Notiziario settimanale n. 544 del 24/07/2015
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
Sabato 18 luglio, passando da piazza Mercurio a Massa, mi son fermato
ad ascoltare l'ultima mezz'oretta dello spettacolo su De Andrè. Mentre
ascoltavo per la millesima volta quelle magnifiche parole, di canzoni
meravigliose, osservavo il pubblico. Molte persone accompagnavano gli
autori con trasporto sincero e tantissimi mostravano di conoscere a
memoria i testi.
Così mi sono scoperto a rivolgermi una domanda, sul come fosse
possibile che un autore allo stesso tempo così straordinario e così
provocatorio fosse diventato patrimonio collettivo.
O meglio di come fosse possibile che il cantore delle puttane e dei
disgraziati, l'autore eretico della "Buona novella" e il provocatore della
"Domenica delle Salme", ricevesse un consenso così unanime.
E di come in fondo non ci fosse contraddizione fra il cantare "Bocca di
rosa" e disprezzare le prostitute lungo i viali, fra l'ascoltare con aria
sognante "Fiume Sand Creek" e il lanciare anatemi contro l' "invasione
dei migranti".
Perché quando si entra nel circolo vizioso della commercializzazione del
prodotto, si assiste a un'operazione molto semplice: appropriazione
dell'oggetto, depotenziamento del messaggio, restituzione in chiave
nazional-popolare. Così tutti ci possiamo ritrovare, cantare insieme e non
prestare attenzione al significato. Può essere la "Ballata di Piero" o la
maglietta di "Che Guevara". Fino ad arrivare alla linea di moda "Stile
Black Block".
E alla fine può succedere che uno dei cittadini protagonisti del pogrom di
Treviso, ascolti tutte le sere "Storia di un impiegato".
Gianmaria Lenelli
Indice generale
Editoriale......................................................... 1
Non siamo razzisti, siamo peggio (di Annamaria Rivera).......................... 1
Evidenza...........................................................2
Migranti, don Albanesi: ecco le cinque ipocrisie su accoglienza e sbarchi
(di Don Vinicio Albanesi).......................................................................... 2
Approfondimenti.............................................3
Lettera aperta sul "gender". Un gruppo di donne cattoliche prende la
parola......................................................................................................... 3
Rivolte anti immigrati, le associazioni: paese incattivito e chiuso in se
stesso (di Redattore Sociale)...................................................................... 3
Alcune riflessioni teoriche a partire dalla Grande guerra (di Antonino
Drago)........................................................................................................ 4
Un fatto personale, anche (di Peppe Sini).................................................. 8
La radice comune del fallimento greco e della strage di Sousse (di
Francesco Gesualdi)................................................................................... 9
Basta scuse per la violenza (di Lilian Lindani Mwaita Cirambadare
(traduzione e adattamento Maria G. Di Rienzo))....................................... 9
Notizie dal mondo......................................... 10
Grecia-Europa. L’offensiva tedesca, la difesa di Tsipras (di Mario Pianta)
................................................................................................................. 10
Grecia, l’ombra di «Prometeo» (di Manlio Dinucci )...............................11
Cosa è successo a bordo della Marianne (di Giovanni Vigna)..................11
1
Editoriale
Non siamo razzisti, siamo peggio (di Annamaria
Rivera)
La simbologia del pogrom si era già espressa, a Quinto di Treviso, col
rogo delle suppellettili di uno degli alloggi destinati ai profughi: razziate,
gettate in strada e date alle fiamme tra la folla plaudente. Ora il macabro
festino dell'intolleranza si arricchisce di un dettaglio ancor più esplicito: le
minacce al prefetto di Roma, Franco Gabrielli, reo di non aver ceduto al
ricatto dei cittadini «esasperati» di Casale San Nicola.
In uno sgangherato messaggio via Facebook, l'autore delle minacce, il
vicepresidente, leghista, del consiglio regionale delle Marche, indegno
della carica istituzionale che ricopre, promette «olio di ricino» al «porco di
un comunista».
Siamo ormai a un punto di svolta allarmante, con Salvini che vomita
quotidianamente ingiurie e cliché razzisti come: «Smettete di coccolare
migliaia di clandestini. Accoglieteli in prefettura o a casa vostra, se
proprio li volete».
Mentre il sistema di accoglienza dei profughi mostra tutta la sua
inadeguatezza, mentre sugli scogli di Ventimiglia il gruppo di giovani
esuli continua a resistere da più di un mese, abbandonato da ogni
istituzione centrale, il blocco fascioleghista, aizzato da caporioni quali
Zaia e Salvini, imperversa da Nord a Sud, guidando la rivolta dei
«proprietari del territorio»: marce, molotov, cassonetti incendiati e saluti
romani.
Arduo è questa volta giustificare i tentati pogrom con la retorica della
guerra tra poveri, sebbene alcuni media persistano. Non siamo in periferie
estreme, degradate e abbandonate, ma in un comune tutt'altro che povero,
amministrato da un monocolore leghista, e in un sobborgo romano tutto
ville e piscine.
In realtà, gli imprenditori politici del razzismo, spalleggiati da quelli
mediali, non fanno che legittimare od organizzare proteste che si nutrono
di una percezione delirante degli altri: quella che li colloca,
simbolicamente e fattualmente, nella sfera dell'estraneità all'umano. Solo
così è spiegabile come si possa partecipare o consentire al lancio di sassi e
bottiglie contro il furgone che a Casale San Nicola trasportava i
diciannove giovani richiedenti-asilo, già sgomenti per aver dovuto
abbandonare d'un tratto la sistemazione precedente e terrorizzati dalla
torma degli scalmanati.
In realtà, coloro che si sono lasciati guidare dai fascioleghisti niente sanno
dei profughi alloggiati o da alloggiare nel «loro territorio»: non ne
conoscono neppure le nazionalità. Grazie al martellamento mediale
dovrebbero, però, essere edotti dell'epopea che li vede tragici eroi del
nostro tempo: la fuga da mondi in fiamme o in sfacelo, l'estenuante
traversata perigliosa del Mediterraneo, i cadaveri, anche di bambini,
abbandonati alle acque nostre, le madri che sbarcano orfane dei figli e i
figli che approdano orfani dei genitori... Ma quel che forse sanno non li
muove a pietà, non fa scattare la molla dell'empatia o solo della
commiserazione: il delirio produce anche anaffettività, com'è ben noto.
Nulla sanno di ognuno di loro. E di tutti non possono dire neanche che
sono ladri e rapitori di bambini, come dicono abitualmente degli
«zingari». Eppure li hanno già catalogati come nemici della loro mediocre
tranquillità borghese o piccolo-borghese, che essa alberghi nelle ville con
piscina di Casale San Nicola oppure in alloggi ordinari di Quinto di
Treviso.
Sanno o dovrebbero sapere quali gaglioffi siano i militanti di CasaPound,
Forza Nuova, Militia Chri-sti, Fratelli d'Italia, Lega Nord e via dicendo.
Eppure è a loro che si affidano «per proteggere il nostro territorio dagli
extracomunitari». Così una residente di Casale San Nicola all'inviato del
Corriere della Sera, Fabrizio Roncone, in una dichiarazione preceduta dal
classico «Noi non siamo razzisti, ma...», sublime per emblematicità
razzista.
La molla dell'empatia, ma verso i difensori del loro territorio, è invece
scattata nel M5S: una delegazione, costituita da parlamentari e da
consiglieri comunali e municipali di Roma, si è affrettata a ricevere il
«comitato spontaneo di Casale San Nicola, riunito in presidio».
Niente di nuovo. Del pari, tutt'altro che inedita nella storia italiana recente
è la tentazione del pogrom. Ma è proprio questo a farci temere: il fatto che
nulla cambi, se non in peggio, dopo quasi quarantanni d'immigrazione in
Italia.
(fonte: Il Manifesto del 21.07.2015)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2317
Evidenza
Migranti, don Albanesi: ecco le cinque ipocrisie su
accoglienza e sbarchi (di Don Vinicio Albanesi)
Guardare solo agli arrivi via mare; accogliere senza governare e sempre in
emergenza; approccio meramente securitario; l’indifferenza verso gli
“invisibili”, come i minori e le donne ridotte in schiavitù; le cifre prima
delle persone. L’intervento del presidente della Comunità di Capodarco
Guardare agli arrivi pensando che siano solo via mare, continuare a
pensare che l’accoglienza si possa ancora fare in maniera emergenziale,
trattare il fenomeno migratorio con un approccio meramente securitario,
ignorare gli “invisibili” dell’immigrazione come i minori e le donne
ridotte in schiavitù, continuare a parlare di cifre e non di persone. Sono
queste le cinque “ipocrisie” sull’immigrazione che si continuano a
diffondere in Italia, secondo don Vinicio Albanesi, presidente della
Comunità di Capodarco, da sempre impegnato al fianco dei più deboli.
Come presidente della fondazione Caritas in veritate, da circa un anno si
occupa dell’accoglienza dei profughi, attraverso un centro di prima
accoglienza all’interno del seminario arcivescovile di Fermo, nelle
Marche. Ma il modello “va rivisto – spiega – guardando all’immigrazione
con occhi nuovi e cambiando radicalmente approccio”.
L’IMMIGRAZIONE CHE NON SI VUOLE VEDERE
Innanzitutto, perché la prima grande ipocrisia riguarda le modalità di
arrivo nel nostro paese dei migranti. “L’attenzione sull’ immigrazione è da
sempre concentrata solo sugli sbarchi via mare – sottolinea Albanesi –
invece nella stragrande maggioranza dei casi i migranti arrivano alle
frontiere regolarmente. Da Schengen in poi il gioco è semplice: si arriva
con un visto turistico, in maniera legale, poi allo scadere del visto si resta
sul territorio italiano. E’ una modalità diffusa ma nessuno la analizza, sono
tutti concentrati a guardare le carrette che arrivano dal Mediterraneo”.
Secondo il presidente della Comunità di Capodarco, questo tipo di
modalità è utilizzata, per esempio dalle persone che arrivano dal Sud
America. Lo stesso vale anche per le persone che vengono dall’est
Europa, che arrivano in autobus alla stazione “ma questa migrazione
nessuno la vede, forse perché ci fa comodo così”. “E’ un’ipocrisia
grandissima, siccome le televisioni fanno vedere solo il mare, parliamo di
quello, nel frattempo gli aeroporti e le stazioni sono luoghi di approdo, di
entrate e uscite, ma nessuno fa obiezione, nessuno si preoccupa di come
poi sia facile anche cadere nell’irregolarità”.
IL NON GOVERNO DELL’ACCOGLIENZA
La seconda critica, don Vinicio la riserva alla gestione dell’accoglienza.
“Dopo il salvataggio, i migranti vengono inviati nei vari centri sparsi sul
territorio nazionale con un’operazione pressoché improvvisata: non c’è
un’ organizzazione o un’autorità che gestisca tutto questo – sottolinea -. La
gente viene accompagnata nei centri di primissima accoglienza, per lo più
capannoni, e poi la prima preoccupazione è spedirli altrove, nel resto
d’Italia. E noi veniamo allertati a qualsiasi ora del giorno e della notte,
senza programmazione, quasi all’improvviso”.
2
Le persone che arrivano “in parte sono state identificate, in parte no –
aggiunge – non si capisce con quale criterio le donne eritree non vengano
identificate quasi mai. Poi una volta nel centro di accoglienza sono tanti
quelli che se ne vanno e fanno perdere le loro tracce. Alcuni arrivano,
restano il tempo di una doccia e se vanno via. Hanno soldi e telefono,
sanno dove andare. Ma anche questo è ipocrita perché è chiaro che per
primo è lo Stato che non vuole governare la situazione”.
Agenzia giornalistica
Profughi in Veneto, le cooperative: "Pericoloso cavalcare la paura"
Migranti, Patriarca: “Stop grandi centri, il modello sono le piccole
comunità”
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AREA ABBONATI
LO SGUARDO RISTRETTO DELLA SICUREZZA
Il terzo nodo è l’approccio solamente securitario con cui l’Italia da anni
guarda al fenomeno migratorio. “E’ assurdo che sia solo il ministero
dell’Interno a gestire la faccenda, il problema non è solo legato alla
sicurezza, al controllo del territorio e alla repressione – continua Albanesi
-. Perché poi una volta uscito dal sistema dell’accoglienza, il migrante
cade nell’ombra, nessuno se ne occupa, nessuno se ne preoccupa. Decine
di migliaia di immigrati si ritrovano in una landa desolata, in cui i più
furbi e capaci ce la fanno, gli altri sono costretti ad arrangiarsi e il più
delle volte finiscono davvero in giri illeciti e criminali. Ma in tutto questo
il ministero del Welfare dov’è? Poletti dove sta? Possibile che non si
riesca a guardare all’immigrazione con uno sguardo più ampio, che tenga
dentro anche il mondo del lavoro e le politiche sociali? Molti di questi
ragazzi che arrivano sono laureati, sono svegli e capaci, potrebbero essere
una risorsa, noi li lasciamo in strada, non siamo in grado di valorizzarne le
capacità. Serve, quindi, un approccio diverso, che non si basi sulla paura,
ma sappia guardare l’aspetto economico e sociale”.
Per don Vinicio, per esempio, anziché “tenere parcheggiate le persone nei
centri”; si potrebbe pensare a stage e tirocini formativi da fargli fare, in
modo da inserire i profughi nei progetti di manutenzione del verde
pubblico, o in altri servizi di cui potrebbero beneficiare i Comuni e i
cittadini. “Tenerli a non far niente non è possibile e non è serio. Molti
dopo anni non sanno nemmeno l’italiano. Così facendo non li rendiamo
autonomi, ma facciamo in modo che debbano sempre rimanere all’interno
di un circuito assistenziale”.
LO SFRUTTAMENTO INVISIBILE
Tra le ipocrisie più grandi c’è quella che riguarda i minori e le donne, che
una volta sbarcati finiscono nell’oblio, o meglio diventano “invisibili”:
nella maggior parte dei casi sono vittime di traffici illeciti, di
prostituzione, trafficati dalla mafie. “Perché nessuno se ne occupa? –
chiede Albanesi – Possibile che non importi a nessuno? Così come non
importa a nessuno capire chi gestisce la prostituzione, chi è a capo del
traffico di donne e minori da mettere sulle strade a lavorare. Tutto questo è
assurdo, è una grande ipocrisia chiudere gli occhi davanti alla sofferenza,
allo sfruttamento e alla tratta. Nessuno protesta, nessuno alza la voce,
forse perché serve a qualcuno che questo accada. Ma di certo non è degno
di un paese civile”.
PERSONE, NON CIFRE
Infine c’è la questione delle cifre, a cui si guarda più che alle persone: dai
numeri con cui si raccontano gli sbarchi, alla contabilità sull’accoglienza.
“Quando c’è stato il terremoto a L’Aquila lo stato pagava per
l’accoglienza ai terremotati 64 euro al giorno. Molti erano sistemati negli
alberghi della costiera adriatica, ma nessuno ha protestato. Perché oggi 35
euro al giorno per i rifugiati ci sembrano così tanti? Solo perché queste
persone sono nere? – sottolinea – E’ assurdo, il problema non è la spesa.
Anche perché di quei 35 euro, ai migranti vanno 2 euro e cinquanta, il
resto viene speso nei territori dove sorgono i centri. Il vero problema è
quello di guardare a come funziona la gestione dell’accoglienza: si
continua a lavorare senza un’organizzazione seria, facendo tutto in
emergenza. Le persone arrivano, e in mezzo c’è di tutto, persone sane,
persone con problemi psichici, senza nessuna distinzione. E’ possibile
tutto questo? – si chiede il presidente della Comunità di Capodarco -. In
questo sistema così governato è normale chi ci siano furfanti che si
approfittano e guardano solo al guadagno. Ma non è difficile truffare,
perché c’è chi glielo permette”. (ec)
© Copyright Redattore Sociale
(fonte: Redattore Sociale - segnalato da: Chiara Bontempi)
link:
http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/487819/Migranti-donAlbanesi-ecco-le-cinque-ipocrisie-su-accoglienza-e-sbarchi
Approfondimenti
Diritti
Lettera aperta sul "gender". Un gruppo di donne
cattoliche prende la parola
Credo fermamente nel dialogo che è rispetto di tutte le idee e verità verità
assoluta nell'informazione. Essere "contro" è sempre l'inizio di una guerra
Ai/alle responsabili di associazioni e movimenti cattolici della diocesi di
Parma
Ci rivolgiamo a voi, condividendo la stessa fede e il medesimo desiderio
di essere al servizio della società umana, per esprimere la nostra
preoccupazione riguardo ai metodi e ai toni che ha assunto il dibattito
sulla questione della cosiddetta “ideologia gender”.
Quotidiani e periodici cattolici, membri della gerarchia ecclesiastica, laici
e religiosi appaiono impegnati in una battaglia contro un “terribile
nemico” che sarebbe appunto l’ideologia gender sostenuta da potenti
lobby. Non intendiamo entrare in questa sede nel merito delle tante e
diversissime questioni che vengono sollevate sull’argomento. Ci interessa
qui soprattutto osservare che il metodo e il linguaggio usati in questa
“battaglia” non ci trovano d’accordo per diversi motivi.
1. La logica “amico/nemico” sta alla base della violenza e noi la rifiutiamo
decisamente. Crediamo che si possa esprimere il più netto dissenso sulle
idee senza per questo demonizzare o descrivere in modo caricaturale chi le
sostiene, e che si debbano riferire correttamente le posizioni a cui ci si
oppone: un'attenzione spesso disattesa in molti interventi che abbiamo
letto e ascoltato in questi mesi.
2. Abbiamo notato che molto spesso si confondono i piani al punto che
non si capisce più di che cosa si sta discutendo: un conto è discutere del
ddl “Scalfarotto” il cui intento dichiarato è combattere le discriminazioni
contro le persone omosessuali, o del ddl “Cirinnà”, altro è discutere del
gender in filosofia, altro ancora ragionare di gender studies; un conto è
parlare degli “Standard dell’OMS per l'Educazione Sessuale in Europa”,
altro è confrontarsi con chi ritiene che sia rovinoso per la famiglia mettere
in discussione i tradizionali ruoli maschili e femminili e impegnarsi nella
decostruzione degli stereotipi.
3. Abbiamo notato anche che spesso si evocano documenti normativi additandoli come pericolosi - senza citarli in modo corretto, a volte
addirittura falsificandoli, a volte estrapolando le frasi dal loro contesto.
Basti qui pensare, oltre alla campagna contro i già citati Standard OMS,
alle polemiche prima sul ddl “Fedeli” e ora sul comma 16 dell'art. 1 della
legge 107 del 13 luglio 2015 (“Buona scuola”), che non ha altra finalità se
non quella di promuovere il principio di pari opportunità e di prevenire e
contrastare ogni forma di discriminazione e di violenza basata sul sesso e
sull’orientamento sessuale: si tratta di un’applicazione degli art. 3 e 51
della Costituzione e quindi stupiscono la contrarietà con cui è stato accolto
e le interpretazioni distorte di cui è stato oggetto.
4. Osserviamo infine che riguardo a tutti i temi che vengono evocati
quando si parla di “ideologia gender” ci sono – crediamo legittimamente –
pareri diversi tra persone e gruppi che pure hanno la stessa fede cattolica,
3
sia nel merito che nel metodo individuato per intervenire nel dibattito in
corso nella società civile. Le posizioni e i linguaggi espressi nella
manifestazione svoltasi il 20 giugno a Roma, per esempio, non erano
rappresentativi dell’intero mondo cattolico, e diverse associazioni
ecclesiali hanno deciso di non prendervi parte. Tuttavia, anche al netto di
una certa malafede per esigenze di “audience”, qualcosa nella
comunicazione di questo pluralismo non deve aver funzionato, se i mass
media hanno spesso sintetizzato, e continuano a farlo, con titoli come
“Cattolici in piazza contro…”.
Facciamo quindi appello a voi in quanto responsabili di associazioni e
movimenti cattolici della Chiesa di Parma, di cui ci sentiamo parte viva,
affinché la ricerca e l’impegno su questi temi si sviluppino nel rispetto del
pluralismo intra-ecclesiale e basandosi su un’informazione ampia, corretta
e verificata. In mancanza di questo ci pare che sia molto difficile, sia
all'interno della Chiesa che nel rapporto con altri soggetti culturali e
religiosi, istruire un confronto e un dialogo che assumano la complessità e
siano realmente ponderati e costruttivi.
Parma, 16 luglio 2015
Stefania Berghenti, Margherita Campanini, Sara Chierici, Monica
Cocconi, Maria Silvia Donati, Emanuela Giuffredi, Daria Jacopozzi,
Angela Malandri, Carla Mantelli, Maria Pia Mantelli, Stefania Mazzocchi,
Maria Michiara, Viviana Muller, Antonella Paolillo, Eleonora Torti, Rita
Torti, Simona Verderi
(segnalato da: Luara Maltese)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2314
Immigrazione
Rivolte anti immigrati, le associazioni: paese
incattivito e chiuso in se stesso (di Redattore Sociale)
Scontri a Casale San Nicola, a nord della Capitale e a Quinto (Tv) per
l’arrivo di alcuni richiedenti asilo. Sami (Unhcr): “Volontà politica di
sfruttare le tensioni”. L’assessore Danese: “Solidarietà con i profughi
assediati nel loro traguardo verso una vita migliore”. Caritas: "Clima
d'odio che non s'era mai visto"
“E’ vergognoso quello che sta accadendo in queste ore a Roma e Treviso.
E’ chiaro che c’è una volontà politica, da parte di alcuni gruppi, di
sfruttare le tensioni presenti nella società italiana, ma questa
strumentalizzazione è intollerabile”. Lo sottolinea Carlotta Sami,
portavoce dell’Unhcr, in merito alle proteste anti immigrati esplose nelle
due città italiane. Ieri a Quinto, in provincia di Treviso, dopo il
trasferimento di circa 100 profughi, la palazzina in cui erano appena stati
accolti è stata presa d’assalto. A guidare la spedizione alcuni residenti
della zona e militanti di Forza nuova e Lega Nord. Scene simili si sono
viste anche questa mattina a Casale San Nicola, a nord di Roma, dove un
gruppo di abitanti e militanti di Casa pound ha manifestato contro l’arrivo,
previsto per oggi, di un centinaio di profughi. Il sit in è ancora in corso e
ci sono state anche cariche da parte della polizia.
“Queste manifestazioni di intolleranza vanno valutate per quello che sono:
servono solo da un punto di vista politico e si basano sulla
disinformazione – continua Sami – cioè sul far credere che chi scappa da
una guerra o da una situazione di persecuzione venga accolto con
maggiori privilegi rispetto a quelli che hanno gli italiani. Si fa pensare alla
gente che la presenza dei rifugiati possa togliere qualcosa, mentre
bisognerebbe spiegare che queste persone non solo non hanno nessun
privilegio ma hanno situazioni terribili alle spalle. Inoltre, alcune volte
possono anche rappresentare un’opportunità per noi: pensiamo solo ai
tanti cittadini italiani impiegati nei centri di accoglienza”. La portavoce
dell’Unhcr ricorda inoltre che i rifugiati e i richiedenti asilo hanno “diritto
di essere accolti”. “La maggior parte di chi è soccorso dall’Italia se ne va –
aggiunge – sono tanti i transitanti, queste paure non hanno ragione di
esistere”.
Sdegno per le proteste a Roma anche da parte dell'assessore capitolino alle
Politiche sociali Francesca Danese, che esprime innanzitutto solidarietà ai
rifugiati “assediati nel loro difficile cammino verso una vita migliore”.
“Le immagini che arrivano da Casale San Nicola non rappresentano
Roma, la nostra città è un’altra e si sta preparando a un modello di
accoglienza diverso – spiega Danese – . Purtroppo, però, ci sono gruppi
che strumentalizzano la situazione e intossicano la grande solidarietà che
esiste nella Capitale. Non dobbiamo dimenticare – aggiunge – che i
profughi sono persone che scappano da guerre e da situazioni di vita
pesanti, sono quindi persone vulnerabili e non persone pericolose come si
vorrebbe far passare. Si portano dietro un dolore inenarrabile, non a caso
hanno bisogno di un’accoglienza e di un’assistenza a 360 gradi”.
L’assessora si dice inoltre vicina alle persone che abitano a Casale San
Nicola, al presidente del municipio e al poliziotto ferito durante i tafferugli
di questa mattina, tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Intanto da poco
i richiedenti asilo sono entrati nella struttura di Casale San Nicola. “Dopo
le difficoltà riscontrate questa mattina, le forze dell'ordine sono riuscite a
far entrare i cittadini stranieri all'interno della struttura a loro riservata. Al
momento, quattro agenti di polizia risultano feriti a seguito dei tafferugli”,
fa sapere la Questura di Roma.
Tante le associazioni che hanno condannato le proteste anti immigrati.
“Una città che non accoglie i migranti (famiglie e ragazzi in fuga da
guerre, persecuzioni e povertà) è un popolo senza memoria, un
agglomerato umano che non può dirsi comunità” -sottolinea in una nota la
Caritas di Roma, che aggiunge: "Così anche il tema dell’accoglienza – le
procedure di emergenza, l’individuazione dei luoghi – rischia di scontrarsi
con egoismi, interessi e paure. Sentimenti di cui approfittano forze
politiche senza scrupoli per incrementare un clima di odio che mai si era
visto a Roma e in Italia”. Dello stesso parere anche Arci che parla di un
“paese incattivito e chiuso in se stesso". “E’ passata l’idea dell’invasione,
di un paese in perenne emergenza per far fronte a un’immigrazione che ha
numeri più contenuti che in altri paesi - sottolinea l'associazione -. Il tutto
per giustificare, politicamente e moralmente, l’incapacità di gestire
qualche migliaio di persone in fuga per la sopravvivenza". L'Asgi
(associazione studi giuridici sull'immigrazione) pone l'accento sulla
mancanza di norme e regole chiare sull'accoglienza come causa dei
conflitti sociali. "Gruppi di dichiarata ispirazione neofascista hanno
abilmente strumentalizzato le paure e il disagio della popolazione
residente - spiegano in una nota - Se nessuna violenza contro persone
giunte nel nostro Paese in fuga da guerre e persecuzioni può essere mai
tollerata, gli episodi accaduti a Roma e Treviso, pur nella loro diversità,
vanno comunque tenuti in considerazione perché mettono in luce le gravi
carenze del sistema di accoglienza vigente". Infine il centro Astalli
condanna la strumentalizzazione politica e mediatica di quanto accaduto:
"Roma si trova ad accogliere persone che sono state costrette a lasciare la
propria casa a causa di crisi umanitarie, conflitti o regimi dittatoriali afferma padre Camillo Ripamonti - Si tratta mediamente di persone molto
giovani e tra di loro tante sono le vittime di tortura. È da condannare ogni
forma di strumentalizzazione costruita ad arte per creare pericolose
tensioni e inutili allarmismi tra la popolazione". (ec)
© Copyright Redattore Sociale
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http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/487850/Rivolte-antiimmigrati-le-associazioni-paese-incattivito-e-chiuso-in-se-stesso
Nonviolenza
Alcune riflessioni teoriche a partire dalla Grande
guerra (di Antonino Drago)
La guerra è un flagello [sociale] fatto da mano d’uomo. In realtà si fanno
la guerra e la rivoluzione [violenta] perché si subiscono la miseria e la
servitù [anche culturale].
Lanza del Vasto, I Quattro Flagelli, 1959
A poco più di cento anni dall'inizio della Prima guerra mondiale, una delle
4
domande che viene in mente per tentare di spiegare le ragioni profonde, le
dinamiche, gli esiti e il senso di quegli eventi, è perché i due principali
attori politici popolari del tempo, ovvero il movimento socialista da una
parte e il movimento cristiano-cattolico dall'altro, siano caduti in quel
terribile conflitto, all'interno del quale forse per la prima volta nella storia
umana è mancato ogni limite e ogni controllo sull'uso della forza armata.
Riflettendo su questo punto, ritengo si possano ricavare alcune lezioni sul
tipo di organizzazione e sul tipo di sviluppo politico che dovrebbero essere
promossi per evitare nuove guerre: promuovere con decisione una politica
auto-gestionaria e un modello di sviluppo non più guidato da scienza e
tecnologia concepiti come un blocco unitario e monolitico, senza
alternative interne e senza significative interazioni con gli altri campi del
sapere umano.
1. La Chiesa cattolica e la guerra
Considero all'interno del movimento cristiano soprattutto la Chiesa
cattolica, in quanto rappresenta la maggior parte della cristianità coinvolta
nella guerra. In quei tempi essa si ostinava a voler rappresentare Dio in
Terra attraverso un Regno politico di stampo assolutistico. Nei suoi
rapporti politici esterni la sua politica era da autorità suprema, che poteva
anche contrapporsi alle altre nazioni sovrane. All’interno, aveva
aumentato l'autoritarismo tradizionale stabilendo l'infallibilità del solo
Papa (1868-1870, Concilio Vaticano I), dopo che nel 1864 il Syllabus
aveva rappresentato l'apice del suo rifiuto delle novità del mondo
moderno.
Dopo la fine dello Stato Pontificio (1870), la Chiesa cattolica ha dovuto
scegliere una nuova strategia politica nei confronti delle Nazioni. Alla
fine, ha accettato lo Stato liberale, ma ha mantenuto la volontà di imporsi
sui propria fedeli e sul mondo esterno: in ogni Paese in cui la maggioranza
dei cittadini era cattolica ha promosso un partito finalizzato ad approvare
in Parlamento le leggi che erano in accordo con gli insegnamenti
autorevoli della Chiesa, mentre ogni suo fedele doveva solo votare, sotto
obbedienza al papa, questo partito. In Italia la situazione è stata per un
certo periodo ancora peggiore: il non expedit proibì ai cattolici di
partecipare alla vita politica fino al 1920). Inoltre, quando nel 1911 il
governo italiano, autoproclamando il proprio diritto di conquista e
“civilizzazione” sui paesi “sottosviluppati”, ha iniziato la guerra Libia
inaugurando tra l'altro i bombardamenti aerei, non si sono registrate
rilevanti opposizione cattoliche.
Parte del movimento cattolico, sperimentando comunque una
partecipazione alla vita politica, che in quel tempo andava nella direzione
di promuoveva il ruolo dei ceti subalterni, ha cercato di iniziare una nuova
esistenza politica dentro e fuori la Chiesa, risultando in principio sconfitta.
Nei primi anni del XX secolo il movimento ecclesiale chiamato
Modernismo, che chiedeva una riforma dell'istituzione ecclesiastica e dei
suoi rapporti esterni ed interni, ha ricevuto una dura condanna da parte
delle gerarchie. In parte esso si è trasfuso in un movimento politico,
alimentando tra le altre cose soprattutto le cosiddette “cooperative
bianche”.
Quando poi è scoppiata la Prima guerra mondiale, la Chiesa che l’ha
affrontata era la più autoritaria e retrograda possibile. La sua strategia
politica complessiva fu quello di sostenere l'Impero Austro-Ungarico,
perché in Europa era il più forte potere politico di fede cattolica, contro
l'Inghilterra protestante e la Russia ortodossa. Non ebbe rilevanza politica
tra i Vescovi e, quindi anche sui fedeli, l'opposizione di tipo morale
pronunciata da papa Benedetto XV sulla guerra, definita “una inutile
strage”. Così come non ebbero influenza le parole di fuoco contro la
guerra scritte da alcuni cappellani (volontari) militari tra cui il futuro papa
Giovanni XXIII, Padre Pio, Don Minzoni, ecc. In quest'epoca la
popolazione fu intruppata in una azione collettiva fatalistica che non aveva
più nessuna autentica luce religiosa – e come avrebbe potuto averla – ma
solo pratiche esteriori e strumentali alla costruzione del consenso, come le
messe celebrate all’alba sia di qua che di là del fronte austriaco, prima di
ricominciare la carneficina.
Dopo la distruzione dell’impero cattolico austriaco e, quindi, il fallimento
della politica della Chiesa, da parte di quest'ultima non c’è stato nessun
pentimento per l'atteggiamento autoritario ad eccezione di una piccola
apertura: ai fedeli cattolici italiani è stato permesso di fondare un partito
indipendente dalla Chiesa (sia pur guidato da un prete, don Sturzo, che,
però si rivolse ai "liberi e forti"). L’ascesa del fascismo al potere nel 1922
mise fine a questa novità. In seguito, anche se il regime fascista
promuoveva una "Mistica fascista", nel 1929 la Chiesa ha accettato di
legarsi ad esso con il "Concordato".
2. Il movimento socialista e la guerra
L'altro attore politico popolare dell'epoca, il movimento socialista, ha
avuto anche esso la tendenza, nonostante le proprie posizioni
emancipatrici, a sviluppare un'organizzazione autoritaria. Ricordiamo che
la Prima Internazionale dei Lavoratori si è sciolta perché la componente
anarchica di Bakunin (che voleva una politica di completa autogestione
della classe lavoratrice) perse rispetto alla componente Engels-Marx, che
voleva attribuire al Partito un ruolo di forte guida dei lavoratori.
Secondo il Manifesto del Partito Comunista (1848) la borghesia stava
scavando la propria tomba per il semplice fatto che portava avanti il
progresso tecnologico e sociale. Prima del Congresso di Gotha (1875) in
nome del progresso, Engels lanciò la strategia politica di un'alleanza
politica con l'ala sinistra della borghesia, al fine di ottenere alcuni vantaggi
sociali minimi: il miglioramento delle condizioni sociali dei lavoratori, la
scuola pubblica per una maggiore educazione degli strati più bassi della
popolazione, ecc. Contro questa strategia politica Marx (anche se
sopravviveva col sostegno finanziario di Engels) ha scritto il libro (poi
rivalutato dalla rivoluzione culturale cinese) detto Critica del programma
del Gotha. Ma Marx perse quella battaglia e si ritirò di fatto a vita privata.
La politica industriale e sviluppista di Engels non ebbe più ostacoli. Poi, la
Seconda Internazionale proclamò il rifiuto della politica borghese del
"parlamentarismo" ma di fatto ogni partito nazionale di ispirazione
socialista accettò di entrare in Parlamento.
Sul tema pace, l'Internazionale ufficialmente era contro la guerra. Gli
slogan principali erano: "Né un uomo, né un soldo per la guerra!" E prima
di tutto: "Contro la guerra, lo sciopero generale!" La componente pacifista
all'interno internazionale era rappresentata principalmente dal pastore
olandese Domela Niuewenuis, amico di Marx; ma nei primi anni del
secolo, egli ha abbandonato il partito a causa del suo disaccordo con la
politica della gran parte dell’Internazionale. Soprattutto, nel 1904 il primo
tentativo di sciopero internazionale fallì. Seguì una grande delusione
all'interno del movimento operaio, che si rese conto di non riuscire ad
utilizzare il suo principale strumento politico.
necessario per mantenere il progresso della civiltà occidentale, incluso lo
sviluppo del capitalismo stesso. Ci fu anche una celebre questione posta
dai marxisti russi: se i villaggi russi, che erano già delle comunità,
dovessero passare attraverso la fase capitalista della storia occidentale,
quando la finalità era di raggiungere di nuovo la stessa vita comunitaria,
anche se rinnovata dalla ideologia socialista. Marx ed Engels non decisero
la questione.
In Francia il grande pacifista Jaurès aveva cercato di rilanciare la difesa
popolare, avviata nel 1793 da Lazare Carnot con la "levée en masse"
contro gli eserciti monarchici europei coalizzati per schiacciare la
rivoluzione francese, con il programma di una "Armée du peuple". Ma fu
assassinato alla vigilia della Prima guerra mondiale. Comunque la Francia
fu contro una strategia offensiva. Scelse, in accordo con la tradizione di
Carnot, la strategia puramente difensiva della "linea [fortificata] Maginot".
Ma le truppe tedesche la aggirarono, attaccando i paesi confinanti, benché
neutrali, e invasero la Francia.
In Italia la resistenza popolare ad entrare in guerra fu molto forte. Di fatto,
l’ingresso fu ritardato per un anno. Poi la volontà di combattere
(principalmente del re) è stata superiore a qualsiasi ragione contraria.
Infatti si dichiarava che la ragione italiana per combattere era di
riconquistare i territori di Trieste e Trento, che però l'Austria avrebbe
concesso subito purché l'Italia rimanesse neutrale.
In Germania, prima della guerra mondiale, il capo della Gioventù
socialista internazionale, Karl Liebknecht, disprezzava l'obiezione di
coscienza come un atto individualista e anarcoide. Ironia della sorte,
quando nei Parlamenti le leggi per i crediti di guerra dovettero essere
approvati, in quello tedesco Karl con pochi altri negli altri Parlamenti
(anche Stalin lo fece in Russia) obiettò. In realtà, la sua obiezione fu la
massima possibile: alla guerra, alla legge in approvazione, alla disciplina
di partito e al capo di tutta la II Internazionale, che era anche suo padre,
Wilhelm. Negli scritti successivi, Karl avrebbe rivalutato l'obiezione di
coscienza, ora considerandola la prima mossa per promuovere una
avanguardia di un successivo movimento di massa. Negli ultimi ani di
guerra lui e Rosa Luxemburg promossero una reazione violenta da parte
dei lavoratori-soldati (“Proletari in divisa”): in nome della maggiore
importanza della lotta di classe rispetto allo scontro delle borghesie
suggerivano di fare fuoco sui propri ufficiali militari. Ma questa forma di
reazione fu rapidamente bloccata dalle autorità militari.
Dalle riflessioni precedenti si può trarre una prima lezione: contro la
politica autoritaria delle principali istituzioni e organizzazioni sociali, che
finisce per sostenere le guerre, occorre promuovere l'obiezione di
coscienza, la nascita di organizzazioni sociali autogestite e gli scioperi
generali internazionali.
Nel 1908 al Congresso di Stoccarda tutti le correnti interne
all’Internazionale approvarono una mozione, presentata da Rosa
Luxemburg, che dichiarava di voler combattere lo scoppio di una
imminente guerra. Ma anche che, nel caso scoppiasse, occorreva
utilizzarla per rovesciare il governo. Questa mozione definì una volta per
tutte la politica dell’Internazionale sulla guerra. Però ogni corrente
interpretava a modo suo la maniera di “rovesciare il governo”: attraverso
le elezioni o la rivoluzione, anche armata? A fronte di questi principi antibellicisti, ma prassi è spesso diversa: così ad esempio la guerra Italia-Libia
passò senza una forte reazione, né del socialismo italiano né di quello
internazionale.
3. Affermazione e involuzione autoritaria della Rivoluzione russa
Ma è sulla partecipazione alla Prima guerra mondiale che il movimento
socialista vive la massima tensione interna, che porterà di fatto alla fine
della Seconda Internazionale. Secondo lo storico Haupt, il motivo
principale per cui la Seconda Internazionale accettò di entrare in guerra
era la preoccupazione di mantenere il progresso occidentale; infatti vedeva
la minaccia principale in una vittoria della " barbara Russia ", che era vista
pronta a invadere l'Europa e a riportarla indietro di secoli. Neanche il
colonialismo fu respinto dal movimento socialista, perché lo riteneva
È un fatto noto che, agli inizi del Novecento, gli strati sociali inferiori
avevano conquistato un potere senza precedenti, tanto da guadagnare un
ruolo politico rilevante all'interno di ogni Paese europeo. Essi volevano
una nuova organizzazione della società, basata sulla giustizia per tutti,
anziché sulla libertà (e sui privilegi) di pochi. Ma i sistemi autoritari
europei avevano la capacità di reagire alle loro mosse e, in varie modalità,
riuscirono a bloccarli. Anche per questo la rivoluzione non si è verificata
nei paesi economicamente più sviluppati e centrali nel sistema
5
Al tempo stesso, proprio la grande confusione internazionale che ha
accompagnato il primo conflitto mondiale ha consentito la ribellione del
popolo russo alla guerra zarista e poi la nascita di uno Stato di tipo diverso
da quelli borghesi dell'Europa occidentale. Qui l'interrogativo storicopolitico, a cui da allora si cerca di rispondere, diventa questo: come è stato
possibile che da un popolo, che stava vivendo una guerra mondiale, sia
nato un nuovo grande evento, la rivoluzione russa, e poi l'Unione
Sovietica che per 70 anni molti popoli nel mondo hanno considerato
l’inizio di una nuova società e di una nuova storia?
capitalistico occidentale, come la Germania o l'Inghilterra, ma piuttosto là
dove il regime politico era più debole: un paese più arretrato e periferico
come la Russia.
Ricordiamo che già alla fine del XIX secolo nelle fabbriche russe era
iniziato il movimento dei “soviet”, ossia dei 'parlamenti dei lavoratori' che
si andavano formando in fabbrica e nelle città, in tutto il paese. Esso aveva
guadagnato rapidamente un grande sostegno popolare ed aveva svolto un
ruolo importante durante la fallita prima rivoluzione russa del 1905,
promossa dal basso attraverso un vasto ciclo di scioperi. Nel 1917 Lenin
divenne il leader della rivoluzione, prima ponendosi a capo dei soviet che
egli poi oppose a tutti le altre componenti della rivoluzione (“Tutto il
potere ai soviet!”), poi utilizzando questo potere totale per attuare una
gestione sempre più autocratica degli obiettivi della rivoluzione. La
successiva dittatura staliniana ne fu una prevedibile conseguenza.
L'esito di questa vicenda conduce a porsi una ulteriore domanda: perché,
sin dall’inizio della nuova società nata in Russia, la speranza dei lavoratori
nel mondo per una organizzazione sociale auto-gestionaria ha mancato
l’obiettivo, anzi ha finito per produrre un regime che ne ha contraddetto le
stesse ragioni?
Nella genealogia della svolta autoritaria della rivoluzione russa ha un
significato emblematico la vicenda della “scuola di Capri”. Durante la
rivoluzione fallita del 1905 in Russia Lenin rimase fuori del paese, mentre
Bogdanov che faceva anche lui parte della maggioranza del partito
socialdemocratico russo (“bolscevichi”), fu arrestato assieme al Comitato
centrale dei Soviet. Fuggito in Svizzera, con la maggior parte dei
bolscevichi, sconfisse Lenin che voleva accettare l'invito dello zar ad
entrare nel Parlamento (“Duma”). Nel 1908 insieme a Lunacarskij e altri
bolscevichi, Bogdanov intese reagire al fallimento della rivoluzione russa
del 1905 organizzando a Capri, una scuola internazionale per educare la
nuova generazione socialista ad una prossima rivoluzione, grazie al denaro
e alla grande casa del famoso scrittore Gorkij. La fondazione della scuola
fu lanciata tramite un appello internazionale, invitando anche il resto del
partito, Lenin compreso. La caratteristica saliente della Scuola di Capri era
l'autogestione di tutto il processo educativo. Tra gli sconfitti dei
bolscevichi, Lenin e poi Stalin la visitarono e ne contestarono i
presupposti e gli obiettivi. Per contrapporvisi a livello internazionale
Lenin fondò una sua scuola di quadri a Longjumeau, un piccolo paese
vicino Parigi, di tipo più autoritario. Una volta passata la stagione delle
scuole, Lenin si alleò con i menscevichi e li convinse ad ad espellere dalla
Seconda Internazionale il principale promotore della scuola di Capri,
Bogdanov stesso, a carico del quale lanciò l’accusa di aver organizzato gli
"espropri proletari", ossia gli assalti alle banche, che invece costituivano
una pratica generalizzata dei russi in esilio, per avere il danaro per
sopravvivere in un paese straniero.
Ma la questione aveva radici profonde. Fin dai primi anni del secolo Lenin
aveva teorizzato la figura del “rivoluzionario di professione”, il solo che
potesse avere la piena coscienza delle leggi storiche, mentre i lavoratori
sfruttati, alienati e senza tempo sufficiente per studiare, richiedevano alla
fine di essere risvegliati alla coscienza e guidati nella prassi politica.
Anche il sindacato, in questa visione, doveva essere “la cinghia di
trasmissione” degli ordini del Partito e in definitiva dei leader
rivoluzionari di professione.
Bogdanov invece insisteva sulla necessità di una “rivoluzione culturale”
che la classe operaia doveva compiere prima, o almeno nel corso della
rivoluzione politica che l'avrebbe portato al potere, in modo da gestirlo
alla luce di una crescente consapevolezza del funzionamento della società
e delle dinamiche della storia. In questa prospettiva, proprio durante la
rivoluzione russa insieme al cognato Lunacarskij, lanciò nel paese il
movimento “Proletkult” (cultura proletaria), che per la prima volta nella
storia ha promosso una campagna di alfabetizzazione di massa. Il
Proletkult ebbe mezzo milione di aderenti, e portò avanti finché rimase in
funzione il programma di rifondare tutte le arti e tutte le scienze a
sostegno della rivoluzione socialista consapevole da parte delle masse.
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Nel frattempo, Lenin perseguiva la sua politica di conquista del potere e
ricostruzione dello Stato. Dopo aver messo fine al "comunismo del tempo
di guerra" (reprimendo nel sangue le rivolte degli anarchici di Kronstad e
di Machno), nel 1922 Lenin obbligò Lunacarskij, il capo ufficiale del
Proletkult, a subordinarsi al Partito. Questi eventi segnarono l'involuzione
autoritaria del movimento rivoluzionario iniziato con l'esperienza autogestionaria dei soviet.
Da tutto ciò è possibile ricavare un'altra lezione: a volte è necessario fare
la rivoluzione sociale e, nella storia, essa è stata possibile più volte. Ma
occorre farla senza più obbedire ad un'autorità politica che guida il popolo
dall'alto.
4. La mancata critica della scienza e della tecnologia nel pensiero
socialista
Come sarebbe possibile, oggi o in futuro, rinnovare lo slogan della
Seconda Internazionale e combattere la guerra per mezzo di uno sciopero
universale, ossia attraverso una mobilitazione popolare generale?
Nel 1922 Lenin scrisse che quando la guerra è vicina, la propaganda della
borghesia è così forte da poter cambiare le menti dei lavoratori secondo un
atteggiamento favorevole alla guerra. In effetti, i fattori culturali possono
svolgere un ruolo determinante nel prendere la decisione di andare in
guerra. La propaganda è ancora più influente nel nostro tempo, in cui i
mass media e le nuove tecnologie della comunicazione hanno un ancor più
forte potere sulla mente delle persone. Tenendo presente questa minaccia,
vale la pena riflettere sulla tradizionale politica culturale del movimento
marxista, per farne emergere risorse e criticità.
Marx ed Engels collegarono il programma della rivoluzione ad un'analisi
"scientifica" della storia e della società. Anche se questa analisi aveva
fatto nascere una teoria alternativa alle teorie borghesi (per prima, la teoria
dei rapporti nella fabbrica come rapporti di sfruttamento e alienazione
funzionali all'accumulazione del profitto), essa ha lasciato indeciso quale
ruolo avessero nella trasformazione sociale le scienze naturali: queste
sostengono essenzialmente il potere borghese di sfruttamento del lavoro, o
no? E se lo sostengono, di quale nuovo tipo di scienze naturali ha bisogno
una società emancipata?
Queste domande hanno avuto un ruolo cruciale già al tempo della Prima
Internazionale. Eugen Dühring era uno scienziato di carattere aspro, ma di
rilievo: uno dei pochissimi accademici aderenti alla socialdemocrazia. Egli
suggeriva con cognizione di causa una scienza alternativa sia in
Matematica che in Fisica. Nel timore che Dühring prendesse più
importanza politica di Marx e della sua analisi, Engels fece rinviare un
Congresso internazionale per poterlo prima espellere. E siccome il libro di
Marx, Il capitale, era stato da molto tempo annunciato ma era rimasto
inedito (e tale rimarrà per tutta la vita del suo autore), Engels scrisse il
libro divenuto famoso come l’Anti-Dühring. Nella Prefazione affermò, a
mio avviso falsamente, di aver ricevuto l'approvazione di Marx su un
punto cruciale: l'inevitabilità del tipo occidentale di sviluppo.
Con questo libro è nato il cosiddetto “marxismo volgare”, che vede tutto
in termini economicisti. In realtà, dopo la sconfitta al Congresso di Gotha
Marx dedicò gli ultimi anni della sua vita a studiare la matematica più
avanzata, soprattutto il calcolo infinitesimale. Cercava, e trovò,
un'alternativa alla formulazione dominante di questa teoria. Ma i suoi
manoscritti sono stati pubblicati quasi un secolo dopo, nel 1968, e tuttora
vengono intesi in una maniera che li accomuna al pensiero, molto diverso,
di Engels.
Il già ricordato Bogdanov non solo è stato il primo a promuovere
l'economia marxista in Russia, nonché il primo scrittore sovietico di
fantascienza: basandosi sull'epistemologia dello studioso più importanti
del suo tempo, Ernst Mach, ha suggerito un programma per fondare
un'alternativa proletaria nelle scienze naturali, da costruire secondo un
punto di vista essenzialmente diverso da quella borghese. Vale la pena di
ricordare che quando era a Zurigo, Einstein era in collegamento con il
gruppo degli esuli russi, che comprendeva anche Bogdanov.
Dopo aver visitato la scuola di Capri, Lenin scrisse rapidamente un
saggio, Materialismo ed empiriocriticismo, per contrastare il programma
di Bogdanov sulla nuova scienza della natura. Criticato da più parti, in
primo luogo da Plechanov, la più alta autorità filosofica tra i russi
socialisti, il libro di Lenin non ebbe alcun effetto politico. Ma nel 1922
l'autore ne impose la ripubblicazione per combattere Bogdanov. Dopo di
allora questo libro scadente è rimasto quale punto di riferimento per gli
studiosi marxisti delle scienze naturali e le posizioni del suo avversario
sono sempre state liquidate senza ulteriori approfondimenti.
Questi eventi di politica culturale hanno avuto conseguenze drammatiche
sull'esito della rivoluzione e sul pensiero marxista in genere. Dopo la sua
costituzione, l'URSS ha dovuto scegliere tra due strategie: o
l'industrializzazione o l'applicazione intransigente della politica di
costruzione della società socialista. Lenin pensò di risolvere il problema
con lo slogan "industrializzazione più soviet". In realtà i soviet, sottoposti
all'autorità del partito e di Lenin, non furono in grado di cambiare le leggi
intrinseche dell'industrializzazione. In quel tempo nelle fabbriche del
mondo venne introdotto il taylorismo come “scienza del lavoro”, cioè la
ripetizione illimitata di un lavoro frazionato, in definitiva il lavoro alla
catena di montaggio. Fu allora che la leadership politica dell’URSS creò il
primo mito di questa “nuova società”, lo stacanovismo, ossia la capacità
instancabile di lavorare del singolo lavoratore.
Alla fine degli anni '50 il dilemma precedente sulla tecnologia ha avuto un
ruolo fondamentale nello sviluppo delle Cina comunista. Prima in Russia,
per rimediare all’allontanarsi degli obiettivi rivoluzionari, l’idea di
Bogdanov della scienza alternativa fu sfruttata da Stalin inventando con il
contributo di Lysenko una scienza agricola. Ma questa scienza alternativa
di regime fallì miseramente e Stalin aprì alla scienza occidentale. Invece la
Cina espulse i tecnici russi e poi la rivoluzione culturale sparse in tutto il
paese le giovani guardie rosse per insegnare ad ogni lavoratore
professionista le massime del “libretto rosso”. Quasi contemporaneamente
nei paesi occidentali sorprendentemente nacque il potente movimento
studentesco, che tra i suoi slogan aveva anche: "La scienza [della natura]
non è neutrale!" Ma purtroppo nelle scienze della natura nessuno fu in
grado di suggerire un'alternativa, e neanche di ricordare il programma
della scienza alternativa lanciato da Bogdanov.
Da qui un'ulteriore lezione da ricordare è che il movimento socialista è
stato inadeguato nel discutere e nel decidere il ruolo politico svolto dalla
scienza e dalla tecnologia occidentale nel processo di costruzione di una
nuova società.
5. Bomba o nonviolenza? Una scienza alternativa è necessaria e possibile
Come ha scritto Lanza del Vasto, "due sono le grandi scoperte del XX
secolo: la bomba e la nonviolenza". Da un lato, la crescita della scienza e
della tecnologia nella società, tale da dare ai regimi autoritari ancora più
potenza, fino a quella massima delle armi nucleari. Tali armi furono usate
per la prima volta da uno Stato democratico, gli Stati Uniti, che con un
atto brutale le sperimentarono sulle popolazioni civili indifese di
Hiroshima e Nagasaki. Ma non furono rifiutate dalll'USSR, che le
sviluppò e utilizzo per minacciare di distruggere il Paese nemico,
compresa la sua stessa classe proletaria. Un chiaro vicolo cieco delle
politiche di entrami i regimi contrapposti.
Eppure, al di fuori del Nord del mondo, una società libera dai miti
scientifici come quella indiana di millenaria tradizione culturale, è rinata
proprio quando Gandhi ha dimostrato ad esempio con la Marcia del sale
del 1931 che tutti i tipi di conflitti, anche quelli contro le istituzioni che
hanno armi terrificanti, possono essere risolti attraverso le relazioni
interpersonali. Esattamente ciò che il movimento operaio aveva inteso fare
contro la prima guerra mondiale, prima di venire in molti paesi bloccato
7
dai suoi dirigenti, che avevano accettato la logica del progresso scientifico
(e delle armi) come inevitabile. Bisogna riconoscere, contro ogni filosofia
e ogni propaganda fintamente realista, che la guerra non è inevitabile, né
tanto meno una molla di progresso della storia dell’umanità (Hegel),
neanche sotto il profilo del progresso della scienza (ma scienza per chi?).
Bisogna riconoscere che è falso il mito della unità della scienza, o,
parimenti, il mito di una scienza che ha un’unica possibilità di sviluppo,
anche se questo mito oggi è condiviso da tutti gli strati sociali, che non
contempla neanche la possibilità che il sapere scientifico comprenda al
suo interno delle alternative di paradigma, sia teorico che pratico (come
già avevano scoperto Duehring, Marx e Bogdanov).
Proprio in relazione alla prima guerra mondiale sono state proposte
alternative alle ragioni, pretese scientifiche, a sostegno della corsa agli
armamenti. Il classico studio di F. Richardson, sulle due equazioni
differenziali del primo ordine accoppiate, ha dimostrato che lo scontro
della grande guerra poteva essere evitato se gli scambi economici tra i
paesi fossero stati maggiori (in termini monetari) rispetto a quelle per la
corsa agli armamenti. La stessa conclusione può essere ripetuta
sostituendo agli scambi economici gli scambi culturali e giovanili. Dopo
la guerra un'ulteriore teoria scientifica, la teoria dei giochi, ha suggerito in
altro modo soluzioni pacifiche dei conflitti.
Anche la Fisica ha suggerito questa alternativa nella programmazione
scientifica energetica di una società su scala planetaria. Mentre la teoria
nucleare suggeriva, oltre alle armi nucleari, che costituiscono la peggiore
minaccia per la sopravvivenza del genere umano, le centrali nucleari
(cosiddette “civili”), dagli alti rischi per l'ambiente e la salute umana, e dal
modello di gestione centralistico e autoritario, la teoria termodinamica
insegnava che la strategia migliore a cui la scienza può essere finalizzata è
l’uso efficiente dell’energia, possibile in una società de-centralizzata ed
autogestita, finalizzata a migliorare i rapporti con la natura e tra le
persone. Questa stessa alternativa sociale è suggerita dalla scienza
ecologica, nata alla fine del 1800, rifiutata fino al 1975 dal movimento
marxista oltre che dall'accademia occidentale e dai sistemi politici, ma che
oggi ci viene imposta dai disastri ecologici e dal mutamento climatico
globale.
La storia delle teorie scientifiche ci insegna che oggi sono nate la Teoria
dei computer e la Biologia teorica, del tutto al di fuori di tre secoli di
orgoglioso e arrogante monopolio della teoria Fisica. Ho sottolineato
questa alternativa nella scienza con il libro Le due opzioni, pubblicato
presso La Meridiana, nel 1991, e più recentemente con due articoli su
Nuova Secondaria, intitolati “Dalla storia della fisica ai fondamenti della
scienza” e “Dai fondamenti della scienza alla filosofia e alla didattica”.
Quindi nel passato il movimento marxista è stato molto grossolano nel
pensare che il (mitico) progresso realizzato dalla scienza (benché astratta
dalla realtà della classe operaia) e la conseguente tecnologia (benché
produttrice della corsa agli armamenti) fossero capaci di dare il potere
sociale alla classe proletaria nella storia dell'umanità.
Allora ricaviamo un'ulteriore lezione: il modo migliore di promuovere lo
sviluppo dei popoli è quello di dare al popolo la possibilità di riconoscere
tutti i conflitti, inclusi i conflitti con, e all'interno della scienza, e la
capacità di risolverli con una “scienza della Pace” non basata sui calcoli
(bellici, monetari, scientifici) ma sull'uso del metodo nonviolento.
In conclusione, una rivoluzione vera rispetto al sistema politico della
tradizionale civiltà occidentale richiede due tipi di rivoluzione. Una
rivoluzione che riguarda il tipo di organizzazione per ottenere una società
decentralizzata, auto-gestionaria e comunitaria (così come il pensiero
socialista aveva intuito chiaramente, e iniziato a praticare). Una
rivoluzione che riguarda il tipo di progresso scientifico. Infatti, al
contrario della teoria fisica culminata nella teoria nucleare, ci sono teorie
alternative che portano a considerare per primo il rapporto umano e la
relazione con la Natura. Questa è l'ultima lezione ottenuta dalla riflessione
sulla prima guerra mondiale: al fine di acquisire una padronanza autentica
della propria storia il genere umano deve superare il mito della scienza e
della tecnologia come saperi neutrali e unitari, privi di alternative teoriche
e pratiche.
In realtà molti popoli (anche se l’accademia occidentale non si è accorta)
hanno già appreso la lezione sul primo tipo di rivoluzione. Due recenti
studi hanno elencato 323 rivoluzioni avvenute nel secolo scorso. Un
centinaio di esse (che sono avvenute sono avvenute soprattutto nella
seconda metà del secolo) sono terminate senza scontri sanguinosi, per la
forte coesione popolare che è stata capace di fratturare dall’interno le
forze repressive. Gli studi statistici su tutte le rivoluzioni hanno ricavato
che queste seconde sono state vittoriose al 53% e hanno fatto sorgere
regimi più stabili di quelle violente, che sono state vittoriose al 24%. I
dettagli sono riportati dal mio libro Le rivoluzioni nonviolente del secolo
scorso. I fatti e le interpretazioni, pubblicato da Nuova Cultura, nel 2010.
Ma ancor oggi nei Paesi occidentali persiste il mito culturale della scienza
e della tecnologia uniche, attualmente da accettare a forza per non essere
emarginati. Basti pensare che ogni anno gli Stati Uniti spendono 1.000
miliardi di dollari per i 6 milioni del personale del Pentagono che migliora
la scienza e la tecnologia volti a fini letali, mentre la pace dell’ONU riceve
un millesimo delle spese per gli armamenti in tutto il mondo (1.800
miliardi $) e la pace delle ONG non riceve di fatto alcun sostegno
finanziario stabile.
* Antonino Drago è stato professore associato di Storia della Fisica
all'Università di Napoli, in pensione dal 2004.
(fonte: ScienzaePace - Rivista del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace Università di Pisa)
link:
http://scienzaepace.unipi.it/index.php?
option=com_content&view=article&id=193
Un fatto personale, anche (di Peppe Sini)
Circa trent'anni fa coordinai per l'Italia una campagna di solidarietà con
Nelson Mandela allora detenuto nelle prigioni del regime razzista
sudafricano. Ed una delle cose che costantemente ricordavo a tutti gli
interlocutori era che l'apartheid non era un residuo archeologico di un
medioevo ormai definitivamente superato, ma un modello di
organizzazione sociale, economica e politica che i poteri dominanti
avrebbero cercato di imporre su scala planetaria. E la lotta del movimento
antiapartheid in Sudafrica era decisiva per l'umanità intera. E quindi a chi
chiedeva perché dovevamo essere solidali con quella lotta all'altro capo
del mondo rispondevo semplicemente che non eravamo noi che aiutavamo
Mandela: erano Mandela e i suoi compagni e le sue compagne che
lottavano anche per la nostra libertà, che lottavano per tutta l'umanità.
Poi Mandela vinse, e con lui vinse l'umanità intera. E tutti se ne accorsero
e ne gioirono. Tutti dopo la sua vittoria gli hanno reso omaggio e lo hanno
riconosciuto come simbolo della lotta per la dignità umana, come la più
grande guida politica dell'umanità nella seconda metà del XX secolo.
In Sudafrica il regime dell'apartheid fu abbattuto dalla lotta di un intero
popolo guidato con saggezza, con lungimiranza, con empatia, con la forza
dell'esempio, da persone come Nelson Mandela, i suoi compagni, le sue
compagne.
Una persona, un voto. Il potere al popolo. Vi è una sola umanità.
Quando mori' Primo Levi, che a quella campagna di solidarietà con
Nelson Mandela aveva dato la sua adesione - ed il suo nome era il primo
che facevamo negli incontri e nelle manifestazioni in cui illustravamo
l'iniziativa: poiché al mondo non c'era persona più autorevole di Primo
Levi, la cui parola era da tutti riconosciuta veritiera, e quando parlava era
la voce dell'umanità intera che parlava - organizzai a Viterbo un convegno
di studi in sua memoria. Tra le relatrici ed i relatori di quell'incontro vi
erano personalità illustri dell'antifascismo, sopravvissuti della
deportazione, testimoni luminosi dell'umana dignità; vorrei ricordarli una
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per una, uno per uno, quelle maestre e quei maestri che hanno illuminato
la mia vita e sono ormai in gran parte defunti, ma qui dirò solo della
relazione di Ernesto Balducci che disse parole che fecero piangere di
commozione l'intero uditorio e ancora una volta ci invitava alla lotta,
come ci invitava ancora alla lotta Primo Levi nell'ultima opera sua, I
sommersi e i salvati, nelle cui conclusioni è una frase che non ho più
dimenticato: "é avvenuto, quindi può accadere di nuovo".
Ormai sono un vecchio, un vecchio compagno, fedele all'insegnamento
dei miei antichi maestri, e alla loro memoria che ancora rischiara i miei
giorni.
E poiché quegli antichi maestri ora non sono più vivi, credo di dover
continuare anch'io la loro lotta, la lotta per la buona causa, la lotta per la
vita, la dignità e i diritti di ogni essere umano, la lotta per la liberazione
dell'umanità da tutte le menzogne, da tutte le oppressioni, da tutte le
violenze.
E in primo luogo qui ed ora devo lottare contro l'oppressione razzista e
schiavista nel paese in cui vivo, contro la politica guerriera e violatrice dei
diritti umani dello stato in cui vivo.
In primo luogo devo denunciare e contrastare il razzismo istituzionale,
criminale e criminogeno, che in flagrante violazione della Costituzione
della Repubblica (cosi' come della Dichiarazione universale dei diritti
umani) opprime le persone migranti, favoreggia la violenza mafiosa e
schiavista che le sfrutta brutalmente, consente che esse siano
sistematicamente vessate e fin uccise, è corresponsabile della strage in
corso nel Mediterraneo negando agli innocenti in fuga dalla fame e
dall'orrore di giungere in Italia in modo legale e sicuro. Devo denunciare
la scellerata infamia dell'immane sperpero di risorse pubbliche a fini di
morte: giacché lo stato italiano ogni giorno dissipa 72 milioni di euro
(ogni giorno, 72 milioni di euro al giorno) per le spese militari ed armiere,
ovvero per strutture e strumenti il cui scopo fondamentale è la guerra, che
sempre e solo consiste nell'uccidere gli esseri umani.
E devo denunciare e contrastare l'ideologia razzista che viene diffusa da
propagandisti che trovano complicità scandalose in pressoché tutti i massmedia.
Non mi illudo di poter fare molto, ma quello che posso devo pur farlo. E
quello che posso è invitare le persone che come me pensano che ogni
essere umano è diverso dall'altro e proprio per questo tutte le persone sono
eguali in dignità e diritti, tutte hanno diritto alla vita, al rispetto, alla
solidarietà, tutte fanno parte dell'unica umanità vivente - e vissuta, e
ventura - in quest'unico mondo anch'esso vivente, casa comune
dell'umanità intera; invitarle ad agire insieme - con la forza della verità,
con la scelta della nonviolenza - per contrastare il razzismo e la guerra, per
salvare le vite, per difendere la legalità costituzionale, per difendere la
democrazia, per difendere la nostra comune umanità.
Le quattro proposte che il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani"
di Viterbo propone a chi concorda con noi di inviare ai Comuni
costituiscono azioni positive, buone pratiche, che ogni Comune d'Italia
può agevolmente adottare giacché centinaia e centinaia di Comuni d'Italia
lo hanno già fatto.
Le quattro richieste che proponiamo di inviare ai parlamentari (ed ogni
persona o associazione scelga a quali) serviranno se non altro a
coscientizzare i legislatori ed a contrastare la propaganda razzista e
schiavista cui essi rischiano di esser subalterni ovvero rassegnati o peggio
complici - e subalterne al razzismo, ed esplicitamente complici, le
maggioranza parlamentari susseguitesi nelle ultime legislature lo sono
state indubitabilmente, altrimente non sarebbero ancora vigenti misure
ignobili e sciagurate come ad esempio la detenzione di innocenti in campi
di concentramento, o la scelta abominevole di costringere le vittime
innocenti in fuga dall'inferno a mettersi nelle grinfie dei poteri criminali
per poter giungere nel nostro paese - costrette: poiché lo stato italiano
(violando de facto il diritto d'asilo affermato de jure nell'articolo 10 della
Costituzione) nega loro il diritto di giungere qui in modo legale e sicuro.
Di questo orrore non posso, non voglio essere complice. E come me credo
la maggioranza della popolazione italiana. Facciamo valere la legalità
costituzionale, facciamo valere il principio democratico, facciamo valere
la coscienza e la ragione che sono in ogni essere umano.
Cessi la violenza razzista e schiavista, guerriera e stragista.
Otteniamo dai Comuni provvedimenti che immediatamente promuovano
la democrazia e difendano i diritti umani delle persone innocenti ed inermi
oggi vilmente e brutalmente sfruttate e perseguitate nel nostro paese.
Otteniamo dal Parlamento l'abolizione delle mostruose, illegali misure
razziste scandalosamente, illecitamente imposte e mantenute da chi ha
governato e governa il nostro paese.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
L'indifferenza è complicità coi carnefici.
Il primo dovere è salvare le vite.
(fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2313
Politica e democrazia
La radice comune del fallimento greco e della strage
di Sousse (di Francesco Gesualdi)
La decisione dell’Europa di strangolare la Grecia e i 39 turisti
barbaramente uccisi sulla spiaggia di Sousse sembrano fatti così lontani
fra loro, eppure niente sta più insieme di loro. Il filo che li tiene uniti si
chiama cecità, prima ancora che da parte dei terroristi, da parte dei nostri
governanti.
Sulla storia del debito pubblico greco, sul ruolo della corruzione e dei
prezzi gonfiati che ha visto il coinvolgimento massiccio anche delle
imprese di armi tedesche, sul ruolo dell’alleggerimento fiscale per le classi
più agiate, sul ruolo degli interessi, sul ruolo dei prestiti forniti per mettere
al sicuro le banche creditrici ed evitare il fallimento alle banche private
greche, in una parola su un debito pubblico costruito con la complicità di
tutti per arricchire i già ricchi alle spalle del popolo greco e dei
contribuenti europei, già molto si è scritto. Come in un romanzo
drammatico, l’unico capitolo che manca è quello finale, relativo alla
condanna a morte del protagonista. Ma a scrivere questo capitolo sta
pensando la classe politica europea.
Ridiciamocelo. Il debito greco non è una questione finanziaria. Sul Pil
europeo vale poco più del 2%, mentre sul debito pubblico di tutti i paesi
Ue vale poco più del 3%. Se la classe politica europea la smettesse col
fanatismo mercantilista, l’Europa avrebbe un’infinità di strumenti per
risolvere subito il problema del debito greco senza contraccolpi per
nessuno. Il punto è che non lo vuole fare perché il debito greco è una
questione politica. E’ l’occasione per riaffermare che la classe politica
europea sta dalla parte di chi ha i soldi contro i diritti e l’interesse
collettivo. In questi lunghi mesi di negoziato, il governo Tsipras ha cercato
di indurre la dirigenza europea a considerare anche le ragioni delle
persone, le loro condizioni di vita, il loro diritto alla dignità. Ma non c’è
stato niente da fare: come gelidi kapò impegnati a tenere diligentemente il
registro degli internati da mandare al forno crematorio, così i capi di
governo europei, alcuni di loro fregiati del titolo di centro sinistra, hanno
rifiutato le richieste greche per ricordare al mondo che l’ordine economico
e sociale che vogliono far trionfare è quello mercantile del grande capitale.
Costi quel che costi sul piano umano, sociale, ambientale.
Cosa potrà succedere quando la Grecia sarà sola con tutte le sue difficoltà,
9
nessuno può saperlo. Ma se cercherà soluzioni presso i russi o i cinesi,
diventando un corpo estraneo, addirittura una spina nel fianco dell’Europa
e più in generale del vecchio ordine occidentale, allora si griderà al
nemico fanatico aprendo nuovi fronti di ostilità. Uno scenario che ci porta
sull’altro versante, quello arabo.
L’Europa si sta ponendo di fronte al terrorismo arabo come se fosse una
vittima innocente al pari di un tranquillo viandante preso d’assalto dalla
furia omicida di un folle. Alibi perfetto per non parlare mai di sé, delle
proprie responsabilità e poter rivendicare il diritto a porsi come unico
obiettivo quello di annientare il folle. Ma se i trucchi possono funzionare
per dare sfogo alla forza muscolare col consenso popolare, raramente
danno risultati nella soluzione dei problemi.
Quando si vuole evitare di analizzare i fenomeni, e soprattutto le
responsabilità, la si butta sempre sul conflitto religioso o etnico. E’
successo per la resistenza nord-irlandese, è successo per i conflitti centro
africani, è successo per il conflitto kurdo, armeno, ceceno e chi più ne ha
più ne metta. Ma le questioni religiose ed etniche sono usate come
pretesto per nascondere tutt’altre aspirazioni e tensioni. Io non nego che
nelle file arabe possano esserci degli assetati di potere che usano il Corano
per portare avanti il loro progetto di potere personale. Ma la domanda da
porci è perché fanno così tanti proseliti. Chi sono coloro che rispondono
all’appello dei califfi di turno, che accettano di uccidere o di trasformarsi
in bombe umane? Solo dei fanatici religiosi? Risposta troppo semplice,
ma soprattutto insufficiente a trovare una soluzione. In realtà io ci vedo
tanto risentimento e tanto rancore da parte di persone che si sentono
umiliate e represse per non avere trovato in Europa quell’uguaglianza a
cui aspiravano come nel caso dei tanti maghrebini confinati nei bassifondi
delle grandi città; per essersi sentiti vittime di un’aggressione straniera
come nel caso dell’Iraq; per essere stati violentati nella democrazia come
nel caso dell’Egitto; per essere stati spodestati a casa propria come nel
caso della Palestina. Se non affrontiamo questi nodi con l’umiltà di chi sa
di avere commesso degli errori e con la volontà di voler trovare delle
soluzioni che rispettino le aspirazioni dei popoli a maggiore giustizia, a
maggiore democrazia e anche a maggiore rispetto delle proprie radici
culturali, non andremo da nessuna parte. Non possiamo continuare a
pensare di risolvere i problemi sul piano muscolare. Violenza richiama
violenza, ognuno si organizzerà come può e se noi che abbiamo gli eserciti
butteremo le bombe, loro che l’esercito non l’hanno si organizzeranno col
terrorismo, in una guerra di nervi che ci porterà sempre di più verso
l’isterismo.
E’ arrivato il tempo di dire che la violenza si combatte eliminando le cause
della violenza. Ma per riuscirci serve un cambio di strategia. Non più l’uso
della forza e dell’arroganza, ma della coscienza e dell’ascolto. Solo popoli
che sanno riconoscere i propri errori e che sanno ascoltare le ragioni degli
altri possono costruire rapporti pacifici. Se siamo troppo orgogliosi per
farlo per noi, facciamolo almeno per i nostri figli.
28.06.2015 –
http://www.pressenza.com/it/2015/06/la-radice-comune-del-fallimentogreco-e-della-strage-di-sousse/
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2015/07/03/la-radice-comune-del-fallimento-greco-edella-strage-di-sousse-francesco-gesualdi/
Questione di genere
Basta scuse per la violenza (di Lilian Lindani
Mwaita Cirambadare (traduzione e adattamento
Maria G. Di Rienzo))
Cosa avrei potuto fare di diverso? Avrei dovuto indossare gonne larghe,
mettermi a dieta così che il mio ampio didietro si notasse meno, avrei
dovuto sorridere in modo più modesto, avrei dovuto evitare di parlare con
lui, avrei dovuto essere invisibile, mio padre non avrebbe mai dovuto
morire?
Avrebbe dovuto, mio padre, lasciarmi un fondo fiduciario che mi avrebbe
permesso di essere autosufficiente? Non avrei mai dovuto andare a vivere
con i miei parenti, in primo luogo?
Così tante domande mi tormentavano e non avevo risposte sul perché lui
mi molestava sessualmente. Mi ricordo guardarmi dal di fuori mentre
pensavo a come dovevo rispondere alle sue avances sessuali, alle sue mani
tentacolari che strisciavano su di me, alle allusioni oscene dirette a me,
agli sguardi laidi gettati al di sopra della testa di mia zia mentre sedevamo
a cena.
Egli era, dopotutto, il mio tutore da quando mio padre era morto. Mi chiesi
se si sentiva legittimato o se in effetti maturava proprio dei benefici
speciali perché mi mandava a scuola e aveva provveduto a mettere un tetto
sopra la mia testa e del cibo nel mio stomaco.
Queste erano le mie opzioni: potevo stare al gioco quel tanto, cercando di
sottrarmi al pericolo e di non creare agitazioni; potevo denunciarlo a mia
zia e mettere fine alla sua predazione di me, anche se questo avrebbe
significato distruggere il loro matrimonio ed alienarmi dalle persone che
mi avevano preso in casa; potevo denunciarlo alla polizia e rischiare di
alienarmi l'intera famiglia per aver deciso da sola.
Secondo le norme culturali attuali, la risoluzione della faccenda spettava
agli altri miei zii, così la affidai a loro. In quel momento loro sapevano già
delle molestie ma avevano scelto di lasciar perdere momentaneamente,
perché era più importante per loro che io finissi la scuola e avessi un posto
dove stare e, nel frattempo, era lavoro mio proteggermi da quest'uomo
nella sua stessa casa.
Mia zia fu volonterosa nel perdonargli questa trasgressione, uno fra gli
innumerevoli torti che lui le ha fatto. Fu invece indisponibile a dubitare di
lui quando lui gli disse che io mentivo sulle molestie, anche se non era la
prima volta che molestava sessualmente qualcuna: in precedenza il suo
bersaglio era stata una domestica. Credermi avrebbe frantumato la perfetta
bugia ricamata del loro matrimonio ed avrebbe deprezzato lei fra le sue
amiche di chiesa. Lei stessa ha sofferto abusi sessuali in giovane età e io
pensavo che avrebbe dovuto capire meglio il trauma da me attraversato. Il
fatto che lei mi condannasse rese le cose peggiori. Mi indusse a credere
che la faccenda era davvero assai più grande di me e che io non potevo
cambiarla in alcun modo.
Mi ritrovai ad essere giudicata secondo il mito della purezza, il paradigma
della brava ragazza che mette l'enfasi sul restare caste delle donne e fonde
l'astinenza con la responsabilità. Il mio caso fu pure giudicato secondo le
linee del mito della debolezza maschile: esso suggerisce che gli uomini
sono tutti trogloditi brutali e iper-sessuali, che la loro civilizzazione è una
nebbia pronta ad evaporare in ogni momento.
Mi sono sentita dire che gli uomini, azionati dalle irresistibili forze del
cromosoma Y e del testosterone, devono essere lodati per il minimo sforzo
che compiano nel trattenersi; che la loro "innata" vulnerabilità alle
tentazioni suggeriva come fosse affar mio proteggere mio zio da se stesso.
Ricordo anche troppo vividamente la vergogna che ho provato quando non
avrei dovuto provare vergogna, l'orribile senso di colpa quando non ero
colpevole. Sembrava che io dovessi alla coppia il tenerli insieme, che
dovessi alla mia famiglia l'oblio della mia sofferenza. Era più importante
io riconoscessi il bene che avrebbe fatto a tutti la mia bocca chiusa. Io
sono stata socializzata a pensare nei termini della collettività, senza dare
importanza al danno individuale causato, ma la vicenda portò in superficie
come lo stesso sistema che in apparenza avrebbe dovuto proteggermi, il
patriarcato, stava invece lavorando per soffocare in me la mia stessa vita.
Quando le donne soffrono di abusi sessuali io sono pronta a lottare per
loro con tutto quello che ho e ad usare la legge a loro beneficio. Tuttavia
10
sono consapevole che quella stessa legge sarebbe utilizzabile da me e io
non l'ho usata per portare il perpetratore in tribunale. Così tanti fattori
sono intervenuti nella mia decisione, ultimo ma non minore l'essere
disturbata dal rivivere il trauma. Immagino ci siano un mucchio di donne
che hanno affrontato il medesimo dilemma e non hanno cercato giustizia
nella legge.
Io spero che un giorno le donne si solleveranno e smetteranno di vivere in
uno stato di miseria predestinata. Io spero che la mia conoscenza derivata
dall'esperienza contribuirà a creare il mondo in cui ciò accade. E' ora che
smettiamo di scusarci per la violenza commessa contro di noi.
Spero che un giorno la famiglia - così altamente valutata nelle nostre
strutture sociali - proteggerà le donne e le bambine, e smetterà di cercare
giustificazioni per gli uomini che fanno torto alle donne.
Io ho la visione di un mondo dove le donne non devono scusarsi per
l'essere donne come io ho dovuto - e ancora devo - fare.
("No More Apologies for Violence" di Lilian Lindani Mwaita
Cirambadare, attivista dello Zimbabwe, per World Pulse, 8 luglio 2015.
Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
(fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo)
link: https://lunanuvola.wordpress.com/2015/07/16/basta-scuse-per-la-violenza/
Notizie dal mondo
Europa
Grecia-Europa. L’offensiva tedesca, la difesa di
Tsipras (di Mario Pianta)
L’accordo Europa-Grecia è una prova sadismo economico e di colpo di
stato politico. Un progetto che non può funzionare, con riflessi economici
e politici complessi, per la Grecia come per l’Europa.
“L’hanno crocifisso lì dentro”. Tsipras ha dovuto subire “un massiccio
waterboarding mentale” – la tortura favorita dagli americani – nella
maratona del Consiglio europeo terminato lunedi mattina. Così i
funzionari presenti descrivono il clima del più lungo vertice europeo della
storia, finito con un documento terribile sulle condizioni che la Grecia
deve accettare per un nuovo programma di “aiuti”. Ma per capire che cosa
sta succedendo ci sono tre livelli da considerare.
Il primo è il contenuto letterale dell’accordo (disponibile qui
http://www.consilium.europa.eu/en/press/pressreleases/2015/07/pdf/20150712-eurosummit-statement-greece/?
utm_source=DSMS&utm_medium=email&utm_campaign=Euro+Summit
+Statement+12%2f07%2f2015&utm_term=952.31519.1082.0.31519&ut
m_content=all+customers). E’ una prova di sadismo economico e di colpo
di stato politico. La retorica è costruita per legare mani e piedi la Grecia al
tavola della tortura: subito aumento dell’Iva, riforma delle pensioni, tagli
di spesa automatici. Lo svuotamento di sovranità è esplicito: ogni
decisione del governo di Atene dovrà essere prima approvata dai
proconsoli che la troika avrà in Grecia. E non mancano cadute nel ridicolo
– come il codice di procedura civile da introdurre in tre giorni e risolvere
la crisi con l’apertura dei negozi la domenica e la liberalizzazione di
panetterie e latterie.
Ma il senso economico dell’accordo va letto al di là del tono. C’è la stretta
dell’austerità, che aggraverà la recessione del paese. Ci sono le
liberalizzazioni del mercato del lavoro e le privatizzazioni che dovranno
portare 50 miliardi, da usare per risanare le banche greche, rimborsare il
debito e nuovi investimenti; qui ci potranno forse essere margini di
manovra nella definizione delle misure e nei tempi previsti. Soprattutto, ci
sono quattro cose che erano prima assenti dal tavolo delle trattative. La
più urgente è il ritorno della liquidità nelle banche, che tuttavia resteranno
chiuse un’altra settimana per l’incapacità di Mario Draghi di smarcarsi da
Berlino. La seconda è l’ammontare del finanziamento che verrà dal
Meccanismo europeo di stabilità – tra 82 e 86 miliardi di euro – ben altra
cosa rispetto alle briciole del passato. La terza è il riconoscimento
dell’insostenibilità del debito greco e l’apertura all’allugamento delle
scadenze e ad altre misure. La quarta, nell’ultimo paragrafo, sono i 35
miliardi di fondi europei per investimenti per ricostruire l’economia.
Quattro cose che permettono all’economia greca di evitare il collasso e
tengono aperto lo scontro sulle politiche europee.
Infine c’è il livello politico dell’accordo. Anche qui l’esito è più sfumato e
denso di incertezze. C’è stata la sconfitta della linea dura del ministro
delle finanze tedesco Schauble, che voleva cacciare la Grecia dall’euro. Le
sue dimissioni devono essere ora un obiettivo di tutti quelli che hanno a
cuore la sopravvivenza dell’Europa. C’è stata una crepa nei rapporti tra
Berlino e Parigi, con Hollande che ha ripreso un piccolo ruolo. Dentro i
socialdemocratici in Germania e nel Parlamento europeo sono cresciute le
richieste di apertura; perfino il timido Matteo Renzi ha detto – pare –
“quando è troppo è troppo” e ha beneficiato ieri della caduta degli spread
sui Bot italiani. C’è ora una caduta di credibilità della Germania e un forte
sentimento anti-tedesco nell’élite degli Stati Uniti e tra i commentatori
moderati in Gran Bretagna. Crescono le critiche anche dentro la
Germania; Heiner Flassbeck, già sottosegretario alle finanze a Berlino, ha
scritto sul suo blog che “questo sarà ricordato come il giorno in cui una
politica tedesca miope e ostinata è stata imposta all’Europa, provocando
una grande resistenza tra la gente in Europa e nel mondo. D’ora in avanti
l’Europa è solo una chimera, una visione di cooperazione ed equità tra i
popoli che è stata soffocata della politica restrittiva tedesca”
(http://www.flassbeck-economics.de/author/heiner-flassbeck/).
imposte da Ue, Bce e Fmi, ma, di fatto, a un sistema – quello capitalistico
– che soffoca la democrazia reale.
Le implicazioni del referendum vanno al di là della sfera economica,
coinvolgendo gli interessi politici e strategici non solo di Bruxelles, ma
(cosa di cui non si parla) quelli di Washington. Il presidente Obama ha
dichiarato di essere «profondamente coinvolto» nella crisi greca, che
«prendiamo in seria considerazione», lavorando con i partner europei così
da «essere preparati a qualsiasi evenienza».Perché tanta attenzione sulla
Grecia? Perché è membro non solo della Ue, ma della Nato. Un «solido
alleato», come la definisce il segretario generale Stoltenberg, che svolge
un ruolo importante nei corpi di rapido spiegamento e dà il buon esempio
nella spesa militare, alla quale destina oltre il 2% del pil, obiettivo
raggiunto in Europa solo da Gran Bretagna ed Estonia.Nonostante che
Stoltenberg assicuri «il continuo impegno del governo greco
nell’Alleanza», a Washington temono che, avvinandosi alla Russia e di
fatto alla Cina, la Grecia di Tsipras comprometta la sua appartenenza alla
Nato. Il premier Tsipras ha dichiarato che «non siamo d’accordo con le
sanzioni alla Russia» e, al vertice Ue, ha sostenuto che «la nuova
architettura della sicurezza europea deve includere la Russia».
Nell’incontro Tsipras-Putin, in aprile a Mosca, si è parlato della possibilità
che la Grecia diventi l’hub europeo del nuovo gasdotto, sostitutivo del
South Stream bloccato dalla Bulgaria sotto pressione Usa, che attraverso
la Turchia porterà il gas russo alle soglie della Ue.
Vi è inoltre la possibilità che la Grecia riceva finanziamenti dalla Banca
per lo sviluppo creata dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e
dalla Banca d’investimenti per le infrastrutture asiatiche creata dalla Cina,
che vuole fare del Pireo un importante hub della sua rete commerciale.
Ad Atene l’accordo del Consiglio europeo fa pagare un prezzo altissimo
per la vittoria del “no” al referendum, rivelando in questo modo quanto la
costruzione europea sia ormai incompatibile con le pratiche di
democrazia. Crea una spaccatura dentro Syriza, mette a rischio il governo
di Tsipras, che potrebbe far approvare l’accordo da una maggioranza senza
una parte del suo partito e col sostegno dei centristi. Incombe il rischio di
dimissioni o nuove elezioni, con i nazisti di Alba dorata in agguato. Ma
Alexis Tsipras, come ha già dimostrato col referendum, ha risorse
inaspettate e ha ancora due carte da giocare. La prima è che l’Europa ha
bisogno di Tsipras per far passare l’accordo in parlamento, dove non c’è
una maggioranza senza il grosso dei voti di Syriza. Non ci sono le
condizioni per un ritorno dei tecnocrati al governo come in passato. La
seconda è che con l’accordo Tsipras ha guadagnato tempo, e aspetta la
possibile vittoria di Podemos in Spagna che cambierebbe gli equilibri a
Bruxelles. C’era un’altra possibilità per Tsipras? L’alternativa, raccontata
da Yanis Varoufakis in un’intervista al New Statesman
(http://www.newstatesman.com/world-affairs/2015/07/exclusive-yanisvaroufakis-opens-about-his-five-month-battle-save-greece) sarebbe stato
uno scontro più duro dopo che Draghi ha chiuso le banche greche:
annunciare l’emissione di liquidità nazionale in euro o in altre forme, il
taglio del debito detenuto dalla Bce, la ripresa del controllo sulla Banca di
Grecia. Una strada che il governo di Atene non si è sentito di percorrere.
Ma che resta una possibilità quanto più insostenibile sarà la ricetta
imposta ieri da Bruxelles. Nel frattempo, il paese può ancora funzionare,
nell’estate più calda della sua storia recente.
«Una Grecia amica di Mosca potrebbe paralizzare la capacità della Nato di
reagire all’aggressione russa», ha avvertito Zbigniew Brzezinski (già
consigliere strategico della Casa Bianca), dando voce alla posizione dei
conservatori.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata
la fonte: www.sbilanciamoci.info.
Fonte: Il Manifesto, 07/07/2015
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link:
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Grecia-Europa.-L-offensivatedesca-la-difesa-di-Tsipras-30673
Grecia
Grecia, l’ombra di «Prometeo» (di Manlio Dinucci )
Il «testa a testa» nel referendum greco, propagandato dai grandi media, si
è rivelato una sonora testata nel muro per i fautori interni e internazionali
del «Sì». Il popolo greco ha detto «No» non solo alle misure di «austerità»
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Quella dei progressisti è espressa da James Galbraith, docente di relazioni
di governo e business all’Università del Texas, che ha lavorato per alcuni
anni con Yanis Varoufakis, divenuto ministro delle finanze greco (ora
dimissionario), al quale ha fornito «assistenza informale» in questi ultimi
giorni. Galbraith sostiene che, nonostante il ruolo svolto dalla Cia nel
golpe del 1967, che portò al potere in Grecia i colonnelli in base al piano
«Prometeo» della Nato, «la sinistra greca è cambiata e questo governo è
pro-americano e fermamente membro della Nato». Propone quindi che,
«se l’Europa fallisce, possono muoversi gli Stati uniti per aiutare la
Grecia, la quale, essendo un piccolo paese, può essere salvata con misure
minori, tra cui una garanzia sui prestiti» («US must rally to Greece», The
Boston Globe, 19-2-15).
Ambedue le posizioni sono pericolose per la Grecia. Se a Washington
prevale quella dei conservatori, si prospetta un nuovo piano «Prometeo»
della Nato, una «Piazza Syntagma» sulla falsariga di «Piazza Maidan» in
Ucraina. Se prevale quella dei progressisti, una operazione di stampo
neocoloniale che farebbe cadere la Grecia dalla padella nella brace.
L’unica via resta quella di una dura lotta popolare per la difesa della
sovranità nazionale e della democrazia.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2015/07/10/grecia-lombra-di-prometeo-manlio-dinucci/
Palestina e Israele
Cosa è successo a bordo della Marianne (di
Giovanni Vigna)
Il racconto di Charlie Andreasson, membro della Freedom Flotilla III, a
bordo della nave bloccata dalla marina israeliana in acque internazionali.
L’attivista svedese Charlie Andreasson era a bordo della “Marianne”, una
delle imbarcazioni della Freedom Flotilla III, che lo scorso 29 giugno, in
acque internazionali e a una distanza di circa 100 miglia nautiche da Gaza,
è stata attaccata e sequestrata dalla marina israeliana. Secondo la
Coalizione della Freedom Flotilla si tratta di una violazione del diritto
marittimo internazionale.
L’equipaggio della Marianne è stato condotto contro la propria volontà al
porto militare di Ashdod e, successivamente, nella prigione di Givon in
Israele. Andreasson riferisce di essere stato oggetto di azioni violente da
parte dei soldati israeliani che, tra l’altro, lo hanno colpito con il taser,
dispositivo che utilizza l’elettricità per paralizzare i movimenti della
persona attaccata. La strategia della Freedom Flotilla III era navigare
verso la Palestina con la “Marianne”, imbarcazione che batte bandiera
svedese, paese che ha riconosciuto la Palestina.
Charlie, lei era a bordo della “Marianne”?
Sì, ero anche tra quelli che hanno ispezionato la nave prima di acquistarla,
che l’hanno restaurata e che l’hanno guidata in mare.
Quante navi componevano la Freedom Flotilla III?
C’erano due gruppi formati da tre navi ciascuno. Tre erano intenzionate a
navigare fino a destinazione, mentre le altre tre dovevano tornare indietro
se e quando la situazione fosse diventata “calda”. Le altre due
imbarcazioni che avrebbero dovuto viaggiare insieme alla “Marianne”
hanno avuto problemi tecnici, e questo è il motivo per cui la nostra nave
era sola. Ulteriori dettagli sui problemi che hanno riscontrato le due
imbarcazioni saranno divulgati presto.
Quali erano gli obiettivi e la strategia della Freedom Flotilla III?
Gli obiettivi erano due. Il primo era rompere l’assedio su Gaza,
consegnare il carico che portavamo (provviste mediche, pannelli solari,
eccetera) e donare l’imbarcazione ai pescatori gazawi che lo avrebbero
utilizzato come peschereccio. Il secondo obiettivo era diffondere la
consapevolezza in merito alla situazione a Gaza e alla politica israeliana,
per assicurare che l’assedio venisse tolto una volta per tutte. La nostra
strategia prevedeva di salpare verso un paese (la Palestina) che lo Stato di
bandiera della nostra nave (la Svezia) ha riconosciuto come nazione. In
questo modo avremmo potuto spezzare l’assedio su Gaza.
momento che non erano in grado di farlo da soli. Ci hanno messi tutti
insieme sul ponte e ci hanno ripreso con le telecamere.
Cos’hanno fatto i soldati israeliani ai membri dell’equipaggio?
Hanno usato frequentemente i taser, hanno dato calci, ginocchiate e ci
hanno minacciato con le armi. I militari conoscevano i nostri nomi, ad
alcuni di noi hanno detto i nomi dei nostri parenti chiedendoci se non
fossimo preoccupati che qualcosa potesse succedere alle nostre famiglie.
Sono stato il primo ad essere picchiato e colpito con il taser anche se né io
né gli altri rappresentavamo una minaccia per gli israeliani. Io sono stato
“taserato” da due soldati contemporaneamente e ripetutamente mentre altri
militari mi picchiavano con calci e ginocchiate. Il secondo compagno del
nostro equipaggio è stato oggetto di un analogo trattamento dopo che
l’operazione di abbordaggio si era conclusa per il semplice fatto che
indossava una kefiah palestinese.
Dopo l’assalto alla “Marianne”, la marina israeliana ha dirottato la
nave svedese e vi ha portati al porto militare di Ashdod e,
successivamente, nella prigione di Givon. Quanto tempo siete rimasti
in carcere? Avete subito abusi e violenze durante la detenzione?
Siamo stati rinchiusi per sei giorni nella prigione di Givon. Nel 2012
(quando Andreasson partecipò alla Freedom Flotilla II, ndr) gli israeliani
ci fecero capire che avrebbero potuto farci qualsiasi cosa volessero in
carcere, ma questa volta non è andata così, ad eccezione dell’umiliazione
subita durante la perquisizione. Per proteggerci abbiamo lottato perché
nessuno di noi rimanesse solo durante la deportazione. Ad Ashdod
l’ispezione fisica e il controllo dei nostri effetti personali si sono ripetuti
varie volte. Inoltre i soldati mi hanno confiscato i certificati che mi
servono per svolgere la mia professione, e non me li hanno mai restituiti.
Prima di essere inviati nella prigione di Givon ci hanno interrogato per
due ore.
L’azione della marina israeliana contro la “Marianne” è legittima?
Avete deciso di intentare un’azione legale contro il governo
israeliano?
È stato un atto di pirateria, una violazione delle leggi marittime e delle
leggi internazionali. Stiamo progettando di avviare un’azione legale
contro chi ha compiuto questa azione.
Chi c’era a bordo della “Marianne”?
Tornerà a Gaza in futuro?
Eravamo 18 persone in tutto. Io, il capitano, il primo compagno e il capo
siamo svedesi. Il secondo compagno è norvegese mentre l’ingegnere è
canadese. A bordo erano presenti anche l’ex presidente della Tunisia
Moncef Marzouki, il parlamentare palestinese della Knesset (il parlamento
israeliano) Basel Ghattas, l’eurodeputata Ana Miranda, un giornalista di
Al Jazeera Arabic, un giornalista israeliano, alcuni esponenti della stampa
della Nuova Zelanda, di Russia Today e un autore svedese.
Spero un giorno di tornarci arrivando dal mare. Ma se non sarò io, sarà
qualcun altro.
Nena News
Cos’è accaduto lo scorso 29 giugno, all’una di notte circa, quando la
marina israeliana ha attaccato la “Marianne” in acque
internazionali?
I soldati israeliani sono arrivati con due gommoni dipinti con i colori della
guardia costiera senza i segni e le bandiere nazionali. Queste imbarcazioni
sono state successivamente issate a bordo delle navi da guerra israeliane.
Quattro grandi navi da guerra e nove più piccole ci hanno circondato,
intimandoci di cedere la nave. A quel punto abbiamo dichiarato che i
soldati non avevano il diritto di salire a bordo del nostro peschereccio in
acque internazionali, ma loro sono saliti lo stesso sulla “Marianne”. I
soldati erano mascherati e armati pesantemente e hanno colpito cinque di
noi con i taser, con calci e ginocchiate. È stato un atto di pirateria. Ad
alcuni di noi sono state fasciate le mani con strisce di plastica. I soldati
hanno inoltre minacciato il nostro capitano con una pistola per
costringerlo a spiegare come si accendeva il motore dell’imbarcazione dal
12
(fonte: Nena News - agenzia stampa vicino oriente)
link: http://nena-news.it/gaza-cosa-e-successo-a-bordo-della-marianne/
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