CONFRONTI 12/DICEMBRE 2011 WWW.CONFRONTI.NET Anno XXXVIII, numero 12 Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Stefano Toppi (vicepresidente), Rosario Garra, Gian Mario Gillio, Rita Maria Maglietta. Le immagini In balia dei mercati?, Andrea Sabbadini, copertina L’iniziativa al teatro Ambra alla Garbatella, Andrea Sabbadini, 3 Gli editoriali SOS Confronti, 4 Dopo Berlusconi, le macerie · Felice Mill Colorni, 5 L’umiliazione del welfare neocaritatevole · Augusto Battaglia, 6 Euro: correggere la rotta definita dalla Germania · Stefano Fassina, 7 Direttore Gian Mario Gillio Caporedattore Mostafa El Ayoubi In redazione Luca Baratto, Umberto Brancia, Demetrio Canale, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori, Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Cristina Mattiello, Daniela Mazzarella, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. Collaborano a Confronti Stefano Allievi, Massimo Aprile, Alessia Arcolaci, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio De Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Piera Egidi, Mahmoud Salem Elsheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Renato Fileno, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Francesco Gentiloni, Maria Rosaria Giordano, Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Dafne Marzoli, Domenico Maselli, Lidia Menapace, Mario Miegge, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari, Alda Radaelli, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Josè Ramos Regidor, Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Valentina Spositi, Serena Tallarico, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi. Redazione tecnica e grafica Daniela Mazzarella Programmi [email protected] Abbonamenti, diffusione e pubblicità Nicoletta Cocretoli Amministrazione Gioia Guarna I servizi Religioni Informazione Medio Oriente Giornata del 27 ottobre Ahmadiyya Incontri/De Benedetti Assisi, continuità e discontinuità · David Gabrielli, 9 I leader religiosi per la pace a Gerusalemme · Luigi Sandri, 11 Un dialogo che esclude i vicini · Dora Bognandi, 13 Un viaggio nella stampa ebraica in Italia · Lia Tagliacozzo, 15 Abbiamo sentito parlare di un sogno · Rosita Poloni, 18 Dialogando si apre il dialogo · Brunetto Salvarani, 20 Islam: la nuova frontiera · Giulio Soravia, 22 «Diversamente» musulmani · Iftikhar Ahmad Ayaz, 24 Cristiano la domenica, ebreo tutti gli altri giorni · Piera Egidi Bouchard, 26 Le notizie Immigrazione Armi Ambiente Diritti umani Valdesi Società Spiritualità Presentato il XXI Dossier Caritas/Migrantes, 28 Il rapporto di Amnesty sulla vendita ai regimi, 28 L’eco-guida di Greenpeace ai prodotti elettronici, 29 La campagna di Rsf contro i Paesi che reprimono la libertà di stampa, 29 Riformati americani in visita in Italia, 30 Ricerca di Cittadinanzattiva sugli asili nido, 30 La scomparsa di padre Anthony Elenjimittam, 31 Le rubriche Spigolature d’Europa Convegno Memoria Osservatorio sulle fedi Note dal margine Cinema Libro Libro Segnalazioni SOS Confronti/Lettere Rajoy guida la Spagna del dopo Zapatero · Adriano Gizzi, 32 Il protestantesimo nell’Italia di oggi · Gian Mario Gillio, 33 Gli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah · Stefania Sarallo, 34 Alle origini della festa del Natale · Renato Fileno, 35 Ma il rispetto della vita vale solo per quella umana? · Giovanni Franzoni, 36 Un ritratto attento dell’Iran di oggi · Umberto Brancia, 37 Fare i conti con Maria · Giuliano Ligabue, 38 Ad essere in crisi è «un» papato o «il» papato? · Luigi Sandri, 39 40 41 Indice 2011 Publicazione registrata presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551. Hanno collaborato a questo numero: I.A. Ayaz, A. Battaglia, F.M. Colorni, M. Di Pietro, S. Fassina, L.Mussi, R. Poloni, G. Sarubbi, G. Soravia. Ringraziamo Andrea Sabbadini per le foto che illustrano il numero e per l’amicizia che sempre ci dimostra. 2 LE IMMAGINI Le immagini che illustrano questo numero sono di Andrea Sabbadini e si riferiscono all’iniziativa di autofinanziamento che abbiamo organizzato al teatro Ambra alla Garbatella di Roma. 3 SOS CONFRONTI « V ogliamo continuare così, sostienici!». Con questo grido d’allarme, esattamente un anno fa (dicembre 2010), dalla copertina di Confronti abbiamo fatto appello ai nostri lettori affinché rinnovassero il proprio abbonamento e possibilmente ne attivassero anche uno nuovo da regalare a qualcuno. Di fronte all’aggravarsi della nostra situazione economica, due mesi fa abbiamo deciso di lanciare una campagna straordinaria per la salvezza di Confronti. Questa volta la risposta è stata molto più consistente e per fortuna gli abbonamenti e i contributi stanno arrivando abbastanza numerosi. Sono sicuramente indispensabili, ma purtroppo non ancora sufficienti per poterci considerare fuori pericolo rispetto alla minaccia concreta che questo mensile e la cooperativa Com Nuovi Tempi siano costretti a chiudere i battenti. Per questo chiediamo, a chi non l’avesse ancora fatto, di fare il possibile per darci una mano. Riportiamo qui sotto l’elenco aggiornato delle persone che hanno contribuito finora, ringraziandole ancora molto e sperando che altre vogliano presto aggiungersi. A pagina 43 pubblichiamo alcune mail che i lettori ci hanno inviato in queste ultime settimane. Ricordiamo ai lettori i nostri recapiti per contattarci e le modalità per effettuare i versamenti: www.confronti.net [email protected] tel. 06.4820503; 06.48903241 versamenti su c.c.p. 61288007 intestato a coop. Com Nuovi tempi, via Firenze 38 - 00184 Roma. Bonifico bancario (presso la BPM) IBAN: IT64Z0558403200000000048990 CHI HA CONTRIBUITO Contributi «a copertura deficit» da parte dei soci della cooperativa Com Nuovi Tempi: Claudio Boreggi, Umberto Brancia, Francesco Brocco, Fulvio Carloni, Gianfranco Carpente, Franco Cattaneo, Tonino Cau, Anna Cavallaro, Giorgio Chinigò, Nicoletta Cocretoli, Ottorino Di Francesco, Mostafa El Ayoubi, Paolo Ferrari, Giovanni Franzoni, Ernesto Flavio Ghizzoni, Franco Giampiccoli, Gian Mario Gillio, Evelina, Lilia ed Enrico Girardet (in memoria del cugino Giorgio Girardet), Adriano Gizzi, Elena Glielmo, Emanuela Gorelli, Wanda Gozzi, Gioia Guarna, Domenico Jervolino, Michele Lipori, Franca Long e Alessandro Mazzarella, Renato Maiocchi, Anna Maria Marino, Anna Maria Marlia e Fausto Tortora, Daniela Mazzarella, Salvatore Menna, Paolo Paganuzzi, Giuseppe Perseo, Vera Petrosillo, Mario Peyronel, Pier Giorgio Rauzi, Piera Rella, Isidoro Rosolen, Carlo Rubini, Dea Santonico e Stefano Toppi, Stefania Sarallo, Francesco Silvestri, Massimo Silvestri, Aleandro Stella, Roberto Stura, Maurizia Vecchi, Oriano Zecchini. totale dall’1/1/2011 al 22/11/2011: 12.553 euro Contributo straordinario dei soci lavoratori della cooperativa (ufficio di Confronti): 10.000 euro Contributi di autofinanziamento della campagna «per salvare Confronti»: Associazione Passaparola, Giovanni Avena, Irene Boreggi Chiappa, Grazia Borellini, Erika Braglia, Francesco Brusoni, Giancarlo Buccheri, Giorgia Caneschi, Casa Cares, Chiesa battista di Marghera, Sandra Ciocca, Laura Coatto e Daniele Bouchard, Marco Coletta, Laurentia Comba, Comunità cristiana di base del Cassano (Napoli), Comunità cristiana di base di Pinerolo, Comunità cristiana di base di San Paolo a Roma, Comunità metodista di via Firenze a Roma, Giovanni Concer, Silvestro Consoli e Addolorata Lorusso, Anna Cornini, Alberto Cristofari, Lorenza Dallapiccola, Augusta De Piero, Rossella De Rossi, Marcello Di Rollo, Elena Dolce e Fabio De Propris, Teresa Ducci, Mahmoud Salem Elsheikh, Sergio Eynard, Claudia Fanti, Francesco Fasanelli, Luigino Ferraro e Marcella Russo, Angela Maria Galuppo, Monica Gentile e Claudio Belli, Fondazione Villa Emma, Carlo Fornoni, Pia Germondari, Romana Gianvenuti, Carla Gioda, Giorgio Gomel, Mariagrazia 4 GLI EDITORIALI Greco, Claudio Iacovoni, Davide Iacovoni, Alfredo Landi, Adriana Libanetti, Gloria Maccioni, Pasquale Maiolo, Agnieszka Masternak, Enrico Mastrofini, Mauro Mazzoni, Federica Menta, Gemma Meriano, Francesca Merletti, Patrizia Mione, Gianni Novelli, Francesca Pacelli, Alessandro Pacetti, Loredana Parpaglioni, Marco Perilli, Alessandra Petrini, Giorgio Piacentini, Francesco Piccini, Piero Pili, Massimo Pulejo, Enrica Quattrucci, redazione di Adista, Aldo Riboni, Elena Rollo, Alberto Roncoroni, Antonella Rosso, Mit e Gianni Rostan, Giulietta Rovera, Claudia Russo, Giulia Russo e Alessandra Petrini, Renzo Sabatini e Giovanna Gagliardo, Amina Donatella Salina, Brunetto Salvarani, Adele Salzano, Giorgio Santelli, Cristina Santoro, Paola Scavalli, Mimmo e Antonella Schiattone, Luca Simoniello, Nicola Simoniello, Valentina Spositi, Gabriella Toresini, Giulio Vicentini, Massimiliano Villa, Francesco Zanchini, Pietro Zanella, Kathrin Zanetti Eberhart, Luca Zevi. totale aggiornato al 22/11/2011: 10.215,50 euro Dopo Berlusconi, le macerie Felice Mill Colorni S ilvio Berlusconi non è stato soltanto – e non è certo dir poco – il più nefasto politicante nell’intera storia dell’Italia repubblicana, senza neppure possibili paragoni, e senza le giustificazioni, che i peggiori fra i suoi predecessori potevano forse avere, dei condizionamenti internazionali della guerra fredda. È nell’intera storia dell’Europa occidentale dal 1945 a oggi che non era mai apparso sulla scena politica un altro singolo individuo capace di nuocere così profondamente alla civiltà del proprio Paese, e con conseguenze destinate a protrarsi per decenni, anche nel caso, tutt’altro che scontato, che quella cui abbiamo finalmente assistito sia stata davvero la sua uscita definitiva dalla scena politica italiana. Non si tratta soltanto della catastrofe economica e finanziaria che è stata l’inevitabile approdo finale degli «anni di fango» del berlusconismo. Questa catastrofe è forse riuscita a convincere quel che è sopravvissuto della classe dirigente italiana a rendersi conto che alla catastrofe civile non può che seguire alla lunga anche la rovina comune. Negli ultimi dieci anni, otto dei quali dominati da Berlusconi, l’Italia è stata relegata agli ultimi posti nel mondo in termini di sviluppo economico, con tassi di sviluppo superiori solo a quelli di una manciata delle economie più disastrate di quella parte residua del Terzo Mondo che non ha tratto benefici dalla globalizzazione. Tutto quel che non è stato fatto in questi anni dovrà essere fatto ora, nel pieno della crisi e sotto la minaccia incombente del fallimento, con costi economici e sociali neppure paragonabili a quelli che vi sarebbero stati con una classe politica responsabile e lungimirante. E altri costi diretti degli anni di fango del berlusconismo sono quelli, solo in piccola parte già calcolabili, della «bolletta Berlusconi» che i contribuenti italiani dovranno pagare nei prossimi decenni per effetto della crescita astronomica del servizio del debito pubblico e dello Ammesso che B sia davvero politicamente finito, ammesso che al prezzo di «lacrime e sangue» Monti riesca a farci allontanare dal baratro, per riparare i danni ci vorrà mezzo secolo. Intanto, dopo atei devoti e clericali porcaccioni, arrivano cattolici seri e credibili: tutti gli altri fuori. E per i sostenitori di B si aprono appena ora i conti dolorosi con la realtà; e con la propria credulità. 5 scivolamento all’ultimo o penultimo posto fra le economie europee. Per non parlare dei costi sociali imposti dai tagli effettuati, e da quelli che saranno resi purtroppo ineluttabili dal disastro politico che ha spinto l’Italia nella prima linea della crisi globale. Ma la causa politica che ha moltiplicato in Italia gli effetti della crisi globale è tutta nella storica, gigantesca regressione civile che il berlusconismo ha imposto per diciotto anni all’Italia. Gli anni di fango sono stati gli anni del rimbambinimento e del rimbecillimento totale di una vita politica nazionale ridotta a pubblicità, gli anni della dimissione a tutti i livelli del senso di responsabilità individuale, gli anni dell’azzeramento della già scarsa educazione civica diffusa fra gli italiani, gli anni della perdita completa della memoria civile e della riabilitazione strisciante del fascismo storico, gli anni del trionfo politico e legislativo dell’oscurantismo clericale estremista su una società pienamente secolarizzata, gli anni dell’affievolimento e della delegittimazione di tutti i freni e contrappesi costituzionali, gli anni dell’assalto al denaro dei contribuenti da parte di tutte le consorterie legate al potere politico, di tutte le corporazioni protette, di tutte le cricche e di tutte le mafie, gli anni di un degrado civile mai visto in precedenza – di nuovo: non è certo dir poco –, gli anni della lotta politica ridotta alle palate di fango e al dossieraggio, gli anni del trionfo del populismo plebeo, gli anni del discredito internazionale assoluto, dell’azzeramento del peso dell’Italia in Europa. Non ci si può far governare per anni da uno così, buttatosi in politica solo per salvare se stesso dalla giustizia penale e le proprie aziende dal dissesto, e pensare di non pagarne le conseguenze. Non si può elevare un individuo come Berlusconi a protagonista assoluto della politica italiana per diciotto anni di fila e pensare che il resto del mondo, e i mercati mondiali, non se ne accorgano. La smisurata potenza di fuoco mediatica, regalatagli dalla peggiore politica della cosiddetta «prima Repubblica» e che ha portato Berlusconi al potere diciassette anni fa, ha largamente contaminato anche la maggior parte dei suoi avversari, che non hanno avuto la cultura politica, la probità civica e il coraggio necessari a contrastarlo senza riserve fin dall’inizio come avrebbero dovuto, e che lo hanno anzi elevato al rango di nuovo possibile «padre costituente» ai tempi del- GLI EDITORIALI la bicamerale. E ora è troppo tardi per rimediare in pochi mesi al disastro. Perfino il vocabolario della politica ne è uscito distrutto e ogni parola ha perso il suo significato come nel romanzo di Orwell. Nelle condizioni date, e con il Parlamento che ci ritroviamo, probabilmente la soluzione data alla crisi non poteva essere migliore. Fin d’ora, però, c’è almeno qualcosa che proprio non va. Anche nella stagione appena iniziata, sembra che a dover essere rappresentata nel governo dell’Italia sia soltanto quella parte della società civile che si riconosce nelle varie anime del mondo cattolico: a dominare nella politica continua ad essere una parte della società che da trent’anni è minoritaria per riconoscimento della stessa Conferenza episcopale. Se i «rifondatori democristiani» di Todi sono massicciamente presenti, è pressoché espunta dal governo l’Italia laica e diversamente credente. Da Veronesi a Bonino, da Zagrebelsky a Rodotà, fuori tutti: non possumus, non expedit, di certo non praevalebunt. Dall’egemonia assoluta degli «atei devoti» (e dei clericali porcaccioni) munifici di riconoscimenti e denaro pubblico, siamo passati a quella dei veri e austeri cattolici-di-chiesa, immuni da ogni «scisma sommerso» e neppure troppo desiderosi di mostrarsi «adulti». Anche se non dovremo più vergognarci delle persone che ci governano, è stato un pessimo segnale. In ogni caso, quali che siano i possibili risultati del governo Monti nel fronteggiare l’emergenza economico-finanziaria e sperabilmente nell’allontanarci dal baratro, c’è un danno che sarà ancora più difficile da riparare. Un’intera generazione di italiani comuni è stata socializzata alla politica pensando che quel che aveva sotto gli occhi fosse una normale dialettica democratica fra un normale «centrodestra» e un normale «centrosinistra» europei. Per questo c’è ben poco da sperare da un ricambio soltanto biologico o generazionale. Ora per molti italiani deve cominciare un doloroso e incerto processo psicologico: rendersi conto e accettare l’idea di avere sostenuto per diciotto anni, o di non avere avversato come avrebbero dovuto, una politica fatta soltanto di malgoverno, malversazioni, ciarlataneria e analfabetismo civile. Per molti elaborare il lutto sarà uno sforzo insostenibile. Come tanti «ragazzi di Salò», che hanno impiegato una vita intera a cercare di giustificare una tragica fesseria, magari inconsapevolmente commessa all’età di quindici anni ma con terribili conseguenze per il Paese, ora milioni di italiani, vissuti per anni sotto la rassicurante campana mediatica fornita da giornalisti servi della politica, cercheranno nei prossimi decenni di autoassolversi e di trovare giustificazioni per sé e per gli affossatori di quella che era un tempo – bene o male, e magari più male che bene – l’Italia europea. Ne avremo ancora per mezzo secolo, probabilmente. L’umiliazione del welfare neocaritatevole Augusto Battaglia Negli ultimi tempi, il sociale è stato «maltrattato» con particolare accanimento da varie manovre che in tre anni hanno ridotto i fondi statali dell’80 per cento, portandoli da 2,5 a 0,5 miliardi di euro l’anno. E intanto cresce la disoccupazione, la povertà si fa sempre più diffusa e aumentano le famiglie in difficoltà. 6 A rchiviata l’era Berlusconi, il variegato mondo del sociale si augura, e si aspetta, che il nuovo esecutivo Monti si affretti ad accantonare misure sommarie, tagli lineari e tutti quegli ingegnosi accorgimenti della coppia Tremonti-Sacconi che hanno caratterizzato una infausta stagione politica. Una stagione dalla quale il sociale esce malridotto per un succedersi di manovre inique, ultima la correttiva di luglio, che in tre anni hanno ridotto dell’80 per cento i fondi statali del settore. Con il fondo per le politiche sociali che precipita dai 929 milioni del 2008 a 273. Le risorse per la famiglia che passano da 346 a 51, quelle per le politiche giovanili da 137 a 12, mentre il fondo per l’affitto da 205 viene progressivamente decurtato fino ai miseri 32 milioni di quest’anno. Anche il servizio civile subisce la stessa sorte, mentre i finanziamenti per l’infanzia, per l’inclusione degli immigrati e, soprattutto, per la non autosufficienza vengono addirittura azzerati. Complessivamente la spesa statale sociale scende da 2,5 miliardi a poco più di 500 milioni all’anno. Un vero e proprio salasso per il welfare. E mentre regioni, province e comuni si arrabattano per reperire risorse e salvare almeno l’esistente, si va drammaticamente aggravando la situazione sociale nel Paese. E grida di allarme arrivano da più parti. Cresce la disoccupazione e la Caritas segnala una diffusa povertà con le richieste di aiuto economico aumentate in quattro anni dell’81 per cento. Sindaci ed amministratori locali denunciano un crescente affanno mentre agli sportelli dei servizi sociali si allungano le file delle famiglie in difficoltà, di quelle che non arrivano alla fine del mese, di quelle che non riescono più a pagare il mutuo o l’affitto di casa. Arrivano grida di allarme anche dagli istituti di ricerca sociale, come il Censis, che stima ben 2 milioni e 700mila anziani non del tutto autosufficienti e da assistere. Ed anche dalle associazioni dei disabili e da tanti genitori che invecchiano, che si interrogano, e interrogano le istituzioni, su che fine faranno i loro figli disabili quando verrà meno il sostegno familiare. È il «dopo di noi». In un quadro del genere, pensare di fare cassa sull’assistenza è irresponsabilità allo stato puro. Ma era quanto contenuto nel disegno di legge delega di riforma fiscale e assistenziale, che ci si augura venga immediatamente ritirato dal nuovo governo, all’esame delle commissioni Finanze ed Affari sociali della GLI EDITORIALI Camera. Obiettivo dell’ex ministro Tremonti: ulteriori 20 miliardi annui di risparmi sulla spesa sociale attraverso un complesso di misure che andrebbero a cancellare di fatto la Riforma dell’assistenza, la 328 del 2000, vanto dei governi di centrosinistra, che nell’ultimo decennio ha consentito, pur nelle crescenti difficoltà, di avviare anche nel nostro Paese la costruzione di una rete di welfare locale. Con quel disegno di legge, socialmente ingiusto quanto velleitario nei suoi obiettivi finanziari, e bocciato per questo dalla Corte dei conti, si andava a delineare un nuovo modello di Stato sociale. Non più quello moderno, europeo, poggiato su saldi principi costituzionali, sui diritti, ma un sistema più fragile e precario che si appella con richiami generici al solidarismo e al volontariato, un welfare neocaritatevole che si volge pietoso ai «soggetti autenticamente bisognosi» e che pensavamo di aver messo definitivamente in soffitta, insieme alle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza ed alla Legge Crispi. Un modello dal quale non potevano che derivare proposte confuse e generiche come un’indennità sussidiaria per la non autosufficienza che non garantisce niente a nessuno, ma soprattutto un indebolimento della rete locale dei servizi che non potrà che determinare uno stato di vero e proprio abbandono per le tante famiglie in difficoltà, per le persone più fragili. Norme che andrebbero a ridurre gli aventi diritto all’assistenza con la revisione dell’Isee, a colpire pensioni ed assegni per i disabili gravi, indennità di accompagnamento per i non autosufficienti. Per non parlare della «armonizzazione dei diversi strumenti assistenziali, previdenziali e fiscali», che punta a ridimensionare il diritto alla reversibilità delle pensioni. Per finire con la social card, una sorta di tessera di povertà gestita dai Comuni attraverso le organizzazioni del volontariato e finanziata dalla beneficenza, un vero e proprio stigma umiliante su poveri e persone bisognose. Una nuova stagione è quello che si augurano le organizzazioni del sociale. Una stagione nella quale per far quadrare i conti non si vada ancora una volta a penalizzare e colpire i più deboli, a cancellare diritti, a penalizzare un sociale in quanto a risorse ben al di sotto della media europea. Un sociale che ha certo bisogno di cambiamenti ed innovazioni, perché il mondo, la società cambiano e con essi cambiano priorità e bisogni da fronteggiare. Ma se questo è vero, allora bisogna cambiare strada ed avviare subito – la crisi non consente ulteriori indugi – un confronto con Regioni, enti locali, rappresentanze del sociale, compreso quel ricco e variegato mondo della solidarietà e della gratuità che è più di ogni altro interessato a migliorare il welfare. Promuovere nuove misure, razionalizzare gli interventi e fare ordine nella giungla di detrazioni e deduzioni fiscali per finalizzare anche queste ad obiettivi prioritari da definire. È questa la strada difficile e faticosa su cui il Paese ed il suo governo si devono incamminare, anche perché una rete moderna di servizi e prestazioni che sostengano famiglie e persone in difficoltà è condizione necessaria per la nuova fase di crescita e di sviluppo economico da tutti auspicata. Occorre allora fissare, finalmente, i livelli essenziali di assistenza sociale da garantire ai cittadini, a partire dalla tutela delle persone non autosufficienti. E ci vuole coraggio e determinazione, da parte di tutti. In Germania per ottenere il diritto ad una piena tutela della non autosufficienza con un’assicurazione pubblica obbligatoria i lavoratori hanno rinunciato a due giorni di ferie all’anno: perché allora non ridiscutere livelli e destinazione dei contributi in busta paga? Ponendo una condizione, naturalmente, che con una nuova politica fiscale si chiami prima ad un doveroso contributo di solidarietà chi dispone di patrimoni e redditi consistenti. Euro: correggere la rotta definita dalla Germania Stefano Fassina Nel quadro in cui si trova l’Europa – spiega a Confronti il responsabile del settore Economia e lavoro del Partito democratico – insistere sull’austerità cieca e sull’ulteriore regressione delle condizioni delle persone che lavorano porta tutti, anche i Paesi cosiddetti forti, a fondo. Senza promuovere lo sviluppo sostenibile e valorizzare il lavoro, non si riduce il debito pubblico (la Grecia insegna). 7 S iamo in una fase di straordinari cambiamenti. Il termine «crisi» è sempre meno utile a fotografare il passaggio in corso. Siamo, in realtà, in una «grande transizione» articolata lungo quattro fondamentali assi: geo-economico e geo-politico; demografico; economico e sociale; ambientale. Navighiamo in mare aperto, ma la rotta è incerta. È evidente il deficit di analisi e di direzione politica. Il «trionfo delle idee fallite» domina il dibattito politico. Innanzitutto, nell’Unione europea e nell’area euro. L’euro è a rischio, non per colpa degli speculatori, ma a causa delle ampie asimmetrie di competitività delle aree legate alla moneta unica. Non possono convivere a lungo, a meno di non attuare crescenti trasferimenti dai bilanci pubblici, Paesi con significativi e continuativi attivi della bilancia commerciale (Germania, in primis) con Paesi gravati da altrettanto significativi e ricorrenti deficit negli scambi di beni e servizi (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda). Insomma, nell’Unione europea e, in particolare, nell’area euro, le radici della rottura del precario equilibrio del ventennio alle nostre spalle non stanno nei debiti pubblici dei «Paesi peccatori», ma in un sistema squilibrato dove «i peccatori», grazie al loro indebitamento in larga misura privato, alimentavano le esportazioni dei cosiddetti «Paesi virtuosi». Il debito GLI EDITORIALI privato, a sua volta, veniva contratto dalle famiglie per compensare la caduta dei redditi da lavoro e l’aumento della disuguaglianza. In tale quadro, insistere sulla austerità cieca e sull’ulteriore regressione delle condizioni delle persone che lavorano porta tutti, anche i Paesi cosiddetti forti, a fondo. Senza promuovere lo sviluppo sostenibile e valorizzare il lavoro, non si riduce il debito pubblico (la Grecia insegna). Per correggere verso l’alto i differenziali di competitività e promuovere sviluppo sostenibile e lavoro, è necessaria «più Europa». Innanzitutto, la cessione della residua e formale sovranità sulle politiche economiche ad una sede federale intergovernativa dell’area euro, legittimata sul piano democratico, per condividere e recuperare sovranità effettiva nell’arena globale. Il passaggio di sovranità è condizione necessaria per segnare la difficile transizione in corso in senso progressivo. Noi, l’Italia, abbiamo tanti compiti a casa da fare. Ma noi non siamo la causa dei drammatici problemi dell’euro. Noi siamo la forma più acuta di difetti strutturali dell’impalcatura politica, istituzionale ed economica dell’unione monetaria: 1) l’assenza di una banca centrale in grado di svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza ed arginare la pressione sui titoli del debito pubblico dei Paesi solvibili, ma in emergenza di liquidità; 2) l’assenza di un adeguato «Fondo salva-Stati» in grado di affiancare la Bce e di ricapitalizzare le banche in sofferenza; 3) l’assenza di un significativo bilancio pubblico per l’area euro in grado di finanziare, con risorse comunitarie raccolte attraverso l’emissione di Euro-project bonds e la tassa sulle transazioni finanziarie, investimenti nelle infrastrutture materiali ed immateriali; 4) l’assenza di un coordinamento delle politiche retributive e della tassazione per evitare la svalutazione del lavoro come via, miope, alla competitività. Le quattro lacune vanno colmate al più presto per riuscire a correggere le asimmetrie di competitività nello spazio monetario unico e sostenere una domanda interna europea sempre più debole. Soltanto così si può salvare l’euro e l’Unione europea. Insistere sulla urgente necessità di invertire la rotta della politica economica dell’area euro non è parlar d’altro rispetto ai problemi dell’Italia. Oggi, è sempre più evidente che correggere la rotta definita dalla Germania del governo Merkel e da larga parte delle tecnocrazie di Bruxelles e Francoforte è condizione necessaria per uscire dal tunnel della stagnazione, dell’emorragia di lavoro e di perdita di imprese. Condizione necessaria, certo non sufficiente. L’Italia è in ritardo. Il «decennio perduto», infatti, oltre a essere una certezza del nostro passato, è un rischio reale per il futuro. Per ricostruire l’Italia, come in tutti i momenti alti della nostra storia repubblicana, le forze migliori del Diana Tejera 8 Paese devono cooperare. La ricostruzione richiede un patto tra soggetti della politica, rappresentanze delle imprese e del lavoro e associazioni della cittadinanza attiva. In tale strategia, il Governo Monti può essere una straordinaria opportunità per mettere fondamenta condivise alla «Terza Repubblica». Fare passi avanti significativi è difficile. Il berlusconismo non è stato un incidente di percorso e non si esaurisce con l’uscita di scena di Berlusconi. È stata un’interpretazione del sentimento profondo di una parte rilevante della società e delle classi dirigenti italiane. Per non smarrirsi e rinsecchire ulteriormente il tessuto della nostra democrazia, la bussola della partecipazione, dell’equità sociale e dello sviluppo sostenibile deve orientare il cammino. RELIGIONI Assisi, continuità e discontinuità David Gabrielli L’incontro voluto dal papa il 27 ottobre, per i venticinque anni del primo indetto da Giovanni Paolo II, ha elementi simili al primo ma, anche, evidenti variazioni tese a ridimensionarne lo status teologico. La cancellazione di ogni preghiera pubblica. L’evento, in tv, lancia alla gente un messaggio indesiderato da Ratzinger? C ontinuità e discontinuità hanno caratterizzato la «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo», sul tema Pellegrini della verità, pellegrini della pace, voluta da Benedetto XVI ad Assisi il 27 ottobre, nel venticinquesimo anniversario dell’analogo, ma non identico incontro voluto per la prima volta da papa Wojtyla. Ora come allora il pontefice ha invitato rappresentanti delle varie religioni; ma Ratzinger a questi ha aggiunto l’invito a quattro «non credenti», tra i quali la filosofa francese di origine bulgara Julia Kristeva. Nel 1986 i cristiani pregarono insieme, tutti gli altri ciascuno per conto loro in chiese o sale messe a disposizione delle singole religioni, così che cristiani e non-cristiani pregarono simultaneamente seppure non congiuntamente; questa volta, invece, la preghiera pubblica è stata esclusa. [email protected] I discorsi, variegati, in S. Maria degli Angeli Arrivati in treno tutti insieme ad Assisi da Roma, il papa e i circa trecento rappresentanti delle varie Chiese e religioni sono convenuti nella basilica di Santa Maria degli Angeli, dove dieci di loro hanno preso la parola. Ne riportiamo qualche flash per mostrare le diverse sensibilità espresse. Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli: «Ancora oggi, venticinque anni dopo il primo incontro di Assisi, dieci anni dopo i drammatici eventi dell’11 settembre e nel momento in cui le “primavere arabe” non hanno messo fine alle tensioni intercomunitarie, il posto della religione resta ambiguo». Rowan Douglas Williams, arcivescovo di Canterbury: «Le sfide del nostro tempo sono tali che nessun gruppo religioso può pretendere di avere tutte le risorse pratiche di cui ha bisogno per affrontarle, anche se siamo convinti di avere tutto ciò di cui necessitiamo nel campo spirituale e religioso». Norvan Zakarian, primate della diocesi della Chiesa apostolica armena in Francia: «La ricerca della pace da parte di tutti i credenti è un profondo fattore di unità tra i popoli». Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese: «Siamo qui per lasciare che la conversione di Francesco ci parli e per fare sì che la conversazione tra noi divenga 9 una sorgente di giustizia e di pace... I cristiani devono ricordarsi che la croce non è per le crociate, ma è un segno di come l’amor di Dio abbracci tutti». David Rosen, rabbino, direttore internazionale per gli affari interreligiosi: «Il grande rabbino Meir Simcha di Dwinsk, vissuto un secolo fa, osservava che all’interno dell’arca di Noè i predatori dovettero vivere da vegetariani e le loro potenziali prede poterono vivere in pace. Tuttavia, la profonda differenza tra la situazione dell’arca e la visione di Isaia, “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello” [11, 6], è che nell’arca non v’era possibilità di scelta. La visione di Isaia nasce invece dalla “conoscenza del Signore”, e sgorga dalla più intima comprensione spirituale e dalla libera volontà». Wande Abimbola, portavoce dalla religione Ifu e Yoruba nel mondo: «Le nostre religioni sono valide e preziose agli occhi dell’Onnipotente, che ha creato tutti noi con questa diversità e pluralità di vie di vita e di sistemi di credenza... Non è sufficiente rispettare il nostro prossimo, uomini e donne. Abbiamo bisogno di sviluppare anche un profondo rispetto per la natura, nostra Madre». Acharya Shri Shrivatsa Goswami, rappresentante della religione indù: «Venticinque anni fa Giovanni Paolo II ci fece iniziare il pellegrinaggio odierno. Adesso pertanto dobbiamo riflettere sul nostro progresso su questa strada. Perché non siamo arrivati più vicini a dove volevamo essere? Il dialogo sarà un esercizio futile se non lo intraprendiamo con umiltà, pazienza, e il desiderio di rispettare “l’altro”». Ja-Seung, presidente dello Jogye Order, buddhismo coreano: «Ciascuna delle nostre vite è preziosa, un fiore bellissimo che rende il mondo un luogo glorioso. Non c’è posto per la violenza o il terrorismo nella religione, che sottolinea come ogni vita è preziosa e deve essere amata». Kyai Haji Hasyim Muzadi, segretario generale della Conferenza internazionale degli studiosi islamici: «In teoria, la finalità della presenza di religioni è quella di rafforzare i valori e la dignità dell’umanità, la pace e il progresso. Tuttavia, la realtà dimostra che molti problemi su questa terra derivano proprio da coloro che seguono una religione, sebbene ciò non significhi che i problemi che sorgono dagli appartenenti ad una religione siano originati dalla religione stessa». Julia Kristeva: «L’umanesimo è un processo di rifondazione permanente, che si sviluppa continuamente grazie a delle rotture che sono delle innovazioni. La memoria non riguarda il passato: la Bibbia, i Vangeli, il Corano, il Rigevda, il Tao, ci abitano al presente. Affinché l’umanità possa rifondarsi, è giunto il momento di riprendere i codici morali costruiti nel corso della sto- i servizi dicembre 2011 confronti Religioni. Assisi, continuità e discontinuità ria; senza indebolirli, per problematizzarli, rinnovandoli di fronte a nuove singolarità... La rifondazione dell’umanesimo non è un dogma provvidenziale né un gioco dello spirito, è una scommessa». Il papa: ammissioni e puntualizzazioni Quindi, parlò Ratzinger. Nell’86 «la grande minaccia per la pace nel mondo derivava dalla divisione del pianeta in due blocchi contrastanti»; poi venne l’89 e tutto quello che ne seguì ma, notava il papa, insieme alla libertà purtroppo sono continuate discordie, violenze e, soprattutto, il terrorismo «spesso motivato religiosamente, e proprio il carattere religioso degli attacchi serve come giustificazione per la crudeltà spietata». E, guardando al passato: «Come cristiano, vorrei dire: sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna. Ma è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura». Tuttavia, ha aggiunto, «crudeltà e una violenza senza misura» è stata prodotta dal «no» a Dio, dalla sua negazione – «gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio» – e ciò «è stato possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé». Oltre agli atei dichiarati, esistono però «persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Sono “pellegrini della verità, pellegrini della pace”. Per questo ho appositamente invitato rappresentanti di questo gruppo al nostro incontro ad Assisi». Tuttavia, il papa ha evitato di riflettere sul fatto degli atei/agnostici felicemente tali e generosamente dediti alla causa della pace e della giustizia. Dopo il discorso papale, i presenti si sono riuniti nel refettorio del convento della Porziuncola per «condividere un pasto frugale». Quindi ognuno si è ritirato in una stanza «per una pausa di silenzio, riflessione e preghiera personale». Un’oretta dopo con mini-bus i partecipanti hanno raggiunto Assisi, percorrendo a piedi, come «pellegrini» appunto, l’ultimo tratto di strada per convenire in piazza San Francesco. Qui una dozzina di rappresentanti hanno riaffermato, con brevi parole, il comune impegno per la pace. Ad esempio, Mounib Younan, vescovo luterano di Gerusalemme e presidente della Federazione luterana mondiale: «Noi ci impegniamo a proclamare la nostra ferma convinzione che la violenza e il terrorismo contrastano con l’autentico spirito religioso e, nel condannare ogni ricorso alla violenza e alla guerra in nome di Dio e della religione, ci impegniamo a fare quanto è possibile per sradicare le cause del terrorismo». Wai Hop Tong, taoista: «Noi ci impegniamo a stare dalla parte di chi soffre nella miseria e nell’abbandono, facendoci voce di chi non ha voce ed operando Oltre trecento rappresentanti di (quasi) tutte le Chiese e religioni del mondo, invitati da Benedetto XVI sono convenuti nella città di San Francesco per ricordare, pur nelle mutate circostanze, l’evento voluto da Wojtyla nel 1986. Analogie, somiglianze, diversità, in rapporto alla situazione geopolitica e per la differente angolazione teologica. 10 concretamente per superare tali situazioni, nella convinzione che nessuno può essere felice da solo». Concludeva il papa: «Mai più violenza! Mai più guerra! Mai più terrorismo! In nome di Dio ogni religione porti sulla Terra giustizia e pace, perdono e vita, amore». Alle due cerimonie di Assisi, l’università di al-Azhar, la più prestigiosa dell’islam, non ha inviato un suo rappresentante, per protestare così contro il papa che, all’inizio dell’anno aveva deplorato le violenze compiute in Egitto contro chiese copte; e mancava il Dalai Lama. Assente la preghiera. La forza delle immagini Nell’86 la preghiera pubblica era stata un elemento caratterizzante Assisi I; nel 2011 è stata invece indesiderata: perché? Venticinque anni fa l’allora cardinale Ratzinger disertò l’incontro, forse ritenendolo venato di «sincretismo». Allora, contro Assisi tuonò monsignor Marcel Lefebvre e, pur senza esporsi troppo, fecero sentire il loro disagio ambienti cattolici conservatori. Sia stato o no per contenere queste critiche e raddrizzare la barra, nel 2000 Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nella dichiarazione Dominus Iesus asseriva: le Chiese della Riforma «non sono Chiese in senso proprio», e le religioni non-cristiane sono «oggettivamente deficitarie». Parole che suscitarono un’ondata di polemiche. Con tali premesse, Benedetto XVI ha convocato la «sua» Assisi, escludendo ogni preghiera pubblica, e dunque abbassando lo status teologico dell’incontro. Il che non è bastato a convincere i lefebvriani che, per il 27 ottobre, hanno proposto una giornata di digiuno «in riparazione alla celebrazione di un evento storico che più di ogni altro umilia la sposa di Cristo mettendola sullo stesso piano delle false religioni». Malgrado tali sprezzanti (teologicamente sprezzanti) affermazioni, Ratzinger pare intenzionato alla riconciliazione con loro, al prezzo – e come, se no? – di «relativizzare» il Vaticano II. Sul piano sostanziale – per tornare al discorso del papa – va sottolineata la sua ammissione della violenza esercitata in nome della fede cristiana (parole che riecheggiano il mea culpa di papa Wojtyla nel 2000). Rimane però irrisolto un problema cruciale: le lamentate violenze non sono state compiute solo da re e prìncipi che strumentalizzavano la fede per mire di potere, ma, spesso, sono state benedette da pontefici e Concili. Un sangue sparso che scardina l’impalcatura teologica stessa del magistero ecclesiastico. Comunque, milioni di persone che hanno visto in tv l’incontro di Assisi, e che nulla sanno delle sottigliezze teologiche, forse avranno pensato: «Tutte le religioni portano a Dio, e vanno bene se favoriscono la pace». Un riassunto che distorce il pensiero di Ratzinger, ma che è mediaticamente «inevitabile». Per impedirlo, occorrerebbe non andare ad Assisi; ma, se ci si va, la forza delle immagini oscura ogni possibile messa in guardia. i servizi dicembre 2011 confronti Religioni. Assisi, continuità e discontinuità I leader religiosi per la pace a Gerusalemme «In occasione dell’udienza con papa Benedetto XVI, in questo giorno del 10 novembre 2011, noi, i leader religiosi dello Stato di Israele, affermiamo la nostra fede nel Creatore dell’universo che ci rivolge la sua parola con amorevole benevolenza e compassione e che ci chiama come esseri umani a vivere in pace e dignità con gli altri... Riaffermiamo il nostro impegno a difendere la santità della vita ed a respingere ogni violenza, specialmente quando essa è compiuta in nome della religione, il che è una dissacrazione del sacro». Così afferma una dichiarazione del Consiglio dei leader religiosi in Israele – organismo creato nel 2007 – incontrando appunto il pontefice in una udienza che molti di loro hanno definito «storica», in quanto era la prima volta che avveniva. Joseph Ratzinger, durante il suo viaggio in Terra santa, nel maggio 2009, già aveva incontrato il Consiglio; mai, però, a Roma. Il patriarca di Gerusalemme e il rabbino capo di Israele Del gruppo arrivato in Vaticano facevano parte una ventina di persone: tra esse, il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, e l’arcivescovo greco-melkita di Akka (Akko), Elias Chacour; l’arcivescovo anglicano di Gerusalemme, Suheil Dawani; il rabbino capo (askenazita) di Israele, Yonah Metzger; lo sceicco Kiwan Mohamad, capo degli imam in Israele; lo sceicco Tarif Mouafak, capo della comunità drusa in Israele. I leader religiosi si impegnano «ad educare i nostri bambini e le nostre comunità a prevenire ogni offesa contro i sentimenti di fede altrui»; a «mantenere pace e mutuo rispetto tra le differenti comunità religiose del nostro Stato»; a custodire i Luoghi Santi delle rispettive religioni ed a fare la propria parte perché ad essi le autorità israeliane garantiscano l’accesso. La dichiarazione, quindi, conclude: «Le nostre eredità religiose ci insegnano che la pace, che implica la giustizia e la rettitudine, sono comandamenti del Santo – sia Lui benedetto – e, come leader religiosi, noi abbiamo il dovere speciale di essere attenti al grido del debole in mezzo a noi e lavorare insieme per una società più giusta ed onesta». All’udienza, un rappresentante di ogni religione ha rivolto al papa un indirizzo di omaggio. Dopo aver ricordato che, due settimane prima, vi era stato l’evento di Assisi, Twal sottolineava: «Noi, i membri del Consiglio religioso, non vogliamo che questo incontro sia Luigi Sandri Singolare udienza, in Vaticano, con esponenti cristiani, ebrei, musulmani e drusi impegnati a favorire la pace in Israele. L’insistenza sugli aspetti religiosi e nessun cenno alle strade possibili per superare il conflitto israelo-palestinese. Ma nella Città santa fede e politica appaiono inscindibilmente legate. un semplice spettacolo... Nel nostro lavoro per affrontare le difficoltà e i problemi che incombono sulla nostra regione e sul nostro popolo, siamo acutamente consapevoli dei nostri limiti come Consiglio. Non pretendiamo di essere capaci di occuparci e di risolvere i problemi a livello internazionale e anche a livello regionale. Ma, come Consiglio religioso, siamo coscienti del potere della fede e della preghiera, e della nostra responsabilità di fare di più per la riconciliazione tra le nostre comunità locali di ebrei, musulmani, drusi e cristiani». Metzger, da parte sua, si è riferito «ad una delle più famose profezie, quella di Ezechiele sulle ossa aride, allorché l’Altissimo promise al profeta: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele... E allora tu, mio popolo, saprai che io sono il Signore; l’ho detto e lo farò” [37, 12, 14]. Noi crediamo che queste parole sono rivolte a noi. Io sono figlio di una famiglia in gran parte annientata durante la Shoah in Polonia e in Germania. I sopravissuti tra questi ebrei tornarono come ossa aride al nostro Paese dopo la guerra. Noi riteniamo che è solamente grazie allo spirito del Divino che essi riuscirono a tornare ed a partecipare alla ricostruzione della terra, così compiendo le parole del profeta». Ma, ha aggiunto, «sfortunatamente, il Satana dell’odio non riposa. I negazionisti della Shoah alzano il loro capo in pubblico anche oggi, quando abbiamo ancora tra noi i sopravissuti che tuttora mostrano il tatuaggio sul loro braccio, una prova vivente dell’atrocità. Eppure i negazionisti continuano imperterriti, ed il presidente di un Paese ad est dell’Eufrate [Mahmoud Ahmadinejad, presidente dell’Iran] continua a promettere che distruggerà noi e il nostro Stato. E purtroppo il mondo ascolta e reagisce con chiacchiere senza senso. Tale fu la reazione del mondo quando i nazisti raggiunsero il potere». «Non vi è ragione che i figli di Abramo non siano capaci di vivere in pace l’uno con l’altro. Noi speriamo che la nostra terra sarà quella dalla quale il messaggio di pace e le profezie della Bibbia saranno realizzate». L’imam Kiwan Mohamad, lo sceicco druso Tarif Mouafak Era poi la volta dello sceicco Kiwan Mohamad: «Noi musulmani nello Stato di Israele, il 15 per cento della popolazione, viviamo con tolleranza, in buon vicinato e in buone relazioni con i nostri fratelli ebrei, cristiani, drusi, circassi, Baha’i e Ahmadiyya [vedi pag. 25]. Noi speriamo che la pace e la sicurezza prevalgano in Medio Oriente in generale e nella Terra santa in particolare». «L’islam è una religione di pace che ama la vita e che condanna qualsiasi atto compiuto in nome della religione ma in contrasto con i suoi veri 11 i servizi dicembre 2011 confronti Religioni. Assisi, continuità e discontinuità princìpi. Quanti agiscono con violenza sono egoisti: agiscono per se stessi e per motivi e interessi personali; non compiono i comandamenti di Dio e le indicazioni dei profeti». Da parte sua, Tarif Mouafak ha affermato: «Dobbiamo essere coscienti di quanti sfruttano la religione per scopi politici, invocano la violenza e l’uccisione, usano la religione per guadagno personale. Costoro non sono veri religiosi e di fatto si allontanano dalla tolleranza della religione che eleva l’anima... La comunità drusa per secoli è vissuta in pace ed armonia con le altre comunità in Terra santa. Essa in Israele adempie tutti i suoi obblighi civili e nazionali ed ha il diritto di piena libertà religiosa e di accesso ai luoghi santi drusi. La comunità drusa gode dei frutti della democrazia d’Israele, è rappresentata da suoi esponenti alla Knesset [parlamento] ed ha i suoi propri capi locali nelle municipalità. Con costanza noi lavoriamo duramente per rafforzare buone relazioni con le altre comunità, e vogliamo trasmettere queste relazioni alle generazioni che verranno, così che siano eliminati tutti gli odi e tutte le violenze». L’inestricabilità di problemi religiosi e politici a Gerusalemme Ha quindi preso la parola Benedetto XVI: sempre importante, il dialogo tra differenti religioni è tanto più «urgente per i leader religiosi della Terra santa che, pur vivendo in un luogo pieno di memorie sacre alle nostre tradizioni, sono quotidianamente messi alla prova dalle difficoltà del vivere insieme in armonia». E, dopo aver ricordato quanto già aveva detto ad Assisi sul rapporto violenza/religione, concludeva con la sua preghiera al Muro occidentale [il Muro del pianto]: «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, manda la tua pace in questa Terra santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana». Il custode di Terra santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa, in un’intervista alla Radio vaticana l’11 novembre definiva l’udienza «un momento importante e storico. Forse sembrano cose un po’ retoriche, però è davvero importante dire qualcosa insieme, come religiosi, nelle nostre diversità. Questi momenti Corradino Mineo, direttore RaiNews con Gian Mario Gillio Creato nel 2007, il Consiglio dei leader religiosi di Israele raccoglie i più alti esponenti delle Chiese cristiane, del rabbinato, degli imam e dei capi drusi. Il papa e i suoi ospiti hanno fatto spesso riferimento all’incontro di Assisi, anche se il Consiglio, ovviamente, si trova ad operare in una situazione specifica e irripetibile. 12 non stravolgeranno il corso degli eventi in Medio Oriente, ma creano una certa mentalità». E monsignor Giacinto-Boulos Marcuzzo, vicario patriarcale latino per Israele, auspicava che parroci, imam, rabbini, nei rispettivi templi invitassero i loro fedeli a pregare per i fratelli delle altre due religioni. I discorsi che si sono succeduti durante l’udienza papale fanno trasparire la delicatezza della situazione in cui opera il Consiglio, e spiega parole e silenzi che l’hanno caratterizzata. Twal, accennando ai temi geopolitici, non ha nominato quello – l’occupazione militare e coloniale israeliana dei Territori – che per i palestinesi è l’ostacolo principale alla pace. Metzger non ha fatto cenno a ciò che dovrebbe fare Israele per arrivare ad una riconciliazione con i palestinesi. Anche il capo degli imam ha ignorato i problemi geopolitici incombenti su Gerusalemme, insistendo piuttosto sul fatto che chi in nome dell’islam sostiene la violenza contraddice «una religione di pace». Analoga l’angolazione del druso, che poi ha sottolineato lo status dei [centomila] drusi in Israele: infatti, mentre gli arabi non fanno il servizio militare (tre anni per i ragazzi, due per le ragazze), i drusi invece lo compiono. Infine, anche il papa ha insistito sugli aspetti spirituali, tralasciando quelli geopolitici. Il problema è che a Gerusalemme e dintorni religione, cultura e politica sono spesso così inestricabilmente connesse, e il loro intreccio così differentemente compreso. Finora, la comprensione di ciò che «Dio ha detto», nella Bibbia o nel Corano, non ha favorito, salvo importanti eccezioni, giustizia+pace nella Città santa. i servizi dicembre 2011 confronti Religioni. Assisi, continuità e discontinuità Un dialogo che esclude i vicini Ogni iniziativa che tenda ad individuare nelle diverse tradizioni religiose valori etici comuni per promuovere giustizia, pace e armonia nella società, è sicuramente benvenuta. Non bisogna mai stancarsi di percorrere la via di un dialogo vero, sincero e profondo che si svolga in un clima di reciproco riconoscimento e che faccia dimenticare le violenze consumate in nome della religione. Le Giornate mondiali di preghiera per la pace, indette dalla Chiesa cattolica, credo si debbano intendere come il desiderio di dare un contributo utile in tal senso, anche se il loro percorso non è agevole. Le due novità di quest’ultima Giornata, la preghiera individuale e l’invito esteso agli atei, hanno rivelato, da una parte, le difficoltà di un incontro di preghiera con realtà religiose molto diverse dal cristianesimo, dall’altra l’esigenza del dialogo con chiunque. Ma in un raduno che contava circa 300 invitati provenienti da ogni parte del mondo spiccava l’assenza dell’evangelismo italiano. Perché? In realtà, le Chiese evangeliche del nostro Paese non sono state invitate a partecipare e hanno ritenuto paradossale che avessero ricevuto l’invito le loro denominazioni a livello mondiale, ma non i vicini di casa. Inoltre, hanno guardato con occhi critici un incontro interreligioso organizzato unilateralmente e sotto l’egida papale. Difficile per gli evangelici condividere un simile approccio. Pellegrini della pace, affermava il titolo della manifestazione. Ma in quale senso? Pace non è assenza di guerra ma neppure assenza di polifonia, è armonia. Non è indifferenza, è interazione; non è pensiero unico, è comparazione. È stato bello vedere tante persone di buona volontà e tanti giovani partecipare con entusiasmo alla marcia per la pace, ma la via per realizzare una pace vera non può prescindere dal dialogo e dal confronto. Per noi evangelici, queste Giornate assomigliano più che altro a una kermesse, una sfilata di star religiose, e ci sembra che il tanto evocato «spirito di Assisi» rischi di attivarsi in maniera intermittente. Finita la suggestiva parata, questo «spirito» tende ad affievolirsi e mostra significative carenze quando si tratta di dialogare seriamente e di affrontare i problemi concreti. Se guardiamo al dialogo interreligioso in Italia, al di là di alcuni momenti ufficiali o di lodevoli incontri a livello locale, difficilmente vediamo la Chiesa cattolica sedersi a pari titolo accanto alle altre confessioni per affrontare i problemi che pur ci sono. La vediamo, invece, attivarsi alacremente quando si trat- Dora Bognandi Alla Giornata di Assisi vi erano circa 300 persone, ma l’evangelismo italiano mancava perché le Chiese evangeliche del nostro Paese, a differenza delle loro denominazioni a livello mondiale, non erano state invitate a partecipare. Un incontro interreligioso organizzato unilateralmente, una sfilata di star religiose convocate da un unico protagonista: Benedetto XVI. Dora Bognandi è direttore associato del Dipartimento degli Affari pubblici e della libertà religiosa degli Avventisti. 13 ta di difendere i cosiddetti «valori non negoziabili» e combattere perché siano imposte, anche a chi non crede nella sua stessa maniera, delle pratiche molto dolorose. Questo accade soprattutto in Italia perché in altri Paesi, come la Germania, è stato possibile raggiungere una posizione comune anche su temi spinosi come il testamento biologico. E non possiamo neppure dimenticare che la Chiesa cattolica è stata la grande assente nella Consulta delle religioni del Comune di Roma, nonostante fosse stata più volte sollecitata a partecipare. Forse non ha aderito perché non ne è stata la promotrice, ma questo bisogno di protagonismo non sempre è utile. Più che la promozione di un dialogo paritario e la ricerca di una pace che rispetti i diritti di tutti, a noi sembra che la preoccupazione della Chiesa cattolica sia un’altra. Alla vigilia dell’appuntamento di Assisi, papa Ratzinger ha annunciato un «Anno della fede» che dovrà coincidere con i 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II e con i 20 anni dal varo del Catechismo cattolico. E tutto ciò ci ricorda un’altra decisione caratterizzante di questo pontificato: quella della «nuova evangelizzazione», in linea anche con quel Progetto culturale promosso dal cardinal Ruini che mira a permeare tutti i settori della società. Ritornando ad Assisi, non sono rimasti insensibili gli evangelici quando Benedetto XVI, fin dalle prime parole rivolte ai convenuti, ha fatto la distinzione tra «api e rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali e delle religioni del mondo». Parole che richiamano la Dominus Iesus, secondo la quale le religioni non cristiane «oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria» e le Chiese cristiane al di fuori del cattolicesimo sono «comunità ecclesiali». Il fatto che le Chiese evangeliche mondiali abbiano ricevuto l’invito, ma non quelle italiane, rivela una tendenza generale, nel nostro Paese, a voler confinare le denominazioni cristiane diverse dalla cattolica nell’area delle realtà «straniere». Interessante, a tale proposito, mi sembra il parere dell’avvocato Alessandra Trotta, presidente della Chiesa metodista in Italia, che afferma: «La sostanziale assenza, in un incontro che pure si svolge in terra italiana, di una, anche simbolica, rappresentanza italiana sembra inserirsi in una (peraltro consolidata) tendenza cattolica a trasmettere l’idea che nel nostro Paese la diversità confessionale (non solo delle altre religioni, ma anche all’interno dello stesso cristianesimo) è essenzialmente “straniera”, un elemento (spesso colorato e quasi folcloristico) del tutto estraneo alla storia, alla cultura, all’“identità” (passate, presenti e future) dell’Italia e degli italiani, saldamente ancorate alle loro radici “cattoliche”. Una prospettiva certamente non corretta, che, oltretutto, fa scomparire dall’orizzonte del popolo cattolico convocato per partecipare a grandiosi i servizi dicembre 2011 confronti Religioni. Assisi, continuità e discontinuità incontri che mirano a rafforzare il dialogo tra le fedi (giustamente indicato come uno degli strumenti principali per la promozione della pace e della giustizia nel nostro mondo tormentato) proprio i soggetti con cui, allo spegnersi dei riflettori di quegli eventi unici e irripetibili, si dovrebbe esercitare, nel contesto della vita reale, la fatica quotidiana del dialogo e del confronto. Certo, pensare al dialogo con i lontani è più facile che provare a praticarlo con i vicini... soprattutto in contesti in cui si occupano posizioni di “dominio”, che si può avere la tentazione di difendere anche a scapito degli spazi di libertà degli altri». La stessa tendenza notiamo anche a livello di Ministero dell’Interno, dove è stata abolita la Direzione generale degli affari dei culti per inserirla nel Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, quasi a voler suggerire, appunto, che tutte le confessioni diverse dalla cattolica non fanno parte del patrimonio nazionale. Per fortuna, in Italia non viviamo più in tempi di uso della violenza per sopprimere chi crede in maniera diversa. Ma questo non vuol dire che non ci siano problemi. Oggi ci si limita a ignorare gli altri. Ad Se guardiamo al dialogo interreligioso in Italia, al di là di alcuni momenti ufficiali o di lodevoli incontri a livello locale, difficilmente vediamo la Chiesa cattolica sedersi a pari titolo accanto alle altre confessioni per affrontare i problemi che pur ci sono. pubblicità 14 esempio, quando nei media si deve parlare di cristianesimo, a rappresentarlo è solo il cattolicesimo e la Chiesa cattolica non ci risulta che si adoperi per fare spazio a un cristianesimo plurale. Come non ci risulta un suo impegno per aiutare quelle confessioni che da molti anni chiedono un’Intesa e non riescono a ottenerla, oppure non si batte perché nelle scuole ci sia un insegnamento di storia delle religioni che presenti tutte le varie opzioni religiose e filosofiche. A livello concreto, le nostre città sembrano divise da muri simbolici che rendono difficile la pacifica convivenza e mettono in discussione semplici diritti umani come quello di adorare in luoghi di culto idonei. Dialogare vuol dire ascoltare le difficoltà degli altri e aiutare a risolverle, soprattutto se si ha il potere per farlo. Se c’è qualcosa da temere è proprio l’indifferenza e il silenzio. E non possiamo permetterci di essere sordi e muti nei confronti di altre persone che hanno sentimenti religiosi diversi dai nostri, se non vogliamo tradire la vocazione primaria di ogni religione che è sostanzialmente la promozione del benessere dell’umanità in uno spirito solidale. INFORMAZIONE Un viaggio nella stampa ebraica in Italia Lia Tagliacozzo Il Centro di documentazione ebraica contemporanea ha curato una mostra dal titolo «Una storia di carattere. 150 anni di stampa ebraica in Italia». Sono oltre cento le testate espresse da questa realtà nel corso del tempo. Abbiamo ascoltato il parere dei direttori di quattro importanti giornali del mondo ebraico. H anno idee e priorità diverse, ma i quattro direttori dei giornali ebraici ai quali ci siamo rivolti almeno su una cosa sono d’accordo: l’esposizione della minoranza ebraica sui media nazionali è sproporzionata ai suoi numeri reali. Per qualcuno è motivo di orgoglio, per altri di perplessità, dipende anche dalla localizzazione geografica della testata. Ma è bene cominciare dall’inizio: in oltre cento anni la minoranza ebraica italiana ha espresso oltre cento testate. Complice il 150esimo anniversario dell’unità, una bella mostra a cura del Centro di documentazione ebraica contemporanea svoltasi a primavera ne ha dato conto con il titolo significativo «Una storia di carattere. 150 anni di stampa ebraica in Italia». Purtroppo manca un catalogo, ma dall’esposizione emerge con forza quanto gli ebrei italiani abbiano discusso, raccontato e litigato sulla «propria» stampa periodica. Gli argomenti sono, da sempre, i più vari: dalle grandi questioni di attualità politica e culturale alla cronaca della vita delle comunità, dagli approfondimenti sulla tradizione e le feste ebraiche al sionismo prima e alla vita dello stato di Israele poi. Struggenti i primi numeri del dopoguerra, che danno conto dei primi elenchi di nomi di deportati tornati in Italia e gli elenchi di coloro che sono scomparsi e di cui ancora non si ha notizia. Ci vorranno un paio di anni perché emerga con chiarezza quanto accaduto. Le testate di rilievo nazionale sono prima della guerra il settimanale Israel poi la Rassegna mensile di Israele, periodico, oggi semestrale, di alta cultura. La prossima primavera entrerà in vigore il nuovo statuto dell’ebraismo italiano, un cambiamento radicale con una sorta di parlamento molto ampio ed un esecutivo ristretto. Cambieranno le modalità di elezione e la rappresentanza che ne verrà fuori sarà composta in modo diverso. Per verificare i nuovi orientamenti culturali e politici che emergeranno è necessario aspettare, ma intanto ci siamo rivolti ai direttori di quattro testate per raccontare quale ebraismo giungerà a questa nuova assise. Anche oggi le testate ebrai- 15 che sono più di quelle rappresentate in queste righe ma, dovendo scegliere, si è scelto quelle che ci sembrano più significative. Per Fiona Diwan, direttore da alcuni anni del mensile Bollettino della Comunità ebraica di Milano (a cui si accompagna una newsletter settimanale e il sito Mosaico.it, un nome che vale, si immagina, nella sua duplice accezione: da un lato aggettivazione da Mosé, dall’altro il sostantivo che utilizza tante tessere diverse per comporre un’immagine): «Da un punto di vista demografico l’ebraismo italiano è agonizzante. I numeri sono sconfortanti e la leadership, sia quella laica che i rabbini, non riescono a dare risposte a questa moltitudine di ebrei che si allontanano. Per quel che riguarda la realtà ebraica milanese, ci sono dei segni di miglioramento in questi ultimi anni». Più cauto è Giacomo Kahn – direttore di Shalom, mensile ebraico di informazione e cultura, edito dalla Comunità di Roma, a cui si accompagna una versione online e che nel numero di novembre si è occupato anche della crisi di Confronti: «L’ebraismo italiano – spiega Kahn – è numericamente fragile e ha bisogno di essere più attento allo studio della propria tradizione. Non si può continuare a citare Ernesto Nathan (sindaco di Roma all’inizio del secolo scorso) o Tullia Zevi. Sono stati personaggi importanti, ma è un credito che rischia di esaurirsi se non si continua a crescere culturalmente». A introdurre un altro elemento e a mettere i piedi nel piatto non a caso è Anna Segre – direttore di Ha Keillah, bimestrale ebraico torinese organo del «gruppo di studi ebraici», unico giornale indipendente, il cui editore quindi non è una Comunità ebraica: «A che prezzo salvare l’unità dell’ebraismo italiano è una vera sfida. Il nostro slogan è sempre stato: due ebrei, tre opinioni, una comunità. Per questo mi sembra che paventare delle scissioni sia inutile e rischia piuttosto di essere inutile o addirittura dannoso. I numeri non lo consentono». Uno dei fantasmi dei quali la stampa ebraica ha difficoltà a parlare sono i nuovi gruppi dell’ebraismo riformato che oramai da anni sono presenti in Italia. Le istituzioni dell’ebraismo italiano (le singole Comunità e l’Unione nazionale) appartengono infatti alla tradizione ebraica ortodossa – il nome in italiano fa pensare giustamente al rigore nell’attaccamento ai precetti della Torah, il Pentateuco, libro, legge e rivelazione dell’ebraismo, ma si tratta anche di una definizione tradizionale. Esistono infatti i servizi dicembre 2011 confronti Informazione. Un viaggio nella stampa ebraica in Italia vari tronconi dell’ebraismo che differiscono robustamente gli uni dagli altri per le diverse modalità di interpretazione del testo biblico e degli obblighi che ne discendono ma la millenaria presenza sul territorio italiano e il suo essere marginale rispetto alle grandi discussioni dell’ebraismo ha tenuto fino ad ora l’ebraismo italiano al riparo da divisioni traumatiche che invece hanno spaccato l’ebraismo a partire dalla metà dell’Ottocento. A dire il vero però mancano i dati per comprendere se il calo demografico dell’ebraismo italiano tradizionale, quale lo si evince dal calo degli iscritti alle Comunità, sia dovuto al nuovo emergere di gruppi ebraici conservative o reform piuttosto che alla più generale secolarizzazione che investe l’intera società italiana. Chi scrive propende per la seconda ipotesi ampliata dal rinnovato rigore da parte del rabbinato che crea spaesamento in un ebraismo italiano ortodosso nella forma ma robustamente assimilato al Paese nei comportamenti quotidiani (dall’osservanza rigorosa delle regole alimentari a quella del riposo sabbatico). «Una strada – prosegue Anna Segre – potrebbe essere salvare l’ortodossia formale accettando però delle modalità che consentano di rimanere tutti insieme». Per lei «il pluralismo non è un’opzione che salva comunque: con i nostri scarsissimi numeri una scissione è un rischio che potrebbe creare più problemi di quanti ne risolva». Per i direttori dei giornali delle due comunità più grandi, Roma e Milano, parlare dei riformati – come vengono sbrigativamente definiti – è più complicato: «Non c’è dubbio che è un problema – commenta Fiona Diwan – il mondo reform che avanza, come quello degli ebrei lontani dalle istituzioni, hanno bisogno di essere raccontati». «Sta a me, come direttore – interviene Giacomo Kahn – consentire a chi vuole sollevare i temi di poterlo fare liberamente. Le pagine che il giornale dedica alle lettere sono parecchie, e sono anche tra le più lette, dopodiché – conclude pragmatico – la linea del giornale è quella che detta l’editore, cioè la comunità ebraica di Roma che è ortodossa. Nel mio lavoro però mi sono occupato di temi ebraicamente scottanti, dal dibattito sui Dico all’omosessualità, anche con voci dissonanti riguardo anche alla realtà israeliana». Tutt’altro approccio ha Guido Vitale, che del rischio di scissioni preferisce non parlare; d’altro canto, la testata che dirige rappresenta la vera novità di questi ultimi anni: Pagine ebraiche - il giornale dell’ebraismo italiano è un nuovo mensile nazionale realizzato dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Proprio il sottotitolo perentorio (sarà forse quell’articolo determinativo) e il fatto che sia l’unico finanziato con i fondi dell’Otto per mille ha suscitato non poca maretta. L’ipotesi di un’unica testata nazionale ha creato infatti il timore di un «pensiero uni- Uno dei fantasmi dei quali la stampa ebraica ha difficoltà a parlare sono i nuovi gruppi dell’ebraismo riformato che oramai da anni sono presenti in Italia. Mancano i dati per comprendere se il calo demografico dell’ebraismo italiano tradizionale, quale lo si evince dal calo degli iscritti alle Comunità, sia dovuto al nuovo emergere di gruppi ebraici «conservative» o «reform» piuttosto che alla più generale secolarizzazione che investe l’intera società italiana. 16 co», molto malvisto in una realtà tanto composita, anche se Vitale ci tiene a sottolineare che il suo giornale è nuovo e non occupa lo spazio di altre testate: «Esistono molti italiani che non sono iscritti a una comunità ebraica – riflette Vitale – ma che si percepiscono come legati a questo mondo: dialogare con loro è la sfida che la minoranza ebraica deve raccogliere per la propria sopravvivenza. Non abbiamo il dovere di essere tanti numericamente, abbiamo il dovere di essere noi stessi. Di essere giornalisti ebrei italiani senza complessi e senza retropensieri. E di portare nel nostro lavoro di giornalisti la gioia e l’entusiasmo che derivano dai valori e dalle tradizioni che abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni precedenti e di cui siamo testimoni». Il mensile è composto da diversi dorsi – all’interno c’è anche «Italia ebraica, voci dalle comunità», che si occupa di cronaca comunitaria, e «Dafdaf, il giornale ebraico dei bambini – e la redazione cura anche il sito Moked.it e una newsletter quotidiana. «La cosa che ci preme di più – prosegue Vitale – è come la minoranza ebraica venga percepita dalla società italiana e questo per due motivi: da un canto, ovviamente, da questo deriva la nostra sicurezza e il nostro benessere, ma ne deriva anche la raccolta dell’Otto per mille o comunque la nostra possibilità di raccogliere risorse. La minoranza ebraica in Italia deve sviluppare la propria capacità di costruire relazioni con il mondo esterno. Una minoranza così piccola in una società tanto grande non può chiudersi in una sorta di autosufficienza: abbiamo molto da offrire alla società esterna ed essa ha molto da cogliere. Mi sforzo di fare dei giornali che possano essere utili agli ebrei italiani, ma dove si possano a sentire a proprio agio anche i non ebrei che guardano con interesse ai valori e alle vicende degli ebrei italiani. Giornali che abbiano una maggioranza di lettori non ebrei. È difficile definire un ambito di interessi o di argomenti, poiché l’universo della cultura ebraica è composto da settori che sono trasversali a tanti e diversi aspetti della vita e della cultura: dalla cultura in senso lato alla scienza alla tecnologia, allo sport. È evidente che guardiamo con forte interesse, e cerchiamo di raccontare, la realtà dello stato d’Israele, fortemente distorta da media che vorrebbero ingabbiare un mondo molto complesso e contraddittorio esclusivamente attraverso il conflitto in atto in Medio Oriente. Si tratta di smontare questa visione di Israele, perché Israele è ben altro ed è molto di più. Come riteniamo di rilievo la difesa della Memoria della Shoah. Ma circoscrivere la minoranza ebraica solo attraverso questi due nodi è molto limitante e significa assecondare un processo strumentale mosso dai media della cultura dominante. È fondamentale mostrare che la società ebraica italiana non ha solo un passato, ma anche un futuro». i servizi dicembre 2011 confronti Informazione. Un viaggio nella stampa ebraica in Italia «Dopo la nascita del giornale nazionale ci siamo posti il problema se tenere in vita Ha Keillah – commenta a distanza Anna Segre – ma poi ci siamo detti che il nostro giornale permette un confronto che altrimenti non ci sarebbe. Noi diamo un peso particolare alle vicende piemontesi e torinesi, ci occupiamo dei personaggi della Resistenza in Piemonte e poi c’è un altro aspetto: noi siamo un giornale autofinanziato e possiamo quindi avere le mani libere, possiamo essere platealmente schierati e prendere delle posizioni politiche. In passato le questioni fondamentali sono state due: la netta contrarietà al governo Berlusconi, pensando che alcuni dei suoi atti politici violavano dei principi specificatamente ebraici: l’importanza della giustizia, l’attacco alla scuola pubblica e alla libertà di stampa. La battaglia che abbiamo sempre condotto è che non si possono vendere i principi dell’ebraismo in nome di una ostentata solidarietà ad Israele. Quanto ad Israele, noi riportiamo le posizioni di quelle forze che in Israele lavorano per la pace e il principio «due popoli, due stati». Ultimamente io cerco di darmi la regola di offrire il maggior spazio possibile ai collaboratori israeliani che magari non hanno tutto questo spazio nei media ebraici. D’altro canto un giornale ebraico dichiaratamente di sinistra è una cosa di cui c’è bisogno sia per ciò che riguarda la politica italiana sia Israele». Nel guardare alla realtà ebraica italiana vi sono per Giacomo Kahn motivi di soddisfazione tali che avrebbe preferito iniziare la nostra conversazione parlando di questi: «L’ebraismo italiano – spiega – è una voce ascoltata all’interno della società civile e delle istituzioni e non solo per quanto riguarda la tutela della memoria o la preoccupazione nel contrastare il negazionismo e le derive razziste ma anche sui temi di riflessione collettiva della società, come le questioni di fine vita, dei trapianti, il tema, drammatico, dell’eventuale o meno alimentazione forzata. Non è un caso che rav Riccardo Di Segni, il rabbino capo di Roma, sia vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica. A noi non mette paura la diversità delle opinioni, per esempio l’ebraismo italiano ha sempre sostenuto che bisognerebbe poter organizzare molte più moschee e offrire a tutti il diritto di pregare. Diverso è il problema di cosa venga detto all’interno delle moschee. Un altro punto di forza, più recente, è la rinnovata partecipazione politica dell’ebraismo: c’è stata una lunga cesura a causa delle leggi razziali che avevano creato disaffezione verso la politica e le sue istituzioni, da una decina di anni a questa parte, invece, ci sono dei nuovi giovani deputati che fanno del loro ebraismo un elemento di ricchezza e partecipazione al dibattito, anche su argomenti legati al diritto di Israele a vivere. Così come ci sono tanti giovani che sono entrati dal basso nella vita dei partiti anche in schieramenti contrapposti». Guido Vitale, direttore del nuovo mensile «Pagine ebraiche il giornale dell’ebraismo italiano», ci tiene a sottolineare che il suo giornale è nuovo e non occupa lo spazio di altre testate: «Esistono molti italiani che non sono iscritti a una Comunità ebraica, ma che si percepiscono come legati a questo mondo: dialogare con loro è la sfida che la minoranza ebraica deve raccogliere per la propria sopravvivenza». 17 Fiona Diwan riflette con particolare attenzione sulla realtà ebraica milanese della quale si occupa il suo giornale: «Il Bollettino deve essere il riflesso di una koinè multipla. La nostra comunità è formata da tanti gruppi diversi: l’ebraismo italiano e quello ashkenazita ma anche quello libanese, iraniano, turco, egiziano, quasi tutti gruppi immigrati in Italia nel dopoguerra. Ciascuno ha le proprie sinagoghe, i propri Talmud Torah (corsi di formazione religiosa) e organizza i propri incontri serali. Vi è un gruppo francofono di origine siriana e libanese che, pur risiedendo in Italia da molti anni, continua a svolgere le proprie iniziative in francese. Alcuni di questi hanno delle scuole diverse da quelle della Comunità. Ma se ognuno si arrocca sul proprio Aventino non si va da nessuna parte e chi dice che è necessario stare uniti chiacchiera e basta. In un contesto così frammentato, la Comunità sta cercando di porsi come organismo super partes e si assiste ad un moltiplicarsi di occasioni di incontro trasversali intorno a temi di carattere generale che divengono anche occasioni di avvicinamento delle persone lontane, anche per quegli ebrei distanti che magari si sono rivolti in passato alla Comunità senza trovare interlocutori disponibili. È presto per dire se questo inciderà sulla demografia dell’ebraismo italiano, ma penso che sia almeno una strategia». «Uno dei maggiori punti di debolezza – spiega Giacomo Kahn, analizzando le criticità – è un’eccessiva litigiosità che, in parte, è anche il frutto degli atteggiamenti provenienti dagli schieramenti politici nazionali che si riverberano anche nelle comunità ebraiche. È importante però avere presente che all’interno del mondo ebraico il riflesso della politica nazionale non si riproduce in modo esattamente speculare. È anche vero che l’esposizione che ebraismo italiano ha sui media nazionali è sproporzionata ai suoi reali numeri. Però nasce da una richiesta per così dire “esterna”: si chiede di essere presente su alcune questioni e questo mette in condizione di apparire». Il problema dell’eccessiva esposizione dell’ebraismo riguarda però soprattutto la realtà ebraica romana, perché vicina – e non solo fisicamente – ai palazzi della politica. «A Milano – spiega Fiona Diwan – questo problema non si pone. A volte parla il presidente della Comunità Roberto Jarach e il vicepresidente Daniele Nahum , radicale, che si è battuto come un leone affinché non passasse la norma che vietava la macellazione rituale ebraica o musulmana». Anche in vista della futura assise primaverile Anna Segre esprime la sua perplessità: «Sarebbe bene evitare il rischio che chi ottiene il quarantacinque per cento dei voti a Roma, anche se è la più numerosa comunità ebraica italiana, divenga nei fatti il rappresentante politico degli ebrei italiani». MEDIO ORIENTE Abbiamo sentito parlare di un sogno Rosita Poloni «La sfida della convivenza in Israele, Palestina e Italia». Un convegno a Milano organizzato – anche per festeggiare i venti anni dalla fondazione – dall’Associazione italiana amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam, il villaggio dove israeliani, sia arabi che ebrei, lavorano assieme per l’educazione alla pace. « A bbiamo sentito parlare di un sogno». Questo disse il priore del Monastero trappista di Latrun, quando decise di «prestare» a Bruno Hussar la terra su cui avviare il suo progetto, il suo sogno di convivenza giusta e pacifica tra popoli differenti e confliggenti. Il sogno si è sporcato le mani, si è intriso di un’umanità densa e fragile, ha fatto del conflitto uno strumento e resiste. Con fatica, talvolta sbandando, ma resiste. Lo stesso stupore e la stessa fiducia hanno animato per vent’anni l’Associazione italiana che sostiene Nevé Shalom/Wahat al-Salam («Oasi di pace», in arabo e in ebraico: si veda la scheda qui sotto). Credendo nella possibilità di un luogo in cui si cerca di vivere insieme, di fare posto ad ognuno e a tutti. Un luogo in cui si cerca di costruire le premesse perché si avveri un futuro di giustizia e, perché no, di pace. E così «Abbiamo sentito parlare di un sogno: la sfida della convivenza in Israele, Palestina e Italia» è stato intitolato il convegno che si è svolto il 12 no- SCHEDA. UN’OASI DI PACE DOVE CONVIVERE Neve Shalom Wahat al-Salam è un villaggio dove ebrei e palestinesi, tutti di cittadinanza israeliana, vivono insieme secondo criteri di equità e giustizia. 54 famiglie hanno scelto la via della convivenza e dell’educazione alla pace. Le scuole del villaggio sono bilingui e binazionali, i bambini/e studiano cioè in ebraico e in arabo grazie alla presenza in ogni classe di due insegnanti madrelingua; le scuole accolgono in gran parte bambini/e dei villaggi vicini, che hanno quindi l’opportunità di nutrirsi quotidianamente degli ideali di convivenza pacifica ed equa tipici del villaggio. L’associazione italiana amici di Nevé Shalom/Wahat al Salam dedica il 2012 alla raccolta fondi per il sostegno della scuola. «Adotta la pace, adotta una classe» è la campagna che intende richiamare l’attenzione sul fatto che la pace sia un bisogno primario, che viene costruito dal basso, dall’educazione dei più piccoli. Aiutateci! Per donare: - cc postale n.20980207, intestato Amici di NSWAS, via Buschi 19, 20131 Milano; - cc bancario Intesa Sanpaolo IBAN IT31 S030 6909 4660 0000 0643 046 CIN S, intestato Amici di NSWAS, via Buschi 19, 20131 Milano. Associazione italiana amici di Nevé Shalom/Wahat al Salam, telefono 3477343461 email: [email protected] www.oasidipace.org 18 vembre a Milano organizzato dall’Associazione italiana amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam per festeggiare il ventesimo anniversario della sua fondazione. Desiderio dell’associazione era non solo far memoria di questa piccola e preziosa storia di amicizia tra l’Italia e il villaggio, quanto soprattutto offrirsi e offrire una cornice per poter pensare al significato profondo e fecondo del termine «convivenza». Convivenza: termine che a Nevé Shalom/Wahat al-Salam è paradigma necessario e punto di partenza che incarna la possibilità stessa di un sistema equo, in cui la pace sia risultato perseguito secondo pratiche di reciproca legittimazione e di giustizia. Convivenza: parola che mette alla prova anche noi, oggi, in Italia, chiamati dalla storia a misurarci quotidianamente con chi viene da lontano, è differente, chiede cittadinanza. Il convegno si è articolato in due sessioni di relazioni nelle quali si sono intrecciati sguardi e saperi differenti sul tema del dialogo e del «vivere insieme». Nella sessione del mattino l’apertura è stata affidata a Bruno Segre, presidente dell’associazione per i suoi primi 16 anni, profondo e sofisticato conoscitore di Israele. Segre ha parlato di «Sionismo e la pace che non c’è» attraversando la storia di questa terra contesa secondo la storiografia ebraica. Il suo intervento (che verrà pubblicato sul numero di dicembre di Qeshet) ha preso per mano i partecipanti al convegno e li ha portati direttamente con i piedi nella sabbia e lo sguardo sulla Città santa, a respirare il fiato delle vicende storiche e delle alterne letture che impregnano quei sassi di sangue e speranza. A seguire l’intervento di Gian Mario Gillio, direttore di Confronti, che ha condotto un affondo sulla realtà del movimento, o meglio dei movimenti che si occupano di ricerca della giustizia e della pace in Israele e nei Territori palestinesi. Rassicurante sentire di quanti e quali siano gli sforzi, nella società civile, affinché si gettino le basi per il riconoscimento reciproco, l’ascolto e, appunto, la possibilità di co-esistenza dignitosa. Per il villaggio al mattino è intervenuta Dorit Shippin, prima sindaco donna di Nevé Shalom/Wahat alSalam: Dorit ha raccontato la sua esperienza di ebrea, israeliana, donna cresciuta in un contesto tradizionale dove l’alterità non è contemplata, dove il nemico nemmeno risulta nel quadro cognitivo generale. Dorit ci ha detto di suo padre, soldato attivo nella guerra del 1948, e di come nelle sue parole e nel suo cuore albergasse la semplice tensione alla difesa del proprio Paese senza considerazione per il destino del popolo vicino. E ci ha i servizi dicembre 2011 confronti Medio Oriente. Abbiamo sentito parlare di un sogno detto del significato di essere una donna, di come identità sociale e identità personale si sovrappongano e ispessiscano il sapore di un conflitto che è di volti e di fazioni. Così per esempio Dorit ha ricordato della morte di Tom, un ragazzo del villaggio caduto durante una ricognizione in elicottero nel sud del Libano mentre serviva nell’esercito, a metà degli anni Novanta, e ha ricordato della fatica di conciliare il dolore devastante per il perduto viso di Tom, caro a tutti, e il disagio creato dalla sua uniforme. Parole che hanno risuonato forte nella sala in ascolto e che hanno poi lasciato posto alla riflessione sul silenzio nel dialogo interreligioso condotta da Luciano Manicardi, vicepriore di Bose. Questo l’incipit del suo intervento: «Nel libro di Bruno Hussar Quando la nube si alzava, egli scrive: “La nozione di silenzio è accessibile a tutti, non-credenti come credenti” (B. Hussar, Quando la nube si alzava. La pace è possibile, Marietti 1820, Genova 1996, pp. 150-151). Vorrei iniziare la mia riflessione soffermandomi su questa annotazione. Ben prima che del dialogo cosiddetto interreligioso, il silenzio fa parte di ogni dialogo, del dialogo tout-court. Il silenzio è costitutivo dell’umano. Esattamente come la parola, di cui il silenzio è l’imprescindibile radice. Il legame tra parola e silenzio è ben tratteggiato da Merleau-Ponty: “Dobbiamo considerare la parola prima che sia pronunciata, il fondo di silenzio che non cessa di avvolgerla e senza la quale essa direbbe nulla, o ancora mettere a nudo i fili di silenzio di cui essa è intrecciata”. Senza silenzio non c’è dialogo, non c’è ascolto, non c’è parola. Il contrario del silenzio non è la parola, ma è il rumore, la confusione”». Per onorare la «convivialità delle differenze» di monsignor Tonino Bello, abbiamo pranzato insieme Convivenza: parola che mette alla prova anche noi, oggi, in Italia, chiamati dalla storia a misurarci quotidianamente con chi viene da lontano, è differente, chiede cittadinanza. e poi il pomeriggio ci ha accolti con l’intervento di Rita Sidoli, professoressa dell’Università Cattolica di Milano, esperta di neuroscienze, che ha descritto il funzionamento dei neuroni a specchio e il ruolo che questi giocano nella capacità di sviluppare empatia, quella capacità cioè di mettersi nei panni degli altri e di sentire come essi sentono, vedere come essi vedono. Empatia che è parte della possibilità di umanizzare il volto del nemico e di riconoscerlo «umano tra gli umani». Le è succeduto Paolo Branca, che tiene il Corso di Storia delle religioni (islamismo) presso l’Istituto superiore di Scienze religiose di Milano. Branca ha letto alcune sure del Corano relative al rapporto con il popolo ebraico, dalle quali si evince apprezzamento, e non ostilità, dell’islam per il «popolo eletto». Infine due testimonianze: quella di Abdessalam Najjar, che dal Centro spirituale pluralistico di Nevé Shalom/Wahat al-Salam ha condiviso con noi il ruolo che la spiritualità può giocare in un contesto di conflitto, laddove si dedichi attenzione a percorsi di tipo educativo; e quella di Lubna Ammoune, una giovane musulmana italiana che ha offerto il suo punto di vista sul tema della convivenza tra culture diverse. L’associazione desiderava che il 12 novembre fosse un momento di riflessione e di festa, per questo ha chiuso la giornata il concerto «Musica e voci di pace», un trio composto da Eyal Lerner, israeliano, Tarek Awad Alla, egiziano e Franco Minelli, italiano, che ha proposto un repertorio di musica popolare araba ed ebraica. E con la dolcezza e la suggestione delle note si è chiusa una giornata ricca di stimoli, di amicizia e di bellezza. Davvero un buon compleanno. SCHEDA. IN UN LIBRO LA STORIA DI «NEVÉ SHALOM - WAHAT AL-SALAM» Il libro di Nuccio Franco Nevé Shalom/Wahat al-Salam (GDS edizioni, 2011, 70 pagine, 9 euro) che racconta in forma narrativa del villaggio costituito nel 1972 congiuntamente da israeliani e palestinesi. Franco racconta una storia, la storia vera di un viaggio, di un’amicizia, della condivisione di un sogno. Il teatro dell’intreccio sono due terre che anelano a coesistere che Jan, italiano, è spinto a visitare perché spinto dall’amicizia per Safiyya, palestinese e musulmana; insieme decidono di raggiungere Yehuda, israeliano, ebreo e volontario presso il villaggio di Nevé Shalom - Wahat alSalam. Questo sembra esse- re l’unico luogo dove la loro amicizia è possibile, anche se la situazione politica e sociale circostante sembra scoraggiarla: i checkpoint sono un’esperienza che Jan e Safiyya non dimenticheranno facilmente, così come la paura della gente comune che porta – a volte – al pregiudizio. La storia dei tre amici porterà il lettore a visitare diverse città: Beer Sheva, Hebron (la nuova Berlino) e Gerusalemme e gli sguardi dei tre amici si incontrano vicendevolmente, dando la 19 possibilità di un approfondimento, una comprensione, che diversamente sarebbe stata impensabile. I tre amici diventano sempre più uniti, impareranno a condividere le cose importanti della vita e, attraverso questa esperienza, ad avere più fiducia nelle potenzialità positive dell’essere umano. Ma presto arriva il momento per Jan di lasciare gli altri amici. Safiyya e Yehuda, però, rimarranno sempre nel cuore di Jan e gli scriveranno una lettera in cui raccontano del coronamen- to del loro amore attraverso un figlio e una nuova vita in Marocco. Segnaliamo questo libro perché vuole essere una testimonianza di una scelta di vita alternativa al pregiudizio, nonché dello sforzo reale di sognatori che sono riusciti a costruire una solida realtà. Una realtà che l’acquisto del libro contribuisce a sostenere: parte dei proventi della vendita, infatti, andranno all’organizzazione Nevé Shalom/Wahat al-Salam. (Michele Lipori) GIORNATA DEL 27 OTTOBRE Dialogando si apre il dialogo Brunetto Salvarani La decima Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico è un evento che va coraggiosamente in controtendenza rispetto al clima generale di chiusura, intransigenza e riaffermazione orgogliosa delle proprie identità, secondo cui «l’altro» diventa sempre più una pericolosa minaccia da evitare e combattere. D a qualche tempo, noi «tifosi» della cosa ci stiamo domandando (l’abbiamo fatto anche in occasione del recente convegno di Confronti sull’islam degli scorsi 21 e 22 ottobre): dove sono finiti quell’operosità e quell’investimento coraggioso nei processi del dialogo che avevano consentito di affinare una certa reciproca conoscenza tra fedeli di religioni diverse e reso realistica qualche azione comune contro il pregiudizio e i fondamentalismi religiosi da un lato, ma anche per una positiva convivenza in una società sempre più multiculturale e poi interculturale, almeno in progress, dall’altro? Non è facile rispondere, o forse sì: se a buon diritto da tempo si sente ripetere che il vento è cambiato, e così la direzione di marcia della storia; che sta trionfando un sentimento di timore generalizzato nei confronti di qualsiasi alterità, mentre i frutti ottenuti sinora dai dialoghi effettuati localmente sono troppo esigui, per cui risulta spontaneo scoraggiarsi. E dedicarsi ad altro, semmai più redditizio... Siamo così transitati dalla fase dell’incontro interreligioso, figlio legittimo della spinta conciliare e dell’impegno di grandi organismi internazionali quali il Cec, la Kek e così via, più o meno curiosa e gioiosa, alla denuncia generalizzata dei suoi rischi, quasi fossero perennemente in agguato; dalla prospettiva di un radunarsi intorno a valori e progetti comuni, dalla lotta per la libertà religiosa e contro l’islamofobia, l’antisemitismo e qualsiasi forma di razzismo risorgente in questi anni, alla rivendicazione – orgogliosa e non raramente priva di qualsiasi forma di pietas – della propria identità. Talora, di un’identità puramente reattiva, quella di persone e gruppi che si scoprono improvvisamente detentori di uno speciale mandato divino come reazione alla «minaccia» (o alla pura presenza) portata da altri. Fino al martellamento costante dei media e di politici imprenditori della paura contro l’edificazione di nuove moschee e nuovi luoghi di culto tout court, sempre e in ogni caso visti come potenziali cellule del terrore internazionale. Scordando – secondo le parole del premio Nobel per l’economia Amartya Sen – l’«inaggirabile natura plurale 20 delle nostre identità», e il fatto che la principale speranza di armonia in questo tormentato mondo risiede semmai nell’accettazione della pluralità delle nostre identità, che s’intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie a divisioni drastiche lungo linee di confine invalicabili: una spinta cui non si può opporre resistenza. Ecco perché occorre una volta di più riprendere in mano la questione, e riflettere di nuovo sul senso autentico del dialogare in un momento di straordinarie trasformazioni nell’ambito delle Chiese cristiane (ma non solo, in realtà). Domandandosi se le contestazioni al dialogo – certo, termine ambiguo, ma anche aperto a mille strumentalizzazioni – ci consegnino una stagione nuova in cui esso andrebbe rimpiazzato da un altro paradigma, di segno ben diverso (lo «scontro fra le civiltà»). Fino all’interrogativo cruciale: ha definitivamente prevalso la retorica dell’intransigenza, e il tempo del dialogo è (già) finito? Oppure si è spenta una sua particolare declinazione, semmai quel «dialogo delle coccole», di pura facciata, di cui aveva sentenziato l’esaurimento il cardinale Walter Kasper – all’epoca presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani – nel suo intervento in occasione della terza Assemblea ecumenica tenutasi a Sibiu, in Romania, nel settembre 2007? Non è la stessa cosa, evidentemente! Scambiato di volta in volta per puro «buonismo» o per banale sincretismo, schernito come imbelle irenismo, o semplicemente scambiato erroneamente per «relativismo assoluto», il dialogo viene oggi visto sovente tutt’al più come un argomento comodo per fasciarsi il cuore a uso di anime belle e scarsamente combattive di fronte a quell’«irruzione dell’altro» di cui ci ha parlato per primo Emmanuel Lévinas e che appare senza dubbio la cifra dominante di questi tempi affaticati non meno che complicati. Un «altro» che irrompe, per di più, nella stagione in cui (almeno qui, da noi) predomina il discredito della politica, delle ideologie e delle utopie, e che ricerca nello spazio religioso la risposta ai suoi mille perché quotidiani. Da parte nostra, non abbiamo ancora metabolizzato questa «irruzione». Non stiamo comprendendo che il dialogo non è, e non può essere, figlio di un tatticismo che ha già giudicato la posizione dell’interlocutore, e non è realmente interessato a essa. E non può essere equiparato, infine, a mera tolleranza, spesso idealizzata dalla cultura illuminista e post-illuminista, che sceglie di non affrontare la questione – decisiva – della verità. C’è chi l’ha descritta, non senza ragioni, co- i servizi dicembre 2011 confronti Giornata del 27 ottobre. Dialogando si apre il dialogo me «una parola di moda e abusata» (Ambrogio Bongiovanni), che in ogni caso – abbinata all’attributo «interreligioso» – iniziò a comparire nel dibattito pubblico appena dopo la seconda guerra mondiale e in seguito al processo di decolonizzazione, sebbene il pensiero dialogico e relazionale di un Martin Buber, per fare un nome importante al riguardo, fosse già all’epoca piuttosto diffuso nella cultura occidentale. Alla fine, è necessario ammettere che «nonostante i numerosi sforzi che da più parti si compiono in questo senso, restiamo ancora “all’età della pietra” per quello che concerne il dialogo, tuttora balbettanti nel definire e soprattutto nell’assumere una autentica deontologia del dialogo» (Enzo Bianchi). Ammettiamolo: il dialogo è in crisi. A un decennio dal passaggio di millennio, noi cristiani, non meno degli «altri», viviamo sospesi fra il disincanto generale e generalizzato e l’abbaglio quotidiano di una cronaca che ci tiene avvinghiati a un presente privo di spessore storico e di aperture sul futuro. Di questa crisi bisogna discutere (e ben poco lo si fa), cercare di comprenderne le ragioni profonde, guardando il quadro complessivo in cui essa si inserisce. Occorre verificare tale crisi nei suoi riflessi in ambito ecclesiale, coglierne l’ampiezza, e discuterne a fondo. Con franchezza, come facevano le prime comunità cristiane, che parlavano al riguardo di parresìa. In questo contesto aggrovigliato, la celebrazione della decima Giornata ecumenica del dialogo cristia- Non stiamo comprendendo che il dialogo non è, e non può essere, figlio di un tatticismo che ha già giudicato la posizione dell’interlocutore, e non è realmente interessato a essa. E non può essere equiparato, infine, a mera tolleranza, spesso idealizzata dalla cultura illuminista e post-illuminista, che sceglie di non affrontare la questione – decisiva – della verità. no-islamico, lo scorso 27 ottobre, in coincidenza con la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo voluta da Benedetto XVI ad Assisi, un quarto di secolo dopo la prima che ebbe come protagonista Giovanni Paolo II e i rappresentanti di tante altre religioni, è un segnale non secondario, e per certi versi in aperta controtendenza alle tendenze di cui sopra dicevamo. Perché, mi pare indubitabile, se nell’arco un decennio si può invecchiare e/o diventare adulti, questo minuscolo seme – nato da un’idea poco originale e all’apparenza persino velleitaria di alcuni amici preoccupati per il futuro all’indomani dell’11 settembre 2001 – si è fatto ormai un albero vero e proprio, se non decisamente rigoglioso (mai montarsi la testa!), almeno capace di produrre frutti. Talvolta addirittura sorprendenti. È quello che è successo – per convincersene basterebbe visitare il sito www.ildialogo.org – il 27 ottobre: una ricorrenza che ha attraversato felicemente tutti questi anni, lunghissimi e brevissimi, fatti di incontri, abbracci, speranze, delusioni, illusioni, arrabbiature, e di parecchio altro. Anni, ce lo siamo detti a più riprese, di scontri di civiltà veri o immaginati, di paure vicendevoli e di chiusure nel proprio guscio. Impossibile quantificare, peraltro, il numero esatto degli appuntamenti pubblici, dei materiali scritti, dei momenti conviviali, dei commenti giornalistici, in coincidenza e dopo l’ultima Giornata: come mi capita ogni anno, anche stavolta sono rimasto perso- SCHEDA. GIORNATA DEL DIALOGO: LE INIZIATIVE IN TUTTA ITALIA Anche quest’anno in Italia il 27 ottobre 2011 le iniziative per celebrare la decima Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico, nata nel 2001 a pochi giorni dai tragici attentati dell’11 settembre, sono state molte e non si sono limitate alla sola giornata del 27 ottobre. Altre iniziative di dialogo cristiano-islamico si terranno nei prossimi mesi in varie zone d’Italia come l’Emilia o l’Irpinia, dove il 4 dicembre una donna musulmana parlerà di Maria madre di Gesù in una chiesa cattolica. I primi dieci anni di vita dell’appello sono stati ricordati nella «Let- tera alle donne e agli uomini di buona volontà» scritta da Brunetto Salvarani, direttore di CEM Mondialità, che della giornata è stato l’ideatore e promotore instancabile. La giornata è stata presentata ufficialmente a Roma il 27 ottobre 2011 presso la Camera dei deputati, in una conferenza stampa organizzata da Confronti a cui sono intervenuti: Giovanni Bachelet, deputato Pd e membro della commissione Cultura, scienza e istruzione della Camera; Lucio Malan, senatore Pdl e segretario della presidenza del Senato; Raffaele Volpe, presidente dell’Unione delle chiese evangeliche battiste d’Italia (Ucebi); Alessandro Ahmad Paolantoni per l’Unione delle comunità islamiche in Italia (Ucoii); Dora Bognandi per la Chiesa avventista del 7° giorno; Giovanni Sarubbi, direttore de Il dialogo; Gianni Novelli, Cipax. Assente per motivi di salute l’ambasciatore Mario Scialoja per la Grande Moschea di Roma. Le notizie e le adesioni che sono giunte al sito de «Il dialogo» (www.ildialogo. org) parlano di circa 200 adesioni di associazioni cristiane e islamiche e di circa 300 adesioni individuali al 21 testo dell’appello che quest’anno aveva messo al centro del dibattito «Dialogo, pluralismo, democrazia: il nostro comune orizzonte». Importanti iniziative, si sono tenute a Merano (Bz), a Firenze, dove c’è stata l’adesione congiunta della Diocesi di Firenze e della Comunità islamica di Firenze, a Città di Castello, a Faenza, dove sono state coinvolte moltissime associazioni nella visita ai luoghi di culto. E poi a Pavullo (Mo), a Ravenna, a Parma, a Genova, alla Comunità «La collina» di Serdiana (Ca); a Solarino (Sr), al Centro ecumenico di Galatina, a Verbania, a Caserta, e nelle carceri di Bologna e Ivrea, nelle Marche, a Modena... e ci scusiamo di non poterle citare tutte, rimandando i lettori al sito www.ildialogo.org per la lettura completa delle adesioni e delle iniziative. Anche quest’anno è stata riconfermata negli incontri tenuti la volontà di continuare e lo dimostrano le numerose iniziative già programmate che continueranno a tenere accesa la fiammella del dialogo per la costruzione di un futuro di pace per l’intera umanità. (Giovanni Sarubbi) i servizi dicembre 2011 confronti Giornata del 27 ottobre. Dialogando si apre il dialogo nalmente assai sorpreso venendo a sapere solo in ritardo di ulteriori incontri di cui non sapevo, nei luoghi più svariati: comunità monastiche e religiose, carceri, assessorati, così come parrocchie, chiese locali e centri islamici. È la forza di un’intuizione, basata sul sentimento e sulla ragione, più che su leader mediatizzati (che la Giornata non ha), sui finanziamenti (che la Giornata non ha) e su appoggi dall’alto (che la Giornata non ha). È la potenza che sprigiona libera dal dialogo dal basso, fatto di reciproca disponibilità a mettersi in gioco; di inviti a pregare, a rompere il digiuno di Ramadan, a cenare; di itinerari che non fanno rumore eppure esistono, sono tenaci e resistenti, e proseguiranno. Permettendo inoltre, a quanti sono cristiani fra i partecipanti, di maturare sempre più nel confronto ecumenico. Perché, una volta di più, resto convinto che, se «camminando si apre il cammino», allo stesso modo «dialogando si apre il dialogo». Il dialogo quale nostro comune orizzonte, come recitava lo slogan della decima edizione. Certo, dieci anni sono una tappa, una tappa simbolica e importante, ma va ricordato che rimane ancora tanta strada da fare per battere i pregiudizi (reciproci), gli stereotipi (reciproci), i timori (reciproci). Tuttavia, se qualcuno riteneva che il dialogo fosse finito, e avesse smarrito definitivamente la sua forza propulsiva, questa Giornata gli ha risposto con nettezza: no, il dialogo non è finito. Anzi, è appena cominciato. È difficile da attuare, è ancora assai fragile, ma resta il nostro futuro. Anzi: il nostro comune orizzonte, sul cui terreno siamo chiamati a impegnarci sempre più e sempre meglio. Islam: la nuova frontiera Giulio Soravia I peggiori nemici dei musulmani sono i musulmani (Anonimo) Già nello scorso numero avevamo dato conto del convegno organizzato dal nostro mensile sul tema «L’islam in Italia tra fondamentalismo e islamofobia». Ci torniamo questo mese pubblicando l’intervento pronunciato in quella sede dal professor Soravia, docente di Lingua e letteratura araba all’Università di Bologna e direttore del Centro interdipartimentale di scienze dell’islam. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI I riferimenti bibliografici che seguono si riferiscono all’articolo del professor Soravia qui a lato. Nasr Hamid Abu Zaid, Una vita con l’Islam, Il Mulino, Bologna 2004 Muhammad Said al-Ashmawy, L’islamisme contre l’Islam, Editions La Découverte, Paris 1989 P.Cesare Bori, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995 (2° ed.) Chérif Choubachy, La sciabola e la virgola, ObarraO, Milano 2008 Farid Esack, Qur’an. Liberation and Pluralism. An Islamic perspective of interreligious solidarity against oppression, Oneworld, Oxford 1997 Ugo Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto, Carocci, Roma 1998 Roger Garaudy, Mon tour de siècle en solitaire, Editions Robert Laffont Paris 1989 Ivan Illich, La convivialità, Red Edizioni, Como 1993 Sandro Marconi, Reti mediterranee. Le censurate matrici afro-mediorientali della nostra civiltà, Roma 2003 P. Melograni, La modernità e i suoi nemici, Milano 1996 Jacques Neirynck e Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l’Islam?, El Hikma, Imperia 2000 Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, RomaBari 2007 Giulio Soravia, Islam, oh Islam!, Bonomo, Bologna 2011-10-17 M. Talbi, Le vie del dialogo nell’Islam, Torino 1999. 22 Il convegno organizzato da Confonti nei giorni 21 e 22 ottobre è caduto a distanza di poche settimane dalla decisione di pubblicare un libro che per oltre dieci anni, con infiniti rimaneggiamenti e ripensamenti, era rimasto confinato nel cassetto del dubbio e del timore. Timore di che? Non tanto per il clima islamofobo creatosi attorno al mondo islamico a partire dalla guerra del Golfo e successivamente con l’attentato alle torri gemelle, quanto dalla deleteria alchimia di una strumentalizzazione dell’islam come sostituto del grande Satana scomparso, associata all’incapacità del mondo islamico di dare risposte ragionevoli e convincenti a una serie di accuse, illazioni, pregiudizi e verità diffusi. Islam oggi è una parola scomoda e il cosiddetto uomo della strada che cosa intende con tale parola? In realtà islam significa tante cose, talvolta a ragione, altre volte a torto. Storicamente gli aggettivi «musulmano» e «islamico» sono stati applicati a molti sostantivi che spaziano dall’arte alla civiltà, dalla religione alla cultura, dalla filosofia alla ragione, dalla mentalità alla storia, dal terrorismo allo Stato, e potremmo continuare a lungo. In tutto ciò c’è un elemento fondamentale comunque. Tutto nasce da lì: civiltà, cultura, arte e scienza, politica o società, la base di partenza è quel fatto nuovo, ma non troppo, che vide una svolta nella storia mondiale a partire dal VII secolo. Una nuova religione. Ho usato il termine «religione», ma occorre una spiegazione. Non ho utilizzato infatti la dizione «una nuova fede» bensì una nuova religione, cercando così di sollecitare a capire nella sostanza che quando parliamo di islam siamo di fronte a un nuovo modo di vivere la fede nel Dio unico, ma non davanti a una innovazione del pensiero religioso che storicamente lo ha preceduto. Con ciò rendiamo ragione del fatto che «religione» in italiano e nelle lingue europee non corrisponde esattamente all’arabo din. Valga la Sura 109: «...a voi il vostro din a me il mio». Non una fede (iman) diversa, ma un modo di interpretarla e di viverla. Finché l’islam rimase chiuso nei suoi confini, tra scontri e incontri, poco si ha da dire. L’islam non è una cultura diversa come matrice da quella che ha i servizi dicembre 2011 confronti Giornata del 27 ottobre. Dialogando si apre il dialogo generato l’Europa di oggi: esso è una componente irrinunciabile della cultura europea e ne fa parte. Ma l’islam di recente si è affacciato in Europa e nel mondo non portato dalle armi, ma in un modo nuovo: sulla via di un movimento migratorio non insolito nella storia del mondo, né imprevedibile nel contesto degli squilibri prodottisi nel corso del XX secolo, ma imprevisto perché i molti pregiudizi che gravavano su di esso impedivano di presagire quanto è successo. Nelle nuove situazioni createsi si è verificato qualcosa di inatteso: le conversioni di italiani all’islam e il contatto tra culture (islamiche) diverse. La presenza di molti immigrati provenienti da aree islamiche ha riattizzato antichi razzismi e timori irrazionali, ma ha fornito facili slogan a chi con dubbia buona fede ha cavalcato tali paure per farne un vessillo su cui costruire carriere politiche altrimenti precluse. Il male causato comporta anche di avere ingenerato confusione tra immigrati e musulmani considerati tutt’uno, creando invettive del tipo «tornate a casa vostra» o invocando la reciprocità con non si sa quali Paesi circa la libertà di pensiero. La constatazione che molti musulmani sono cittadini italiani, invece di spazzare via i pregiudizi, ha anzi fomentato le paure di una invasione culturale capace di minare la «purezza» di una cultura identificata nella «Padania» o in una cristianità invocata strumentalmente anche da persone che poco praticano il cristianesimo. D’altro canto il mondo islamico non ha saputo rispondere adeguatamente. Roger Garaudy scrisse nel 1989 (Mon tour de siècle en solitaire, pagina 366): «C’est le drame... et le cauchemar de mes visites dans les pays musulmans, surtout arabes: pas d’ouverture d’une voie neuve, mais une double imitation: imitation de l’Occident, ou imitation du passé». Il mondo «occidentale» ha creato la paura del diverso e lo scontro di civiltà e ha paventato l’invasione islamica e la contaminazione della purezza dei costumi (sotto sotto la razza). Si è difeso a oltranza, sostenendo improbabili «teorie della superiorità» della civiltà occidentale e l’idea che modernizzazione significasse adesione al modello americano (Melograni). Ha sottolineato l’oscurantismo, l’incapacità di adeguarsi ai concetti di libertà e democrazia, la mancanza di rispetto per i diritti umani ecc. contro ogni evidenza che le stesse accuse potevano sostanziamente essere rovesciate su di sé. La diversità presente all’interno della stessa comunità islamica presente sul territorio italiano, composta da arabi dei diversi Paesi (marocchini, tunisini, egiziani, libici, palestinesi, siriani ecc.) ma anche di pakistani, senegalesi, somali, persiani, bengalesi, albanesi, turchi e così via, con i conflitti di mentalità e di tradizioni diverse, invece di far riflettere sul pluralismo La diversità presente all’interno della stessa comunità islamica presente sul territorio italiano, composta da arabi dei diversi Paesi con i conflitti di mentalità e di tradizioni diverse, invece di far riflettere sul pluralismo caratteristico del pensiero islamico, ha ingenerato ancor più confusione, facendo apparire vistosamente come islamici usi e riti, tradizioni e pregiudizi che con l’islam in sé poco o nulla hanno a che vedere. 23 caratteristico del pensiero islamico, ha ingenerato ancor più confusione, facendo apparire vistosamente come islamici usi e riti, tradizioni e pregiudizi che con l’islam in sé poco o nulla hanno a che vedere. Il futuro si gioca su una dimensione mondiale e la sfida è, più ancora che vincere le propagande denigratorie e l’islamofobia, abbattere le resistenze delle componenti retrive del mondo musulmano stesso, puntando a un cambiamento e al pluralismo e a una comprensione disincantata e onesta di sé. Riprendendo l’osservazione di Garaudy in apertura, occorre il coraggio di un’autocritica che guardi alla realtà del mondo moderno. Choubachy Chérif sostiene: «Quante volte questi custodi del passato, in tutti i luoghi e in tutti i tempi, hanno usato e abusato della religione per frenare il più modesto tentativo di sconvolgere l’ordine costituito, per far sparire qualsiasi visione nuova e sopprimere sul nascere ogni velleità di modernizzazione! Purtroppo non si tratta di una situazione inedita: nel mondo arabo è presente fin dall’epoca pre-islamica... E afferma Said al-Ashmawy: «Les islamistes affirment qu’en uniformisant les opinions et les doctrines de l’islam autour de la leur, ils lui donneront plus de force. Cette idée est démentie par toute l’histoire islamique, qui montre qu’au contraire l’islam, fort heureusement, a toujours été et sera toujours le creuset d’écoles, de doctrines et d’idées les plus diverses». Sostenendo così che è mero strumento di potere arrogarsi il monopolio dell’interpretazione della Legge divina. La sfida si vince non con un dialogo che sul piano etico è non solo possibile, ma utile e non pone problemi. Ciò che bisogna compiere è far sì che il dialogo divenga interiore e interno alle comunità. L’islam in Italia, minoritario e guardato con sospetto, deve riuscire a produrre una diversa immagine di sé, essere «nuovo» e convincente. Ma ciò è possibile se a quella immagine corrisponderà nella sostanza una capacità di rinnovarsi e di dare risposte che tengano conto del mondo di oggi, dove i problemi reali sono altri e ci accomunano. Solo superando le barriere di una diversità che potenzialmente è solo ricchezza possiamo affermare per esempio con Ivan Illich: «L’uomo moderno non riesce a pensare lo sviluppo e la modernizzazione in termini di diminuzione anziché d’accrescimento del consumo di energia e di manipolazione ragionata». La sfida energetica e climatica, la gestione e lo sfruttamento delle materie prime e delle acque, il sovrappopolamento e così via, questi sono i temi su cui impostare un dialogo nuovo che punti alla collaborazione e non su uno scontro immotivato e distruttore. AHMADIYYA «Diversamente» musulmani Iftikhar Ahmad Ayaz La comunità Ahmadiyya, sorta nell’Ottocento nel sub-continente indiano, è nata da una costola dell’islam, e si ritiene sempre musulmana, ma sciiti e sunniti la considerano «eretica». Alcuni regimi, come quello al potere in Pakistan, hanno emanato leggi specificatamente discriminatorie contro di loro. P er comprendere la comunità Ahmadiyya, ne abbiamo intervistato un membro autorevole: Iftikhar Ahmad Ayaz, attualmente console onorario delle isole Tuvalu a Londra e impegnato nella Commissione internazionale per la pace (Icop); in passato ha lavorato in vari organismi dell’Onu. Che cosa è il movimento dei musulmani Ahmadiyya? Come e perché si distingue dagli altri musulmani? Siamo musulmani come tutti gli altri; crediamo in un unico Dio: Allah. Veneriamo tutti i profeti di Dio e crediamo che Muhammad (la pace sia con Lui) è l’ultimo profeta di Dio. Accettiamo il Corano e i cinque precetti fondamentali dell’islam: credere in Allah e ritenere Muhammad come Suo profeta; pregare cinque volte al giorno; digiunare durante il mese di Ramadan; fare l’elemosina e compiere il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita. Ahmadiyya [da Ahmad, considerato nome alternativo del Profeta] si considera come la continuazione del movimento avviato da Muhammad. Abbiamo però delle differenze con gli altri musulmani, tanto sciiti che sunniti. Il Profeta aveva predetto che l’islam avrebbe vissuto un periodo di gloria, al quale sarebbe seguito uno di decadenza. Alla fine di questo periodo di decadenza, però, ci sarebbe stata una rinascita per l’islam: esso avrebbe ricevuto nuova linfa, e avrebbe conosciuto di nuovo un periodo di gloria spirituale come alle origini. Alla fine, questo islam sarebbe diventata la religione più numerosa del mondo. L’islam insegna che prima della fine dei tempi ci sarà la venuta di uno che è guidato da Dio che riformerà e redimerà l’islam. Queste sono credenze comuni a tutti i musulmani. Quello che ci distingue dal resto del mondo islamico è il fatto che i sunniti credono che il Messia sarà il profeta Issa, Gesù (la pace sia con Lui), la stessa persona che era sulla terra duemila anni fa. Questa credenza assomiglia a quella cristiana che vuole il ritorno di Gesù sulla terra per ristabilire il suo regno. Gli sciiti pensano che il riformatore sarà il Mahdi [l’imam nascosto che ritorna vittorioso]. 24 I musulmani che aderiscono al movimento Ahmadiyya negano invece che il Messia sarà il profeta Gesù. Noi lo riteniamo impossibile, visto che il Corano dice che ogni individuo termina la sua esistenza con la propria morte. Infatti, al contrario di molti altri musulmani, noi riteniamo che Gesù morì dopo il suo periodo di profezia (gli altri musulmani tendono a credere invece che Gesù ascese al cielo), quindi non può ricomparire prima della fine dei tempi [gli Ahmadiyya ritengono che Gesù sopravvisse alla crocifissione, riparò nel Kashmir, regione oggi contesa tra India e Pakistan, e là morì all’età di centovent’anni; a Srinagar si troverebbe il suo sepolcro]. Certo, Gesù era un Messia; però altre persone possono avere caratteristiche simili a lui. Noi crediamo nella venuta di uno che avrebbe avuto le stesse qualità mostrate da Gesù quando era in vita, e che avrebbe fatto brillare di nuova linfa le leggi dell’islam, cosi come Gesù fece brillare di linfa nuova la Legge di Mosè. Questi sarebbe stato un servo devoto e leale del Profeta Muhammad e colui che avrebbe unito i musulmani e dato nuovi impulsi all’islam. Gli Ahmadiyya credono che la persona profetizzata per fare ritornare l’islam alla sua bellezza originaria è già venuta, ed è Mirza Ghulam Ahmad, che nacque in Qaidan, un piccolo villaggio nel Nord dell’India, nel 1835. Ahmad morì a Lahore, nell’attuale Pakistan, nel 1908. Nella sua vita ha predicato l’islam nella sua versione più pura [ebbe la sua rivelazione nel 1876], come religione di pace, tolleranza e perdono, e denunciando la violenza e il fanatismo come antitetici all’islam. Fu autore di molte opere. Alcuni membri del movimento Ahmadiyya hanno denunciato le leggi sulla blasfemia in Pakistan. Oltre a motivazioni giuridiche, ci sono anche ragioni religiose per opporsi a tali leggi? Noi crediamo che Dio ha diviso i nostri doveri in due: doveri verso Allah e doveri verso gli altri esseri umani; dobbiamo adempierli entrambi. Nonostante ciò, c’è un’importante differenza tra i due. Per quanto riguarda i nostri doveri verso Dio, solo Lui può punire o ricompensare colui che compie o non compie i suoi doveri verso di Lui. Per esempio, se uno non prega, noi umani non possiamo punirlo per questo, perché la preghiera è un dovere verso Allah. Solo Dio può punire o perdonare tale persona. Altri doveri che noi abbiamo verso Allah sono la protezione del Corano e l’onorare tutti i profeti. Se Dio avesse voluto che noi punissimo chi si comporta in modo blasfemo o è colpevole d’apo- i servizi dicembre 2011 confronti Ahmadiyya. «Diversamente» musulmani stasia, l’avrebbe detto chiaramente. Tali punizioni, però, non ci sono nel Corano. La blasfemia, il disonorare il Profeta e la mancanza di rispetto verso il Corano sono atti talmente orrendi che, noi pensiamo, solo Dio può punirli; non spetta all’uomo o allo Stato. Questo ragionamento è sancito dall’esempio di Muhammad. Nel Corano Dio dice chiaramente al Profeta che quando qualcuno lo insulta, lui deve lasciarlo nelle mani di Dio, cosi che sia l’Eterno ad amministrare la giustizia. Il profeta fu perseguitato, calunniato e disonorato, però non si protesse emanando leggi che punivano i blasfemi; e chiese ai suoi discepoli di fare altrettanto. Alla luce di questo, crediamo che nessun governo abbia il diritto di emanare leggi sulla blasfemia; il blasfemo dovrà vedersela con Dio. Certo, siamo consci che i governi debbono promuovere leggi che sostengano la fratellanza, la pace, il benessere e la tolleranza, così che gli aderenti ad un credo non minaccino quelli che hanno idee diverse. Ma non sta ai governi punire i blasfemi. I regimi succedutisi ad Islamabad negli ultimi decenni hanno varato una serie crescente di leggi – tra esse, quella sulla blasfemia – miranti in particolare ad emarginare, o punire, gli Ahmadiyya che, in Pakistan, sono circa tre milioni, mentre altri sette sono sparsi in circa duecento altri Paesi. Quindi un governo che emana leggi su temi come blasfemia e apostasia pecca contro Dio perché abusa del suo ruolo? Sì, certamente. La blasfemia e l’apostasia sono colpe gravissime, però verso Allah, e solo Lui può punirle; nessuno può usurparGli tale diritto. Anche in India le leggi sulla blasfemia non erano parte della giurisprudenza islamica quando l’islam si insediò nel sub-continente, durante il periodo dei Moghul [1526-1857]. Le leggi sulla blasfemia furono emanate dai britannici nel 1927, in un periodo storico di grandi tensioni tra indù, musulmani ed altri gruppi. Già nel 1974, ad Islamabad il presidente Zulfikar Ali Bhutto dichiarò come non musulmani gli aderenti al movimento Ahmadiyya; le sue leggi, poi, furono integrate nella Costituzione del Pakistan e, nel 1984, inasprite dal generale Zia-ul-Haq, che aggiunse nuove clausole sulla bestemmia, alcune delle quali erano dirette contro gli aderenti ad Ahmadiyya. Visto che il movimento Ahmadiyya era ancora attivo, che i suoi membri pregavano, gestivano moschee, recitavano il Corano, e facevano altre cose che i musulmani devono fare, Zia-ul-Haq intensificò la persecuzione. Ciò rese difficile la vita a molti aderenti del movimento Ahmadiyya, così che nel 1984, il khalifa, cioè il capo supremo della comunità, dovette lasciare il Pakistan, dove non poteva più pregare o predicare, e si trasferì a Londra, dove risiede tuttora. ti del Corano e all’esempio del profeta, io li accetterei volentieri. Quando il profeta fu costretto a lasciare la Mecca e ad andare a Medina, e divenne il governatore di questa città, resse una popolazione che comprendeva anche cristiani, ebrei e hanifi (arabi che praticavano una forma di monoteismo). In tal contesto cercò sempre di stabilire rapporti di armonia, pace e comprensione tra questi gruppi diversi. L’islam è contrario allo sfruttamento dell’uomo, e promuove l’equa distribuzione dei beni, così come i diritti dei lavoratori. Un hadit (un detto) attribuito al Profeta ordina ai padroni di «dare al lavoratore il suo salario prima che il sudore del suo lavoro si asciughi». Sfortunatamente, questa è una cosa che non succede in molti Paesi islamici, compresi alcuni che sono molto ricchi in termini di risorse naturali. Non c’è una vera distribuzione di ricchezza. Se ci fosse, non ci sarebbe tanta povertà in questi Paesi; non ci sarebbero bambini che fanno lavori pesanti per avere un pezzo di pane. Preferisco un modello laico a tali stati. Adottare semplicemente un modello laico, però, non rappresenta una formula magica per risolvere la loro situazione. Ci sono infatti paesi musulmani che hanno ordinamenti laici, come il Bangladesh ad esempio, eppure hanno molti problemi. Quindi, più che di ideologie o ordinamenti ufficiali, proporrei stati che governino la società in sintonia con alcuni princìpi; princìpi di pace, tolleranza, armonia e giustizia sociale. Se tali stati si chiamano laici, islamici o altro, non è tanto importante. Come viene nominato il khalifa del movimento Ahmadiyya? Attualmente, la Jammat (comunità) Ahmadiyya è stabilita in 198 Paesi. In ogni Paese, la comunità o le comunità sono presiedute da un amir, una sorta di presidente nazionale. Ogni comunità regionale o sezione (in Germania ce ne sono 216), è diretta da un capo che è eletto dai membri. Questi capi locali si riuniscono nella Shura nazionale, una specie di parlamento, discutono e prendono decisioni. Fra queste decisioni c’è l’elezione dell’amir, quando l’amir in carica muore. Come si può vedere, è un sistema molto democratico. Nessuno raccomanda chi deve essere eletto o chi deve succedergli. L’amir è eletto liberamente da tutti i membri. Anche a livello mondiale la carica di khalifa non è ereditaria, perché egli viene eletto da questi amir. Quando un khalifa muore, gli amir da tutto il mondo si incontrano ed eleggono colui che a loro parere è la persona spiritualmente più adatta al ruolo; colui che ha più conoscenza dell’islam e del Corano. Noi crediamo che in tale elezione ci sia la mano di Allah, che guida le menti nello scegliere la persona adatta. Lei preferisce una democrazia laica a tanti Stati che si auto-definiscono islamici e che applicano leggi come quelle su blasfemia e apostasia? Io non sono contro la democrazia laica. Non considero tale ordinamento politico come una cosa negativa. Però se gli Stati islamici aderissero agli insegnamen- (intervista a cura di Michael Grech) 25 INCONTRI/DE BENEDETTI Cristiano la domenica, ebreo tutti gli altri giorni Piera Egidi Bouchard Il teologo e biblista Paolo De Benedetti ha insegnato Giudaismo e Antico Testamento e ha avuto anche un lungo impegno nel campo dell’editoria. Persona di grande cultura e senso dell’umorismo, accanto all’approfondimento della sua fede cristiana ha posto anche un progressivo recupero della sua identità ebraica. P aolo De Benedetti ci riceve con la sorella Maria, che da sempre condivide con lui la vita, nella sua casa tutta bianca tra le verdi colline dell’astigiano, immersa in un giardino fiorito. Quando gli spiego l’impianto dialogico di questi «Incontri», mi dice: «Per me è fondamentale l’incontro, perché si è in due, e anche il fatto che mi si facciano delle domande, perché le domande fanno nascere le idee». E mi racconta una storia rabbinica dell’epoca del Talmud: c’erano due maestri che stavano in due paesi diversi della Babilonia, e uno voleva consultare l’altro, per cui gli mandò 30 cammelli carichi di domande: «Io dico: chissà quanti cammelli carichi di risposte ha ricevuto!», commenta con humour . «Il primo che è stato a fare una domanda è Dio: “Adamo, dove sei?”: il nostro rapporto con Dio è di domande reciproche. Ci sono delle parole-chiave nel nostro rapporto con Dio: “Dove sei?” e la risposta “Eccomi”, ambedue reciproche. Un cristiano potrebbe dire che il massimo “Eccomi” di Dio è Gesù Cristo. È importante in ogni situazione essere in due – argomenta – nella fede ebraica il due è fondamentale: l’uno è Dio, poi tutto è due: cielo e terra, asciutto e acqua nella creazione, e anche nella storia d’Israele, Esaù e Giacobbe, ad esempio, e molti altri casi. Nel Deuteronomio si insiste: “Scegli!”, e questo vuol dire che ci sono due possibilità. “Altre interpretazioni” è una formula ebraica, non bisogna mai pretendere di averne una sola: tutti quelli che pensano di arrivare a un’unica cosa, secondo me sono in errore, anche in teologia». De Benedetti appartiene a un’antica famiglia ebraica sefardita, originaria della Catalogna. «Siamo astigiani da 500 anni», dice. E poi mi condurrà a vedere le foto e i ritratti di famiglia: in particolare quello del prozio Isacco Artom, segretario di Cavour («Apriva l’ufficio alle 6 del mattino!») e di sua sorella Dolce, detta Dolcina («Nostra bisnonna che, dichiarata sterile dal medico, ebbe invece 15 figli!»). «Io mi occupo ancora della sinagoga, ora restaurata – mi dice – e quando c’è qualche visitatore vado ad aprirla. Mio nonno Israel era presidente della comunità, e aveva 26 sposato una non-ebrea. Così anche mio padre, che era un medico non credente allora, e che non ha voluto che noi alla nascita fossimo in qualche modo “collocati”. La mia mamma, cattolica – a cui devo la formazione religiosa – ci leggeva il Nuovo Testamento traducendolo dal francese, e io sono stato battezzato, cresimato e comunicato, a dieci anni, dal vescovo Umberto Rossi – di cui mio padre era il medico – che all’epoca delle persecuzioni razziali aveva aiutato gli ebrei e ospitato in vescovado i rotoli della sinagoga. La mamma quando ero molto piccolo si è ammalata di tubercolosi, ed è stata ricoverata per tanti mesi in sanatorio, a Davos, quello de La montagna incantata di Thomas Mann: ho ancora – ricorda con tenerezza – il volume che lei leggeva lì. Mia sorella Maria ed io eravamo stati affidati alla nonna paterna, e quando la mamma è tornata eravamo così attaccati tra di noi che siamo rimasti sempre insieme, non ci siamo poi sposati». Una caratteristica di Paolo De Benedetti che ti fa subito sentire amicizia per lui è, oltre alla sua estrema semplicità nella vasta cultura e al grande senso dell’umorismo – tipicamente ebraico – una profonda sensibilità e affettività, un atteggiamento di attenzione all’altro, che condivide con la sorella Maria, non a caso di professione psicologa. Il percorso di vita e di studi di De Benedetti è stato, insieme all’approfondimento della sua fede cristiana, anche un progressivo recupero della sua identità ebraica: «Io sono cristiano la domenica, e ebreo tutti gli altri giorni – sorride –; nell’infanzia sono stato vittima dell’“insegnamento del disprezzo”, per cui gli ebrei dovevano convertirsi; poi i tempi sono cambiati, anche se penso che bisogna sempre “tenere sotto controllo” le Chiese cristiane... Quelle protestanti meno, perché non c’è un’autorità unica», argomenta. È la filosofia dell’importanza del due come confronto, dialogo, incontro, che mi trova perfettamente consenziente. De Benedetti staresti ad ascoltarlo per ore: è una miniera di dotti racconti, di aneddoti, di arguzie. E a sua volta mi ricorda l’amicizia e il dialogo con tanti studiosi del mondo protestante (come Daniele Garrone, Alberto Soggin e Paolo Ricca), ma anche del mondo cattolico: Italo Mancini, Natale Bussi, Vincenzo Cavalla, Piero Rossano, a cui si deve la famosa definizione degli ebrei come «fratelli maggiori». «Don Pierino (lo chiamavamo così) era albese, eravamo tanto amici, quando è morto ho donato l’epistolario alla Fondazione a lui intitolata: non era un padre conciliare, perché non era vescovo o cardinale, ma la- i servizi dicembre 2011 confronti Incontri/De Benedetti. Cristiano la domenica, ebreo tutti gli altri giorni vorava in Vaticano, e quando Wojtyla doveva andare a visitare per la prima volta la Sinagoga, lo invitò a pranzo, e gli fece leggere il discorso che avrebbe fatto. La teologia bisognerebbe raccontarla incarnata nelle persone», osserva. E ricorda anche un giornalista italoisraeliano, Giorgio Romano, corrispondente in Israele per La Stampa: «Ci scrivevamo tutte le settimane, quando è morto ho donato migliaia di sue lettere al Centro di documentazione ebraica di Milano: mi ha aiutato a vivere nell’ebraismo contemporaneo; la conoscenza di quello classico me l’ero fatta da solo». De Benedetti ha insegnato Giudaismo e Antico Testamento alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e a quella di Firenze, all’Università di Urbino, e all’Istituto superiore di scienze religiose di Trento. Ma ha avuto anche un lungo impegno nel campo dell’editoria: per 17 anni alla Bompiani (dove è stato vicedirettore con Umberto Eco e Sergio Morando), e poi per 14 alla Garzanti. «Per la Bompiani fondai la collana “La ricerca religiosa”, una delle prime collane teologiche in Italia che non avevano l’imprimatur, e ho pubblicato Resistenza e resa e l’Etica di Bonhoeffer: ne sono fiero! Bonhoeffer lo tengo sempre sul comodino per leggerlo e meditarlo, sempre! – dice con passione. Ho pubblicato anche l’Introduzione alla teologia evangelica di Barth, la cui conoscenza devo a don Natale Bussi, cugino di Pavese, professore di teologia dogmatica al seminario di Alba, di cui mi considero discepolo». De Benedetti ha alle spalle studi sterminati: laureato in filosofia a Torino e specializzato in lingue orientali e in ebraismo, a Milano («attraverso lo studio linguistico ho progressivamente recuperato la mia identità ebraica», dice ), ha studiato con Giuseppe Invrea, presidente del tribunale di Asti, che aveva la passione per le lingue antiche: «Autore di una grammatica ebraica bellissima, che vorrei fosse ripubblicata, lui ha studiato il siriaco per insegnarmelo, e mi ha dato lezioni di babilonese, di aramaico; il sanscrito invece l’ho studiato da solo, ma oggi ho dimenticato tutto... L’ebraismo è una parte importante della mia identità e della mia professionalità: da un fatto puramente culturale sono passato a recuperare una identità storica e spirituale: pensi che nelle edizioni del Talmud, tra i commenti pubblicati, ci sono le note di un nostro antenato spagnolo, Salva- «Nel Deuteronomio si insiste: “Scegli!”, e questo vuol dire che ci sono due possibilità. “Altre interpretazioni” è una formula ebraica, non bisogna mai pretendere di averne una sola: tutti quelli che pensano di arrivare a un’unica cosa, secondo me sono in errore, anche in teologia». Awa Ly 27 dor Boniforti de Benedetti, e qui nel cimitero ebraico di Asti c’è più di un antenato con quel nome». Come hanno potuto coabitare in lei le due identità, quella ebraica e quella cristiana? – domando. «A prima vista sembrerebbero non poter coesistere – risponde – e invece Dio ha scelto la contiguità tra ebraismo e cristianesimo. Il due è fondamentale nella fede ebraica e questa coesistenza è un mistero: quando una discussione arriva a un punto morto, quando una domanda non ha risposta, nel Talmud si usa il termine «sospeso» (tejqu), acrostico che viene letto: Verrà Elia e risolverà tutte le difficoltà: quando saremo davanti a Dio, avremo la risposta a tutte le domande». Lei ha qualche rimprovero da farsi, o rimpianto? – domando ancora. «Ho il rimpianto di non aver studiato abbastanza tante cose – dice con umiltà – anche di aver abbandonato le lingue orientali. E anche di non aver imparato a usare il computer – sorride – ora, con questo tremito alle mani, non è più possibile: è ereditario, un fatto nervoso, il mio nonno Israel a 90 anni si mise a fare le aste su un quaderno, credendo di “guarire” con l’esercizio della calligrafia! Un’altra cosa ricavata dall’ebraismo è il riv, la “lite con Dio”, fonte in me di riflessioni senza fine, che mi ha portato a un pensiero un po’ osé: “Dio per meritarsi la nostra fede ha sentito il dovere di sperimentare in Gesù tutte le nostre sofferenze e dubbi fino alla disperazione del Getsemani”: in ebraico, quando si dicono queste cose, si fa una premessa di cautela: “se così si può dire”». C’è qualche scritto a cui è particolarmente affezionato? «Ho pubblicato il libretto Gatti in cielo: è quella che io chiamo la “teologia degli animali”: io ho fede piena nella resurrezione degli animali e delle piante: se tutto ciò che ha avuto vita dopo la morte non l’avesse di nuovo, bisognerebbe concludere che la morte è più potente di Dio. La mia cagnolina Pucchia mi ha aiutato con la sua fedeltà, amore e sofferenza a pensare Dio, e le ho dedicato il libro Quale Dio?». Un’ultima domanda: come potrebbe sintetizzare la sua regola di vita? «È nel detto di Rabbi Tarfon (Trifone Giudeo), che cito sovente – risponde con un ultimo sorriso –: “Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. È una regola di vita che vale addirittura per Gesù». dicembre 2011 • notizie n o t i z i e IMMIGRAZIONE Oltre la crisi, insieme. Presentato il XXI Dossier statistico Caritas/Migrantes. Sono quasi cinque milioni gli immigrati residenti in Italia. La critica situazione che l’Italia sta affrontando è il tema a cui è stato dedicato l’ultimo rapporto Caritas/Migrantes. In esso si ribadisce come l’immigrazione costituisca per il nostro Paese una risorsa demografica ed economica, in decrescita sin dagli anni Novanta senza l’afflusso di stranieri. In un Paese in cui gli anziani costituiscono più di un quarto della popolazione essenziali sono le cosidette badanti. Stando ai dati del Censis, dopo la regolarizzazione del 2009, un decimo delle famiglie italiane ha assunto un collaboratore domestico straniero (in maggioranza donne). Gli immigrati regolarmente residenti in Italia sono 4.570.317 (7,5% della popolazione totale), di cui il 51,8% sono donne. A questa cifra bisogna aggiungere però circa 400mila residenti non iscritti all’anagrafe. Nell’ultimo anno l’aumento è stato di 335.258 persone al netto delle oltre 100mila cancellazioni dall’anagrafe e dei 66mila casi di acquisizione di cittadinanza; a queste vanno aggiunte le 400mila che non sono ancora registrate all’anagrafe. I residenti di origine straniera costituiscono il 10% sul totale dei minori in Italia; non costituiscono invece nemmeno l’1% degli anziani, rappresentando un freno all’invecchiamento del Paese. Nelle scuole italiane il numero degli alunni stranieri cresce costantemente: i 709.826 alunni registrati nell’anno scolastico 2010/2011 sono il 5,4% in più rispetto all’anno precedente e rappresentano il 7,9% del totale. Tra ARMI loro circa 300mila sono nati in Italia e costituiscono il 42,2% degli studenti di altra cittadinanza. Più della metà degli immigrati è di fede cristiana (circa 2,5 milioni): 1,4 milioni sono ortodossi, 876mila cattolici, 204mila protestanti e 33mila appartenenti ad altre confessioni cristiane. I musulmani sono 1,5 milioni (32,9%), gli induisti 120mila (2,6%), i buddhisti 89mila (1,9%), gli appartenenti ad altre religioni orientali 61 mila, coloro che praticano religioni tradizionali, per lo più africane, sono 46mila, gli ebrei 7 mila e 83mila professano religioni non prese in considerazione nella stima. «La dimensione multiculturale è una constatazione di fatto», si legge nel Dossier, e i lavoratori stranieri (circa 2milioni), un decimo dell’intera forza lavoro, versano più di 7 miliardi annui di contributi previdenziali. Per superare la crisi, per il bene comune bisogna opporsi alla politica restrittiva e ai pregiudizi ancora presenti tra i cittadini diffondendo anche dati concreti, per arrivare a riconoscere agli stranieri residenti non solo meriti, ma anche diritti. Monica Di Pietro «Trasferimenti di armi in Medio Oriente e Africa del Nord: le lezioni per un efficace Trattato sul commercio di armi». Secondo il rapporto di Amnesty international, molti Paesi (tra cui l’Italia) hanno fornito grandi quantità di armi a regimi repressivi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord. Nel rapporto intitolato «Trasferimenti di armi in Medio Oriente e Africa del Nord: le lezioni per un efficace Trattato sul commercio di armi», Amnesty international richiama di nuovo l’attenzione sul fiorente mercato delle armi, che ha tra i protagonisti anche l’Italia. Secondo Amnesty, «Stati Uniti, Russia ed altri Paesi europei hanno fornito grandi quantità di armi a governi repressivi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord prima delle rivolte di quest’anno, pur avendo le prove del rischio che quelle forniture avrebbero potuto essere usate per compiere gravi violazioni dei diritti umani». Dal rapporto, che fa il punto sui rifornimenti ai governi medio- Charming Chattes 28 rientali e nordafricani dal 2005 ad oggi, risulta che Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia e Stati Uniti siano tra i principali fornitori; con un primato per il nostro Paese: quello di esportare verso tutte le nazioni oggetto dello studio (Bahrain, Egitto, Libia, Siria e Yemen). Lo Yemen, dove nel corso di quest’anno hanno perso la vita centinaia di manifestanti, avrebbe beneficiato dell’assistenza militare e delle autorizzazioni alle esportazioni di armi, munizioni e relativo equipaggiamento di 11 Paesi (tra i quali Bulgaria, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia, Stati Uniti d’America, Turchia e Ucraina). Per quanto riguarda la Siria, considerato il fatto che non tutti i Paesi riferiscono ufficialmente sui trasferimenti al governo di Damasco, sono state riscontrate maggiori difficoltà nella raccolta delle informazioni. Ben noto il primato della Russia, che destina a questo Paese circa il 10 per cento di tutte le sue esportazioni. Ritroviamo anche l’India, che è tra coloro che avrebbero autoriz- dicembre 2011 • notizie zato la fornitura di veicoli blindati, e la Francia, che tra il 2005 e il 2009 avrebbe venduto munizioni. A partire dal 2005 anche il governo libico del colonnello Gheddafi, da molto tempo noto per le violazioni dei diritti umani di cui si era macchiato, avrebbe goduto del sostegno di diversi stati; nello specifico, tra i 10 individuati, ci sarebbero Belgio, Francia, Germania,Italia, Regno Unito, Russia e Spagna. Helen Hughes, principale ricercatrice del rapporto, sottolinea: «Le nostre conclusioni mettono in evidenza il profondo fallimento degli attuali controlli sulle esportazioni di armi, con tutte le scappatoie esistenti, e sottolineano quanto occorra un efficace Trattato sul commercio di armi che tenga in piena considerazione la necessità di difendere i diritti umani». Stefania Sarallo AMBIENTE La classifica di Greenpeace dei principali produttori di cellulari, televisori e computer in base al rispetto dell’ambiente. In testa la Hp e Dell. Maglia nera per Rim, Toshiba e Lge. Quante volte abbiamo sentito dire che «oggi le cose si rompono subito, non durano più come una volta»? Dietro quello che sembra un banale luogo comune, si nasconde – come spesso accade – una verità semplice: le aziende sono orientate sempre più verso prodotti «usa e getta», perché sanno che così possono moltiplicare i profitti. Il problema è che così si moltiplicano anche i rifiuti e, parallelamente, la difficoltà di smaltirli in modo ecologicamente sostenibile. Di recente Greenpeace ha aggiornato l’eco-guida ai prodotti elettronici, ossia la classifica dei principali produttori di cellulari, televisori e computer in base ai loro impegni (ma naturalmente anche a quanto poi riescono a mantenerli) su riduzione dell’impatto ambientale, creazione di prodotti più eco-sostenibili e so- stenibilità della filiera produttiva. L’intento è quello di indurre le aziende a ridurre le emissioni di gas serra grazie a una maggiore efficienza energetica, privilegiando le energie rinnovabili. Perché i prodotti siano considerati «ecologicamente corretti», occorre non solo che durino di più, ma anche che siano privi di sostanze chimiche pericolose. L’impatto sull’ambiente – sottolinea Greenpeace – deve essere ridotto durante tutto il processo produttivo, «dalle materie prime e l’energia utilizzate fino ai programmi di ritiro dei prodotti a fine vita». La scala di misurazione adottata va da 0 a 10, dove il punteggio massimo corrisponde a un impatto ambientale nullo. È per questo che la più «virtuosa» delle aziende monitorate, la HewlettPackard (Hp), non raggiunge neanche 6 decimi, fermandosi a 5,9. In un panorama desolante, però, questo livello già basta per attestarsi in cima alla classifica, soprattutto perché Hp ha il miglior programma per misurare e ridurre le emissioni di gas serra dei propri fornitori. Inoltre, Hp e Dell (che segue nella classifica, con 5,1 punti) sono le uniche compagnie nella guida che escludono l’acquisto di carta da fornitori legati a fenomeni di deforestazione illegale. Insieme ad Apple (quarta in classifica, con 4,6 punti), Hp ottiene il massimo punteggio anche perché rifiuta l’approvvigionamento di minerali da zone di guerra, indicando la lista dei propri fornitori. Al terzo posto della classifica troviamo Nokia, con un punteggio di 4,9 decimi. Dal 2008 l’azienda finlandese si era attestata al primo posto, ma quest’anno ha perso posizioni a causa delle prestazioni più scarse rispetto ai criteri di energia. Nokia deve sviluppare maggiormente il proprio piano di energia elettrica pulita e dimostrare come intende ridurre di almeno il 30% entro il 2015 le proprie emissioni di gas serra attraverso l’uso di energie rinnovabili e risparmio energetico. Dopo la Apple, che come già visto si colloca al quarto posto, troviamo Philips (4,5 punti), Sony Ericsson (4,2), Samsung (4,1), Lenovo (3,8), Panasonic (3,6) e poi giù verso le ultime tre della classifica: Lge e Toshiba (entrambe a 2,8 punti) e Research in motion (Rim), a soli 1,6 decimi. L’azienda canadese non fa certificare da un ente esterno le proprie emissioni di gas serra e non ha ancora fissato alcun obiettivo di riduzione dei gas serra. Inoltre, Rim rischia di avere un punto di penalità nella prossima edizione della guida poiché è membro di un’associazione di categoria che ha fatto dichiarazioni contro rigidi standard di efficienza energetica: una posizione da cui Rim – avverte Greenpeace – deve prendere pubblicamente le distanze. Stefania Sarallo DIRITTI UMANI Benvenuti nel paradiso della censura. La campagna di Reporters sans frontières per sensibilizzare sui crimini legati alla repressione della libertà di stampa. La piramide maya di Chichen Itza nello Yucatan, le colline verdi terrazzate del Vietnam e una spiaggia thailandese di quelle «sabbia bianca finissima e mare azzurro incontaminato per una vacanza da sogno», come dicono le guide turistiche. Foto spettacolari di paesaggi meravigliosi accompagnate però da slogan che volutamente stonano, colpendo allo stomaco: «Fuck democracy, book a vacation in Thailand. Fuck human rights: book a vacation in Vietnam. Fuck freedom of speech: book a vacation in Mexico». Così la campagna di Reporters sans frontières (Rsf) che tenta di sensibilizzare sui crimini legati alla repressione della libertà di stampa. Perché in questi, come in molti altri Paesi del mondo, non solo i giornalisti non possono esprimere liberamente le proprie idee o pubblicare articoli sgraditi al governo, ma spesso vengono imprigionati, torturati e in certi casi addirittura uccisi perché non accettano di piegarsi alla censura. «Non chiudete un 29 occhio sulla censura: scoprite il dietro le quinte delle vostre prossime vacanze», recita l’appello finale della campagna, invitando quindi a «non fregarsene». In Thailandia – Paese che si trova al 158mo posto, su 178, della classifica mondiale di Rsf sulla libertà di stampa – per i giornalisti c’è un argomento tabu, il re e la famiglia reale, su cui non si può assolutamente esprimere un parere che non sia men che rispettoso. Il reato di lesa maestà, che nonostante le promesse non è stato ancora abolito, viene quindi utilizzato come strumento di controllo politico e di intimidazione nei confronti degli operatori dell’informazione. Per quanto riguarda il Messico (136mo posto nella classifica della libertà di stampa), Rsf spiega come esso sia il più pericoloso del continente americano per quanto riguarda l’incolumità dei giornalisti, soprattutto per la presenza dei cartelli della droga e la corruzione delle autorità, che spesso per complicità o negligenza finiscono per garantire l’impunità nei confronti di crimini compiuti contro i professionisti dei media. Il bilancio dal 2000 a oggi è molto pesante: 80 giornalisti assassinati e 14 scomparsi. In Vietnam (qui scendiamo al 165mo posto della classifica), il regime sta aumentando la censura e i controlli su Internet. In questo momento sono 19 i cyberdissidenti detenuti in condizioni particolarmente severe nelle prigioni del Paese, dove i diritti umani sono sistematicamente violati. Il Partito comunista controlla tutti i mezzi di informazione, per cui in Vietnam non esistono voci veramente indipendenti. Propaganda contro lo Stato, diffamazione contro il partito, attentato alla sicurezza nazionale: questi capi di imputazione vengono regolarmente utilizzati dalle autorità per intimidire e reprimere i dissidenti. Unica nota positiva per la libertà di opinione: sta prendendo piede il sito internet VietnamNet, che a volte riesce a sollevare delle questioni scomode e imbarazzanti per il regime. Adriano Gizzi dicembre 2011 • notizie VALDESI Riformati americani in visita in Italia. Apprezzato l’impegno della Chiesa valdese sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione. Tom DeVries è il neo segretario generale della Chiesa riformata d’America (Rca), una delle denominazioni di matrice calvinista che compongono il grande mosaico del protestantesimo storico degli Stati Uniti. Dal 3 all’8 novembre, insieme al pastore Duncan Hanson responsabile della Rca per i rapporti con l’Europa, alla moglie Laura e al professor Brad Lewis, presidente dell’American waldensian society, ha visitato chiese, istituzioni ed opere sociali valdesi e metodiste: la casa di seconda accoglienza di Verbania, le chiese valdesi di Como e di Verona, il Centro culturale valdese di Torre Pellice (To). Infine a Roma ha incontrato la pastora Maria Bonafede, moderatora della Tavola valdese, e il presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. «Alla fine del viaggio posso dire che siamo rimasti molto impressionati dell’impegno che la Chiesa valdese dimostra sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione. In particolare è stata molto significativa la visita ad alcune chiese multietniche. Assolutamente emozionante è stato per me predicare nella chiesa di Como, in cui la componente ghanese è molto rilevante, e sentirmi accolto in quella realtà. Questa esperienza mi ha fatto comprendere l’importanza di un progetto come “Essere chiesa insieme”, che lavora in profondità per l’integrazione e l’accoglienza dello straniero. Penso davvero che questi siano temi che anche noi in America dovremmo sviluppare in modo simile. Tutto ciò che sto vedendo qui in Italia mi ispira e penso che sia molto importante trarre insegnamenti dall’esperienza della Chiesa valdese in Italia, così impegnata nel sociale. L’esempio della chiesa valdese italiana è un tassello importante per affermare che le diverse esperienze delle chiese nel mondo sono importanti per vedere quanti siano i modi di esprimere la Parola di Dio». Questo apprezzamento è stato espresso nell’incontro con la pastora Maria Bonafede, che per parte sua ha sottolineato come negli anni, «anche grazie all’incessante lavoro dell’American waldensian society, si siano consolidati i rapporti tra l’Italia varie chiese statunitensi, quella presbiteriana e quella riformata in particolare». L’incontro in Vaticano si è svolto in un clima amichevole anche se condizionato da una fase dei rapporti ecumenici non particolarmente creativa e ricca di occasioni di incontro e scambio. «È chiaro – ha commentato il pastore Duncan Hanson – che il dialogo ecumenico con le chiese riformate non è una priorità della Chiesa cattolica, ma per motivi che posso comprendere e, in un certo senso, condividere. Sono convinto, infatti, che ogni Chiesa necessiti di essere consolidata al suo interno. Questa è un’esigenza che sentiamo pressante anche nella Chiesa riformata americana; tuttavia riteniamo che il dialogo ecumenico ed interreligioso faccia parte di quella spinta verso l’esterno che noi auspichiamo e per cui lavoriamo incessantemente. In America il dialogo con i cattolici è molto vivace, forse facilitato dalla presenza di una grande percentuale di protestanti, e non si limita alle parole, ma alla condivisione di molteplici iniziative, in particolare rivolte nella battaglia contro il razzismo e la povertà e a favore dell’evangelizzazione”. Michele Lipori/chiesavaldese.org SOCIETÀ Da una ricerca di Cittadinanzattiva sugli asili nido nel nostro Paese, emerge che il costo è in media di oltre 300 euro al mese. Quanto costa in Italia mandare il proprio figlio all’asilo nido comunale? A questa domanda ha voluto dare una risposta Cit- Barbara Eramo 30 tadinanzattiva, scoprendo che il costo è di 302 euro al mese. Questo significa che per 10 mesi di utilizzo una famiglia spende più di tremila euro. Al Nord le città più care e in media il 25% dei bimbi non riesce ad accedere. Iniziamo con il confronto della retta mensile: se a Catanzaro si spendono 80 euro, a Lecco sei volte di più (537 euro), poco meno del doppio a Roma (146) e quasi il triplo a Milano (232). L’analisi, svolta dall’Osservatorio prezzi & tariffe di Cittadinanzattiva, ha considerato una famiglia tipo di tre persone (genitori e figlio 0-3 anni) con reddito lordo annuo di 44.200 euro e relativo Isee di 19.900. I dati sulle rette sono elaborati a partire da fonti ufficiali, calcolando un servizio di asilo nido comunale per la frequenza a tempo pieno (9 ore circa al giorno) e, dove non presente, a tempo ridotto (6 ore al giorno), per cinque giorni. Dal 2005 ad oggi le tariffe sono aumentate in media del 4,8%. Nel 2010/2011 sono 26 le città che hanno ritoccato le rette e in cinque capoluoghi si registrano incrementi a due cifre: Foggia (+54,6%), Alessandria (+24,3%), Siracusa (+20%), Caserta (+19,5%), Catanzaro (+19,4%). Per quanto riguarda le liste di attesa vi rimangono ben il 25% dei richiedenti, con punte in Sicilia del 42% e in Toscana ed in Puglia del 33%. Secondo il Ministero dell’Interno (dati 2009), la regione con il numero più elevato di nidi è la Lombardia, con 660 strutture pubbliche e più di 29mila posti disponibili, seguita da Emilia Romagna (593 nidi e quasi 25mila posti) e Toscana (456 nidi e 15.600 posti), ultima il Molise con soli sei asili per 300 posti disponibili. A quarant’anni esatti dalla legge 1044/1971, che istituì gli asili nido comunali, in Italia se ne contano 3.424 (a fronte dei 3.800 asili pubblici previsti già per il 1976), un numero insufficiente benché in crescita rispetto ai 3.184 registrati nel 2007. Di essi, il 44% è concentrato nei capo- dicembre 2011 • notizie Giorgio Zanchini, conduce «Tutta la città ne parla» su RaiRadio3 luoghi, per complessivi 141.210 posti disponibili (circa la metà presso città capoluogo). Infatti solo nel 18% dei Comuni italiani sono presenti strutture, nel loro insieme il 60% è concentrato nelle regioni settentrionali, il 27% al Centro e solo il restante 13% al Sud. L’obiettivo comunitario fissa al 33% la copertura del servizio; il dato si ottiene confrontando i posti disponibili e l’utenza potenziale (numero di bimbi di età 0-3 anni). In media in Italia la copertura è del 6,2% (per i soli capoluoghi di provincia è l’11,7%) con punte del 15,7% (Emilia Romagna) e dell’1% in Calabria e Campania. Negli altri Paesi europei: Danimarca, Svezia e Islanda hanno una copertura del 50% dei bambini di età inferiore ai tre anni, seguiti da Finlandia, Paesi Bassi, Francia, Slovenia, Belgio, Regno Unito e Portogallo (con valori tra il 25 e il 50%). Percentuali comprese tra il 10 e il 25% si registrano, oltre che nel nostro Paese, in Lituania, Spagna, Irlanda, Austria, Ungheria e Germania. L’indagine completa è on line su www.cittadinanzattiva.it. Cristina Zanazzo SPIRITUALITÀ in avanti entro le profondità dell’oceano della consapevolezza mentale» fino a diventare maestro realizzato. Padre Anthony si è nutrito di un profondo amore per lo studio e la conoscenza che si sono trasmutati nella ricerca di Dio e della Verità portandolo dal cattolicesimo romano all’«ecumenismo cosmico», che sintetizza il suo messaggio ed è il titolo del libro in cui ha raccolto 60 anni di confessioni e rivelazioni. Tale ideale è basato sul sentiero dell’autoconoscenza, che induce la purificazione dei cinque sensi, del cuore e della mente, e conduce all’autorealizzazione ove la volontà dell’uomo coincide con quella di Dio e la mente dell’uomo si unisce a Dio diventando uno con l’Oceano dell’Esistenza, della Consapevolezza e della Beatitudine (Sat-CitAnanda). I mezzi più sublimi per avanzare su questo cammino di scoperta della propria vera identità, fonte di gioia, sono la meditazione giornaliera e l’esame di coscienza continuo, come indicato nelle «religioni psicologiche del Vedanta, dello Yoga e della filosofia indo-buddhista» che insegnano attraverso il metodo di Buddha: «Convincetevi dopo Dal cattolicesimo romano all’«ecumenismo cosmico». La scomparsa di padre Anthony Elenjimittam. Padre Anthony Elenjimittam ha lasciato «lo spesso cappotto del corpo fisico» e questo mondo il 5 ottobre 2011 da Torino con un sereno mahasamadhi (ritorno definitivo alla Coscienza cosmica) dopo l’ennesimo incontro di insegnamenti e meditazione. Ha trascorso con noi 96 anni rocamboleschi, di viaggi, esperienze ed esperimenti nei monasteri e nel mondo: seminarista in Kerala, studente e sacerdote a Roma, frate domenicano sospettato di eresia, operaio di fabbrica a Cambridge, giornalista e attivista politico a Calcutta, dal 1946 discepolo spirituale e politico di Gandhi (di cui ha scritto la biografia Mahatma Gandhi. Il profeta dell’età dell’acquario), monaco volitivo e arreso al divino nell’Assisi di Francesco (su cui ha scritto un libro intitolato Lo yogi dell’amore cosmico), dove ha vissuto gli ultimi 30 anni, e in ogni dove «intrepidamente, continuamente, pazientemente, devotamente e castamente proteso 31 averne fatto l’esperienza». Il «prezzo del biglietto» è la rinuncia al proprio ego, origine di desideri e attaccamenti sensoriali e mondani. Spirito libero, mente aperta e cuore compassionevole, padre Anthony si è sottratto alla rigida ortodossia della Chiesa cattolica fondata sull’ipse dixit dell’autorità esterna e ha abbracciato tutti gli insegnamenti mistici lasciandoci il lodevole esempio della sua pratica della religione come «amore di Dio» espresso nel servizio all’uomo, il suo instancabile operare fino all’ultimo respiro per «gli aspiranti che cercano un po’ di Luce», il suo sorriso di fanciullo, gli occhi socchiusi nell’estasi, oltre 40 libri, 80 anni di conferenze, discorsi e articoli, la Missione Sat Cit Ananda in Europa, la Welfare Society for Destituite Children a Mumbai e tanti discepoli in Italia, in Europa e in India (www.padreanthony.org). Come profondo credente nel «Karma Yoga», il suo passaggio sulla Terra è stato contemplativo e attivo e ha diffuso la luce del «Logos incarnatosi in Cristo, fattosi illuminazione nel Buddha e musica nel flauto di Krishna». Maria Rosaria Giordano le rubriche dicembre 2011 confronti SPIGOLATURE D’EUROPA Rajoy guida la Spagna del dopo Zapatero Adriano Gizzi Archiviata la stagione politica dello «zapaterismo», la Spagna si trova ora ad affrontare una crisi economica pesantissima. Come ampiamente previsto, le elezioni del 20 novembre hanno dato la maggioranza assoluta in Parlamento ai popolari di Rajoy, infliggendo una sconfitta storica ai socialisti. Un’occhiata anche oltremanica, dove il liberaldemocratico Clegg tenta di frenare la precipitosa corsa verso il baratro del suo partito. redazioneconfronti @yahoo.it L a vittoria del Partito popolare di Mariano Rajoy in Spagna ha cominciato a essere una non-notizia già da quando a luglio Zapatero aveva deciso di annunciare il suo ritiro e le elezioni anticipate. Per anni il premier spagnolo è stato un vero e proprio idolo per molti elettori di sinistra degli altri Paesi europei, soprattutto in quello dove la presenza del Vaticano si fa sentire di più. Molti ricorderanno la parodia di Maurizio Crozza che, sulle note di Bamboleo dei Gipsy Kings e in uno spagnolo maccheronico, cantava «Zapatero, Zapatera... el un per ciento de tu carisma me serve aqui! Zapatero, Zapatera, y las primarias no me servivan si c’eri ti». Ma alla fine il declino, dovuto soprattutto all’incapacità di gestire la crisi economica, è giunto anche per l’«eroe» della Spagna moderna, cosmopolita e laica. E così Zapatero aveva deciso di fissare le elezioni anticipate per il 20 novembre, proprio il giorno del 36mo anniversario della morte del dittatore Francisco Franco. A proposito di questa data, El Pais è andato a scovare una storiella curiosa, quella di una vecchina di 107 anni, Felisa Bravo, con «una vita segnata dal 20 novembre»: il giorno (ovviamente di anni diversi) in cui nacque, quello in cui votò nelle prime elezioni dove potevano farlo le donne (l’anno era il 1933, ma la data precisa era il 19 novembre: qui il quotidiano spagnolo ha «arrotondato» di un giorno), quello in cui morì suo marito e infine quello in cui morì il suo odiato nemico Franco. Il nuovo premier spagnolo, in quel 1975, aveva solo vent’anni. Poco dopo la caduta del regime aderirà ad Alleanza popolare, una formazione post-franchista fondata da Manuel Fraga Iribarne, ministro di Franco ma poi anche leader della destra nella Spagna democratica. Sarà per l’aria poco carismatica o forse per la barba, che gli dà un aspetto perdente e quasi «di sinistra», ma Rajoy non sembra proprio intenzionato a instaurare un regime reazionario. Né a smantellare completamente tutte le leggi introdotte dal suo predecessore, al di là di qualche modifica annunciata in campagna elettorale. Come quasi sempre accade nelle elezioni, anche con risultati schiaccianti come in questo caso (44,6% ai popolari, solo il 28,7% per i socialisti di Alfredo Rubalcaba), non è tanto il partito vincente ad aver guadagnato voti (solo 500mila in più rispetto alle ultime elezioni), quanto il perdente a subire un’emorragia. Sono oltre quattro milioni i voti persi il 20 novembre dal Psoe e solo una parte di questi sono rimasti a sinistra, premiando l’Izquierda unida (che ha quasi raddoppiato i suoi consensi, attestandosi intorno al 7%). Il risultato 32 finale ha visto, come è noto, una solida maggioranza assoluta di seggi per il Pp di Rajoy, che ha così «vinto» il privilegio di essere lui a imporre agli spagnoli la ricetta di sacrifici scritta dall’Unione europea. In Gran Bretagna, intanto, c’è chi le elezioni cerca di evitarle a tutti i costi. Si tratta dei liberaldemocratici del giovane Nick Clegg, sfortunato protagonista di un declino politico tra i più rapidi della storia (assieme a quello di altri due leader della famiglia liberale europea: il centrista François Bayrou in Francia e il liberale tedesco Guido Westerwelle). Nei sondaggi della campagna elettorale per le ultime elezioni britanniche del maggio 2010, la stella di Clegg brillava oltre il 30% e sembrava che i liberaldemocratici dovessero diventare il secondo partito, se non addirittura il primo, superando in un colpo solo laburisti e conservatori. Poi Clegg ha cominciato a perdere consensi e il giorno del voto si è dovuto accontentare di un magro 23%, addirittura perdendo cinque seggi. Ma siccome i conservatori di David Cameron non avevano ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, Clegg decise di entrare con loro in un governo di coalizione. Evento così insolito per la politica britannica (l’ultima coalizione era quella di Churchill durante la seconda guerra mondiale) da indurre la regina Elisabetta, in un incontro con il nostro presidente della Repubblica Napolitano, a commentare quasi divertita: «Ma ha visto cosa ci è capitato?». Il partito di Clegg è precipitato ancora nei sondaggi – è dato ormai tra il 12 e il 14% – e allora, per evitare che Cameron possa convocare le elezioni anticipate all’improvviso (un potere che i premier britannici si riservano di esercitare ogni volta che gli fa comodo), i liberaldemocratici hanno imposto l’approvazione di una legge che fissa una data precisa per le elezioni: il primo giovedì di maggio, ogni cinque anni, a partire dal 2015. La nota agenzia di scommesse Betfair ha deciso quindi di restituire le puntate e annullare le scommesse su quale sarà la data delle prossime elezioni (non è assolutamente il quesito più bizzarro, in un Paese dove si scommette davvero su tutto), ma si è attirata le proteste di molti scommettitori e osservatori politici, che hanno obiettato: non è vero che la data è matematicamente certa, perché se il premier viene sfiduciato e non si trova un’alternativa (ipotesi non improbabile, in un governo di coalizione) o se due terzi della Camera dei Comuni lo richiede, si deve andare a elezioni anticipate. Ma non si accettano scommesse. le rubriche dicembre 2011 confronti CONVEGNO Il protestantesimo nell’Italia di oggi Gian Mario Gillio Il 22 novembre la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia è stata ricevuta al Quirinale per aprire – alla presenza di un attentissimo presidente della Repubblica – il convegno dal titolo «Il Protestantesimo nell’Italia di oggi». Il convegno è proseguito nel pomeriggio al Senato. Il resoconto si può leggere sul sito dell’agenzia Nev. direttoreconfronti @yahoo.it E’ stata una gran bella giornata quella del 22 novembre, quando la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) è stata ricevuta al Quirinale. L’occasione era quella di aprire, alla presenza del Capo dello Stato, il convegno dal titolo «Il Protestantesimo nell’Italia di oggi. Vocazione, testimonianza, presenza». Incontro dal sapore interconfessionale, quel giorno infatti erano stati invitati dalla Fcei anche alcuni rappresentanti delle diverse religioni che compongono il mosaico delle fedi presenti nel nostro Paese. Tra gli altri, Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Mariangela Falà dell’Unione buddhista italiana, Franco Di Maria dell’Unione induista italiana, oltre ai rappresentanti e ai presidenti delle chiese membro della Federazione evangelica (luterani, valdesi, metodisti, esercito della salvezza, battisti, comunione delle chiese libere, Chiesa apostolica italiana, la comunità evangelica di confessione elvetica di Trieste, la St. Andrew’s Church of Scotland) che insieme rappresentano una popolazione evangelica di circa 65mila persone, non poca cosa. A introdurre la giornata dei lavori al Quirinale è stato il presidente della Fcei, pastore Massimo Aquilante, che nel saluto rivolto al presidente Napolitano ha citato la campagna «L’Italia sono anch’io», della quale la Fcei è uno dei 19 enti promotori. Facendo riferimento alle due leggi di iniziativa popolare promosse dalla campagna – l’introduzione dello ius soli e del voto nelle consultazioni elettorali locali per gli immigrati – ricordando che una vera politica di integrazione è impensabile senza questi fondamentali diritti, Aquilante ha auspicato che «il Parlamento possa recepire le due proposte entro il termine della presente legislatura». Il presidente Napolitano intanto seguiva con vivo interesse appuntandosi stimoli e proposte ricevute, e così ha fatto anche per gli interventi successivi: la lezione della professoressa Elena Bein Ricco: «Lo Stato democratico laico – ha detto – non rimuove a priori le diversità dallo spazio pubblico, anzi le valorizza, promuovendo l’interazione tra fedi, valori, tradizioni differenti, ed è neutrale nel senso di garantire, come arbitro imparziale, che tutte le concezioni possano partecipare al dibattito, impedendo al tempo stesso che una prevarichi le altre». Lezione che anticipava l’ultima relazione, quella del filosofo Mario Miegge sul «patto sociale». Un percorso storico incentrato sull’emancipazione di valdesi ed ebrei – cioè il riconoscimento dei loro diritti civili – avvenuto nel Piemonte sabaudo nel 1848, una data simbolo del Risorgimento italiano. «Le chiese e comunità che fanno parte della Fcei – ha affermato Miegge nel suo discorso 33 – sono da sempre e prioritariamente impegnate nella lotta a favore della libertà religiosa, di coscienza e di culto. E intendono riaffermare il nesso inscindibile tra libertà religiosa e cittadinanza». A sorpresa, mentre Miegge incalza Napolitano con affettuosa complicità, il Capo dello Stato si rivolge al consigliere, il quale sussurra al cerimoniere che dà indicazioni alla lettrice. Un sussulto scuote la sala, forse il presidente della Repubblica prende la parola. Non era affatto scontato: la lettrice annuncia l’intervento di Napolitano: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. È un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani. Non viene riconosciuto loro un diritto fondamentale. I bambini hanno questa aspirazione». Napolitano apre poi – prendendo spunto da un’affermazione di Miegge – una riflessione sulla situazione politica nel nostro Paese con la nascita del governo Monti: «Non penso che il mare tempestoso in cui fino a ieri ci siamo mossi sia diventato una tavola: avremo ancora un mare incrinato, mosso, ma credo che ci siano le condizioni per una maggiore obiettività nel confronto tra gli schieramenti politici». Parole importanti quelle di Napolitano, che accendono i riflettori sulla giornata. Agenzie, prime pagine web di tutti i quotidiani, i Tg danno la notizia come seconda per importanza dopo la visita di Monti a Bruxelles. Un «ma» e un rammarico: l’incontro con le Chiese evangeliche, da esse fortemente voluto, ha avuto solo pochi accenni sui media e, come spesso accade, la notizia al massimo cita che «a margine del convegno... Napolitano ha detto...». Solo poche eccezioni, come l’Unità e Rai News. Corradino Mineo aveva invitato Aquilante il giorno del convegno al Quirinale, intervistandolo su vari temi di attualità e ricordando l’importanza dell’incontro; ma anche dopo, seguendo la notizia che esplode come una bomba, si ricorderà sempre di citare come è nata. Questo è giornalismo. Il resto dei media approfitta: la polemica con la Lega scatenata dopo l’affermazione sulla cittadinanza di Napolitano, il ruolo dell’impegno cattolico dopo Todi, anche su questi temi. Della presenza evangelica e dell’impegno di queste Chiese neanche un accenno. Napolitano, seppur citando il nuovo ministro Riccardi come garante di un fattivo impegno sociale, stupisce tutti nuovamente e anticipa stravolgendo i lenti ritmi della politica. Riccardi su la Repubblica del giorno seguente dirà: «Prima di ricevere questo incarico avevo già deciso di parlare di integrazione. Lo faccio ora a maggior ragione». Grazie Presidente Napolitano, le sue mosse sono sempre provvidenziali! le rubriche dicembre 2011 confronti MEMORIA Gli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah Stefania Sarallo Il progetto «Memorie in Comune I dipendenti comunali ebrei dalle leggi razziali alla Shoah». Pupa Garribba, curatrice del progetto, è partita da una lista di circa sessanta nomi e dopo un complesso lavoro di ricerca, ma soprattutto grazie alle testimonianze di familiari, amici e colleghi, è riuscita nell’intento di ricostruire alcune storie, riportandole in un libro e in un documentario realizzati insieme all’Associazione Mitintaly e al Circolo Gianni Bosio, con il sostegno del Municipio Roma XI. [email protected] « I n ricordo dei dipendenti comunali licenziati in quanto ebrei, a seguito delle leggi razziali del 1938». Così recita la targa marmorea apposta qualche anno fa in Campidoglio. Una vicenda poco nota, quella cui rimanda la scritta in questione, destinata con molta probabilità a cadere nell’oblio se non fosse stata riportata alla luce e approfondita nell’ambito del progetto Memorie in Comune - I dipendenti comunali ebrei dalle leggi razziali alla Shoah. Fu Paolo Masini, consigliere del Comune di Roma, il primo ad avvertire l’esigenza di «andare oltre» questa commemorazione un po’ asettica: «Come nella toponomastica, dietro a quei nomi ci sono delle storie vere, di persone vere, con i loro amori, le loro amicizie, le loro passioni. Da un po’ di tempo avevo in mente quest’idea: volevo capire chi erano queste persone, che ruolo avevano nell’amministrazione. Abbiamo cominciato a cercare le delibere dell’epoca relative ai licenziamenti, ma il punto è che andava cercata la loro anima. Credo che un ente locale abbia il dovere di restituire a queste persone dignità e memoria». Ci si è chiesti, a quel punto: chi erano e come vivevano questi uomini e queste donne allontanati dal loro posto di lavoro e costretti a mettere in discussione la loro intera esistenza in ragione del loro credo religioso? Come hanno reagito a quella che, a ritroso, appare ai nostri occhi come una delle tante ingiustizie perpetrate nei confronti degli ebrei italiani nel corso del ventennio fascista? Per rispondere a queste domande tutto ciò di cui disponeva Pupa Garribba, curatrice del progetto, era una lista di nomi (circa sessanta) accompagnati unicamente dalle qualifiche professionali; nessun riferimento anagrafico, nessuna paternità né maternità. Ai suoi esordi, tenendo conto della quantità di omonimie tipiche del mondo ebraico romano, l’impresa sembrava quasi impossibile. Eppure, dopo un assiduo lavoro di ricerca condotto con l’ausilio di documenti reperiti negli archivi storici, nelle biblioteche e nei centri di documentazione, ma soprattutto grazie alle testimonianze di familiari, amici e colleghi, Pupa Garribba è riuscita nell’intento di ricostruire le prime nove storie e di riportarle in un libro e in un documentario realizzati insieme all’Associazione Mitintaly e al Circolo Gianni Bosio, con il sostegno del Municipio Roma XI. «Le testimonianze raccolte – commenta l’autrice – sono quasi il frutto di un miracolo, proprio perché sono frutto del caso. Avevamo così pochi elementi a dispo- 34 sizione per cominciare a trovare il bandolo della matassa! È stata Rosina Levi Bonfiglioli, figlia del commendatore Levi che fu capo del cerimoniale del Governatorato di Roma in epoca fascista, ad afferrare il bandolo della matassa, ed è proprio grazie a lei che siamo riusciti a svolgerlo. Seguendo le piste da lei indicatoci abbiamo recuperato nuovi contatti con altri parenti degli impiegati comunali che stavamo cercando». Il documentario si presenta come un flusso ininterrotto di ricordi, belli e brutti: racconti di vita quotidiana, aneddoti familiari, ma anche nascondigli, espedienti per sopravvivere, emigrazioni e deportazioni; tutto ciò ha contribuito a riportare in vita una memoria quasi cancellata, regalandoci «un vero spaccato della condizione degli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah». Nonostante tutte le interviste abbiano portato alla luce storie interessanti, solo poche hanno fornito notizie sulla vita degli impiegati comunali ebrei dal 1938 al 1943. Quali sono i motivi di questo «vuoto»? La vergogna, ma anche la rabbia, per aver perso il proprio status sociale, per non essere più in grado di assolvere le funzioni di capofamiglia ed essere costretti a vivere di espedienti. Questi i motivi per i quali i protagonisti sono stati restii a parlare apertamente in famiglia di questa esperienza. Ma c’è un motivo più grande che dà origine a tale vuoto: su tutto ha preso il sopravvento la memoria dei traumi successivi, dell’occupazione nazista e della razzia del 16 ottobre del ‘43 (il rastrellamento del ghetto di Roma). Alessandro Portelli, presidente del Circolo Gianni Bosio, commenta in proposito: «Il silenzio non è il contrario della memoria. Le cose che vengono sottaciute fanno parte interamente delle persone. Si dimenticano delle cose perché significano poco o perché significano troppo. In questo caso forse tutte e due. Da una parte si dimentica a causa della violenza subita per la perdita del lavoro; dall’altra si dimentica perché questa violenza finisce per essere sovrastata da quello che verrà dopo. C’è una memoria assente che ha la sua importanza, perché la città di Roma queste cose non solo le ha vissute, attraverso i suoi cittadini, ma le ha anche fatte attraverso le sue istituzioni. E non ha mai chiesto veramente scusa». La memoria, elemento costante del modus vivendi di ogni ebreo, consiste nel far rivivere la storia e le azioni dell’altro nei propri pensieri con l’obiettivo di recuperare, così facendo, un frammento di sé e della propria identità. le rubriche dicembre 2011 confronti OSSERVATORIO SULLE FEDI Alle origini della festa del Natale Renato Fileno Il Natale si celebra in tutto il mondo, anche in molti Paesi non cristiani, e non solo più dai cristiani. Fanno eccezione i testimoni di Geova, che preferiscono non celebrarlo non ritenendolo neanche una festa cristiana. P er milioni di persone il periodo delle feste natalizie è un’occasione per stare insieme alla famiglia e agli amici e rafforzare i legami affettivi. Nella tradizione cristiana, il Natale celebra la nascita di Gesù a Betlemme secondo quanto narrato dai Vangeli secondo Luca e Matteo, integrato ed arricchito da aspetti e particolari che risalgono invece a tradizioni successive e ai Vangeli apocrifi. Secondo l’omelia di Natale del 24 dicembre 2009 di papa Ratzinger, il significato cattolico della festa risiede nella celebrazione della presenza di Dio. Dal momento della nascita di Gesù «Dio è veramente un “Dio con noi”. Non è più il Dio distante, che, attraverso la creazione e mediante la coscienza, si può in qualche modo intuire da lontano. Egli è entrato nel mondo» per rimanervi fino alla fine dei tempi. Per molti cristiani il Natale è un’occasione per riflettere sulla nascita di Gesù Cristo e sul ruolo che egli ha nella salvezza dell’umanità. Comunque, nel corso dell’ultimo secolo, con il progressivo secolarizzarsi dell’Occidente, il Natale ha continuato a rappresentare un giorno di festa anche per i non cristiani, assumendo significati diversi da quello peculiarmente religioso. In questo ambito, il Natale è generalmente vissuto come festa legata alla famiglia, alla solidarietà, allo scambio di regali. Con queste connotazioni la festa del Natale ha conosciuto una crescente diffusione in molte aree del mondo, estendendosi anche in Paesi dove i cristiani sono piccole minoranze, come India, Pakistan, Cina, Taiwan, Giappone e Malesia. Proprio per l’abitudine dello scambio di doni, che ha progressivamente ma inesorabilmente eclissato gli aspetti religiosi della festa, il Natale ha ormai inoltre assunto una notevole rilevanza in termini commerciali ed economici. A titolo di esempio, negli Stati Uniti è stato stimato che circa un quarto di tutta la spesa personale venga effettuata nel periodo natalizio. Sebbene, come reazione a queste caratterizzazioni del Natale, anche esponenti delle Chiese cristiane abbiano in più occasioni nel passato espresso dure critiche disapprovando l’enfatizzazione del Babbo Natale di tipo secolare, gli aspetti materialistici dello scambio di doni come pure altre abitudini confluite nel Natale, sono i testimoni di Geova a rifiutare in toto di osservare la festività del Natale. Innanzitutto ritengono che nelle Sacre scritture vi siano prescrizioni e indicazioni per un’unica celebrazione cristiana, la Cena del Signore o Commemorazione della morte di Ge- 35 sù Cristo (Luca 22,19-20; 1 Corinzi 11,23-26). A conferma di questo ritengono che, mentre dai Vangeli sia possibile stabilire la data esatta dell’Ultima cena, il quattordicesimo giorno di nisan del calendario ebraico antico, non sia invece possibile risalire al giorno esatto della nascita di Gesù. Sembra tra l’altro ormai universalmente accettato che una festa della natività di Gesù fosse ignota ai Padri dei primi tre secoli e che, fin dai primi secoli, all’interno del cristianesimo si siano sviluppate diverse tradizioni che fissavano il giorno della nascita di Gesù in date diverse, tanto che Clemente Alessandrino (150-215) in un suo scritto (Stromati, I,21,146) parla di alcuni che «non si contentano di sapere in che anno è nato il Signore, ma con curiosità troppo spinta vanno a cercarne anche il giorno». La tradizionale data del 25 dicembre comincia a essere documentata solo a partire dal III-IV secolo. Oggi sull’origine di questa data sono avanzate alcune ipotesi: potrebbe essere stata scelta in base a considerazioni simboliche interne al cristianesimo e/o derivare da festività celebrate in altre religioni praticate contemporaneamente al cristianesimo di allora. Secondo alcuni la festa potrebbe essere stata sovrapposta approssimativamente alle celebrazioni per il solstizio d’inverno e alle feste dei saturnali romani, che si tenevano dal 17 al 23 dicembre. Nel calendario romano il Dies Natalis Solis Invicti, la festa dedicata alla nascita del Sole, introdotta a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222), è ufficializzata per la prima volta da Aureliano nel 273. Alla luce delle fonti, si potrebbe ipotizzare in particolare che i cristiani abbiano opposto e sovrapposto alla festa pagana della nascita del «sole invitto» la festa della nascita del «vero sole, Cristo», spostando la data dal 21 al 25 dicembre per soppiantare quella pagana, largamente diffusa tra la popolazione. Secondo i testimoni di Geova, questo avrebbe fatto sì che nella festività del Natale siano confluiti usi generalmente non cristiani e usi specificamente riconducibili ai Saturnali romani, che si celebravano proprio nella seconda metà di dicembre. Dato che il Natale affonda le sue radici nel paganesimo non cristiano da cui ha assorbito le usanze che lo caratterizzano da un punto di vista religioso e dato che la realtà dell’odierno Natale non è molto lusinghiera da un punto di vista secolare, i testimoni di Geova non lo festeggiano. le rubriche dicembre 2011 confronti NOTE DAL MARGINE Ma il rispetto della vita vale solo per quella umana? Giovanni Franzoni All’inseguimento di un rispetto assoluto della vita umana, si perde di vista un tema pressante che è il rispetto della vita in generale, compresa quella animale. Sulla questione della sofferenza degli animali non umani, infatti, la disattenzione della coscienza cattolica è molto grave. L a Pontificia accademia per la vita ritorna con insistenza in ogni occasione possibile ad affermare la priorità per la Chiesa cattolica, su ogni altro impegno mondiale, nei confronti del rispetto della vita dalle sue origini fino al suo cessare. In questa ripetuta sollecitazione, si sottintende sempre che la vita da rispettare a tutti i costi è quella della specie umana; personalmente non sono un biologo, ma anche per un osservatore non specialista sembra assurdo considerare la vita umana come astrattamente diversa dalle dinamiche della vita di qualsiasi essere, dal mondo batterico fino ai grandi mammiferi, e creare un salto valoriale sul quale gli attuali vertici della Chiesa cattolica scommettono la propria credibilità. Non sembri ridicolo che io racconti come, a lunghi intervalli di tempo, nella mia vita e nella mia riflessione, mi sia scontrato con questo salto valoriale in riferimento al gioco sulla vita animale che si fa con le corride. Nel 1949, sui banchi della Pontificia università gregoriana, uno studente interrogò il gesuita padre Goenaga sulla liceità della corrida nella quale, per il godimento degli spettatori, si uccide crudelmente un toro. Il professore, con un’acrobazia degna della fama dei gesuiti (lo soprannominavamo «velox orator toreador»), spiegò che se l’euforia del pubblico fosse provenuta dalla sofferenza del toro, si sarebbe trattato di una cosa deplorevole, ma se invece proveniva dall’abilità del torero era del tutto lecita. Nella mia timidezza di allora, incassai la risposta e non ebbi occasione di rifletterci molto. Col passare degli anni, ho cominciato a dubitare, anche leggendo come la retorica sulla corrida trovasse legittimazione nel fatto che era saldamente ancorata a una tradizione popolare; la poesia di Lorca o la pittura di Picasso finivano con l’esaltare qualcosa che sembrava appartenere all’anima caliente della Spagna. Altre forme gladiatorie tra animali, come il combattimento tra i galli e quello tra i cani, introdussero in me gradualmente una crescente riprovazione verso questa forma di «sport». In tempi abbastanza recenti, mi è capitato di ascoltare alla televisione un’intervista con una donna-torero, che narrava delle sue emozioni insostituibili nel corso della corrida. Nel giugno 2005, mi trovai a passare per piazza dei Cinquecento a Roma, davanti alla stazione Termini, dove un gruppo di giovani del Movimento per la vita mi volantinava, sollecitando me come gli altri passanti ad astenersi dal votare nel referendum per l’abrogazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita, 36 i promotori della quale l’avevano considerata difensiva dei valori della vita. Domandai ai giovani se la vita che si doveva rispettare era solo quella umana, mentre sia con la caccia sportiva che con le corride si violava il valore della vita animale; a questo punto, ebbi dai giovani l’aggiornamento della posizione «cattolica» nei confronti della corrida: «Ma tanto quel toro comunque sarebbe stato macellato». Obiettai che da millenni religioni come quella ebraica e quella islamica avevano una serie di provvedimenti circa la macellazione dei bovini, rigorosamente obbliganti per nutrirsi di carne senza contrarre impurità e macchiarsi di violenza verso la vita; proporre la mattazione del toro, irritato con la puntura della banderilla e finalmente ucciso con un colpo di spada in un’arena, come forma di macellazione pubblica mi sembra semplicemente assurdo. La disattenzione della coscienza cattolica, informata e formata dalla pratica del confessionale, nei confronti della sofferenza animale, giunge al massimo con la cottura di animali, come l’aragosta e l’anguilla, vivi: questa volta non per motivi di emozione spettacolare ma per avere la certezza che questi esseri viventi e senzienti siano freschi. Già da molti anni, numerose personalità del mondo dello spettacolo e della moda si sono spese come sponsor nelle battaglie contro l’uso della pelliccia del visone, della volpe, della foca e ultimamente anche dei gatti, che vengono scuoiati vivi e spesso consegnati a una morte lenta e crudele perché uccidendoli prima di scuoiarli si deteriorerebbe la qualità della pelliccia. Dopo lunghe polemiche, anche la catena di macellazione delle galline del pollame è stata modificata, perché fino a pochi anni fa i polli appesi a una catena metallica venivano prima spennati, poi amputati delle zampe e finalmente decapitati. Tornando alla corrida, quando oggi apprendiamo che dopo lunghe polemiche in Catalogna questa pratica così identificata con la cultura popolare è stata abolita, ci domandiamo: questo è avvenuto per pressioni della Chiesa cattolica e dell’etica religiosa o per la pressione dei movimenti laici animalisti e ambientalisti? Questo miserevole ritardo della Chiesa nei confronti della sofferenza animale, ignorata mentre nella poesia si proclama l’amore per la natura, gli animali e il «lupo di Gubbio», non rappresenta forse una secolare distrazione e la perdita di un treno da parte del Movimento della vita nei confronti di ciò che invece emerge nelle coscienze laicamente illuminate? le rubriche dicembre 2011 «La separazione» un film di Asghar Farhadi con Leila Hatami, Peyman Moadi, Shahab Hosseini, Sareh Bayat, Sarina Farhadi Iran/Francia 2011 CINEMA Un ritratto attento dell’Iran di oggi Umberto Brancia Il film del regista iraniano Asghar Farhadi, acclamato all’ultimo festival di Berlino (che gli ha tributato anche l’Orso d’oro), ci racconta le vicende di una coppia medio- borghese divisa tra la fedeltà alle tradizioni culturali e i nuovi modelli della modernità e del consumo. [email protected] confronti N on succede spesso che tutta la critica sia d’accordo nell’elogiare con aggettivazioni significative un film. Invece è accaduto quest’anno per Una separazione di Asghar Farhadi, film iraniano che all’ultimo festival di Berlino ha avuto l’Orso d’oro, oltre che delle vere e proprie ovazioni. Il regista è nato a Ispahan nel 1972, ha studiato letteratura, cinema e teatro, facendosi notare con le sue prime opere per l’acutezza e l’originalità dei temi. In questo film raggiunge, come si usa dire, una piena maturità. Al centro della vicenda c’è una giovane coppia di estrazione medio-borghese, che si presenta dal giudice per una decisione lacerante: Simin, una donna energica e volitiva, vuole divorziare dal marito Nader. Dopo molte difficoltà burocratiche hanno ottenuto il permesso di trasferirsi all’estero per dare alla figlia un avvenire migliore, ma il marito si rifiuta di abbandonare il padre, malato di Alzheimer e bisognoso di assistenza costante. Nader si mette alla ricerca di una badante e trova alla fine una giovane donna di estrazione popolare. Ai conflitti dolorosi che nasceranno dal nuovo arrivo, assiste la figlia che subisce con grande turbamento la separazione dei genitori. La vicenda si sviluppa attraverso gli appartamenti dei protagonisti e le strade della capitale, fornendoci innanzitutto un ritratto sociologico dell’Iran di oggi descritto con oggettività e attenzione umana. La coppia medio-borghese è divisa tra la fedeltà alle tradizioni culturali e i nuovi modelli della modernità e del consumo. L’arrivo nella casa di una giovane di diversa estrazione sociale mette in evidenza abitudini e modi opposti di guardare alle fede religiosa e ai comportamenti quotidiani. La vita della città è descritta dal regista come uno spazio congestionato in cui questi contrasti sociali modificano le psicologie e gli stati d’animo, provocando dolore e tensione. Ciò che colpisce del film è lo sguardo con cui queste 37 tensioni vengono raccontate, uno sguardo privo di compiacimento o di pesantezza. Il regista non cede ad un sociologismo facile né al rischio del sentimentalismo. Il film procede attraverso continui rovesciamenti di posizione, in cui le ragioni di un personaggio sono in qualche modo contraddette da quelle dell’altro. Il tutto avviene non in modo meccanico, ma per un preciso intento stilistico, e – oserei dire – morale. Tutti i contrasti emotivi e socio-culturali sono raccontati con una commovente e oggettiva partecipazione. I due protagonisti principali non riescono a rinunciare alle proprie motivazioni personali e non comprendono nulla delle ragioni dell’altro. La famiglia della badante, che provocherà la deflagrazione della vicenda, ci appare prigioniera di altre contraddizioni: il bisogno di danaro viene a confliggere con le prescrizioni della fede religiosa, vissute in modo rigorosamente ortodosso. Di tutti ci rimane comunque la verità del loro mondo emotivo. Il tema sotteso al film è quello della scelta, a cui siamo sempre chiamati nella nostra esistenza: e le scelte producono comunque sofferenza e separazioni. Con una freschezza ammirevole, la macchina da presa ci lascia nella memoria volti, suoni e colori. Da non mancare. Marino Sinibaldi, direttore RadioRai3 le rubriche dicembre 2011 confronti Michela Murgia «Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna» Einaudi, Torino 2011 159 pagine, 16 euro LIBRO Fare i conti con Maria Giuliano Ligabue In questo libro, la teologa Michela Murgia sostiene che la concezione che la cultura occidentale ha della donna deriva dall’idea che di essa ha trasmesso la Chiesa cattolica nel corso dei secoli, relegando le donne – mogli e madri e figlie – al ruolo di creature obbedienti e funzionali ai piani altrui. Ovviamente la Chiesa non ha inventato la subordinazione della donna all’uomo, ma l’ha «legittimata spiritualmente». [email protected] L a donna, così com’è oggi pensata, interpretata e raffigurata nel mondo occidentale è frutto dell’elaborazione dottrinale della Chiesa cattolica; una sua «invenzione». La tesi è sostenuta, nel suo ultimo libro, da Michela Murgia, una «cristiana dentro la Chiesa» che con l’efficacia della sua forbita e coinvolgente scrittura interviene – come donna prima ancora che come teologa – sulla storia delle donne. Per documentare una simile affermazione, l’autrice precisa di non avere preso ispirazione dai propri studi di scienze religiose ma dall’esperienza personale, dalle storie di vita quotidiana di cui essa stessa è figlia; da lì muove l’analisi della dottrina della Chiesa, fino a mostrare come quelle parole abbiano generato la comune concezione che la cultura occidentale ha della donna. Al centro di questa particolare rivisitazione della storia femminile è collocato il ruolo di Maria di Nazareth, così come è stato interpretato dal magistero della Chiesa e trasmesso in tutti i luoghi e le forme dell’educazione cattolica nonchè rivissuto nelle tradizioni popolari. Ne risulta che i caratteri specifici della tradizione arrivata sino ad oggi sulla donna possono essere individuati e compresi a partire dalla figura di Maria, che è il solo punto di riferimento delle donne nella Scrittura, utilizzato dal magistero della Chiesa ed entrato nella tradizione cristiana. Questo dato di fondo emerge sia che ci si soffermi a parlare di vita, di vecchiaia o di morte, sia che si consideri la sessualità o il matrimonio, sia che si prendano in esame i temi dell’obbedienza o della santità, come quando si leggono le raffigurazioni dell’arte sacra nei secoli. Come Maria non ha un «perché» proprio, ma un «chi», una persona da servire – Cristo, di cui è madre – così la vita di ogni donna non ha senso di per sé ma solo in quanto è funzionale ad altri, «naturalmente» madre o sposa, a servizio dell’uomo con cui ha stessa dignità ma nessuna uguaglianza. La vecchiaia non si addice a Maria, immutabilmente ragazza immacolata e vergine: ne consegue come l’invecchiamento sia, per la donna, segno di fragilità, di perdita e di annientamento: difficilmente momento di quella dignità, saggezza e compiutezza normalmente attribuite alla vecchiaia dell’uomo. Anche la morte, che nasce dalla colpa di Eva e richiede la morte di Cristo, non appartiene alla nuova Eva, Maria, che assiste fino all’ultimo Cristo ma non morirà per restare unicamente la madre dolorosa sotto la croce; come dire: la morte della donna non ha visibilità, rispetto al protagonismo, anche in morte, dell’uomo. 38 Il consenso di Maria all’angelo, nell’Annunciazione, è la risposta al no di Eva, fonte del male; un sì umile e docile che riporta le donne – mogli e madri e figlie – alla loro indole naturale di creature obbedienti e funzionali ai piani altrui. Ugualmente per la donna non c’è santità se non come monaca, madre o martire, in uno spazio di servizio; l’uomo, invece, può accedervi attraverso qualunque attività. Anche qui il modello è Maria, vergine, madre di Cristo e della Chiesa, immolata ai piedi della croce (modello peraltro inaccessibile alla donna comune). Queste e altre interpretazioni della figura di Maria, la Chiesa cattolica si sente autorizzata a farle nello stesso modo con cui si sente autorizzata, solo lei, a fornire l’immagine di Dio stesso, che non sarà mai al femminile perchè Dio è sempre a immagine del maschio: la donna non è a immagine di Dio. Da lì ha inizio la diversità dei ruoli tra uomo e donna, immediatamente resa concreta con la vita della donna derivata dalla vita dell’uomo, dalla sua costola (Genesi). Le tante altre considerazioni della Murgia non procedono in modo lineare e sistematico: si muovono in continuazione dall’attualità al passato, dal tema centrale ad argomenti connessi di natura antropologica, civile e sociale; si aprono a suggestivi excursus storici, come sul ruolo dell’iconografia sacra nella formazione popolare; si soffermano con nitidezza nell’esplorazione di concetti filosofici, quali il rapporto tra bellezza e ordine o la connesione tra etica ed estetica. Il respiro complessivo del ragionamento, pur in un orizzonte fondamentale di teologia cattolica, resta antropologico e laico prima che dottrinario e spirituale: da qui la possibilità di graffi improvvisi o stilettate al limite della provocazione verso insegnamenti ecclesiatici, usi e tradizioni religiose. Per dirla sinteticamente, Murgia vuole dimostrare, per altra via rispetto al femminismo storico, la sostanziale subordinazione della donna all’uomo: il capitolo conclusivo del libro, che analizza tutti gli aspetti del sacramento del matrimonio cristiano, è esemplare in tal senso. Ma all’attento lettore viene inevitabilmente da pensare che andava in qualche modo tenuto presente come la Chiesa cattolica non ha «inventato» tale subordinazione, visto che l’idea le preesisteva da secoli: il suo contributo, fondamentale e decisivo, è stato tuttavia quello di volerla «legittimare spiritualmente». È poi l’affermazione a cui giunge l’autrice in chiusura, ridimensionando e in parte contraddicendo il sottotitolo del saggio. le rubriche dicembre 2011 Marco Politi «Joseph Ratzinger. Crisi di un papato» Editori Laterza, Roma-Bari 2011 328 pagine, 18 euro LIBRO Luigi Sandri In questo libro denso e documentatissimo, l’autore analizza una serie di fatti e di scelte di Benedetto XVI che hanno provocato aspre discussioni non solo al di fuori, ma anche all’interno della sua Chiesa. Ne risulta un quadro pesante, che apre molte domande sulla direzione che infine dovrà prendere, oggi e nel prossimo futuro, il pontificato romano. confronti « Ad essere in crisi è «un» papato o «il» papato? R atzinger non doveva diventare papa. Non poteva. Secondo le regole non scritte dei conclavi, una personalità così “polarizzante” non sarebbe mai riuscita a ottenere i due terzi dei voti necessari per essere eletto. Invece, il 19 aprile 2005, dopo un’elezione tra le più rapide dell’ultimo secolo... iniziava il regno di Benedetto XVI». Quel «non doveva» nell’incipit del libro farà rabbrividire l’inner circle vaticano, molti dell’establishment ecclesiastico e atei devoti; e tuttavia Politi sostiene la sua tesi non per una polemica aprioristica, ma mettendo insieme una serie di fatti inoppugnabili, che possono certamente essere considerati in modo diversificato, ma con i quali dovrebbe comunque confrontarsi chiunque voglia osservare più da vicino il regno del primo pontefice del terzo millennio. L’autore – giornalista di lungo corso, vaticanista per anni di Repubblica e, ora, del Fatto quotidiano – parte dal pre-conclave e dal conclave (in merito riporta i voti che, secondo un anonimo cardinale, Ratzinger avrebbe ottenuto nei quattro suffragi necessari per essere eletto: 47, 65, 72, 84; sette voti in più, in quest’ultimo, oltre i due terzi necessari), ponendosi una domanda: perché, infine, la maggioranza dei porporati votò per il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede? La risposta di Politi, confortata anche da alcune sue inchieste ad alto livello, è che un gruppo di cardinali, tra cui tre latinoamericani di Curia ferrei avversari della teologia della liberazione, si impegnarono per favorire l‘elezione del porporato tedesco: «In Ratzinger vedono il candidato forte per combattere la crescente secolarizzazione, avvertita come minaccia per l’ordinamento gerarchico della Chiesa e motivo scatenante della caduta di partecipazione ai sacramenti. Lo considerano la personalità adatta per fronteggiare l’invadenza della soggettività moderna, cui attribuiscono la perdita di influenza nella società civile» (pag. 24). «“Cercavano garanzie di sicurezza dottrinale”, ricorda un cardinale non ratzingeriano riferendosi alla lobby, che decise il conclave. In ultima istanza la molla è stata la paura, il bisogno di una restaurazione dell’identità di una Chiesa come se il travaglio del dopo-Concilio e lo stesso rimescolamento provocato dalle scelte di Wojtyla potessero mettersi tra parentesi» (pag. 303). Politi loda il papa, come teologo, ma si domanda se, con la sua mentalità professorale, egli valuti adeguatamente che affermazioni cattedratiche da lui rivolte ad un uditorio scelto, acquistano poi una parti- 39 colarissima rilevanza pubblica; e che certe decisioni, di per sé strettamente pastorali, abbiano un risvolto che obiettivamente le oltrepassa. E la sua risposta è che non raramente a Ratzinger sfugge questo «di più». Un giudizio severo, che però deriva da un’esposizione e un’analisi rigorosa di eventi che, per quanto grosso modo noti a tutti, messi di fila danno un quadro davvero pesante. In una dozzina di capitoli Politi scava in altrettanti fatti o documenti ratzingeriani che, ciascuno nel suo proprio àmbito, mostrano in concreto il senso di quel «non doveva» che apre il volume: l’incidente di Regensburg (Ratisbona), del settembre 2006, quando egli scatenò le ire del mondo musulmano per una citazione che metteva in pessima luce Maometto; la remissione della scomunica ad un vescovo lefebvriano che negava la Shoah; la tesi che il preservativo aggrava l’epidemia provocata dall’Aids; la nomina ad arcivescovo di Varsavia di un prelato colluso con il regime comunista di un tempo... Politi sostiene, poi, che pur avendo promesso, all’inizio del pontificato, di dare spazio alla collegialità episcopale, in realtà papa Benedetto ha poi deciso in solitario ed autoritariamente alcune scelte, prendendo di sorpresa le conferenze episcopali che avrebbero dovuto poi attuarle. Ogni pontificato ha luci e ombre legate al suo titolare in carica; e, in questo suo libro, Politi sottolinea le ombre di quello di Ratzinger, ma senza dimenticarne gli aspetti positivi (e così mette in rilievo che egli ha dedicato la sua prima enciclica ad un tema affascinante come Deus caritas est). Tuttavia, ci sembra, alcuni problemi, sia ecclesiali che geopolitici, non riguardano solamente «un» papato, o «questo» papato, ma proprio «il» papato. E potrebbe essere, ma solo il futuro lo dirà, che il pontificato in atto – termini esso con la fine terrena di Benedetto XVI o con sue clamorose dimissioni – sia preludio ineludibile per una franca ridiscussione, anche a livello cardinalizio, sul «modo di esercizio» del servizio petrino, prospettato da Wojtyla e dallo stesso Ratzinger, ma in concreto inattuato. Quanto, riferendosi a Ratzinger, afferma nella prefazione del volume Stefano Rodotà, «sulla difficoltà del governare [la Chiesa di Roma] in un mondo globale e mediatizzato», si porrà naturalmente, pur in contesti diversi, anche per il successore del pontefice regnante. Il futuro vescovo di Roma, guardando a lui, non parlerà certo di «crisi di un papato», ma raccoglierà alcune sue linee, altre muterà, altre abbandonerà del tutto: bisognerà vedere quali, e come. le rubriche dicembre 2011 confronti SEGNALAZIONI Roberto Dall’Olio, «La notte sul mondo (Auschwitz dopo Auschwitz)», Mobydick, Faenza 2011, 78 pagine, 11 euro. «Venite a vedere. Un appello dai cristiani palestinesi», a cura dell’Alternative tourism group, traduzione italiana della Rete romana di solidarietà al popolo palestinese (per informazioni e richiesta del libretto: reteromanapalestina@ gmail.com e [email protected]). Roberto Dall’Olio «La notte sul mondo (Auschwitz dopo Auschwitz)» È possibile, con la poesia, raccontare la Shoah, cioè lo sterminio scientifico e sistematico del popolo ebraico deciso dai nazisti? La sfida, davvero difficile, l’ha affrontata Roberto Dall’Olio, docente di storia e filosofia in un liceo di Ferrara, autore di vari libri, impegnato nel comune di Bentivoglio come assessore all’intercultura. Egli descrive, per sé e per i suoi ragazzi soprattutto, le emozioni di tre viaggi al lager di Auschwitz, in Polonia. Talora si riesce a riferire, a chi non l’abbia letta, il senso di una poesia: ma come farlo senza distruggere inesorabilmente la tenerezza, o lo sgomento, o lo spavento, o la speranza o i sogni che quelle parole levigate suscitano? Perciò evitiamo qui di citare l’uno o l’altro brano nel quale Dall’Olio descrive quello che ha provato ad Auschwitz; possiamo solo dire che, personalmente, leggendo le sue poesie siamo rimasti scossi, pensosi e riconoscenti. Facciamo nostro quanto, a proposito di questo libro, scrive Fabio Levi: «Accompagnare le parole di Roberto Dall’Olio con altre di spiegazione potrebbe spegnerne il ritmo serrato, dolente e meditativo; rischierebbe di sovrapporre una patina di senso uniforme a un percorso ricco di immagini e sensazioni differenti. Per predisporlo all’ascolto varrà però la pena consigliare al lettore un passo attento e leggero, perché sarà condotto a tenersi in fragile equilibrio sui fili incerti che rimandano, in un gioco di scarti tortuosi e di improvvise scorciatoie, fra passato e presente, e viceversa: Auschwitz come esperienza al limite estremo del male, umano e oltre l’umano, per chi allora ne è stato vittima, e come luogo concreto di una memoria dagli infiniti richiami ad altre realtà, ad altre esperienze». (David Gabrielli) «Venite a vedere. Un appello dai cristiani palestinesi» A Beith Sahour ha sede l’Alternative tourism group (Atg), un’associazione impegnata nel fornire un’informazione critica della storia, dei luoghi, della cultura e della politica per coloro che vanno in Palestina e Terra santa. Essa ha recentemente prodotto un pregevole libretto, dal titolo «Venite a vedere» («Linee guida per cristiani in pellegrinaggio consapevole in Terra santa»), tradotto in italiano a cura della Rete romana di solidarietà al popolo palestinese, che si rivolge esplicitamente ai cristiani che vanno in pellegrinaggio in Terra santa. Il libretto, che si ispira al documento «Kairos Palestina», prodotto dalle Chiese cristiane d’Oriente, si ap- 40 pella ai pellegrini, affinché nella loro visita non si limitino ad osservare e rendere omaggio ai luoghi sacri e storici, ma vogliano entrare nella vita del paese che stanno visitando, e prendano conoscenza delle terribili restrizioni in cui vive la popolazione palestinese a causa dell’occupazione israeliana. Il pellegrino è pertanto invitato a intraprendere il suo viaggio in spirito di verità e conversione e ad apprezzare e conoscere un popolo che, nonostante decenni di sofferenza, deprivazione ed espropriazione, mantiene la sua dignità, la fede e la speranza in un diverso futuro, anche quando i potenti della Terra, anziché trovare una giusta soluzione, perseverano nel mantenere uno stato invivibile in funzione dei propri interessi economici e geostrategici. Vi è anche un monito a rettificare certe posizioni teologiche, che in Occidente, per tutto il Novecento e oltre, hanno cercato di legittimare biblicamente la violazione dei diritti del popolo palestinese, assecondando l’interpretazione che vi fosse una terra destinata ad un popolo eletto, mentre invece il significato delle promesse, della terra e dell’elezione del popolo di Dio include tutta l’umanità. E si invita a diffidare di certa narrativa di parte che giustifica la continua occupazione e le continue violazioni dei diritti umani, mentre priva tanta parte della popolazione della capacità di parola e di azione, e a visitare i luoghi sacri non come se fossero musei, ma come luoghi in cui i cristiani palestinesi vivono, pregano e soffrono. Quindi il pellegrinaggio autentico è una chiamata per «venire a vedere» ed ascoltare le storie delle diverse popolazioni, riflettere, cercare di capire, reimparare, constatare come su questa terra, che ha visto la passione del Cristo, oggi si compia la passione di un intero popolo. E questa passione, che non sembra finire mai, colpisce ugualmente i fratelli e le sorelle, cristiani e musulmani. Il libretto si conclude quindi con una serie di suggerimenti affinché l’andare in Palestina diventi una vera esplorazione e occasione di incontro con le «pietre viventi» e anche modo per sostenere un’economia che è sempre più sopraffatta dall’occupazione. (Loretta Mussi) le rubriche dicembre 2011 confronti SOS CONFRONTI In queste settimane ci stanno scrivendo moltissimi amici, vecchi e nuovi, per esprimerci la loro solidarietà, molti apprezzamenti e naturalmente anche qualche critica costruttiva. Cominciamo a pubblicare alcune di queste lettere e mail, invitando tutti a scriverci per formulare proposte e suggerimenti e anche a iscriversi alla nostra mailing list per essere informati delle nostre iniziative future: redazioneconfronti@ yahoo.it; programmi@ confronti.net. LE VOSTRE LETTERE ari amici, che tristezza un paese che non riconosce l’importanza della cultura e della pluralità... Vi sono vicina e contribuirò molto volentieri a mantenere viva una voce importante. Un abbraccio a tutta la redazione. Patrizia Toss C bbiamo appena effettuato un bonifico per la salvezza di Confronti. Non è una cifra che vi farà «svoltare», ma speriamo che sia il primo sassolino di una lunga strada che continuerete a percorrere con caparbietà e qualità, come avete fatto finora. Con affetto e il nostro in bocca al lupo! Stefano, Fausto e Alessandra (Fondazione Villa Emma) A gregio direttore, io e mia sorella siamo abbonate da anni e dispiaciute che questa voce possa tacere in Italia. Una voce efficace per tenere la coscienza vigile in tempi di grande confusione. Mando un aiuto di 300 euro e anticipo l’abbonamento di alcuni mesi. Coi migliori auguri, cordialmente Grazia Borellini E o letto il vostro appello e poiché ritengo che Confronti sia un valore che non debba assolutamente andare perso, soprattutto in questo momento in cui sembra che nulla importi, ho deciso di sottoscrivere un abbonamento sostenitore per la Casa di riposo G.B. Taylor e di sottoscriverne un altro per me oggi stesso. Con l’augurio che possiate risolvere i problemi economici che in questo momento vi preoccupano, vi saluto con stima per il vostro lavoro. «Benedetto sia il Signore che giorno per giorno porta per noi i nostri pesi; egli è il Dio della nostra salvezza» (Salmo 68:19). Rosa Mandredi (direttore Istituto Taylor) H arissime/i, nel rinnovare l’apprezzamento, il ringraziamento e l’augurio a tutta la nostra/vostra esperienza, vi comunico che oltre alle sottoscrizioni personali di molti di noi, come Cipax abbiamo deciso di mandarvi un piccolo segno collettivo decidendo di cambiare l’abbonamento «cambio» omaggio che ricevevamo fino ad oggi in abbonamento regolarmente sottoscritto. Auguri di lunga vita. Gianni Novelli C ella situazione generale di questo paese, la scomparsa di una realtà come Confronti sarebbe una autentica iattura. Eseguirò un bonifico oggi stesso, cercando di fare il possibile. Per me Confronti è, da molti anni, un punto di riferimento per seguire e capire temi importantissimi, direi determinanti per lo sviluppo stesso della mia personalità e del mio impegno quotidiano. Da questo punto di vista direi proprio di non attendermi un ringraziamento dalla struttura di Confronti, visto che avete addirittura deciso di ri- N 41 nunciare allo stipendio di dicembre (e sì che l’operaio ha diritto alla sua mercede...)! Racconta Paolo Finzi, della stampa anarchica, che ogni volta che De André faceva una donazione alla loro rivista poi rifiutava i ringraziamenti di rito dicendo: «sono io che devo ringraziare voi per il lavoro che fate». Ecco, questa è la mia stessa convinzione rispetto a Confronti: sono io che ringrazio voi. Ancora cari saluti e... speriamo di farcela! Renzo Sabatini (Ministero Affari Esteri Direzione generale Cooperazione allo sviluppo) aro Gian Mario, sono rimasta male nel leggere la vostra lettera che descrive un futuro scuro per Confronti, rivista che ho sempre letto con molto interesse durante i sette anni che ho passato nella piccola chiesa valdese di Perugia e dintorni. Mi sembra che la Tavola me la faccia arrivare ancora, benché io alla fine di agosto sia tornata definitamente in Svizzera. Naturalmente spero che lo sforzo di salvare Confronti vada premiato e vorrei chiedere fin da ora di prolungare il mio abbonamento a spese mie da gennaio 2012 in poi. Vorrei partecipare anche all’azione «salvataggio» e oggi stesso vi farò mandare 300 euro come contributo a tale azione. Un caro saluto ed augurio di non scoraggiarvi. Kathrin Zanetti-Eberhart C ari amici, non avete idea di quanto mi dispiaccia che ve la passate un po’ male ed è una vigliaccata perché Confronti vale! E lo dice uno che in vita, sballottato a destra e sinistra per il mondo, non aveva avuto modo di avvicinare tali argomenti. Meritate una pioggia di contributi e chissà che con l’estromissione di «Burlesconi» le cose non migliorino, permettendo ai benintenzionati di «sganciare» di più ! Insciallah! Peccato che non mi sia possibile partecipare alle vostre attività. Ricevo gli inviti e son grato del ricordo ma non sto a rispondere, tanto è noto che sto lontano. E pensare che sono stato «romano» per 35 anni senza conoscervi. Giorgio Girardet (il vostro fondatore) era per me «Grg» (ed io per lui «Msm»), l’amico col quale ci facevamo i dispetti in acqua a Ostia! Un abbraccione nostalgico. Massimo Pulejo C ari amici, vi ho fatto un bonifico martedì, perché Confronti mi sta tantissimo a cuore e spero che leggere la mia lettera possa essere un vero aiuto. Sono uno dei soci fondatori e socio sostenitore da sempre. Leggendo il numero monografico mi sono letteralmente imbattuto in un articolo il cui linguaggio era davvero troppo complicato. È già difficile fare leggere un quaderno così importante come il vostro, quindi bisogna usare una lingua totalmente diversa. Ho imparato nella mia vita a fare molte cose, anche a predicare occasionalmente nella Chiesa luterana, e 9 anni fa un pastore emerito tedesco ci disse: «Bisogna scrivere la predica come una lin- C i servizi dicembre 2011 confronti SOS CONFRONTI gioso e al tempo stesso due impegni: sollecitare, in primo luogo, le Comunità di base a sostenere direttamente la campagna di informazione da voi lanciata per garantire un contributo straordinario per far fronte alle attuali difficoltà di bilancio e al tempo stesso avviare la promozione di una campagna straordinaria per far conoscere la rivista e sollecitare abbonamenti; offrire un contributo alla riflessione che avrete certo avviata sulla natura della diminuita affezione per una rivista che pur affronta tematiche di urgente attualità. Su quest’ultimo punto la nostra riflessione si è soffermata sulla possibilità che una non sempre costante attenzione allo specifico della rivista (parlare laicamente delle religioni e del dialogo tra le fedi) nella selezione del materiale pubblicato, un inseguimento all’attualità, cosa oltretutto difficile per un mensile, la possa rendere meno caratterizzata e questo possa contribuire a far cadere l’interesse degli abbonati. La società italiana sta attraversando una delicata fase di passaggio da una monocultura religiosa chiamata a confrontarsi solo con le diverse espressioni del pensiero «laico», per di più ridotta, in molti casi, a ideologia politica usata da gruppi impegnati a difesa delle condizioni di privilegio di cui gode la a Chiesa cattolica, alla piena legittimazione del pluralismo culturale e religioso. Nei grandi mezzi di comunicazione scarso spazio si dà alla complessità dell’impatto a tutti i livelli con tale situazione delle nuove esperienze e culture religiose. L’attenzione a tale problema determinò a suo tempo per la rivista l’ampliamento dell’orizzonte dall’ecumenismo alla dimensione interreligiosa. Questo intreccio, a nostro avviso, dovrebbe tornare ad essere lo specifico della rivista privilegiando l’attenzione ai mutamenti, alle dinamiche ed anche alle tensioni provocate da questo impatto all’interno delle diverse religioni, sia nelle loro strutture organizzate che nella vita dei fedeli. Dare voce alle istanze del variegato universo islamico, alle nuove presenze cristiane non riconducibili al dualismo evangelici/cattolici, e ai diversi modi con cui questi e le componenti dell’ebraismo reagiscono all’avanzata del processo di secolarizzazione della società italiana. Lo stesso vale per la tradizionale attenzione riservata dalla rivista al mondo sempre più coinvolto in una inedita e irreversibile planetarizzazione culturale. In esso le religioni sollecitate dall’avanzamento della secolarizzazione e dell’aumentata possibilità di confronto sono animate da tensioni e conflitti fra fondamentalismi e ricerca di radicali rinnovamenti. Calati, come siamo, nel vivo di tale ricerca, pensiamo che a questo specifico debba restare fedele la rivista, ovviamente nel quadro delle trasformazioni epocali che popoli e continenti stanno attraversando, per le quali, però, altre sono le fonti specifiche di informazione. In questa ottica le comunità di base italiane sono disponibili a continuare a portare il proprio contributo alla realizzazione ed alla vita di Confronti, con lo stesso spirito, anche se a ranghi più ridotti di un tempo, con cui trentasette anni fa diedero vita alla fusione del proprio settimanale Com, con il Nuovi Tempi delle chiese evangeliche italiane e del suo mai dimenticato direttore Giorgio Girardet. Con l’augurio di buon lavoro e di lunga vita a Confronti. Le Comunità cristiane di base italiane gua parlata e nelle prime due-tre frasi della predica bisogna dire qualcosa che colpisca l’attenzione, perché solamente così la comunità seguirà la predica fino alla fine». La stessa cosa vale per Confronti: ci vuole un linguaggio «alla Paolo Ricca», che anche le cose complicate le sa esprimere in maniera comprensibile e quando scrive è come se fosse una parola parlata. Mi scuso se scrivo questo, ma queste parole sono dette da me con amore: non voglio essere un insegnante che guarda dall’alto, ma spero che venga recepito come un messaggio di un fratello cristiano che è sempre interessato ad imparare da ognuno. Grazie per avermi nel vostro cuore e pregate anche per me, come io pregherò per voi che possiate avvicinarvi alla mia visione senza essere offesi. Cordiali saluti. Dieter Stoehr (Genova) ella nostra comunità, pur mettendo al centro del nostro cammino il Dio di Gesù di Nazaret, sentiamo il bisogno del «Dio degli altri» vissuto nella concretezza dei loro contesti. Questo «Dio degli altri» ce lo troviamo nella porta accanto, al mercato, a scuola, per strada. Per cui è avvenuto che negli incontri biblici e nelle eucaristie siano presenti, non come semplice contorno, persone, brani, preghiere, commenti di altre fedi religiose, superando il limite dell’ecumenismo. Pensare che Dio cammini con i popoli della Terra e poi affermare che solo noi, con il «nostro» Dio, possiamo camminare al centro della strada e gli altri sui marciapiedi, è eresia (direbbe Enzo Mazzi). Perché questa è ancora oggi la convinzione delle gerarchie delle grandi religioni planetarie soprattutto monoteistiche, che sgomitano «gentilmente» per stare al centro della carreggiata e concedere al popolo dei marciapiedi la benevolenza dell’unica verità e infallibilità. Per questi motivi, presenti in bozzolo sin dall’inizio della nostra esperienza comunitaria e sviluppatisi prepotentemente col dono della presenza degli immigrati, dopo 18 anni questa comunità ha voluto ridefinirsi comunità cristiana «Per le strade del mondo». Questo cammino interreligioso lo esprimiamo anche attraverso il nostro blog nelle maniere più diverse. Ora noi pensiamo che questo cammino debba diventare un elemento fondamentale nella vita delle Comunità di base, perché «per le strade del mondo» non troviamo più solo la «classe operaia» degli anni ‘60/’70, quando le Cdb sono nate, né solo le Chiese cristiane del continente europeo e sudamericano, ma un altro più variegato e complesso panorama. È una grande sfida, che affidiamo anche a un rinnovato Confronti. Tonino Cau (comunità di Olbia «Per le strade del mondo») N l direttore, alle redattrici ed ai redattori di Confronti, Il Collegamento delle Cdb italiane riunito a Bologna il 15 e 16 ottobre, informato dal rappresentante della Segreteria tecnica nazionale e appartenente alla redazione di Confronti Stefano Toppi delle difficoltà in cui versa la rivista ha espresso riconoscenza per il prezioso lavoro, che svolgete pur in condizioni di assoluta precarietà, per assicurarne la puntale periodicità, e piena solidarietà per il rischio imposto da tale situazione alla vostra condizione lavorativa. Dalla discussione sono emersi la comune convinzione della necessità di mantenere la presenza di una rivista impegnata nel promuovere il pluralismo reli- A 42 CONFRONTI 12/DICEMBRE 2011 abbonamento 2012: 50 euro 80 euro abbonamento Roberta De Monticelli Giuseppe La Torre Lia Tagliacozzo Letizia Tomassone Sira Fatucci (a cura di) La questione Dialoghi in cammino Parole chiare morale Luoghi della memoria Protestanti e in Italia, 1938-2010 musulmani in Italia oggi Giuntina Raffaello Cortina Editore Claudiana sostenitore con uno degli omaggi qui accanto PROPOSTE DI ABBONAMENTO CUMULATIVO Confronti + Adista 104 euro Confronti + Cem/Mondialità 67 euro Confronti + iscrizione Cipax* Roma 55 euro Confronti + Dharma 70 euro Confronti + Esodo 66 euro *Centro interconfessionale per la pace Confronti + Riforma 109 euro Confronti + Gioventù Evangelica 68 euro Confronti + Lettera Internazionale 73 euro Confronti + Mosaico di pace 69 euro Confronti + Qol 57 euro Confronti + Servitium 80 euro Confronti + Tempi di Fraternità 64 euro Confronti + Testimonianze 82 euro NOVITÀ Confronti + Missione Oggi 67 euro Confronti mensile di fede politica vita quotidiana Abbonamenti annuale: ordinario 50,00 euro, sostenitore 80,00 euro (con omaggio), estero 80,00 euro. 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(Legge 675/96) 2011 Associato alla Unione Stampa Periodica Italiana pubblicità Indice 2011 INFORMAZIONE Se fa scandalo chi scopre lo scandalo (Giuseppe Giulietti) Il pubblico in fuga da una Rai faziosa (Roberto Natale) Tre mesi per salvare Confronti (Gian Mario Gillio) Se il «servizio pubblico» non è più di moda (Corradino Mineo) Un viaggio nella stampa ebraica italiana (Lia Tagliacozzo) CULTURA E INTERCULTURA Igiaba Scego, la mappa dell’anima (Paola Milli) Il jazz «zingaro» di Django Reinhardt (Xavier Rigaut) Multicultura. Educare alla convivenza con l’altro. Diversamente (Stefania Sarallo) Integrazione non significa assimilazione (intervista a Loredana Ferrara) Cultura. Le sante dello scandalo (Daniela Siri) La verità è «un’esperienza fisica» (intervista a Erri De Luca) 1 3 1 5 10 11 12 7/8 LAICITÀ 7/8 10 10 Una legge contro la libertà (Emma Bonino) Se il crocifisso è «di Stato» (intervista a Sergio Luzzatto) E se la croce non fosse neanche «cristiana»? (Renato Fileno) 4 5 5 DONNE NEL MONDO 13 febbraio, ce n’est qu’un début (Franca Long) Rivoluzione copernicana per gli uomini (Stefano Ciccone) Dimostrazione di forza e di dignità (Giancarla Codrignani) Quanto costa la violenza sulle donne (Elena Ribet) 3 3 3 11 Africa Quale futuro per il Sud Sudan? (Irene Panozzo) Il ruolo delle Chiese nel referendum in Sudan (Daniela Lucia Rapisarda) La Costa d’Avorio verso il cambiamento? (Pascal Koffi Teya) Corno d’Africa. Basta con l’elemosina (Jean-Léonard Touadi) ECUMENISMO E DIALOGO INTERRELIGIOSO Tempo di inverno in attesa della primavera (David Gabrielli) Ecumenismo e pace: la sfida di Kingston (Luigi Sandri) Ecumenismo. Dalla Giamaica una luce sul cammino della pace (Luigi Sandri) «Gloria a Dio e pace sulla Terra» Giornata del 27 ottobre. Dialogando si apre il dialogo (Brunetto Salvarani) Assisi, continuità e discontinuità (David Gabrielli) I leader religiosi per la pace a Gerusalemme (Luigi Sandri) Un dialogo che esclude i vicini (Dora Bognandi) 1 5 Americhe Obama ha ancora carte da giocare? (Paolo Naso) Haiti. Cronache da un Paese in ginocchio (Alessia Arcolaci) L’impegno di Medici senza frontiere ad Haiti (intervista responsabili Msf) In crisi l’interventismo democratico (Paolo Naso) 6 6 12 12 12 12 Asia India. Fra tolleranza e fondamentalismi (Ravindra Chheda) Pakistan, la negazione della libertà religiosa (David Gabrielli) Afghanistan. Un bilancio di 10 anni di dittatura Usa-Nato (Patrizia Fiocchetti) IMMIGRAZIONE, RAZZISMI La legge è meno uguale per tutti (Mostafa El Ayoubi) Ora serve anche l’esame di italiano (Annalisa Govi) Ambiguità e miopia sull’immigrazione (Franca Di Lecce) Quando il pesce sa di immigrato (Stefano Allievi) Lampedusa. Cronache dall’isola dei paradossi (Alessia Arcolaci, Chiara A. Ridolfi) L’impegno di Msf a Lampedusa (intervista a Mery Dongiovanni) Immigrazione. Da Lampedusa a Ventimiglia (Paolo Odello) Cosa penso dell’immigrazione (Francesco Olivanti) Stanare gli evasori? No, tassare gli immigrati (Franca Di Lecce) Quando il cinema racconta i migranti (Umberto Brancia) Il dovere di denunciare i Cie, lager legalizzati (Rosa Villecco Calipari) Cittadinanza. L’Italia sono anch’io, un’idea da sottoscrivere (Franca Di Lecce) Il pacchetto sicurezza e la libertà matrimoniale (Augusta De Piero) 1 2 3 5 Europa Kosovo. Costruire la pace valorizzando la cultura (Gaëlle Courtens) Il berlusconismo reale dell’Ungheria (Felice Mill Colorni) La politica xenofoba di un’Europa in crisi (Guido Caldiron) Russia. La scelta del Tatarstan: tolleranza religiosa (David Gabrielli) Personaggi e luoghi di tante fedi diverse (David Gabrielli, Stefania Sarallo) 5 5 6 6 10 10 Medio Oriente e Maghreb Algeria. I tesori della civiltà romana (Donato Cianchini) Libano. Donne operatrici di pace e di sviluppo (Stefania Sarallo) L’imprenditoria femminile da sostenere (intervista a M. E. Kassardjian) 11 11 11 I 4 4 6 10 2 2 2 5 1 4 7/8 1 6 7/8 11 11 1 2 2 INDICE 2011 Israele. Le contraddizioni da risolvere (Paolo Landi) Il «paese dei cedri» tra speranze e incognite (Stefania Sarallo, David Gabrielli) La rivolta d’orgoglio dei popoli arabi (Mostafa El Ayoubi) Egitto. Alla radice di una rivoluzione (Mahmoud Salem Elsheikh) Mondo arabo. Primavera di democrazia o nuove guerre? (Mostafa El Ayoubi) Egitto. Islam e democrazia non sono incompatibili (Mahmoud Salem Elsheikh) Semi di pace. L’altro Medio Oriente che rifiuta il conflitto (Stefania Sarallo) Il dialogo è l’unica strada possibile (intervista a Y. Roth e S. Abu Awwad) Campane a morto per i palestinesi (Confronti) La Libia pietra d’inciampo delle rivoluzioni arabe (Mostafa El Ayoubi) Verso la divisione in due della Libia? (intervista a Valentino Parlato) Odissea della politica (Giovanni Giudici) La storia dei drusi, le loro vicende in Libano (Stefania Sarallo, David Gabrielli) Chi rema contro le rivoluzioni arabe? (Mostafa El Ayoubi) Medio Oriente. Cambiamenti importanti aprono nuovi scenari (Stefania Sarallo, David Gabrielli) Complessità e solidarietà: due cifre per un conflitto Quei piccoli laboratori di pace (Gian Mario Gillio) I palestinesi: la difficile nascita di uno Stato (David Gabrielli) L’informazione e le controrivoluzioni arabe (Mostafa El Ayoubi) Se quello a Gerusalemme è il viaggio della vita Lo Stato di Palestina: tra sogno e realpolitik (David Gabrielli) Ebraismo. Non cadere nella trappola del nazionalismo (intervista a Moni Ovadia) Vivere da straniero fra gli stranieri (Laura Tussi) Gli Usa e il grigio «autunno arabo» (Mostafa El Ayoubi) Mondo arabo. Maledetta primavera? (Mostafa El Ayoubi) Israele, Hamas, al Fatah: una corsa ad ostacoli (Confronti) Abbiamo sentito parlare di un sogno (Rosita Poloni) L’Aquila anno zero (Stefano Corradino) 5 Il pubblico in fuga da una Rai faziosa (Roberto Natale) 5 Referendum. Quattro sì per dire tre no (Adriano Gizzi) 5 Rompere il silenzio sui referendum (intervista a Ugo Mattei) 5 Chi ha paura di una legge contro l’omofobia? (Anna Paola Concia) 6 Per cambiare il Paese non bastano le elezioni (Goffredo Fofi) 6 Politica. Se le carceri diventano una discarica sociale (Valter Vecellio) 6 Le ragioni di un Satyagraha (intervista a Marco Pannella) 6 Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi (Adriano Gizzi) 7/8 Una fase si chiude, ora va interpretato il nuovo (intervista a Ilvo Diamanti) 7/8 Una manovra che accentua la crisi (Umberto Brancia) 10 Se la politica non è all’altezza della crisi (Felice Mill Colorni) 10 Le carceri in conflitto con la legalità (Valter Vecellio) 10 Ustica: un atto di guerra nel nostro spazio aereo (Andrea Purgatori) 11 La sentenza riconosce la verità «ostacolata» (Daria Bonfietti) 11 Dopo Berlusconi, le macerie (Felice Mill Colorni) 12 L’umiliazione del welfare neocaritatevole (Augusto Battaglia) 12 Euro: correggere la rotta definita dalla Germania (Stefano Fassina) 12 2 3 3 3 4 4 4 4 5 5 5 5 5 6 RELIGIONI, CHIESE, TEOLOGIA, SPIRITUALITÀ 6 6 6 7/8 7/8 7/8 10 La discutibile esegesi del «Gesù» di Ratzinger (Antonio Guagliumi) 7/8 10 10 10 11 11 12 2 4 7/8 Cattolici Libertà religiosa. Le sue ferite nel mondo, le ambiguità in Italia (David Gabrielli) Papato, l’uso politico delle canonizzazioni (Francesco Zanchini) Un popolo cristiano prigioniero di se stesso (Giovanni Franzoni) Risorgimento vaticano (Felice Mill Colorni) Scola a Milano, Concilio alla prova (Confronti) Chiesa cattolica. Prove di Concilio negli Stati Uniti (Vittorio Bellavite) Charta cattolica dei diritti e delle responsabilità Assisi, continuità e discontinuità (David Gabrielli) 2 2 7/8 7/8 12 POLITICA Servirebbe un decreto «salva-famiglie» (Elio Lannutti) Berlushenko: declino o rilancio? (Felice Mill Colorni) Ridare visibilità alla solitudine operaia (Umberto Brancia) Il Vaticano, un premier e le lenticchie d’oro (Confronti) Qualunquemente Italia (Adriano Gizzi) La cultura «non si mangia», si affossa (Vincenzo Vita) Una democrazia da non dare mai «per scontata» (intervista a Gustavo Zagrebelsky) Risorgimento vaticano (Felice Mill Colorni) Il lavoro sotto attacco (Paolo Ferrero) Un 12 marzo permanente a difesa della democrazia (Gian Mario Gillio) Per amore della Costituzione (Giuseppe Giulietti) L’Italia che vuole andare avanti (Concita De Gregorio) Comunità di base La scomparsa di don Mazzi. L’Isolotto, un caso serio del post-Concilio (Luigi Sandri) Enzo Mazzi. Un operaio per la costruzione del regno di Dio (Stefano Toppi) 1 2 2 2 2 3 Ebrei Tullia Zevi, una vita vissuta con passione (Gian Mario Gillio) Ebraismo. Non cadere nella trappola del nazionalismo (intervista a Moni Ovadia) Vivere da straniero fra gli stranieri (Laura Tussi) Incontri/Paolo De Benedetti. Cristiano la domenica, ebreo tutti gli altri giorni (Piera Egidi Bouchard) Un viaggio nella stampa ebraica italiana (Lia Tagliacozzo) Gli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah (Stefania Sarallo) 3 4 4 4 4 4 II 11 11 2 10 10 12 12 12 INDICE 2011 Musulmani Cristiani e musulmani tra Asia e Africa (Franco Cardini) La voce dei musulmani europei autoctoni (Giuseppe Cossuto) Egitto. Islam e democrazia non sono incompatibili (Mahmoud Salem Elsheikh) Il mosaico dell’islam italiano in dialogo (Paolo Naso) Islam: la nuova frontiera (Giulio Soravia) Ahmadiyya. «Diversamente musulmani» (Iftikhar Ahmad Ayaz) Protestanti Incontri/Sergio Aquilante. Tra impegno sociale e testimonianza evangelica (Piera Egidi Bouchard) Incontri/Giorgio Girardet. La prigionia di un «pericoloso protestante» (Piera Egidi Bouchard) Il protestantesimo nell’Italia di oggi (Gian Mario Gillio) La rivoluzione di piazza Tahrir (Giuliano Ligabue) Cristiani perseguitati e persecutori, una storia bifronte occultata (David Gabrielli) Dalla laicità di separazione alla laicità dialogica (Stefania Sarallo) Fare i conti con Maria (Giuliano Ligabue) Ad essere in crisi è «un» papato o «il» papato? (Luigi Sandri) 2 3 4 11 12 Note dal margine (a cura di Giovanni Franzoni) Se il corpo del malato si fa campo di battaglia Tempo di colloquio ebraico-cristiano Rifiutare una vita in cui non ci si riconosce Martiri senza martirologio Restiamo umani. La parola fatta carne La discesa del divino nella carne del servo Per una giustizia equa la legittimità non basta Ma il rispetto della vita vale solo per quella umana? 12 5 10 12 Libro La teocrazia di Benedetto è più fragile di quel che sembra (Luigi Sandri) Il tranquillo coraggio di un italiano vescovo (David Gabrielli) Se il lavoro non è più una vocazione (Maria Cristina Laurenzi) Un mito della civiltà cristiana indagato, rivisto e corretto (David Gabrielli) Unione europea: o federalismo o morte (Umberto Brancia) Nucleare, a chi conviene? (Anna Maria Marlia) Il Vangelo secondo Leonard Cohen (Demetrio Canale) Mosca, più che Washington, è all’origine dello Stato ebraico (David Gabrielli) La ricerca e il «cammino» di Tolstoj» (Amici di Tolstoj) Quanto costa all’Italia il Concordato del 1984? (David Gabrielli) Tradimento fedele (Giuliano Ligabue) Perché, anche nel terzo millennio, si può ancora credere in Dio (David Gabrielli) Per rifondare sul Dio benedicente la teologia e la prassi cristiana (Luigi Sandri) Se nel mondo islamico nasce il femminismo (Anna Maria Marlia) Il deserto e le tentazioni (Giuliano Ligabue) Non è da tutti essere donna (Giuliano Ligabue) Francesco Guccini, un cantastorie artigianale (Laura Tussi) «Stiano pure scomode, signore» (Stefania Sarallo) 11 11 12 12 1 3 4 5 6 10 11 12 Opinione Gesù, l’ebreo di Nazaret, chi interpella? (Gianpaolo Anderlini) 1 Mi chiamo Uddin (Uddin Asraf) 1 Anima del commercio o commercio dell’anima? (Filippo Gentiloni) 2 Una città smarrita (Massimiliano Tosato) 2 La vita in un pozzo d’acqua (Paola Milli) 3 La scuola deve fare i conti con il pluralismo religioso (Brunetto Salvarani) 5 La laicità da riconquistare (Silvana Prosperi) 5 La laicità come garanzia di libertà e pluralismo (Gian Carlo Marchesini) 11 RUBRICHE Cinema (a cura di Umberto Brancia) Forse gli autistici siamo noi Lo sguardo di Eastwood sul nostro smarrimento C’era una volta un re a cui serviva un logopedista La quotidianità mistica di Simone Weil Il bene è più importante della fede Un ritratto attento dell’Iran di oggi 10 1 2 3 6 11 12 1 1 1 2 2 3 3 3 4 4 4 Osservatorio sulle fedi (a cura di Renato Fileno) Meno infermieri e più preti negli ospedali La presenza dei cristiani copti in Italia Il «Gesù storico» di Pagola indagato dal Vaticano I testimoni di Geova e la Cena del Signore Libertà religiosa negata in Corea del Nord Perché Wojtyla «santo subito»? Alle origini del metodismo in Italia La Corte europea difende i testimoni di Geova In costruzione il primo tempio mormone in Italia Alle origini della festa del Natale 1 2 3 4 5 6 7/8 10 11 12 Spigolature d’Europa (a cura di Adriano Gizzi) Rajoy guida la Spagna del dopo Zapatero 12 SCUOLA Non si risparmia sull’educazione (Maria Immacolata Macioti) Una scuola pubblica da difendere e riformare (Marco Rossi-Doria) Diritto allo studio a rischio per gli alunni disabili (intervista a Simonetta Salacone) L’integrazione scolastica dei disabili (Rocco Luigi Mangiavillano) Ricominciamo dalla scuola, «bene comune» (Simonetta Salacone) 5 5 5 6 7/8 7/8 10 III 1 4 4 4 7/8 INDICE 2011 CONCILIO VATICANO II. I SUOI PRIMI 50 ANNI numero monografico di settembre SOCIETÀ Una secolarizzazione lenta e inesorabile (Felice Mill Colorni) La cappa clericale su politica e media (Enzo Marzo) Una crisi profonda, non solo economica (Umberto Brancia) Abusi edilizi attorno alla basilica di San Paolo? (Anna Maria Marlia) Lavoro e disabili: a che punto siamo? (Augusto Battaglia) Come funziona la legge sull’inserimento lavorativo (Rocco Luigi Mangiavillano) Disabilità. Il lavoro come strumento di autonomia (Maurizio Marotta) Società. La faccia brutta del Belpaese (Anna Maria Marlia, Fausto Tortora) Economia sociale. Un’opportunità per occupazione e sviluppo (Augusto Battaglia) 1 1 Presentazione (Gian Mario Gillio) • Tra Gerusalemme II e Vaticano III (Brunetto Salvarani) • Un periodo di grandi trasformazioni (Vittorio Rapetti) • La Bibbia: da grande codice a libro assente (Gianpaolo Anderlini) • La liturgia prima e dopo il Concilio (Andrea Grillo) • Il Concilio Vaticano II, inaspettata primavera (David Gabrielli) • Come l’urlo di un bambino in una voliera (Marco Ronconi) • Gaudium et spes, un nuovo sguardo sul mondo (Giovanni Bachelet) • La Lumen gentium riscopre il «popolo di Dio» (Erio Castellucci) • Il grande passo avanti della Nostra aetate (Brunetto Salvarani) • Ad gentes, la rifondazione teologica della missione (Mario Menin) • La Bibbia non è parola sigillata, ma svelata (Flavio Dalla Vecchia) • Il nodo della riforma liturgica (Matteo Ferrari) • Dignitatis humanae, la fede senza costrizioni (Marco Vergottini) • Un Concilio «cattolico» che vuole essere universale (Marco Dal Corso) • Il grande contributo del cardinal Bea al Concilio (Francesco Capretti) • De Lubac, dalla solitudine al Vaticano II (Cristiana Dobner) • Fino a quando mancheranno le «madri della Chiesa»? (Giancarla Codrignani) • Il «padre» della Gaudium et spes (Giacomo Coccolini) • Giuseppe Dossetti: il partigiano del Concilio (Antonio Nanni) • Rahner, teologo del dopodomani (Giacomo Coccolini) • Maximos IV, la voce dell’Ortodossia al Vaticano II (David Gabrielli) • Lo sguardo religioso di un non credente (Lino Ferracin) • Il panorama postconciliare e la «normalizzazione» (Alessandro Santagata) • La riscoperta della Bibbia (Elena Lea Bartolini) • La nascita del dialogo cristiano-ebraico (Claudia Milani) • Un ecumenismo riscoperto e poi «affossato» (Fulvio Ferrario) • Il Vaticano II visto dai copti d’Oriente (Kyrillos William) • Il Concilio visto dall’America Latina (José Comblin) • Sono solo cinquant’anni ma sembrano cinque secoli (Filippo Gentiloni) • Rottura o continuità? (Massimo Faggioli) • Coraggio e reticenze da un punto di vista protestante (intervista a Paolo Ricca) • L’inizio di una grande svolta tra cattolici ed ebrei (intervista a Riccardo Di Segni) • Il difficile dialogo islamo-cristiano (Giulio H. Soravia) • Il Concilio e i giovani (Armando Matteo) • L’inaudito arrovesciamento (Angelo Casati) • Il futuro del cattolicesimo (intervista a José Comblin) • Il sogno di un prossimo Concilio (Marco Campedelli) • Ricordi, speranze, delusioni di un padre conciliare (intervista a Giovanni Franzoni) • Bibliografia (a cura di Antonio Delrio) 1 2 3 3 5 6 11 STORIA E MEMORIA Un bilancio di 150 anni di unità (Nicola Tranfaglia) Cristiani e musulmani tra Asia e Africa (Franco Cardini) Il 10 febbraio, tra identità e confini (Giuliano Ligabue) Gli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah (Stefania Sarallo) 1 2 3 12 SVILUPPO, ECONOMIA, AMBIENTE, PACE, DIRITTI UMANI Quando le radiazioni accecano i cervelli (Vittorio Cogliati Dezza) Sfide, problemi, risultati del Social Forum (Vittorio Bellavite) Rialziamo la testa! (Flavio Lotti) Economia. Alla ricerca di un’etica globale (Paolo Tognina) L’economia? Se è «etica» funziona meglio (intervista a Hans Küng) Microcredito. Se la banca dà l’ombrello anche quando piove (Valentina Spositi) Il microcredito aiuta i poveri ad aiutarsi (intervista ad Andrea Berrini) 4 4 7/8 7/8 7/8 11 11 IV