Med. Non ti preoccupare! So come intralciarli. Nut, Càlmati, basta con le parole! Sei fuori di te: metti un freno alle tue minacce! attenua la tua aggressività! conviene sapersi adattare alle circostanze! Med. Le ricchezze, quelle sì che la fortuna può portarle via, ma il coraggio no! Cosa sento? C’è qualcuno che bussa e la porta della reggia cigola. E’ lui, Creonte, in persona. Guardalo! Il potere sui greci lo ha reso completamente tronfio”. leggere le tragedie di Seneca, di cui alcuni sublimi tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni letterali latine dei tragici greci, che sogliono essere più fedeli e meno tediose di quelle tante italiane che si inutilmente possediamo….132; “nel soggiorno di Pisa tradussi anche la Poetica d'Orazio in prosa con chiarezza e semplicità per invasarmi que' suoi veridici e ingegnosi precetti. Mi diedi anche molto a leggere le tragedie di Seneca, benché in tutto ben mi avvedessi essere quelle il contrario dei precetti d'Orazio. Ma alcuni tratti di sublime vero mi trasportavano, e cercava di renderli in versi sciolti per mio doppio studio di latino e d'italiano, di verseggiare e grandeggiare”133. Nel 1796, dunque, vent’anni dopo, accanto a un Giasone senecano da lui apostrofato come Jason uxorius, un Giasone che, quando parla, stulte loquitur, prima di raggiungere la vetta dello stultissimus nei versi con cui alla fine della tragedia l’eroe preconizza l’assenza degli dèi nella volta celeste attraversata da Medea sul suo carro alato134; accanto a un simile Giasone, non fa miglior figura nemmeno Medea, o perché parla troppo e ritarda l’azione o perché fa mostra di una competenza nel campo delle erbe magiche che può far invidia a chi gestisce una erboristeria, ma che fa annoiare di certo qualsiasi lettore/spettatore: lapidario è al proposito il giudizio di Alfieri: “Euripides certe totam hanc pharmaceutriam spectatori non adhibuit. Ille Tragicus, hic turgidus et fastidiosus declamator”135. Giudizio pesante quello di Alfieri dunque, che pure da Seneca, così come da Sallustio, mutuerà buona parte della sua scrittura tragica; giudizio ancora più pesante perché nel frangente si compie un confronto deprimente per Seneca, figlio del suo tempo e rappresentante di una cultura come quella latina che sarebbe troppo riduttiva rubricare come la ‘brutta copia’ di quella greca. 132 V.Alfieri, Vita, Parte Prima, Epoca Quarta, Capitolo Secondo. Ibidem. 134 Cfr Domenici, art.cit., p.457. 135 Cfr Domenici, art.cit., p.480. 133