Perché amo Caravaggio / Come l’arte e la poesia possono salvarci dalla burocrazia - 08-20-2014
di Giuseppe Vecchio - Sicilia Journal, Giornale online di notizie - http://www.siciliajournal.it
Perché amo Caravaggio / Come l’arte e la poesia possono salvarci
dalla burocrazia
di Giuseppe Vecchio - 20, ago, 2014
http://www.siciliajournal.it/perche-amo-caravaggio/
Continua la discussione tra Giuseppe Vecchio e Salvatore Aleo
Condivido quasi tutte le affermazioni e, soprattutto, le preoccupazioni di Salvatore Aleo sui rischi della
‘burocratizzazione’ delle soluzioni ai problemi della complessità. Mi colpisce, soprattutto, il suo
riferimento (nelle nostre conversazioni private) alla difficoltà di esprimere in formalizzazioni
‘sensazioni’ e ‘valutazioni’ come quelle che si possono ben associare alle espressioni artistiche.
Mi preme, innanzitutto, richiamare un’emblematica affermazione di Picasso: «What do you think an
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artist is? An imbecile who only has eyes if he's a painter, ears if he's a musician, or a lyre in every
chamber of his heart if he’s a poet – or even, if he’s a boxer, only some muscles? Quite the contrary, he
is at the same time a political being constantly alert to the horrifying, passionate or pleasing events in the
world, shaping himself completely in their image. How is it possible to be uninterested in other men and
by virtue of what cold nonchalance can you detach yourself from the life that they supply so copiously?
No, painting is not made to decorate apartments. It's an offensive and defensive weapon against the
enemy.»
Insomma, un’artista è qualcuno che semplifica (a suo modo) la complessità e ne dà una
rappresentazione ‘parziale’, con la quale enfatizza le proprie sensazioni e si propone di esprimere il
‘tutto’. Anche chi rappresenta la (ben più) complessa realtà delle relazioni sottoposte alla ‘ragion
pratica’, in qualche modo è un artista, che si esprime con gli strumenti della ‘sentenza’, della ‘legge’,
della ‘burocrazia’. Considero un artista l’esperto di ‘rappresentazioni numeriche’ delle relazioni umane,
per la capacità di trovare e formalizzare numericamente correlazioni significative fra eventi reali. Tutti
questi artisti esprimono, con i loro strumenti, la ricchezza delle relazioni umane. Certamente, corrono il
rischio ‘to decorate apartments’.
Ritengo, dunque, che sia necessario definire preventivamente il significato che dobbiamo attribuire ai
termini della discussione e, segnatamente, a ‘burocrazia’, ‘burocratizzazione’ e simili, per evitare che
siano solo formule esorcistiche contro i diavoli delle nostre difficoltà di adattamento. Ciascuno di questi
termini, infatti, può riferirsi all’individuazione in astratto di ‘attori’ e ‘azioni’ del processo di
rappresentazione della realtà con i loro ‘valori’ ed i loro ‘interessi’ (che confliggono e si
contrappongono). Allo stesso tempo, essi possono riferirsi all’individuazione in concreto di capacità,
abilità, adattabilità degli ‘attori’, nonché all’adeguatezza, sostenibilità, accettabilità delle ‘azioni’
immaginate per rendere ‘traducibile’ l’articolazione dei ‘valori’ e degli ‘interessi’ in processi
formalizzati, riproducibili, capaci di rappresentare.
In primo luogo, è facile ricorrere alle formule di Luhmann (v. Complessità sociale, in Enciclopedia delle
scienze sociali, Treccani) sulla difficoltà (meglio, sull’impossibilità) di costruire modelli capaci di
comprendere tutti i fattori che concorrono a determinare la ‘realtà’. Da questo punto di vista si gioca
una partita delicata e difficile sullo stesso terreno della democrazia e della legittimazione/legittimità delle
scelte fondamentali (quelle che nell’esperienza della modernità sono definite mediante la ‘forma di
legge’).
Dalla rivoluzione francese (l’affermazione rivoluzionaria non è certo casuale) le scelte dei ‘valori’
dominanti è stata delegata alla ‘legge’, anche se in due secoli il rapporto fra ‘autorità’ e ‘consenso’
che li definisce si è continuamente modificato. Le forme di partecipazione alle scelte si sono evolute
dalla “democrazia parlamentare di ceto”, all’antistatualità del “partito unico di organizzazione delle
masse”, all’integrazione delle masse nello Stato per il tramite del “pluralismo partitico”, ai tentativi di
differenziazione delle istanze di valori in un “pluralismo istituzionale” della rappresentazione.
Immaginare che la ‘legge’ sia rimasta sempre uguale a se stessa e che ci siano possibilità di ‘sintesi’
all’interno di un sistema unico (come forse immaginavano i Costituenti francesi e i loro epigoni) è
sempre più difficile.
La fase della ‘semplificazione’ degli interessi/valori contrapposti nell’unificazione legislativa
potrebbe essere alla sua conclusione, superata dall’emersione di nuovi e immani conflitti (la fragilità
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dell’ambiente vs. le esigenze di sfruttamento delle risorse per lo ‘sviluppo’; le esigenze di tutela della
riservatezza vs. le esigenze informative che fondano la democrazia della trasparenza; globale vs. locale;
ecc.).
Mi si perdoni l’ingenuità (e anche l’approssimazione), ma tutte le volte che mi trovo a discutere di
‘complessità’ e ‘rappresentazione’ degli interessi e dei valori all’interno di un procedimento mi sembra
di assistere a ulteriori sviluppi della vicenda artistica, segnata, via via, dalla scoperta della prospettiva,
dalla perdita del centro, dalla ricerca di nuove linearità, ecc. La crisi della rappresentazione della
complessità si manifesta come formalizzazione dei linguaggi e affermazione dei valori dominanti e/o
come ricerca di nuovi linguaggi per esprimere il ‘disagio’.
La tensione del barocco tra Caravaggio e i Carracci potrebbe spiegare molte cose, così come
l’affermazione del neoclassico. L’una e l’altra vicenda ruotano attorno alla ricerca di nuovi valori, di
nuovi ‘centri’, di nuove autorità morali e civili. Il barocco sta all’anomia della “perdita del centro”,
come il neoclassico all’affermazione delle nuove autorità degli Stati liberali che (im)pongono le nuove
centralità dell’individuo e della semplificazione mediante la legge (positiva e scritta). Al realismo
caravaggesco degli uomini e delle azioni si sostituisce l’astrazione canoviana.
Nella tripartizione dei poteri la burocrazia è l’attore responsabile dell’esecuzione di poche e semplici
leggi. La progressiva ‘concretizzazione’ del contenuto delle leggi è il risultato dei continui tentativi di
mediazione sociale e politica conseguenti all’allargamento (non solo quantitativo) della partecipazione.
L’ideale neoclassico si dissolve e la complessità torna ad irrompere. Si perdono le ‘armonie’
canoviane di Giuseppina Bonaparte e ritornano i piedi incalliti dei pellegrini di Caravaggio, la sua
Madonna morente e la macchina delle “opere di misericordia” (non per caso napoletana). E ancora, la
scomposizione della luce in van Gogh, il Picasso di Guernica e oltre.
Emerge così il secondo significato del termine ‘burocrazia’, quello che si riferisce al modo in cui
uomini concreti esercitano funzioni che esigono funzioni applicative della legge per attuare le scelte
‘contraddittorie’ di un legislatore di compromesso. Se si pensa che l’ideale illuministico aveva concepito
l’interpretazione come una funzione quasi sacerdotale affidata al ‘rito’ del processo giurisdizionale
celebrato da iniziatici giudici e avvocati, ci si rende conto della difficoltà di affidare ruoli altrettanto
‘interpretativi’ a operatori (spesso) privi di formazione specifica. Da un lato ci sono ‘burocrati’ che
si comportano in un certo modo perché convinti (a torto o a ragione) che la norma da applicare sia
caratterizzata da uno specifico ‘senso’ e non da un altro. Dall’altro ci sono ‘burocrati’ che non ricercano
il senso nella norma (specie se innovativa), ma si limitano ad applicare la ‘norma’ che scaturisce dalla
tradizione (in senso stretto) che gli è stata trasmessa dallo stesso ‘corpo’ di appartenenza.
L’effetto più pericoloso è quello della convergenza della burocrazia ‘pigra’ con la ‘pigrizia’ dei
destinatari finali della norma. Quando il carattere innovativo della legge non è sostenuto da una capacità
di affermazione della sua vigenza si crea un cortocircuito di ‘senso’ e l’innovazione naufraga nella
quiete dell’esperienza comune.
Per non fare troppi giri di parole e non dilungarmi, basta pensare alle difficoltà dei passaggi
‘comunicativi’ della storia (ma anche ai loro effetti in termini di egemonia): alla scrittura alfabetica, alla
stampa e, oggi, all’informatica. Ciascuno strumento innovativo di comunicazione comporta rivolgimenti
profondi nella condivisione sociale e, soprattutto, una certa resistenza da parte di coloro che dovrebbero
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beneficiarne, oltre che da parte di coloro che dovrebbero farne la prima applicazione (si pensi alla lotta
contro l’analfabetismo). Dattiloscrivere è stato un compito delegato per un secolo ad una specifica
categoria di subordinati. Conosco uomini di grande ingegno che non riescono ad usare una tastiera perché
il loro pensiero corre libero solo in punta di penna. Figurarsi il trauma della scrittura che non si
materializza sulla carta e, ancora peggio, con procedimenti che sfuggono ai passaggi manuali! Quale
dramma per alcuni professori universitari non poter percepire lo stipendio in frusciante (sarebbe stato
meglio in sonante) moneta. E così giù a stampare e ristampare i passaggi dei procedimenti, a fare copie
cartacee (feticistiche e inutili) delle varie fasi, nostalgicamente pensando che sarebbe meglio incidere
sull’incorruttibile marmo. E ancor più incredibilmente, sentire giovani che vivono nel mondo della
comunicazione elettronica e virtuale (nel quale si fa pure sesso virtuale) che chiedono la firma del
professore sull’inutile ‘libretto’.
In tutto questo, ovviamente, non si può dimenticare che l’errore di progettazione dei sistemi elettronici,
l’incompletezza delle basi di dati, la segmentazioni delle reti informative, la babele dei linguaggi
elettronici non stabilizzati hanno effetti ben più devastanti del ‘lapsus calami’ dell’amanuense o
dell’errore di stampa del tipografo.
Immagino che potremo continuare ancora questa riflessione (fatta salva la tolleranza degli amici di
Siciliajournal).
A Salvatore, che mi ha gratificato del bellissimo e stimolante ritratto che da ora in poi mi identificherà su
questo ‘blog’, e a tanti amici che lasciano trasparire dai loro interventi l’angoscia di confrontarsi con le
nuove tecnologie propongo anche una riflessione su ‘computer graphics’ e dintorni, sulla capacità di
esprimere sentimenti e valori con strumenti informatici, sulla poesia al tempo del computer, a partire
dalle suggestioni di Manacorda:
A questo punto è poco importante che ‘dentro’ il computer seguiti a funzionare in termini logici, perché
lo fa con una tale ‘surreale’ velocità che io lo percepisco solo come a-logico, che io lo posso percepire
come a-logico o, ancora, che mi è consentito percepirlo come a-logico. Il soft realizza una forma
particolare di processo mentale: ha le caratteristiche del pensiero poetico, ma non è creativo. Il soft non
ha la capacità di produrre senso e lavora su un numero limitato di insiemi univoci. Anche la poesia
lavora con un numero limitato di insiemi, ma polisemico.
Esclusa la capacità di produrre senso, fatta salva la creatività, ormai tutto l’universo multimediale
tende a funzionare secondo il pensiero poetico.
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