I racconti dei “Battuti” GIOVANNI TULLIO, il professore di Fabio Metz a cura del CENTRONOVE Circolo Aziendale di San Vito al Tagliamento n. 7 - Dicembre 2014 S arà perché le giornate, rispetto a quelle di anni addietro, diventano sempre più corte, sarà perché mi accorgo che le forze non sono più le stesse di una volta, sarà perché la memoria degli avvenimenti quotidiani, pezzettino per pezzettino, mi si cancella ogni sera che chiudo gli occhi, sarà perché divento sempre più fastidioso e aspro e perciò poco indulgente, come (ma forse) ero un tempo, a capire e a perdonare... E poi sarà anche perché mi accorgo con rammarico di fare ogni giorno più fatica a ritrovarmi in questo mio tempo (problema che in verità non interessa a nessuno, eccezion fatta per me), mi ripeto con l’antico poeta: cotidie morior = me ne vado via, piano piano, un pezzetto alla volta. Onde avviene che, giunta la sera, durante le rapide ore del dopo cena, quando riesco a ritagliarmi un qualche segmento temporale che non sia da impegnare nello scribacchiare il solito contributino per accontentare pievani e redattori di riviste, oppure il commento all’ultima mostra dell’ultimo pittorello o fotografo, mi ritrovo sempre più spesso ad incontrare – nel silenzio della cucina (d’inverno) o del piccolo giardino disteso appena fuori della porta di casa (d’estate e, ovviamente, se non piove) – i miei piccoli maestri di spirito (quelli di scuola, da buon ex insegnante li ho dimenticati tutti) che oramai più non ci sono: Pauli il sacrestano, Ferruccio Maronese, l’organista, la Gigia Colussa (Colussi) fedelissima a tutti i rosari di tutte le sere dell’anno e pronta a pagare con uno splendido, sdentato sorriso, dopo la messa prima della domenica, il caffè al bar Costanza al cappellano ed al sottoscritto che si era ingegnato a suonare l’organo del duomo, la Francesca Corradini che si sorbiva, e con l’anticipo di almeno mezz’ora, tutte le mattine le due messe dei cappellani e quella delle sette celebrata, quasi sempre in ritardo, da monsignor Pietro Corazza ed alla sera contendeva il banco alla Gigia per il rosario e la benedizione con il Santissimo. Ci sono anche altri sanvitesi che frequentano questi miei incontri serali, ma mi accorgo, con il passare del tempo, che i loro volti si vengono sbiadendo oppure sovrapponendosi gli uni agli altri assumendo connotati più o meno similari. La loro sopravvivenza, nella mia memoria, è oramai legata ad una qualche battuta (anche spiritosa), ad una barzelletta non priva di salace intelligenza oppure ad un’osservazione di carattere ambientale oppure paesano ben spesso velenosa. Si tratta di una piccola accolta silenziosa. Ci guardiamo negli occhi. Loro mi guardano. Io guardo loro. E stiamo zitti. Tutti. Essi ed io. Ed a lungo. Ed in questo tacere avviene però che tutti riusciamo a mettere assieme i rispettivi ricordi (diradati di già purtroppo) prima che il tempo tutto abbia a cancellare. Ora però avviene come a quella sorta di celeste vicìnia (=assemblea), da gran tempo assista, in disparte, compostissimo, dignitosissimo, silenzioso, attentissimo, elegante nel suo completo scuro, con camicia e cravatta, anche se un pochino demodè, Giovanni Tullio: “il professore”. Non sono mai riuscito ad avvicinarlo con quella disinvoltura con la quale mi accade di accostarmi a quelli che popolano quel mio piccolo ritrovo. Troppo negli anni in cui ebbi a conoscerlo – addirittura conservo ancora un volumetto da lui regalatomi con l’auspicio di poter continuare con me una qualche consuetudine di incontri e di scambio di opinioni – “il professore” mi incuteva rispetto e riverenza. Una figura che incarnava ai miei occhi di giovane da gran tempo perduto nel furioso vorticare degli anni, alternativamente, una sorta di austera e distaccata figura paterna, ma pure quella di un anziano saggio e dolcissimo, di una signorilità talmente raffinata da apparire, per chiunque avesse ad incontrarlo a qualunque estrazione sociale egli avesse ad appartenere, famigliare, capace di ampi sorrisi, battute e motti arguti, e, soprattutto, librato in un suo mondo molto lontano da quanti, come me, erano in tantis miseriis costituti. Ma adesso, facendomi coraggio, ho ritenuto fosse tempo di andargli incontro, senza ovviamente forzarlo ad aggregarsi alla mia piccola vicìnia paesana, cercando di lasciarlo parlare. Il percorso di avvicinamento – converrà dirlo subito – si presenterà da subito lungo e per la naturale ritrosia del “professore” a concedersi a chi egli avvertiva non come “estraneo”, ma bensì “esterno” al suo complesso mondo interiore, e per la carenza di informazioni di carattere archivistico, e per la difficoltà di ricostruire, tra la produzione letteraria, il lento maturare di pensieri e giudizi. Cerco di provarci. Non riesco a cancellare dalla memoria, tra quelli che mi restituiscono ancora oggi il “professore”, un ricordo quasi fotografico. Siamo ai pomeriggi delle domeniche estive degli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo. E’ l’ora del vespro. Una luce gialliccia, riflessa dal finestrone della facciata, illuminava una diradata pattuglia di donne, pronte a salmodiare, in qualche maniera biascicando un latino di cui erano del tutto ignare. In presbiterio, con i chierichetti, siedevano i cappellani ben attenti a non disturbare il pomeridiano e meritato riposo di monsignore. Io ero all’organo cercando di arrabattarmi nell’accompagnare le melodie gregoriane piuttosto ignote anche ai celebranti. Dopo il canto del Magnificat, la riproposta dell’antifona e la declamazione solenne dell’Oremus e del lungo vocalizzo Benedicamus Domino con una speciale partecipazione sonora che i cinquecenteschi trattati di vocalità avrebbero definito in gorga ( = a piena gola, il che è tutto dire!), la celebrazione si concludeva. Seguiva quindi un sermoncino durante il quale chi presiedeva all’ufficio vesperale si affaticava, tra la distrazione generale, di ammannire alcune nozioncelle di catechismo. Seguiva la benedizione con il Santissimo Sacramento e quindi, con una canzoncina alla Vergine, l’assemblea si scioglieva. Ebbene: non c’è verso che io, mentre dal presbiterio al quale mi affacciavo durante il predicozzo catechistico, riesca a dimenticare, il “professore”. Se ne stava in navata, seduto su una sedia sistemata nei pressi dell’antico altare delle famiglia Altan (il secondo eretto lungo la parete di sinistra della navata del Duomo), immobile, assorto, con il suo libro di preghiere tra mano, pronto a seguire in tutto e per tutto quelle liturgie di sapore piuttosto casalingo e ad accordarsi al garrulo verseggiare delle beatelle appollaiate, or qua or là, nelle bancate. E, devo dire la verità, quello che allora mi colpiva, e che ancora è motivo di straordinaria meraviglia, era la capacità del “professore” di adattarsi alla piccola realtà locale, senza particolari sforzi, di riuscire a cantare, con gente che non aveva fatto le sue esperienze, ad un Dio che egli riconosceva, comunque, il Dio di tutti. Poi usciva di chiesa e, piano piano, si avviava, lungo via Antonio Altan, al palazzo avito. Allo stesso modo, durante la settimana, in altra versione, lo si poteva ritrovare, specialmente durante i pomeriggi primaverili ed estivi, oramai avanzato in età, a cavallo della sua monumentale bicicletta nera, dotata di specchietto retrovisore agganciato alla sinistra del manubrio, intento a percorrere le vie cittadine con qualche tappa per un saluto, una parola, uno squillante “bongiorno” ancorché augurato magari un quarto d’ora avanti le cinque del pomeriggio. Ogni tanto si fermava a scambiare qualche idea anche con me. Ed ero imbarazzatissimo poi che avvertivo, da subito, la distanza tra lui e me. E mi imbarazzavano ancor di più i lunghi silenzi con i quali intervallava il suo colloquiare. Erano silenzi che io mi guardavo bene dal disturbare. Ma devo dire che, a distanza di tempo anche se tutte le sue parola più io non ricordo, quel suo tacere mi è stato fonte, nel cuore, di un’acqua zampillante e fresca e rigenerante. E’ possibile che l’amore per il silenzio gli venisse dalla scelta di una vita solitaria, dallo stare per lunghissime ore chiuso nella sua stanza di palazzo Altan, ma poi, prima, dall’aver frequentato i monaci del Monte Athos o quelli di Cava dei Tirreni e la Cina, e la Palestina, e l’Algeria e la Spagna. Ma io ritengo, ovviamente per quel poco che mi è stata data la grazia di frequentarlo, che quel suo silenzio fosse per l’un verso rispetto e discrezione nei confronti di chi egli si trovava di fronte onde non dover caricare l’interlocutore dei risultati di faticose meditazioni personali e per l’altro la convinzione (stavo per scrivere, ma sbagliando, la sensazione) di trovarsi, lui, il “professore”, su approdi oramai molto lontani da quelli lungo i quali si dipanava la normale vicenda umana. Secondo una sorta di rodaggio che si riesce a recuperare, ma in parte, rileggendo la produzione poetica. Alla Badia di Cava Cara Badia, che, chiusa nel profondo recesso tuo da veri boschi adorno, montagne austere altissime d’intorno quasi in cerchio separano dal mondo: o sacro a Dio ricovero giocondo, da quando ti conobbi ospite un giorno con quant’ansia e diletto a te ritorno e con la pace tua mi riconfondo! Qui di santi pensier nel pio lavacro purgo gli error della terrena stanza e i disinganni miei pongo in oblio. Ma più cara mi sei che nel tuo sacro raccoglimento accresco la speranza di riposare eternamente in Dio Ma proviamo ad andare con un pochino d’ordine. A cominciare da un minimo (ché ben altro dovrà essere l’eventuale impegno su questo versante) di percorso biografico. Operazione per la quale il “professore” non aiuta per nulla tanto, credo volutamente, ha voluto protetto i suoi giorni e le sue scelte di vita. E’ certo che il 30 aprile 1881, in San Vito al Tagliamento nascevano da Vito Tullio figlio del fu Francesco e da Anna Pribul di Ferdinando, alle ore due pomeridiane Pietro, Antonio, Giovanni, Nepomuceno e quindi alle ore tre pomeridiane Giovanni Battista, Vincenzo – il nostro Giovanni – recati entrambi al fonte battesimale il 2 maggio immediatamente successivo. Sul capo dei gemellini versava l’acqua lustrale il cappellano Natale Tebon, mentre fungevano da padrino e madrina alla cerimonia Giovanni Battista fu Giuseppe conte di Porcia e Lina Fabris fu Pietro in Porcia. Allievo di Giosué Carducci presso l’Università di Bologna, e di Anton Giulio Barilli presso l’Università di Genova, si laureerà nel 1902 con una tesi sullo stile della “Vita” di Benvenuto Cellini, lavoro che poi darà alle stampe nel 1906. Parteciperà alla Grande Guerra con il grado di ufficiale di cavalleria e, proprio per il risiedere in Aquileia, avrà modo di conoscere il parroco della basilica don Celso Costantini con il quale instaurerà un solido rapporto di reciproca stima ed amicizia fino dal 1912: Seguirà il Costantini a Fiume, città nella quale terrà i rapporti, fungendo da ambasciatore, tra l’amministratore apostolico Costantini e Gabriele D’Annunzio, Seguirà quindi per due anni monsignor Celso in Cina, toccando l’India, il Medio Oriente ed il Giappone. Con il rientro in Europa, prendono avvio una serie di ulteriori spostamenti, cui qui si fa solamente cenno, che lo vedranno in Algeria ed a Roma (1926), in una casetta nei pressi della grotta di Nazareth (1930), ma anche in Spagna, Tunisia, Monte Athos ed in Italia e a più riprese, in Roma e, siccome già accennato, presso l’abbazia di Cava dei Tirreni. Spostamenti plurimi assicurati dalle rendite famigliari; le stesse che potranno coprire la stampa di una serie di opere, in prosa di carattere storicofilosofico-teologico le une ed in poesia le altre che costelleranno i lunghi anni di vita del “professore” dal 1906 ad almeno il 1960 e di cui si fornisce l’elenco al terminare di queste pagine. Verrà, si spera, giorno in cui più e meno frettolosamente del “professore” si potrà parlare. Sono queste poche paginette una sorta di antipasto intese a riproporne alcuno, almeno, dei molteplici aspetti della sua personalità. Che da subito converrà dire essere estremamente complessa e di difficile ricostruzione. Ma della quale, senza voler anticipare giudizi più meditati, sembra di poter collocare principalmente sotto il segno del “viaggio”, che non vuol dire irrequietezza, ma vuol dire coscienza di come esistano molteplici verità che, frammentate, si possono ritrovare all’interno delle diverse culture europea, africana e asiatica. Il “professore” è affascinato dalla ricchezza interiore ed esteriore dell’”altro”, che brama incontrare e conoscere. Senza per altro dimenticare che tutto questo viaggiare in fondo inizia e si conclude, giorno per giorno ed anno per anno, nel cuore del “professore” che per tutta la vita, in fondo, ha girato attorno a se stesso ed al suo cuore. Attorno al quale poi continuerà a girare, con una costanza eccezionale, nel corso delle sue lunghe giornate utilizzando una non indifferente perizia letteraria frutto di altissimi magisteri e di una diuturna operazione di lima sicché, ben spesso, consegnerà alla pagina di norma cesellati poemetti e, in qualche caso, composizione di arioso respiro poetico. Tutto non si poteva, come di già anticipato, dire del “professore” in queste facciatine. Lo sapevo fin dall’inizio e ho pensato di imboccare una strada che, lasciando ad altro occasione la rilettura dell’opera teorica, mi facesse muovere tra i suoi versi. Una volta fatta la scelta, lo ho pregato, in queste sere autunnali, di darmi un aiuto. Guardandomi con quei suoi occhi di un azzurro liquido, mi ha preso delicatamente per mano e mi ha suggerito questo indice con l’avvertirmi, sommesso, che la strada sarebbe stata difficile ed il risultato finale, soprattutto per il lettore, affatto scontato. CON ME STESSO Ecco il “professore” come si presenta: Cerco sempre il sentiero che mi mena dove il campo è più vuoto, ov’è più spesso il bosco e più selvaggio o al mar d’appresso dov’è più nuda e solitaria arena. Quando un grande silenzio intorno o appena un dolce avverto mormorio sommesso, pienamente ritrovo allor me stesso e ridiventa l’anima serena. Ben è ver che talora m’affatico invano a trovar pace, poiché porto dentro me chiuso il mio peggior nemico. Ma se il pensier mio torvo in quel ritiro più mi combatte, ho questo per conforto, che con altri ma con me mi adiro. In altra lirica viene riflettendo su se stesso: Altro piacer non ho che d’esser solo, com’ora qui per questo prato aperto. Parmi talora uscir già dal mondo per sì beata stanza, che m’assale un infinito di morir desio. Ribadendo: Cerco sempre il sentiero che mi mena dove il campo è più vuoto, ov’è più spesso il bosco e più selvaggio o al mar dappresso dov’è più nuda e solitaria arena. Quando un grande silenzio intorno o appena un dolce avverto mormorio sommesso, pienamente ritrovo allor me stesso e ridiventa l’anima mia serena. E poi: Quest’ora nei miei voti ed or mi è dato! In piena solitudine un recesso con un bosco silente, un rivo, un prato, dove con Dio son solo e con me stesso. Ad un innominato amico dichiarava Amico mio, mi chiedi curioso in qual angol di verde mi riposo, chiuso in me stesso e e discordando il mondo. IL LENTO RILASCIAR GLI ORMEGGI Non sono in grado di sapere se il “professore” durante il lungo corso della sua vita sia mai, oppure in particolari situazioni, stato felice. Ma mi pare di poter affermare, rileggendo le sue liriche, come sia venuto lentamente, chiudendo i suoi giorni, giusta la scrittura, in senectute bona, provectaeque aetatatis et plenus dierum del vecchissimo Abramo (Gen, 25,8), non tanto abbia incontrato la morte, ma quanto con quel passaggio decisivo abbia instaurato un lungo e costante colloquio. Mai diretto, e per tanto sempre obliquo, fatto di rimandi nella certezza che, comunque, ella, la morte, avrebbe avuto alla fine la meglio. Ed è però, nei testi in cui il “professore” viene facendo di volta in volta accenno all’addio, che la morte si presenta quale compagna silente e sommessa, decisamente temuta - “il terror dell’ignoto e dell’attesa / peggio è che l’infuriar della tempesta” -, ma per altro verso attesa, porta che si chiude al moltiplicato affannarsi terreno e che si dischiude al finale riposo della patria celeste. Di fronte all’eternità, il verso si fa preghiera, supplica, invocazione, quando non assume, come nella composizione in cui vien raccontando della morte dignitosissima, composta, “naturale” del suo vecchio “colono”, i colori quasi dell’invidia. Nell’ombra avvolto sempre più mi è greve l’invidiare nel beato coro quei compagni. E Tu fa, Signor, che in breve nel lume tuo si ricongiunga a loro! In altro testo afferma convinto: Anima mia, la sera di tua vita t’è silenziosa e desolata appresso: la luce del tuo giorno è ormai svanita e il buio è più e più spesso. Paziente sii: non disperar se questa tristezza dell’estrema ora ti ingombra: il breve tempo ancora che ti resta forse non è tutt’ombra. Se una punta di te trascende il velo di tenebre che il mondo or ti scolora, essa ha luce poiché alta nel Cielo Iddio contempla ancora. Il passaggio estremo per il “professore” altra volta assume quasi i connotati di una mano tesa al suo Signore: E venga anch’essa del mio dì la sera! Mi congiunga con quanti in Te han riposo. Ecco il greve silenzio e l’ombra nera mi si paran dinanzi: ma gioioso Lor cederò, Signor, con cuor fidente, purché Tu sia presente! LA CASA E’ ancora la casa una grande amica del “professore”. Soprattutto, più che quello della tenuta di Aquileia, è presente nella sua opera il palazzo avito già degli Altan in San Vito. Un luogo che egli sente da sempre quale proprio ed all’ interno del quale egli si aggirerà, felpato, nelle vesti dell’ultimo erede, lungo le sale decorate degli stucchi settecenteschi attestanti le glorie, e di molto faticate, degli Altan, ed i mobili preziosi, e le argenterie e le porcellane e le tele incorniciate. O casa mia più volte secolare col tacit’orto e la modesta corte quante culle tu hai viste e quante bare Nelle tue stanze oppur per le tue porte! Ti chiamo casa mia e sei albergo: qui mi dico padrone e son straniero: nostra dimora è veramente il Cielo! E nella ampia e sonora magione avita ricaverà la sua stanza, rivolta verso oriente e per ciò affacciata sul giardino interno, sistemata al secondo piano del palazzo, subito sul retro della cappella gentilizia, raggiungibile attraverso un breve corridoio che ricordo quale una sorta di cammino sospeso nel tempo e nello spazio. Era, quella sua cameretta, l’utero sicuro e certo, affollata dei libri, amici fedeli, silenziosi e certi delle solitarie riflessioni del “professore” che, seduto alla vasta scrivania ingombra di carte e di appunti e di fogli e di libri aperti oppure percorsi da segnacoli e da foglietti, lì sostava, in un ovattato silenzio, per lunghe ore durante la giornata. E’ la cameretta in cui rifugiarsi quando la sera tutto veniva scolorando e la campana del “borgo” chiamava alla preghiera per i defunti. O cameretta mia silenziosa, ove al mattino il primo sole splende per la finestra, donde l’occhio posa sulla campagna che laggiù si stende, chiuso in te con la mente che bramosa di pace ai suoi diletti attende, vivo, in oblio d’ogni presente cosa, altri tempi, altri luoghi, altre vicende. O caro asilo mio soavemente nel tuo segreto il cuore si separa di già da mondo a cui sì poco anelo: e si dispone all’altra più silente e più picciola stanza, a la mia bara, che veramente s’apre verso il Cielo. Un rifugio che altrimenti canta: Come il dì passo alla campagna? Vivo. Talor mi levo quando il cielo imbianca: esco pei campi dove già l’attivo agricoltor sul vomero si stanca. Rincasi poscia quando il sole estivo ogni voce e rumore d’attorno manca: più tardi seguo il mormorar d’un rivo, che in mezzo ai prati al mio sentier s’affianca. Guardo il sol che si cela e in lontananza l’ombra che monta: per il cielo immenso morire ascolto il suon d’una campana. Al silenzio ritorno di mia stanza e in Dio mi chiudo e presso a lui compenso la vacuità dell’ esistenza umana. LA BIBLIOTECA PERSONALE Un ruolo importante, proprio perché percepita quale amica, ma soprattutto quale dolcissimo rifugio nel corso delle quiete giornate sanvitesi, e per altro conforto e confronto con quelle voci tradotte in caratteri di stampa con i quali entrare in solitario confronto con un discorrere di autori dispersi sulla faccia del continente europeo, occupa la biblioteca personale i cui volumi il “professore”, nei lunghi anni del suo peregrinare e dei suoi studi, aveva accumulato nella stanza recondita di palazzo Altan. Amatissima. O libri miei, per anni con severo amor trascelti e non diletto invano, un giorno prenderò un sentiero che da voi mi sempre mi terrà lontano. Ma pur rinchiusa in voi di me v’è parte quella che palpitò nella lettura o di gioia, o d’affanno e di stupore. Sempre io la sento nelle vostre carte, che invisibile là ed intatta dura. Ma chi la trova se non ha il mio cuore? Ed aggiungeva, mentre andava contemplando un secolare codice della sacra scrittura già evidentemente conservato nella antica biblioteca degli Altan: Nell’ampia libreria, cui danno il giorno le finestre sul tacito cortile e che raccoglie a uno scrittoio attorno i libri ritti nelle lunghe file, col vecchio cuoio del tuo dorso in mostra, grande e pesante, immota su un leggio, da trecent’anni nella casa nostra ospite sei, volume tu di Dio. Fino all’addio a quella stanza che per decenni lo aveva ospitato ed all’interno della quale aveva operato, studiato e scritto. Un addio trepido, scritto quasi con un nodo alla gola nel sospetto che altri con quei libri non potessero avere quella sua robusta consuetudine: Tra breve lascerò questa mia bianca stanza ed i gravi libri alla parete per altra stanza di maggior quiete. Ma che in perpetuo d’ogni luce manca. E curiosi allor del pensier mio chiederanno guardando nelle carte: che mai leggeva all’ultimo suo giorno? IL PERDERSI NELLA NATURA Mille scenari, testimoni delle stagioni del suo animo, viene costantemente dipingendo il “professore” nelle sue poesie (siccome già aveva fatto con penna dolcissima descrivendo gli orizzonti della Terra Santa nelle pagine ricche del saggio “Sulle orme del Signore”). Locali ed esotici siccome erano quelli si andava muovendo nel suo lungo andare per terre straniere. E son fatti quei fondali di prati, siepi, fiori, alberi e frutteti e ruscelli e fiumi. E poi ancora vallette, cime nevose e cieli stellati e deserti e lande desolate. Ed anche ruderi e frammenti e monete di una lontana gloria che all’impero di Roma riabbraccia la sua Aquileia. Il tutto attraversato da leggiadri e sonori uccelli quali le allodole o i gabbiani. Sino a quell’uccellino, in cui egli si ritrova, che decide di non migrare, con gli altri suoi fratelli, al giunger dell’autunno. Una sorta di bucolica pascoliana trattenuta da veloci accenni quasi nel timore di lascarsi andare ad un abbandono che potrebbe sconfinare nel lezioso e nel convenzionale. Tutto in questo pudico e soffice affrescare è affidato al tocco leggero, all’accenno, e, quando occorre, alla metafora. Scivola lenta sui miei vetri e folta la nebbia: intorno la campagna avvolta è tutta nel tuo velo. Un solo grigio livido confonde gli aspetti fuori: tutto mi confonde, l’orto, la strada, il cielo. Da quella coltre appena appena scialba filtra una luce, come un chiaror d’alba smorto, che non più avanza. L’occhio dal vetro si ritrae deluso: or mi ritrovo tutto il dì rinchiuso nella mia grigia stanza. Meglio così: ch’io più non cerchi ansioso le cose fuori che non dan riposo all’irrequieto cuore: ma che raccolto tacito in me stesso dalla Tua faccia io trovi in me riflesso il lume Tuo, Signore! E per altro accade ben spesso, che quelle quinte terrene vadano perdendosi, per una sorta di processo di osmosi pressoché naturale, in orizzonti ultraterreni di cui egli quotidianamente si sentiva partecipe giusta un procedere che la liturgia del Sabato Santo definiva una sorta di iunctio (ricongiungimento) di tra humana (le cose di questa terra) e divina (le cose del cielo). Ma avviene ancora che quel complesso e variegato paesaggio all’interno del quale si muove il poeta, venga, periodicamente, attraversato da una voce particolare che è quella della campana: lontana alle volte, ma più spesso quella del natio “borgo”. Si tratta certamente di una voce nota e consolante quando abbia a scendere da un qualche campanile, ma mai così familiare, suasiva, “piana” siccome quella che arriva alla stanza del poeta dal campanile del “borgo”. Una voce con la quale egli stabilisce da subito, o meglio, da sempre un colloquio le cui parole, sulle note del sacro bronzo, si allungano, spesso, in una sorta di timore, tremore e desiderio fino a toccare le soglie dell’eternità. A conclusione di quel suo viaggio, così fascinosamente, solitario. Ed unico. Quella campana ch’ogni sera lenta piange lontana ed a pregar m’invita e segna che la luce è dipartita ed ogni voce nella valle è spenta, con sue flebili note mi rammenta della breve giornata di mia vita: ch’altra età dopo l’altra è già fuggita. Ora è l’estrema, quella che mi annienta. Ecco l’ultimo tocco ascolto e adesso l’eco si perde ove più nulla vedo, poiché tutto nell’ombra si scolora. Penso all’ultimo silenzio che mi è appresso e al cuor che trema lentamente chiedo: l’udrò domani la campana ancora? Il FRATELLO GEMELLO SCOMPARSO Nel 1941 veniva a morte, a Genova, in seguito ad un’infezione manifestatasi quale conseguenza di un incidente legato alla passione del correre in bicicletta, il fratello gemello, l’amatissimo Pietro. Il “professore” accompagnerà, in treno, il rientro a San Vito della salma onde assicurarle, nel cimitero cittadino, conveniente sepoltura nella tomba di famiglia. Forse seduto, solitario, in un vagone egli scriverà versi, decisamente non bellissimi, ma sicuramente partecipati ed accorati vergando su un foglio le dodici strofe, di quattro versi ciascuna, dall’intitolazione “Ultimo viaggio”. … Or viaggiamo assieme un’altra volta, fratello mio. … Come un fanciul sperduto ecco mi vedo nel cammin della vita e mi desòlo. Chi mi sarà compagno ora mi chiedo, poiché ho sgomento ormai d’essere solo? Ti porto intanto nella nostra casa, che sperava per te altro ritorno: da qui la sento solo d’ombra invasa, e tu si gaia la facevi un giorno! Se là, lontano, in riva al mar Tirreno sùbita morte acerba l’ha stroncato, con noi tu dormirai per sempre almeno, nella terra soave ove sei nato. Ti porterem domani al camposanto ora per me sì triste e tenebroso: ai nostri vecchi scenderai d’accanto, là dove avrò pur io con te riposo … Or vedo chiaro che sei giunto al porto ed è la che sicuro ora mi attendi! Il luttuoso avvenimento troverà lunga e larga risonanza nel cuore e nella memoria e persino nelle frequentazioni della residenza sanvitese degli antichi Altan di Giovanni. Del suo pianto antico, lasciando ad altre carte a far da custodi di altre più intime effusioni, sono attestazioni un grumo di liriche che egli dava alle stampe nel 1961. Si tratta di testi dolcissimi, di uno speciale abbandono, intrisi di un lacrimare sommesso, persino continuo, ma privo di sussulti e di singulti. Di una dignità che ogni volta sconfina nel silenzio e che trova conforto nelle parole – quelle che da Adamo hanno accompagnato il secolare pianto degli uomini sulle sepolture - della fede. Il dolce riguardar da stanza a stanza gli oggetti tuoi non mi rinnova il velo di pianto agli occhi più, ma la speranza m’accresce al nostro arrivederci in cielo, Di ritorno da una visita alla sepoltura del fratello annotava: V’era in giro ed ancora vi è l’estate, pur mi par che l’autunno è già venuto: hanno i rami le foglie scolorate, fredda è già l’aria ed il boschetto è muto. Il giorno del funerale aveva poi scritto: Chi mi sarà compagno ora mi chiedo, poiché ho sgomento ormai d’esser solo? Rimaneva per altro quella del gemello una presenza invasiva, confortante, di cui ogni giorno ed ogni ora continuano a parlare le sue cose. I suoi libri, le sue letture, le pagine sulle quali per l’ultima volta ebbero a scorrere i suoi occhi: Sopra il tavolo tuo tra le tue carte, dove sedevi nel lavoro usato, sempre rimase, fratel mio, in disparte un libro aperto come l’hai lasciato. Quasi il disperato tentativo di recuperare una presenza mediante l’intangibilità degli oggetti sui quali si erano posate mani che oramai più non ci sono e, nello stesso tempo, esorcizzare il pericolo che altre mani, aliene e non famigliari, abbiano a toccare quelle pagine che il fratello, per l’ultima volta, aveva sfogliato: Che non lo chiuda disattenta mano quel libro in cui ti penso sempre assorto! Ti saprei altrimenti più lontano, ti sentirei più veramente morto! Poi viene la sera, tutte le sere, inesorabili, e con la tenebra avanza lo struggimento per l’assenza. E si tratta di un accoramento da cui il poeta faticherà a trovare pace: Pure credo di udire il tuo respiro ed il pianto mi monta nella gola: tu non muovi lo sguardo attento in giro, me fissi solo, ma non fai parola. A DIO Se ne andrà leggero, in punta di piedi, come sempre era vissuto, il “professore”, l’8 giugno 1979, sostanzialmente dimenticato come alle volte può accadere in una San Vito capace di grandi distrazioni. Fragilissimo il corpo disteso di tra le lenzuola di un candido lettino del’Ospedale Civile di San Vito al Tagliamento. Aveva novantotto anni. Ancora una volta in silenzio – appena un ultimo sospiro - tra mani, come da prassi, delicate e premurose, ma che forse non sapevano di accompagnare all’eternità uno dei personaggi più significativi della più recente storia di San Vito. Gli sarà data sepoltura, accanto al fratello gemello, nell’austera tomba di famiglia ricavata nell’emiciclo antico del cimitero urbano. Su quel tumulo, da tempo purtroppo divenuto solitario, ecco, mi piace rileggere una sua composizione, di non particolare livello artistico, ma caricata di particolari elegiaca rassegnazione e di sommesso abbandono in cui sembra di risentire un’eco del celeberrimo verso ungarettiano: “Ed è subito sera”. Già il sole dietro al monte nascosto ha la sua sfera: già dall’altro orizzonte vien l’ombra nera nera: e adesso sarà sera. Or, tu mia età matura, solinga passeggera, scendi alla valle oscura, che va alla vita vera: e adesso sarà sera. Già sento l’ora estrema: morte non più straniera attendo che mi prema il cuor con man leggera: e adesso sarà sera. Fatta eccezione per queste mie parole poverette, avrei voluto regalare qualche cosa al “professore”, un piccolo omaggio che avesse ad attestare tutta la mia devozione nei suoi confronti. Ma nulla ho che ora, dove si trova in pace, egli non abbia. E in abbondanza. Eppure, a costo di offendere la pudicizia con cui egli difendeva i propri sentimenti e le proprie scelte di vita vorrei fargli due piccoli regali. E l’uno viene dai miei più lontani ricordi adolescenziali quando una signora che si recava, durante le mattinate a palazzo Altan per dare una mano alla coppia di piuttosto anziani domestici (almeno mi pare di ricordare che fossero alquanto avanzati in età) mi raccontava di come, nel riassettare la biancheria del “professore”, ritrovasse qualche maglia piuttosto sgualcita nei gomiti, qualche colletto logorato dall’uso, qualche risvolto dei pantaloni o della giacca appena sfilacciato. E di qui la necessità di provvedere alle sostituzioni delle quali andava parlando al “professore”. Il quale, serafico (se non ricordo male era anche iscritto al Terzo Ordine Francescano), rispondeva raccomandando di dar mano all’ago ed al filo poi che in qualche misura tutto si poteva rammendare ed a tutto si poteva mettere una pezza. Ma non per tirchieria, ma nella convinzione che c’era chi stava peggio di lui ed era su questi poveri, che con discrezione e segretezza, si chinava elargendo del suo somme non indifferenti, offendendosi se troppo il beneficato si lasciava andare ai ringraziamenti. E l’altro regalo per il “professore” è costituito dal fargli risentire e per un momento, là dove egli si trova, il suono delle “sue” campane di San Vito che questa volta suonano a gloria. Per lui. Opere pubblicate di Giovanni Tullio Altan Siete le antiche compagne amiche dovunque io vada; nel vostro accento vicina sento la mia contrada. Nell’ore liete voi ripetete l’intimo canto, con men dolore sospira il cuore nel vostro canto. Ma mai vi ho intese sì dolci e piane che le campane del mio paese! Saggio critico sullo stile della “Vita” di Benvenuto Cellini, Roma 1906; Paolo Verlaine, “Nuova Antologia”, 16 febbraio 1908, 676-683; Sulle orme del Signore, Firenze 1938; Cristo e la storia, Roma 1950; Getsemani o della morte, Roma 1951; Com’ombra, Bagnacavallo 1955; In margine alla vita: rime, Bagnacavallo 1955; Cristianesimo, Islam e Buddismo, Milano 1956; Si allenta, sulla mia, la presa della mano del “professore”. Se ne ritorna, con quei suoi passetti veloci, a prendere posto nella vicìnia dei miei dolcissimi amici. Lo guardo allontanarsi, un’altra volta ancora, e mi commuovo. A Dio, mio “professore”! Fabio Metz Canti della sera, Milano 1959; In margine al Vangelo, Milano 1960; In via, Milano 1960; La chiesa e la crisi mondiale presente, Milano 1960; Estratti di composizioni poetiche Il passero di San Francesco, “Luce Serafica”, 1962, 9; Matusala Napoli 1963; La leggenda di Roberto re di Sicilia. Traduzione dal Longfellow, Napoli 1965; Alcune nuove poesie tradotte dal tedesco, San Vito al Tagliamento 1970; Traduzioni di poesie dall’inglese e dal tedesco, Udine 1979. Un ringraziamento di tutto cuore vada al chiarissimo professor Giacomo Tasca per la collaborazione cordiale e partecipata alla stesura del testo di questa breve nota. Senza la sua preziosa testimonianza alcuni particolari della vicenda umana di Giovanni Tullio sarebbero rimasti in ombra ed alcuni degli intrecci familiari del tutto dimenticati. Giovanni Tullio 30 aprile 1881 – 8 giugno 1979