CONFRONTI
12/DICEMBRE 2011
WWW.CONFRONTI.NET
Anno XXXVIII, numero 12
Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori
Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Stefano Toppi (vicepresidente), Rosario Garra, Gian Mario Gillio, Rita
Maria Maglietta.
Le immagini
In balia dei mercati?, Andrea Sabbadini, copertina
L’iniziativa al teatro Ambra alla Garbatella, Andrea Sabbadini, 3
Gli editoriali
SOS Confronti, 4
Dopo Berlusconi, le macerie · Felice Mill Colorni, 5
L’umiliazione del welfare neocaritatevole · Augusto Battaglia, 6
Euro: correggere la rotta definita dalla Germania · Stefano Fassina, 7
Direttore Gian Mario Gillio
Caporedattore Mostafa El Ayoubi
In redazione
Luca Baratto, Umberto Brancia, Demetrio Canale, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori,
Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Cristina Mattiello, Daniela Mazzarella, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo,
Stefano Toppi.
Collaborano a Confronti
Stefano Allievi, Massimo Aprile, Alessia Arcolaci,
Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio
Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio De Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Piera Egidi, Mahmoud Salem
Elsheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà,
Renato Fileno, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Francesco Gentiloni, Maria Rosaria Giordano, Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Domenico Jervolino, Maria
Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca
Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei,
Dafne Marzoli, Domenico Maselli, Lidia Menapace, Mario Miegge, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari, Alda Radaelli, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Josè Ramos Regidor, Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Valentina Spositi, Serena
Tallarico, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto
Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi.
Redazione tecnica e grafica
Daniela Mazzarella
Programmi [email protected]
Abbonamenti, diffusione e pubblicità
Nicoletta Cocretoli
Amministrazione Gioia Guarna
I servizi
Religioni
Informazione
Medio Oriente
Giornata del 27 ottobre
Ahmadiyya
Incontri/De Benedetti
Assisi, continuità e discontinuità · David Gabrielli, 9
I leader religiosi per la pace a Gerusalemme · Luigi Sandri, 11
Un dialogo che esclude i vicini · Dora Bognandi, 13
Un viaggio nella stampa ebraica in Italia · Lia Tagliacozzo, 15
Abbiamo sentito parlare di un sogno · Rosita Poloni, 18
Dialogando si apre il dialogo · Brunetto Salvarani, 20
Islam: la nuova frontiera · Giulio Soravia, 22
«Diversamente» musulmani · Iftikhar Ahmad Ayaz, 24
Cristiano la domenica, ebreo tutti gli altri giorni · Piera Egidi Bouchard, 26
Le notizie
Immigrazione
Armi
Ambiente
Diritti umani
Valdesi
Società
Spiritualità
Presentato il XXI Dossier Caritas/Migrantes, 28
Il rapporto di Amnesty sulla vendita ai regimi, 28
L’eco-guida di Greenpeace ai prodotti elettronici, 29
La campagna di Rsf contro i Paesi che reprimono la libertà di stampa, 29
Riformati americani in visita in Italia, 30
Ricerca di Cittadinanzattiva sugli asili nido, 30
La scomparsa di padre Anthony Elenjimittam, 31
Le rubriche
Spigolature d’Europa
Convegno
Memoria
Osservatorio sulle fedi
Note dal margine
Cinema
Libro
Libro
Segnalazioni
SOS Confronti/Lettere
Rajoy guida la Spagna del dopo Zapatero · Adriano Gizzi, 32
Il protestantesimo nell’Italia di oggi · Gian Mario Gillio, 33
Gli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah · Stefania Sarallo, 34
Alle origini della festa del Natale · Renato Fileno, 35
Ma il rispetto della vita vale solo per quella umana? · Giovanni Franzoni, 36
Un ritratto attento dell’Iran di oggi · Umberto Brancia, 37
Fare i conti con Maria · Giuliano Ligabue, 38
Ad essere in crisi è «un» papato o «il» papato? · Luigi Sandri, 39
40
41
Indice 2011
Publicazione registrata presso il Tribunale di
Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75,
n.15476. ROC n. 6551.
Hanno collaborato a questo numero:
I.A. Ayaz, A. Battaglia, F.M. Colorni, M. Di Pietro, S. Fassina, L.Mussi, R. Poloni, G. Sarubbi,
G. Soravia.
Ringraziamo Andrea Sabbadini per le foto che illustrano il numero
e per l’amicizia che sempre ci dimostra.
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LE IMMAGINI
Le immagini che illustrano questo numero sono di Andrea Sabbadini e si riferiscono all’iniziativa
di autofinanziamento che abbiamo organizzato al teatro Ambra alla Garbatella di Roma.
3
SOS CONFRONTI
«
V
ogliamo continuare così, sostienici!». Con questo grido d’allarme, esattamente un anno fa (dicembre 2010), dalla copertina di
Confronti abbiamo fatto appello ai nostri lettori affinché rinnovassero il proprio abbonamento e possibilmente ne attivassero anche uno nuovo da regalare a qualcuno. Di fronte all’aggravarsi della nostra situazione economica, due mesi fa abbiamo deciso
di lanciare una campagna straordinaria per la salvezza di Confronti. Questa volta la risposta è stata molto più consistente e per fortuna gli abbonamenti e i contributi stanno arrivando abbastanza numerosi. Sono sicuramente indispensabili, ma purtroppo non ancora sufficienti per poterci considerare fuori pericolo rispetto alla minaccia concreta che questo mensile e la cooperativa Com Nuovi Tempi siano costretti a chiudere i battenti. Per questo chiediamo, a chi non l’avesse ancora fatto, di fare il possibile per darci una mano.
Riportiamo qui sotto l’elenco aggiornato delle persone che hanno contribuito finora, ringraziandole ancora molto e sperando che altre vogliano presto aggiungersi. A pagina 43 pubblichiamo alcune mail che i lettori ci hanno inviato in queste ultime settimane.
Ricordiamo ai lettori i nostri recapiti
per contattarci e le modalità per effettuare i versamenti:
www.confronti.net
[email protected]
tel. 06.4820503; 06.48903241
versamenti su c.c.p. 61288007
intestato a coop. Com Nuovi tempi,
via Firenze 38 - 00184 Roma.
Bonifico bancario (presso la BPM)
IBAN: IT64Z0558403200000000048990
CHI HA CONTRIBUITO
Contributi «a copertura deficit» da parte dei soci della cooperativa Com Nuovi Tempi:
Claudio Boreggi, Umberto Brancia, Francesco Brocco, Fulvio Carloni, Gianfranco Carpente, Franco Cattaneo, Tonino Cau, Anna Cavallaro,
Giorgio Chinigò, Nicoletta Cocretoli, Ottorino Di Francesco, Mostafa El Ayoubi, Paolo Ferrari, Giovanni Franzoni, Ernesto Flavio Ghizzoni,
Franco Giampiccoli, Gian Mario Gillio, Evelina, Lilia ed Enrico Girardet (in memoria del cugino Giorgio Girardet), Adriano Gizzi, Elena
Glielmo, Emanuela Gorelli, Wanda Gozzi, Gioia Guarna, Domenico Jervolino, Michele Lipori, Franca Long e Alessandro Mazzarella, Renato Maiocchi, Anna Maria Marino, Anna Maria Marlia e Fausto Tortora, Daniela Mazzarella, Salvatore Menna, Paolo Paganuzzi, Giuseppe
Perseo, Vera Petrosillo, Mario Peyronel, Pier Giorgio Rauzi, Piera Rella, Isidoro Rosolen, Carlo Rubini, Dea Santonico e Stefano Toppi, Stefania Sarallo, Francesco Silvestri, Massimo Silvestri, Aleandro Stella, Roberto Stura, Maurizia Vecchi, Oriano Zecchini.
totale dall’1/1/2011 al 22/11/2011: 12.553 euro
Contributo straordinario dei soci lavoratori della cooperativa (ufficio di Confronti): 10.000 euro
Contributi di autofinanziamento della campagna «per salvare Confronti»:
Associazione Passaparola, Giovanni Avena, Irene Boreggi Chiappa, Grazia Borellini, Erika Braglia, Francesco Brusoni, Giancarlo Buccheri,
Giorgia Caneschi, Casa Cares, Chiesa battista di Marghera, Sandra Ciocca, Laura Coatto e Daniele Bouchard, Marco Coletta, Laurentia Comba, Comunità cristiana di base del Cassano (Napoli), Comunità cristiana di base di Pinerolo, Comunità cristiana di base di San Paolo a Roma, Comunità metodista di via Firenze a Roma, Giovanni Concer, Silvestro Consoli e Addolorata Lorusso, Anna Cornini, Alberto Cristofari,
Lorenza Dallapiccola, Augusta De Piero, Rossella De Rossi, Marcello Di Rollo, Elena Dolce e Fabio De Propris, Teresa Ducci, Mahmoud Salem Elsheikh, Sergio Eynard, Claudia Fanti, Francesco Fasanelli, Luigino Ferraro e Marcella Russo, Angela Maria Galuppo, Monica Gentile
e Claudio Belli, Fondazione Villa Emma, Carlo Fornoni, Pia Germondari, Romana Gianvenuti, Carla Gioda, Giorgio Gomel, Mariagrazia
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GLI EDITORIALI
Greco, Claudio Iacovoni, Davide Iacovoni, Alfredo Landi, Adriana Libanetti, Gloria Maccioni, Pasquale Maiolo, Agnieszka Masternak, Enrico
Mastrofini, Mauro Mazzoni, Federica Menta, Gemma Meriano, Francesca Merletti, Patrizia Mione, Gianni Novelli, Francesca Pacelli, Alessandro Pacetti, Loredana Parpaglioni, Marco Perilli, Alessandra Petrini, Giorgio Piacentini, Francesco Piccini, Piero Pili, Massimo Pulejo,
Enrica Quattrucci, redazione di Adista, Aldo Riboni, Elena Rollo, Alberto Roncoroni, Antonella Rosso, Mit e Gianni Rostan, Giulietta Rovera,
Claudia Russo, Giulia Russo e Alessandra Petrini, Renzo Sabatini e Giovanna Gagliardo, Amina Donatella Salina, Brunetto Salvarani, Adele
Salzano, Giorgio Santelli, Cristina Santoro, Paola Scavalli, Mimmo e Antonella Schiattone, Luca Simoniello, Nicola Simoniello, Valentina
Spositi, Gabriella Toresini, Giulio Vicentini, Massimiliano Villa, Francesco Zanchini, Pietro Zanella, Kathrin Zanetti Eberhart, Luca Zevi.
totale aggiornato al 22/11/2011: 10.215,50 euro
Dopo Berlusconi,
le macerie
Felice Mill Colorni
S
ilvio Berlusconi non è stato soltanto – e non è
certo dir poco – il più nefasto politicante
nell’intera storia dell’Italia repubblicana, senza neppure possibili paragoni, e senza le giustificazioni, che i peggiori fra i suoi predecessori potevano forse avere, dei condizionamenti internazionali della guerra fredda. È nell’intera storia dell’Europa occidentale dal 1945 a oggi che non era mai apparso sulla
scena politica un altro singolo individuo capace di
nuocere così profondamente alla civiltà del proprio
Paese, e con conseguenze destinate a protrarsi per decenni, anche nel caso, tutt’altro che scontato, che quella cui abbiamo finalmente assistito sia stata davvero la
sua uscita definitiva dalla scena politica italiana.
Non si tratta soltanto della catastrofe economica e
finanziaria che è stata l’inevitabile approdo finale degli «anni di fango» del berlusconismo. Questa catastrofe è forse riuscita a convincere quel che è sopravvissuto della classe dirigente italiana a rendersi conto
che alla catastrofe civile non può che seguire alla lunga anche la rovina comune. Negli ultimi dieci anni,
otto dei quali dominati da Berlusconi, l’Italia è stata
relegata agli ultimi posti nel mondo in termini di sviluppo economico, con tassi di sviluppo superiori solo
a quelli di una manciata delle economie più disastrate di quella parte residua del Terzo Mondo che non ha
tratto benefici dalla globalizzazione. Tutto quel che
non è stato fatto in questi anni dovrà essere fatto ora,
nel pieno della crisi e sotto la minaccia incombente
del fallimento, con costi economici e sociali neppure
paragonabili a quelli che vi sarebbero stati con una
classe politica responsabile e lungimirante. E altri costi diretti degli anni di fango del berlusconismo sono
quelli, solo in piccola parte già calcolabili, della «bolletta Berlusconi» che i contribuenti italiani dovranno
pagare nei prossimi decenni per effetto della crescita
astronomica del servizio del debito pubblico e dello
Ammesso che B
sia davvero
politicamente finito,
ammesso che al prezzo
di «lacrime e sangue»
Monti riesca a farci
allontanare
dal baratro,
per riparare i danni
ci vorrà mezzo secolo.
Intanto, dopo atei
devoti e clericali
porcaccioni, arrivano
cattolici seri e credibili:
tutti gli altri fuori.
E per i sostenitori di B
si aprono appena
ora i conti dolorosi
con la realtà;
e con la propria
credulità.
5
scivolamento all’ultimo o penultimo posto fra le economie europee. Per non parlare dei costi sociali imposti dai tagli effettuati, e da quelli che saranno resi
purtroppo ineluttabili dal disastro politico che ha spinto l’Italia nella prima linea della crisi globale.
Ma la causa politica che ha moltiplicato in Italia gli
effetti della crisi globale è tutta nella storica, gigantesca regressione civile che il berlusconismo ha imposto
per diciotto anni all’Italia. Gli anni di fango sono stati gli anni del rimbambinimento e del rimbecillimento totale di una vita politica nazionale ridotta a pubblicità, gli anni della dimissione a tutti i livelli del senso di responsabilità individuale, gli anni dell’azzeramento della già scarsa educazione civica diffusa fra gli
italiani, gli anni della perdita completa della memoria
civile e della riabilitazione strisciante del fascismo storico, gli anni del trionfo politico e legislativo dell’oscurantismo clericale estremista su una società pienamente secolarizzata, gli anni dell’affievolimento e della delegittimazione di tutti i freni e contrappesi costituzionali, gli anni dell’assalto al denaro dei contribuenti da parte di tutte le consorterie legate al potere
politico, di tutte le corporazioni protette, di tutte le cricche e di tutte le mafie, gli anni di un degrado civile mai
visto in precedenza – di nuovo: non è certo dir poco –,
gli anni della lotta politica ridotta alle palate di fango
e al dossieraggio, gli anni del trionfo del populismo plebeo, gli anni del discredito internazionale assoluto,
dell’azzeramento del peso dell’Italia in Europa.
Non ci si può far governare per anni da uno così,
buttatosi in politica solo per salvare se stesso dalla giustizia penale e le proprie aziende dal dissesto, e pensare di non pagarne le conseguenze. Non si può elevare
un individuo come Berlusconi a protagonista assoluto della politica italiana per diciotto anni di fila e pensare che il resto del mondo, e i mercati mondiali, non
se ne accorgano.
La smisurata potenza di fuoco mediatica, regalatagli dalla peggiore politica della cosiddetta «prima Repubblica» e che ha portato Berlusconi al potere diciassette anni fa, ha largamente contaminato anche la
maggior parte dei suoi avversari, che non hanno avuto la cultura politica, la probità civica e il coraggio necessari a contrastarlo senza riserve fin dall’inizio come
avrebbero dovuto, e che lo hanno anzi elevato al rango di nuovo possibile «padre costituente» ai tempi del-
GLI EDITORIALI
la bicamerale. E ora è troppo tardi per rimediare in pochi mesi al disastro. Perfino il vocabolario della politica ne è uscito distrutto e ogni parola ha perso il suo significato come nel romanzo di Orwell.
Nelle condizioni date, e con il Parlamento che ci ritroviamo, probabilmente la soluzione data alla crisi
non poteva essere migliore. Fin d’ora, però, c’è almeno
qualcosa che proprio non va. Anche nella stagione appena iniziata, sembra che a dover essere rappresentata
nel governo dell’Italia sia soltanto quella parte della società civile che si riconosce nelle varie anime del mondo cattolico: a dominare nella politica continua ad essere una parte della società che da trent’anni è minoritaria per riconoscimento della stessa Conferenza episcopale. Se i «rifondatori democristiani» di Todi sono
massicciamente presenti, è pressoché espunta dal governo l’Italia laica e diversamente credente. Da Veronesi a Bonino, da Zagrebelsky a Rodotà, fuori tutti: non
possumus, non expedit, di certo non praevalebunt.
Dall’egemonia assoluta degli «atei devoti» (e dei clericali porcaccioni) munifici di riconoscimenti e denaro
pubblico, siamo passati a quella dei veri e austeri cattolici-di-chiesa, immuni da ogni «scisma sommerso»
e neppure troppo desiderosi di mostrarsi «adulti». Anche se non dovremo più vergognarci delle persone che
ci governano, è stato un pessimo segnale.
In ogni caso, quali che siano i possibili risultati del
governo Monti nel fronteggiare l’emergenza economico-finanziaria e sperabilmente nell’allontanarci
dal baratro, c’è un danno che sarà ancora più difficile da riparare. Un’intera generazione di italiani comuni è stata socializzata alla politica pensando che
quel che aveva sotto gli occhi fosse una normale dialettica democratica fra un normale «centrodestra» e
un normale «centrosinistra» europei. Per questo c’è
ben poco da sperare da un ricambio soltanto biologico o generazionale. Ora per molti italiani deve cominciare un doloroso e incerto processo psicologico:
rendersi conto e accettare l’idea di avere sostenuto per
diciotto anni, o di non avere avversato come avrebbero dovuto, una politica fatta soltanto di malgoverno,
malversazioni, ciarlataneria e analfabetismo civile.
Per molti elaborare il lutto sarà uno sforzo insostenibile. Come tanti «ragazzi di Salò», che hanno impiegato una vita intera a cercare di giustificare una tragica fesseria, magari inconsapevolmente commessa
all’età di quindici anni ma con terribili conseguenze
per il Paese, ora milioni di italiani, vissuti per anni
sotto la rassicurante campana mediatica fornita da
giornalisti servi della politica, cercheranno nei prossimi decenni di autoassolversi e di trovare giustificazioni per sé e per gli affossatori di quella che era un
tempo – bene o male, e magari più male che bene –
l’Italia europea. Ne avremo ancora per mezzo secolo,
probabilmente.
L’umiliazione del
welfare neocaritatevole
Augusto Battaglia
Negli ultimi tempi,
il sociale è stato
«maltrattato»
con particolare
accanimento
da varie manovre
che in tre anni hanno
ridotto i fondi statali
dell’80 per cento,
portandoli da 2,5
a 0,5 miliardi
di euro l’anno.
E intanto cresce
la disoccupazione,
la povertà si fa
sempre più diffusa
e aumentano
le famiglie in difficoltà.
6
A
rchiviata l’era Berlusconi, il variegato mondo
del sociale si augura, e si aspetta, che il nuovo
esecutivo Monti si affretti ad accantonare misure sommarie, tagli lineari e tutti quegli ingegnosi accorgimenti della coppia Tremonti-Sacconi
che hanno caratterizzato una infausta stagione politica. Una stagione dalla quale il sociale esce malridotto per un succedersi di manovre inique, ultima la
correttiva di luglio, che in tre anni hanno ridotto
dell’80 per cento i fondi statali del settore. Con il fondo per le politiche sociali che precipita dai 929 milioni del 2008 a 273. Le risorse per la famiglia che passano da 346 a 51, quelle per le politiche giovanili da
137 a 12, mentre il fondo per l’affitto da 205 viene
progressivamente decurtato fino ai miseri 32 milioni
di quest’anno. Anche il servizio civile subisce la stessa
sorte, mentre i finanziamenti per l’infanzia, per l’inclusione degli immigrati e, soprattutto, per la non autosufficienza vengono addirittura azzerati. Complessivamente la spesa statale sociale scende da 2,5 miliardi a poco più di 500 milioni all’anno. Un vero e
proprio salasso per il welfare.
E mentre regioni, province e comuni si arrabattano
per reperire risorse e salvare almeno l’esistente, si va
drammaticamente aggravando la situazione sociale nel
Paese. E grida di allarme arrivano da più parti. Cresce
la disoccupazione e la Caritas segnala una diffusa povertà con le richieste di aiuto economico aumentate in
quattro anni dell’81 per cento. Sindaci ed amministratori locali denunciano un crescente affanno mentre
agli sportelli dei servizi sociali si allungano le file delle famiglie in difficoltà, di quelle che non arrivano alla fine del mese, di quelle che non riescono più a pagare il mutuo o l’affitto di casa. Arrivano grida di allarme anche dagli istituti di ricerca sociale, come il
Censis, che stima ben 2 milioni e 700mila anziani non
del tutto autosufficienti e da assistere. Ed anche dalle
associazioni dei disabili e da tanti genitori che invecchiano, che si interrogano, e interrogano le istituzioni,
su che fine faranno i loro figli disabili quando verrà
meno il sostegno familiare. È il «dopo di noi».
In un quadro del genere, pensare di fare cassa
sull’assistenza è irresponsabilità allo stato puro. Ma
era quanto contenuto nel disegno di legge delega di
riforma fiscale e assistenziale, che ci si augura venga
immediatamente ritirato dal nuovo governo, all’esame delle commissioni Finanze ed Affari sociali della
GLI EDITORIALI
Camera. Obiettivo dell’ex ministro Tremonti: ulteriori 20 miliardi annui di risparmi sulla spesa sociale attraverso un complesso di misure che andrebbero a
cancellare di fatto la Riforma dell’assistenza, la 328
del 2000, vanto dei governi di centrosinistra, che
nell’ultimo decennio ha consentito, pur nelle crescenti
difficoltà, di avviare anche nel nostro Paese la costruzione di una rete di welfare locale.
Con quel disegno di legge, socialmente ingiusto
quanto velleitario nei suoi obiettivi finanziari, e bocciato per questo dalla Corte dei conti, si andava a delineare un nuovo modello di Stato sociale. Non più
quello moderno, europeo, poggiato su saldi principi
costituzionali, sui diritti, ma un sistema più fragile e
precario che si appella con richiami generici al solidarismo e al volontariato, un welfare neocaritatevole
che si volge pietoso ai «soggetti autenticamente bisognosi» e che pensavamo di aver messo definitivamente in soffitta, insieme alle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza ed alla Legge Crispi. Un modello dal quale non potevano che derivare proposte
confuse e generiche come un’indennità sussidiaria per
la non autosufficienza che non garantisce niente a
nessuno, ma soprattutto un indebolimento della rete
locale dei servizi che non potrà che determinare uno
stato di vero e proprio abbandono per le tante famiglie
in difficoltà, per le persone più fragili. Norme che andrebbero a ridurre gli aventi diritto all’assistenza con
la revisione dell’Isee, a colpire pensioni ed assegni per
i disabili gravi, indennità di accompagnamento per i
non autosufficienti. Per non parlare della «armonizzazione dei diversi strumenti assistenziali, previdenziali e fiscali», che punta a ridimensionare il diritto
alla reversibilità delle pensioni. Per finire con la social
card, una sorta di tessera di povertà gestita dai Comuni attraverso le organizzazioni del volontariato e finanziata dalla beneficenza, un vero e proprio stigma
umiliante su poveri e persone bisognose.
Una nuova stagione è quello che si augurano le organizzazioni del sociale. Una stagione nella quale per
far quadrare i conti non si vada ancora una volta a penalizzare e colpire i più deboli, a cancellare diritti, a
penalizzare un sociale in quanto a risorse ben al di
sotto della media europea. Un sociale che ha certo bisogno di cambiamenti ed innovazioni, perché il mondo, la società cambiano e con essi cambiano priorità
e bisogni da fronteggiare. Ma se questo è vero, allora
bisogna cambiare strada ed avviare subito – la crisi
non consente ulteriori indugi – un confronto con Regioni, enti locali, rappresentanze del sociale, compreso quel ricco e variegato mondo della solidarietà e della gratuità che è più di ogni altro interessato a migliorare il welfare. Promuovere nuove misure, razionalizzare gli interventi e fare ordine nella giungla di
detrazioni e deduzioni fiscali per finalizzare anche
queste ad obiettivi prioritari da definire. È questa la
strada difficile e faticosa su cui il Paese ed il suo governo si devono incamminare, anche perché una rete
moderna di servizi e prestazioni che sostengano famiglie e persone in difficoltà è condizione necessaria per
la nuova fase di crescita e di sviluppo economico da
tutti auspicata. Occorre allora fissare, finalmente, i livelli essenziali di assistenza sociale da garantire ai cittadini, a partire dalla tutela delle persone non autosufficienti. E ci vuole coraggio e determinazione, da
parte di tutti. In Germania per ottenere il diritto ad
una piena tutela della non autosufficienza con un’assicurazione pubblica obbligatoria i lavoratori hanno
rinunciato a due giorni di ferie all’anno: perché allora non ridiscutere livelli e destinazione dei contributi
in busta paga? Ponendo una condizione, naturalmente, che con una nuova politica fiscale si chiami
prima ad un doveroso contributo di solidarietà chi dispone di patrimoni e redditi consistenti.
Euro: correggere la rotta
definita dalla Germania
Stefano Fassina
Nel quadro in cui
si trova l’Europa –
spiega a Confronti
il responsabile
del settore Economia
e lavoro del Partito
democratico –
insistere sull’austerità
cieca e sull’ulteriore
regressione
delle condizioni
delle persone che
lavorano porta tutti,
anche i Paesi cosiddetti
forti, a fondo.
Senza promuovere
lo sviluppo sostenibile
e valorizzare il lavoro,
non si riduce
il debito pubblico
(la Grecia insegna).
7
S
iamo in una fase di straordinari cambiamenti. Il termine «crisi» è sempre meno utile a fotografare il passaggio in corso. Siamo, in
realtà, in una «grande transizione» articolata
lungo quattro fondamentali assi: geo-economico e
geo-politico; demografico; economico e sociale; ambientale.
Navighiamo in mare aperto, ma la rotta è incerta.
È evidente il deficit di analisi e di direzione politica. Il
«trionfo delle idee fallite» domina il dibattito politico. Innanzitutto, nell’Unione europea e nell’area euro. L’euro è a rischio, non per colpa degli speculatori,
ma a causa delle ampie asimmetrie di competitività
delle aree legate alla moneta unica. Non possono convivere a lungo, a meno di non attuare crescenti trasferimenti dai bilanci pubblici, Paesi con significativi
e continuativi attivi della bilancia commerciale (Germania, in primis) con Paesi gravati da altrettanto significativi e ricorrenti deficit negli scambi di beni e
servizi (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda).
Insomma, nell’Unione europea e, in particolare,
nell’area euro, le radici della rottura del precario equilibrio del ventennio alle nostre spalle non stanno nei
debiti pubblici dei «Paesi peccatori», ma in un sistema squilibrato dove «i peccatori», grazie al loro indebitamento in larga misura privato, alimentavano le
esportazioni dei cosiddetti «Paesi virtuosi». Il debito
GLI EDITORIALI
privato, a sua volta, veniva contratto dalle famiglie per
compensare la caduta dei redditi da lavoro e l’aumento della disuguaglianza. In tale quadro, insistere
sulla austerità cieca e sull’ulteriore regressione delle
condizioni delle persone che lavorano porta tutti, anche i Paesi cosiddetti forti, a fondo. Senza promuovere lo sviluppo sostenibile e valorizzare il lavoro, non si
riduce il debito pubblico (la Grecia insegna).
Per correggere verso l’alto i differenziali di competitività e promuovere sviluppo sostenibile e lavoro, è
necessaria «più Europa». Innanzitutto, la cessione
della residua e formale sovranità sulle politiche economiche ad una sede federale intergovernativa
dell’area euro, legittimata sul piano democratico, per
condividere e recuperare sovranità effettiva nell’arena
globale. Il passaggio di sovranità è condizione necessaria per segnare la difficile transizione in corso in
senso progressivo.
Noi, l’Italia, abbiamo tanti compiti a casa da fare.
Ma noi non siamo la causa dei drammatici problemi
dell’euro. Noi siamo la forma più acuta di difetti strutturali dell’impalcatura politica, istituzionale ed economica dell’unione monetaria: 1) l’assenza di una
banca centrale in grado di svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza ed arginare la pressione sui titoli del debito pubblico dei Paesi solvibili, ma in emergenza di liquidità; 2) l’assenza di un adeguato «Fondo salva-Stati» in grado di affiancare la Bce e di ricapitalizzare le banche in sofferenza; 3) l’assenza di un
significativo bilancio pubblico per l’area euro in grado
di finanziare, con risorse comunitarie raccolte attraverso l’emissione di Euro-project bonds e la tassa sulle
transazioni finanziarie, investimenti nelle infrastrutture materiali ed immateriali; 4) l’assenza di un coordinamento delle politiche retributive e della tassazione
per evitare la svalutazione del lavoro come via, miope,
alla competitività. Le quattro lacune vanno colmate al
più presto per riuscire a correggere le asimmetrie di
competitività nello spazio monetario unico e sostenere
una domanda interna europea sempre più debole. Soltanto così si può salvare l’euro e l’Unione europea.
Insistere sulla urgente necessità di invertire la rotta
della politica economica dell’area euro non è parlar
d’altro rispetto ai problemi dell’Italia. Oggi, è sempre
più evidente che correggere la rotta definita dalla Germania del governo Merkel e da larga parte delle tecnocrazie di Bruxelles e Francoforte è condizione necessaria per uscire dal tunnel della stagnazione,
dell’emorragia di lavoro e di perdita di imprese. Condizione necessaria, certo non sufficiente. L’Italia è in
ritardo. Il «decennio perduto», infatti, oltre a essere
una certezza del nostro passato, è un rischio reale per
il futuro.
Per ricostruire l’Italia, come in tutti i momenti alti
della nostra storia repubblicana, le forze migliori del
Diana Tejera
8
Paese devono cooperare. La ricostruzione richiede un
patto tra soggetti della politica, rappresentanze delle
imprese e del lavoro e associazioni della cittadinanza
attiva. In tale strategia, il Governo Monti può essere
una straordinaria opportunità per mettere fondamenta condivise alla «Terza Repubblica».
Fare passi avanti significativi è difficile. Il berlusconismo non è stato un incidente di percorso e non si
esaurisce con l’uscita di scena di Berlusconi. È stata
un’interpretazione del sentimento profondo di una
parte rilevante della società e delle classi dirigenti italiane. Per non smarrirsi e rinsecchire ulteriormente il
tessuto della nostra democrazia, la bussola della partecipazione, dell’equità sociale e dello sviluppo sostenibile deve orientare il cammino.
RELIGIONI
Assisi, continuità
e discontinuità
David Gabrielli
L’incontro voluto dal papa il 27 ottobre, per i venticinque anni
del primo indetto da Giovanni Paolo II, ha elementi simili al primo
ma, anche, evidenti variazioni tese a ridimensionarne lo status
teologico. La cancellazione di ogni preghiera pubblica. L’evento,
in tv, lancia alla gente un messaggio indesiderato da Ratzinger?
C
ontinuità e discontinuità hanno caratterizzato
la «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera
per la pace e la giustizia nel mondo», sul tema
Pellegrini della verità, pellegrini della pace,
voluta da Benedetto XVI ad Assisi il 27 ottobre, nel venticinquesimo anniversario dell’analogo, ma non identico
incontro voluto per la prima volta da papa Wojtyla. Ora
come allora il pontefice ha invitato rappresentanti delle varie religioni; ma Ratzinger a questi ha aggiunto
l’invito a quattro «non credenti», tra i quali la filosofa
francese di origine bulgara Julia Kristeva. Nel 1986 i cristiani pregarono insieme, tutti gli altri ciascuno per conto loro in chiese o sale messe a disposizione delle singole religioni, così che cristiani e non-cristiani pregarono simultaneamente seppure non congiuntamente; questa volta, invece, la preghiera pubblica è stata esclusa.
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I discorsi, variegati, in S. Maria degli Angeli
Arrivati in treno tutti insieme ad Assisi da Roma, il papa e i circa trecento rappresentanti delle varie Chiese e
religioni sono convenuti nella basilica di Santa Maria
degli Angeli, dove dieci di loro hanno preso la parola.
Ne riportiamo qualche flash per mostrare le diverse
sensibilità espresse.
Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli: «Ancora oggi, venticinque anni dopo il primo incontro di Assisi, dieci anni dopo i drammatici eventi
dell’11 settembre e nel momento in cui le “primavere
arabe” non hanno messo fine alle tensioni intercomunitarie, il posto della religione resta ambiguo». Rowan
Douglas Williams, arcivescovo di Canterbury: «Le sfide del nostro tempo sono tali che nessun gruppo religioso può pretendere di avere tutte le risorse pratiche di
cui ha bisogno per affrontarle, anche se siamo convinti
di avere tutto ciò di cui necessitiamo nel campo spirituale e religioso». Norvan Zakarian, primate della
diocesi della Chiesa apostolica armena in Francia: «La
ricerca della pace da parte di tutti i credenti è un profondo fattore di unità tra i popoli». Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese:
«Siamo qui per lasciare che la conversione di Francesco
ci parli e per fare sì che la conversazione tra noi divenga
9
una sorgente di giustizia e di pace... I cristiani devono ricordarsi che la croce non è per le crociate, ma è un segno di come l’amor di Dio abbracci tutti».
David Rosen, rabbino, direttore internazionale per
gli affari interreligiosi: «Il grande rabbino Meir Simcha
di Dwinsk, vissuto un secolo fa, osservava che all’interno
dell’arca di Noè i predatori dovettero vivere da vegetariani e le loro potenziali prede poterono vivere in pace. Tuttavia, la profonda differenza tra la situazione dell’arca e
la visione di Isaia, “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello” [11, 6], è che nell’arca non v’era possibilità di scelta.
La visione di Isaia nasce invece dalla “conoscenza del Signore”, e sgorga dalla più intima comprensione spirituale e dalla libera volontà». Wande Abimbola, portavoce dalla religione Ifu e Yoruba nel mondo: «Le nostre religioni sono valide e preziose agli occhi dell’Onnipotente, che ha creato tutti noi con questa diversità e pluralità di vie di vita e di sistemi di credenza... Non è sufficiente rispettare il nostro prossimo, uomini e donne. Abbiamo bisogno di sviluppare anche un profondo rispetto
per la natura, nostra Madre». Acharya Shri Shrivatsa Goswami, rappresentante della religione indù: «Venticinque anni fa Giovanni Paolo II ci fece iniziare il pellegrinaggio odierno. Adesso pertanto dobbiamo riflettere
sul nostro progresso su questa strada. Perché non siamo
arrivati più vicini a dove volevamo essere? Il dialogo sarà
un esercizio futile se non lo intraprendiamo con umiltà,
pazienza, e il desiderio di rispettare “l’altro”».
Ja-Seung, presidente dello Jogye Order, buddhismo
coreano: «Ciascuna delle nostre vite è preziosa, un fiore bellissimo che rende il mondo un luogo glorioso. Non
c’è posto per la violenza o il terrorismo nella religione,
che sottolinea come ogni vita è preziosa e deve essere
amata». Kyai Haji Hasyim Muzadi, segretario generale della Conferenza internazionale degli studiosi
islamici: «In teoria, la finalità della presenza di religioni
è quella di rafforzare i valori e la dignità dell’umanità,
la pace e il progresso. Tuttavia, la realtà dimostra che
molti problemi su questa terra derivano proprio da coloro che seguono una religione, sebbene ciò non significhi che i problemi che sorgono dagli appartenenti ad
una religione siano originati dalla religione stessa». Julia Kristeva: «L’umanesimo è un processo di rifondazione permanente, che si sviluppa continuamente
grazie a delle rotture che sono delle innovazioni. La memoria non riguarda il passato: la Bibbia, i Vangeli, il
Corano, il Rigevda, il Tao, ci abitano al presente. Affinché l’umanità possa rifondarsi, è giunto il momento di
riprendere i codici morali costruiti nel corso della sto-
i servizi
dicembre 2011
confronti
Religioni.
Assisi, continuità
e discontinuità
ria; senza indebolirli, per problematizzarli, rinnovandoli di fronte a nuove singolarità... La rifondazione
dell’umanesimo non è un dogma provvidenziale né un
gioco dello spirito, è una scommessa».
Il papa: ammissioni e puntualizzazioni
Quindi, parlò Ratzinger. Nell’86 «la grande minaccia
per la pace nel mondo derivava dalla divisione del pianeta in due blocchi contrastanti»; poi venne l’89 e tutto quello che ne seguì ma, notava il papa, insieme alla
libertà purtroppo sono continuate discordie, violenze e,
soprattutto, il terrorismo «spesso motivato religiosamente, e proprio il carattere religioso degli attacchi serve come giustificazione per la crudeltà spietata». E,
guardando al passato: «Come cristiano, vorrei dire: sì,
nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna. Ma è assolutamente chiaro che questo è stato un
utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura». Tuttavia, ha aggiunto,
«crudeltà e una violenza senza misura» è stata prodotta dal «no» a Dio, dalla sua negazione – «gli orrori dei
campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza
le conseguenze dell’assenza di Dio» – e ciò «è stato possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna
norma e alcun giudice al di sopra di sé».
Oltre agli atei dichiarati, esistono però «persone alle
quali non è stato dato il dono del poter credere e che
tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Sono “pellegrini della verità, pellegrini della pace”. Per
questo ho appositamente invitato rappresentanti di
questo gruppo al nostro incontro ad Assisi». Tuttavia, il
papa ha evitato di riflettere sul fatto degli atei/agnostici felicemente tali e generosamente dediti alla causa
della pace e della giustizia.
Dopo il discorso papale, i presenti si sono riuniti nel refettorio del convento della Porziuncola per «condividere
un pasto frugale». Quindi ognuno si è ritirato in una
stanza «per una pausa di silenzio, riflessione e preghiera personale». Un’oretta dopo con mini-bus i partecipanti
hanno raggiunto Assisi, percorrendo a piedi, come «pellegrini» appunto, l’ultimo tratto di strada per convenire
in piazza San Francesco. Qui una dozzina di rappresentanti hanno riaffermato, con brevi parole, il comune impegno per la pace. Ad esempio, Mounib Younan, vescovo luterano di Gerusalemme e presidente della Federazione luterana mondiale: «Noi ci impegniamo a proclamare la nostra ferma convinzione che la violenza e
il terrorismo contrastano con l’autentico spirito religioso
e, nel condannare ogni ricorso alla violenza e alla guerra in nome di Dio e della religione, ci impegniamo a fare quanto è possibile per sradicare le cause del terrorismo». Wai Hop Tong, taoista: «Noi ci impegniamo a
stare dalla parte di chi soffre nella miseria e nell’abbandono, facendoci voce di chi non ha voce ed operando
Oltre trecento
rappresentanti
di (quasi) tutte
le Chiese e religioni
del mondo, invitati
da Benedetto XVI
sono convenuti
nella città
di San Francesco
per ricordare, pur
nelle mutate
circostanze, l’evento
voluto da Wojtyla
nel 1986.
Analogie, somiglianze,
diversità, in rapporto
alla situazione
geopolitica
e per la differente
angolazione teologica.
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concretamente per superare tali situazioni, nella convinzione che nessuno può essere felice da solo». Concludeva il papa: «Mai più violenza! Mai più guerra! Mai più
terrorismo! In nome di Dio ogni religione porti sulla Terra giustizia e pace, perdono e vita, amore».
Alle due cerimonie di Assisi, l’università di al-Azhar, la
più prestigiosa dell’islam, non ha inviato un suo rappresentante, per protestare così contro il papa che, all’inizio
dell’anno aveva deplorato le violenze compiute in Egitto
contro chiese copte; e mancava il Dalai Lama.
Assente la preghiera. La forza delle immagini
Nell’86 la preghiera pubblica era stata un elemento caratterizzante Assisi I; nel 2011 è stata invece indesiderata: perché? Venticinque anni fa l’allora cardinale Ratzinger disertò l’incontro, forse ritenendolo venato di
«sincretismo». Allora, contro Assisi tuonò monsignor
Marcel Lefebvre e, pur senza esporsi troppo, fecero sentire il loro disagio ambienti cattolici conservatori. Sia
stato o no per contenere queste critiche e raddrizzare la
barra, nel 2000 Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nella dichiarazione
Dominus Iesus asseriva: le Chiese della Riforma «non
sono Chiese in senso proprio», e le religioni non-cristiane sono «oggettivamente deficitarie». Parole che
suscitarono un’ondata di polemiche.
Con tali premesse, Benedetto XVI ha convocato la
«sua» Assisi, escludendo ogni preghiera pubblica, e dunque abbassando lo status teologico dell’incontro. Il che
non è bastato a convincere i lefebvriani che, per il 27 ottobre, hanno proposto una giornata di digiuno «in riparazione alla celebrazione di un evento storico che più di
ogni altro umilia la sposa di Cristo mettendola sullo stesso piano delle false religioni». Malgrado tali sprezzanti
(teologicamente sprezzanti) affermazioni, Ratzinger pare intenzionato alla riconciliazione con loro, al prezzo –
e come, se no? – di «relativizzare» il Vaticano II.
Sul piano sostanziale – per tornare al discorso del
papa – va sottolineata la sua ammissione della violenza esercitata in nome della fede cristiana (parole che
riecheggiano il mea culpa di papa Wojtyla nel 2000).
Rimane però irrisolto un problema cruciale: le lamentate violenze non sono state compiute solo da re e prìncipi che strumentalizzavano la fede per mire di potere,
ma, spesso, sono state benedette da pontefici e Concili.
Un sangue sparso che scardina l’impalcatura teologica stessa del magistero ecclesiastico.
Comunque, milioni di persone che hanno visto in tv
l’incontro di Assisi, e che nulla sanno delle sottigliezze
teologiche, forse avranno pensato: «Tutte le religioni portano a Dio, e vanno bene se favoriscono la pace». Un riassunto che distorce il pensiero di Ratzinger, ma che è mediaticamente «inevitabile». Per impedirlo, occorrerebbe
non andare ad Assisi; ma, se ci si va, la forza delle immagini oscura ogni possibile messa in guardia.
i servizi
dicembre 2011
confronti
Religioni.
Assisi, continuità
e discontinuità
I leader religiosi per la
pace a Gerusalemme
«In occasione dell’udienza con papa Benedetto XVI,
in questo giorno del 10 novembre 2011, noi, i leader
religiosi dello Stato di Israele, affermiamo la nostra
fede nel Creatore dell’universo che ci rivolge la sua
parola con amorevole benevolenza e compassione e
che ci chiama come esseri umani a vivere in pace e
dignità con gli altri... Riaffermiamo il nostro impegno a difendere la santità della vita ed a respingere
ogni violenza, specialmente quando essa è compiuta
in nome della religione, il che è una dissacrazione
del sacro». Così afferma una dichiarazione del Consiglio dei leader religiosi in Israele – organismo creato nel 2007 – incontrando appunto il pontefice in
una udienza che molti di loro hanno definito «storica», in quanto era la prima volta che avveniva. Joseph Ratzinger, durante il suo viaggio in Terra santa,
nel maggio 2009, già aveva incontrato il Consiglio;
mai, però, a Roma.
Il patriarca di Gerusalemme
e il rabbino capo di Israele
Del gruppo arrivato in Vaticano facevano parte una
ventina di persone: tra esse, il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, e l’arcivescovo greco-melkita di Akka (Akko), Elias Chacour; l’arcivescovo anglicano di Gerusalemme, Suheil Dawani; il rabbino capo (askenazita) di Israele, Yonah Metzger; lo sceicco
Kiwan Mohamad, capo degli imam in Israele; lo
sceicco Tarif Mouafak, capo della comunità drusa in
Israele.
I leader religiosi si impegnano «ad educare i nostri
bambini e le nostre comunità a prevenire ogni offesa
contro i sentimenti di fede altrui»; a «mantenere pace e mutuo rispetto tra le differenti comunità religiose del nostro Stato»; a custodire i Luoghi Santi delle
rispettive religioni ed a fare la propria parte perché ad
essi le autorità israeliane garantiscano l’accesso. La
dichiarazione, quindi, conclude: «Le nostre eredità religiose ci insegnano che la pace, che implica la giustizia e la rettitudine, sono comandamenti del Santo
– sia Lui benedetto – e, come leader religiosi, noi abbiamo il dovere speciale di essere attenti al grido del
debole in mezzo a noi e lavorare insieme per una società più giusta ed onesta».
All’udienza, un rappresentante di ogni religione ha
rivolto al papa un indirizzo di omaggio. Dopo aver ricordato che, due settimane prima, vi era stato l’evento di Assisi, Twal sottolineava: «Noi, i membri del Consiglio religioso, non vogliamo che questo incontro sia
Luigi
Sandri
Singolare udienza,
in Vaticano,
con esponenti cristiani,
ebrei, musulmani
e drusi impegnati
a favorire la pace
in Israele.
L’insistenza sugli
aspetti religiosi
e nessun cenno
alle strade possibili
per superare il conflitto
israelo-palestinese.
Ma nella Città santa
fede e politica
appaiono
inscindibilmente
legate.
un semplice spettacolo... Nel nostro lavoro per affrontare le difficoltà e i problemi che incombono sulla nostra regione e sul nostro popolo, siamo acutamente
consapevoli dei nostri limiti come Consiglio. Non pretendiamo di essere capaci di occuparci e di risolvere
i problemi a livello internazionale e anche a livello regionale. Ma, come Consiglio religioso, siamo coscienti
del potere della fede e della preghiera, e della nostra
responsabilità di fare di più per la riconciliazione tra
le nostre comunità locali di ebrei, musulmani, drusi
e cristiani».
Metzger, da parte sua, si è riferito «ad una delle più
famose profezie, quella di Ezechiele sulle ossa aride,
allorché l’Altissimo promise al profeta: “Ecco, io apro
i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele... E allora tu, mio popolo, saprai che io sono il Signore; l’ho
detto e lo farò” [37, 12, 14]. Noi crediamo che queste parole sono rivolte a noi. Io sono figlio di una famiglia in gran parte annientata durante la Shoah in
Polonia e in Germania. I sopravissuti tra questi ebrei
tornarono come ossa aride al nostro Paese dopo la
guerra. Noi riteniamo che è solamente grazie allo
spirito del Divino che essi riuscirono a tornare ed a
partecipare alla ricostruzione della terra, così compiendo le parole del profeta». Ma, ha aggiunto, «sfortunatamente, il Satana dell’odio non riposa. I negazionisti della Shoah alzano il loro capo in pubblico
anche oggi, quando abbiamo ancora tra noi i sopravissuti che tuttora mostrano il tatuaggio sul loro
braccio, una prova vivente dell’atrocità. Eppure i negazionisti continuano imperterriti, ed il presidente di
un Paese ad est dell’Eufrate [Mahmoud Ahmadinejad, presidente dell’Iran] continua a promettere
che distruggerà noi e il nostro Stato. E purtroppo il
mondo ascolta e reagisce con chiacchiere senza senso. Tale fu la reazione del mondo quando i nazisti
raggiunsero il potere». «Non vi è ragione che i figli
di Abramo non siano capaci di vivere in pace l’uno
con l’altro. Noi speriamo che la nostra terra sarà
quella dalla quale il messaggio di pace e le profezie
della Bibbia saranno realizzate».
L’imam Kiwan Mohamad,
lo sceicco druso Tarif Mouafak
Era poi la volta dello sceicco Kiwan Mohamad: «Noi
musulmani nello Stato di Israele, il 15 per cento della
popolazione, viviamo con tolleranza, in buon vicinato e in buone relazioni con i nostri fratelli ebrei, cristiani, drusi, circassi, Baha’i e Ahmadiyya [vedi pag.
25]. Noi speriamo che la pace e la sicurezza prevalgano in Medio Oriente in generale e nella Terra santa in
particolare». «L’islam è una religione di pace che ama
la vita e che condanna qualsiasi atto compiuto in nome della religione ma in contrasto con i suoi veri
11
i servizi
dicembre 2011
confronti
Religioni.
Assisi, continuità
e discontinuità
princìpi. Quanti agiscono
con violenza sono egoisti:
agiscono per se stessi e per
motivi e interessi personali; non compiono i comandamenti di Dio e le
indicazioni dei profeti».
Da parte sua, Tarif
Mouafak ha affermato:
«Dobbiamo essere coscienti di quanti sfruttano
la religione per scopi politici, invocano la violenza
e l’uccisione, usano la religione per guadagno personale. Costoro non sono
veri religiosi e di fatto si
allontanano dalla tolleranza della religione che
eleva l’anima... La comunità drusa per secoli è vissuta in pace ed armonia
con le altre comunità in
Terra santa. Essa in Israele adempie tutti i suoi obblighi civili e nazionali ed ha
il diritto di piena libertà religiosa e di accesso ai luoghi santi drusi. La comunità drusa gode dei frutti della democrazia d’Israele, è rappresentata da suoi esponenti alla Knesset [parlamento] ed ha i suoi propri
capi locali nelle municipalità. Con costanza noi lavoriamo duramente per rafforzare buone relazioni
con le altre comunità, e vogliamo trasmettere queste
relazioni alle generazioni che verranno, così che siano eliminati tutti gli odi e tutte le violenze».
L’inestricabilità di problemi religiosi
e politici a Gerusalemme
Ha quindi preso la parola Benedetto XVI: sempre importante, il dialogo tra differenti religioni è tanto più
«urgente per i leader religiosi della Terra santa che,
pur vivendo in un luogo pieno di memorie sacre alle
nostre tradizioni, sono quotidianamente messi alla
prova dalle difficoltà del vivere insieme in armonia».
E, dopo aver ricordato quanto già aveva detto ad Assisi sul rapporto violenza/religione, concludeva con la
sua preghiera al Muro occidentale [il Muro del pianto]: «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, manda
la tua pace in questa Terra santa, nel Medio Oriente,
in tutta la famiglia umana».
Il custode di Terra santa, il francescano Pierbattista
Pizzaballa, in un’intervista alla Radio vaticana l’11
novembre definiva l’udienza «un momento importante e storico. Forse sembrano cose un po’ retoriche,
però è davvero importante dire qualcosa insieme, come religiosi, nelle nostre diversità. Questi momenti
Corradino Mineo,
direttore RaiNews
con Gian Mario Gillio
Creato nel 2007,
il Consiglio dei leader
religiosi di Israele
raccoglie i più alti
esponenti delle
Chiese cristiane,
del rabbinato,
degli imam
e dei capi drusi.
Il papa e i suoi ospiti
hanno fatto
spesso riferimento
all’incontro di Assisi,
anche se il Consiglio,
ovviamente, si trova
ad operare
in una situazione
specifica e irripetibile.
12
non stravolgeranno il corso degli eventi in Medio
Oriente, ma creano una certa mentalità». E monsignor Giacinto-Boulos Marcuzzo, vicario patriarcale
latino per Israele, auspicava che parroci, imam, rabbini, nei rispettivi templi invitassero i loro fedeli a pregare per i fratelli delle altre due religioni.
I discorsi che si sono succeduti durante l’udienza
papale fanno trasparire la delicatezza della situazione
in cui opera il Consiglio, e spiega parole e silenzi che
l’hanno caratterizzata. Twal, accennando ai temi geopolitici, non ha nominato quello – l’occupazione militare e coloniale israeliana dei Territori – che per i palestinesi è l’ostacolo principale alla pace. Metzger non
ha fatto cenno a ciò che dovrebbe fare Israele per arrivare ad una riconciliazione con i palestinesi. Anche il
capo degli imam ha ignorato i problemi geopolitici incombenti su Gerusalemme, insistendo piuttosto sul fatto che chi in nome dell’islam sostiene la violenza contraddice «una religione di pace». Analoga l’angolazione del druso, che poi ha sottolineato lo status dei
[centomila] drusi in Israele: infatti, mentre gli arabi
non fanno il servizio militare (tre anni per i ragazzi,
due per le ragazze), i drusi invece lo compiono. Infine, anche il papa ha insistito sugli aspetti spirituali,
tralasciando quelli geopolitici. Il problema è che a Gerusalemme e dintorni religione, cultura e politica sono spesso così inestricabilmente connesse, e il loro intreccio così differentemente compreso. Finora, la comprensione di ciò che «Dio ha detto», nella Bibbia o nel
Corano, non ha favorito, salvo importanti eccezioni,
giustizia+pace nella Città santa.
i servizi
dicembre 2011
confronti
Religioni.
Assisi, continuità
e discontinuità
Un dialogo
che esclude i vicini
Ogni iniziativa che tenda ad individuare nelle diverse
tradizioni religiose valori etici comuni per promuovere giustizia, pace e armonia nella società, è sicuramente benvenuta. Non bisogna mai stancarsi di percorrere la via di un dialogo vero, sincero e profondo
che si svolga in un clima di reciproco riconoscimento
e che faccia dimenticare le violenze consumate in nome della religione.
Le Giornate mondiali di preghiera per la pace, indette dalla Chiesa cattolica, credo si debbano intendere come il desiderio di dare un contributo utile in tal
senso, anche se il loro percorso non è agevole. Le due
novità di quest’ultima Giornata, la preghiera individuale e l’invito esteso agli atei, hanno rivelato, da una
parte, le difficoltà di un incontro di preghiera con
realtà religiose molto diverse dal cristianesimo,
dall’altra l’esigenza del dialogo con chiunque.
Ma in un raduno che contava circa 300 invitati provenienti da ogni parte del mondo spiccava l’assenza
dell’evangelismo italiano. Perché? In realtà, le Chiese
evangeliche del nostro Paese non sono state invitate a
partecipare e hanno ritenuto paradossale che avessero
ricevuto l’invito le loro denominazioni a livello mondiale, ma non i vicini di casa. Inoltre, hanno guardato
con occhi critici un incontro interreligioso organizzato unilateralmente e sotto l’egida papale. Difficile per
gli evangelici condividere un simile approccio.
Pellegrini della pace, affermava il titolo della manifestazione. Ma in quale senso? Pace non è assenza
di guerra ma neppure assenza di polifonia, è armonia.
Non è indifferenza, è interazione; non è pensiero unico, è comparazione.
È stato bello vedere tante persone di buona volontà
e tanti giovani partecipare con entusiasmo alla marcia per la pace, ma la via per realizzare una pace vera non può prescindere dal dialogo e dal confronto.
Per noi evangelici, queste Giornate assomigliano più
che altro a una kermesse, una sfilata di star religiose,
e ci sembra che il tanto evocato «spirito di Assisi» rischi di attivarsi in maniera intermittente. Finita la
suggestiva parata, questo «spirito» tende ad affievolirsi e mostra significative carenze quando si tratta di
dialogare seriamente e di affrontare i problemi concreti. Se guardiamo al dialogo interreligioso in Italia,
al di là di alcuni momenti ufficiali o di lodevoli incontri a livello locale, difficilmente vediamo la Chiesa cattolica sedersi a pari titolo accanto alle altre confessioni per affrontare i problemi che pur ci sono. La
vediamo, invece, attivarsi alacremente quando si trat-
Dora
Bognandi
Alla Giornata
di Assisi vi erano
circa 300 persone,
ma l’evangelismo
italiano mancava
perché le Chiese
evangeliche
del nostro Paese,
a differenza delle loro
denominazioni
a livello mondiale,
non erano state
invitate a partecipare.
Un incontro
interreligioso
organizzato
unilateralmente,
una sfilata di star
religiose convocate
da un unico
protagonista:
Benedetto XVI.
Dora Bognandi
è direttore associato
del Dipartimento
degli Affari pubblici
e della libertà religiosa
degli Avventisti.
13
ta di difendere i cosiddetti «valori non negoziabili» e
combattere perché siano imposte, anche a chi non crede nella sua stessa maniera, delle pratiche molto dolorose. Questo accade soprattutto in Italia perché in
altri Paesi, come la Germania, è stato possibile raggiungere una posizione comune anche su temi spinosi come il testamento biologico. E non possiamo neppure dimenticare che la Chiesa cattolica è stata la
grande assente nella Consulta delle religioni del Comune di Roma, nonostante fosse stata più volte sollecitata a partecipare. Forse non ha aderito perché non
ne è stata la promotrice, ma questo bisogno di protagonismo non sempre è utile. Più che la promozione di
un dialogo paritario e la ricerca di una pace che rispetti i diritti di tutti, a noi sembra che la preoccupazione della Chiesa cattolica sia un’altra.
Alla vigilia dell’appuntamento di Assisi, papa Ratzinger ha annunciato un «Anno della fede» che dovrà
coincidere con i 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II e con i 20 anni dal varo del Catechismo cattolico. E tutto ciò ci ricorda un’altra decisione caratterizzante di questo pontificato: quella della «nuova
evangelizzazione», in linea anche con quel Progetto
culturale promosso dal cardinal Ruini che mira a permeare tutti i settori della società.
Ritornando ad Assisi, non sono rimasti insensibili gli
evangelici quando Benedetto XVI, fin dalle prime parole rivolte ai convenuti, ha fatto la distinzione tra «api
e rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali e
delle religioni del mondo». Parole che richiamano la
Dominus Iesus, secondo la quale le religioni non cristiane «oggettivamente si trovano in una situazione
gravemente deficitaria» e le Chiese cristiane al di fuori del cattolicesimo sono «comunità ecclesiali».
Il fatto che le Chiese evangeliche mondiali abbiano
ricevuto l’invito, ma non quelle italiane, rivela una
tendenza generale, nel nostro Paese, a voler confinare le denominazioni cristiane diverse dalla cattolica
nell’area delle realtà «straniere». Interessante, a tale
proposito, mi sembra il parere dell’avvocato Alessandra Trotta, presidente della Chiesa metodista in Italia,
che afferma: «La sostanziale assenza, in un incontro
che pure si svolge in terra italiana, di una, anche simbolica, rappresentanza italiana sembra inserirsi in
una (peraltro consolidata) tendenza cattolica a trasmettere l’idea che nel nostro Paese la diversità confessionale (non solo delle altre religioni, ma anche
all’interno dello stesso cristianesimo) è essenzialmente
“straniera”, un elemento (spesso colorato e quasi folcloristico) del tutto estraneo alla storia, alla cultura,
all’“identità” (passate, presenti e future) dell’Italia e
degli italiani, saldamente ancorate alle loro radici
“cattoliche”. Una prospettiva certamente non corretta, che, oltretutto, fa scomparire dall’orizzonte del popolo cattolico convocato per partecipare a grandiosi
i servizi
dicembre 2011
confronti
Religioni.
Assisi, continuità
e discontinuità
incontri che mirano a rafforzare il dialogo tra le fedi
(giustamente indicato come uno degli strumenti principali per la promozione della pace e della giustizia
nel nostro mondo tormentato) proprio i soggetti con
cui, allo spegnersi dei riflettori di quegli eventi unici
e irripetibili, si dovrebbe esercitare, nel contesto della
vita reale, la fatica quotidiana del dialogo e del confronto. Certo, pensare al dialogo con i lontani è più facile che provare a praticarlo con i vicini... soprattutto
in contesti in cui si occupano posizioni di “dominio”,
che si può avere la tentazione di difendere anche a
scapito degli spazi di libertà degli altri».
La stessa tendenza notiamo anche a livello di Ministero dell’Interno, dove è stata abolita la Direzione generale degli affari dei culti per inserirla nel Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, quasi a voler suggerire, appunto, che tutte le confessioni diverse dalla cattolica non fanno parte del patrimonio nazionale.
Per fortuna, in Italia non viviamo più in tempi di
uso della violenza per sopprimere chi crede in maniera diversa. Ma questo non vuol dire che non ci siano
problemi. Oggi ci si limita a ignorare gli altri. Ad
Se guardiamo
al dialogo
interreligioso
in Italia, al di là
di alcuni momenti
ufficiali o di lodevoli
incontri a livello
locale, difficilmente
vediamo la Chiesa
cattolica sedersi a pari
titolo accanto
alle altre confessioni
per affrontare
i problemi
che pur ci sono.
pubblicità
14
esempio, quando nei media si deve parlare di cristianesimo, a rappresentarlo è solo il cattolicesimo e la
Chiesa cattolica non ci risulta che si adoperi per fare
spazio a un cristianesimo plurale. Come non ci risulta un suo impegno per aiutare quelle confessioni che
da molti anni chiedono un’Intesa e non riescono a ottenerla, oppure non si batte perché nelle scuole ci sia
un insegnamento di storia delle religioni che presenti tutte le varie opzioni religiose e filosofiche. A livello
concreto, le nostre città sembrano divise da muri simbolici che rendono difficile la pacifica convivenza e
mettono in discussione semplici diritti umani come
quello di adorare in luoghi di culto idonei. Dialogare
vuol dire ascoltare le difficoltà degli altri e aiutare a
risolverle, soprattutto se si ha il potere per farlo. Se c’è
qualcosa da temere è proprio l’indifferenza e il silenzio. E non possiamo permetterci di essere sordi e muti nei confronti di altre persone che hanno sentimenti religiosi diversi dai nostri, se non vogliamo tradire
la vocazione primaria di ogni religione che è sostanzialmente la promozione del benessere dell’umanità
in uno spirito solidale.
INFORMAZIONE
Un viaggio nella stampa
ebraica in Italia
Lia Tagliacozzo
Il Centro di documentazione ebraica contemporanea ha curato
una mostra dal titolo «Una storia di carattere. 150 anni di
stampa ebraica in Italia». Sono oltre cento le testate espresse
da questa realtà nel corso del tempo. Abbiamo ascoltato il parere
dei direttori di quattro importanti giornali del mondo ebraico.
H
anno idee e priorità diverse, ma i quattro direttori dei giornali ebraici ai quali ci siamo
rivolti almeno su una cosa sono d’accordo:
l’esposizione della minoranza ebraica sui
media nazionali è sproporzionata ai suoi numeri reali. Per qualcuno è motivo di orgoglio, per altri di perplessità, dipende anche dalla localizzazione geografica della testata.
Ma è bene cominciare dall’inizio: in oltre cento anni la minoranza ebraica italiana ha espresso oltre cento testate. Complice il 150esimo anniversario
dell’unità, una bella mostra a cura del Centro di documentazione ebraica contemporanea svoltasi a primavera ne ha dato conto con il titolo significativo
«Una storia di carattere. 150 anni di stampa ebraica
in Italia». Purtroppo manca un catalogo, ma
dall’esposizione emerge con forza quanto gli ebrei italiani abbiano discusso, raccontato e litigato sulla
«propria» stampa periodica. Gli argomenti sono, da
sempre, i più vari: dalle grandi questioni di attualità
politica e culturale alla cronaca della vita delle comunità, dagli approfondimenti sulla tradizione e le feste ebraiche al sionismo prima e alla vita dello stato
di Israele poi. Struggenti i primi numeri del dopoguerra, che danno conto dei primi elenchi di nomi di
deportati tornati in Italia e gli elenchi di coloro che
sono scomparsi e di cui ancora non si ha notizia. Ci
vorranno un paio di anni perché emerga con chiarezza quanto accaduto. Le testate di rilievo nazionale sono prima della guerra il settimanale Israel poi la Rassegna mensile di Israele, periodico, oggi semestrale,
di alta cultura.
La prossima primavera entrerà in vigore il nuovo
statuto dell’ebraismo italiano, un cambiamento radicale con una sorta di parlamento molto ampio ed un
esecutivo ristretto. Cambieranno le modalità di elezione e la rappresentanza che ne verrà fuori sarà composta in modo diverso. Per verificare i nuovi orientamenti culturali e politici che emergeranno è necessario aspettare, ma intanto ci siamo rivolti ai direttori di
quattro testate per raccontare quale ebraismo giungerà a questa nuova assise. Anche oggi le testate ebrai-
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che sono più di quelle rappresentate in queste righe
ma, dovendo scegliere, si è scelto quelle che ci sembrano più significative.
Per Fiona Diwan, direttore da alcuni anni del
mensile Bollettino della Comunità ebraica di Milano (a cui si accompagna una newsletter settimanale
e il sito Mosaico.it, un nome che vale, si immagina,
nella sua duplice accezione: da un lato aggettivazione da Mosé, dall’altro il sostantivo che utilizza tante
tessere diverse per comporre un’immagine): «Da un
punto di vista demografico l’ebraismo italiano è agonizzante. I numeri sono sconfortanti e la leadership,
sia quella laica che i rabbini, non riescono a dare risposte a questa moltitudine di ebrei che si allontanano. Per quel che riguarda la realtà ebraica milanese,
ci sono dei segni di miglioramento in questi ultimi
anni».
Più cauto è Giacomo Kahn – direttore di Shalom, mensile ebraico di informazione e cultura,
edito dalla Comunità di Roma, a cui si accompagna
una versione online e che nel numero di novembre si
è occupato anche della crisi di Confronti: «L’ebraismo
italiano – spiega Kahn – è numericamente fragile e
ha bisogno di essere più attento allo studio della propria tradizione. Non si può continuare a citare Ernesto Nathan (sindaco di Roma all’inizio del secolo
scorso) o Tullia Zevi. Sono stati personaggi importanti, ma è un credito che rischia di esaurirsi se non si
continua a crescere culturalmente».
A introdurre un altro elemento e a mettere i piedi
nel piatto non a caso è Anna Segre – direttore di Ha
Keillah, bimestrale ebraico torinese organo del «gruppo di studi ebraici», unico giornale indipendente, il
cui editore quindi non è una Comunità ebraica: «A
che prezzo salvare l’unità dell’ebraismo italiano è una
vera sfida. Il nostro slogan è sempre stato: due ebrei,
tre opinioni, una comunità. Per questo mi sembra che
paventare delle scissioni sia inutile e rischia piuttosto
di essere inutile o addirittura dannoso. I numeri non
lo consentono». Uno dei fantasmi dei quali la stampa
ebraica ha difficoltà a parlare sono i nuovi gruppi
dell’ebraismo riformato che oramai da anni sono presenti in Italia. Le istituzioni dell’ebraismo italiano (le
singole Comunità e l’Unione nazionale) appartengono infatti alla tradizione ebraica ortodossa – il nome
in italiano fa pensare giustamente al rigore nell’attaccamento ai precetti della Torah, il Pentateuco, libro, legge e rivelazione dell’ebraismo, ma si tratta anche di una definizione tradizionale. Esistono infatti
i servizi
dicembre 2011
confronti
Informazione.
Un viaggio nella stampa
ebraica in Italia
vari tronconi dell’ebraismo che differiscono robustamente gli uni dagli altri per le diverse modalità di interpretazione del testo biblico e degli obblighi che ne
discendono ma la millenaria presenza sul territorio
italiano e il suo essere marginale rispetto alle grandi
discussioni dell’ebraismo ha tenuto fino ad ora
l’ebraismo italiano al riparo da divisioni traumatiche
che invece hanno spaccato l’ebraismo a partire dalla
metà dell’Ottocento. A dire il vero però mancano i dati per comprendere se il calo demografico dell’ebraismo italiano tradizionale, quale lo si evince dal calo
degli iscritti alle Comunità, sia dovuto al nuovo emergere di gruppi ebraici conservative o reform piuttosto che alla più generale secolarizzazione che investe
l’intera società italiana. Chi scrive propende per la seconda ipotesi ampliata dal rinnovato rigore da parte
del rabbinato che crea spaesamento in un ebraismo
italiano ortodosso nella forma ma robustamente assimilato al Paese nei comportamenti quotidiani
(dall’osservanza rigorosa delle regole alimentari a
quella del riposo sabbatico). «Una strada – prosegue
Anna Segre – potrebbe essere salvare l’ortodossia formale accettando però delle modalità che consentano
di rimanere tutti insieme». Per lei «il pluralismo non
è un’opzione che salva comunque: con i nostri scarsissimi numeri una scissione è un rischio che potrebbe creare più problemi di quanti ne risolva».
Per i direttori dei giornali delle due comunità più
grandi, Roma e Milano, parlare dei riformati – come
vengono sbrigativamente definiti – è più complicato:
«Non c’è dubbio che è un problema – commenta Fiona Diwan – il mondo reform che avanza, come quello degli ebrei lontani dalle istituzioni, hanno bisogno
di essere raccontati». «Sta a me, come direttore – interviene Giacomo Kahn – consentire a chi vuole sollevare i temi di poterlo fare liberamente. Le pagine che
il giornale dedica alle lettere sono parecchie, e sono
anche tra le più lette, dopodiché – conclude pragmatico – la linea del giornale è quella che detta l’editore, cioè la comunità ebraica di Roma che è ortodossa.
Nel mio lavoro però mi sono occupato di temi ebraicamente scottanti, dal dibattito sui Dico all’omosessualità, anche con voci dissonanti riguardo anche alla realtà israeliana».
Tutt’altro approccio ha Guido Vitale, che del rischio di scissioni preferisce non parlare; d’altro canto,
la testata che dirige rappresenta la vera novità di questi ultimi anni: Pagine ebraiche - il giornale dell’ebraismo italiano è un nuovo mensile nazionale
realizzato dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Proprio il sottotitolo perentorio (sarà forse
quell’articolo determinativo) e il fatto che sia l’unico
finanziato con i fondi dell’Otto per mille ha suscitato
non poca maretta. L’ipotesi di un’unica testata nazionale ha creato infatti il timore di un «pensiero uni-
Uno dei fantasmi
dei quali la stampa
ebraica ha difficoltà
a parlare sono i nuovi
gruppi dell’ebraismo
riformato che oramai
da anni sono
presenti in Italia.
Mancano i dati
per comprendere
se il calo demografico
dell’ebraismo italiano
tradizionale, quale
lo si evince dal calo
degli iscritti
alle Comunità,
sia dovuto al nuovo
emergere di gruppi
ebraici «conservative»
o «reform» piuttosto
che alla più generale
secolarizzazione
che investe l’intera
società italiana.
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co», molto malvisto in una realtà tanto composita,
anche se Vitale ci tiene a sottolineare che il suo giornale è nuovo e non occupa lo spazio di altre testate:
«Esistono molti italiani che non sono iscritti a una comunità ebraica – riflette Vitale – ma che si percepiscono come legati a questo mondo: dialogare con loro è la sfida che la minoranza ebraica deve raccogliere per la propria sopravvivenza. Non abbiamo il dovere di essere tanti numericamente, abbiamo il dovere
di essere noi stessi. Di essere giornalisti ebrei italiani
senza complessi e senza retropensieri. E di portare nel
nostro lavoro di giornalisti la gioia e l’entusiasmo che
derivano dai valori e dalle tradizioni che abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni precedenti e di cui
siamo testimoni».
Il mensile è composto da diversi dorsi – all’interno c’è anche «Italia ebraica, voci dalle comunità»,
che si occupa di cronaca comunitaria, e «Dafdaf, il
giornale ebraico dei bambini – e la redazione cura
anche il sito Moked.it e una newsletter quotidiana.
«La cosa che ci preme di più – prosegue Vitale – è come la minoranza ebraica venga percepita dalla società
italiana e questo per due motivi: da un canto, ovviamente, da questo deriva la nostra sicurezza e il nostro
benessere, ma ne deriva anche la raccolta dell’Otto per
mille o comunque la nostra possibilità di raccogliere
risorse. La minoranza ebraica in Italia deve sviluppare la propria capacità di costruire relazioni con il
mondo esterno. Una minoranza così piccola in una
società tanto grande non può chiudersi in una sorta
di autosufficienza: abbiamo molto da offrire alla società esterna ed essa ha molto da cogliere. Mi sforzo di
fare dei giornali che possano essere utili agli ebrei italiani, ma dove si possano a sentire a proprio agio anche i non ebrei che guardano con interesse ai valori e
alle vicende degli ebrei italiani. Giornali che abbiano una maggioranza di lettori non ebrei. È difficile
definire un ambito di interessi o di argomenti, poiché
l’universo della cultura ebraica è composto da settori
che sono trasversali a tanti e diversi aspetti della vita
e della cultura: dalla cultura in senso lato alla scienza alla tecnologia, allo sport. È evidente che guardiamo con forte interesse, e cerchiamo di raccontare, la
realtà dello stato d’Israele, fortemente distorta da media che vorrebbero ingabbiare un mondo molto complesso e contraddittorio esclusivamente attraverso il
conflitto in atto in Medio Oriente. Si tratta di smontare questa visione di Israele, perché Israele è ben altro
ed è molto di più. Come riteniamo di rilievo la difesa
della Memoria della Shoah. Ma circoscrivere la minoranza ebraica solo attraverso questi due nodi è molto
limitante e significa assecondare un processo strumentale mosso dai media della cultura dominante. È
fondamentale mostrare che la società ebraica italiana
non ha solo un passato, ma anche un futuro».
i servizi
dicembre 2011
confronti
Informazione.
Un viaggio nella stampa
ebraica in Italia
«Dopo la nascita del giornale nazionale ci siamo
posti il problema se tenere in vita Ha Keillah – commenta a distanza Anna Segre – ma poi ci siamo detti
che il nostro giornale permette un confronto che altrimenti non ci sarebbe. Noi diamo un peso particolare alle vicende piemontesi e torinesi, ci occupiamo dei
personaggi della Resistenza in Piemonte e poi c’è un
altro aspetto: noi siamo un giornale autofinanziato e
possiamo quindi avere le mani libere, possiamo essere platealmente schierati e prendere delle posizioni politiche. In passato le questioni fondamentali sono state due: la netta contrarietà al governo Berlusconi, pensando che alcuni dei suoi atti politici violavano dei
principi specificatamente ebraici: l’importanza della
giustizia, l’attacco alla scuola pubblica e alla libertà
di stampa. La battaglia che abbiamo sempre condotto è che non si possono vendere i principi dell’ebraismo in nome di una ostentata solidarietà ad Israele.
Quanto ad Israele, noi riportiamo le posizioni di quelle forze che in Israele lavorano per la pace e il principio «due popoli, due stati». Ultimamente io cerco di
darmi la regola di offrire il maggior spazio possibile
ai collaboratori israeliani che magari non hanno tutto questo spazio nei media ebraici. D’altro canto un
giornale ebraico dichiaratamente di sinistra è una cosa di cui c’è bisogno sia per ciò che riguarda la politica italiana sia Israele».
Nel guardare alla realtà ebraica italiana vi sono per
Giacomo Kahn motivi di soddisfazione tali che avrebbe preferito iniziare la nostra conversazione parlando
di questi: «L’ebraismo italiano – spiega – è una voce
ascoltata all’interno della società civile e delle istituzioni e non solo per quanto riguarda la tutela della memoria o la preoccupazione nel contrastare il negazionismo e le derive razziste ma anche sui temi di riflessione collettiva della società, come le questioni di fine
vita, dei trapianti, il tema, drammatico, dell’eventuale
o meno alimentazione forzata. Non è un caso che rav
Riccardo Di Segni, il rabbino capo di Roma, sia vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica. A noi
non mette paura la diversità delle opinioni, per esempio l’ebraismo italiano ha sempre sostenuto che bisognerebbe poter organizzare molte più moschee e offrire a tutti il diritto di pregare. Diverso è il problema di
cosa venga detto all’interno delle moschee. Un altro
punto di forza, più recente, è la rinnovata partecipazione politica dell’ebraismo: c’è stata una lunga cesura a causa delle leggi razziali che avevano creato disaffezione verso la politica e le sue istituzioni, da una
decina di anni a questa parte, invece, ci sono dei nuovi giovani deputati che fanno del loro ebraismo un elemento di ricchezza e partecipazione al dibattito, anche
su argomenti legati al diritto di Israele a vivere. Così come ci sono tanti giovani che sono entrati dal basso nella vita dei partiti anche in schieramenti contrapposti».
Guido Vitale, direttore
del nuovo mensile
«Pagine ebraiche il giornale
dell’ebraismo
italiano», ci tiene
a sottolineare che il suo
giornale è nuovo e non
occupa lo spazio
di altre testate:
«Esistono molti italiani
che non sono iscritti
a una Comunità
ebraica, ma che
si percepiscono come
legati a questo mondo:
dialogare con loro
è la sfida che
la minoranza ebraica
deve raccogliere
per la propria
sopravvivenza».
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Fiona Diwan riflette con particolare attenzione sulla realtà ebraica milanese della quale si occupa il suo
giornale: «Il Bollettino deve essere il riflesso di una
koinè multipla. La nostra comunità è formata da tanti gruppi diversi: l’ebraismo italiano e quello ashkenazita ma anche quello libanese, iraniano, turco, egiziano, quasi tutti gruppi immigrati in Italia nel dopoguerra. Ciascuno ha le proprie sinagoghe, i propri
Talmud Torah (corsi di formazione religiosa) e organizza i propri incontri serali. Vi è un gruppo francofono di origine siriana e libanese che, pur risiedendo in Italia da molti anni, continua a svolgere le proprie iniziative in francese. Alcuni di questi hanno delle scuole diverse da quelle della Comunità. Ma se
ognuno si arrocca sul proprio Aventino non si va da
nessuna parte e chi dice che è necessario stare uniti
chiacchiera e basta. In un contesto così frammentato, la Comunità sta cercando di porsi come organismo
super partes e si assiste ad un moltiplicarsi di occasioni di incontro trasversali intorno a temi di carattere generale che divengono anche occasioni di avvicinamento delle persone lontane, anche per quegli ebrei
distanti che magari si sono rivolti in passato alla Comunità senza trovare interlocutori disponibili. È presto per dire se questo inciderà sulla demografia
dell’ebraismo italiano, ma penso che sia almeno una
strategia».
«Uno dei maggiori punti di debolezza – spiega
Giacomo Kahn, analizzando le criticità – è un’eccessiva litigiosità che, in parte, è anche il frutto degli
atteggiamenti provenienti dagli schieramenti politici nazionali che si riverberano anche nelle comunità
ebraiche. È importante però avere presente che all’interno del mondo ebraico il riflesso della politica nazionale non si riproduce in modo esattamente speculare. È anche vero che l’esposizione che ebraismo italiano ha sui media nazionali è sproporzionata ai suoi
reali numeri. Però nasce da una richiesta per così dire “esterna”: si chiede di essere presente su alcune
questioni e questo mette in condizione di apparire».
Il problema dell’eccessiva esposizione dell’ebraismo
riguarda però soprattutto la realtà ebraica romana,
perché vicina – e non solo fisicamente – ai palazzi
della politica. «A Milano – spiega Fiona Diwan –
questo problema non si pone. A volte parla il presidente della Comunità Roberto Jarach e il vicepresidente Daniele Nahum , radicale, che si è battuto come un leone affinché non passasse la norma che vietava la macellazione rituale ebraica o musulmana».
Anche in vista della futura assise primaverile Anna
Segre esprime la sua perplessità: «Sarebbe bene evitare il rischio che chi ottiene il quarantacinque per
cento dei voti a Roma, anche se è la più numerosa
comunità ebraica italiana, divenga nei fatti il rappresentante politico degli ebrei italiani».
MEDIO ORIENTE
Abbiamo sentito
parlare di un sogno
Rosita Poloni
«La sfida della convivenza in Israele, Palestina e Italia».
Un convegno a Milano organizzato – anche per festeggiare i venti
anni dalla fondazione – dall’Associazione italiana amici di Nevé
Shalom/Wahat al-Salam, il villaggio dove israeliani, sia arabi
che ebrei, lavorano assieme per l’educazione alla pace.
«
A
bbiamo sentito parlare di un sogno». Questo disse il priore del Monastero trappista di
Latrun, quando decise di «prestare» a Bruno Hussar la terra su cui avviare il suo progetto, il suo sogno di convivenza giusta e pacifica tra
popoli differenti e confliggenti. Il sogno si è sporcato
le mani, si è intriso di un’umanità densa e fragile, ha
fatto del conflitto uno strumento e resiste. Con fatica,
talvolta sbandando, ma resiste.
Lo stesso stupore e la stessa fiducia hanno animato per vent’anni l’Associazione italiana che sostiene
Nevé Shalom/Wahat al-Salam («Oasi di pace», in
arabo e in ebraico: si veda la scheda qui sotto). Credendo nella possibilità di un luogo in cui si cerca di
vivere insieme, di fare posto ad ognuno e a tutti. Un
luogo in cui si cerca di costruire le premesse perché si
avveri un futuro di giustizia e, perché no, di pace.
E così «Abbiamo sentito parlare di un sogno: la sfida della convivenza in Israele, Palestina e Italia» è
stato intitolato il convegno che si è svolto il 12 no-
SCHEDA. UN’OASI DI PACE DOVE CONVIVERE
Neve Shalom Wahat al-Salam è un villaggio dove
ebrei e palestinesi, tutti di
cittadinanza israeliana, vivono insieme secondo criteri di equità e giustizia. 54
famiglie hanno scelto la via
della convivenza e dell’educazione alla pace. Le scuole del villaggio sono bilingui e binazionali, i bambini/e studiano cioè in ebraico e in arabo grazie alla
presenza in ogni classe di
due insegnanti madrelingua; le scuole accolgono in
gran parte bambini/e dei
villaggi vicini, che hanno
quindi l’opportunità di nutrirsi quotidianamente degli ideali di convivenza pacifica ed equa tipici del villaggio.
L’associazione italiana amici di Nevé Shalom/Wahat al
Salam dedica il 2012 alla
raccolta fondi per il sostegno della scuola. «Adotta la
pace, adotta una classe» è
la campagna che intende
richiamare l’attenzione sul
fatto che la pace sia un bisogno primario, che viene
costruito dal basso, dall’educazione dei più piccoli. Aiutateci!
Per donare:
- cc postale n.20980207, intestato Amici di NSWAS, via
Buschi 19, 20131 Milano;
- cc bancario Intesa Sanpaolo IBAN IT31 S030
6909 4660 0000 0643 046
CIN S, intestato Amici di
NSWAS, via Buschi 19,
20131 Milano.
Associazione italiana amici
di Nevé Shalom/Wahat al
Salam, telefono 3477343461
email: [email protected]
www.oasidipace.org
18
vembre a Milano organizzato dall’Associazione italiana amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam per festeggiare il ventesimo anniversario della sua fondazione.
Desiderio dell’associazione era non solo far memoria
di questa piccola e preziosa storia di amicizia tra l’Italia e il villaggio, quanto soprattutto offrirsi e offrire
una cornice per poter pensare al significato profondo
e fecondo del termine «convivenza». Convivenza: termine che a Nevé Shalom/Wahat al-Salam è paradigma necessario e punto di partenza che incarna la possibilità stessa di un sistema equo, in cui la pace sia risultato perseguito secondo pratiche di reciproca legittimazione e di giustizia. Convivenza: parola che mette alla prova anche noi, oggi, in Italia, chiamati dalla storia a misurarci quotidianamente con chi viene
da lontano, è differente, chiede cittadinanza.
Il convegno si è articolato in due sessioni di relazioni nelle quali si sono intrecciati sguardi e saperi
differenti sul tema del dialogo e del «vivere insieme».
Nella sessione del mattino l’apertura è stata affidata a
Bruno Segre, presidente dell’associazione per i suoi
primi 16 anni, profondo e sofisticato conoscitore di
Israele. Segre ha parlato di «Sionismo e la pace che
non c’è» attraversando la storia di questa terra contesa secondo la storiografia ebraica. Il suo intervento
(che verrà pubblicato sul numero di dicembre di Qeshet) ha preso per mano i partecipanti al convegno e
li ha portati direttamente con i piedi nella sabbia e lo
sguardo sulla Città santa, a respirare il fiato delle vicende storiche e delle alterne letture che impregnano
quei sassi di sangue e speranza. A seguire l’intervento
di Gian Mario Gillio, direttore di Confronti, che ha
condotto un affondo sulla realtà del movimento, o
meglio dei movimenti che si occupano di ricerca della giustizia e della pace in Israele e nei Territori palestinesi. Rassicurante sentire di quanti e quali siano
gli sforzi, nella società civile, affinché si gettino le basi per il riconoscimento reciproco, l’ascolto e, appunto, la possibilità di co-esistenza dignitosa.
Per il villaggio al mattino è intervenuta Dorit Shippin, prima sindaco donna di Nevé Shalom/Wahat alSalam: Dorit ha raccontato la sua esperienza di ebrea,
israeliana, donna cresciuta in un contesto tradizionale
dove l’alterità non è contemplata, dove il nemico nemmeno risulta nel quadro cognitivo generale. Dorit ci ha
detto di suo padre, soldato attivo nella guerra del 1948,
e di come nelle sue parole e nel suo cuore albergasse la
semplice tensione alla difesa del proprio Paese senza
considerazione per il destino del popolo vicino. E ci ha
i servizi
dicembre 2011
confronti
Medio Oriente.
Abbiamo sentito
parlare di un sogno
detto del significato di essere una donna, di come identità sociale e identità personale si sovrappongano e
ispessiscano il sapore di un conflitto che è di volti e di
fazioni. Così per esempio Dorit ha ricordato della morte di Tom, un ragazzo del villaggio caduto durante una
ricognizione in elicottero nel sud del Libano mentre serviva nell’esercito, a metà degli anni Novanta, e ha ricordato della fatica di conciliare il dolore devastante per
il perduto viso di Tom, caro a tutti, e il disagio creato
dalla sua uniforme. Parole che hanno risuonato forte
nella sala in ascolto e che hanno poi lasciato posto alla riflessione sul silenzio nel dialogo interreligioso condotta da Luciano Manicardi, vicepriore di Bose. Questo
l’incipit del suo intervento: «Nel libro di Bruno Hussar
Quando la nube si alzava, egli scrive: “La nozione di
silenzio è accessibile a tutti, non-credenti come credenti” (B. Hussar, Quando la nube si alzava. La pace è
possibile, Marietti 1820, Genova 1996, pp. 150-151).
Vorrei iniziare la mia riflessione soffermandomi su questa annotazione. Ben prima che del dialogo cosiddetto
interreligioso, il silenzio fa parte di ogni dialogo, del
dialogo tout-court. Il silenzio è costitutivo dell’umano.
Esattamente come la parola, di cui il silenzio è l’imprescindibile radice. Il legame tra parola e silenzio è ben
tratteggiato da Merleau-Ponty: “Dobbiamo considerare
la parola prima che sia pronunciata, il fondo di silenzio che non cessa di avvolgerla e senza la quale essa direbbe nulla, o ancora mettere a nudo i fili di silenzio di
cui essa è intrecciata”. Senza silenzio non c’è dialogo,
non c’è ascolto, non c’è parola. Il contrario del silenzio
non è la parola, ma è il rumore, la confusione”».
Per onorare la «convivialità delle differenze» di
monsignor Tonino Bello, abbiamo pranzato insieme
Convivenza:
parola che mette
alla prova anche
noi, oggi, in Italia,
chiamati dalla storia
a misurarci
quotidianamente
con chi viene
da lontano,
è differente,
chiede cittadinanza.
e poi il pomeriggio ci ha accolti con l’intervento di
Rita Sidoli, professoressa dell’Università Cattolica di
Milano, esperta di neuroscienze, che ha descritto il
funzionamento dei neuroni a specchio e il ruolo che
questi giocano nella capacità di sviluppare empatia,
quella capacità cioè di mettersi nei panni degli altri
e di sentire come essi sentono, vedere come essi vedono. Empatia che è parte della possibilità di umanizzare il volto del nemico e di riconoscerlo «umano
tra gli umani». Le è succeduto Paolo Branca, che tiene il Corso di Storia delle religioni (islamismo) presso l’Istituto superiore di Scienze religiose di Milano.
Branca ha letto alcune sure del Corano relative al
rapporto con il popolo ebraico, dalle quali si evince
apprezzamento, e non ostilità, dell’islam per il «popolo eletto».
Infine due testimonianze: quella di Abdessalam
Najjar, che dal Centro spirituale pluralistico di Nevé
Shalom/Wahat al-Salam ha condiviso con noi il ruolo che la spiritualità può giocare in un contesto di
conflitto, laddove si dedichi attenzione a percorsi di tipo educativo; e quella di Lubna Ammoune, una giovane musulmana italiana che ha offerto il suo punto
di vista sul tema della convivenza tra culture diverse.
L’associazione desiderava che il 12 novembre fosse
un momento di riflessione e di festa, per questo ha
chiuso la giornata il concerto «Musica e voci di pace»,
un trio composto da Eyal Lerner, israeliano, Tarek
Awad Alla, egiziano e Franco Minelli, italiano, che ha
proposto un repertorio di musica popolare araba ed
ebraica. E con la dolcezza e la suggestione delle note
si è chiusa una giornata ricca di stimoli, di amicizia
e di bellezza. Davvero un buon compleanno.
SCHEDA. IN UN LIBRO LA STORIA DI «NEVÉ SHALOM - WAHAT AL-SALAM»
Il libro di Nuccio Franco
Nevé Shalom/Wahat al-Salam (GDS edizioni, 2011,
70 pagine, 9 euro) che racconta in forma narrativa del
villaggio costituito nel 1972
congiuntamente da israeliani e palestinesi. Franco racconta una storia, la storia
vera di un viaggio, di un’amicizia, della condivisione
di un sogno. Il teatro
dell’intreccio sono due terre
che anelano a coesistere che
Jan, italiano, è spinto a visitare perché spinto dall’amicizia per Safiyya, palestinese
e musulmana; insieme decidono di raggiungere
Yehuda, israeliano, ebreo e
volontario presso il villaggio
di Nevé Shalom - Wahat alSalam. Questo sembra esse-
re l’unico luogo dove la loro
amicizia è possibile, anche
se la situazione politica e sociale circostante sembra scoraggiarla: i checkpoint sono
un’esperienza che Jan e Safiyya non dimenticheranno
facilmente, così come la
paura della gente comune
che porta – a volte – al pregiudizio.
La storia dei tre amici porterà il lettore a visitare diverse città: Beer Sheva, Hebron (la nuova Berlino) e
Gerusalemme e gli sguardi
dei tre amici si incontrano
vicendevolmente, dando la
19
possibilità di un approfondimento, una comprensione,
che diversamente sarebbe
stata impensabile. I tre amici diventano sempre più
uniti, impareranno a condividere le cose importanti
della vita e, attraverso questa esperienza, ad avere più
fiducia nelle potenzialità
positive dell’essere umano.
Ma presto arriva il momento per Jan di lasciare gli altri
amici. Safiyya e Yehuda,
però, rimarranno sempre
nel cuore di Jan e gli scriveranno una lettera in cui
raccontano del coronamen-
to del loro amore attraverso
un figlio e una nuova vita
in Marocco.
Segnaliamo questo libro perché vuole essere una testimonianza di una scelta di vita
alternativa al pregiudizio,
nonché dello sforzo reale di
sognatori che sono riusciti a
costruire una solida realtà.
Una realtà che l’acquisto del
libro contribuisce a sostenere: parte dei proventi della
vendita, infatti, andranno all’organizzazione Nevé Shalom/Wahat al-Salam.
(Michele Lipori)
GIORNATA DEL 27 OTTOBRE
Dialogando
si apre il dialogo
Brunetto Salvarani
La decima Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico
è un evento che va coraggiosamente in controtendenza rispetto
al clima generale di chiusura, intransigenza e riaffermazione
orgogliosa delle proprie identità, secondo cui «l’altro» diventa
sempre più una pericolosa minaccia da evitare e combattere.
D
a qualche tempo, noi «tifosi» della cosa ci
stiamo domandando (l’abbiamo fatto anche
in occasione del recente convegno di Confronti sull’islam degli scorsi 21 e 22 ottobre):
dove sono finiti quell’operosità e quell’investimento
coraggioso nei processi del dialogo che avevano consentito di affinare una certa reciproca conoscenza tra
fedeli di religioni diverse e reso realistica qualche
azione comune contro il pregiudizio e i fondamentalismi religiosi da un lato, ma anche per una positiva
convivenza in una società sempre più multiculturale
e poi interculturale, almeno in progress, dall’altro?
Non è facile rispondere, o forse sì: se a buon diritto
da tempo si sente ripetere che il vento è cambiato, e
così la direzione di marcia della storia; che sta trionfando un sentimento di timore generalizzato nei confronti di qualsiasi alterità, mentre i frutti ottenuti sinora dai dialoghi effettuati localmente sono troppo
esigui, per cui risulta spontaneo scoraggiarsi. E dedicarsi ad altro, semmai più redditizio... Siamo così
transitati dalla fase dell’incontro interreligioso, figlio
legittimo della spinta conciliare e dell’impegno di
grandi organismi internazionali quali il Cec, la Kek e
così via, più o meno curiosa e gioiosa, alla denuncia
generalizzata dei suoi rischi, quasi fossero perennemente in agguato; dalla prospettiva di un radunarsi
intorno a valori e progetti comuni, dalla lotta per la
libertà religiosa e contro l’islamofobia, l’antisemitismo e qualsiasi forma di razzismo risorgente in questi anni, alla rivendicazione – orgogliosa e non raramente priva di qualsiasi forma di pietas – della propria identità. Talora, di un’identità puramente reattiva, quella di persone e gruppi che si scoprono improvvisamente detentori di uno speciale mandato divino come reazione alla «minaccia» (o alla pura presenza) portata da altri. Fino al martellamento costante dei media e di politici imprenditori della paura contro l’edificazione di nuove moschee e nuovi luoghi di culto tout court, sempre e in ogni caso visti come potenziali cellule del terrore internazionale. Scordando – secondo le parole del premio Nobel per l’economia Amartya Sen – l’«inaggirabile natura plurale
20
delle nostre identità», e il fatto che la principale speranza di armonia in questo tormentato mondo risiede semmai nell’accettazione della pluralità delle nostre identità, che s’intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie a divisioni drastiche lungo linee di confine invalicabili: una spinta cui non si può opporre resistenza. Ecco perché occorre una volta di più riprendere in mano la questione, e riflettere di nuovo sul
senso autentico del dialogare in un momento di
straordinarie trasformazioni nell’ambito delle Chiese
cristiane (ma non solo, in realtà). Domandandosi se
le contestazioni al dialogo – certo, termine ambiguo,
ma anche aperto a mille strumentalizzazioni – ci
consegnino una stagione nuova in cui esso andrebbe
rimpiazzato da un altro paradigma, di segno ben diverso (lo «scontro fra le civiltà»). Fino all’interrogativo cruciale: ha definitivamente prevalso la retorica
dell’intransigenza, e il tempo del dialogo è (già) finito? Oppure si è spenta una sua particolare declinazione, semmai quel «dialogo delle coccole», di pura facciata, di cui aveva sentenziato l’esaurimento il cardinale Walter Kasper – all’epoca presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani – nel suo intervento in occasione della terza Assemblea ecumenica tenutasi a Sibiu, in Romania, nel
settembre 2007? Non è la stessa cosa, evidentemente!
Scambiato di volta in volta per puro «buonismo» o
per banale sincretismo, schernito come imbelle irenismo, o semplicemente scambiato erroneamente per
«relativismo assoluto», il dialogo viene oggi visto sovente tutt’al più come un argomento comodo per fasciarsi il cuore a uso di anime belle e scarsamente
combattive di fronte a quell’«irruzione dell’altro» di
cui ci ha parlato per primo Emmanuel Lévinas e che
appare senza dubbio la cifra dominante di questi tempi affaticati non meno che complicati. Un «altro» che
irrompe, per di più, nella stagione in cui (almeno qui,
da noi) predomina il discredito della politica, delle
ideologie e delle utopie, e che ricerca nello spazio religioso la risposta ai suoi mille perché quotidiani. Da
parte nostra, non abbiamo ancora metabolizzato questa «irruzione». Non stiamo comprendendo che il
dialogo non è, e non può essere, figlio di un tatticismo
che ha già giudicato la posizione dell’interlocutore, e
non è realmente interessato a essa. E non può essere
equiparato, infine, a mera tolleranza, spesso idealizzata dalla cultura illuminista e post-illuminista, che
sceglie di non affrontare la questione – decisiva – della verità. C’è chi l’ha descritta, non senza ragioni, co-
i servizi
dicembre 2011
confronti
Giornata del 27 ottobre.
Dialogando
si apre il dialogo
me «una parola di moda e abusata» (Ambrogio Bongiovanni), che in ogni caso – abbinata all’attributo
«interreligioso» – iniziò a comparire nel dibattito
pubblico appena dopo la seconda guerra mondiale e
in seguito al processo di decolonizzazione, sebbene il
pensiero dialogico e relazionale di un Martin Buber,
per fare un nome importante al riguardo, fosse già
all’epoca piuttosto diffuso nella cultura occidentale.
Alla fine, è necessario ammettere che «nonostante i
numerosi sforzi che da più parti si compiono in questo senso, restiamo ancora “all’età della pietra” per
quello che concerne il dialogo, tuttora balbettanti nel
definire e soprattutto nell’assumere una autentica
deontologia del dialogo» (Enzo Bianchi). Ammettiamolo: il dialogo è in crisi. A un decennio dal passaggio di millennio, noi cristiani, non meno degli
«altri», viviamo sospesi fra il disincanto generale e
generalizzato e l’abbaglio quotidiano di una cronaca
che ci tiene avvinghiati a un presente privo di spessore storico e di aperture sul futuro. Di questa crisi bisogna discutere (e ben poco lo si fa), cercare di comprenderne le ragioni profonde, guardando il quadro
complessivo in cui essa si inserisce. Occorre verificare
tale crisi nei suoi riflessi in ambito ecclesiale, coglierne l’ampiezza, e discuterne a fondo. Con franchezza,
come facevano le prime comunità cristiane, che parlavano al riguardo di parresìa.
In questo contesto aggrovigliato, la celebrazione
della decima Giornata ecumenica del dialogo cristia-
Non stiamo
comprendendo
che il dialogo non è,
e non può essere,
figlio di un tatticismo
che ha già giudicato
la posizione
dell’interlocutore,
e non è realmente
interessato a essa.
E non può essere
equiparato, infine,
a mera tolleranza,
spesso idealizzata
dalla cultura
illuminista
e post-illuminista,
che sceglie di non
affrontare la questione
– decisiva –
della verità.
no-islamico, lo scorso 27 ottobre, in coincidenza con
la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la
pace e la giustizia nel mondo voluta da Benedetto XVI
ad Assisi, un quarto di secolo dopo la prima che ebbe
come protagonista Giovanni Paolo II e i rappresentanti di tante altre religioni, è un segnale non secondario, e per certi versi in aperta controtendenza alle
tendenze di cui sopra dicevamo. Perché, mi pare indubitabile, se nell’arco un decennio si può invecchiare e/o diventare adulti, questo minuscolo seme – nato da un’idea poco originale e all’apparenza persino
velleitaria di alcuni amici preoccupati per il futuro
all’indomani dell’11 settembre 2001 – si è fatto ormai
un albero vero e proprio, se non decisamente rigoglioso (mai montarsi la testa!), almeno capace di produrre frutti. Talvolta addirittura sorprendenti. È quello che è successo – per convincersene basterebbe visitare il sito www.ildialogo.org – il 27 ottobre: una ricorrenza che ha attraversato felicemente tutti questi
anni, lunghissimi e brevissimi, fatti di incontri, abbracci, speranze, delusioni, illusioni, arrabbiature, e
di parecchio altro. Anni, ce lo siamo detti a più riprese, di scontri di civiltà veri o immaginati, di paure vicendevoli e di chiusure nel proprio guscio.
Impossibile quantificare, peraltro, il numero esatto degli appuntamenti pubblici, dei materiali scritti,
dei momenti conviviali, dei commenti giornalistici,
in coincidenza e dopo l’ultima Giornata: come mi capita ogni anno, anche stavolta sono rimasto perso-
SCHEDA. GIORNATA DEL DIALOGO: LE INIZIATIVE IN TUTTA ITALIA
Anche quest’anno in Italia il
27 ottobre 2011 le iniziative
per celebrare la decima
Giornata ecumenica del
dialogo cristiano-islamico,
nata nel 2001 a pochi giorni dai tragici attentati
dell’11 settembre, sono state
molte e non si sono limitate
alla sola giornata del 27 ottobre. Altre iniziative di dialogo cristiano-islamico si
terranno nei prossimi mesi
in varie zone d’Italia come
l’Emilia o l’Irpinia, dove il 4
dicembre una donna musulmana parlerà di Maria
madre di Gesù in una chiesa cattolica. I primi dieci
anni di vita dell’appello sono stati ricordati nella «Let-
tera alle donne e agli uomini di buona volontà» scritta
da Brunetto Salvarani, direttore di CEM Mondialità,
che della giornata è stato
l’ideatore e promotore instancabile.
La giornata è stata presentata ufficialmente a Roma il
27 ottobre 2011 presso la
Camera dei deputati, in una
conferenza stampa organizzata da Confronti a cui sono intervenuti: Giovanni
Bachelet, deputato Pd e
membro della commissione
Cultura, scienza e istruzione
della Camera; Lucio Malan,
senatore Pdl e segretario
della presidenza del Senato;
Raffaele Volpe, presidente
dell’Unione delle chiese
evangeliche battiste d’Italia
(Ucebi); Alessandro Ahmad
Paolantoni per l’Unione
delle comunità islamiche in
Italia (Ucoii); Dora Bognandi per la Chiesa avventista del 7° giorno; Giovanni Sarubbi, direttore de Il
dialogo; Gianni Novelli, Cipax. Assente per motivi di
salute l’ambasciatore Mario
Scialoja per la Grande Moschea di Roma.
Le notizie e le adesioni che
sono giunte al sito de «Il
dialogo» (www.ildialogo.
org) parlano di circa 200
adesioni di associazioni cristiane e islamiche e di circa
300 adesioni individuali al
21
testo dell’appello che quest’anno aveva messo al centro del dibattito «Dialogo,
pluralismo, democrazia: il
nostro comune orizzonte».
Importanti iniziative, si sono tenute a Merano (Bz), a
Firenze, dove c’è stata l’adesione congiunta della Diocesi di Firenze e della Comunità islamica di Firenze,
a Città di Castello, a Faenza, dove sono state coinvolte
moltissime associazioni nella visita ai luoghi di culto. E
poi a Pavullo (Mo), a Ravenna, a Parma, a Genova,
alla Comunità «La collina»
di Serdiana (Ca); a Solarino (Sr), al Centro ecumenico di Galatina, a Verbania, a
Caserta, e nelle carceri di
Bologna e Ivrea, nelle Marche, a Modena... e ci scusiamo di non poterle citare tutte, rimandando i lettori al
sito www.ildialogo.org per la
lettura completa delle adesioni e delle iniziative.
Anche quest’anno è stata riconfermata negli incontri
tenuti la volontà di continuare e lo dimostrano le
numerose iniziative già programmate che continueranno a tenere accesa la fiammella del dialogo per la costruzione di un futuro di pace per l’intera umanità.
(Giovanni Sarubbi)
i servizi
dicembre 2011
confronti
Giornata del 27 ottobre.
Dialogando
si apre il dialogo
nalmente assai sorpreso venendo a sapere solo in ritardo di ulteriori incontri di cui non sapevo, nei luoghi più svariati: comunità monastiche e religiose, carceri, assessorati, così come parrocchie, chiese locali
e centri islamici.
È la forza di un’intuizione, basata sul sentimento e
sulla ragione, più che su leader mediatizzati (che la
Giornata non ha), sui finanziamenti (che la Giornata non ha) e su appoggi dall’alto (che la Giornata
non ha). È la potenza che sprigiona libera dal dialogo dal basso, fatto di reciproca disponibilità a mettersi in gioco; di inviti a pregare, a rompere il digiuno di
Ramadan, a cenare; di itinerari che non fanno rumore eppure esistono, sono tenaci e resistenti, e proseguiranno. Permettendo inoltre, a quanti sono cristiani fra i partecipanti, di maturare sempre più nel
confronto ecumenico.
Perché, una volta di più, resto convinto che, se
«camminando si apre il cammino», allo stesso modo
«dialogando si apre il dialogo». Il dialogo quale nostro comune orizzonte, come recitava lo slogan della
decima edizione.
Certo, dieci anni sono una tappa, una tappa simbolica e importante, ma va ricordato che rimane ancora tanta strada da fare per battere i pregiudizi (reciproci), gli stereotipi (reciproci), i timori (reciproci).
Tuttavia, se qualcuno riteneva che il dialogo fosse finito, e avesse smarrito definitivamente la sua forza
propulsiva, questa Giornata gli ha risposto con nettezza: no, il dialogo non è finito. Anzi, è appena cominciato. È difficile da attuare, è ancora assai fragile, ma resta il nostro futuro. Anzi: il nostro comune
orizzonte, sul cui terreno siamo chiamati a impegnarci sempre più e sempre meglio.
Islam:
la nuova frontiera
Giulio
Soravia
I peggiori nemici dei musulmani
sono i musulmani
(Anonimo)
Già nello scorso
numero avevamo
dato conto
del convegno
organizzato
dal nostro mensile
sul tema «L’islam
in Italia tra
fondamentalismo
e islamofobia».
Ci torniamo questo
mese pubblicando
l’intervento
pronunciato
in quella sede
dal professor Soravia,
docente di Lingua
e letteratura araba
all’Università
di Bologna
e direttore del Centro
interdipartimentale
di scienze dell’islam.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
I riferimenti bibliografici
che seguono si riferiscono
all’articolo del professor Soravia qui a lato.
Nasr Hamid Abu Zaid, Una
vita con l’Islam, Il Mulino,
Bologna 2004
Muhammad Said al-Ashmawy, L’islamisme contre
l’Islam, Editions La Découverte, Paris 1989
P.Cesare Bori, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995 (2° ed.)
Chérif Choubachy, La sciabola e la virgola, ObarraO,
Milano 2008
Farid Esack, Qur’an. Liberation and Pluralism. An
Islamic perspective of interreligious solidarity
against oppression, Oneworld, Oxford 1997
Ugo Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di
un concetto, Carocci, Roma 1998
Roger Garaudy, Mon tour
de siècle en solitaire, Editions Robert Laffont Paris
1989
Ivan Illich, La convivialità,
Red Edizioni, Como 1993
Sandro Marconi, Reti mediterranee. Le censurate
matrici afro-mediorientali della nostra civiltà, Roma 2003
P. Melograni, La modernità e i suoi nemici, Milano 1996
Jacques Neirynck e Tariq
Ramadan, Possiamo vivere con l’Islam?, El Hikma,
Imperia 2000
Francesco Remotti, Contro
l’identità, Laterza, RomaBari 2007
Giulio Soravia, Islam, oh
Islam!, Bonomo, Bologna
2011-10-17
M. Talbi, Le vie del dialogo
nell’Islam, Torino 1999.
22
Il convegno organizzato da Confonti nei giorni 21 e
22 ottobre è caduto a distanza di poche settimane
dalla decisione di pubblicare un libro che per oltre
dieci anni, con infiniti rimaneggiamenti e ripensamenti, era rimasto confinato nel cassetto del dubbio
e del timore.
Timore di che? Non tanto per il clima islamofobo
creatosi attorno al mondo islamico a partire dalla
guerra del Golfo e successivamente con l’attentato alle torri gemelle, quanto dalla deleteria alchimia di
una strumentalizzazione dell’islam come sostituto
del grande Satana scomparso, associata all’incapacità del mondo islamico di dare risposte ragionevoli
e convincenti a una serie di accuse, illazioni, pregiudizi e verità diffusi.
Islam oggi è una parola scomoda e il cosiddetto
uomo della strada che cosa intende con tale parola?
In realtà islam significa tante cose, talvolta a ragione, altre volte a torto. Storicamente gli aggettivi «musulmano» e «islamico» sono stati applicati a molti
sostantivi che spaziano dall’arte alla civiltà, dalla religione alla cultura, dalla filosofia alla ragione, dalla mentalità alla storia, dal terrorismo allo Stato, e
potremmo continuare a lungo. In tutto ciò c’è un elemento fondamentale comunque. Tutto nasce da lì: civiltà, cultura, arte e scienza, politica o società, la base di partenza è quel fatto nuovo, ma non troppo, che
vide una svolta nella storia mondiale a partire dal VII
secolo. Una nuova religione.
Ho usato il termine «religione», ma occorre una
spiegazione. Non ho utilizzato infatti la dizione «una
nuova fede» bensì una nuova religione, cercando così di sollecitare a capire nella sostanza che quando
parliamo di islam siamo di fronte a un nuovo modo
di vivere la fede nel Dio unico, ma non davanti a una
innovazione del pensiero religioso che storicamente
lo ha preceduto. Con ciò rendiamo ragione del fatto
che «religione» in italiano e nelle lingue europee
non corrisponde esattamente all’arabo din. Valga la
Sura 109: «...a voi il vostro din a me il mio». Non
una fede (iman) diversa, ma un modo di interpretarla e di viverla.
Finché l’islam rimase chiuso nei suoi confini, tra
scontri e incontri, poco si ha da dire. L’islam non è
una cultura diversa come matrice da quella che ha
i servizi
dicembre 2011
confronti
Giornata del 27 ottobre.
Dialogando
si apre il dialogo
generato l’Europa di oggi: esso è una componente irrinunciabile della cultura europea e ne fa parte. Ma
l’islam di recente si è affacciato in Europa e nel mondo non portato dalle armi, ma in un modo nuovo:
sulla via di un movimento migratorio non insolito
nella storia del mondo, né imprevedibile nel contesto
degli squilibri prodottisi nel corso del XX secolo, ma
imprevisto perché i molti pregiudizi che gravavano
su di esso impedivano di presagire quanto è successo.
Nelle nuove situazioni createsi si è verificato qualcosa di inatteso: le conversioni di italiani all’islam e
il contatto tra culture (islamiche) diverse.
La presenza di molti immigrati provenienti da aree
islamiche ha riattizzato antichi razzismi e timori irrazionali, ma ha fornito facili slogan a chi con dubbia buona fede ha cavalcato tali paure per farne un
vessillo su cui costruire carriere politiche altrimenti
precluse. Il male causato comporta anche di avere ingenerato confusione tra immigrati e musulmani considerati tutt’uno, creando invettive del tipo «tornate
a casa vostra» o invocando la reciprocità con non si
sa quali Paesi circa la libertà di pensiero.
La constatazione che molti musulmani sono cittadini italiani, invece di spazzare via i pregiudizi, ha
anzi fomentato le paure di una invasione culturale
capace di minare la «purezza» di una cultura identificata nella «Padania» o in una cristianità invocata strumentalmente anche da persone che poco praticano il cristianesimo.
D’altro canto il mondo islamico non ha saputo rispondere adeguatamente. Roger Garaudy scrisse nel
1989 (Mon tour de siècle en solitaire, pagina 366):
«C’est le drame... et le cauchemar de mes visites dans
les pays musulmans, surtout arabes: pas d’ouverture d’une voie neuve, mais une double imitation: imitation de l’Occident, ou imitation du passé».
Il mondo «occidentale» ha creato la paura del diverso e lo scontro di civiltà e ha paventato l’invasione islamica e la contaminazione della purezza dei
costumi (sotto sotto la razza). Si è difeso a oltranza,
sostenendo improbabili «teorie della superiorità» della civiltà occidentale e l’idea che modernizzazione significasse adesione al modello americano (Melograni). Ha sottolineato l’oscurantismo, l’incapacità di
adeguarsi ai concetti di libertà e democrazia, la mancanza di rispetto per i diritti umani ecc. contro ogni
evidenza che le stesse accuse potevano sostanziamente essere rovesciate su di sé.
La diversità presente all’interno della stessa comunità islamica presente sul territorio italiano, composta
da arabi dei diversi Paesi (marocchini, tunisini, egiziani, libici, palestinesi, siriani ecc.) ma anche di pakistani, senegalesi, somali, persiani, bengalesi, albanesi, turchi e così via, con i conflitti di mentalità e di tradizioni diverse, invece di far riflettere sul pluralismo
La diversità presente
all’interno della stessa
comunità islamica
presente sul territorio
italiano, composta
da arabi dei diversi
Paesi con i conflitti
di mentalità
e di tradizioni diverse,
invece di far riflettere
sul pluralismo
caratteristico
del pensiero islamico,
ha ingenerato
ancor più confusione,
facendo apparire
vistosamente
come islamici usi e riti,
tradizioni e pregiudizi
che con l’islam
in sé poco o nulla
hanno a che vedere.
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caratteristico del pensiero islamico, ha ingenerato ancor più confusione, facendo apparire vistosamente come islamici usi e riti, tradizioni e pregiudizi che con
l’islam in sé poco o nulla hanno a che vedere.
Il futuro si gioca su una dimensione mondiale e la
sfida è, più ancora che vincere le propagande denigratorie e l’islamofobia, abbattere le resistenze delle
componenti retrive del mondo musulmano stesso,
puntando a un cambiamento e al pluralismo e a una
comprensione disincantata e onesta di sé.
Riprendendo l’osservazione di Garaudy in apertura, occorre il coraggio di un’autocritica che guardi
alla realtà del mondo moderno.
Choubachy Chérif sostiene: «Quante volte questi custodi del passato, in tutti i luoghi e in tutti i tempi,
hanno usato e abusato della religione per frenare il
più modesto tentativo di sconvolgere l’ordine costituito, per far sparire qualsiasi visione nuova e sopprimere sul nascere ogni velleità di modernizzazione!
Purtroppo non si tratta di una situazione inedita: nel
mondo arabo è presente fin dall’epoca pre-islamica...
E afferma Said al-Ashmawy: «Les islamistes affirment qu’en uniformisant les opinions et les doctrines
de l’islam autour de la leur, ils lui donneront plus de
force. Cette idée est démentie par toute l’histoire islamique, qui montre qu’au contraire l’islam, fort heureusement, a toujours été et sera toujours le creuset
d’écoles, de doctrines et d’idées les plus diverses».
Sostenendo così che è mero strumento di potere arrogarsi il monopolio dell’interpretazione della Legge
divina. La sfida si vince non con un dialogo che sul
piano etico è non solo possibile, ma utile e non pone
problemi. Ciò che bisogna compiere è far sì che il
dialogo divenga interiore e interno alle comunità.
L’islam in Italia, minoritario e guardato con sospetto, deve riuscire a produrre una diversa immagine di
sé, essere «nuovo» e convincente. Ma ciò è possibile
se a quella immagine corrisponderà nella sostanza
una capacità di rinnovarsi e di dare risposte che tengano conto del mondo di oggi, dove i problemi reali
sono altri e ci accomunano. Solo superando le barriere di una diversità che potenzialmente è solo ricchezza possiamo affermare per esempio con Ivan Illich: «L’uomo moderno non riesce a pensare lo sviluppo e la modernizzazione in termini di diminuzione anziché d’accrescimento del consumo di energia
e di manipolazione ragionata».
La sfida energetica e climatica, la gestione e lo sfruttamento delle materie prime e delle acque, il sovrappopolamento e così via, questi sono i temi su cui impostare un dialogo nuovo che punti alla collaborazione e non su uno scontro immotivato e distruttore.
AHMADIYYA
«Diversamente»
musulmani
Iftikhar Ahmad Ayaz
La comunità Ahmadiyya, sorta nell’Ottocento nel sub-continente
indiano, è nata da una costola dell’islam, e si ritiene sempre
musulmana, ma sciiti e sunniti la considerano «eretica».
Alcuni regimi, come quello al potere in Pakistan, hanno
emanato leggi specificatamente discriminatorie contro di loro.
P
er comprendere la comunità Ahmadiyya, ne
abbiamo intervistato un membro autorevole:
Iftikhar Ahmad Ayaz, attualmente console onorario delle isole Tuvalu a Londra e impegnato
nella Commissione internazionale per la pace (Icop);
in passato ha lavorato in vari organismi dell’Onu.
Che cosa è il movimento dei musulmani Ahmadiyya? Come e perché si distingue dagli altri musulmani?
Siamo musulmani come tutti gli altri; crediamo in un
unico Dio: Allah. Veneriamo tutti i profeti di Dio e crediamo che Muhammad (la pace sia con Lui) è l’ultimo profeta di Dio. Accettiamo il Corano e i cinque precetti fondamentali dell’islam: credere in Allah e ritenere Muhammad come Suo profeta; pregare cinque
volte al giorno; digiunare durante il mese di Ramadan; fare l’elemosina e compiere il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita. Ahmadiyya [da
Ahmad, considerato nome alternativo del Profeta] si
considera come la continuazione del movimento avviato da Muhammad. Abbiamo però delle differenze
con gli altri musulmani, tanto sciiti che sunniti.
Il Profeta aveva predetto che l’islam avrebbe vissuto un periodo di gloria, al quale sarebbe seguito uno
di decadenza. Alla fine di questo periodo di decadenza, però, ci sarebbe stata una rinascita per l’islam: esso avrebbe ricevuto nuova linfa, e avrebbe conosciuto
di nuovo un periodo di gloria spirituale come alle origini. Alla fine, questo islam sarebbe diventata la religione più numerosa del mondo. L’islam insegna che
prima della fine dei tempi ci sarà la venuta di uno che
è guidato da Dio che riformerà e redimerà l’islam.
Queste sono credenze comuni a tutti i musulmani.
Quello che ci distingue dal resto del mondo islamico
è il fatto che i sunniti credono che il Messia sarà il profeta Issa, Gesù (la pace sia con Lui), la stessa persona
che era sulla terra duemila anni fa. Questa credenza
assomiglia a quella cristiana che vuole il ritorno di
Gesù sulla terra per ristabilire il suo regno. Gli sciiti
pensano che il riformatore sarà il Mahdi [l’imam nascosto che ritorna vittorioso].
24
I musulmani che aderiscono al movimento Ahmadiyya negano invece che il Messia sarà il profeta Gesù.
Noi lo riteniamo impossibile, visto che il Corano dice
che ogni individuo termina la sua esistenza con la propria morte. Infatti, al contrario di molti altri musulmani, noi riteniamo che Gesù morì dopo il suo periodo
di profezia (gli altri musulmani tendono a credere invece che Gesù ascese al cielo), quindi non può ricomparire prima della fine dei tempi [gli Ahmadiyya ritengono che Gesù sopravvisse alla crocifissione, riparò nel
Kashmir, regione oggi contesa tra India e Pakistan, e là
morì all’età di centovent’anni; a Srinagar si troverebbe
il suo sepolcro]. Certo, Gesù era un Messia; però altre
persone possono avere caratteristiche simili a lui. Noi
crediamo nella venuta di uno che avrebbe avuto le stesse qualità mostrate da Gesù quando era in vita, e che
avrebbe fatto brillare di nuova linfa le leggi dell’islam,
cosi come Gesù fece brillare di linfa nuova la Legge di
Mosè. Questi sarebbe stato un servo devoto e leale del
Profeta Muhammad e colui che avrebbe unito i musulmani e dato nuovi impulsi all’islam.
Gli Ahmadiyya credono che la persona profetizzata
per fare ritornare l’islam alla sua bellezza originaria
è già venuta, ed è Mirza Ghulam Ahmad, che nacque
in Qaidan, un piccolo villaggio nel Nord dell’India,
nel 1835. Ahmad morì a Lahore, nell’attuale Pakistan,
nel 1908. Nella sua vita ha predicato l’islam nella sua
versione più pura [ebbe la sua rivelazione nel 1876],
come religione di pace, tolleranza e perdono, e denunciando la violenza e il fanatismo come antitetici
all’islam. Fu autore di molte opere.
Alcuni membri del movimento Ahmadiyya hanno
denunciato le leggi sulla blasfemia in Pakistan. Oltre a motivazioni giuridiche, ci sono anche ragioni religiose per opporsi a tali leggi?
Noi crediamo che Dio ha diviso i nostri doveri in due:
doveri verso Allah e doveri verso gli altri esseri umani;
dobbiamo adempierli entrambi. Nonostante ciò, c’è
un’importante differenza tra i due. Per quanto riguarda i nostri doveri verso Dio, solo Lui può punire o ricompensare colui che compie o non compie i suoi doveri verso di Lui. Per esempio, se uno non prega, noi
umani non possiamo punirlo per questo, perché la preghiera è un dovere verso Allah. Solo Dio può punire o
perdonare tale persona. Altri doveri che noi abbiamo
verso Allah sono la protezione del Corano e l’onorare
tutti i profeti. Se Dio avesse voluto che noi punissimo
chi si comporta in modo blasfemo o è colpevole d’apo-
i servizi
dicembre 2011
confronti
Ahmadiyya.
«Diversamente»
musulmani
stasia, l’avrebbe detto chiaramente. Tali punizioni,
però, non ci sono nel Corano. La blasfemia, il disonorare il Profeta e la mancanza di rispetto verso il Corano sono atti talmente orrendi che, noi pensiamo, solo
Dio può punirli; non spetta all’uomo o allo Stato.
Questo ragionamento è sancito dall’esempio di
Muhammad. Nel Corano Dio dice chiaramente al Profeta che quando qualcuno lo insulta, lui deve lasciarlo nelle mani di Dio, cosi che sia l’Eterno ad amministrare la giustizia. Il profeta fu perseguitato, calunniato e disonorato, però non si protesse emanando leggi che punivano i blasfemi; e chiese ai suoi discepoli
di fare altrettanto. Alla luce di questo, crediamo che
nessun governo abbia il diritto di emanare leggi sulla
blasfemia; il blasfemo dovrà vedersela con Dio. Certo,
siamo consci che i governi debbono promuovere leggi che sostengano la fratellanza, la pace, il benessere
e la tolleranza, così che gli aderenti ad un credo non
minaccino quelli che hanno idee diverse. Ma non sta
ai governi punire i blasfemi.
I regimi succedutisi
ad Islamabad
negli ultimi decenni
hanno varato una
serie crescente di leggi
– tra esse, quella sulla
blasfemia – miranti
in particolare
ad emarginare,
o punire,
gli Ahmadiyya che,
in Pakistan, sono
circa tre milioni,
mentre altri sette
sono sparsi in circa
duecento altri Paesi.
Quindi un governo che emana leggi su temi come
blasfemia e apostasia pecca contro Dio perché abusa del suo ruolo?
Sì, certamente. La blasfemia e l’apostasia sono colpe
gravissime, però verso Allah, e solo Lui può punirle;
nessuno può usurparGli tale diritto. Anche in India le
leggi sulla blasfemia non erano parte della giurisprudenza islamica quando l’islam si insediò nel sub-continente, durante il periodo dei Moghul [1526-1857]. Le
leggi sulla blasfemia furono emanate dai britannici nel
1927, in un periodo storico di grandi tensioni tra indù,
musulmani ed altri gruppi. Già nel 1974, ad Islamabad il presidente Zulfikar Ali Bhutto dichiarò come non
musulmani gli aderenti al movimento Ahmadiyya; le
sue leggi, poi, furono integrate nella Costituzione del
Pakistan e, nel 1984, inasprite dal generale Zia-ul-Haq,
che aggiunse nuove clausole sulla bestemmia, alcune
delle quali erano dirette contro gli aderenti ad Ahmadiyya. Visto che il movimento Ahmadiyya era ancora
attivo, che i suoi membri pregavano, gestivano moschee, recitavano il Corano, e facevano altre cose che i
musulmani devono fare, Zia-ul-Haq intensificò la persecuzione. Ciò rese difficile la vita a molti aderenti del
movimento Ahmadiyya, così che nel 1984, il khalifa,
cioè il capo supremo della comunità, dovette lasciare il
Pakistan, dove non poteva più pregare o predicare, e si
trasferì a Londra, dove risiede tuttora.
ti del Corano e all’esempio del profeta, io li accetterei
volentieri. Quando il profeta fu costretto a lasciare la
Mecca e ad andare a Medina, e divenne il governatore di questa città, resse una popolazione che comprendeva anche cristiani, ebrei e hanifi (arabi che praticavano una forma di monoteismo). In tal contesto
cercò sempre di stabilire rapporti di armonia, pace e
comprensione tra questi gruppi diversi.
L’islam è contrario allo sfruttamento dell’uomo, e
promuove l’equa distribuzione dei beni, così come i
diritti dei lavoratori. Un hadit (un detto) attribuito al
Profeta ordina ai padroni di «dare al lavoratore il suo
salario prima che il sudore del suo lavoro si asciughi».
Sfortunatamente, questa è una cosa che non succede
in molti Paesi islamici, compresi alcuni che sono molto ricchi in termini di risorse naturali. Non c’è una vera distribuzione di ricchezza. Se ci fosse, non ci sarebbe tanta povertà in questi Paesi; non ci sarebbero
bambini che fanno lavori pesanti per avere un pezzo
di pane. Preferisco un modello laico a tali stati. Adottare semplicemente un modello laico, però, non rappresenta una formula magica per risolvere la loro situazione. Ci sono infatti paesi musulmani che hanno
ordinamenti laici, come il Bangladesh ad esempio, eppure hanno molti problemi. Quindi, più che di ideologie o ordinamenti ufficiali, proporrei stati che governino la società in sintonia con alcuni princìpi;
princìpi di pace, tolleranza, armonia e giustizia sociale. Se tali stati si chiamano laici, islamici o altro,
non è tanto importante.
Come viene nominato il khalifa del movimento Ahmadiyya?
Attualmente, la Jammat (comunità) Ahmadiyya è stabilita in 198 Paesi. In ogni Paese, la comunità o le comunità sono presiedute da un amir, una sorta di presidente nazionale. Ogni comunità regionale o sezione (in
Germania ce ne sono 216), è diretta da un capo che è
eletto dai membri. Questi capi locali si riuniscono nella Shura nazionale, una specie di parlamento, discutono e prendono decisioni. Fra queste decisioni c’è l’elezione dell’amir, quando l’amir in carica muore. Come
si può vedere, è un sistema molto democratico. Nessuno raccomanda chi deve essere eletto o chi deve succedergli. L’amir è eletto liberamente da tutti i membri.
Anche a livello mondiale la carica di khalifa non è
ereditaria, perché egli viene eletto da questi amir.
Quando un khalifa muore, gli amir da tutto il mondo si incontrano ed eleggono colui che a loro parere è
la persona spiritualmente più adatta al ruolo; colui
che ha più conoscenza dell’islam e del Corano. Noi
crediamo che in tale elezione ci sia la mano di Allah,
che guida le menti nello scegliere la persona adatta.
Lei preferisce una democrazia laica a tanti Stati
che si auto-definiscono islamici e che applicano leggi come quelle su blasfemia e apostasia?
Io non sono contro la democrazia laica. Non considero tale ordinamento politico come una cosa negativa.
Però se gli Stati islamici aderissero agli insegnamen-
(intervista a cura di Michael Grech)
25
INCONTRI/DE BENEDETTI
Cristiano la domenica,
ebreo tutti gli altri giorni
Piera Egidi Bouchard
Il teologo e biblista Paolo De Benedetti ha insegnato Giudaismo e
Antico Testamento e ha avuto anche un lungo impegno nel campo
dell’editoria. Persona di grande cultura e senso dell’umorismo,
accanto all’approfondimento della sua fede cristiana ha posto
anche un progressivo recupero della sua identità ebraica.
P
aolo De Benedetti ci riceve con la sorella Maria, che da sempre condivide con lui la vita,
nella sua casa tutta bianca tra le verdi colline
dell’astigiano, immersa in un giardino fiorito.
Quando gli spiego l’impianto dialogico di questi «Incontri», mi dice: «Per me è fondamentale l’incontro,
perché si è in due, e anche il fatto che mi si facciano
delle domande, perché le domande fanno nascere le
idee». E mi racconta una storia rabbinica dell’epoca
del Talmud: c’erano due maestri che stavano in due
paesi diversi della Babilonia, e uno voleva consultare
l’altro, per cui gli mandò 30 cammelli carichi di domande: «Io dico: chissà quanti cammelli carichi di risposte ha ricevuto!», commenta con humour .
«Il primo che è stato a fare una domanda è Dio:
“Adamo, dove sei?”: il nostro rapporto con Dio è di domande reciproche. Ci sono delle parole-chiave nel nostro rapporto con Dio: “Dove sei?” e la risposta “Eccomi”, ambedue reciproche. Un cristiano potrebbe dire che il massimo “Eccomi” di Dio è Gesù Cristo. È
importante in ogni situazione essere in due – argomenta – nella fede ebraica il due è fondamentale:
l’uno è Dio, poi tutto è due: cielo e terra, asciutto e acqua nella creazione, e anche nella storia d’Israele,
Esaù e Giacobbe, ad esempio, e molti altri casi. Nel
Deuteronomio si insiste: “Scegli!”, e questo vuol dire
che ci sono due possibilità. “Altre interpretazioni” è
una formula ebraica, non bisogna mai pretendere di
averne una sola: tutti quelli che pensano di arrivare a
un’unica cosa, secondo me sono in errore, anche in
teologia».
De Benedetti appartiene a un’antica famiglia ebraica sefardita, originaria della Catalogna. «Siamo astigiani da 500 anni», dice. E poi mi condurrà a vedere
le foto e i ritratti di famiglia: in particolare quello del
prozio Isacco Artom, segretario di Cavour («Apriva
l’ufficio alle 6 del mattino!») e di sua sorella Dolce,
detta Dolcina («Nostra bisnonna che, dichiarata sterile dal medico, ebbe invece 15 figli!»). «Io mi occupo ancora della sinagoga, ora restaurata – mi dice –
e quando c’è qualche visitatore vado ad aprirla. Mio
nonno Israel era presidente della comunità, e aveva
26
sposato una non-ebrea. Così anche mio padre, che era
un medico non credente allora, e che non ha voluto
che noi alla nascita fossimo in qualche modo “collocati”. La mia mamma, cattolica – a cui devo la formazione religiosa – ci leggeva il Nuovo Testamento
traducendolo dal francese, e io sono stato battezzato,
cresimato e comunicato, a dieci anni, dal vescovo
Umberto Rossi – di cui mio padre era il medico – che
all’epoca delle persecuzioni razziali aveva aiutato gli
ebrei e ospitato in vescovado i rotoli della sinagoga.
La mamma quando ero molto piccolo si è ammalata
di tubercolosi, ed è stata ricoverata per tanti mesi in
sanatorio, a Davos, quello de La montagna incantata di Thomas Mann: ho ancora – ricorda con tenerezza – il volume che lei leggeva lì. Mia sorella Maria
ed io eravamo stati affidati alla nonna paterna, e
quando la mamma è tornata eravamo così attaccati
tra di noi che siamo rimasti sempre insieme, non ci
siamo poi sposati». Una caratteristica di Paolo De Benedetti che ti fa subito sentire amicizia per lui è, oltre
alla sua estrema semplicità nella vasta cultura e al
grande senso dell’umorismo – tipicamente ebraico –
una profonda sensibilità e affettività, un atteggiamento di attenzione all’altro, che condivide con la sorella Maria, non a caso di professione psicologa.
Il percorso di vita e di studi di De Benedetti è stato,
insieme all’approfondimento della sua fede cristiana,
anche un progressivo recupero della sua identità ebraica: «Io sono cristiano la domenica, e ebreo tutti gli altri giorni – sorride –; nell’infanzia sono stato vittima
dell’“insegnamento del disprezzo”, per cui gli ebrei dovevano convertirsi; poi i tempi sono cambiati, anche
se penso che bisogna sempre “tenere sotto controllo”
le Chiese cristiane... Quelle protestanti meno, perché
non c’è un’autorità unica», argomenta. È la filosofia
dell’importanza del due come confronto, dialogo, incontro, che mi trova perfettamente consenziente. De
Benedetti staresti ad ascoltarlo per ore: è una miniera
di dotti racconti, di aneddoti, di arguzie.
E a sua volta mi ricorda l’amicizia e il dialogo con
tanti studiosi del mondo protestante (come Daniele
Garrone, Alberto Soggin e Paolo Ricca), ma anche del
mondo cattolico: Italo Mancini, Natale Bussi, Vincenzo Cavalla, Piero Rossano, a cui si deve la famosa definizione degli ebrei come «fratelli maggiori».
«Don Pierino (lo chiamavamo così) era albese, eravamo tanto amici, quando è morto ho donato l’epistolario alla Fondazione a lui intitolata: non era un padre
conciliare, perché non era vescovo o cardinale, ma la-
i servizi
dicembre 2011
confronti
Incontri/De Benedetti.
Cristiano la domenica,
ebreo tutti gli altri giorni
vorava in Vaticano, e quando Wojtyla doveva andare a
visitare per la prima volta la Sinagoga, lo invitò a pranzo, e gli fece leggere il discorso che avrebbe fatto. La
teologia bisognerebbe raccontarla incarnata nelle persone», osserva. E ricorda anche un giornalista italoisraeliano, Giorgio Romano, corrispondente in Israele
per La Stampa: «Ci scrivevamo tutte le settimane,
quando è morto ho donato migliaia di sue lettere al
Centro di documentazione ebraica di Milano: mi ha
aiutato a vivere nell’ebraismo contemporaneo; la conoscenza di quello classico me l’ero fatta da solo».
De Benedetti ha insegnato Giudaismo e Antico Testamento alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e a quella di Firenze, all’Università di
Urbino, e all’Istituto superiore di scienze religiose di
Trento. Ma ha avuto anche un lungo impegno nel
campo dell’editoria: per 17 anni alla Bompiani (dove
è stato vicedirettore con Umberto Eco e Sergio Morando), e poi per 14 alla Garzanti. «Per la Bompiani fondai la collana “La ricerca religiosa”, una delle prime
collane teologiche in Italia che non avevano l’imprimatur, e ho pubblicato Resistenza e resa e l’Etica di
Bonhoeffer: ne sono fiero! Bonhoeffer lo tengo sempre
sul comodino per leggerlo e meditarlo, sempre! – dice
con passione. Ho pubblicato anche
l’Introduzione alla teologia evangelica di Barth, la cui conoscenza devo a
don Natale Bussi, cugino di Pavese,
professore di teologia dogmatica al seminario di Alba, di cui mi considero
discepolo».
De Benedetti ha alle spalle studi
sterminati: laureato in filosofia a Torino e specializzato in lingue orientali e in ebraismo, a Milano («attraverso lo studio linguistico ho progressivamente recuperato la mia identità
ebraica», dice ), ha studiato con Giuseppe Invrea, presidente del tribunale
di Asti, che aveva la passione per le
lingue antiche: «Autore di una grammatica ebraica bellissima, che vorrei
fosse ripubblicata, lui ha studiato il
siriaco per insegnarmelo, e mi ha dato lezioni di babilonese, di aramaico;
il sanscrito invece l’ho studiato da solo, ma oggi ho dimenticato tutto...
L’ebraismo è una parte importante
della mia identità e della mia professionalità: da un fatto puramente culturale sono passato a recuperare una
identità storica e spirituale: pensi che
nelle edizioni del Talmud, tra i commenti pubblicati, ci sono le note di
un nostro antenato spagnolo, Salva-
«Nel Deuteronomio
si insiste: “Scegli!”,
e questo vuol dire che
ci sono due possibilità.
“Altre interpretazioni”
è una formula
ebraica, non bisogna
mai pretendere
di averne una sola:
tutti quelli che pensano
di arrivare a un’unica
cosa, secondo me
sono in errore,
anche in teologia».
Awa Ly
27
dor Boniforti de Benedetti, e qui nel cimitero ebraico
di Asti c’è più di un antenato con quel nome».
Come hanno potuto coabitare in lei le due identità,
quella ebraica e quella cristiana? – domando.
«A prima vista sembrerebbero non poter coesistere
– risponde – e invece Dio ha scelto la contiguità tra
ebraismo e cristianesimo. Il due è fondamentale nella fede ebraica e questa coesistenza è un mistero:
quando una discussione arriva a un punto morto,
quando una domanda non ha risposta, nel Talmud si
usa il termine «sospeso» (tejqu), acrostico che viene
letto: Verrà Elia e risolverà tutte le difficoltà: quando saremo davanti a Dio, avremo la risposta a tutte le
domande».
Lei ha qualche rimprovero da farsi, o rimpianto? –
domando ancora. «Ho il rimpianto di non aver studiato abbastanza tante cose – dice con umiltà – anche di aver abbandonato le lingue orientali. E anche
di non aver imparato a usare il computer – sorride –
ora, con questo tremito alle mani, non è più possibile:
è ereditario, un fatto nervoso, il mio nonno Israel a 90
anni si mise a fare le aste su un quaderno, credendo di
“guarire” con l’esercizio della calligrafia! Un’altra cosa ricavata dall’ebraismo è il riv, la “lite con Dio”,
fonte in me di riflessioni senza fine,
che mi ha portato a un pensiero un
po’ osé: “Dio per meritarsi la nostra
fede ha sentito il dovere di sperimentare in Gesù tutte le nostre sofferenze
e dubbi fino alla disperazione del Getsemani”: in ebraico, quando si dicono queste cose, si fa una premessa di
cautela: “se così si può dire”».
C’è qualche scritto a cui è particolarmente affezionato? «Ho pubblicato il libretto Gatti in cielo: è quella
che io chiamo la “teologia degli animali”: io ho fede piena nella resurrezione degli animali e delle piante: se
tutto ciò che ha avuto vita dopo la
morte non l’avesse di nuovo, bisognerebbe concludere che la morte è
più potente di Dio. La mia cagnolina
Pucchia mi ha aiutato con la sua fedeltà, amore e sofferenza a pensare
Dio, e le ho dedicato il libro Quale
Dio?».
Un’ultima domanda: come potrebbe sintetizzare la sua regola di vita?
«È nel detto di Rabbi Tarfon (Trifone
Giudeo), che cito sovente – risponde
con un ultimo sorriso –: “Non sta a te
compiere l’opera, ma non sei libero di
sottrartene”. È una regola di vita che
vale addirittura per Gesù».
dicembre 2011 • notizie
n o t i z i e
IMMIGRAZIONE
Oltre la crisi, insieme. Presentato il XXI Dossier statistico
Caritas/Migrantes. Sono quasi cinque milioni gli immigrati residenti in Italia.
La critica situazione che l’Italia
sta affrontando è il tema a cui è
stato dedicato l’ultimo rapporto
Caritas/Migrantes. In esso si ribadisce come l’immigrazione costituisca per il nostro Paese una
risorsa demografica ed economica, in decrescita sin dagli anni
Novanta senza l’afflusso di stranieri.
In un Paese in cui gli anziani
costituiscono più di un quarto
della popolazione essenziali sono
le cosidette badanti. Stando ai
dati del Censis, dopo la regolarizzazione del 2009, un decimo delle famiglie italiane ha assunto
un collaboratore domestico straniero (in maggioranza donne).
Gli immigrati regolarmente residenti in Italia sono 4.570.317
(7,5% della popolazione totale),
di cui il 51,8% sono donne. A
questa cifra bisogna aggiungere
però circa 400mila residenti non
iscritti all’anagrafe. Nell’ultimo
anno l’aumento è stato di
335.258 persone al netto delle oltre 100mila cancellazioni dall’anagrafe e dei 66mila casi di
acquisizione di cittadinanza; a
queste vanno aggiunte le 400mila che non sono ancora registrate all’anagrafe.
I residenti di origine straniera
costituiscono il 10% sul totale dei
minori in Italia; non costituiscono invece nemmeno l’1% degli
anziani, rappresentando un freno all’invecchiamento del Paese.
Nelle scuole italiane il numero
degli alunni stranieri cresce costantemente: i 709.826 alunni registrati nell’anno scolastico
2010/2011 sono il 5,4% in più rispetto all’anno precedente e rappresentano il 7,9% del totale. Tra
ARMI
loro circa 300mila sono nati in
Italia e costituiscono il 42,2% degli studenti di altra cittadinanza.
Più della metà degli immigrati
è di fede cristiana (circa 2,5 milioni): 1,4 milioni sono ortodossi, 876mila cattolici, 204mila
protestanti e 33mila appartenenti ad altre confessioni cristiane. I
musulmani sono 1,5 milioni
(32,9%), gli induisti 120mila
(2,6%), i buddhisti 89mila
(1,9%), gli appartenenti ad altre
religioni orientali 61 mila, coloro che praticano religioni tradizionali, per lo più africane, sono
46mila, gli ebrei 7 mila e 83mila
professano religioni non prese in
considerazione nella stima.
«La dimensione multiculturale
è una constatazione di fatto», si
legge nel Dossier, e i lavoratori
stranieri (circa 2milioni), un decimo dell’intera forza lavoro, versano più di 7 miliardi annui di
contributi previdenziali. Per superare la crisi, per il bene comune bisogna opporsi alla politica
restrittiva e ai pregiudizi ancora
presenti tra i cittadini diffondendo anche dati concreti, per arrivare a riconoscere agli stranieri
residenti non solo meriti, ma anche diritti. Monica Di Pietro
«Trasferimenti di armi in Medio Oriente e Africa del Nord:
le lezioni per un efficace Trattato sul commercio di armi».
Secondo il rapporto di Amnesty international, molti Paesi
(tra cui l’Italia) hanno fornito
grandi quantità di armi a regimi repressivi del Medio
Oriente e dell’Africa del Nord.
Nel rapporto intitolato «Trasferimenti di armi in Medio Oriente
e Africa del Nord: le lezioni per
un efficace Trattato sul commercio di armi», Amnesty international richiama di nuovo l’attenzione sul fiorente mercato delle
armi, che ha tra i protagonisti
anche l’Italia. Secondo Amnesty,
«Stati Uniti, Russia ed altri Paesi europei hanno fornito grandi
quantità di armi a governi repressivi del Medio Oriente e
dell’Africa del Nord prima delle
rivolte di quest’anno, pur avendo
le prove del rischio che quelle
forniture avrebbero potuto essere
usate per compiere gravi violazioni dei diritti umani».
Dal rapporto, che fa il punto sui
rifornimenti ai governi medio-
Charming Chattes
28
rientali e nordafricani dal 2005
ad oggi, risulta che Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia e Stati Uniti
siano tra i principali fornitori;
con un primato per il nostro Paese: quello di esportare verso tutte
le nazioni oggetto dello studio
(Bahrain, Egitto, Libia, Siria e
Yemen).
Lo Yemen, dove nel corso di
quest’anno hanno perso la vita
centinaia di manifestanti, avrebbe beneficiato dell’assistenza militare e delle autorizzazioni alle
esportazioni di armi, munizioni
e relativo equipaggiamento di 11
Paesi (tra i quali Bulgaria, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia, Stati Uniti d’America, Turchia e Ucraina).
Per quanto riguarda la Siria,
considerato il fatto che non tutti
i Paesi riferiscono ufficialmente
sui trasferimenti al governo di
Damasco, sono state riscontrate
maggiori difficoltà nella raccolta
delle informazioni. Ben noto il
primato della Russia, che destina
a questo Paese circa il 10 per
cento di tutte le sue esportazioni.
Ritroviamo anche l’India, che è
tra coloro che avrebbero autoriz-
dicembre 2011 • notizie
zato la fornitura di veicoli blindati, e la Francia, che tra il 2005
e il 2009 avrebbe venduto munizioni.
A partire dal 2005 anche il governo libico del colonnello Gheddafi, da molto tempo noto per le
violazioni dei diritti umani di cui
si era macchiato, avrebbe goduto
del sostegno di diversi stati; nello
specifico, tra i 10 individuati, ci
sarebbero Belgio, Francia, Germania,Italia, Regno Unito, Russia e Spagna.
Helen Hughes, principale ricercatrice del rapporto, sottolinea:
«Le nostre conclusioni mettono
in evidenza il profondo fallimento degli attuali controlli sulle
esportazioni di armi, con tutte le
scappatoie esistenti, e sottolineano quanto occorra un efficace
Trattato sul commercio di armi
che tenga in piena considerazione la necessità di difendere i diritti umani». Stefania Sarallo
AMBIENTE
La classifica di Greenpeace dei
principali produttori di cellulari, televisori e computer in
base al rispetto dell’ambiente.
In testa la Hp e Dell. Maglia
nera per Rim, Toshiba e Lge.
Quante volte abbiamo sentito
dire che «oggi le cose si rompono
subito, non durano più come
una volta»? Dietro quello che
sembra un banale luogo comune, si nasconde – come spesso
accade – una verità semplice: le
aziende sono orientate sempre
più verso prodotti «usa e getta»,
perché sanno che così possono
moltiplicare i profitti. Il problema è che così si moltiplicano anche i rifiuti e, parallelamente, la
difficoltà di smaltirli in modo
ecologicamente sostenibile.
Di recente Greenpeace ha aggiornato l’eco-guida ai prodotti
elettronici, ossia la classifica dei
principali produttori di cellulari,
televisori e computer in base ai loro impegni (ma naturalmente
anche a quanto poi riescono a
mantenerli) su riduzione dell’impatto ambientale, creazione di
prodotti più eco-sostenibili e so-
stenibilità della filiera produttiva.
L’intento è quello di indurre le
aziende a ridurre le emissioni di
gas serra grazie a una maggiore
efficienza energetica, privilegiando le energie rinnovabili.
Perché i prodotti siano considerati «ecologicamente corretti»,
occorre non solo che durino di
più, ma anche che siano privi di
sostanze chimiche pericolose.
L’impatto sull’ambiente – sottolinea Greenpeace – deve essere ridotto durante tutto il processo
produttivo, «dalle materie prime
e l’energia utilizzate fino ai programmi di ritiro dei prodotti a fine vita». La scala di misurazione
adottata va da 0 a 10, dove il punteggio massimo corrisponde a un
impatto ambientale nullo. È per
questo che la più «virtuosa» delle aziende monitorate, la HewlettPackard (Hp), non raggiunge
neanche 6 decimi, fermandosi a
5,9. In un panorama desolante,
però, questo livello già basta per
attestarsi in cima alla classifica,
soprattutto perché Hp ha il miglior programma per misurare e
ridurre le emissioni di gas serra
dei propri fornitori. Inoltre, Hp e
Dell (che segue nella classifica,
con 5,1 punti) sono le uniche
compagnie nella guida che escludono l’acquisto di carta da fornitori legati a fenomeni di deforestazione illegale. Insieme ad Apple (quarta in classifica, con 4,6
punti), Hp ottiene il massimo
punteggio anche perché rifiuta
l’approvvigionamento di minerali da zone di guerra, indicando la
lista dei propri fornitori.
Al terzo posto della classifica troviamo Nokia, con un punteggio
di 4,9 decimi. Dal 2008 l’azienda
finlandese si era attestata al primo posto, ma quest’anno ha perso posizioni a causa delle prestazioni più scarse rispetto ai criteri
di energia. Nokia deve sviluppare
maggiormente il proprio piano di
energia elettrica pulita e dimostrare come intende ridurre di almeno il 30% entro il 2015 le proprie emissioni di gas serra attraverso l’uso di energie rinnovabili
e risparmio energetico.
Dopo la Apple, che come già visto si colloca al quarto posto, troviamo Philips (4,5 punti), Sony
Ericsson (4,2), Samsung (4,1),
Lenovo (3,8), Panasonic (3,6) e
poi giù verso le ultime tre della
classifica: Lge e Toshiba (entrambe a 2,8 punti) e Research
in motion (Rim), a soli 1,6 decimi. L’azienda canadese non fa
certificare da un ente esterno le
proprie emissioni di gas serra e
non ha ancora fissato alcun
obiettivo di riduzione dei gas serra. Inoltre, Rim rischia di avere
un punto di penalità nella prossima edizione della guida poiché
è membro di un’associazione di
categoria che ha fatto dichiarazioni contro rigidi standard di efficienza energetica: una posizione da cui Rim – avverte Greenpeace – deve prendere pubblicamente le distanze. Stefania Sarallo
DIRITTI UMANI
Benvenuti nel paradiso della
censura. La campagna di Reporters sans frontières per
sensibilizzare sui crimini legati alla repressione della libertà di stampa.
La piramide maya di Chichen
Itza nello Yucatan, le colline verdi terrazzate del Vietnam e una
spiaggia thailandese di quelle
«sabbia bianca finissima e mare
azzurro incontaminato per una
vacanza da sogno», come dicono
le guide turistiche. Foto spettacolari di paesaggi meravigliosi accompagnate però da slogan che
volutamente stonano, colpendo
allo stomaco: «Fuck democracy,
book a vacation in Thailand.
Fuck human rights: book a vacation in Vietnam. Fuck freedom of
speech: book a vacation in Mexico». Così la campagna di Reporters sans frontières (Rsf) che tenta di sensibilizzare sui crimini legati alla repressione della libertà
di stampa. Perché in questi, come in molti altri Paesi del mondo, non solo i giornalisti non
possono esprimere liberamente le
proprie idee o pubblicare articoli
sgraditi al governo, ma spesso
vengono imprigionati, torturati e
in certi casi addirittura uccisi
perché non accettano di piegarsi
alla censura. «Non chiudete un
29
occhio sulla censura: scoprite il
dietro le quinte delle vostre prossime vacanze», recita l’appello finale della campagna, invitando
quindi a «non fregarsene».
In Thailandia – Paese che si trova al 158mo posto, su 178, della
classifica mondiale di Rsf sulla libertà di stampa – per i giornalisti
c’è un argomento tabu, il re e la
famiglia reale, su cui non si può
assolutamente esprimere un parere che non sia men che rispettoso. Il reato di lesa maestà, che nonostante le promesse non è stato
ancora abolito, viene quindi utilizzato come strumento di controllo politico e di intimidazione
nei confronti degli operatori
dell’informazione.
Per quanto riguarda il Messico
(136mo posto nella classifica della libertà di stampa), Rsf spiega
come esso sia il più pericoloso del
continente americano per quanto riguarda l’incolumità dei giornalisti, soprattutto per la presenza dei cartelli della droga e la
corruzione delle autorità, che
spesso per complicità o negligenza finiscono per garantire l’impunità nei confronti di crimini
compiuti contro i professionisti
dei media. Il bilancio dal 2000 a
oggi è molto pesante: 80 giornalisti assassinati e 14 scomparsi.
In Vietnam (qui scendiamo al
165mo posto della classifica), il
regime sta aumentando la censura e i controlli su Internet. In
questo momento sono 19 i cyberdissidenti detenuti in condizioni
particolarmente severe nelle prigioni del Paese, dove i diritti
umani sono sistematicamente
violati. Il Partito comunista controlla tutti i mezzi di informazione, per cui in Vietnam non esistono voci veramente indipendenti. Propaganda contro lo Stato, diffamazione contro il partito,
attentato alla sicurezza nazionale: questi capi di imputazione
vengono regolarmente utilizzati
dalle autorità per intimidire e reprimere i dissidenti. Unica nota
positiva per la libertà di opinione:
sta prendendo piede il sito internet VietnamNet, che a volte riesce
a sollevare delle questioni scomode e imbarazzanti per il regime. Adriano Gizzi
dicembre 2011 • notizie
VALDESI
Riformati americani in visita
in Italia. Apprezzato l’impegno della Chiesa valdese sui
temi dell’accoglienza e dell’integrazione.
Tom DeVries è il neo segretario
generale della Chiesa riformata
d’America (Rca), una delle denominazioni di matrice calvinista che compongono il grande
mosaico del protestantesimo storico degli Stati Uniti. Dal 3 all’8
novembre, insieme al pastore
Duncan Hanson responsabile
della Rca per i rapporti con l’Europa, alla moglie Laura e al professor Brad Lewis, presidente
dell’American waldensian society, ha visitato chiese, istituzioni ed opere sociali valdesi e
metodiste: la casa di seconda accoglienza di Verbania, le chiese
valdesi di Como e di Verona, il
Centro culturale valdese di Torre Pellice (To). Infine a Roma
ha incontrato la pastora Maria
Bonafede, moderatora della Tavola valdese, e il presidente del
Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
«Alla fine del viaggio posso dire
che siamo rimasti molto impressionati dell’impegno che la
Chiesa valdese dimostra sui temi
dell’accoglienza e dell’integrazione.
In particolare è stata molto significativa la visita ad alcune
chiese multietniche. Assolutamente emozionante è stato per
me predicare nella chiesa di Como, in cui la componente ghanese è molto rilevante, e sentirmi accolto in quella realtà. Questa esperienza mi ha fatto comprendere l’importanza di un progetto come “Essere chiesa insieme”, che lavora in profondità
per l’integrazione e l’accoglienza dello straniero. Penso davvero che questi siano temi che anche noi in America dovremmo
sviluppare in modo simile. Tutto ciò che sto vedendo qui in Italia mi ispira e penso che sia
molto importante trarre insegnamenti dall’esperienza della
Chiesa valdese in Italia, così impegnata nel sociale. L’esempio
della chiesa valdese italiana è un
tassello importante per affermare che le diverse esperienze delle
chiese nel mondo sono importanti per vedere quanti siano i
modi di esprimere la Parola di
Dio». Questo apprezzamento è
stato espresso nell’incontro con
la pastora Maria Bonafede, che
per parte sua ha sottolineato come negli anni, «anche grazie
all’incessante lavoro dell’American waldensian society, si siano
consolidati i rapporti tra l’Italia
varie chiese statunitensi, quella
presbiteriana e quella riformata
in particolare».
L’incontro in Vaticano si è svolto in un clima amichevole anche se condizionato da una fase
dei rapporti ecumenici non particolarmente creativa e ricca di
occasioni di incontro e scambio.
«È chiaro – ha commentato il
pastore Duncan Hanson – che il
dialogo ecumenico con le chiese
riformate non è una priorità della Chiesa cattolica, ma per motivi che posso comprendere e, in
un certo senso, condividere. Sono convinto, infatti, che ogni
Chiesa necessiti di essere consolidata al suo interno. Questa è
un’esigenza che sentiamo pressante anche nella Chiesa riformata americana; tuttavia riteniamo che il dialogo ecumenico
ed interreligioso faccia parte di
quella spinta verso l’esterno che
noi auspichiamo e per cui lavoriamo incessantemente. In America il dialogo con i cattolici è
molto vivace, forse facilitato dalla presenza di una grande percentuale di protestanti, e non si
limita alle parole, ma alla condivisione di molteplici iniziative,
in particolare rivolte nella battaglia contro il razzismo e la povertà e a favore dell’evangelizzazione”. Michele Lipori/chiesavaldese.org
SOCIETÀ
Da una ricerca di Cittadinanzattiva sugli asili nido nel
nostro Paese, emerge che il
costo è in media di oltre 300
euro al mese.
Quanto costa in Italia mandare il proprio figlio all’asilo nido
comunale? A questa domanda
ha voluto dare una risposta Cit-
Barbara Eramo
30
tadinanzattiva, scoprendo che il
costo è di 302 euro al mese. Questo significa che per 10 mesi di
utilizzo una famiglia spende più
di tremila euro. Al Nord le città
più care e in media il 25% dei
bimbi non riesce ad accedere.
Iniziamo con il confronto della
retta mensile: se a Catanzaro si
spendono 80 euro, a Lecco sei
volte di più (537 euro), poco
meno del doppio a Roma (146)
e quasi il triplo a Milano (232).
L’analisi, svolta dall’Osservatorio prezzi & tariffe di Cittadinanzattiva, ha considerato una
famiglia tipo di tre persone (genitori e figlio 0-3 anni) con reddito lordo annuo di 44.200 euro
e relativo Isee di 19.900.
I dati sulle rette sono elaborati
a partire da fonti ufficiali, calcolando un servizio di asilo nido
comunale per la frequenza a
tempo pieno (9 ore circa al giorno) e, dove non presente, a tempo ridotto (6 ore al giorno), per
cinque giorni. Dal 2005 ad oggi
le tariffe sono aumentate in media del 4,8%. Nel 2010/2011 sono 26 le città che hanno ritoccato le rette e in cinque capoluoghi
si registrano incrementi a due
cifre: Foggia (+54,6%), Alessandria (+24,3%), Siracusa (+20%),
Caserta (+19,5%), Catanzaro
(+19,4%).
Per quanto riguarda le liste di
attesa vi rimangono ben il 25%
dei richiedenti, con punte in Sicilia del 42% e in Toscana ed in
Puglia del 33%.
Secondo il Ministero dell’Interno (dati 2009), la regione con il
numero più elevato di nidi è la
Lombardia, con 660 strutture
pubbliche e più di 29mila posti
disponibili, seguita da Emilia
Romagna (593 nidi e quasi
25mila posti) e Toscana (456 nidi e 15.600 posti), ultima il Molise con soli sei asili per 300 posti disponibili.
A quarant’anni esatti dalla legge 1044/1971, che istituì gli asili
nido comunali, in Italia se ne
contano 3.424 (a fronte dei 3.800
asili pubblici previsti già per il
1976), un numero insufficiente
benché in crescita rispetto ai
3.184 registrati nel 2007. Di essi,
il 44% è concentrato nei capo-
dicembre 2011 • notizie
Giorgio Zanchini, conduce
«Tutta la città ne parla»
su RaiRadio3
luoghi, per complessivi 141.210
posti disponibili (circa la metà
presso città capoluogo). Infatti
solo nel 18% dei Comuni italiani
sono presenti strutture, nel loro
insieme il 60% è concentrato nelle regioni settentrionali, il 27% al
Centro e solo il restante 13% al
Sud.
L’obiettivo comunitario fissa al
33% la copertura del servizio; il
dato si ottiene confrontando i
posti disponibili e l’utenza potenziale (numero di bimbi di età
0-3 anni).
In media in Italia la copertura
è del 6,2% (per i soli capoluoghi
di provincia è l’11,7%) con punte del 15,7% (Emilia Romagna)
e dell’1% in Calabria e Campania. Negli altri Paesi europei:
Danimarca, Svezia e Islanda
hanno una copertura del 50%
dei bambini di età inferiore ai
tre anni, seguiti da Finlandia,
Paesi Bassi, Francia, Slovenia,
Belgio, Regno Unito e Portogallo (con valori tra il 25 e il 50%).
Percentuali comprese tra il 10 e
il 25% si registrano, oltre che nel
nostro Paese, in Lituania, Spagna, Irlanda, Austria, Ungheria
e Germania.
L’indagine completa è on line
su www.cittadinanzattiva.it. Cristina Zanazzo
SPIRITUALITÀ
in avanti entro le profondità
dell’oceano della consapevolezza
mentale» fino a diventare maestro realizzato.
Padre Anthony si è nutrito di un
profondo amore per lo studio e la
conoscenza che si sono trasmutati nella ricerca di Dio e della Verità portandolo dal cattolicesimo
romano all’«ecumenismo cosmico», che sintetizza il suo messaggio ed è il titolo del libro in cui ha
raccolto 60 anni di confessioni e
rivelazioni. Tale ideale è basato
sul sentiero dell’autoconoscenza,
che induce la purificazione dei
cinque sensi, del cuore e della
mente, e conduce all’autorealizzazione ove la volontà dell’uomo
coincide con quella di Dio e la
mente dell’uomo si unisce a Dio
diventando uno con l’Oceano
dell’Esistenza, della Consapevolezza e della Beatitudine (Sat-CitAnanda).
I mezzi più sublimi per avanzare su questo cammino di scoperta della propria vera identità,
fonte di gioia, sono la meditazione giornaliera e l’esame di coscienza continuo, come indicato
nelle «religioni psicologiche del
Vedanta, dello Yoga e della filosofia indo-buddhista» che insegnano attraverso il metodo di
Buddha: «Convincetevi dopo
Dal cattolicesimo romano
all’«ecumenismo cosmico». La
scomparsa di padre Anthony
Elenjimittam.
Padre Anthony Elenjimittam ha
lasciato «lo spesso cappotto del
corpo fisico» e questo mondo il 5
ottobre 2011 da Torino con un
sereno mahasamadhi (ritorno
definitivo alla Coscienza cosmica) dopo l’ennesimo incontro di
insegnamenti e meditazione.
Ha trascorso con noi 96 anni rocamboleschi, di viaggi, esperienze ed esperimenti nei monasteri e
nel mondo: seminarista in Kerala, studente e sacerdote a Roma,
frate domenicano sospettato di
eresia, operaio di fabbrica a
Cambridge, giornalista e attivista
politico a Calcutta, dal 1946 discepolo spirituale e politico di
Gandhi (di cui ha scritto la biografia Mahatma Gandhi. Il profeta dell’età dell’acquario), monaco volitivo e arreso al divino
nell’Assisi di Francesco (su cui ha
scritto un libro intitolato Lo yogi
dell’amore cosmico), dove ha
vissuto gli ultimi 30 anni, e in
ogni dove «intrepidamente, continuamente, pazientemente, devotamente e castamente proteso
31
averne fatto l’esperienza». Il
«prezzo del biglietto» è la rinuncia al proprio ego, origine di desideri e attaccamenti sensoriali e
mondani.
Spirito libero, mente aperta e
cuore compassionevole, padre
Anthony si è sottratto alla rigida
ortodossia della Chiesa cattolica
fondata sull’ipse dixit dell’autorità esterna e ha abbracciato tutti gli insegnamenti mistici lasciandoci il lodevole esempio della sua pratica della religione come «amore di Dio» espresso nel
servizio all’uomo, il suo instancabile operare fino all’ultimo respiro per «gli aspiranti che cercano un po’ di Luce», il suo sorriso di fanciullo, gli occhi socchiusi nell’estasi, oltre 40 libri,
80 anni di conferenze, discorsi e
articoli, la Missione Sat Cit Ananda in Europa, la Welfare Society
for Destituite Children a Mumbai
e tanti discepoli in Italia, in Europa e in India (www.padreanthony.org).
Come profondo credente nel
«Karma Yoga», il suo passaggio
sulla Terra è stato contemplativo
e attivo e ha diffuso la luce del
«Logos incarnatosi in Cristo, fattosi illuminazione nel Buddha e
musica nel flauto di Krishna».
Maria Rosaria Giordano
le rubriche
dicembre 2011
confronti
SPIGOLATURE D’EUROPA
Rajoy guida la Spagna
del dopo Zapatero
Adriano Gizzi
Archiviata
la stagione politica
dello «zapaterismo»,
la Spagna si trova ora
ad affrontare
una crisi economica
pesantissima.
Come ampiamente
previsto, le elezioni
del 20 novembre
hanno dato
la maggioranza
assoluta
in Parlamento
ai popolari
di Rajoy, infliggendo
una sconfitta storica
ai socialisti.
Un’occhiata anche
oltremanica, dove
il liberaldemocratico
Clegg tenta di frenare
la precipitosa corsa
verso il baratro
del suo partito.
redazioneconfronti
@yahoo.it
L
a vittoria del Partito popolare di Mariano
Rajoy in Spagna ha cominciato a essere una
non-notizia già da quando a luglio Zapatero
aveva deciso di annunciare il suo ritiro e le elezioni anticipate. Per anni il premier spagnolo è stato
un vero e proprio idolo per molti elettori di sinistra degli altri Paesi europei, soprattutto in quello dove la
presenza del Vaticano si fa sentire di più. Molti ricorderanno la parodia di Maurizio Crozza che, sulle note di Bamboleo dei Gipsy Kings e in uno spagnolo
maccheronico, cantava «Zapatero, Zapatera... el un
per ciento de tu carisma me serve aqui! Zapatero, Zapatera, y las primarias no me servivan si c’eri ti».
Ma alla fine il declino, dovuto soprattutto all’incapacità di gestire la crisi economica, è giunto anche per
l’«eroe» della Spagna moderna, cosmopolita e laica. E
così Zapatero aveva deciso di fissare le elezioni anticipate per il 20 novembre, proprio il giorno del 36mo anniversario della morte del dittatore Francisco Franco. A
proposito di questa data, El Pais è andato a scovare una
storiella curiosa, quella di una vecchina di 107 anni, Felisa Bravo, con «una vita segnata dal 20 novembre»: il
giorno (ovviamente di anni diversi) in cui nacque, quello in cui votò nelle prime elezioni dove potevano farlo
le donne (l’anno era il 1933, ma la data precisa era il
19 novembre: qui il quotidiano spagnolo ha «arrotondato» di un giorno), quello in cui morì suo marito e infine quello in cui morì il suo odiato nemico Franco. Il
nuovo premier spagnolo, in quel 1975, aveva solo
vent’anni. Poco dopo la caduta del regime aderirà ad
Alleanza popolare, una formazione post-franchista fondata da Manuel Fraga Iribarne, ministro di Franco ma
poi anche leader della destra nella Spagna democratica. Sarà per l’aria poco carismatica o forse per la barba,
che gli dà un aspetto perdente e quasi «di sinistra», ma
Rajoy non sembra proprio intenzionato a instaurare un
regime reazionario. Né a smantellare completamente
tutte le leggi introdotte dal suo predecessore, al di là di
qualche modifica annunciata in campagna elettorale.
Come quasi sempre accade nelle elezioni, anche con
risultati schiaccianti come in questo caso (44,6% ai popolari, solo il 28,7% per i socialisti di Alfredo Rubalcaba), non è tanto il partito vincente ad aver guadagnato voti (solo 500mila in più rispetto alle ultime elezioni), quanto il perdente a subire un’emorragia. Sono oltre quattro milioni i voti persi il 20 novembre dal Psoe
e solo una parte di questi sono rimasti a sinistra, premiando l’Izquierda unida (che ha quasi raddoppiato i
suoi consensi, attestandosi intorno al 7%). Il risultato
32
finale ha visto, come è noto, una solida maggioranza
assoluta di seggi per il Pp di Rajoy, che ha così «vinto»
il privilegio di essere lui a imporre agli spagnoli la ricetta di sacrifici scritta dall’Unione europea.
In Gran Bretagna, intanto, c’è chi le elezioni cerca di evitarle a tutti i costi. Si tratta dei liberaldemocratici del giovane Nick Clegg, sfortunato protagonista di un declino politico tra i più rapidi della storia
(assieme a quello di altri due leader della famiglia liberale europea: il centrista François Bayrou in Francia e il liberale tedesco Guido Westerwelle). Nei sondaggi della campagna elettorale per le ultime elezioni britanniche del maggio 2010, la stella di Clegg brillava oltre il 30% e sembrava che i liberaldemocratici
dovessero diventare il secondo partito, se non addirittura il primo, superando in un colpo solo laburisti e
conservatori. Poi Clegg ha cominciato a perdere consensi e il giorno del voto si è dovuto accontentare di
un magro 23%, addirittura perdendo cinque seggi. Ma
siccome i conservatori di David Cameron non avevano ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, Clegg
decise di entrare con loro in un governo di coalizione.
Evento così insolito per la politica britannica (l’ultima coalizione era quella di Churchill durante la seconda guerra mondiale) da indurre la regina Elisabetta, in un incontro con il nostro presidente della Repubblica Napolitano, a commentare quasi divertita:
«Ma ha visto cosa ci è capitato?».
Il partito di Clegg è precipitato ancora nei sondaggi – è dato ormai tra il 12 e il 14% – e allora, per evitare che Cameron possa convocare le elezioni anticipate all’improvviso (un potere che i premier britannici si riservano di esercitare ogni volta che gli fa comodo), i liberaldemocratici hanno imposto l’approvazione di una legge che fissa una data precisa per le
elezioni: il primo giovedì di maggio, ogni cinque anni, a partire dal 2015. La nota agenzia di scommesse
Betfair ha deciso quindi di restituire le puntate e annullare le scommesse su quale sarà la data delle prossime elezioni (non è assolutamente il quesito più bizzarro, in un Paese dove si scommette davvero su tutto), ma si è attirata le proteste di molti scommettitori
e osservatori politici, che hanno obiettato: non è vero
che la data è matematicamente certa, perché se il premier viene sfiduciato e non si trova un’alternativa
(ipotesi non improbabile, in un governo di coalizione) o se due terzi della Camera dei Comuni lo richiede, si deve andare a elezioni anticipate. Ma non si accettano scommesse.
le rubriche
dicembre 2011
confronti
CONVEGNO
Il protestantesimo
nell’Italia di oggi
Gian Mario Gillio
Il 22 novembre
la Federazione
delle Chiese
evangeliche in Italia
è stata ricevuta
al Quirinale per aprire
– alla presenza
di un attentissimo
presidente
della Repubblica –
il convegno dal titolo
«Il Protestantesimo
nell’Italia di oggi».
Il convegno
è proseguito
nel pomeriggio
al Senato.
Il resoconto si può
leggere sul sito
dell’agenzia Nev.
direttoreconfronti
@yahoo.it
E’
stata una gran bella giornata quella del 22 novembre, quando la Federazione delle chiese
evangeliche in Italia (Fcei) è stata ricevuta al
Quirinale. L’occasione era quella di aprire, alla
presenza del Capo dello Stato, il convegno dal titolo «Il
Protestantesimo nell’Italia di oggi. Vocazione, testimonianza, presenza». Incontro dal sapore interconfessionale, quel giorno infatti erano stati invitati dalla Fcei anche alcuni rappresentanti delle diverse religioni che compongono il mosaico delle fedi presenti nel nostro Paese.
Tra gli altri, Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Mariangela Falà dell’Unione buddhista italiana, Franco Di Maria dell’Unione induista italiana, oltre ai rappresentanti e ai presidenti delle chiese membro della Federazione evangelica (luterani, valdesi, metodisti, esercito della salvezza, battisti, comunione delle chiese libere, Chiesa apostolica italiana,
la comunità evangelica di confessione elvetica di Trieste,
la St. Andrew’s Church of Scotland) che insieme rappresentano una popolazione evangelica di circa 65mila persone, non poca cosa. A introdurre la giornata dei lavori
al Quirinale è stato il presidente della Fcei, pastore Massimo Aquilante, che nel saluto rivolto al presidente Napolitano ha citato la campagna «L’Italia sono anch’io»,
della quale la Fcei è uno dei 19 enti promotori. Facendo
riferimento alle due leggi di iniziativa popolare promosse dalla campagna – l’introduzione dello ius soli e del
voto nelle consultazioni elettorali locali per gli immigrati – ricordando che una vera politica di integrazione è
impensabile senza questi fondamentali diritti, Aquilante ha auspicato che «il Parlamento possa recepire le due
proposte entro il termine della presente legislatura».
Il presidente Napolitano intanto seguiva con vivo interesse appuntandosi stimoli e proposte ricevute, e così ha
fatto anche per gli interventi successivi: la lezione della
professoressa Elena Bein Ricco: «Lo Stato democratico
laico – ha detto – non rimuove a priori le diversità dallo
spazio pubblico, anzi le valorizza, promuovendo l’interazione tra fedi, valori, tradizioni differenti, ed è neutrale nel senso di garantire, come arbitro imparziale, che
tutte le concezioni possano partecipare al dibattito, impedendo al tempo stesso che una prevarichi le altre». Lezione che anticipava l’ultima relazione, quella del filosofo Mario Miegge sul «patto sociale». Un percorso storico incentrato sull’emancipazione di valdesi ed ebrei –
cioè il riconoscimento dei loro diritti civili – avvenuto nel
Piemonte sabaudo nel 1848, una data simbolo del Risorgimento italiano. «Le chiese e comunità che fanno
parte della Fcei – ha affermato Miegge nel suo discorso
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– sono da sempre e prioritariamente impegnate nella lotta a favore della libertà religiosa, di coscienza e di culto.
E intendono riaffermare il nesso inscindibile tra libertà
religiosa e cittadinanza». A sorpresa, mentre Miegge incalza Napolitano con affettuosa complicità, il Capo dello Stato si rivolge al consigliere, il quale sussurra al cerimoniere che dà indicazioni alla lettrice. Un sussulto scuote la sala, forse il presidente della Repubblica prende la
parola. Non era affatto scontato: la lettrice annuncia l’intervento di Napolitano: «Mi auguro che in Parlamento si
possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai
bambini nati in Italia da immigrati stranieri. È un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani. Non viene riconosciuto loro un diritto
fondamentale. I bambini hanno questa aspirazione».
Napolitano apre poi – prendendo spunto da un’affermazione di Miegge – una riflessione sulla situazione politica nel nostro Paese con la nascita del governo Monti:
«Non penso che il mare tempestoso in cui fino a ieri ci
siamo mossi sia diventato una tavola: avremo ancora un
mare incrinato, mosso, ma credo che ci siano le condizioni per una maggiore obiettività nel confronto tra gli
schieramenti politici». Parole importanti quelle di Napolitano, che accendono i riflettori sulla giornata. Agenzie, prime pagine web di tutti i quotidiani, i Tg danno la
notizia come seconda per importanza dopo la visita di
Monti a Bruxelles. Un «ma» e un rammarico: l’incontro
con le Chiese evangeliche, da esse fortemente voluto, ha
avuto solo pochi accenni sui media e, come spesso accade, la notizia al massimo cita che «a margine del convegno... Napolitano ha detto...». Solo poche eccezioni, come l’Unità e Rai News. Corradino Mineo aveva invitato
Aquilante il giorno del convegno al Quirinale, intervistandolo su vari temi di attualità e ricordando l’importanza dell’incontro; ma anche dopo, seguendo la notizia
che esplode come una bomba, si ricorderà sempre di citare come è nata. Questo è giornalismo. Il resto dei media approfitta: la polemica con la Lega scatenata dopo
l’affermazione sulla cittadinanza di Napolitano, il ruolo
dell’impegno cattolico dopo Todi, anche su questi temi.
Della presenza evangelica e dell’impegno di queste Chiese neanche un accenno. Napolitano, seppur citando il
nuovo ministro Riccardi come garante di un fattivo impegno sociale, stupisce tutti nuovamente e anticipa stravolgendo i lenti ritmi della politica. Riccardi su la Repubblica del giorno seguente dirà: «Prima di ricevere
questo incarico avevo già deciso di parlare di integrazione. Lo faccio ora a maggior ragione». Grazie Presidente
Napolitano, le sue mosse sono sempre provvidenziali!
le rubriche
dicembre 2011
confronti
MEMORIA
Gli ebrei romani
tra leggi razziali e Shoah
Stefania Sarallo
Il progetto
«Memorie in Comune I dipendenti comunali
ebrei dalle leggi
razziali alla Shoah».
Pupa Garribba,
curatrice del progetto,
è partita da una lista
di circa sessanta nomi
e dopo un complesso
lavoro di ricerca,
ma soprattutto grazie
alle testimonianze
di familiari, amici
e colleghi, è riuscita
nell’intento
di ricostruire alcune
storie, riportandole
in un libro
e in un documentario
realizzati insieme
all’Associazione
Mitintaly e al Circolo
Gianni Bosio,
con il sostegno
del Municipio
Roma XI.
[email protected]
«
I
n ricordo dei dipendenti comunali licenziati
in quanto ebrei, a seguito delle leggi razziali del 1938». Così recita la targa marmorea
apposta qualche anno fa in Campidoglio.
Una vicenda poco nota, quella cui rimanda la scritta
in questione, destinata con molta probabilità a cadere nell’oblio se non fosse stata riportata alla luce e approfondita nell’ambito del progetto Memorie in Comune - I dipendenti comunali ebrei dalle leggi
razziali alla Shoah.
Fu Paolo Masini, consigliere del Comune di Roma,
il primo ad avvertire l’esigenza di «andare oltre» questa commemorazione un po’ asettica: «Come nella toponomastica, dietro a quei nomi ci sono delle storie
vere, di persone vere, con i loro amori, le loro amicizie, le loro passioni. Da un po’ di tempo avevo in mente quest’idea: volevo capire chi erano queste persone,
che ruolo avevano nell’amministrazione. Abbiamo cominciato a cercare le delibere dell’epoca relative ai licenziamenti, ma il punto è che andava cercata la loro anima. Credo che un ente locale abbia il dovere di
restituire a queste persone dignità e memoria».
Ci si è chiesti, a quel punto: chi erano e come vivevano questi uomini e queste donne allontanati dal loro posto di lavoro e costretti a mettere in discussione
la loro intera esistenza in ragione del loro credo religioso? Come hanno reagito a quella che, a ritroso,
appare ai nostri occhi come una delle tante ingiustizie perpetrate nei confronti degli ebrei italiani nel
corso del ventennio fascista? Per rispondere a queste
domande tutto ciò di cui disponeva Pupa Garribba,
curatrice del progetto, era una lista di nomi (circa
sessanta) accompagnati unicamente dalle qualifiche
professionali; nessun riferimento anagrafico, nessuna paternità né maternità. Ai suoi esordi, tenendo
conto della quantità di omonimie tipiche del mondo
ebraico romano, l’impresa sembrava quasi impossibile. Eppure, dopo un assiduo lavoro di ricerca condotto con l’ausilio di documenti reperiti negli archivi storici, nelle biblioteche e nei centri di documentazione, ma soprattutto grazie alle testimonianze di
familiari, amici e colleghi, Pupa Garribba è riuscita
nell’intento di ricostruire le prime nove storie e di riportarle in un libro e in un documentario realizzati
insieme all’Associazione Mitintaly e al Circolo Gianni Bosio, con il sostegno del Municipio Roma XI. «Le
testimonianze raccolte – commenta l’autrice – sono
quasi il frutto di un miracolo, proprio perché sono
frutto del caso. Avevamo così pochi elementi a dispo-
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sizione per cominciare a trovare il bandolo della matassa! È stata Rosina Levi Bonfiglioli, figlia del commendatore Levi che fu capo del cerimoniale del Governatorato di Roma in epoca fascista, ad afferrare il
bandolo della matassa, ed è proprio grazie a lei che
siamo riusciti a svolgerlo. Seguendo le piste da lei indicatoci abbiamo recuperato nuovi contatti con altri
parenti degli impiegati comunali che stavamo cercando».
Il documentario si presenta come un flusso ininterrotto di ricordi, belli e brutti: racconti di vita quotidiana, aneddoti familiari, ma anche nascondigli,
espedienti per sopravvivere, emigrazioni e deportazioni; tutto ciò ha contribuito a riportare in vita una memoria quasi cancellata, regalandoci «un vero spaccato della condizione degli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah».
Nonostante tutte le interviste abbiano portato alla
luce storie interessanti, solo poche hanno fornito notizie sulla vita degli impiegati comunali ebrei dal
1938 al 1943. Quali sono i motivi di questo «vuoto»?
La vergogna, ma anche la rabbia, per aver perso il
proprio status sociale, per non essere più in grado di
assolvere le funzioni di capofamiglia ed essere costretti a vivere di espedienti. Questi i motivi per i quali i protagonisti sono stati restii a parlare apertamente in famiglia di questa esperienza. Ma c’è un motivo più grande che dà origine a tale vuoto: su tutto ha
preso il sopravvento la memoria dei traumi successivi, dell’occupazione nazista e della razzia del 16 ottobre del ‘43 (il rastrellamento del ghetto di Roma).
Alessandro Portelli, presidente del Circolo Gianni Bosio, commenta in proposito: «Il silenzio non è il contrario della memoria. Le cose che vengono sottaciute
fanno parte interamente delle persone. Si dimenticano
delle cose perché significano poco o perché significano
troppo. In questo caso forse tutte e due. Da una parte si
dimentica a causa della violenza subita per la perdita
del lavoro; dall’altra si dimentica perché questa violenza finisce per essere sovrastata da quello che verrà
dopo. C’è una memoria assente che ha la sua importanza, perché la città di Roma queste cose non solo le
ha vissute, attraverso i suoi cittadini, ma le ha anche
fatte attraverso le sue istituzioni. E non ha mai chiesto
veramente scusa». La memoria, elemento costante del
modus vivendi di ogni ebreo, consiste nel far rivivere
la storia e le azioni dell’altro nei propri pensieri con
l’obiettivo di recuperare, così facendo, un frammento
di sé e della propria identità.
le rubriche
dicembre 2011
confronti
OSSERVATORIO SULLE FEDI
Alle origini
della festa del Natale
Renato Fileno
Il Natale si celebra
in tutto il mondo,
anche in molti Paesi
non cristiani, e non
solo più dai cristiani.
Fanno eccezione
i testimoni di Geova,
che preferiscono
non celebrarlo non
ritenendolo neanche
una festa cristiana.
P
er milioni di persone il periodo delle feste natalizie è un’occasione per stare insieme alla
famiglia e agli amici e rafforzare i legami affettivi. Nella tradizione cristiana, il Natale celebra la nascita di Gesù a Betlemme secondo quanto
narrato dai Vangeli secondo Luca e Matteo, integrato ed arricchito da aspetti e particolari che risalgono
invece a tradizioni successive e ai Vangeli apocrifi. Secondo l’omelia di Natale del 24 dicembre 2009 di papa Ratzinger, il significato cattolico della festa risiede
nella celebrazione della presenza di Dio. Dal momento della nascita di Gesù «Dio è veramente un
“Dio con noi”. Non è più il Dio distante, che, attraverso la creazione e mediante la coscienza, si può in
qualche modo intuire da lontano. Egli è entrato nel
mondo» per rimanervi fino alla fine dei tempi. Per
molti cristiani il Natale è un’occasione per riflettere
sulla nascita di Gesù Cristo e sul ruolo che egli ha
nella salvezza dell’umanità.
Comunque, nel corso dell’ultimo secolo, con il progressivo secolarizzarsi dell’Occidente, il Natale ha
continuato a rappresentare un giorno di festa anche
per i non cristiani, assumendo significati diversi da
quello peculiarmente religioso. In questo ambito, il
Natale è generalmente vissuto come festa legata alla
famiglia, alla solidarietà, allo scambio di regali. Con
queste connotazioni la festa del Natale ha conosciuto
una crescente diffusione in molte aree del mondo,
estendendosi anche in Paesi dove i cristiani sono piccole minoranze, come India, Pakistan, Cina, Taiwan,
Giappone e Malesia. Proprio per l’abitudine dello
scambio di doni, che ha progressivamente ma inesorabilmente eclissato gli aspetti religiosi della festa, il
Natale ha ormai inoltre assunto una notevole rilevanza in termini commerciali ed economici. A titolo
di esempio, negli Stati Uniti è stato stimato che circa
un quarto di tutta la spesa personale venga effettuata
nel periodo natalizio.
Sebbene, come reazione a queste caratterizzazioni
del Natale, anche esponenti delle Chiese cristiane abbiano in più occasioni nel passato espresso dure critiche disapprovando l’enfatizzazione del Babbo Natale di tipo secolare, gli aspetti materialistici dello scambio di doni come pure altre abitudini confluite nel
Natale, sono i testimoni di Geova a rifiutare in toto di
osservare la festività del Natale. Innanzitutto ritengono che nelle Sacre scritture vi siano prescrizioni e indicazioni per un’unica celebrazione cristiana, la Cena del Signore o Commemorazione della morte di Ge-
35
sù Cristo (Luca 22,19-20; 1 Corinzi 11,23-26). A conferma di questo ritengono che, mentre dai Vangeli sia
possibile stabilire la data esatta dell’Ultima cena, il
quattordicesimo giorno di nisan del calendario ebraico antico, non sia invece possibile risalire al giorno
esatto della nascita di Gesù. Sembra tra l’altro ormai
universalmente accettato che una festa della natività
di Gesù fosse ignota ai Padri dei primi tre secoli e che,
fin dai primi secoli, all’interno del cristianesimo si
siano sviluppate diverse tradizioni che fissavano il
giorno della nascita di Gesù in date diverse, tanto che
Clemente Alessandrino (150-215) in un suo scritto
(Stromati, I,21,146) parla di alcuni che «non si contentano di sapere in che anno è nato il Signore, ma
con curiosità troppo spinta vanno a cercarne anche il
giorno».
La tradizionale data del 25 dicembre comincia a essere documentata solo a partire dal III-IV secolo. Oggi sull’origine di questa data sono avanzate alcune
ipotesi: potrebbe essere stata scelta in base a considerazioni simboliche interne al cristianesimo e/o derivare da festività celebrate in altre religioni praticate
contemporaneamente al cristianesimo di allora. Secondo alcuni la festa potrebbe essere stata sovrapposta approssimativamente alle celebrazioni per il solstizio d’inverno e alle feste dei saturnali romani, che
si tenevano dal 17 al 23 dicembre. Nel calendario romano il Dies Natalis Solis Invicti, la festa dedicata
alla nascita del Sole, introdotta a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222), è ufficializzata per la
prima volta da Aureliano nel 273. Alla luce delle fonti, si potrebbe ipotizzare in particolare che i cristiani
abbiano opposto e sovrapposto alla festa pagana della nascita del «sole invitto» la festa della nascita del
«vero sole, Cristo», spostando la data dal 21 al 25 dicembre per soppiantare quella pagana, largamente
diffusa tra la popolazione. Secondo i testimoni di Geova, questo avrebbe fatto sì che nella festività del Natale siano confluiti usi generalmente non cristiani e
usi specificamente riconducibili ai Saturnali romani,
che si celebravano proprio nella seconda metà di dicembre. Dato che il Natale affonda le sue radici nel
paganesimo non cristiano da cui ha assorbito le
usanze che lo caratterizzano da un punto di vista religioso e dato che la realtà dell’odierno Natale non è
molto lusinghiera da un punto di vista secolare, i testimoni di Geova non lo festeggiano.
le rubriche
dicembre 2011
confronti
NOTE DAL MARGINE
Ma il rispetto della vita
vale solo per quella umana?
Giovanni Franzoni
All’inseguimento
di un rispetto assoluto
della vita umana,
si perde di vista
un tema pressante
che è il rispetto
della vita in generale,
compresa
quella animale.
Sulla questione
della sofferenza
degli animali non
umani, infatti,
la disattenzione
della coscienza
cattolica
è molto grave.
L
a Pontificia accademia per la vita ritorna con
insistenza in ogni occasione possibile ad affermare la priorità per la Chiesa cattolica, su ogni
altro impegno mondiale, nei confronti del rispetto della vita dalle sue origini fino al suo cessare.
In questa ripetuta sollecitazione, si sottintende sempre
che la vita da rispettare a tutti i costi è quella della specie umana; personalmente non sono un biologo, ma
anche per un osservatore non specialista sembra assurdo considerare la vita umana come astrattamente
diversa dalle dinamiche della vita di qualsiasi essere,
dal mondo batterico fino ai grandi mammiferi, e creare un salto valoriale sul quale gli attuali vertici della
Chiesa cattolica scommettono la propria credibilità.
Non sembri ridicolo che io racconti come, a lunghi
intervalli di tempo, nella mia vita e nella mia riflessione, mi sia scontrato con questo salto valoriale in riferimento al gioco sulla vita animale che si fa con le corride. Nel 1949, sui banchi della Pontificia università
gregoriana, uno studente interrogò il gesuita padre
Goenaga sulla liceità della corrida nella quale, per il
godimento degli spettatori, si uccide crudelmente un
toro. Il professore, con un’acrobazia degna della fama dei gesuiti (lo soprannominavamo «velox orator
toreador»), spiegò che se l’euforia del pubblico fosse
provenuta dalla sofferenza del toro, si sarebbe trattato
di una cosa deplorevole, ma se invece proveniva
dall’abilità del torero era del tutto lecita. Nella mia timidezza di allora, incassai la risposta e non ebbi occasione di rifletterci molto. Col passare degli anni, ho cominciato a dubitare, anche leggendo come la retorica
sulla corrida trovasse legittimazione nel fatto che era
saldamente ancorata a una tradizione popolare; la poesia di Lorca o la pittura di Picasso finivano con l’esaltare qualcosa che sembrava appartenere all’anima caliente della Spagna.
Altre forme gladiatorie tra animali, come il combattimento tra i galli e quello tra i cani, introdussero
in me gradualmente una crescente riprovazione verso
questa forma di «sport». In tempi abbastanza recenti, mi è capitato di ascoltare alla televisione un’intervista con una donna-torero, che narrava delle sue
emozioni insostituibili nel corso della corrida. Nel giugno 2005, mi trovai a passare per piazza dei Cinquecento a Roma, davanti alla stazione Termini, dove un
gruppo di giovani del Movimento per la vita mi volantinava, sollecitando me come gli altri passanti ad
astenersi dal votare nel referendum per l’abrogazione
della legge sulla procreazione medicalmente assistita,
36
i promotori della quale l’avevano considerata difensiva dei valori della vita. Domandai ai giovani se la vita che si doveva rispettare era solo quella umana,
mentre sia con la caccia sportiva che con le corride si
violava il valore della vita animale; a questo punto,
ebbi dai giovani l’aggiornamento della posizione
«cattolica» nei confronti della corrida: «Ma tanto quel
toro comunque sarebbe stato macellato». Obiettai che
da millenni religioni come quella ebraica e quella
islamica avevano una serie di provvedimenti circa la
macellazione dei bovini, rigorosamente obbliganti per
nutrirsi di carne senza contrarre impurità e macchiarsi di violenza verso la vita; proporre la mattazione del toro, irritato con la puntura della banderilla e
finalmente ucciso con un colpo di spada in un’arena,
come forma di macellazione pubblica mi sembra
semplicemente assurdo.
La disattenzione della coscienza cattolica, informata e formata dalla pratica del confessionale, nei confronti della sofferenza animale, giunge al massimo
con la cottura di animali, come l’aragosta e l’anguilla, vivi: questa volta non per motivi di emozione spettacolare ma per avere la certezza che questi esseri viventi e senzienti siano freschi.
Già da molti anni, numerose personalità del mondo dello spettacolo e della moda si sono spese come
sponsor nelle battaglie contro l’uso della pelliccia del
visone, della volpe, della foca e ultimamente anche dei
gatti, che vengono scuoiati vivi e spesso consegnati a
una morte lenta e crudele perché uccidendoli prima
di scuoiarli si deteriorerebbe la qualità della pelliccia.
Dopo lunghe polemiche, anche la catena di macellazione delle galline del pollame è stata modificata, perché fino a pochi anni fa i polli appesi a una catena
metallica venivano prima spennati, poi amputati delle zampe e finalmente decapitati.
Tornando alla corrida, quando oggi apprendiamo
che dopo lunghe polemiche in Catalogna questa pratica così identificata con la cultura popolare è stata
abolita, ci domandiamo: questo è avvenuto per pressioni della Chiesa cattolica e dell’etica religiosa o per
la pressione dei movimenti laici animalisti e ambientalisti? Questo miserevole ritardo della Chiesa nei confronti della sofferenza animale, ignorata mentre nella poesia si proclama l’amore per la natura, gli animali e il «lupo di Gubbio», non rappresenta forse una
secolare distrazione e la perdita di un treno da parte
del Movimento della vita nei confronti di ciò che invece emerge nelle coscienze laicamente illuminate?
le rubriche
dicembre 2011
«La separazione»
un film di Asghar Farhadi
con Leila Hatami, Peyman Moadi,
Shahab Hosseini, Sareh Bayat, Sarina Farhadi
Iran/Francia 2011
CINEMA
Un ritratto attento
dell’Iran di oggi
Umberto Brancia
Il film del regista
iraniano
Asghar Farhadi,
acclamato all’ultimo
festival di Berlino
(che gli ha tributato
anche l’Orso d’oro),
ci racconta le vicende
di una coppia
medio- borghese
divisa tra la fedeltà
alle tradizioni
culturali
e i nuovi modelli
della modernità
e del consumo.
[email protected]
confronti
N
on succede spesso che tutta la critica sia d’accordo nell’elogiare con aggettivazioni significative un film. Invece è accaduto quest’anno
per Una separazione di Asghar Farhadi, film
iraniano che all’ultimo festival di Berlino ha avuto l’Orso d’oro, oltre che delle vere e proprie ovazioni. Il regista è nato a Ispahan nel 1972, ha studiato letteratura,
cinema e teatro, facendosi notare con le sue prime opere per l’acutezza e l’originalità dei temi. In questo film
raggiunge, come si usa dire, una piena maturità.
Al centro della vicenda c’è una giovane coppia di estrazione medio-borghese, che si presenta dal giudice per una
decisione lacerante: Simin, una donna energica e volitiva, vuole divorziare dal marito Nader. Dopo molte difficoltà burocratiche hanno ottenuto il permesso di trasferirsi all’estero per dare alla figlia un avvenire migliore, ma
il marito si rifiuta di abbandonare il padre, malato di
Alzheimer e bisognoso di assistenza costante. Nader si mette alla ricerca di una badante e trova alla fine una giovane donna di estrazione popolare. Ai conflitti dolorosi che
nasceranno dal nuovo arrivo, assiste la figlia che subisce
con grande turbamento la separazione dei genitori.
La vicenda si sviluppa attraverso gli appartamenti dei
protagonisti e le strade della capitale, fornendoci innanzitutto un ritratto sociologico dell’Iran di oggi
descritto con oggettività e
attenzione umana. La coppia medio-borghese è divisa tra la fedeltà alle tradizioni culturali e i nuovi
modelli della modernità e
del consumo. L’arrivo nella casa di una giovane di
diversa estrazione sociale
mette in evidenza abitudini e modi opposti di guardare alle fede religiosa e ai
comportamenti quotidiani.
La vita della città è descritta dal regista come
uno spazio congestionato
in cui questi contrasti sociali modificano le psicologie e gli stati d’animo, provocando dolore e tensione.
Ciò che colpisce del film è
lo sguardo con cui queste
37
tensioni vengono raccontate, uno sguardo privo di compiacimento o di pesantezza. Il regista non cede ad un sociologismo facile né al rischio del sentimentalismo.
Il film procede attraverso continui rovesciamenti di posizione, in cui le ragioni di un personaggio sono in qualche modo contraddette da quelle dell’altro. Il tutto avviene non in modo meccanico, ma per un preciso intento stilistico, e – oserei dire – morale. Tutti i contrasti
emotivi e socio-culturali sono raccontati con una commovente e oggettiva partecipazione.
I due protagonisti principali non riescono a rinunciare
alle proprie motivazioni personali e non comprendono
nulla delle ragioni dell’altro. La famiglia della badante,
che provocherà la deflagrazione della vicenda, ci appare
prigioniera di altre contraddizioni: il bisogno di danaro
viene a confliggere con le prescrizioni della fede religiosa, vissute in modo rigorosamente ortodosso. Di tutti ci
rimane comunque la verità del loro mondo emotivo.
Il tema sotteso al film è quello della scelta, a cui siamo
sempre chiamati nella nostra esistenza: e le scelte producono comunque sofferenza e separazioni. Con una freschezza ammirevole, la macchina da presa ci lascia nella memoria volti, suoni e colori. Da non mancare.
Marino Sinibaldi,
direttore RadioRai3
le rubriche
dicembre 2011
confronti
Michela Murgia
«Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna»
Einaudi, Torino 2011
159 pagine, 16 euro
LIBRO
Fare i conti
con Maria
Giuliano Ligabue
In questo libro,
la teologa
Michela Murgia
sostiene che
la concezione che
la cultura occidentale
ha della donna deriva
dall’idea che di essa
ha trasmesso
la Chiesa cattolica
nel corso dei secoli,
relegando le donne –
mogli e madri e figlie
– al ruolo di creature
obbedienti e funzionali
ai piani altrui.
Ovviamente la Chiesa
non ha inventato
la subordinazione
della donna all’uomo,
ma l’ha «legittimata
spiritualmente».
[email protected]
L
a donna, così com’è oggi pensata, interpretata e
raffigurata nel mondo occidentale è frutto
dell’elaborazione dottrinale della Chiesa cattolica; una sua «invenzione». La tesi è sostenuta,
nel suo ultimo libro, da Michela Murgia, una «cristiana dentro la Chiesa» che con l’efficacia della sua forbita e coinvolgente scrittura interviene – come donna prima ancora che come teologa – sulla storia delle donne.
Per documentare una simile affermazione, l’autrice
precisa di non avere preso ispirazione dai propri studi di
scienze religiose ma dall’esperienza personale, dalle storie di vita quotidiana di cui essa stessa è figlia; da lì
muove l’analisi della dottrina della Chiesa, fino a mostrare come quelle parole abbiano generato la comune
concezione che la cultura occidentale ha della donna.
Al centro di questa particolare rivisitazione della storia
femminile è collocato il ruolo di Maria di Nazareth, così come è stato interpretato dal magistero della Chiesa e
trasmesso in tutti i luoghi e le forme dell’educazione
cattolica nonchè rivissuto nelle tradizioni popolari. Ne
risulta che i caratteri specifici della tradizione arrivata
sino ad oggi sulla donna possono essere individuati e
compresi a partire dalla figura di Maria, che è il solo
punto di riferimento delle donne nella Scrittura, utilizzato dal magistero della Chiesa ed entrato nella tradizione cristiana. Questo dato di fondo emerge sia che ci
si soffermi a parlare di vita, di vecchiaia o di morte, sia
che si consideri la sessualità o il matrimonio, sia che si
prendano in esame i temi dell’obbedienza o della santità, come quando si leggono le raffigurazioni dell’arte
sacra nei secoli.
Come Maria non ha un «perché» proprio, ma un
«chi», una persona da servire – Cristo, di cui è madre
– così la vita di ogni donna non ha senso di per sé ma
solo in quanto è funzionale ad altri, «naturalmente»
madre o sposa, a servizio dell’uomo con cui ha stessa
dignità ma nessuna uguaglianza.
La vecchiaia non si addice a Maria, immutabilmente ragazza immacolata e vergine: ne consegue come l’invecchiamento sia, per la donna, segno di fragilità, di perdita e di annientamento: difficilmente
momento di quella dignità, saggezza e compiutezza
normalmente attribuite alla vecchiaia dell’uomo. Anche la morte, che nasce dalla colpa di Eva e richiede
la morte di Cristo, non appartiene alla nuova Eva, Maria, che assiste fino all’ultimo Cristo ma non morirà
per restare unicamente la madre dolorosa sotto la croce; come dire: la morte della donna non ha visibilità,
rispetto al protagonismo, anche in morte, dell’uomo.
38
Il consenso di Maria all’angelo, nell’Annunciazione, è la risposta al no di Eva, fonte del male; un sì
umile e docile che riporta le donne – mogli e madri e
figlie – alla loro indole naturale di creature obbedienti
e funzionali ai piani altrui. Ugualmente per la donna
non c’è santità se non come monaca, madre o martire, in uno spazio di servizio; l’uomo, invece, può accedervi attraverso qualunque attività. Anche qui il modello è Maria, vergine, madre di Cristo e della Chiesa,
immolata ai piedi della croce (modello peraltro inaccessibile alla donna comune).
Queste e altre interpretazioni della figura di Maria,
la Chiesa cattolica si sente autorizzata a farle nello
stesso modo con cui si sente autorizzata, solo lei, a fornire l’immagine di Dio stesso, che non sarà mai al
femminile perchè Dio è sempre a immagine del maschio: la donna non è a immagine di Dio. Da lì ha inizio la diversità dei ruoli tra uomo e donna, immediatamente resa concreta con la vita della donna derivata dalla vita dell’uomo, dalla sua costola (Genesi).
Le tante altre considerazioni della Murgia non procedono in modo lineare e sistematico: si muovono in continuazione dall’attualità al passato, dal tema centrale ad
argomenti connessi di natura antropologica, civile e sociale; si aprono a suggestivi excursus storici, come sul
ruolo dell’iconografia sacra nella formazione popolare;
si soffermano con nitidezza nell’esplorazione di concetti filosofici, quali il rapporto tra bellezza e ordine o la
connesione tra etica ed estetica. Il respiro complessivo del
ragionamento, pur in un orizzonte fondamentale di teologia cattolica, resta antropologico e laico prima che dottrinario e spirituale: da qui la possibilità di graffi improvvisi o stilettate al limite della provocazione verso insegnamenti ecclesiatici, usi e tradizioni religiose.
Per dirla sinteticamente, Murgia vuole dimostrare,
per altra via rispetto al femminismo storico, la sostanziale subordinazione della donna all’uomo: il capitolo conclusivo del libro, che analizza tutti gli aspetti del sacramento del matrimonio cristiano, è esemplare in tal senso.
Ma all’attento lettore viene inevitabilmente da pensare che andava in qualche modo tenuto presente come la Chiesa cattolica non ha «inventato» tale subordinazione, visto che l’idea le preesisteva da secoli:
il suo contributo, fondamentale e decisivo, è stato tuttavia quello di volerla «legittimare spiritualmente». È
poi l’affermazione a cui giunge l’autrice in chiusura,
ridimensionando e in parte contraddicendo il sottotitolo del saggio.
le rubriche
dicembre 2011
Marco Politi
«Joseph Ratzinger. Crisi di un papato»
Editori Laterza, Roma-Bari 2011
328 pagine, 18 euro
LIBRO
Luigi Sandri
In questo libro denso
e documentatissimo,
l’autore analizza
una serie di fatti
e di scelte
di Benedetto XVI
che hanno provocato
aspre discussioni
non solo al di fuori,
ma anche all’interno
della sua Chiesa.
Ne risulta un quadro
pesante, che apre
molte domande
sulla direzione
che infine dovrà
prendere, oggi
e nel prossimo futuro,
il pontificato romano.
confronti
«
Ad essere in crisi
è «un» papato o «il» papato?
R
atzinger non doveva diventare papa. Non
poteva. Secondo le regole non scritte dei
conclavi, una personalità così “polarizzante” non sarebbe mai riuscita a ottenere i due terzi dei voti necessari per essere eletto. Invece, il 19 aprile 2005, dopo un’elezione tra le più rapide dell’ultimo secolo... iniziava il regno di Benedetto
XVI». Quel «non doveva» nell’incipit del libro farà
rabbrividire l’inner circle vaticano, molti dell’establishment ecclesiastico e atei devoti; e tuttavia Politi
sostiene la sua tesi non per una polemica aprioristica,
ma mettendo insieme una serie di fatti inoppugnabili, che possono certamente essere considerati in modo
diversificato, ma con i quali dovrebbe comunque confrontarsi chiunque voglia osservare più da vicino il regno del primo pontefice del terzo millennio.
L’autore – giornalista di lungo corso, vaticanista per
anni di Repubblica e, ora, del Fatto quotidiano –
parte dal pre-conclave e dal conclave (in merito riporta i voti che, secondo un anonimo cardinale, Ratzinger avrebbe ottenuto nei quattro suffragi necessari per
essere eletto: 47, 65, 72, 84; sette voti in più, in quest’ultimo, oltre i due terzi necessari), ponendosi una
domanda: perché, infine, la maggioranza dei porporati votò per il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede? La risposta di Politi, confortata anche
da alcune sue inchieste ad alto livello, è che un gruppo di cardinali, tra cui tre latinoamericani di Curia ferrei avversari della teologia della liberazione, si impegnarono per favorire l‘elezione del porporato tedesco:
«In Ratzinger vedono il candidato forte per combattere la crescente secolarizzazione, avvertita come minaccia per l’ordinamento gerarchico della Chiesa e
motivo scatenante della caduta di partecipazione ai sacramenti. Lo considerano la personalità adatta per
fronteggiare l’invadenza della soggettività moderna,
cui attribuiscono la perdita di influenza nella società
civile» (pag. 24). «“Cercavano garanzie di sicurezza
dottrinale”, ricorda un cardinale non ratzingeriano riferendosi alla lobby, che decise il conclave. In ultima
istanza la molla è stata la paura, il bisogno di una restaurazione dell’identità di una Chiesa come se il travaglio del dopo-Concilio e lo stesso rimescolamento
provocato dalle scelte di Wojtyla potessero mettersi tra
parentesi» (pag. 303).
Politi loda il papa, come teologo, ma si domanda
se, con la sua mentalità professorale, egli valuti adeguatamente che affermazioni cattedratiche da lui rivolte ad un uditorio scelto, acquistano poi una parti-
39
colarissima rilevanza pubblica; e che certe decisioni,
di per sé strettamente pastorali, abbiano un risvolto
che obiettivamente le oltrepassa. E la sua risposta è
che non raramente a Ratzinger sfugge questo «di
più». Un giudizio severo, che però deriva da un’esposizione e un’analisi rigorosa di eventi che, per quanto grosso modo noti a tutti, messi di fila danno un
quadro davvero pesante.
In una dozzina di capitoli Politi scava in altrettanti fatti o documenti ratzingeriani che, ciascuno nel
suo proprio àmbito, mostrano in concreto il senso di
quel «non doveva» che apre il volume: l’incidente di
Regensburg (Ratisbona), del settembre 2006, quando
egli scatenò le ire del mondo musulmano per una citazione che metteva in pessima luce Maometto; la remissione della scomunica ad un vescovo lefebvriano
che negava la Shoah; la tesi che il preservativo aggrava l’epidemia provocata dall’Aids; la nomina ad arcivescovo di Varsavia di un prelato colluso con il regime
comunista di un tempo... Politi sostiene, poi, che pur
avendo promesso, all’inizio del pontificato, di dare
spazio alla collegialità episcopale, in realtà papa Benedetto ha poi deciso in solitario ed autoritariamente
alcune scelte, prendendo di sorpresa le conferenze episcopali che avrebbero dovuto poi attuarle.
Ogni pontificato ha luci e ombre legate al suo titolare in carica; e, in questo suo libro, Politi sottolinea le
ombre di quello di Ratzinger, ma senza dimenticarne
gli aspetti positivi (e così mette in rilievo che egli ha dedicato la sua prima enciclica ad un tema affascinante
come Deus caritas est). Tuttavia, ci sembra, alcuni
problemi, sia ecclesiali che geopolitici, non riguardano solamente «un» papato, o «questo» papato, ma
proprio «il» papato. E potrebbe essere, ma solo il futuro lo dirà, che il pontificato in atto – termini esso con
la fine terrena di Benedetto XVI o con sue clamorose dimissioni – sia preludio ineludibile per una franca ridiscussione, anche a livello cardinalizio, sul «modo di
esercizio» del servizio petrino, prospettato da Wojtyla e
dallo stesso Ratzinger, ma in concreto inattuato. Quanto, riferendosi a Ratzinger, afferma nella prefazione del
volume Stefano Rodotà, «sulla difficoltà del governare
[la Chiesa di Roma] in un mondo globale e mediatizzato», si porrà naturalmente, pur in contesti diversi,
anche per il successore del pontefice regnante. Il futuro vescovo di Roma, guardando a lui, non parlerà certo di «crisi di un papato», ma raccoglierà alcune sue
linee, altre muterà, altre abbandonerà del tutto: bisognerà vedere quali, e come.
le rubriche
dicembre 2011
confronti
SEGNALAZIONI
Roberto Dall’Olio,
«La notte sul mondo
(Auschwitz
dopo Auschwitz)»,
Mobydick,
Faenza 2011,
78 pagine, 11 euro.
«Venite a vedere.
Un appello dai
cristiani palestinesi»,
a cura dell’Alternative
tourism group,
traduzione italiana
della Rete romana
di solidarietà
al popolo palestinese
(per informazioni
e richiesta del libretto:
reteromanapalestina@
gmail.com
e [email protected]).
Roberto Dall’Olio
«La notte sul mondo
(Auschwitz dopo Auschwitz)»
È possibile, con la poesia, raccontare la Shoah, cioè lo
sterminio scientifico e sistematico del popolo ebraico
deciso dai nazisti? La sfida, davvero difficile, l’ha affrontata Roberto Dall’Olio, docente di storia e filosofia in un liceo di Ferrara, autore di vari libri, impegnato nel comune di Bentivoglio come assessore
all’intercultura. Egli descrive, per sé e per i suoi ragazzi soprattutto, le emozioni di tre viaggi al lager di
Auschwitz, in Polonia.
Talora si riesce a riferire, a chi non l’abbia letta, il
senso di una poesia: ma come farlo senza distruggere inesorabilmente la tenerezza, o lo sgomento, o lo
spavento, o la speranza o i sogni che quelle parole levigate suscitano? Perciò evitiamo qui di citare l’uno o
l’altro brano nel quale Dall’Olio descrive quello che
ha provato ad Auschwitz; possiamo solo dire che, personalmente, leggendo le sue poesie siamo rimasti
scossi, pensosi e riconoscenti.
Facciamo nostro quanto, a proposito di questo libro,
scrive Fabio Levi: «Accompagnare le parole di Roberto
Dall’Olio con altre di spiegazione potrebbe spegnerne
il ritmo serrato, dolente e meditativo; rischierebbe di sovrapporre una patina di senso uniforme a un percorso
ricco di immagini e sensazioni differenti. Per predisporlo all’ascolto varrà però la pena consigliare al lettore un passo attento e leggero, perché sarà condotto
a tenersi in fragile equilibrio sui fili incerti che rimandano, in un gioco di scarti tortuosi e di improvvise scorciatoie, fra passato e presente, e viceversa: Auschwitz come esperienza al limite estremo del male, umano e oltre l’umano, per chi allora ne è stato vittima, e come
luogo concreto di una memoria dagli infiniti richiami
ad altre realtà, ad altre esperienze».
(David Gabrielli)
«Venite a vedere.
Un appello dai cristiani palestinesi»
A Beith Sahour ha sede l’Alternative tourism group
(Atg), un’associazione impegnata nel fornire un’informazione critica della storia, dei luoghi, della cultura
e della politica per coloro che vanno in Palestina e
Terra santa. Essa ha recentemente prodotto un pregevole libretto, dal titolo «Venite a vedere» («Linee guida per cristiani in pellegrinaggio consapevole in Terra santa»), tradotto in italiano a cura della Rete romana di solidarietà al popolo palestinese, che si rivolge esplicitamente ai cristiani che vanno in pellegrinaggio in Terra santa.
Il libretto, che si ispira al documento «Kairos Palestina», prodotto dalle Chiese cristiane d’Oriente, si ap-
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pella ai pellegrini, affinché nella loro visita non si limitino ad osservare e rendere omaggio ai luoghi sacri
e storici, ma vogliano entrare nella vita del paese che
stanno visitando, e prendano conoscenza delle terribili restrizioni in cui vive la popolazione palestinese a
causa dell’occupazione israeliana.
Il pellegrino è pertanto invitato a intraprendere il
suo viaggio in spirito di verità e conversione e ad apprezzare e conoscere un popolo che, nonostante decenni di sofferenza, deprivazione ed espropriazione,
mantiene la sua dignità, la fede e la speranza in un
diverso futuro, anche quando i potenti della Terra, anziché trovare una giusta soluzione, perseverano nel
mantenere uno stato invivibile in funzione dei propri
interessi economici e geostrategici.
Vi è anche un monito a rettificare certe posizioni
teologiche, che in Occidente, per tutto il Novecento e
oltre, hanno cercato di legittimare biblicamente la violazione dei diritti del popolo palestinese, assecondando l’interpretazione che vi fosse una terra destinata ad
un popolo eletto, mentre invece il significato delle promesse, della terra e dell’elezione del popolo di Dio include tutta l’umanità.
E si invita a diffidare di certa narrativa di parte che
giustifica la continua occupazione e le continue violazioni dei diritti umani, mentre priva tanta parte della popolazione della capacità di parola e di azione, e
a visitare i luoghi sacri non come se fossero musei, ma
come luoghi in cui i cristiani palestinesi vivono, pregano e soffrono.
Quindi il pellegrinaggio autentico è una chiamata
per «venire a vedere» ed ascoltare le storie delle diverse popolazioni, riflettere, cercare di capire, reimparare, constatare come su questa terra, che ha visto la
passione del Cristo, oggi si compia la passione di un
intero popolo. E questa passione, che non sembra finire mai, colpisce ugualmente i fratelli e le sorelle, cristiani e musulmani.
Il libretto si conclude quindi con una serie di suggerimenti affinché l’andare in Palestina diventi una
vera esplorazione e occasione di incontro con le «pietre viventi» e anche modo per sostenere un’economia
che è sempre più sopraffatta dall’occupazione.
(Loretta Mussi)
le rubriche
dicembre 2011
confronti
SOS CONFRONTI
In queste settimane
ci stanno scrivendo
moltissimi amici,
vecchi e nuovi,
per esprimerci
la loro solidarietà,
molti apprezzamenti
e naturalmente
anche qualche
critica costruttiva.
Cominciamo
a pubblicare alcune
di queste lettere e mail,
invitando tutti
a scriverci
per formulare proposte
e suggerimenti e anche
a iscriversi alla nostra
mailing list per essere
informati delle nostre
iniziative future:
redazioneconfronti@
yahoo.it; programmi@
confronti.net.
LE VOSTRE LETTERE
ari amici, che tristezza un paese che non riconosce l’importanza della cultura e della pluralità...
Vi sono vicina e contribuirò molto volentieri a mantenere viva una voce importante. Un abbraccio a tutta
la redazione. Patrizia Toss
C
bbiamo appena effettuato un bonifico per la salvezza di Confronti. Non è una cifra che vi farà
«svoltare», ma speriamo che sia il primo sassolino di
una lunga strada che continuerete a percorrere con
caparbietà e qualità, come avete fatto finora. Con affetto e il nostro in bocca al lupo! Stefano, Fausto
e Alessandra (Fondazione Villa Emma)
A
gregio direttore, io e mia sorella siamo abbonate
da anni e dispiaciute che questa voce possa tacere
in Italia. Una voce efficace per tenere la coscienza vigile in tempi di grande confusione. Mando un aiuto di
300 euro e anticipo l’abbonamento di alcuni mesi. Coi
migliori auguri, cordialmente Grazia Borellini
E
o letto il vostro appello e poiché ritengo che Confronti sia un valore che non debba assolutamente andare perso, soprattutto in questo momento in cui
sembra che nulla importi, ho deciso di sottoscrivere
un abbonamento sostenitore per la Casa di riposo G.B.
Taylor e di sottoscriverne un altro per me oggi stesso.
Con l’augurio che possiate risolvere i problemi economici che in questo momento vi preoccupano, vi saluto con stima per il vostro lavoro. «Benedetto sia il
Signore che giorno per giorno porta per noi i nostri
pesi; egli è il Dio della nostra salvezza» (Salmo 68:19).
Rosa Mandredi (direttore Istituto Taylor)
H
arissime/i, nel rinnovare l’apprezzamento, il ringraziamento e l’augurio a tutta la nostra/vostra
esperienza, vi comunico che oltre alle sottoscrizioni
personali di molti di noi, come Cipax abbiamo deciso
di mandarvi un piccolo segno collettivo decidendo di
cambiare l’abbonamento «cambio» omaggio che ricevevamo fino ad oggi in abbonamento regolarmente
sottoscritto. Auguri di lunga vita. Gianni Novelli
C
ella situazione generale di questo paese, la scomparsa di una realtà come Confronti sarebbe una
autentica iattura. Eseguirò un bonifico oggi stesso,
cercando di fare il possibile. Per me Confronti è, da
molti anni, un punto di riferimento per seguire e capire temi importantissimi, direi determinanti per lo
sviluppo stesso della mia personalità e del mio impegno quotidiano. Da questo punto di vista direi proprio
di non attendermi un ringraziamento dalla struttura
di Confronti, visto che avete addirittura deciso di ri-
N
41
nunciare allo stipendio di dicembre (e sì che l’operaio
ha diritto alla sua mercede...)! Racconta Paolo Finzi,
della stampa anarchica, che ogni volta che De André
faceva una donazione alla loro rivista poi rifiutava i
ringraziamenti di rito dicendo: «sono io che devo ringraziare voi per il lavoro che fate». Ecco, questa è la
mia stessa convinzione rispetto a Confronti: sono io
che ringrazio voi. Ancora cari saluti e... speriamo di
farcela! Renzo Sabatini (Ministero Affari Esteri Direzione generale Cooperazione allo sviluppo)
aro Gian Mario, sono rimasta male nel leggere la
vostra lettera che descrive un futuro scuro per Confronti, rivista che ho sempre letto con molto interesse
durante i sette anni che ho passato nella piccola chiesa valdese di Perugia e dintorni. Mi sembra che la Tavola me la faccia arrivare ancora, benché io alla fine
di agosto sia tornata definitamente in Svizzera. Naturalmente spero che lo sforzo di salvare Confronti vada
premiato e vorrei chiedere fin da ora di prolungare il
mio abbonamento a spese mie da gennaio 2012 in
poi. Vorrei partecipare anche all’azione «salvataggio»
e oggi stesso vi farò mandare 300 euro come contributo a tale azione. Un caro saluto ed augurio di non
scoraggiarvi. Kathrin Zanetti-Eberhart
C
ari amici, non avete idea di quanto mi dispiaccia
che ve la passate un po’ male ed è una vigliaccata perché Confronti vale! E lo dice uno che in vita,
sballottato a destra e sinistra per il mondo, non aveva
avuto modo di avvicinare tali argomenti. Meritate una
pioggia di contributi e chissà che con l’estromissione
di «Burlesconi» le cose non migliorino, permettendo
ai benintenzionati di «sganciare» di più ! Insciallah!
Peccato che non mi sia possibile partecipare alle vostre attività. Ricevo gli inviti e son grato del ricordo ma
non sto a rispondere, tanto è noto che sto lontano. E
pensare che sono stato «romano» per 35 anni senza
conoscervi. Giorgio Girardet (il vostro fondatore) era
per me «Grg» (ed io per lui «Msm»), l’amico col quale ci facevamo i dispetti in acqua a Ostia! Un abbraccione nostalgico. Massimo Pulejo
C
ari amici, vi ho fatto un bonifico martedì, perché
Confronti mi sta tantissimo a cuore e spero che leggere la mia lettera possa essere un vero aiuto. Sono uno
dei soci fondatori e socio sostenitore da sempre. Leggendo il numero monografico mi sono letteralmente imbattuto in un articolo il cui linguaggio era davvero troppo complicato. È già difficile fare leggere un quaderno
così importante come il vostro, quindi bisogna usare una
lingua totalmente diversa. Ho imparato nella mia vita a
fare molte cose, anche a predicare occasionalmente nella Chiesa luterana, e 9 anni fa un pastore emerito tedesco ci disse: «Bisogna scrivere la predica come una lin-
C
i servizi
dicembre 2011
confronti
SOS CONFRONTI
gioso e al tempo stesso due impegni: sollecitare, in primo luogo, le Comunità di base a sostenere direttamente la campagna
di informazione da voi lanciata per garantire un contributo
straordinario per far fronte alle attuali difficoltà di bilancio e
al tempo stesso avviare la promozione di una campagna straordinaria per far conoscere la rivista e sollecitare abbonamenti;
offrire un contributo alla riflessione che avrete certo avviata
sulla natura della diminuita affezione per una rivista che pur
affronta tematiche di urgente attualità. Su quest’ultimo punto la nostra riflessione si è soffermata sulla possibilità che una
non sempre costante attenzione allo specifico della rivista (parlare laicamente delle religioni e del dialogo tra le fedi) nella selezione del materiale pubblicato, un inseguimento all’attualità, cosa oltretutto difficile per un mensile, la possa rendere meno caratterizzata e questo possa contribuire a far cadere
l’interesse degli abbonati. La società italiana sta attraversando
una delicata fase di passaggio da una monocultura religiosa
chiamata a confrontarsi solo con le diverse espressioni del pensiero «laico», per di più ridotta, in molti casi, a ideologia politica usata da gruppi impegnati a difesa delle condizioni di
privilegio di cui gode la a Chiesa cattolica, alla piena legittimazione del pluralismo culturale e religioso. Nei grandi mezzi di comunicazione scarso spazio si dà alla complessità
dell’impatto a tutti i livelli con tale situazione delle nuove esperienze e culture religiose. L’attenzione a tale problema determinò a suo tempo per la rivista l’ampliamento dell’orizzonte
dall’ecumenismo alla dimensione interreligiosa. Questo intreccio, a nostro avviso, dovrebbe tornare ad essere lo specifico
della rivista privilegiando l’attenzione ai mutamenti, alle dinamiche ed anche alle tensioni provocate da questo impatto
all’interno delle diverse religioni, sia nelle loro strutture organizzate che nella vita dei fedeli. Dare voce alle istanze del variegato universo islamico, alle nuove presenze cristiane non riconducibili al dualismo evangelici/cattolici, e ai diversi modi
con cui questi e le componenti dell’ebraismo reagiscono
all’avanzata del processo di secolarizzazione della società italiana. Lo stesso vale per la tradizionale attenzione riservata dalla rivista al mondo sempre più coinvolto in una inedita e irreversibile planetarizzazione culturale. In esso le religioni sollecitate dall’avanzamento della secolarizzazione e dell’aumentata possibilità di confronto sono animate da tensioni e conflitti fra fondamentalismi e ricerca di radicali rinnovamenti.
Calati, come siamo, nel vivo di tale ricerca, pensiamo che a
questo specifico debba restare fedele la rivista, ovviamente nel
quadro delle trasformazioni epocali che popoli e continenti
stanno attraversando, per le quali, però, altre sono le fonti specifiche di informazione. In questa ottica le comunità di base
italiane sono disponibili a continuare a portare il proprio contributo alla realizzazione ed alla vita di Confronti, con lo stesso spirito, anche se a ranghi più ridotti di un tempo, con cui
trentasette anni fa diedero vita alla fusione del proprio settimanale Com, con il Nuovi Tempi delle chiese evangeliche italiane e del suo mai dimenticato direttore Giorgio Girardet. Con
l’augurio di buon lavoro e di lunga vita a Confronti. Le Comunità cristiane di base italiane
gua parlata e nelle prime due-tre frasi della predica bisogna dire
qualcosa che colpisca l’attenzione, perché solamente così la comunità seguirà la predica fino alla fine». La stessa cosa vale per
Confronti: ci vuole un linguaggio «alla Paolo Ricca», che anche
le cose complicate le sa esprimere in maniera comprensibile e
quando scrive è come se fosse una parola parlata. Mi scuso se
scrivo questo, ma queste parole sono dette da me con amore: non
voglio essere un insegnante che guarda dall’alto, ma spero che
venga recepito come un messaggio di un fratello cristiano che è
sempre interessato ad imparare da ognuno. Grazie per avermi nel
vostro cuore e pregate anche per me, come io pregherò per voi
che possiate avvicinarvi alla mia visione senza essere offesi. Cordiali saluti. Dieter Stoehr (Genova)
ella nostra comunità, pur mettendo al centro del nostro
cammino il Dio di Gesù di Nazaret, sentiamo il bisogno del
«Dio degli altri» vissuto nella concretezza dei loro contesti. Questo «Dio degli altri» ce lo troviamo nella porta accanto, al mercato, a scuola, per strada. Per cui è avvenuto che negli incontri
biblici e nelle eucaristie siano presenti, non come semplice contorno, persone, brani, preghiere, commenti di altre fedi religiose, superando il limite dell’ecumenismo. Pensare che Dio cammini con i popoli della Terra e poi affermare che solo noi, con il
«nostro» Dio, possiamo camminare al centro della strada e gli
altri sui marciapiedi, è eresia (direbbe Enzo Mazzi). Perché questa è ancora oggi la convinzione delle gerarchie delle grandi religioni planetarie soprattutto monoteistiche, che sgomitano
«gentilmente» per stare al centro della carreggiata e concedere
al popolo dei marciapiedi la benevolenza dell’unica verità e infallibilità. Per questi motivi, presenti in bozzolo sin dall’inizio
della nostra esperienza comunitaria e sviluppatisi prepotentemente col dono della presenza degli immigrati, dopo 18 anni
questa comunità ha voluto ridefinirsi comunità cristiana «Per
le strade del mondo». Questo cammino interreligioso lo esprimiamo anche attraverso il nostro blog nelle maniere più diverse. Ora noi pensiamo che questo cammino debba diventare un
elemento fondamentale nella vita delle Comunità di base, perché «per le strade del mondo» non troviamo più solo la «classe
operaia» degli anni ‘60/’70, quando le Cdb sono nate, né solo le
Chiese cristiane del continente europeo e sudamericano, ma un
altro più variegato e complesso panorama. È una grande sfida,
che affidiamo anche a un rinnovato Confronti. Tonino Cau
(comunità di Olbia «Per le strade del mondo»)
N
l direttore, alle redattrici ed ai redattori di Confronti, Il Collegamento delle Cdb italiane riunito a Bologna il 15 e 16
ottobre, informato dal rappresentante della Segreteria tecnica
nazionale e appartenente alla redazione di Confronti Stefano
Toppi delle difficoltà in cui versa la rivista ha espresso riconoscenza per il prezioso lavoro, che svolgete pur in condizioni di
assoluta precarietà, per assicurarne la puntale periodicità, e
piena solidarietà per il rischio imposto da tale situazione alla
vostra condizione lavorativa. Dalla discussione sono emersi la
comune convinzione della necessità di mantenere la presenza
di una rivista impegnata nel promuovere il pluralismo reli-
A
42
CONFRONTI
12/DICEMBRE 2011
abbonamento 2012: 50 euro
80 euro
abbonamento
Roberta De Monticelli
Giuseppe La Torre
Lia Tagliacozzo
Letizia Tomassone
Sira Fatucci (a cura di)
La questione
Dialoghi in cammino
Parole chiare
morale
Luoghi della memoria
Protestanti e
in Italia, 1938-2010
musulmani in Italia oggi
Giuntina
Raffaello Cortina Editore
Claudiana
sostenitore
con uno
degli omaggi
qui accanto
PROPOSTE DI ABBONAMENTO CUMULATIVO
Confronti + Adista
104 euro
Confronti + Cem/Mondialità
67 euro
Confronti +
iscrizione Cipax* Roma
55 euro
Confronti + Dharma
70 euro
Confronti + Esodo
66 euro
*Centro interconfessionale per la pace
Confronti + Riforma
109 euro
Confronti +
Gioventù Evangelica
68 euro
Confronti +
Lettera Internazionale
73 euro
Confronti +
Mosaico di pace
69 euro
Confronti + Qol
57 euro
Confronti + Servitium
80 euro
Confronti +
Tempi di Fraternità
64 euro
Confronti + Testimonianze
82 euro
NOVITÀ
Confronti +
Missione Oggi
67 euro
Confronti
mensile di fede politica vita quotidiana
Abbonamenti annuale: ordinario 50,00 euro, sostenitore 80,00 euro (con omaggio), estero 80,00 euro.
Una copia arretrata 8,00 euro.
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edizioni com nuovi tempi - dicembre 2011 - chiusura di redazione: 23 novembre 2011
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2011
Associato alla Unione Stampa
Periodica Italiana
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Indice 2011
INFORMAZIONE
Se fa scandalo chi scopre lo scandalo (Giuseppe Giulietti)
Il pubblico in fuga da una Rai faziosa (Roberto Natale)
Tre mesi per salvare Confronti (Gian Mario Gillio)
Se il «servizio pubblico» non è più di moda
(Corradino Mineo)
Un viaggio nella stampa ebraica italiana (Lia Tagliacozzo)
CULTURA E INTERCULTURA
Igiaba Scego, la mappa dell’anima (Paola Milli)
Il jazz «zingaro» di Django Reinhardt (Xavier Rigaut)
Multicultura. Educare alla convivenza con l’altro. Diversamente
(Stefania Sarallo)
Integrazione non significa assimilazione
(intervista a Loredana Ferrara)
Cultura. Le sante dello scandalo (Daniela Siri)
La verità è «un’esperienza fisica» (intervista a Erri De Luca)
1
3
1
5
10
11
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7/8
LAICITÀ
7/8
10
10
Una legge contro la libertà (Emma Bonino)
Se il crocifisso è «di Stato» (intervista a Sergio Luzzatto)
E se la croce non fosse neanche «cristiana»? (Renato Fileno)
4
5
5
DONNE
NEL MONDO
13 febbraio, ce n’est qu’un début (Franca Long)
Rivoluzione copernicana per gli uomini (Stefano Ciccone)
Dimostrazione di forza e di dignità (Giancarla Codrignani)
Quanto costa la violenza sulle donne (Elena Ribet)
3
3
3
11
Africa
Quale futuro per il Sud Sudan? (Irene Panozzo)
Il ruolo delle Chiese nel referendum in Sudan
(Daniela Lucia Rapisarda)
La Costa d’Avorio verso il cambiamento? (Pascal Koffi Teya)
Corno d’Africa. Basta con l’elemosina
(Jean-Léonard Touadi)
ECUMENISMO E DIALOGO INTERRELIGIOSO
Tempo di inverno in attesa della primavera (David Gabrielli)
Ecumenismo e pace: la sfida di Kingston (Luigi Sandri)
Ecumenismo. Dalla Giamaica una luce
sul cammino della pace (Luigi Sandri)
«Gloria a Dio e pace sulla Terra»
Giornata del 27 ottobre. Dialogando si apre il dialogo
(Brunetto Salvarani)
Assisi, continuità e discontinuità (David Gabrielli)
I leader religiosi per la pace a Gerusalemme (Luigi Sandri)
Un dialogo che esclude i vicini (Dora Bognandi)
1
5
Americhe
Obama ha ancora carte da giocare? (Paolo Naso)
Haiti. Cronache da un Paese in ginocchio (Alessia Arcolaci)
L’impegno di Medici senza frontiere ad Haiti
(intervista responsabili Msf)
In crisi l’interventismo democratico (Paolo Naso)
6
6
12
12
12
12
Asia
India. Fra tolleranza e fondamentalismi (Ravindra Chheda)
Pakistan, la negazione della libertà religiosa
(David Gabrielli)
Afghanistan. Un bilancio di 10 anni di dittatura Usa-Nato
(Patrizia Fiocchetti)
IMMIGRAZIONE, RAZZISMI
La legge è meno uguale per tutti (Mostafa El Ayoubi)
Ora serve anche l’esame di italiano (Annalisa Govi)
Ambiguità e miopia sull’immigrazione (Franca Di Lecce)
Quando il pesce sa di immigrato (Stefano Allievi)
Lampedusa. Cronache dall’isola dei paradossi
(Alessia Arcolaci, Chiara A. Ridolfi)
L’impegno di Msf a Lampedusa
(intervista a Mery Dongiovanni)
Immigrazione. Da Lampedusa a Ventimiglia (Paolo Odello)
Cosa penso dell’immigrazione (Francesco Olivanti)
Stanare gli evasori? No, tassare gli immigrati
(Franca Di Lecce)
Quando il cinema racconta i migranti (Umberto Brancia)
Il dovere di denunciare i Cie, lager legalizzati
(Rosa Villecco Calipari)
Cittadinanza. L’Italia sono anch’io, un’idea da sottoscrivere
(Franca Di Lecce)
Il pacchetto sicurezza e la libertà matrimoniale
(Augusta De Piero)
1
2
3
5
Europa
Kosovo. Costruire la pace valorizzando la cultura
(Gaëlle Courtens)
Il berlusconismo reale dell’Ungheria (Felice Mill Colorni)
La politica xenofoba di un’Europa in crisi (Guido Caldiron)
Russia. La scelta del Tatarstan: tolleranza religiosa
(David Gabrielli)
Personaggi e luoghi di tante fedi diverse
(David Gabrielli, Stefania Sarallo)
5
5
6
6
10
10
Medio Oriente e Maghreb
Algeria. I tesori della civiltà romana (Donato Cianchini)
Libano. Donne operatrici di pace e di sviluppo
(Stefania Sarallo)
L’imprenditoria femminile da sostenere
(intervista a M. E. Kassardjian)
11
11
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I
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4
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1
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2
INDICE 2011
Israele. Le contraddizioni da risolvere (Paolo Landi)
Il «paese dei cedri» tra speranze e incognite
(Stefania Sarallo, David Gabrielli)
La rivolta d’orgoglio dei popoli arabi (Mostafa El Ayoubi)
Egitto. Alla radice di una rivoluzione
(Mahmoud Salem Elsheikh)
Mondo arabo. Primavera di democrazia o nuove guerre?
(Mostafa El Ayoubi)
Egitto. Islam e democrazia non sono incompatibili
(Mahmoud Salem Elsheikh)
Semi di pace. L’altro Medio Oriente che rifiuta il conflitto
(Stefania Sarallo)
Il dialogo è l’unica strada possibile
(intervista a Y. Roth e S. Abu Awwad)
Campane a morto per i palestinesi (Confronti)
La Libia pietra d’inciampo delle rivoluzioni arabe
(Mostafa El Ayoubi)
Verso la divisione in due della Libia?
(intervista a Valentino Parlato)
Odissea della politica (Giovanni Giudici)
La storia dei drusi, le loro vicende in Libano
(Stefania Sarallo, David Gabrielli)
Chi rema contro le rivoluzioni arabe? (Mostafa El Ayoubi)
Medio Oriente. Cambiamenti importanti aprono nuovi scenari
(Stefania Sarallo, David Gabrielli)
Complessità e solidarietà: due cifre per un conflitto
Quei piccoli laboratori di pace (Gian Mario Gillio)
I palestinesi: la difficile nascita di uno Stato (David Gabrielli)
L’informazione e le controrivoluzioni arabe (Mostafa El Ayoubi)
Se quello a Gerusalemme è il viaggio della vita
Lo Stato di Palestina: tra sogno e realpolitik (David Gabrielli)
Ebraismo. Non cadere nella trappola del nazionalismo
(intervista a Moni Ovadia)
Vivere da straniero fra gli stranieri (Laura Tussi)
Gli Usa e il grigio «autunno arabo» (Mostafa El Ayoubi)
Mondo arabo. Maledetta primavera? (Mostafa El Ayoubi)
Israele, Hamas, al Fatah: una corsa ad ostacoli (Confronti)
Abbiamo sentito parlare di un sogno (Rosita Poloni)
L’Aquila anno zero (Stefano Corradino)
5
Il pubblico in fuga da una Rai faziosa (Roberto Natale)
5
Referendum. Quattro sì per dire tre no (Adriano Gizzi)
5
Rompere il silenzio sui referendum (intervista a Ugo Mattei)
5
Chi ha paura di una legge contro l’omofobia? (Anna Paola Concia) 6
Per cambiare il Paese non bastano le elezioni (Goffredo Fofi)
6
Politica. Se le carceri diventano una discarica sociale (Valter Vecellio) 6
Le ragioni di un Satyagraha (intervista a Marco Pannella)
6
Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi (Adriano Gizzi)
7/8
Una fase si chiude, ora va interpretato il nuovo
(intervista a Ilvo Diamanti)
7/8
Una manovra che accentua la crisi (Umberto Brancia)
10
Se la politica non è all’altezza della crisi (Felice Mill Colorni)
10
Le carceri in conflitto con la legalità (Valter Vecellio)
10
Ustica: un atto di guerra nel nostro spazio aereo
(Andrea Purgatori)
11
La sentenza riconosce la verità «ostacolata»
(Daria Bonfietti)
11
Dopo Berlusconi, le macerie (Felice Mill Colorni)
12
L’umiliazione del welfare neocaritatevole (Augusto Battaglia)
12
Euro: correggere la rotta definita dalla Germania (Stefano Fassina) 12
2
3
3
3
4
4
4
4
5
5
5
5
5
6
RELIGIONI, CHIESE, TEOLOGIA, SPIRITUALITÀ
6
6
6
7/8
7/8
7/8
10
La discutibile esegesi del «Gesù» di Ratzinger (Antonio Guagliumi) 7/8
10
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11
12
2
4
7/8
Cattolici
Libertà religiosa. Le sue ferite nel mondo, le ambiguità in Italia
(David Gabrielli)
Papato, l’uso politico delle canonizzazioni
(Francesco Zanchini)
Un popolo cristiano prigioniero di se stesso
(Giovanni Franzoni)
Risorgimento vaticano (Felice Mill Colorni)
Scola a Milano, Concilio alla prova (Confronti)
Chiesa cattolica. Prove di Concilio negli Stati Uniti
(Vittorio Bellavite)
Charta cattolica dei diritti e delle responsabilità
Assisi, continuità e discontinuità (David Gabrielli)
2
2
7/8
7/8
12
POLITICA
Servirebbe un decreto «salva-famiglie» (Elio Lannutti)
Berlushenko: declino o rilancio? (Felice Mill Colorni)
Ridare visibilità alla solitudine operaia (Umberto Brancia)
Il Vaticano, un premier e le lenticchie d’oro (Confronti)
Qualunquemente Italia (Adriano Gizzi)
La cultura «non si mangia», si affossa (Vincenzo Vita)
Una democrazia da non dare mai «per scontata»
(intervista a Gustavo Zagrebelsky)
Risorgimento vaticano (Felice Mill Colorni)
Il lavoro sotto attacco (Paolo Ferrero)
Un 12 marzo permanente a difesa della democrazia
(Gian Mario Gillio)
Per amore della Costituzione (Giuseppe Giulietti)
L’Italia che vuole andare avanti (Concita De Gregorio)
Comunità di base
La scomparsa di don Mazzi. L’Isolotto, un caso serio
del post-Concilio (Luigi Sandri)
Enzo Mazzi. Un operaio per la costruzione del regno di Dio
(Stefano Toppi)
1
2
2
2
2
3
Ebrei
Tullia Zevi, una vita vissuta con passione (Gian Mario Gillio)
Ebraismo. Non cadere nella trappola del nazionalismo
(intervista a Moni Ovadia)
Vivere da straniero fra gli stranieri (Laura Tussi)
Incontri/Paolo De Benedetti. Cristiano la domenica,
ebreo tutti gli altri giorni (Piera Egidi Bouchard)
Un viaggio nella stampa ebraica italiana (Lia Tagliacozzo)
Gli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah (Stefania Sarallo)
3
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4
4
4
4
II
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2
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10
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12
12
INDICE 2011
Musulmani
Cristiani e musulmani tra Asia e Africa (Franco Cardini)
La voce dei musulmani europei autoctoni
(Giuseppe Cossuto)
Egitto. Islam e democrazia non sono incompatibili
(Mahmoud Salem Elsheikh)
Il mosaico dell’islam italiano in dialogo (Paolo Naso)
Islam: la nuova frontiera (Giulio Soravia)
Ahmadiyya. «Diversamente musulmani»
(Iftikhar Ahmad Ayaz)
Protestanti
Incontri/Sergio Aquilante. Tra impegno sociale
e testimonianza evangelica (Piera Egidi Bouchard)
Incontri/Giorgio Girardet. La prigionia
di un «pericoloso protestante» (Piera Egidi Bouchard)
Il protestantesimo nell’Italia di oggi (Gian Mario Gillio)
La rivoluzione di piazza Tahrir (Giuliano Ligabue)
Cristiani perseguitati e persecutori, una storia bifronte occultata
(David Gabrielli)
Dalla laicità di separazione alla laicità dialogica (Stefania Sarallo)
Fare i conti con Maria (Giuliano Ligabue)
Ad essere in crisi è «un» papato o «il» papato? (Luigi Sandri)
2
3
4
11
12
Note dal margine (a cura di Giovanni Franzoni)
Se il corpo del malato si fa campo di battaglia
Tempo di colloquio ebraico-cristiano
Rifiutare una vita in cui non ci si riconosce
Martiri senza martirologio
Restiamo umani. La parola fatta carne
La discesa del divino nella carne del servo
Per una giustizia equa la legittimità non basta
Ma il rispetto della vita vale solo per quella umana?
12
5
10
12
Libro
La teocrazia di Benedetto è più fragile di quel che sembra
(Luigi Sandri)
Il tranquillo coraggio di un italiano vescovo
(David Gabrielli)
Se il lavoro non è più una vocazione (Maria Cristina Laurenzi)
Un mito della civiltà cristiana indagato, rivisto e corretto
(David Gabrielli)
Unione europea: o federalismo o morte (Umberto Brancia)
Nucleare, a chi conviene? (Anna Maria Marlia)
Il Vangelo secondo Leonard Cohen (Demetrio Canale)
Mosca, più che Washington, è all’origine dello Stato ebraico
(David Gabrielli)
La ricerca e il «cammino» di Tolstoj» (Amici di Tolstoj)
Quanto costa all’Italia il Concordato del 1984?
(David Gabrielli)
Tradimento fedele (Giuliano Ligabue)
Perché, anche nel terzo millennio, si può ancora credere in Dio
(David Gabrielli)
Per rifondare sul Dio benedicente la teologia e la prassi cristiana
(Luigi Sandri)
Se nel mondo islamico nasce il femminismo
(Anna Maria Marlia)
Il deserto e le tentazioni (Giuliano Ligabue)
Non è da tutti essere donna (Giuliano Ligabue)
Francesco Guccini, un cantastorie artigianale (Laura Tussi)
«Stiano pure scomode, signore» (Stefania Sarallo)
11
11
12
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4
5
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12
Opinione
Gesù, l’ebreo di Nazaret, chi interpella? (Gianpaolo Anderlini)
1
Mi chiamo Uddin (Uddin Asraf)
1
Anima del commercio o commercio dell’anima? (Filippo Gentiloni) 2
Una città smarrita (Massimiliano Tosato)
2
La vita in un pozzo d’acqua (Paola Milli)
3
La scuola deve fare i conti con il pluralismo religioso
(Brunetto Salvarani)
5
La laicità da riconquistare (Silvana Prosperi)
5
La laicità come garanzia di libertà e pluralismo
(Gian Carlo Marchesini)
11
RUBRICHE
Cinema (a cura di Umberto Brancia)
Forse gli autistici siamo noi
Lo sguardo di Eastwood sul nostro smarrimento
C’era una volta un re a cui serviva un logopedista
La quotidianità mistica di Simone Weil
Il bene è più importante della fede
Un ritratto attento dell’Iran di oggi
10
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2
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3
4
4
4
Osservatorio sulle fedi (a cura di Renato Fileno)
Meno infermieri e più preti negli ospedali
La presenza dei cristiani copti in Italia
Il «Gesù storico» di Pagola indagato dal Vaticano
I testimoni di Geova e la Cena del Signore
Libertà religiosa negata in Corea del Nord
Perché Wojtyla «santo subito»?
Alle origini del metodismo in Italia
La Corte europea difende i testimoni di Geova
In costruzione il primo tempio mormone in Italia
Alle origini della festa del Natale
1
2
3
4
5
6
7/8
10
11
12
Spigolature d’Europa (a cura di Adriano Gizzi)
Rajoy guida la Spagna del dopo Zapatero
12
SCUOLA
Non si risparmia sull’educazione
(Maria Immacolata Macioti)
Una scuola pubblica da difendere e riformare (Marco Rossi-Doria)
Diritto allo studio a rischio per gli alunni disabili
(intervista a Simonetta Salacone)
L’integrazione scolastica dei disabili
(Rocco Luigi Mangiavillano)
Ricominciamo dalla scuola, «bene comune»
(Simonetta Salacone)
5
5
5
6
7/8
7/8
10
III
1
4
4
4
7/8
INDICE 2011
CONCILIO VATICANO II. I SUOI PRIMI 50 ANNI
numero monografico di settembre
SOCIETÀ
Una secolarizzazione lenta e inesorabile (Felice Mill Colorni)
La cappa clericale su politica e media (Enzo Marzo)
Una crisi profonda, non solo economica
(Umberto Brancia)
Abusi edilizi attorno alla basilica di San Paolo?
(Anna Maria Marlia)
Lavoro e disabili: a che punto siamo? (Augusto Battaglia)
Come funziona la legge sull’inserimento lavorativo
(Rocco Luigi Mangiavillano)
Disabilità. Il lavoro come strumento di autonomia
(Maurizio Marotta)
Società. La faccia brutta del Belpaese
(Anna Maria Marlia, Fausto Tortora)
Economia sociale. Un’opportunità per occupazione e sviluppo
(Augusto Battaglia)
1
1
Presentazione (Gian Mario Gillio) • Tra Gerusalemme II e Vaticano III
(Brunetto Salvarani) • Un periodo di grandi trasformazioni (Vittorio Rapetti) • La Bibbia: da grande codice a libro assente (Gianpaolo Anderlini) • La liturgia prima e dopo il Concilio (Andrea Grillo) • Il Concilio
Vaticano II, inaspettata primavera (David Gabrielli) • Come l’urlo di un
bambino in una voliera (Marco Ronconi) • Gaudium et spes, un nuovo
sguardo sul mondo (Giovanni Bachelet) • La Lumen gentium riscopre il
«popolo di Dio» (Erio Castellucci) • Il grande passo avanti della Nostra
aetate (Brunetto Salvarani) • Ad gentes, la rifondazione teologica della
missione (Mario Menin) • La Bibbia non è parola sigillata, ma svelata
(Flavio Dalla Vecchia) • Il nodo della riforma liturgica (Matteo Ferrari) • Dignitatis humanae, la fede senza costrizioni (Marco Vergottini) •
Un Concilio «cattolico» che vuole essere universale (Marco Dal Corso) •
Il grande contributo del cardinal Bea al Concilio (Francesco Capretti) •
De Lubac, dalla solitudine al Vaticano II (Cristiana Dobner) • Fino a
quando mancheranno le «madri della Chiesa»? (Giancarla Codrignani)
• Il «padre» della Gaudium et spes (Giacomo Coccolini) • Giuseppe Dossetti: il partigiano del Concilio (Antonio Nanni) • Rahner, teologo del dopodomani (Giacomo Coccolini) • Maximos IV, la voce dell’Ortodossia al
Vaticano II (David Gabrielli) • Lo sguardo religioso di un non credente
(Lino Ferracin) • Il panorama postconciliare e la «normalizzazione»
(Alessandro Santagata) • La riscoperta della Bibbia (Elena Lea Bartolini) • La nascita del dialogo cristiano-ebraico (Claudia Milani) • Un ecumenismo riscoperto e poi «affossato» (Fulvio Ferrario) • Il Vaticano II
visto dai copti d’Oriente (Kyrillos William) • Il Concilio visto dall’America Latina (José Comblin) • Sono solo cinquant’anni ma sembrano cinque secoli (Filippo Gentiloni) • Rottura o continuità? (Massimo Faggioli) • Coraggio e reticenze da un punto di vista protestante (intervista a
Paolo Ricca) • L’inizio di una grande svolta tra cattolici ed ebrei (intervista a Riccardo Di Segni) • Il difficile dialogo islamo-cristiano (Giulio
H. Soravia) • Il Concilio e i giovani (Armando Matteo) • L’inaudito arrovesciamento (Angelo Casati) • Il futuro del cattolicesimo (intervista a
José Comblin) • Il sogno di un prossimo Concilio (Marco Campedelli) •
Ricordi, speranze, delusioni di un padre conciliare (intervista a Giovanni Franzoni) • Bibliografia (a cura di Antonio Delrio)
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STORIA E MEMORIA
Un bilancio di 150 anni di unità (Nicola Tranfaglia)
Cristiani e musulmani tra Asia e Africa (Franco Cardini)
Il 10 febbraio, tra identità e confini (Giuliano Ligabue)
Gli ebrei romani tra leggi razziali e Shoah (Stefania Sarallo)
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SVILUPPO, ECONOMIA, AMBIENTE, PACE, DIRITTI UMANI
Quando le radiazioni accecano i cervelli
(Vittorio Cogliati Dezza)
Sfide, problemi, risultati del Social Forum (Vittorio Bellavite)
Rialziamo la testa! (Flavio Lotti)
Economia. Alla ricerca di un’etica globale (Paolo Tognina)
L’economia? Se è «etica» funziona meglio
(intervista a Hans Küng)
Microcredito. Se la banca dà l’ombrello anche quando piove
(Valentina Spositi)
Il microcredito aiuta i poveri ad aiutarsi
(intervista ad Andrea Berrini)
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Confronti dicembre1 - Naturalmente Verona