OSCURITÀ
Racconto di
Maurizio Brunori
OSCURITA’
“La macchina di suo padre è stata trovata a settecento chilometri da qui, al Sud: aperta, in perfetto stato, all’interno tutto in ordine…” Così, senza preavviso. Seccamente.
L’Ispettore di polizia apparentemente comprensivo, in realtà brusco. Io istupidita. Incredula.
La macchina di mio padre! Trovata… vuota? Per alcuni istanti le vertigini. Poi è arrivata, subito, la raffica di domande: “Suo padre aveva nemici? Aveva ricevuto minacce? Come mai si
trovava al Sud? Aveva rapporti di affari? Con chi? Come era la sua situazione finanziaria?
Era ricco?...” Ho reagito: “Mio padre non ha nemici! Non è ricco!” Ma subito un soprassalto
di panico: ho balbettato terrorizzata “Hanno… forse trovato…” “No, signorina: non è stato
trovato nessun corpo.”
Allora? Che cosa devo pensare? Posso ancora sperare? Devo sperare?
Da quando sono uscita dal Commissariato sono entrata in un labirinto di dubbi, di angosce. I cunicoli bui, i cunicoli ciechi, li ho presi tutti. Per primo quello del sequestro. La
macchina è stata trovata in una regione in cui imperversa la criminalità, come ha detto
l’Ispettore? In cui le estorsioni sono all’ordine del giorno? Allora, hanno visto una macchina
di lusso, un uomo che dall’aspetto poteva sembrare importante… Mi sono aggrappata alla
speranza che l’avessero rapito! Per chiedere un riscatto. Ma quando i giorni sono passati
senza che arrivasse nessuna richiesta… I meandri sono diventati tutti più paurosi. Possibile
che l’abbiano ucciso? mi dicevo con raccapriccio. E chi potrebbe averlo fatto! E perché!
Perché! Ha visto cose che non doveva vedere? Ne hanno fatto sparire… il corpo? Mio Dio!
Poi quella notte in cui mi sono svegliata all’improvviso: “Ha voluto farla finita! È partito per questo, per farla finita lontano da qui, da me! L’auto è stata trovata a poca distanza
dal mare, hanno detto al Commissariato. Nell’acqua ci si può lasciare andare; l’acqua accoglie, trascina, nasconde! Ma un gesto del genere… se l’ha fatto… che cosa può averlo spinto
a farlo? Quando è partito sembrava sereno, era sorridente… Mi ha abbracciato… Dio mio!
Adesso che ci penso… mi ha tenuto stretta stretta a sé, a lungo, molto a lungo. Come in un
addio? Oppure è, adesso, solo una mia impressione? Non sono più sicura di niente.
A me quella sua partenza era sembrata normale. Viaggiare è sempre stata la passione
di papà. Quanti ne ha fatti, di viaggi! Con me e con la mamma. Poi con gruppi di amici. Da
ultimo, più d’uno da solo. Quando è venuto a dirci che partiva sembrava tranquillo. Anzi, lo
era. “Con chi vai?” “Da solo! con chi vuoi che vada?” “E dove vai?” “Al Sud del Sud. Voglio rivedere una terra che mi è sempre piaciuta!”
Nel viaggiare preferiva le crociere, e comunque spostarsi il più possibile in nave, con
l’auto imbarcata. Amava il mare come pochi altri. Coi suoi racconti delle navigazioni io ci
sono cresciuta. A tutti gli altri, da piccoli, per farli addormentare, i padri o le madri raccontano di castelli incantati, di fatti prodigiosi, di magìe… Per me, le fate gli elfi i maghi della
mia infanzia… sono state le navi i passeggeri i comandanti… Tutti sottoposti a due divinità,
la Terra e il Mare.
È stato per me, che ha comperato la barca a vela. O meglio, per se stesso riguardo a
me. Voleva trasmettermi la passione per il mare; voleva insegnarmi a portare la barca, ma
soprattutto voleva mostrarmi la sua abilità al timone, alle vele… sorprendermi con la sua destrezza nello stringere il vento, nel virare… La mamma vedeva bene che papà cercava
l’approvazione più della figlia che della moglie; ma, comprensiva, indulgente, ne era addirittura contenta.
Erano una coppia invidiabile. Erano, tutti e due, sempre sereni; o, almeno, tornavano
presto, subito, alla serenità. Lui, in particolare, dava la sensazione di essere davvero grato
alla vita. Fino a quando non è morta la mamma, la vita gli è stata amica. Ma forse anche perché lui l’ha sempre secondata. Ha cercato di vedere che cosa, di volta in volta, gli poteva offrire di meglio, che cosa poteva prenderne. Purtroppo io non sono come lui. Non ne ho preso la pazienza, l’ottimismo... Ch’io mi ricordi, con me non si è mai arrabbiato. Qualche volta mi rimproverava. Ma sempre con misura.
E io, come l’ho ricambiato? Dopo la morte della mamma quanto ho aspettato ad andare a vivere con Enrico? Niente. Quasi niente. È vero che papà per primo mi spingeva a farlo!
“Non ti voglio eternamente tra i piedi!” mi diceva ridendo, ma deciso. Eppure, non dovevo
lasciarlo solo: dovevo, forse, o restare io con lui, o lui venire con me e Enrico.
Ho voluto andare io, in treno, a riprendere la macchina: per vedere il posto in cui è stata ritrovata. Il luogo è di una bellezza strana, quasi sinistra. Intatto, selvaggio. Basta lasciare
l’auto in una delle tante piazzole di sosta della strada che costeggia il mare. Si prende uno
dei sentieri che scendono giù e si arriva a una piccola spiaggia, bianchissima, in una caletta
che all’improvviso si apre in quella costa come un covo: non per niente il nome è Cala Corsara. Una piccola insenatura delimitata da due speroni di roccia. Lì – ho avvertito con terrore – era stato possibile tutto. Papà era salito su uno dei due picchi, magari soltanto per scrutare il paesaggio, poi si era sentito male, o era scivolato, e precipitato in mare? Oppure, volontariamente…?
Il sospetto di un suo atto disperato non mi dà tregua. Anche se Enrico cerca in tutti i
modi di allontanarlo. Ormai stiamo insieme da mesi, e quando la notte non riesco ad addormentarmi mi abbraccia, mi culla, mi ripete che di sicuro si è trattato di un incidente, che
papà non aveva nessun motivo per fare… un gesto del genere. Mi dice che non devo sentirmi in colpa. Che non devo pensare di averlo abbandonato. Mi ripete e ripete che dopo la
morte della mamma, quando io e lui siamo andati a vivere insieme, abbiamo proposto a papà
di venire a stare con noi, e abbiamo anche insistito, a lungo. È vero. Papà ha sempre rifiuta to: voleva la nostra libertà, diceva, e anche la sua.
Ad Enrico, però, non ho mai detto dell’incontro con quel dottore. Due o tre giorni
dopo che si è saputo della scomparsa di papà. Ci siamo incrociati, tutti e due a piedi, per
strada. All’inizio, era chiaro, non voleva nemmeno salutarmi. Poi, ho visto, ci ha ripensato.
Mi si è avvicinato e, guardandomi con durezza, ha sibilato: “Suo padre era troppo solo, troppo solo!” Nient’altro. Si è allontanato senza avermi dato la mano. Sono rimasta impietrita.
Mi ha, né più né meno, accusato? Anzi, mi ha già condannato?
Mi sento come sbattuta di qua e di là dall’incessante rollìo di una barca. Da una parte
il giudizio senza appello di questo dottore. Dall’altra lo strenuo convincimento di Enrico. La
sera in cui è rientrato e mi ha trovata in mezzo a tutte quelle foto… Mio padre in tutte le occasioni, in tutte le pose. Enrico quelle immagini non le aveva mai viste. Si è chinato per
guardare meglio. Ad un tratto, colpito da una foto in particolare, l’ha presa in mano, l’ha osservata a lungo: papà in una mattinata d’estate, tutto vestito di bianco, abbagliante come il
suo sorriso. Neri soltanto i capelli e gli occhi ridenti. Dopo aver soppesato la foto per qual che istante, Enrico me l’ha sventolata davanti e ha esclamato, convinto: “Un sorriso così non
può essersi spento da sé! Non può essere!”
Quante volte anch’io mi ero detta che compiere… un gesto del genere… non era da
papà? Che non è da papà? Eppure, non volevo lasciarmi contagiare dall’ottimismo di Enrico. Ma quell’altra sera… quella notizia al telegiornale… “Sbarco di clandestini a Cala Corsara”! Ho sussultato. Sono stata percorsa da brividi. Subito un turbinio di domande e di ipotesi le une più pazze delle altre. Papà lo sapeva che lì avvenivano sbarchi? Ha atteso magari
due o tre notti che il gommone arrivasse, che sbarcasse i clandestini, poi ha chiesto di essere
preso a bordo, nel viaggio di ritorno alle coste africane? È stato per questo e per il resto che
si è portato un mucchio di soldi?
Era come se avessi assistito alla scena: vedevo papà andare deciso all’appuntamento,
dopo aver parcheggiato la macchina lasciandovi dentro i documenti sufficienti per risalire a
me; lo vedevo dare agli scafisti l’acconto del passaggio in mare; lo vedevo approdare in
un’altra cala appartata della costa africana…
Le mie ansie hanno imboccato corridoi del labirinto meno tetri di prima. Illuminati, sia
pure fiocamente, da ricordi che mi sembrano inequivocabili. Io e papà negli ultimi giorni e
nelle ultime ore della mamma: le sale operatorie, le terapie, i dolori, la caduta dei capelli, le
flebo, tutto. Gli occhi di lei che prima sorridevano sempre… adesso intristiti. Le labbra che
prima erano così belle… ormai raggrinzite. E lo strazio delle braccia, macchiate, deturpate
dagli aghi. Io e papà lì, con la pena per lo scempio di quel corpo, di quella mente. Io e papà
lì, con la nostra impotenza.
E adesso, se avesse scoperto… Se i medici gli avessero detto che anche lui… come la
mamma… Potrebbe aver deciso di non aspettare inerte. E di allontanarsi da me. Per non farmi soffrire per la seconda volta quell’impotenza. Potrebbe aver deciso di andarsene! Andare
ad aspettare la fine lontano. Sì, potrebbe avere scelto di scomparire. Come quello scienziato,
quel fisico, di cui non si è saputo più niente e forse è ancora vivo. Come quell’altro studioso, quell’economista. Scomparsi nel nulla senza lasciare una traccia.
Però… loro non avevano una figlia! A una figlia non bisogna dire qualcosa? Farle almeno capire il perché, di una scelta del genere? Non bisogna darle almeno un tratto di filo
per farla uscire dal labirinto?
D’altra parte, posso pure capire che non poteva lasciare tracce. Meno che mai per me.
Se ha voluto andarsene, lo ha fatto per non farsi trovare. Da nessuno.
Ho paura d’incominciare a sragionare. Imprigionata in un groviglio di ipotesi, di allucinazioni, di contraddizioni… Nel marasma non faccio che annaspare. Se ha voluto andarsene,
io che cosa posso fare? Che cosa debbo fare? Andare a cercarlo? E dove! Da dove, eventualmente, cominciare! Mi prenderebbero per pazza, ma non è questo che m’importa. Col dubbio, atroce, che lui può essere ancora da qualche parte… posso restarmene qui inerte, senza
tentare niente di niente?
Non faccio che aspettare, non so neanche che cosa. All’interno della sua macchina è
stato ritrovato soltanto il libretto di circolazione: non il portafoglio, col denaro, la carta di
credito, il bancomat, la patente… Non la carta d’identità e il passaporto. Se un giorno la sua
banca mi comunicasse che nella tale città è stato effettuato un prelevamento dal suo conto?
Che è stato fatto un pagamento con la sua carta di credito? Sarebbe la resurrezione! E… nello stesso tempo… sarebbe tremendo! Chi mi direbbe che il prelevamento, il pagamento, non
fossero stati fatti da qualcuno che il bancomat, la carta, a papà glieli avevano rubati… fin
dall’inizio? Ma se arrivasse una notizia del genere, correrei tutti i rischi e partirei per quella
città, fosse pure in Africa, in Australia, alla fine del mondo!
Per questo mi tengo disperatamente attaccata al telefono. Potrebbe arrivare una notizia
del genere. Lo so, potrebbero chiamarmi pure per dirmi che è stato ritrovato… un corpo… e
io devo andare a fare il riconoscimento!
Eppure, la speranza, pazzesca, che nutro di più è ben precisa. Se è andato via perché
aveva un male… come quello della mamma... Se è andato via per percorrere l’ultimo tratto,
il più terre alla sua fine… Quando verrà a trovarsi in un qualche letto, nella fase terminale…
la speranza, pazzesca, è che mi chiami.
Copyright © Maurizio Brunori 2015
In copertina NEL NUCLEO © 1996 Claudio Capotondi
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Tu parli così perché non è il tuo, di padre, dicevo ad Alberto. Perché