rubrica
COSE DELL’ALTRO MONDO a cura di Francesca Lancini
42 . east . europe and asia strategies
FESTIVAL D’AUTUNNO Che strade
sta percorrendo la diplomazia dopo le rivelazioni del team di Julian Assange?
Un’occasione per scoprirlo è la seconda
edizione del Festival della diplomazia,
che quest’anno si intitola proprio “La diplomazia oltre wikileaks”. Gli incontri si
terranno tra Firenze e Roma dall’8 al 14
ottobre. L’8 e il 9 nel capoluogo fiorentino si parte con una discussione sulla diplomazia della convivenza e la partecipa-
TURISTI ESIGENTI Su Twitter, uno dei
social network più popolari, si è tornato
a parlare della “sindrome di Parigi”. Pare
che ogni anno una dozzina di turisti giapponesi sia colpita da uno shock culturale visitando la capitale francese. L’ambasciata giapponese a Parigi continua a tenere aperta, 24 ore su 24, una linea telefonica per i connazionali che soffrono di
zione della Comunità di Sant’Egidio, e
con un “processo” alla controversa figura di Henry Kissinger, ex segretario di Stato Usa durante le presidenze di Nixon e
Ford. Il 10 ci si sposta nella capitale per
parlare di 11 settembre 2001 e sicurezza
del sistema internazionale attuale. Non
manca uno sguardo sul ruolo delle donne nei conflitti e, il giorno successivo, un
incontro sullo sviluppo sostenibile, adeguato cioè ai Paesi di intervento. Il 12 ci
si concentra sul tema caldo del conflitto
libico con il dibattito “Libia. La sconfitta
della diplomazia”. In chiusura si segnala la conferenza su come affrontare i cambiamenti climatici e quella sulla politica
estera europea.
Per saperne di più www.festivaldelladiplomazia.it.
TUTTI PAZZI PER ILKUNG FU Portato alla ribalta dal mitico Bruce Lee negli
anni Settanta, oggi il kung fu vive una sorta di rinascita, ma non priva di rischi. La
disciplina che riunisce le arti marziali ci-
nesi continua a ispirare Hollywood, con
i cartoon Kung fu Panda I e II (in uscita) o
il recente remake di Karate kid, che però
questa volta parla di un ragazzino afroamericano alla scoperta del kung fu a Pe-
questo disagio psichico. Giunti nella magica Paris, sognata attraverso il film
Amélie e le pubblicità, i viaggiatori del
Sol Levante spesso restano delusi. Le loro aspettative sono così elevate che
quando incontrano un cameriere scortese o un taxista che si ostina a parlare francese piombano in una terribile demoralizzazione. «Per i giapponesi, di solito
molto educati e provenienti da una società in cui raramente i toni diventano rabbiosi, l’esperienza nella loro città da sogno, che si trasforma in un incubo, può
essere veramente troppo». Così spiegava il fenomeno Caroline Wyatt in un articolo per la Bbc del 2006. La “sindrome di
Parigi” sarebbe stata scoperta venticinque anni fa da Hiroaki Ota, uno psichiatra giapponese che lavorava in Francia.
Il giornale francese Nervure, invece, le ha
dedicato un articolo nel 2004. Di solito la
cura a questo alto tasso di stress è drastica: lasciare Parigi il prima possibile e
non tornarvi mai più. In passato altre sindromi hanno catturato l’attenzione di
scrittori e psichiatri: prima fra tutte la
“sindrome di Stendhal”, che afflisse l’autore francese quando si trovava a Firenze. Tanta arte in una sola città gli provocò reazioni psicosomatiche, tra cui anche
allucinazioni. La psichiatra Graziella Ma-
gherini vi dedicò un libro nel 1979, dopo
aver riscontrato tale disturbo in un centinaio di visitatori del capoluogo toscano.
Nel 2000, inoltre, il British Journal of Psychiatry si è occupato della “sindrome di
Gerusalemme”, una sorta di ossessione
religiosa di cui si sono ammalati alcuni
turisti della Città Santa. Sembrerebbe
che questi pazienti non avessero una storia di psicosi alle spalle, ma viene naturale chiedersi se anche qui non siano in
gioco delle aspettative e una certa predisposizione alla suggestione. Con l’arrivo
dell’estate e delle vacanze il Guardian
si è divertito a giocare sull’argomento:
Sindrome di Parigi, sindrome di Gerusalemme… dove la prossima? All’improvviso si è scoperto che ogni città provoca
i suoi effetti: dalla repulsione verso le
metropoli più pericolose all’entusiasmo
verso quelle in cui si sono trascorsi momenti felici, tra le quali la stessa Parigi.
Chine Nouvelle / Sipa / W. Song
Tung aveva un ghostwriter.Voci di questo
tipo circolano sempre di più in Cina. Il
Grande Timoniere non avrebbe scritto da
solo il Libretto Rosso, ovvero la bibbia
della società marxista-leninista, materialista e atea da lui voluta. Soprattutto
su internet si ipotizza che il suo segretario Hu Qiaomu e altri gli abbiano dato una
mano. Lo stesso Hu, del resto, ha detto in
più occasioni di aver assistito Mao nella
stesura di articoli e di aver appreso lo stile poetico dal defunto presidente. Chi è
cresciuto con la dottrina maoista, però,
non ci crede. «No, no, no», dice un uomo
di 60 anni. «Se fosse vero, sarei davvero
deluso. Ognuno della mia generazione lo
amava, completava la nostra anima. Deve esserci un errore, veramente, lui era
troppo importante». I più giovani, invece,
sono più scettici. «Sono sicuro che le idee
originarie (del Libretto Rosso, NDR) erano di Mao, ma sul fatto di averlo scritto e
messo insieme, chi può pronunciarsi?
Forse qualcuno lo ha aiutato a scegliere
il materiale, a registrare i suoi discorsi, a
scrivere le bozze, questo genere di cose»,
dichiara una donna di 29 anni. Del Libretto Rosso furono pubblicate 5 miliardi di
copie durante la Rivoluzione culturale,
un periodo di violento fervore ideologico che durò dal 1966 al 1976, anno della
morte di Mao. Il culto della sua personalità crebbe anche grazie a questo volumetto di sue citazioni.
Le Guardie Rosse potevano punire severamente chi ne veniva trovato sprovvisto.
Fu tradotto in numerosissime lingue e inviato gratuitamente all’estero a chiunque ne facesse richiesta. Nelle università e nei campus occidentali molti hipster
marxisti-leninisti si vantavano di averlo
letto. Oggi Mao è una figura ancora riverita in Cina – il suo volto campeggia sopra
la porta della Città Proibita – ma anche ingombrante. L’attuale leadership deve fare i conti al tempo stesso con l’idolatria
di Mao e con la pesante eredità politica
da lui lasciata, fra purghe, campi di lavoro e altre misure di stampo stalinista.
Afp / Getty Images / J. Demarthon
NELL’OMBRA DI MAO Anche Mao Tse
chino. Queste pellicole non sono tanto
lontane dalla realtà. Al tempio di Shaolin,
casa del kung fu da mille e cinquecento
anni, arrivano continuamente ragazzini
che sognano di diventare degli eroi delle
arti marziali.
L’antichissimo monastero buddista, situato nella periferia polverosa di Dengfeng, nella provincia povera dell’Henan, ospita 60mila studenti di un’età
compresa fra i 5 e i 40 anni. Tutti sognano una carriera di successo. Wang Yumin,
però, che cura le relazioni esterne del sito, dice che i valori sono altri: «Storicamente Shaolin rappresenta giustizia, rettitudine, empatia e amore». Fino al XIII secolo, infatti, è stato dimora di monaci
guerrieri noti per le loro virtù e abilità marziali. Il momento più buio l’ha vissuto nel
corso del Novecento: nel 1928 un signore
della guerra fece incendiare il complesso
monastico e negli anni Sessanta la Rivoluzione culturale di Mao distrusse ciò che
di glorioso era rimasto.
Vent’anni dopo, tuttavia, con l’apertura
della Cina al mercato, anche Shaolin è
diventato un’occasione di business. Nel
1982 il campione di kung fuJet Li vi girò un
film e nel ‘99 l’abate Shi Yongxin trasformò Shaolin in una meta di turismo di massa e in un marchio conosciuto in tutto il
mondo. Solo all’alba sembra di rivivere le
atmosfere mistiche di un tempo. Verso le
4 un religioso rompe un silenzio incantato, bussando alle porte degli allievi. Seguono colazione, pratiche zen e meditazione. Poi alle 8 il trambusto. Le porte di
Shaolin si aprono, permettendo l’ingresso a turisti e curiosi. I monaci eseguono
performance per loro, rinunciando spesso a raccogliersi in preghiera.
Per l’abate-manager Shi si tratta solo di
tramandare cultura e tradizioni e di fare
un dono agli umani di tutto il mondo.
numero 37 . luglio 2011 . 43
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