I racconti
dei “Battuti”
GIOVANNI TULLIO,
il professore
di Fabio Metz
a cura del CENTRONOVE
Circolo Aziendale
di San Vito al Tagliamento
n. 7 - Dicembre 2014
S
arà perché le giornate, rispetto a
quelle di anni addietro, diventano sempre
più corte, sarà perché mi accorgo che le
forze non sono più le stesse di una volta,
sarà perché la memoria degli avvenimenti
quotidiani, pezzettino per pezzettino, mi
si cancella ogni sera che chiudo gli occhi,
sarà perché divento sempre più fastidioso
e aspro e perciò poco indulgente, come
(ma forse) ero un tempo, a capire e a
perdonare... E poi sarà anche perché
mi accorgo con rammarico di fare ogni
giorno più fatica a ritrovarmi in questo
mio tempo (problema che in verità non
interessa a nessuno, eccezion fatta per
me), mi ripeto con l’antico poeta: cotidie
morior = me ne vado via, piano piano,
un pezzetto alla volta. Onde avviene che,
giunta la sera, durante le rapide ore del
dopo cena, quando riesco a ritagliarmi un
qualche segmento temporale che non sia
da impegnare nello scribacchiare il solito
contributino per accontentare pievani e
redattori di riviste, oppure il commento
all’ultima mostra dell’ultimo pittorello o
fotografo, mi ritrovo sempre più spesso
ad incontrare – nel silenzio della cucina
(d’inverno) o del piccolo giardino disteso
appena fuori della porta di casa (d’estate e,
ovviamente, se non piove) – i miei piccoli
maestri di spirito (quelli di scuola, da buon
ex insegnante li ho dimenticati tutti) che
oramai più non ci sono: Pauli il sacrestano,
Ferruccio Maronese, l’organista, la Gigia
Colussa (Colussi) fedelissima a tutti i
rosari di tutte le sere dell’anno e pronta a
pagare con uno splendido, sdentato sorriso,
dopo la messa prima della domenica,
il caffè al bar Costanza al cappellano
ed al sottoscritto che si era ingegnato a
suonare l’organo del duomo, la Francesca
Corradini che si sorbiva, e con l’anticipo
di almeno mezz’ora, tutte le mattine le
due messe dei cappellani e quella delle
sette celebrata, quasi sempre in ritardo,
da monsignor Pietro Corazza ed alla sera
contendeva il banco alla Gigia per il rosario
e la benedizione con il Santissimo. Ci sono
anche altri sanvitesi che frequentano questi
miei incontri serali, ma mi accorgo, con il
passare del tempo, che i loro volti si vengono
sbiadendo oppure sovrapponendosi gli uni
agli altri assumendo connotati più o meno
similari. La loro sopravvivenza, nella mia
memoria, è oramai legata ad una qualche
battuta (anche spiritosa), ad una barzelletta
non priva di salace intelligenza oppure ad
un’osservazione di carattere ambientale
oppure paesano ben spesso velenosa.
Si tratta di una piccola accolta
silenziosa. Ci guardiamo negli occhi. Loro
mi guardano. Io guardo loro. E stiamo zitti.
Tutti. Essi ed io. Ed a lungo. Ed in questo
tacere avviene però che tutti riusciamo a
mettere assieme i rispettivi ricordi (diradati
di già purtroppo) prima che il tempo tutto
abbia a cancellare.
Ora però avviene come a quella sorta
di celeste vicìnia (=assemblea), da gran
tempo assista, in disparte, compostissimo,
dignitosissimo, silenzioso, attentissimo,
elegante nel suo completo scuro, con
camicia e cravatta, anche se un pochino
demodè, Giovanni Tullio: “il professore”.
Non sono mai riuscito ad avvicinarlo con
quella disinvoltura con la quale mi accade
di accostarmi a quelli che popolano quel
mio piccolo ritrovo. Troppo negli anni in
cui ebbi a conoscerlo – addirittura conservo
ancora un volumetto da lui regalatomi
con l’auspicio di poter continuare con me
una qualche consuetudine di incontri e di
scambio di opinioni – “il professore” mi
incuteva rispetto e riverenza. Una figura che
incarnava ai miei occhi di giovane da gran
tempo perduto nel furioso vorticare degli
anni, alternativamente, una sorta di austera
e distaccata figura paterna, ma pure quella
di un anziano saggio e dolcissimo, di una
signorilità talmente raffinata da apparire,
per chiunque avesse ad incontrarlo a
qualunque estrazione sociale egli avesse
ad appartenere, famigliare, capace di ampi
sorrisi, battute e motti arguti, e, soprattutto,
librato in un suo mondo molto lontano da
quanti, come me, erano in tantis miseriis
costituti.
Ma adesso, facendomi coraggio, ho
ritenuto fosse tempo di andargli incontro,
senza ovviamente forzarlo ad aggregarsi
alla mia piccola vicìnia paesana, cercando
di lasciarlo parlare. Il percorso di
avvicinamento – converrà dirlo subito – si
presenterà da subito lungo e per la naturale
ritrosia del “professore” a concedersi a chi
egli avvertiva non come “estraneo”, ma
bensì “esterno” al suo complesso mondo
interiore, e per la carenza di informazioni
di carattere archivistico, e per la difficoltà
di ricostruire, tra la produzione letteraria, il
lento maturare di pensieri e giudizi.
Cerco di provarci.
Non riesco a cancellare dalla memoria,
tra quelli che mi restituiscono ancora
oggi il “professore”, un ricordo quasi
fotografico. Siamo ai pomeriggi delle
domeniche estive degli anni Sessanta
e Settanta dello scorso secolo. E’ l’ora
del vespro. Una luce gialliccia, riflessa
dal finestrone della facciata, illuminava
una diradata pattuglia di donne, pronte
a salmodiare, in qualche maniera
biascicando un latino di cui erano del tutto
ignare. In presbiterio, con i chierichetti,
siedevano i cappellani ben attenti a non
disturbare il pomeridiano e meritato riposo
di monsignore. Io ero all’organo cercando
di arrabattarmi nell’accompagnare le
melodie gregoriane piuttosto ignote
anche ai celebranti. Dopo il canto del
Magnificat, la riproposta dell’antifona e
la declamazione solenne dell’Oremus e
del lungo vocalizzo Benedicamus Domino
con una speciale partecipazione sonora
che i cinquecenteschi trattati di vocalità
avrebbero definito in gorga ( = a piena
gola, il che è tutto dire!), la celebrazione si
concludeva. Seguiva quindi un sermoncino
durante il quale chi presiedeva all’ufficio
vesperale si affaticava, tra la distrazione
generale, di ammannire alcune nozioncelle
di catechismo. Seguiva la benedizione con
il Santissimo Sacramento e quindi, con una
canzoncina alla Vergine, l’assemblea si
scioglieva.
Ebbene: non c’è verso che io, mentre
dal presbiterio al quale mi affacciavo
durante il predicozzo catechistico, riesca
a dimenticare, il “professore”. Se ne stava
in navata, seduto su una sedia sistemata
nei pressi dell’antico altare delle famiglia
Altan (il secondo eretto lungo la parete di
sinistra della navata del Duomo), immobile,
assorto, con il suo libro di preghiere tra
mano, pronto a seguire in tutto e per tutto
quelle liturgie di sapore piuttosto casalingo
e ad accordarsi al garrulo verseggiare delle
beatelle appollaiate, or qua or là, nelle
bancate.
E, devo dire la verità, quello che allora
mi colpiva, e che ancora è motivo di
straordinaria meraviglia, era la capacità
del “professore” di adattarsi alla piccola
realtà locale, senza particolari sforzi, di
riuscire a cantare, con gente che non aveva
fatto le sue esperienze, ad un Dio che egli
riconosceva, comunque, il Dio di tutti. Poi
usciva di chiesa e, piano piano, si avviava,
lungo via Antonio Altan, al palazzo avito.
Allo stesso modo, durante la settimana,
in altra versione, lo si poteva ritrovare,
specialmente
durante
i
pomeriggi
primaverili ed estivi, oramai avanzato
in età, a cavallo della sua monumentale
bicicletta nera, dotata di specchietto
retrovisore agganciato alla sinistra del
manubrio, intento a percorrere le vie
cittadine con qualche tappa per un saluto,
una parola, uno squillante “bongiorno”
ancorché augurato magari un quarto
d’ora avanti le cinque del pomeriggio.
Ogni tanto si fermava a scambiare qualche
idea anche con me. Ed ero imbarazzatissimo
poi che avvertivo, da subito, la distanza tra
lui e me. E mi imbarazzavano ancor di più
i lunghi silenzi con i quali intervallava il
suo colloquiare. Erano silenzi che io mi
guardavo bene dal disturbare. Ma devo
dire che, a distanza di tempo anche se
tutte le sue parola più io non ricordo, quel
suo tacere mi è stato fonte, nel cuore, di
un’acqua zampillante e fresca e rigenerante.
E’ possibile che l’amore per il silenzio gli
venisse dalla scelta di una vita solitaria,
dallo stare per lunghissime ore chiuso nella
sua stanza di palazzo Altan, ma poi, prima,
dall’aver frequentato i monaci del Monte
Athos o quelli di Cava dei Tirreni e la Cina,
e la Palestina, e l’Algeria e la Spagna. Ma
io ritengo, ovviamente per quel poco che
mi è stata data la grazia di frequentarlo,
che quel suo silenzio fosse per l’un verso
rispetto e discrezione nei confronti di chi
egli si trovava di fronte onde non dover
caricare l’interlocutore dei risultati di
faticose meditazioni personali e per l’altro
la convinzione (stavo per scrivere, ma
sbagliando, la sensazione) di trovarsi, lui,
il “professore”, su approdi oramai molto
lontani da quelli lungo i quali si dipanava
la normale vicenda umana. Secondo una
sorta di rodaggio che si riesce a recuperare,
ma in parte, rileggendo la produzione
poetica.
Alla Badia di Cava
Cara Badia, che, chiusa nel profondo
recesso tuo da veri boschi adorno,
montagne austere altissime d’intorno
quasi in cerchio separano dal mondo:
o sacro a Dio ricovero giocondo,
da quando ti conobbi ospite un giorno
con quant’ansia e diletto a te ritorno
e con la pace tua mi riconfondo!
Qui di santi pensier nel pio lavacro
purgo gli error della terrena stanza
e i disinganni miei pongo in oblio.
Ma più cara mi sei che nel tuo sacro
raccoglimento accresco la speranza
di riposare eternamente in Dio
Ma proviamo ad andare con un pochino
d’ordine. A cominciare da un minimo (ché
ben altro dovrà essere l’eventuale impegno
su questo versante) di percorso biografico.
Operazione per la quale il “professore” non
aiuta per nulla tanto, credo volutamente, ha
voluto protetto i suoi giorni e le sue scelte
di vita. E’ certo che il 30 aprile 1881, in
San Vito al Tagliamento nascevano da
Vito Tullio figlio del fu Francesco e da
Anna Pribul di Ferdinando, alle ore due
pomeridiane Pietro, Antonio, Giovanni,
Nepomuceno e quindi alle ore tre
pomeridiane Giovanni Battista, Vincenzo –
il nostro Giovanni – recati entrambi al fonte
battesimale il 2 maggio immediatamente
successivo. Sul capo dei gemellini versava
l’acqua lustrale il cappellano Natale Tebon,
mentre fungevano da padrino e madrina alla
cerimonia Giovanni Battista fu Giuseppe
conte di Porcia e Lina Fabris fu Pietro in
Porcia.
Allievo di Giosué Carducci presso
l’Università di Bologna, e di Anton Giulio
Barilli presso l’Università di Genova, si
laureerà nel 1902 con una tesi sullo stile
della “Vita” di Benvenuto Cellini, lavoro
che poi darà alle stampe nel 1906.
Parteciperà alla Grande Guerra con il
grado di ufficiale di cavalleria e, proprio
per il risiedere in Aquileia, avrà modo di
conoscere il parroco della basilica don
Celso Costantini con il quale instaurerà
un solido rapporto di reciproca stima
ed amicizia fino dal 1912: Seguirà il
Costantini a Fiume, città nella quale terrà
i rapporti, fungendo da ambasciatore, tra
l’amministratore apostolico Costantini e
Gabriele D’Annunzio, Seguirà quindi per
due anni monsignor Celso in Cina, toccando
l’India, il Medio Oriente ed il Giappone.
Con il rientro in Europa, prendono avvio
una serie di ulteriori spostamenti, cui qui
si fa solamente cenno, che lo vedranno in
Algeria ed a Roma (1926), in una casetta
nei pressi della grotta di Nazareth (1930),
ma anche in Spagna, Tunisia, Monte Athos
ed in Italia e a più riprese, in Roma e,
siccome già accennato, presso l’abbazia
di Cava dei Tirreni. Spostamenti plurimi
assicurati dalle rendite famigliari; le stesse
che potranno coprire la stampa di una
serie di opere, in prosa di carattere storicofilosofico-teologico le une ed in poesia le
altre che costelleranno i lunghi anni di vita
del “professore” dal 1906 ad almeno il 1960
e di cui si fornisce l’elenco al terminare di
queste pagine.
Verrà, si spera, giorno in cui più e
meno frettolosamente del “professore” si
potrà parlare. Sono queste poche paginette
una sorta di antipasto intese a riproporne
alcuno, almeno, dei molteplici aspetti della
sua personalità. Che da subito converrà
dire essere estremamente complessa e di
difficile ricostruzione. Ma della quale,
senza voler anticipare giudizi più meditati,
sembra di poter collocare principalmente
sotto il segno del “viaggio”, che non
vuol dire irrequietezza, ma vuol dire
coscienza di come esistano molteplici
verità che, frammentate, si possono
ritrovare all’interno delle diverse culture
europea, africana e asiatica. Il “professore”
è affascinato dalla ricchezza interiore ed
esteriore dell’”altro”, che brama incontrare
e conoscere. Senza per altro dimenticare
che tutto questo viaggiare in fondo inizia e
si conclude, giorno per giorno ed anno per
anno, nel cuore del “professore” che per
tutta la vita, in fondo, ha girato attorno a
se stesso ed al suo cuore. Attorno al quale
poi continuerà a girare, con una costanza
eccezionale, nel corso delle sue lunghe
giornate utilizzando una non indifferente
perizia letteraria frutto di altissimi
magisteri e di una diuturna operazione
di lima sicché, ben spesso, consegnerà
alla pagina di norma cesellati poemetti e,
in qualche caso, composizione di arioso
respiro poetico.
Tutto non si poteva, come di già
anticipato, dire del “professore” in queste
facciatine. Lo sapevo fin dall’inizio e
ho pensato di imboccare una strada che,
lasciando ad altro occasione la rilettura
dell’opera teorica, mi facesse muovere
tra i suoi versi. Una volta fatta la scelta,
lo ho pregato, in queste sere autunnali, di
darmi un aiuto. Guardandomi con quei suoi
occhi di un azzurro liquido, mi ha preso
delicatamente per mano e mi ha suggerito
questo indice con l’avvertirmi, sommesso,
che la strada sarebbe stata difficile ed il
risultato finale, soprattutto per il lettore,
affatto scontato.
CON ME STESSO
Ecco il “professore” come si presenta:
Cerco sempre il sentiero che mi mena
dove il campo è più vuoto, ov’è più spesso
il bosco e più selvaggio o al mar
d’appresso
dov’è più nuda e solitaria arena.
Quando un grande silenzio intorno o
appena
un dolce avverto mormorio sommesso,
pienamente ritrovo allor me stesso
e ridiventa l’anima serena.
Ben è ver che talora m’affatico
invano a trovar pace, poiché porto
dentro me chiuso il mio peggior nemico.
Ma se il pensier mio torvo in quel ritiro
più mi combatte, ho questo per conforto,
che con altri ma con me mi adiro.
In altra lirica viene riflettendo su se stesso:
Altro piacer non ho che d’esser solo,
com’ora qui per questo prato aperto.
Parmi talora uscir già dal mondo
per sì beata stanza, che m’assale
un infinito di morir desio.
Ribadendo:
Cerco sempre il sentiero che mi mena
dove il campo è più vuoto, ov’è più spesso
il bosco e più selvaggio o al mar dappresso
dov’è più nuda e solitaria arena.
Quando un grande silenzio intorno o
appena
un dolce avverto mormorio sommesso,
pienamente ritrovo allor me stesso
e ridiventa l’anima mia serena.
E poi:
Quest’ora nei miei voti ed or mi è dato!
In piena solitudine un recesso
con un bosco silente, un rivo, un prato,
dove con Dio son solo e con me stesso.
Ad un innominato amico dichiarava
Amico mio, mi chiedi curioso
in qual angol di verde mi riposo,
chiuso in me stesso e e discordando il
mondo.
IL LENTO RILASCIAR GLI ORMEGGI
Non sono in grado di sapere se il
“professore” durante il lungo corso della
sua vita sia mai, oppure in particolari
situazioni, stato felice. Ma mi pare di
poter affermare, rileggendo le sue liriche,
come sia venuto lentamente, chiudendo i
suoi giorni, giusta la scrittura, in senectute
bona, provectaeque aetatatis et plenus
dierum del vecchissimo Abramo (Gen,
25,8), non tanto abbia incontrato la morte,
ma quanto con quel passaggio decisivo
abbia instaurato un lungo e costante
colloquio. Mai diretto, e per tanto sempre
obliquo, fatto di rimandi nella certezza che,
comunque, ella, la morte, avrebbe avuto
alla fine la meglio.
Ed è però, nei testi in cui il “professore”
viene facendo di volta in volta accenno
all’addio, che la morte si presenta quale
compagna silente e sommessa, decisamente
temuta - “il terror dell’ignoto e dell’attesa
/ peggio è che l’infuriar della tempesta”
-, ma per altro verso attesa, porta che si
chiude al moltiplicato affannarsi terreno e
che si dischiude al finale riposo della patria
celeste. Di fronte all’eternità, il verso si fa
preghiera, supplica, invocazione, quando
non assume, come nella composizione
in cui vien raccontando della morte
dignitosissima, composta, “naturale”
del suo vecchio “colono”, i colori quasi
dell’invidia.
Nell’ombra avvolto sempre più mi è
greve
l’invidiare nel beato coro
quei compagni. E Tu fa, Signor, che in
breve
nel lume tuo si ricongiunga a loro!
In altro testo afferma convinto: Anima mia, la sera di tua vita
t’è silenziosa e desolata appresso:
la luce del tuo giorno è ormai svanita
e il buio è più e più spesso.
Paziente sii: non disperar se questa
tristezza dell’estrema ora ti ingombra:
il breve tempo ancora che ti resta
forse non è tutt’ombra.
Se una punta di te trascende il velo
di tenebre che il mondo or ti scolora,
essa ha luce poiché alta nel Cielo
Iddio contempla ancora.
Il passaggio estremo per il “professore”
altra volta assume quasi i connotati di una
mano tesa al suo Signore:
E venga anch’essa del mio dì la sera!
Mi congiunga con quanti in Te han riposo.
Ecco il greve silenzio e l’ombra nera
mi si paran dinanzi: ma gioioso
Lor cederò, Signor, con cuor fidente,
purché Tu sia presente!
LA CASA
E’ ancora la casa una grande amica del
“professore”. Soprattutto, più che quello
della tenuta di Aquileia, è presente nella
sua opera il palazzo avito già degli Altan
in San Vito. Un luogo che egli sente da
sempre quale proprio ed all’ interno del
quale egli si aggirerà, felpato, nelle vesti
dell’ultimo erede, lungo le sale decorate
degli stucchi settecenteschi attestanti le
glorie, e di molto faticate, degli Altan,
ed i mobili preziosi, e le argenterie e le
porcellane e le tele incorniciate.
O casa mia più volte secolare
col tacit’orto e la modesta corte
quante culle tu hai viste e quante bare
Nelle tue stanze oppur per le tue porte!
Ti chiamo casa mia e sei albergo:
qui mi dico padrone e son straniero:
nostra dimora è veramente il Cielo!
E nella ampia e sonora magione avita
ricaverà la sua stanza, rivolta verso oriente
e per ciò affacciata sul giardino interno,
sistemata al secondo piano del palazzo,
subito sul retro della cappella gentilizia,
raggiungibile attraverso un breve corridoio
che ricordo quale una sorta di cammino
sospeso nel tempo e nello spazio. Era,
quella sua cameretta, l’utero sicuro e
certo, affollata dei libri, amici fedeli,
silenziosi e certi delle solitarie riflessioni
del “professore” che, seduto alla vasta
scrivania ingombra di carte e di appunti
e di fogli e di libri aperti oppure percorsi
da segnacoli e da foglietti, lì sostava, in un
ovattato silenzio, per lunghe ore durante la
giornata. E’ la cameretta in cui rifugiarsi
quando la sera tutto veniva scolorando
e la campana del “borgo” chiamava alla
preghiera per i defunti.
O cameretta mia silenziosa,
ove al mattino il primo sole splende
per la finestra, donde l’occhio posa
sulla campagna che laggiù si stende,
chiuso in te con la mente che bramosa
di pace ai suoi diletti attende,
vivo, in oblio d’ogni presente cosa,
altri tempi, altri luoghi, altre vicende.
O caro asilo mio soavemente
nel tuo segreto il cuore si separa
di già da mondo a cui sì poco anelo:
e si dispone all’altra più silente
e più picciola stanza, a la mia bara,
che veramente s’apre verso il Cielo.
Un rifugio che altrimenti canta:
Come il dì passo alla campagna? Vivo.
Talor mi levo quando il cielo imbianca:
esco pei campi dove già l’attivo
agricoltor sul vomero si stanca.
Rincasi poscia quando il sole estivo
ogni voce e rumore d’attorno manca:
più tardi seguo il mormorar d’un rivo,
che in mezzo ai prati al mio sentier
s’affianca.
Guardo il sol che si cela e in lontananza
l’ombra che monta: per il cielo immenso
morire ascolto il suon d’una campana.
Al silenzio ritorno di mia stanza
e in Dio mi chiudo e presso a lui compenso
la vacuità dell’ esistenza umana.
LA BIBLIOTECA PERSONALE
Un ruolo importante, proprio perché
percepita quale amica, ma soprattutto quale
dolcissimo rifugio nel corso delle quiete
giornate sanvitesi, e per altro conforto
e confronto con quelle voci tradotte in
caratteri di stampa con i quali entrare in
solitario confronto con un discorrere di
autori dispersi sulla faccia del continente
europeo, occupa la biblioteca personale
i cui volumi il “professore”, nei lunghi
anni del suo peregrinare e dei suoi studi,
aveva accumulato nella stanza recondita di
palazzo Altan. Amatissima.
O libri miei, per anni con severo
amor trascelti e non diletto invano,
un giorno prenderò un sentiero
che da voi mi sempre mi terrà lontano.
Ma pur rinchiusa in voi di me v’è parte
quella che palpitò nella lettura
o di gioia, o d’affanno e di stupore.
Sempre io la sento nelle vostre carte,
che invisibile là ed intatta dura.
Ma chi la trova se non ha il mio cuore?
Ed aggiungeva, mentre andava
contemplando un secolare codice della sacra
scrittura già evidentemente conservato
nella antica biblioteca degli Altan:
Nell’ampia libreria, cui danno il giorno
le finestre sul tacito cortile
e che raccoglie a uno scrittoio attorno
i libri ritti nelle lunghe file,
col vecchio cuoio del tuo dorso in mostra,
grande e pesante, immota su un leggio,
da trecent’anni nella casa nostra
ospite sei, volume tu di Dio.
Fino all’addio a quella stanza che per
decenni lo aveva ospitato ed all’interno
della quale aveva operato, studiato e
scritto. Un addio trepido, scritto quasi con
un nodo alla gola nel sospetto che altri con
quei libri non potessero avere quella sua
robusta consuetudine:
Tra breve lascerò questa mia bianca
stanza ed i gravi libri alla parete
per altra stanza di maggior quiete.
Ma che in perpetuo d’ogni luce manca.
E curiosi allor del pensier mio
chiederanno guardando nelle carte:
che mai leggeva all’ultimo suo giorno?
IL PERDERSI NELLA NATURA
Mille scenari, testimoni delle stagioni
del suo animo, viene costantemente
dipingendo il “professore” nelle sue
poesie (siccome già aveva fatto con penna
dolcissima descrivendo gli orizzonti della
Terra Santa nelle pagine ricche del saggio
“Sulle orme del Signore”). Locali ed esotici
siccome erano quelli si andava muovendo
nel suo lungo andare per terre straniere. E
son fatti quei fondali di prati, siepi, fiori,
alberi e frutteti e ruscelli e fiumi. E poi
ancora vallette, cime nevose e cieli stellati
e deserti e lande desolate. Ed anche ruderi
e frammenti e monete di una lontana gloria
che all’impero di Roma riabbraccia la sua
Aquileia. Il tutto attraversato da leggiadri e
sonori uccelli quali le allodole o i gabbiani.
Sino a quell’uccellino, in cui egli si ritrova,
che decide di non migrare, con gli altri suoi
fratelli, al giunger dell’autunno. Una sorta
di bucolica pascoliana trattenuta da veloci
accenni quasi nel timore di lascarsi andare
ad un abbandono che potrebbe sconfinare
nel lezioso e nel convenzionale. Tutto in
questo pudico e soffice affrescare è affidato
al tocco leggero, all’accenno, e, quando
occorre, alla metafora.
Scivola lenta sui miei vetri e folta
la nebbia: intorno la campagna avvolta
è tutta nel tuo velo.
Un solo grigio livido confonde
gli aspetti fuori: tutto mi confonde,
l’orto, la strada, il cielo.
Da quella coltre appena appena scialba
filtra una luce, come un chiaror d’alba
smorto, che non più avanza.
L’occhio dal vetro si ritrae deluso:
or mi ritrovo tutto il dì rinchiuso
nella mia grigia stanza.
Meglio così: ch’io più non cerchi
ansioso
le cose fuori che non dan riposo
all’irrequieto cuore:
ma che raccolto tacito in me stesso
dalla Tua faccia io trovi in me riflesso
il lume Tuo, Signore!
E per altro accade ben spesso, che quelle
quinte terrene vadano perdendosi, per una
sorta di processo di osmosi pressoché
naturale, in orizzonti ultraterreni di cui
egli quotidianamente si sentiva partecipe
giusta un procedere che la liturgia del
Sabato Santo definiva una sorta di iunctio
(ricongiungimento) di tra humana (le cose
di questa terra) e divina (le cose del cielo).
Ma avviene ancora che quel complesso
e variegato paesaggio all’interno del quale
si muove il poeta, venga, periodicamente,
attraversato da una voce particolare che è
quella della campana: lontana alle volte,
ma più spesso quella del natio “borgo”.
Si tratta certamente di una voce nota e
consolante quando abbia a scendere da un
qualche campanile, ma mai così familiare,
suasiva, “piana” siccome quella che
arriva alla stanza del poeta dal campanile
del “borgo”. Una voce con la quale egli
stabilisce da subito, o meglio, da sempre un
colloquio le cui parole, sulle note del sacro
bronzo, si allungano, spesso, in una sorta di
timore, tremore e desiderio fino a toccare le
soglie dell’eternità. A conclusione di quel
suo viaggio, così fascinosamente, solitario.
Ed unico.
Quella campana ch’ogni sera lenta
piange lontana ed a pregar m’invita
e segna che la luce è dipartita
ed ogni voce nella valle è spenta,
con sue flebili note mi rammenta
della breve giornata di mia vita:
ch’altra età dopo l’altra è già fuggita.
Ora è l’estrema, quella che mi annienta.
Ecco l’ultimo tocco ascolto e adesso
l’eco si perde ove più nulla vedo,
poiché tutto nell’ombra si scolora.
Penso all’ultimo silenzio che mi è appresso
e al cuor che trema lentamente chiedo:
l’udrò domani la campana ancora?
Il FRATELLO GEMELLO SCOMPARSO
Nel 1941 veniva a morte, a Genova,
in seguito ad un’infezione manifestatasi
quale conseguenza di un incidente legato
alla passione del correre in bicicletta, il
fratello gemello, l’amatissimo Pietro.
Il “professore” accompagnerà, in treno,
il rientro a San Vito della salma onde
assicurarle, nel cimitero cittadino,
conveniente sepoltura nella tomba di
famiglia.
Forse seduto, solitario, in un vagone egli
scriverà versi, decisamente non bellissimi,
ma sicuramente partecipati ed accorati
vergando su un foglio le dodici strofe, di
quattro versi ciascuna, dall’intitolazione
“Ultimo viaggio”.
…
Or viaggiamo assieme un’altra volta,
fratello mio.
…
Come un fanciul sperduto ecco mi vedo
nel cammin della vita e mi desòlo.
Chi mi sarà compagno ora mi chiedo,
poiché ho sgomento ormai d’essere
solo?
Ti porto intanto nella nostra casa,
che sperava per te altro ritorno:
da qui la sento solo d’ombra invasa,
e tu si gaia la facevi un giorno!
Se là, lontano, in riva al mar Tirreno
sùbita morte acerba l’ha stroncato,
con noi tu dormirai per sempre
almeno,
nella terra soave ove sei nato.
Ti porterem domani al camposanto
ora per me sì triste e tenebroso:
ai nostri vecchi scenderai d’accanto,
là dove avrò pur io con te riposo
…
Or vedo chiaro che sei giunto al porto
ed è la che sicuro ora mi attendi!
Il luttuoso avvenimento troverà lunga e
larga risonanza nel cuore e nella memoria
e persino nelle frequentazioni della
residenza sanvitese degli antichi Altan di
Giovanni. Del suo pianto antico, lasciando
ad altre carte a far da custodi di altre più
intime effusioni, sono attestazioni un
grumo di liriche che egli dava alle stampe
nel 1961. Si tratta di testi dolcissimi, di uno
speciale abbandono, intrisi di un lacrimare
sommesso, persino continuo, ma privo
di sussulti e di singulti. Di una dignità
che ogni volta sconfina nel silenzio e che
trova conforto nelle parole – quelle che da
Adamo hanno accompagnato il secolare
pianto degli uomini sulle sepolture - della
fede.
Il dolce riguardar da stanza a stanza
gli oggetti tuoi non mi rinnova il velo
di pianto agli occhi più, ma la speranza
m’accresce al nostro arrivederci in cielo,
Di ritorno da una visita alla sepoltura
del fratello annotava:
V’era in giro ed ancora vi è l’estate,
pur mi par che l’autunno è già venuto:
hanno i rami le foglie scolorate,
fredda è già l’aria ed il boschetto è muto.
Il giorno del funerale aveva poi scritto:
Chi mi sarà compagno ora mi chiedo,
poiché ho sgomento ormai d’esser solo?
Rimaneva per altro quella del gemello
una presenza invasiva, confortante, di
cui ogni giorno ed ogni ora continuano
a parlare le sue cose. I suoi libri, le sue
letture, le pagine sulle quali per l’ultima
volta ebbero a scorrere i suoi occhi:
Sopra il tavolo tuo tra le tue carte,
dove sedevi nel lavoro usato,
sempre rimase, fratel mio, in disparte
un libro aperto come l’hai lasciato.
Quasi il disperato tentativo di recuperare
una presenza mediante l’intangibilità degli
oggetti sui quali si erano posate mani che
oramai più non ci sono e, nello stesso
tempo, esorcizzare il pericolo che altre
mani, aliene e non famigliari, abbiano a
toccare quelle pagine che il fratello, per
l’ultima volta, aveva sfogliato:
Che non lo chiuda disattenta mano
quel libro in cui ti penso sempre
assorto!
Ti saprei altrimenti più lontano,
ti sentirei più veramente morto!
Poi viene la sera, tutte le sere, inesorabili,
e con la tenebra avanza lo struggimento per
l’assenza. E si tratta di un accoramento da
cui il poeta faticherà a trovare pace:
Pure credo di udire il tuo respiro
ed il pianto mi monta nella gola:
tu non muovi lo sguardo attento in
giro,
me fissi solo, ma non fai parola.
A DIO
Se ne andrà leggero, in punta di piedi,
come sempre era vissuto, il “professore”, l’8
giugno 1979, sostanzialmente dimenticato
come alle volte può accadere in una San Vito
capace di grandi distrazioni. Fragilissimo
il corpo disteso di tra le lenzuola di un
candido lettino del’Ospedale Civile di San
Vito al Tagliamento. Aveva novantotto
anni. Ancora una volta in silenzio – appena
un ultimo sospiro - tra mani, come da
prassi, delicate e premurose, ma che forse
non sapevano di accompagnare all’eternità
uno dei personaggi più significativi della
più recente storia di San Vito. Gli sarà
data sepoltura, accanto al fratello gemello,
nell’austera tomba di famiglia ricavata
nell’emiciclo antico del cimitero urbano.
Su quel tumulo, da tempo purtroppo
divenuto solitario, ecco, mi piace rileggere
una sua composizione, di non particolare
livello artistico, ma caricata di particolari
elegiaca rassegnazione e di sommesso
abbandono in cui sembra di risentire un’eco
del celeberrimo verso ungarettiano: “Ed è
subito sera”.
Già il sole dietro al monte
nascosto ha la sua sfera:
già dall’altro orizzonte
vien l’ombra nera nera:
e adesso sarà sera.
Or, tu mia età matura,
solinga passeggera,
scendi alla valle oscura,
che va alla vita vera:
e adesso sarà sera.
Già sento l’ora estrema:
morte non più straniera
attendo che mi prema
il cuor con man leggera:
e adesso sarà sera.
Fatta eccezione per queste mie parole
poverette, avrei voluto regalare qualche
cosa al “professore”, un piccolo omaggio
che avesse ad attestare tutta la mia
devozione nei suoi confronti. Ma nulla
ho che ora, dove si trova in pace, egli non
abbia. E in abbondanza. Eppure, a costo
di offendere la pudicizia con cui egli
difendeva i propri sentimenti e le proprie
scelte di vita vorrei fargli due piccoli regali.
E l’uno viene dai miei più lontani ricordi
adolescenziali quando una signora che si
recava, durante le mattinate a palazzo Altan
per dare una mano alla coppia di piuttosto
anziani domestici (almeno mi pare di
ricordare che fossero alquanto avanzati in
età) mi raccontava di come, nel riassettare
la biancheria del “professore”, ritrovasse
qualche maglia piuttosto sgualcita nei
gomiti, qualche colletto logorato dall’uso,
qualche risvolto dei pantaloni o della giacca
appena sfilacciato. E di qui la necessità di
provvedere alle sostituzioni delle quali
andava parlando al “professore”. Il quale,
serafico (se non ricordo male era anche
iscritto al Terzo Ordine Francescano),
rispondeva raccomandando di dar mano
all’ago ed al filo poi che in qualche
misura tutto si poteva rammendare ed
a tutto si poteva mettere una pezza. Ma
non per tirchieria, ma nella convinzione
che c’era chi stava peggio di lui ed era
su questi poveri, che con discrezione e
segretezza, si chinava elargendo del suo
somme non indifferenti, offendendosi se
troppo il beneficato si lasciava andare ai
ringraziamenti.
E l’altro regalo per il “professore”
è costituito dal fargli risentire e per un
momento, là dove egli si trova, il suono
delle “sue” campane di San Vito che questa
volta suonano a gloria. Per lui.
Opere pubblicate di Giovanni Tullio Altan
Siete le antiche
compagne amiche
dovunque io vada;
nel vostro accento
vicina sento
la mia contrada.
Nell’ore liete
voi ripetete
l’intimo canto,
con men dolore
sospira il cuore
nel vostro canto.
Ma mai vi ho intese
sì dolci e piane
che le campane
del mio paese!
Saggio critico sullo stile della “Vita” di
Benvenuto Cellini, Roma 1906;
Paolo Verlaine, “Nuova Antologia”, 16
febbraio 1908, 676-683;
Sulle orme del Signore, Firenze 1938;
Cristo e la storia, Roma 1950;
Getsemani o della morte, Roma 1951;
Com’ombra, Bagnacavallo 1955;
In margine alla vita: rime, Bagnacavallo
1955;
Cristianesimo, Islam e Buddismo, Milano
1956;
Si allenta, sulla mia, la presa della
mano del “professore”. Se ne ritorna, con
quei suoi passetti veloci, a prendere posto
nella vicìnia dei miei dolcissimi amici. Lo
guardo allontanarsi, un’altra volta ancora,
e mi commuovo.
A Dio, mio “professore”!
Fabio Metz
Canti della sera, Milano 1959;
In margine al Vangelo, Milano 1960;
In via, Milano 1960;
La chiesa e la crisi mondiale presente,
Milano 1960;
Estratti di composizioni poetiche
Il passero di San Francesco, “Luce
Serafica”, 1962, 9;
Matusala Napoli 1963;
La leggenda di Roberto re di Sicilia.
Traduzione dal Longfellow, Napoli 1965;
Alcune nuove poesie tradotte dal tedesco,
San Vito al Tagliamento 1970;
Traduzioni di poesie dall’inglese e dal
tedesco, Udine 1979.
Un ringraziamento di tutto cuore vada al
chiarissimo professor Giacomo Tasca per
la collaborazione cordiale e partecipata
alla stesura del testo di questa breve
nota. Senza la sua preziosa testimonianza
alcuni particolari della vicenda umana
di Giovanni Tullio sarebbero rimasti in
ombra ed alcuni degli intrecci familiari del
tutto dimenticati.
Giovanni Tullio
30 aprile 1881 – 8 giugno 1979
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I racconti dei “BATTUTI” n.° 7 di Fabio Metz