la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 APRILE 2014 NUMERO 476
Cult
La copertina. La musica è (di nuovo) finita
Straparlando. Gianfranco Ravasi: “Io, un eclettico”
La poesia del mondo. Il “Sogno” di Pascoli
Siamo andati
nel villaggio
più ricco
e in quello
più povero
Per vedere dove
finisce il sogno
e inizia l’incubo
MANIFESTO CINESE DEL 1967: “L’ESERCITO E IL POPOLO SONO UNITI IN UNA MEDESIMA VOLONTÀ. CHI OSERÀ NEL MONDO TENERGLI TESTA?”
G IA MP A O L O V IS E T T I
CinacontroCina
I
HUAXI
L SIGNOR WANG LING raffredda tubi. Operaio nell’acciaieria del villaggio, come suo padre. Al mattino, prima di
raggiungere l’altoforno, fa un tuffo nella piscina che
«mi invade il salotto fino al tavolo». Poi esce dalla sua villa, ci tiene a dire che misura quattrocento metri quadri,
accende la Cadillac nera e va a fare colazione al Golf Club.
Lavora dieci ore filate, in un assordante inferno di fumi tossici. Prima di cena monta un’ora a cavallo con i compagni
di reparto, nel silenzio del giardino, lungo il fiume. «Seguiamo la Borsa — dice — e scegliamo la sauna per la sera».
Morto Mao, Deng Xiaoping segnalò ai cinesi che anche «arricchirsi è glorioso». A Huaxi, anticipandolo, lo avevano già preso
sul serio. All’ingresso del paese, un cartello avvisa: «Benvenuti nel
primo posto sotto il cielo». Un segno di modestia per chi, nel 1950,
decise di andare sopra il paradiso. I contadini di qui, signori del fertilissimo delta dello Yangtze, nel Jiangsu, erano 576. Raccolsero
segretamente i risparmi di tutti e aprirono una fabbrica di concime. Missione: fare soldi. Ha funzionato.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
“S
LUOTUOWAN
sono contenti, l’impero è stabile”.
Adempiendo a tale obbligo, da secoli dinastie e
leader comunisti si sono assicurati il dominio sulla Cina. Improvvisamente non è più così e milioni di cinesi piombano nella disperazione. Sono passati dalla fame alla sussistenza, dalla schiavitù alla collettivizzazione, da Confucio a Mao. Mai però qualcuno li aveva strappati dai loro villaggi rurali per concentrarli nelle
megalopoli del consumo capitalista. Hanno resistito a guerre e vinto rivoluzioni: vengono sconfitti dalla promessa del benessere, privati dei valori che hanno ispirato la loro vita. Nelle campagne abbandonate la gente fiuta l’incertezza, non si fida, non sa cosa fare.
Chi non possiede la crudeltà, o l’età, per salire sullo scintillante missile del “sogno cinese” di Xi Jinping, precipita in una miseria ignota:
al granaio vuoto si aggiunge il deserto culturale e spirituale.
«Qui — dice l’ex contadino Tang Rongbin — tenevo il maiale. Là
avevo la risaia. Quassù c’era il pozzo scavato dagli avi. Questa terra
è stata zappata milioni di volte, secondo regole precise, da ogni generazione. Siamo stati una famiglia felice».
E I CONTADINI
Il luogo. Viaggio a Neon City
Spettacoli. Amarcord Nino Rota
Next. Il web è più profondo di quanto
pensiate L’incontro. Renzo Arbore
“Improvvisare è il mio mestiere”
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 APRILE 2014
28
La copertina. Cina contro Cina
Qui Huaxi.Villa con piscina, altoforno
e golf.La dolce vita dell’operaio Wang Ling
I più ricchi
<SEGUE DALLA COPERTINA
G I A M PA O LO V I SETTI
UAXI oggi è il villaggio più ricco della Cina e, credendo ai dati ufficiali, del mondo. Oltre che per nascita, qui si è ricchi per legge, ossia per ordine del partito. «Siamo duemila — dice Pey
Huayu, cucitrice nel maglificio numero 82 — quattrocento
famiglie. Ma ci sono uomini d’affari che offrono follie per acquistare il diritto di residenza». Comprensibile. Chi viene al
mondo in quella che assicura di essere “la terra promessa del
socialismo cinese” riceve una dote leggendaria: la famosa villa, una berlina, 250mila euro e olio da cucina per tutto l’anno.
Sanità e istruzione sono gratis. A garantire questo tesoro è la
Jiangsu Huaxi Jituan Gonsi, holding quotata in Borsa che controlla cinquantotto colossi industriali. «Lo scorso anno — dice
il capo villaggio Wu Xieen — abbiamo fatturato 6,7 miliardi di euro, in calo per la crisi europea.
Così abbiamo deciso di avviare nuovi affari, come gioielli e servizi». A possedere la chiave della cassaforte, tramite la banca locale, sono i residenti-lavoratori del paese. «L’unico villaggio
del pianeta — dice l’avvocato Yuan Yulai — quotato nel listino, a Shanghai». Wu Xieen, ometto unto ma con una raffinata giacca di taglio britannico «che produciamo qui», è il figlio di Wu
Renbao, dio di Huaxi. Fu lui a concepire l’utopia del borgo rurale capace di trasformarsi in potenza industriale grazie «alla collettivizzazione e alla compartecipazione». Il maoismo trapiantato nel capitalismo, gemma del folle consumismo asiatico. Programma di tre parole: «Ricchezza, salute, felicità». Il cielo ha concesso al signor Wu di morire vecchio, nel marzo di un anno fa. È stato sepolto come un imperatore.
«Non uno è mancato al funerale — dice la fio- lari — recita Zhou Li, capo dell’agenzia turiraia Tan Minquan — lo abbiamo accompa- stica del villaggio — ed è il quindicesimo gratgnato al mausoleo con venti Rolls Royce e un tacielo più alto della Terra». Tre colonne di crielicottero. Al banchetto si è servita zuppa con stallo finiscono in una sfera d’oro. Al sessanpinne di squalo». Riconoscenza disinteressa- tesimo piano, un’altra tonnellata di oro masta. Ai suoi compaesani non ha lasciato solo la siccio, sotto forma di toro. Oltre l’albergo, vidote individuale e un reddito annuo di cento- cino alla spianata delle ville hollywoodiane
mila euro, cifra che il cinese medio non gua- degli operai, tutte uguali, una in fila all’altra,
dagna in molte vite. Huaxi vanta anche una sorge il “Parco del mondo”. Gli abitanti poscompagnia aerea con venti jet e quattro eli- sono fare due passi tra le copie dei monucotteri, una flotta di velieri e un centro spor- menti-simbolo del pianeta: Grande Muraglia
tivo di livello olimpico. Le strade sono coperte e Città Proibita, non serve dirlo, ma anche Ardi glicini per proteggere dai monsoni chi fa co di Trionfo e Torre Eiffel, un Colosseo, un’Oshopping. Per il 50esimo anniversario del mi- pera House di Sydney, castello di Sissi e Big
racolo, è stato inaugurato il raccapricciante Ben. La Statua della libertà, per risparmiare
International Hotel Longxi, 74 piani per 328 spazio, svetta direttamente dal tetto della Cametri d’altezza. «È costato 490 milioni di dol- sa Bianca. «C’è poco tempo per viaggiare —
H
HUAXI
FOTO GRANDE:
LA FAMIGLIA SUN
NEL SALOTTO
DI CASA. FOTO
PICCOLE: RAGAZZE
DAVANTI
A UNA PAGODA
E LA TORRE
DEL LONGXI HOTEL
PER IL CINQUANTESIMO
DALLA FONDAZIONE
DELLA CITTÀ
È STATO INAUGURATO
IL RACCAPRICCIANTE
INTERNATIONAL
LONGXI HOTEL
IN CIMA C’È UN TORO
IN ORO MASSICCIO
dice l’amministratore del parco, Zhao Libao
— ma la gente vuole vedere le cose. Ospitiamo tre milioni di turisti a stagione». Ciò che
nessuno ufficialmente dice è il prezzo di nascere nel villaggio-laboratorio che il partito
comunista ha condannato ad essere la prova
fisica che il socialismo non è ostile alla ricchezza. Soldi e vita, a Hauxi, sono dati solo in
concessione dalla holding che tutela gli interessi di tutti. I residenti lavorano sette giorni
su sette e devono rispettare tre leggi: non andarsene, non licenziarsi, non sposare un forestiero. Chi viola questi comandamenti perde i poteri magici e diventa all’istante un povero cinese normale, come i ventimila migranti e i trentamila operai dei villaggi vicini,
che per 350 euro al mese si consumano in fornaci e catene di montaggio del regno rosso.
«La proprietà — dice il funzionario Zhu
Zhixing — toglierebbe motivazioni e disponibilità al sacrificio. La crisi del capitalismo occidentale lo dimostra: appena diventa certo
ed ereditario, il benessere finisce». La sfida
del paese è avere tutto senza possedere niente. Come l’hotel a cinque stelle affittato a Pudong, il quartiere dello shopping globale più
alla moda di oggi. Jet collettivi catapultano gli
abitanti di Huaxi a Shanghai prima di cena.
Fatti gli acquisti, dormono qualche ora nella
sontuosa dependance metropolitana del villaggio e al mattino rientrano puntuali per il
turno in fabbrica. «Le riforme economiche —
esulta la propaganda — consentono di diventare milionari restando fedeli al partito e agli
ideali socialisti». Duemila individui su 1,4 miliardi di cinesi. «Questo in effetti — dice Wu
Xieen — è un dettaglio su cui c’è spazio per
l’approfondimento».
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DOMENICA 20 APRILE 2014
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Qui Luotuowan.Il nuovo medioevo di Tang
“Eravamo contadini, ora non siamo niente”
Ipiùpoveri
<SEGUE DALLA COPERTINA
G. V.
UGLI SPAZI che indica, splende un cartellone elettronico con l’immagine di un grattacielo azzurro su un orizzonte rosso. Dice:
“Godetevi la bella vita della città”. È alimentato da un generatore, il petrolio è fornito dal partito e produce l’unica luce elettrica della zona. Attorno, cumuli di macerie e un pugno di baracche di fango sbiancato. Sui tetti oscillano tegole rotte. Luotuowan, nella contea di Fuping, al confine tra Hebei e Shanxi, è
presentato come il villaggio più povero della Cina. Reddito medio, sei euro al mese. Non ci sono mezzi meccanici, si fa tutto a
braccia. Venti famiglie, come in un evo originario, sono affidate
alle stagioni: carote, patate, polli, granoturco, maiali, uova, riso, miele. Poco di tutto. I sette bambini rimasti in paese vanno a
scuola a piedi, o su un carretto: otto chilometri, scavalcando i cumuli di mattoni che segnano la posizione dove sorgevano le loro case. La terra è stata requisita dai funzionari di Pechino, decisi a «cambiare finalmente la mentalità della gente». Al posto di una stalla comune, stanno costruendo una fabbrica di asciugamani. Paga il governo, venti posti di lavoro,
ma gli abitanti resistono. «Si sono ripresi i campi — dice Li Xueqing, coltivatore di cavoli —
ma non dicono a chi andranno i soldi degli asciugamani». La svolta, in un giorno passato alla storia. Il 30 dicembre di due anni fa, al villaggio è comparso il segretario generale Xi Jinping, che tre mesi dopo è diventato il nuovo presidente della Cina. Ha visitato due famiglie,
ha donato olio e farina per sette mesi ed è andato via. Tang Rongbin ha incollato la foto al
muro, vicino a quella di Mao. Luotuowan è
stato scelto come esperimento nazionale to non ricostruisce la prospettiva di vita che
della lotta contro la nuova povertà rurale. La distrugge.
promessa è lo “xiaokang”: benessere per tutNel 1978, quando Deng Xiaoping lanciò la
ti entro cinque anni. Così sono arrivate ruspe Cina nel futuro, l’80 per cento dei cinesi erae colonne di camion. Migranti-operai elimi- no contadini, sparsi in milioni di villaggi. Tre
nano le risaie e aprono strade, abbattono le anni fa si è scesi per la prima volta sotto il 50
case e alzano condomini, spianano i granai e per cento. Xi Jinping oggi promette che encostruiscono magazzini per acqua in botti- tro vent’anni il 75 per cento della popolazioglia. Gu Runji, segretario locale del partito, ne vivrà nelle nuove metropoli. Negli ultimi
assicura che al centro del villaggio, dove le dieci anni sono scomparsi novecentomila
Guardie Rosse bruciarono il tempio buddi- villaggi rurali: ne restano dodicimila. Entro
sta, sorgerà «un cinema tridimensionale». il 2025, Pechino sposterà dai paesi alle città
Nessuno sa dire perché, ma in un anno sulla 300 milioni di persone: oltre il doppio della
contea sono piovuti 1,2 milioni di euro. «I popolazione della Russia. In campagna, covecchi — dice il fabbro Duan Liang — al pen- me a Luotuowan, restano gli anziani, chi è
siero di come dividerli, di notte non dormo- malato e i neonati dei giovani emigrati nei
no». Il problema è che l’inatteso tesoro di Sta- distretti industriali. Perché, se il contadino
S
LUOTUOWAN
FOTO GRANDE:
IL CAPO LOCALE
DEL PARTITO
CON LA MOGLIE
NELLA LORO CASA.
UN BAMBINO
E LA VISITA
DELL’ATTUALE
PREMIER CINESE
NELLE INFINITE CAMPAGNE
LA GENTE FIUTA
L’INCERTEZZA, NON SI FIDA,
NON SA CHE COSA FARE.
AVEVA RESISTITO
A GUERRE E RIVOLUZIONI,
VIENE ORA SCONFITTA
DALLA PROMESSA
DEL BENESSERE
cinese è stato condannato alla povertà e all’estinzione, investire per «cambiare la mentalità» a chi l’Accademia delle scienze definisce un «ramo secco»? «Il partito — dice il
professor Li Huadong, capo del movimento
di salvaguardia delle campagne — per resistere ha bisogno di una massa di forti consumatori, concentrati nelle città. È la legge del
capitalismo. La millenaria Cina però, senza i
villaggi contadini, è finita. Ideologie e religioni sono state travolte, il boom della crescita scava abissi di ingiustizia: la nuova leadership avverte che solo la cultura rurale alimenta l’identità popolare, essenziale per tenere ancora insieme questo Paese».
Luotuowan, da paese abbandonato, viene così trasformato in un museo-show della
propaganda, con i suoi reperti e le sue comparse, mantenute per mettere in scena la
patria degli avi. Li Xueliang, vicecapo del villaggio, ha pensato a tutto. Due giovani del
paese, operai in una fabbrica di viti a Shunping, sono stati richiamati, dotati di computer e avviati all’e-commerce. Vendono cashmere della Mongolia Interna su “Taobao”, sito del gigante Alibaba. «Senza muoverci dal fienile — dice Tang Junfeng — serviamo già 470mila clienti». Il governo, per
festeggiare il successo, gli ha regalato una
berlina tedesca. Per ora non si è vista, è arrivata solo una chiave, i compaesani lo prendono in giro, ma non sono affatto contenti di
vangare un campo di soia lontano e di sopravvivere grazie alla carità di Xi Jinping.
Come altri 650 milioni di esclusi cinesi. Hanno capito di essere stati, per la prima volta,
sconfitti: la stabilità dell’impero non dipende più dalla loro felicità.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 APRILE 2014
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Il luogo. Las Vegas
Nella più folle tra le città americane,interamente fondata sul consumo,
esiste un museo che racconta la sua non-storia.Vi sono esposte
le grandi insegne pubblicitarie di casinò, motel e “wedding chapel”
perché sono questi i soli oggetti che possono illuminarne il passato
Uno scrittore e un fotografo sono andati a visitarlo. E ne sono rimasti
sinceramente abbagliati
GIORGIO VASTA
LAS VEGAS
L
AS VEGAS È PURO ARBITRIO. Città estorta al vuoto, spazio di-
sabitato dove a un certo punto si è preso a costruire. Se la
si osserva dall’alto non è che un francobollo di poco meno
di trecento chilometri quadrati circondato dalla distesa
ferrosa del deserto del Mojave. Villaggio ferroviario a partire dal 1905, ufficialmente riconosciuta come città nel
1911, nel 1931 è legalizzato il gioco d’azzardo e nel 1946
viene inaugurato il primo casinò. Da allora Las Vegas è immagine di una crescita inarrestabile che si esprime in un
germogliare di strutture inaudite. Un fenomeno che sembra rivelare un impulso apotropaico: costruire — di tutto,
dappertutto, dentro e contro il deserto — serve a sopportare il nulla intorno. Viene in mente quanto scrisse Goffredo Parise all’inizio degli anni Sessanta in Odore d’America descrivendo il vuoto come «endemica malattia americana e dello zelo di chi vorrebbe, ma non può, riempirlo con una storiografia che è soltanto cronografia, cioè ancora una volta consumo». Las Vegas
non possiede una storia canonica. Per supplire istericamente a questa mancanza ha radunato in sé gli emblemi della storia altrui — dalla Tour Eiffel alla piramide nera dell’Hotel Luxor, dalla Statua della Libertà alla piazza San Marco di Venezia — trasformandosi in uno spazio allusivo, in un ininterrotto altrove al contempo vitale e disperato.
Eppure persino una città parassitaria come questa, una città esca per intero
fondata sul consumo, ha i suoi monumenti. Costruite affastellando strategicamente centinaia di lampadine su un telaio di legno o di metallo, oppure composte da tubi al neon filamentosi, le insegne pubblicitarie raccontano la storia di
Las Vegas. La scandiscono attraverso i decenni, la riepilogano in una serie di morfologie diverse, ne restituiscono paradossi e sfumature. Sono le figure vicarie (e del tutto
coerenti) di uno spazio senza passato. Del resto già nel 1842 Victor Hugo constatava: «Là
dove non ci sono chiese, allora guardo le insegne», quasi presagendo, in un’epoca anteriore all’elettrificazione delle epigrafi
pubblicitarie, che in un futuro ancora là da
venire le merci avrebbero preso il posto della religione.
Nel raccogliere circa centocinquanta insegne provenienti dalla Strip — la strada degli hotel, dei casinò e delle wedding chapels
— nonché da tutto il Nevada, il Neon Museum, al 770 di Las Vegas Boulevard North,
è un compendio di grafica, tecnologia, design, costume e storia sociale. Da quella spigolosa dello Stardust a quella sinusoidale del
Moulin Rouge, da quella rossa e bianca del
Golden Nugget a quella curvilinea del Motel
La Concha, ognuna di queste insegne è l’emblema di una città che in tutte le sue manifestazioni appare orientata verso l’ammiccamento, l’azzardo e il miraggio.
Attraversando i sentieri di sabbia ai cui lati sono accatastate una sull’altra le scritte ci-
clopiche del Caesars Palace, del Desert Inn o del Motel Yucca, passando in mezzo a un lessico costantemente trionfale, a enormi frecce bianche azzurre e gialle, a volti femminili sorridenti, alla sagoma di un uomo che gioca a biliardo e a un
mastodontico cranio umano con lo sguardo cavo fisso in alto, ci si ritrova davanti a quella che in un classico dell’architettura contemporanea come Imparare da
Las Vegas Venturi, Scott Brown e Izenour definiscono «architettura della persuasione». Nei bazar mediorientali non ci sono insegne, il legame che si instaura con la merce è diretto, olfattivo, al limite acustico (quando si ascolta il venditore descrivere la mercanzia); a Las Vegas la merce non sparisce ma si allontana nello spazio facendosi fantasma: al suo posto svettano le insegne immaginifiche impegnate a enfatizzare, ad alludere e a illudere, in fondo non facendo altro che implorare un briciolo di attenzione.
Osservandole oggi deposte a cielo aperto nella polvere si pensa a quella che fu
la loro esistenza quando — sospese in cima a un traliccio o arpionate alla facciata di un grattacielo — competevano una con l’altra annodandosi in configurazioni sempre più avventurose e moltiplicando l’intensità del proprio luccichio.
Obbligate a intercettare lo sguardo di chi viaggiava in auto, all’evolvere dell’industria automobilistica — e dunque, aumentando la velocità delle macchine, al
ridursi del tempo di percezione da parte di conducente e passeggeri — le insegne si fanno ancora più magniloquenti, la stroboscopia dilaga, è una guerra senza esclusione di watt. La luce parlante — alla lettera una luce che è vox clamantis in deserto — viene a coincidere con Las Vegas tout court.
Il passaggio dall’elettrico all’elettronico determina un’obsolescenza fatale: le
luci si spengono, le insegne vengono dismesse. La Young Electric Sign Company,
la società che a Salt Lake City le aveva fabbricate a partire dal 1920, le ha conservate per anni esponendole però al deterioramento fino a quando non le ha donate al Neon Museum, che nel restaurarle e
dare loro ricovero ha realizzato una specie di
cortocircuito: in un luogo che è insieme ospizio della scrittura e cimitero della luce, ciò
che servì da tramite per vendere intrattenimento rimandando, con la propria sfavillante presenza, a qualcos’altro, è oggi intrattenimento in sé, lo spettacolo bizzarro eppure
del tutto logico di uno strumento del consumo promosso a oggetto del consumo medesimo. Come se si pagasse un biglietto per visitare il museo delle dita che indicano la luna.
Al cospetto di questo groviglio di stili grafici, la luce un tempo disperatamente euforica si raccoglie in una tonalità più malinconica. Tutto ciò che fu strillo brillio e lusinga
— la promessa di un paradiso sempre appena dietro l’angolo — si contrae in un eterno
sottovoce. Il Neon Museum, sembrerebbe, è
un luogo in cui si transita dall’epoca in cui le
parole esultavano scagliate antigravitazionali verso l’alto, a una in cui tocca loro di giacere al suolo. Come se il destino del linguaggio — lo strumento che ci siamo inventati
per dialogare con ogni deserto — fosse infine quello di patire, esausto e frantumato in
schegge, l’umiliazione della gravità.
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Neon
City
GLI AUTORI
GIORGIO VASTA (“IL TEMPO MATERIALE”,
MINIMUM FAX 2008; “PRESENTE”, EINAUDI
2012) HA GIRATO IL SUD OVEST DEGLI USA
CON IL FOTOGRAFO RAMAK FAZEL,
AUTORE DELLE IMMAGINI
DI QUESTE PAGINE (RAMAKFAZEL.COM)
IN OCCASIONE DI UN LIBRO
DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE
PER QUODLIBET/HUMBOLDT
“OSSERVANDOLE OGGI
DEPOSTE NELLA POLVERE
SI PENSA A QUANDO,
SOSPESE IN CIMA
A UN TRALICCIO O ARPIONATE
A UN GRATTACIELO,
GAREGGIANDO
L’UNA CONTRO L’ALTRA
MOLTIPLICAVANO L’INTENSITÀ
DEL PROPRIO LUCCICHIO”
la Repubblica
DOMENICA 20 APRILE 2014
Elogio della luce
nata per restare
dentro un obitorio
MARIO PERNIOLA
OPEN, VACANCY
COME IN
“È UN PO’ COME
SE SI DOVESSE
PAGARE
UN BIGLIETTO
PER VEDERE
LE DITA
CHE INDICANO
LA LUNA”
HE IL NEON appaia oggi più estetico del Led
(una nuova fonte di luce che sfrutta le
proprietà ottiche di alcuni materiali) dipende
da varie ragioni, tra le quali non è trascurabile
l’utilizzazione artistica fatta da molti celebri
artisti dagli anni Sessanta del Novecento fino
ad oggi. Essi hanno solennizzato il neon, che
nell’esperienza comune appariva collegato con le cucine e con gli
obitori, suscitando associazioni psichiche di carattere
antropofago degne dei film di Marco Ferreri. In effetti mentre il
neon può disporre di una gamma standard di ottanta colori, il
Led per il momento ne può fornire solo poco più di una decina.
Perciò io, che non ho mai amato il neon, comincio a rivalutarlo,
specie da quando, un mese fa, sono stato costretto a comprare un
nuovo frigorifero dotato di una illuminazione Led, la cui luce
evoca immagini tipiche del cinema horror-fantascientifico.
Ma non a tutti il Led fa lo stesso effetto. Per esempio, una mia
amica scandinava, che vive nella foresta norvegese in una
condizione off the grid (vale a dire senza elettricità) ed è
sopravvissuta all’oscurità del grande inverno di quelle regioni al
barlume delle candele, ha trovato che la luce Led è la più
spirituale di tutte, perché in essa si manifesta pienamente
l’essenza stessa del vedere. Essa segue perciò la teoria di Ugo di
San Vittore (1096-1141), di origine neo-platonica, secondo la
quale la pietra è il risultato di un affievolimento e al limite di
un’assenza di luce. Io invece sostengo la natura essenzialmente
corporea della luce, affermata dalla corrente francescana e in
particolare da Roberto Grossatesta (1175-1253). Costui
rappresenta il punto più alto della teoria dell’incontro tra luce e
pietra e quindi anticipa il modo di sentire inorganico. Ma
attenzione, corporeo non vuol dire materiale!
C
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 APRILE 2014
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La storia
Le foto. Quei bambini
che furono anche
un po’ partigiani
ANGELO
BETELLI
AVEVA
OTTO ANNI
FELICE
CASCIONE
FACEVA
IL MEDICO
ECCO I LORO
RACCONTI
DI LIBERAZIONE
ALBERTO C U STO D ER O
LONDRA
B
AMBINI PARTIGIANI imbracciarono le armi durante la Resistenza. La
prova spunterebbe dagli archivi fotografici dell’Imperial War Museum di Londra. Si tratta di foto scattate da soldati angloamericani
e donate molti anni dopo la fine della guerra al museo londinese. Alcune erano state segretate, forse per evitare un ritorno negativo di
immagine sulla Liberazione. Lo scatto del sergente Loughlin (con
il timbro “segreto”) nei pressi di San Marino il 26 settembre ‘44 ritrae, ad esempio, un bambino del quale viene citato anche il nome
(Angelo Batelli). “The boy is only 8 years old”, il ragazzo ha solo 8
anni. E, precisano gli inglesi, ha rischiato la vita per salvare la vita
a molti soldati alleati. La sua attività bellica è descritta in una didascalia di poche righe. «Il piccolo Batelli ha disinnescato le bombe a
mano che i tedeschi, acquartieratisi a casa sua, volevano usare contro la fanteria alleata».
Altra foto. La scatta il 10 settembre ‘44, a Trani, il sergente Meyer. La didascalia descrive
«un partigiano molto giovane, al quale è stato amputato un braccio»: suo il volto sorridente
nell’immagine più piccola pubblicata in questa pagina. E ancora. Pizzoferrato, Abruzzo, 4
maggio ‘44: il sergente Fox immortala, accovacciato a terra col mitra impugnato, «un giovane guerrigliero italiano che ha risposto
all’appello delle armi». Anche questa foto riporta il timbro secret, ed è quella qui
accanto pubblicata più in grande. A Ravenna, il 24 febbraio ‘45, un ragazzino in
uniforme inglese di circa dieci anni compare sorridente in uno scatto del sergente Currey, VIII Armata: «Il componente
più giovane dei partigiani del Ravennate
è originario della provincia di Napoli. Ha
combattuto con i partigiani nelle montagne attorno a Firenze e in Romagna».
Gli storici confermano con alcuni distinguo come possibile la presenza di
bambini, anche sotto i 14 anni, che
avrebbero combattuto contro i nazifascisti. «Molti erano quelli coinvolti nella
guerra partigiana», spiega Claudio Pavone, ex partigiano, 93 anni, il più rigoroso
storico della Resistenza. Ma aggiunge:
«Destando meno sospetti facevano cose
che i grandi non potevano fare. In questo
senso non parlerei di “bambini guerrieri o guerriglieri”. I bambini potevano essere utilizzati come staffette, o per eludere i controlli delle forze fasciste o
naziste, ma restavano
bambini». «Quando ci sono
le rivolte di popolo che hanno come teatro dei combattimenti le strade —
spiega Gabriella Gribaudi,
ordinario di Storia all’uni- LE IMMAGINI
MARCO REVELLI
versità di Napoli — ci sono “A VERY YOUNG
anche i bambini che parte- PARTISAN”
ON CONOSCO casi di bambini “reclutati”
cipano. E muoiono, come FOTOGRAFATO
nelle formazioni partigiane. Frequento
settant’anni fa col coinvol- IL 10 SETTEMBRE 1944
gli archivi piemontesi, in particolare di
gimento degli “scugnizzi” DAL SGT. MEYER.
“Giustizia e Libertà”, ho visto i ruolini
nelle “quattro giornate” di SOPRA “A YOUNG
con gli organici: giovani o giovanissimi
Napoli. E come succede an- ITALIAN GUERRILLA”
molti, qualcuno anche sotto le classi d’età coinvolte
cora oggi in giro per il mon- FOTOGRAFATO
do: in occasione della “ri- A PIZZOFERRATO
dai bandi di reclutamento forzato della Repubblica
volta delle pietre” in Pale- IL 4 MAGGIO 1944
sociale (la quale, al contrario, sfoggiava
stina, erano i bambini a DAL SGT. FOX
effettivamente le proprie mascotte in divisa).
scagliare sassi contro i solMa bambini no. Per una ragione molto semplice:
dati israeliani».
che la guerra partigiana era massacrante.
«Le foto del museo britannico della
guerra — aggiunge lo storico Gianni OliRichiedeva una capacità di resistenza fisica
va — confermano che conflitti come quelincompatibile con l’infanzia. Il che non significa
li resistenziali coinvolgono inevitabilche i bambini potessero restare miracolosamente
mente anche ragazzini in tenera età. In
fuori da quella guerra.
una insurrezione di popolo combattuta
Al contrario. Era, quella, una guerra che
casa per casa, con connotazioni anche di
guerra civile, salta il concetto d’età. Lo
cancellava i confini tra civili e militari.
scontro coinvolge tutti. Compresi i più
Tra giovani e anziani. Tra uomini e donne...
piccoli, sottoposti spesso a violenze inauI rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti non
dite, come l’essere costretti e vedere i
facevano distinzioni, colpivano tutti.
morti giustiziati nelle piazze». Più scettiNelle baite bruciate, nelle borgate messe a ferro e
co, invece, lo storico torinese Bruno Maida: «Dubito che bambini soldato abbiano
fuoco, vivevano (e rischiavano) interi nuclei
preso le armi al fianco di partigiani. La
famigliari. Così come l’appoggio alla Resistenza
mia impressione è che i piccoli in divisa ripoteva assumere molte forme: un po’ di cibo
tratti nelle foto inglesi fossero magari orofferto, un servizio di staffetta attraverso le linee,
fani di guerra. O feriti, o mutilati, come il
un biglietto portato da un vallone all’altro, in questo “tamburino sardo” del Risorgimento, e
caso sì, anche da bambini o bambine.
poi “adottati” come mascotte o per propaganda durante la Liberazione».
Niente di più lontano dai bambini soldato delle
(Hanno collaborato
milizie di oggi che appartengono non solo a un altro
Mario J. Cereghino e David Bell)
Quando la guerra
cancella i confini
q
venticinq
secolo ma a un diverso universo di senso.
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FOTO © FOTOTECA STORICA NAZIONALE ANDO GILARDI
N
la Repubblica
DOMENICA 20 APRILE 2014
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La canzone.Felice
che acchiappò il vento
e lo fece poi fischiare
E MIL IO MA R R E S E
USCRITTA su un foglietto staccato da un ricettario medico. Quello del dottor Felice Cascione, via Asclepio Gandolfo 5 a Imperia. Una prescrizione per l’anima: “Soffia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna agir / a conquistare la nostra (?) primavera in cui sorge il sol dell’Avvenire”, recitava la prima strofa a matita in calligrafia ordinata. La
spedì dai monti liguri, dov’era salito partigiano dopo l’8 settembre del
’43, alla mamma Maria, maestra elementare. Che gliela fece riavere
corretta e dattiloscritta: soffia era diventato fischia, agir era ardir , e la
primavera non aveva più punto interrogativo, non era più nostra ma
rossa. La prima volta venne intonata dalla brigata di Cascione, ventisei anni, ex campione di pallanuoto e “medico dei poveri”, davanti al
portone della chiesa di San Michele a Curenna, borghetto del savonese, la sera della vigilia di Natale dopo la messa, davanti a un pentolone di castagne. Pochi
giorni più tardi Cascione fu trucidato dai fascisti, mentre i suoi versi adottati dal vento continuarono a volare di bosco in bosco fino a diventare l’inno ufficiale della Resistenza. Prima
ancora della più trasversale Bella ciao. Ognuno si masticò la sua versione: ardir può essere
anche andar, e c’è chi aggiunge una strofa con falce e martello. Perché quelle parole sono già
di tutti, sono fiorite per esserlo. Al punto di poter perlopiù ignorare, oggi come allora, chi ne
fosse veramente l’autore. «È una vera e
propria arma contro i fascisti. Li fa impazzire, mi dicono, solo a sentirla. Se la
cantasse un neonato l’ammazzerebbero
col cannone», dice il partigiano Johnny
nel romanzo di Beppe Fenoglio.
La storia di Felice Cascione, u Megu, e
del suo canto ribelle è stata ricostruita da
Donatella Alfonso in Fischia il vento (Castelvecchi, 140 pagine, 16,50 euro). Bello e carismatico come dev’essere un eroe,
Felice rimane orfano a cinque mesi di Giobatta, commerciante d’olio, ma la madre
riesce a farlo studiare. Nelle poco limpide
acque marine davanti al porto diventa
centrovasca e capitano del Guf Imperia,
che scala tra il ‘37 e il ‘39 dalla serie C alla
A del campionato di pallanuoto. In quella
stessa estate arriva secondo ai Mondiali
con la nazionale universitaria a Vienna,
tre giorni prima dell’invasione della Polonia. Lascia Genova per la Sapienza a Roma (dove si ritrova in squadra il portiere Massimo Girotti, non ancora divo del
cinema), e infine si laurea
in Medicina a Bologna nel
’42, al termine della sua fuga dalla burocrazia fascista che lo ostacolava negli
esami e nelle graduatorie
per un posto alla Casa dello
Studente. Il giovane Felice
era nel mirino per le sue
L’AUTORE
frequentazioni, in particoG AD LE RN E R
lare quella di Giacomo CaLA STORIA DI FELICE
stagneto
detto
Mumuccio
UCCEDE DI RADO, ma succede. Che lo spirito
CASCIONE (FOTO)
che lo aveva introdotto nel
di un’epoca si condensi in pochi versi,
È NARRATA
partito comunista clandeIN “FISCHIA IL VENTO”
indissolubilmente legati a una melodia,
(DONATELLA ALFONSO, stino, e presentato a Natta
per poi attraversare il tempo e farcene
e Pajetta. Il dottorino diCASTELVECCHI,
rivivere ogni volta l’attualità.
venta
subito
popolare
a
140 PAGINE,
Quando
abbiamo
deciso di sperimentare un racconto
Oneglia
perché
non
fa
pa16,50 EURO). IN ALTO,
gare né medicine né visite
televisivo dell’Italia che uscisse dal chiuso dei talk
IL MANOSCRITTO
a chi non può. In agosto si fa
show, il titolo Fischia il vento è venuto naturale: una
ORIGINALE
venti giorni di prigione per
DELLA CANZONE
matrice in cui potevano ritrovarsi due casematte
adunata sediziosa e, dopo
della cultura di sinistra come Feltrinelli e Repubblica,
l’armistizio, si rifugia sui monti coi comma in cui soprattutto si ritrova il senso comune
pagni a capo di un manipolo che arriverà
presto a contare una cinquantina di uopopolare di una democrazia che non dimentica di
mini. Tra loro c’è Giacomo Sibilla detto
essere nata dalla Resistenza antifascista. Fischia il
Ivan, operaio che ha fatto la campagna di
vento, più ancora di Bella ciao, è il canto per
Russia e porta una chitarra a tracolla aceccellenza
della nostra Resistenza perché non la fa
canto al mitra. È lui che la sera, nei casofacile: ci inchioda a una dimensione tragica. Il nostro
lari diroccati, strimpella questa Katiuscia, la celebre melodia popolare russa. Il
canto malinconico della Liberazione non può
testo del poeta Isakovskij parlerebbe di
prescindere da Fischia il vento: memoria in bianco e
meli e peri in fiori, ma già i soldati italiani
nero di una guerra civile nella quale c’erano una
nella steppa l’avevano storpiato con riferagione di civiltà contrapposta a un torto criminale.
rimenti al vento e alle loro scarpe di carAncora oggi siamo chiamati a schierarci. D’accordo, è
tone. Si tratta di metterla giù meglio, per
quest’altra battaglia. Ci pensa u Megu.
solo una canzone. Ma, come il vento, la senti arrivare
Le camicie nere stanano e giustiziano
gelida da lontano. Il fatto che sia una traduzione, e
Felice il 27 gennaio 1944, lasciandone il
che la musica sia russa, l’arricchisce di gravità.
corpo su un pendio. «Ma non fu vano il tuo
Fornisce la percezione di un accadimento più grande
sangue, Cascione, primo, più generoso e
di noi, nel quale le brigate partigiane restituirono a
più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo noun’Italia disonorata un ruolo nobile di protagonismo.
me è leggendario» scriverà, un anno dopo, su La voce della democrazia, un altro
La canti anche da solo, ma pensandola in coro. Non è
giovane partigiano noto come Santiago.
allegra, ma vibra. Esprime la fatica di una guerra
La sua firma è Italo Calvino.
F
queaprile
Le scarpe rotte
prima della vittoria
S
25/4/1945
I PARTIGIANI ENTRANO A MILANO
A BORDO DI MOTOCARRI
E BICICLETTE, SVENTOLANDO
LA BANDIERA ITALIANA
dall’esito incerto, non la baldanza di una vittoria.
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LA DOMENICA
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Spettacoli. Maestri
“A undici anni già riempivo casse
di musica scritta”.Riemergono
i tesori nascosti del compositore
che non fu “solo” colonna sonora
del grande cinema
GIUSEPPE VI DETTI
“I
MILANO
L MUSICISTA è un mago, un grande stregone. Considero una sor-
ta di potere magico quello di Nino Rota, che riesce ad addomesticare questa misteriosa sostanza, a esorcizzarla e a darle significati e costruzioni e ritmi dominati di volta in volta dalla volontà e dalle scelte umane”. Per Fellini la musica era un inciampo, un pasticcio che solo Nino Rota riusciva a sbrogliare in quattro e quattr’otto. «La musica dei film di Federico si fa talmente
in fretta che per decenza sarebbe meglio non farlo sapere», diceva Rota per spiegare l’alchimia che si era stabilita tra loro fin
dalle riprese de Lo Sceicco bianco (1952). Mario Soldati, che col
compositore ebbe un idillio letterario nel 1959 (il libretto dell’opera bonsai in dodici minuti La scuola di guida), avrebbe sentenziato: «Rota è la musica. Non deve niente a me o a Fellini, casomai a Mozart, Rossini e Donizetti». A Fellini non restò che arrendersi. Nel 1976, dopo le riprese del Casanova, lo canonizzò: «Quando mette le mani sul pianoforte è come un rabdomante, si mette in contatto
con la sua dimensione e all’improvviso trova la sintonia con la sua creatività». La loro collaborazione era agli sgoccioli: Rota sarebbe morto subito dopo l’uscita di Prova d’orchestra,
trentacinque anni fa, il 10 aprile 1979, a sessantasette anni.
Il tempo ha dato ragione a Soldati, Rota è un gigante della musica, non solo per le suggestive, contagiose, memorabili musiche da
film — celebrate in mille occasioni da artisti
come Hal Willner, che nel 1981 gli dedicò il
bellissimo album Amarcord Nino Rota — ma
anche per la immensa quantità di composizioni classiche accumulate a partire dal
1919, quando il genio precoce aveva otto anni, viveva circondato dalle sue donne e non
era ancora entrato al Conservatorio Verdi di
Milano (era nato in una famiglia “benissimo”: sua madre Ernesta Rinaldi e suo nonno
Giovanni erano valenti pianisti). La morte
del padre, nel 1922, gli ispirò L’infanzia di
San Giovanni Battista, oratorio rappresentato a Milano poi a Tourcoing, in Francia.
«Passai tutta l’estate a orchestrarla invece
di giocare coi miei coetanei», raccontava. «A
undici anni avevo già riempito alcune casse
di musica scritta, la maggior parte andarono bruciate durante la guerra, nell’incursione aerea che colpì il centro di Milano. Mio fratello Gigi diceva: “Quella di Nino non è una
passione, è il vizio della musica”».
Ora la Decca ha iniziato la pubblicazione
di una collana dedicata all’artista con l’intento di valorizzare anche i tesori nascosti:
tre i doppi cd finora pubblicati dall’Orchestra sinfonica Verdi di Milano diretta da Giuseppe Grazioli. «Rota non è solo il musicista
di Fellini, ma un grande compositore del No-
A trentacinque anni
dalla morte
da Londra a New York
il mondo lo celebra
Amarcord
Nino
Rota
COLONNE
SONORE
1947 DANIELE CORTIS 1948 PROIBITO RUBARE 1949 QUEL BANDITO SONO IO 1950 NAPOLI MILIONARIA 1951 FILUMENA MARTURANO 1952 LO SCEICCO BIANCO 1953 I VITELLONI
1960 IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA 1965 GIULIETTA DEGLI SPIRITI 1966 SPARA FORTE, PIÙ FORTE... NON CAPISCO 1967 LA BISBETICA DOMATA 1968 ROMEO E GIULIETTA
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Quella porta
sempre aperta
sull’orchestra
N I CO LA P I O VAN I
O AVUTO l’onore di
conversare
tranquillamente con Nino
Rota una sola volta, a casa
sua. Avevamo un
appuntamento perché dovevo
consegnargli una bottiglia di vino da
parte del nostro comune amico greco
Manos Hadjidakis.
Ricordo che per combinare
quell’appuntamento ci sono volute
diverse telefonate: lui fissava una data,
poi il giorno dopo mi telefonava e mi
domandava che data avevamo
fissato perché non se lo ricordava più;
infine rinviava.
Ci sono volute settimane.
Rota l’ho conosciuto più che altro
attraverso gli infiniti racconti di
Federico Fellini. Quando eravamo in
sala di registrazione
gli tornavano alla
mente i particolari di
quando aveva
lavorato col maestro,
e a volte rideva da
solo. Come quando mi
raccontò la storia
della porticina dello
studio: la musica dei
primi film l’avevano
registrata in uno
studio sulla
Nomentana che
aveva una piccola
porta che metteva in
comunicazione direttamente la regia
con la sala dell’orchestra.
Rota ci si era abituato. Ma, negli anni
seguenti, erano passati a registrare in
un’altra sala, migliore come qualità, ma
priva di quella porticina d’accesso
diretto alla sala. Per raggiungere
l’orchestra bisognava fare il giro da
fuori. Rota ogni volta se ne dimenticava,
cercava quel varco con un po’ di
smarrimento, fissava la parete
«come Alì Babà davanti alla caverna»
diceva Fellini.
Toccava il muro con candore e con l’aria
di dire «ma dove è finita?».
Il genio di Rota si esprimeva tutto nella
sua musica, ma anche, sosteneva
Fellini, nell’infinita grazia innocente
della persona.
H
vecento. Ci sono opere, come Le Molière imaginaire, musica per un balletto di Béjart, di
una modernità sconvolgente; Variazioni sopra un tema gioviale uguaglia la raffinatezza del Bartók migliore; Castel del Monte svela il suo interesse per l’esoterismo e le scienze occulte; Il cappello di paglia di Firenze ha
il posto che merita tra i capolavori del Ventesimo secolo», spiega il maestro Grazioli,
milanese, 53 anni. «Il mio incontro con Rota
è stato casuale», continua. «Nei conservatori non si studia, anzi è guardato con sospetto, come tutti quelli che fanno musica da
film. Figuriamoci lui, che aveva composto
tarantelle, Bevete più latte e La pappa col
pomodoro. Solo più tardi ho capito che
Rota è come Bernstein, che la sua forza è
la leggerezza dell’ascolto». La fulminazione avvenne nel ‘93 quando il Teatro
Sociale di Rovigo decise di mettere in
scena La visita meravigliosa. Durante
le prove arriva una telefonata di Fellini, che è in convalescenza a Ferrara;
dice che vuole conoscere Grazioli,
che ha voglia di parlare di Nino. «Voliamo in ospedale, lui a letto con l’inseparabile taccuino su cui disegnava, al capezzale due rumene prosperose con seni degni di Gradisca.
“Nino viveva in una bolla”, prese a
raccontare, “si svegliava davanti al
pianoforte. Era meticoloso, perfezionista”. E giù aneddoti a non finire», confessa il maestro.
Gli omaggi a Rota sono sempre
più frequenti, e ormai anche le musiche da film sono entrate nei teatri
d’opera. Il 16 e 17 settembre la New
York Philharmonic ha in cartellone
La dolce vita: The music of Italian cinema, con artisti del calibro di Alan
Gilbert, Joshua Bell e Renée Fleming.
L’8 novembre all’Opera di Lipsia va in
scena Aladino e la lampada magica. La
Royal Albert Hall di Londra ha in programma per l’8 dicembre una serata intitolata The Godfather Live in cui verrà
proiettato Il padrino di Coppola mentre
l’orchestra diretta da Justin Freer ese-
IMMAGINI
IN ALTO, UNA CARTOLINA DEL FRATELLO
LUIGI (GIGI) PER COMUNICARE
IL TRASLOCO DELLA FAMIGLIA DA PIAZZALE
BARACCA A VIA DEL GESÙ A MILANO,
1932-’33: DA SINISTRA, GIGI, NINO
(AL PIANO) E LA MADRE ERNESTA.
NELL’IMMAGINE GRANDE AL CENTRO
UN RITRATTO DI FELLINI PER NINO ROTA.
A DESTRA, UN ALTRO DISEGNO DI FELLINI
NELLA FOTO A SINISTRA, NINO ROTA
CON IL REGISTA DI “AMARCORD”
NEGLI ANNI SETTANTA A BARI
DOVE ROTA DIRIGEVA
IL CONSERVATORIO NICCOLÒ PICCINNI
guirà dal vivo il commento sonoro. «Rota e
Fellini sono sempre stati corteggiatissimi
dall’America ma alla fine nessuno dei due c’è
andato», spiega Francesco Lombardi, cugino di terzo grado del compositore, critico
musicale, ex responsabile dell’Archivio Rota custodito nella Fondazione Cini di Venezia. «I produttori del Padrino non lo volevano perché lo consideravano troppo romantico, troppo delicato rispetto alla durezza della storia. Coppola insistette e Rota accettò a
condizione di non muoversi dall’Italia e di lavorare su uno schema del regista — e per la
verità non accettò troppo di buon grado l’idea di condividere l’Oscar con Carmine Coppola, il padre del regista che gli fu affiancato
come coautore. Aveva un grande amore per
la musica leggera e il teatro, ha composto
dieci opere liriche con testi teatrali, era più
interessato alla tragedia del ridicolo che a
quella moderna. Cominciò a scrivere colonne sonore per permettere alla famiglia di
continuare a vivere agiatamente anche negli anni più difficili».
Ripercorrendo la storia di Nino nello studio milanese del cugino Lombardi, che ha
scritto numerosi volumi sull’artista, è subito chiaro che Rota era un compositore fine ed
erudito e che le colonne sonore erano solo
una delle valvole di sfogo della sua torrenziale creatività. Quand’era bambino aveva
incontrato Maurice Ravel, aveva studiato a
Milano con Pizzetti, a Roma con Casella, a
New York con Toscanini, che appoggiò la richiesta di una borsa di studio al Curtis Institute di Philadelphia. «Conobbi anche D’Annunzio quando era legato alla pianista Luisa
Baccara, lo incontrai varie volte al Vittoriale», raccontava Rota. «Era timidissimo, ma
parlava benissimo inglese, francese e russo,
e questo spiega la sua amicizia con Stravinsky», precisa Lombardi. «Vivere in una bolla
era una forma di autodifesa, la distanza di
cui aveva bisogno per scrivere in totale libertà. Firmava i contratti senza leggerli. Negli anni Cinquanta quando era direttore del
Conservatorio di Bari aiutava gli allievi con
sovvenzioni e prestiti personali». A Bari rimase per ventisette anni, fino al 1977. Lì in-
contrò il quattordicenne Riccardo Muti. «Mi
disse: “Suona!”. Io avevo portato Chopin, un
pezzo difficile. Dopo l’esame: “La commissione ti ha dato 10 e lode, ma non tanto per
come hai suonato oggi, ma per come potrai
suonare domani”», ricorda il direttore.
Timido, introverso, silenzioso, solitario
ma una vita tutt’altro che piatta. «Rimasi di
stucco quando da ragazzo entrai nella casa
romana di Via delle Coppelle. L’interesse per
l’occulto e l’esoterismo era visibile in ogni
angolo, un’atmosfera inquietante» racconta Lombardi. Negli anni Settanta tutti per la
differenza d’età lo consideravano suo nipote. «Avevo diciassette anni quando mi portò
alle prove del Molière imaginaire alla Scala.
I ballerini di Béjart si davano di gomito: “Nino è venuto col suo giovane amante”». L’assenza di donne al suo fianco e il legame morboso con la mamma e le cugine induceva a
pensare che fosse omosessuale. Era Suso
Cecchi D’amico la confidente e custode dei
suoi segreti. «Era un carattere angelico, fuori dal mondo, distratto, eppure mai vittima
degli inconvenienti che la distrazione procura. Nino camminava sull’acqua», diceva la
sceneggiatrice. Fu lei a informare Marina, la
figlia segreta, della morte di Nino. Nessuno
ne sapeva nulla, ma nel 1949 da una relazione avuta con la pianista Magda Longari a
Londra (dove lavorava alla colonna sonora
della Montagna di cristallo) era nata Marina
che crebbe in istituto; Rota la incontrava, la
sosteneva ma non le rivelò mai in vita di essere suo padre (oggi Nina-Marina Rota gestisce da Los Angeles il sito www.ninorota.com). Da lì a poco l’avrebbe “rapito” Fellini, sarebbe diventato il suo medium. «La musica mi turba, è invasione che mi inquieta, se
non ha a che fare con la mia professione, con
la mediazione dell’amico Rota, la rifiuto»,
ebbe a dire il regista. Alberto Savinio l’aveva
già scritto in Scatola Sonora: «Egli è il più
“musicale” dei musici che io conosca. (…)
suona come per conto di un altro. Di chi? Della musica. Guardando Nino Rota al piano, ho
capito come doveva essere Mozart al clavicembalo».
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DEDICHE
QUI ACCANTO A SINISTRA,
LA DEDICA CHE GLI FECE
GABRIELE D’ANNUNZIO
SULLA PRIMA PAGINA
DEL SUO LIBRO “IL SUDORE
DI SANGUE”. RECITA COSì:
“A NINO ROTA QUESTO LIBRO
DI COLUI CHE FU CHIAMATO
‘UN FRAMMENTO DEL FUTURO’,
DICEMBRE 1930.
ACCANTO, ANCHE I SALMI
DI IGOR STRAVINSKY
HANNO LA DEDICA
“A NINO ROTA: 18-11-1933”
1954 LA STRADA 1955 IL BIDONE 1956 GUERRA E PACE 1957 LE NOTTI DI CABIRIA 1958 GIOVANI MARITI 1959 LA GRANDE GUERRA 1960 LA DOLCE VITA 1961 IL BRIGANTE 1962 BOCCACCIO ’70 1963 8 1/2
1969 FELLINI SATYRICON 1970 WATERLOO 1971 I CLOWNS 1972 IL PADRINO 1973 AMARCORD 1974 IL PADRINO PARTE II 1976 IL CASANOVA 1978 PROVA D’ORCHESTRA 1979 URAGANO
LA DOMENICA
Next. Non solo dark
Sotto la Rete in cui navighiamo
esiste un mondo sconosciuto
È cinquecento volte più grande
e dentro c’è davvero di tutto
Com’è
profondo
il Web
A R TU R O D I C O R I N T O
PROXY
PROGRAMMA
D’INTERFACCIA
TRA COMPUTER
CLIENT E SERVER.
MASCHERA
L’INDIRIZZOIP
PER
NASCONDERLO
TOR
SOFTWARE
CHE NASCONDE
L'INDIRIZZO IP
DEL PROPRIO
COMPUTER
USANDO
LA
CRITTOGRAFIA
.ONION
LETTERALMENTE
“CIPOLLA”:
UNO PSEUDODOMINIO
DI PRIMO LIVELLO
RAGGIUNGIBILE
SOLO CON
UN CLIENT TOR
ANONYMOUS
ATTIVISTI
INFORMATICI
AGGREGATISI
NEL FORUM
4CHAN.
LOTTA
PER LA LIBERTÀ
D’INFORMAZIONE
FREENET
USA RISORSE
DEGLI UTENTI
PER PUBBLICARE
INFORMAZIONI
SENZA
TRACCIARE
CHI LE HA
PUBBLICATE
“Q
UESTO MESSAGGIO è un avviso ai proprietari e ai frequentatori di Lolita City, Hidden Wiki e Freedom Hosting. È venuto alla nostra attenzione che voi vi sentite sicuri nel Dark Web. Che vi credete liberi di creare,
distribuire e consumare pornografia infantile. Voi
siete convinti che questo comportamento sia libertà
di pensiero. Vi sbagliate. Voi approfittate di bambini
innocenti e se continuerete a farlo riveleremo in Rete
quante più possibili informazioni personali riusciremo ad avere di ognuno di voi. Noi siamo Anonymous.
Noi siamo Legione. Noi non perdoniamo. Noi non dimentichiamo”. Detto fatto: nel 2011 gli hacker di
Anonymous assaltano una serie di siti pedofili nel Dark Web e divulgano informazioni sensibili sui
1589 utenti di Lolita City, luogo infame considerato una sorta di “paradiso dei pedofili”.
Il cosiddetto Deep Web, l’Internet nascosto considerato il luogo di ogni orrore, però non è solo
questo. Sono sempre di più infatti le Ong, i dissidenti e i blogger che hanno individuato proprio nel
Deep Web un nuovo luogo dove incontrarsi, scambiarsi dati e informazioni, o sostenere una “giusta causa” usando il Bitcoin come moneta. Nel Deep Web sono stati clonati i documenti di Wikileaks sulle atrocità della guerra in Iraq e Afghanistan, e sempre qui i whistleblowers, le “talpe”
che denunciano governi e funzionari corrotti, proteggono le loro rivelazioni.
E dunque, che cos’è il Deep Web? Detto anche Invisible Web, è la parte non indicizzata dai motori di ricerca. Una parte fatta di pagine web dinamiche, non linkate, generate su richiesta e ad
accesso riservato, dove si entra solo con un login e una password: come la webmail. Questo accade perché i motori di ricerca funzionano con i crawler, i raccoglitori di link. Li categorizzano, li
indicizzano, e li restituiscono in pagine ordinate quando digitiamo una parola sul motore preferito. Ma se i link non ci sono, non possono farlo. Un altro motivo per cui non riescono a trovarle potrebbe essere perché quelle pagine sono inibite ai motori di ricerca con il comando noro- bro Dark Web & Bitcoin (Lantana editore,
bots.txt.
2013), sarebbe più corretto paragonarlo al
Ma il Deep Web non è solo questo. È anche il pianeta Solaris descritto da Stanislaw Lem,
mondo dei database scientifici e dei siti che «un oceano in continuo mutamento».
Nel Deep Web ci sono siti che offrono file ilcambiano continuamente indirizzo, delle
Vpn, le reti private virtuali che connettono di- legali, ma anche pagine di istituzioni scientifirettamente il tuo computer a un altro: se usi un che, database di organizzazioni internazionasoftware di anonimizzazione che cifra i conte- li e biblioteche universitarie. Come ci si arriva?
nuti dei tuoi scambi con la crittografia, nessu- Con un link mandato via email o con motori di
ricerca a pagamento. Leo Reitano, giornalista
no (o quasi) ti può trovare lì dentro.
Per enfatizzarne il carattere rischioso e ille- esperto di investigazioni digitali, spiega: «Mogale in passato il Deep Web è stato spesso con- tori di ricerca specializzati come Silobreaker o
fuso col Dark Web, ovvero con l’insieme di pa- il portale CompletePlanet ci conducono all’egine e servizi web intenzionalmente nascosti splorazione di enormi database del Deep Web
a cui si accede con indirizzi impossibili da ri- e con specifiche parole chiave ci consentono di
cordare o con software di anonimizzazione co- fare ricerche su materiali selezionati e proveme Tor, che consente l’accesso ai siti .onion e nienti da fonti attendibili e qualificate. Tutto
altri hidden services. In sostanza è esso stesso perfettamente legale». Esempi? Deepwebteuna porzione del Deep Web. Arturo Filastò, ch.com consente di fare ricerca su business,
venticinquenne ideatore di Ooni, uno stru- medicina e scienza; theeuropeanlibrary.org
mento nato all’interno del progetto Tor per mi- su ingegneria, matematica e informatica.
surare la censura nel mondo, spiega con due
In molti paesi dove la censura e l’autoritariesempi italiani perché il Deep può non essere smo imbavagliano le aspirazioni della demoDark: «Globaleaks, (la piattaforma italiana di crazia fra pari, il Deep Web sta diventando
whistleblowing, lontana parente di Wiki- sempre più una risorsa e una speranza. La nuoleaks, ndr) non esisterebbe senza Tor. E anche va frontiera della cultura, dell’arte, della creaMafialeaks, una piattaforma di denuncia sulla tività e della religione, quando salire in supermafia, non sarebbe mai nata».
ficie può portare al carcere, alle torture, alla
Non si conoscono le esatte dimensioni del morte. È nel Deep Web che i fan dell’artista ciDeep Web. Secondo la società di analisi dati nese Ai Wei Wei organizzano i loro incontri. È
Bright Planet sarebbe circa 500 volte più gran- attraverso il Deep Web (e Tor) che gli opposide del web di superficie, ma per il direttore del- tori siriani del regime di Assad comunicano al
l’Istituto di informatica e telematica del Cnr di mondo e Amnesty International ha potuto racPisa, Domenico Laforenza, «non esistono at- cogliere le fotografie delle torture e dei maltualmente metriche e tecnologie per misurar- trattamenti della guerra in corso. Frank La
lo». Per immaginare come è fatto pensiamo a Rue, inviato speciale dell’Onu per la libertà
un iceberg. Sopra la superficie del mare c’è la d’espressione, ha chiarito davanti all’assemparte più piccola, il web accessibile a tutti, blea delle Nazioni Unite che «l’anonimato e la
quello che cerchiamo con Bing e Google. E sot- comunicazione sicura sono cruciali per una soto la superficie c’è il Deep Web, molto più este- cietà aperta e democratica». Il confine tra il leso, a cui non si arriva coi motori di ricerca. Non gale e l’illegale, tra la paura e la speranza, non
è veramente invisibile, è solo difficile da vede- è mai stato così sottile.
re. In realtà, come ci ricorda Ivo Schiaroli nel li© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Come diventare invisibili
senza trasformarsi
in pericolosi cyber criminali
BRUCE STERLING
L DARK WEB è stato definito in molti modi
nel corso degli anni. Ma io credo che per
capire di che cosa si tratti basta quel
semplice aggettivo: dark, scuro,
inquietante, sporco. Un luogo, insomma,
che spaventa. Soprattutto gli esperti di
sicurezza, preoccupati non tanto di eventuali
limitazioni al diritto alla libertà di parola, o
delle vecchie e anonime transazioni di denaro.
Ma della nuova combinazione di due elementi:
un router che rende invisibili come Tor e la
nascita di criptomonete come il Bitcoin. Questi
due elementi insieme infatti consentono la
creazione di nuovi mercati neri e accelerano
radicalmente lo sviluppo tecnologico del
cybercrimine.
A me Tor piace. A una recente conferenza a
Berlino su Snowden ho incontrato uno dei suoi
più importanti artefici, Jacob Applebaum.
Applebaum ha spiegato al pubblico come
funziona il sistema di criptazione .onion(a
strati, come una cipolla, da qui il nome), poi mi
ha stretto la mano e mi ha regalato uno sticker
di Tor. Qualche tempo dopo ho comprato un pc
a buon mercato e gli ho installato sopra Tails,
un sistema operativo che punta sulla sicurezza
e la privacy di chi lo usa e che a sua volta
utilizza Tor per ottenere una invisibilità
I
pressoché totale. In questo modo stavo
finalmente per avere a disposizione il
computer più difficile da tracciare che abbia
mai sognato di possedere. Poi, però, ho esitato
un attimo. Forse perché mi è venuto in mente
che anche Dread Pirate Roberts, il fondatore di
Silk Road, il mercato nero virtuale più grande e
di maggior successo, ora in galera, doveva
essersi sentito eccitato come me all’idea di
non poter essere tracciato. Tra l’altro è uno di
Austin, la mia città. Ma io a differenza sua non
voglio avere niente a che fare con traffici di
droghe, compravendite d’armi e roba simile o
anche peggiore. La morale? Bisogna fare un
buon uso di cose come Tor. E molti giornalisti o
hack-tivisti lo fanno.
Il mondo del Bitcoin, invece, ha pochi eroi. Lo
capisco in quanto tecnologia. È la gente che lo
usa che mi fa diffidare. Quella del Bitcoin, fino
a oggi, è stata una brutta storia di avidità
selvaggia, crisi finanziarie, collasso di
business, tradimenti, attacchi di hacker
“cattivi” e massicce appropriazioni indebite.
Voglio dire che se la libertà di parola attrae
gente coraggiosa, il denaro sporco attira gente
malvagia. In altre parole ancora: più conosco
gli avidi, più dark, scuro, inquietante e sporco
mi sembra ciò che fanno.
INFOGRAFICA DI PAULA SIMONETTI
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 APRILE 2014
Sapori. Tradizionali
Uova per Pasqua.
Pastiera o colomba
e al diavolo la sorpresa
NE CONSUMIAMO
14 MILIARDI
L’ANNO
NE MANGIAMO
14 CHILI A TESTA
MA È ADESSO
IL LORO MOMENTO
MIGLIORE
PERCHÉ SONO
DA SEMPRE
IL SIMBOLO
DELLA RINASCITA
LI C I A G R A N E L L O
MNE VIVUM EX OVO”, sentenziavano i contadini romani, seppellendo un uovo colorato di rosso nei loro campi. Prima di
loro, Persiani ed Egizi usavano scambiarsi le uova a inizio primavera. E ancora, secondo leggenda, Pietro ammonisce Maria Maddalena, incredula e felice nel vedere vuota la tomba del figlio:
«Crederò alla resurrezione se questo
cesto di uova diventerà rosso». Detto
fatto, un colore rosso sangue tinge indelebilmente i gusci, convincendo l’apostolo. Dall’uovo-gioiello commissionato al gioielliere Fabergè dallo zar Alessandro III per
l’amata Maria a quelli di cioccolato dei nostri giorni, cambia la materia prima, non la forma,
né il significato. Trasmigrato intatto dalla civiltà contadina a quella urbana, il rito propiziatorio legato al dono dell’uovo come simbolo di rinascita trova il suo momento di splendore
nella Pasqua, che non a caso cade invariabilmente tra il 25 marzo e il 25 aprile, la prima domenica seguente il Plenilunio dopo l’Equinozio di primavera.
Sono quaranta milioni le galline ovaiole allevate ogni anno in Italia, spesso alimentate Crudo, succhiato dal guscio bucato, per dare
con mangimi mediocri o pessimi, colorati forza. Alla coque o strapazzato, nella più inper dare l’illusione del tuorlo aranciato che glese delle colazioni. Senza uova, niente mefa tanto salubre, costrette in spazi vergo- ringhe né crema pasticcera, niente pastiera
gnosi camuffati da diciture che nulla garan- e pochi dolcetti. Protagoniste solitarie o intiscono, a partire dal cosiddetto allevamen- gredienti di una ricetta, ne mangiamo 14 mito a terra. Una situazione degradata, aggra- liardi l’anno, quasi 14 chili a testa. Quindi
vata dalla successione degli allarmi — l’ulti- meglio sceglierle con attenzione. Mai come
mo poche settimane fa — sulle contamina- in questo caso, i numeri contano: lo zero cerzioni da diossina e policlorobifenili. Ma an- tifica la provenienza da agricoltura biologiche il coté gastronomico soffre. Le uova ca, il numero uno l’allevamento all’aperto, il
sanno di poco, la maionese stenta a crescere, due quello a terra (il tre, cioè da galline in
lo zabaione abbisogna di Marsala in quan- gabbia, è scomparso perché la pratica è vietità per rilevare il sapore, e in quanto alle frit- tata dal 2012, pur con residui di illegalità).
Se volete scoprire le magìe dell’uovo cottate, i consigli televisivi sono avvilenti («Se
la vostra frittata sa di poco, aggiungete un to a bassa temperatura, andate da Èvviva, il
pezzo di dado!»). Eppure, l’uovo è una risor- ristorante «a scarto zero» aperto a Riccione
sa straordinaria. Generazioni di bambini so- dal cuoco-pasticcere Franco Aliberti. Ve lo
no cresciuti con il suono del cucchiaio che servirà coperto di spuma di ricotta di bufala
batte contro la scodella per montare il tuor- calda e dadi di pane d’orzo. Il trionfo del vero
lo (sbattuto) o il bianco (resumada). Strac- uovo (a bagnomaria) di Pasqua.
ciato nel brodo per nutrire i febbricitanti.
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PAOLO PICCIOTTO
“O
La novità
Il napoletano Andrea Aprea,
cuoco stellato del «Vun»,
Park Hyatt Hotel di Milano,
ha appena lanciato
la sua versione
della pastiera pasquale:
sfera di zucchero soffiato ripiena
di spuma di ricotta, appoggiata
su biscotto di frolla, crema
di grano e gelato di canditi
Le migliori
Paolo Parisi alleva galline
in un bell’agriturismo
sulla collina alle spalle
di Livorno. Le sue “livornesi”
razzolano libere e il loro menù
viene arricchito con latte
di capra. Risultato: uova
dai tuorli cremosi e profumati,
adottate nelle cucine dei più
importanti ristoranti italiani
La ricetta
Zuppa di uovo e anice
con gamberoni del Mediterraneo
INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
4 GAMBERONI DEL MEDITERRANEO; 4 UOVA DI GALLINA BIO
PEPE DI MULINO; 1 DL. DI SAMBUCA MOLINARI
I pasticceri
Un trittico di talenti —
il cioccolatiere bellunese Mirco
Della Vecchia,
la pasticceria Giotto del carcere
di Pisa e l’Iila (associazione
delle coltivatrici di Stevia
del Paraguay) — per le uova
di Pasqua dolcificate in modo
naturale, senza aumentare
la glicemia e a calorie zero
Ho pensato a una ricetta semplice, dove l’uovo è protagonista.
Due possibilità: un amico fidato che alleva galline o la certificazione
biologica . Altra cosa importante: le uova devono sempre essere lavorate a temperatura ambiente. Ne prendo uno per commensale,
apro e divido il bianco dal rosso. I tuorli vanno sbattuti intimamente
ma non eccessivamente. Devono gonfiare senza montare. Quando
sono ben emusionati, si aggiunge a filo il bicchierino di Sambuca,
proprio come fosse una maionese, e si dà una mulinata di pepe, bella generosa. Anche i gamberoni richiedono attenzione: devono essere freschissimi,
lucidi e sodi, senza odori ammoniacali o parti scure.
Rigorosamente del Mediterraneo. Tolta testa e carapace, mantenuta la codina, si spadellano (se
possibile in un wok) rapidissimamente in olio
extravergine.
Il piatto è pronto: sotto la zuppetta, sopra il
gamberone. Nel bicchiere, il meraviglioso
sauvignon neozelandese Cloudy Bay.
LO CHEF
CULTURA
E TALENTO
MATURATI
IN FRANCIA, MARCO
FADIGA GESTISCE
CON LA MOGLIE
HÉLÈNE IL “MARCO
FADIGA BISTROT”,
A DUE PASSI
DAL TEATRO DUSE,
NEL CENTRO
STORICO
DI BOLOGNA.
I SUOI PIATTI
HANNO GUSTI
NETTI, MAI BANALI,
COME LA RICETTA
IDEATA
PER I LETTORI
DI REPUBBLICA
38
la Repubblica
DOMENICA 20 APRILE 2014
9
Se è nato
prima
il giallo
o la gallina
ricette
per
la festa
Casatiello
Pasqualina
All’interno trionfo
di uova lavorate
con prescinseua
(o ricotta),
Parmigiano
(o pecorino)
e bietole
spadellate,
adagiate crude
prima di chiudere
la sfoglia
e infornare
Impasto a doppia
lievitazione a base
di farina, strutto,
pepe nero,
pecorino
e Parmigiano
Sopra, uova crude
col guscio,
decorate
con striscioline
di pasta disposte
a croce
AZIENDA AGRICOLA
DELL’ERARIO
VIA LAMMIE
GESUALDO (AV)
TEL. 0825-401212
MARI N O N I O LA
Scarcella
Uova intere
nella decorazione
della ciambella
intrecciata,
impastata
con olio e latte
Dopo la cottura,
colata di glassa
preparata
con albume,
limone
e zucchero a velo
PANIFICIO FIORE
STRADA PALAZZO
DI CITTÀ 38
BARI
TEL. 080-5236290
BIOAGRITURISMO
LA TEGLIA
VIA PALESTRO 10
COSIO DI ARROSCIA (IM)
TEL. 347-9304695
Asparagi
Bismark
Tajarin
Quaranta tuorli
per kg di farina
Sfoglia sottile
fatta asciugare,
avvolta su se
stessa e tagliata
col coltello
in stringhe
finissime:
un minuto
di cottura, poi
burro d’alpeggio
Cotti in verticale
per preservare
le punte
Uova fritte,
prima il bianco,
salare,
poi appoggiare
il rosso pochi
secondi. Sul piatto
asparagi, uovo
e burro fuso
CASCINA MONETA
VIA MONETA 54
CARBONATE (CO)
TEL. 0331-833213
Colomba
Ben quattro
lievitazioni
per il dolce
preparato
con farina,
zucchero, burro,
tuorli e scorze
candite d’arancia
Sopra, glassa
d’albume,
zucchero e farina
di mandorle
PASTICCERIA BESUSCHIO
PIAZZA MARCONI 59
ABBIATEGRASSO (MI)
TEL. 02-94966479
BIOAGRICOLA
SILVANA&ROBERTO
VIA GIBELLINI 18
PECETTO (TO)
TEL. 011-8609945
Titole
Mimosa
Pastiera
Frolla ripiena di ricotta,
grano bollito, acqua di fiori
d’arancio, uova e canditi
per l’antico dolce pasquale
napoletano
Uova rassodate,
tagliate a metà:
frullare il rosso
con tonno e pasta
d’acciughe e poi
montare con l’olio
a filo. Riempire
i bianchi
con la farcia,
decorare
con erba cipollina
PODERE FONTELISA
ZONA BESTIALE 3
LOCALITÀ MONTIANO
MAGLIANO
IN TOSCANA (GR)
TEL. 0564-589606
39
Dolci a forma
di bambole,
realizzate
con l’impasto
della pinza
— la focaccia
pasquale tipica
triestina
— disposto
a croce
e poi intrecciato
intorno a un uovo
sodo colorato
PASTICCERIA PENSO
VIA ARMANDO DIAZ
TRIESTE
TEL. 040-301530
Cioccolato
Fondente sciolto
a bagnomaria
a 45°C, mescolato
fino a 27°C,
poi di nuovo
a bagnomaria
fino a 32°C, colato
nelle due metà
dello stampo,
raffreddato
e unito con
cioccolato fuso
SAID ANTICA FABBRICA
DEL CIOCCOLATO
VIA TIBURTINA 135
ROMA
TEL. 06-4469204
UOVO ha una forma
perfetta nonostante sia
fatto col culo. Il paradosso
del grande designer
Bruno Munari dice tutto
sulla fortuna universale dell’alimento
simbolo della Pasqua. Dall’uovo cosmico
a quello di cioccolato il passo è
millenario ma obbligato. Perché niente
riesce a sintetizzare meglio la ciclicità
della vita. È come se la natura si fosse
fatta designer di se stessa. Fine e inizio,
morte e rinascita in una sola linea, senza
soluzione di continuità. Non a caso nel
mondo antico l’ingresso della
primavera veniva celebrato con il dono
delle uova. Era l’uscita dal letargo
invernale che legava uomini e dei,
animali e vegetali alla catena delle
generazioni. E delle rigenerazioni. Molte
divinità mediterranee, come Dioniso e
prima ancora le effigi megalitiche della
Grande Madre, venivano rappresentate
con l’uovo in mano, segno della
fecondità e del ritorno annuale alla vita.
Un’eredità fatta propria dal
cristianesimo che fa una sola cosa del
risveglio primaverile e della
resurrezione di Cristo. Tanto che nel
Medioevo Gesù che esce dal sepolcro
viene spesso paragonato a un pulcino
che esce dall’uovo.
Ecco perché il nostro menu pasquale è
così straripante di tuorli, albumi,
frittate, torte ripiene, ciambelloni,
pinze, focacce, colombe, farcie, cresce,
creme. È la cucina che passa un colpo di
evidenziatore sulla vita tingendosi di
giallo. In realtà dietro l’orgia proteica
pasquale e il conseguente picco di
colesterolo rituale, si nasconde
un’autentica santificazione delle uova.
Che in molte ricette devono essere a
vista e con tanto di croce sopra. Per
mettere in chiaro che si tratta di un
mangiare sacro. È la gola che diventa
devozione. E la digestione si trasforma
in una passione. Come i barocchi
casatielli partenopei, materializzazione
della cuccagna alimentare. O le
immaginifiche cuddure ccù l’ovu
siciliane, nonché i coccoi cun s’ou
monumento della gastronomia
popolare sarda. E le raffinate pasqualine
genovesi che guardano dall’alto in basso
le spocchiose quiches transalpine. E last
but not least la sontuosa pastiera
partenopea che al trionfo delle uova
associa quello delle messi, altro grande
simbolo vegetale delle religioni
mediterranee. Perché in ogni spiga
abitava quel dio che dorme sepolto in un
campo di grano. E che era pronto a
rivivere per diventare pane.
Trasformando, ora come allora, il rito di
resurrezione in una vitalissima sagra
della primavera.
L’
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 APRILE 2014
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L’incontro
In un altro Paese gli avrebbero chiesto di dirigere la Tv di Stato, qui
al massimo gli propongono nostalgiche rievocazioni. Lui non si
scompone: “Li capisco pure. Pensano che un vecchio di settantasei
anni non abbia più nulla da dire. Ma anch’io quand’ero giovane pensavo che i vecchi erano vecchi”. Dopodiché l’artista e talent scout
(“Ho fatto i calcoli: da Benigni in giù ne ho scoperti un centinaio”)
parla della moglie che non ha preziose, i ricci di Acitrezza, le fave bianche di Maglie, i granchi di New Orleans e
la carne dell’Argentina, il lampascione di non so quale Puglia: «I miei pusher non
fanno mancare nulla». A tavola ogni leccornia è nostalgia regale, bocconi di Luscongelati come Fazio a Sanremo scongelò le Kessler. Attorno microfoni, camai sposato, di capelli tinti, di in- micullo,
dillac, mille radio americane di plastica, cravatte, « simulacri di una vita sbriciolata in mille piccoli oggetti di feticismo, rarissime cianfrusaglie, da Cuba, da New
da Capo Verde…». Ci sono pure due pupazzi felicemente dissonanti: «Sotellettuali finissimi e alla fine an- Orleans,
no di Mariangela. Discretamente tengono banco e dirigono l’orchestra».
Oggi c’è un florido mercato del feticismo e casa Arbore somiglia all’Italia indi un passato che non riesce a diventare passato: «La Rai mi celebra ma
che di Dio: “Non sono più creden- gombra
non mi scrittura, e li capisco pure. Pensano che un vecchio di settantasei anni non
abbia più nulla da dire. Anche io quando ero giovane pensavo che i vecchi erano
vecchi». Si diventa vecchi quando non si improvvisa più? «Vedrà che qualcosa ci
te, diciamo speranzoso”
inventiamo, improvviseremo ancora, e non sarà nostalgia». In fondo lo temono
HO TANTA ENERGIA
NON MI SENTO
TRA QUELLI
DA RICORDARE
CON AFFETTO
LA CATEGORIA
DEI SOPRAVVISSUTI
È DIVERSA
DA QUELLA
DEI VIVENTI
POI LO SO
CHE SIETE TUTTI LÌ
A PRENDERMI
LE MISURE...
Renzo
Arbore
FRANCESCO MERLO
ROMA
C
ARO ARBORE, è Pasqua: Dio? «Ma come si fa a crederci?». E indica, al-
largando il braccio, tutti i disastri del buon Dio: «Sapevo che l’ingiustizia è un vizio umano. Mi disturba troppo doverla attribuire a Dio».
Anche «le sofferenze e la morte della moglie che non ho sposato», Mariangela Melato: «Non riesco a parlarne. Vede, devo voltarmi dall’altra parte. Diciamo che non sono più credente, ma forse … speranzoso». Se volete
capire la nostalgia che affligge e conforta «uno dei paesi più vecchi del mondo» dovete pensare a lui come all’uomo-simbolo di una bella Italia che non c’è più e al tempo stesso misurare l’ardore con il quale a settantasei anni vorrebbe stanare un’altra Italia che non riesce ad esserci: «Bighellono per teatri, ma trovo sempre meno
artisti, meno improvvisatori». Forse non li vede, magari perché è cambiato il codice? «Èvero che è cambiato. Hanno tutti bisogno del copione. E l’umorismo è quasi sempre pesante e spesso direttamente politico. Ma io credo che si possa ancora
divertirsi con l’allusione e con la leggerezza». Cosa salva la sua famosa notte dalla malinconia? «Rido di me, prima degli altri». E difatti sul palcoscenico del Sistina ho visto Arbore mostrare al pubblico i suoi capelli tinti: «Nel mondo dello spettacolo lo facciamo tutti». Ha esibito l’età: «So che siete tutti lì a prendermi le misure: “vediamo come si mantiene Arbore”». E le debolezze sono vezzi: «Mi sono
iscritto ad Amnesy International. A De Crescenzo, che ne è presidente, ho chiesto: alla tua età ti piacciono ancora le donne? E lui: moltissimo, ma non ricordo
perché».
Il suo amatissimo faccione ridente, che gli anni hanno lavorato, celebra o
promette? Di sicuro la sua casa giocherellona non è più così eversiva: «Questi mobili stile Miami, gli oggetti dell’America degli anni Quaranta e Cinquanta, tutto quello che vede nacque come reazione ai mobili pesanti della
BIGHELLONO PER TEATRI, MA TROVO SEMPRE MENO
IMPROVVISATORI. L’IMPROVVISAZIONE NON È
UN DISVALORE ITALIANO, NON È IMPREPARAZIONE
NÉ INCOMPETENZA, È JAZZ: LA CONVERSAZIONE
AL POSTO DELLA SCENEGGIATURA
mia giovinezza, i salotti in legno della borghesia. Facevo lo sberleffo
a quel mondo soffocante con le tappezzerie nascoste alla luce che
neppure il ‘68 riuscì a mandare per aria, ma la mia televisione forse sì». E adesso invece «non riesco a liberarmi degli oggetti che ho
collezionato. Sono preziosi e hanno un mercato importante, ma
io no so più dove metterli. Lo so cosa pensa: Arbore voleva liberarsi e liberarci da quelle cose e si è imprigionato e ci ha imprigionato in
queste altre». Apre un armadio e cade di tutto, anche gli occhiali di Elton John. Parliamo allora dei soldi: «Quelli che ho impiegato meglio sono quelli che ho sprecato». Anche nel frigo ci sono esemplari di specie
come ai tempi di Alto Gradimento, e infatti lo chiamano per ri-fare e mai per fare..., è la ri-Italia del bel tempo andato. Come se Arbore non potesse più scoprire
talenti ma solo rivendicare quelli che ha scoperto, da Benigni in giù: «Un centinaio». E quei sacerdoti del Nostos che, come Bruno Vespa, ri-festeggiano ogni giorno la Rai democristiana, ancora lo ignorano; mentre gli altri, quelli che furono alternativi, sognano un “tutti per Arbore e Arbore per tutti”: «Rischieremmo di guastare la memoria. E tanti, giustamente, non verrebbero». In un altro Paese gli
avrebbero almeno chiesto di salvare la Radio di Stato, che non è più sintonizzata
con l’Italia, di organizzare una Rete tv, di dirigere la Rai, da artista e da impresario. Qui non gli offrono nemmeno un trasmissione tutta nuova. «Di sicuro io ho tanta energia, e non mi sento ancora tra quelli che bisogna “ricordare con affetto”. La
categoria dei sopravvissuti è diversa da quella dei viventi».
Alla storia dell’improvvisazione non ho mai creduto: il dottor Arbore ha una rara proprietà di linguaggio, è un lettore di libri raffinati, si informa con cinque giornali al giorno. E’, senza paradossi, l’erede scanzonato dei grandi liberali meridionali — napoletani non di nascita — anticomunisti e mai di destra, un notabilato
speciale che non è solo Croce e Salvemini: «Ancora oggi se penso alla Napoli di Ansaldo mi emoziono. E mia madre era una Cafiero».
Dice, con ironia fosforescente, di sentirsi «più un tu vo fa l’americano che un intellettuale finissimo», ma in realtà ha insegnato il sorriso ad almeno tre generazioni di intellettuali finissimi. Gioca con l’improvvisazione come Umberto Eco gioca con la goliardia. «Eco mi laureò in goliardia a Bologna, nell’aula magna: “il suo
clarinetto — cominciò — è un classico del doppio senso”. E io: “anche il suo pendolo, che va di qua e di là perché non ce la fa”. E poi feci ai professori una domanda di
italiano: “che tempo è sarebbe stato perduto?” Lei lo sa?». Pasticcio con i trapassati: «No. È preservativo passato» . Scusi Arbore, l’improvvisazione non è un disvalore italiano? «Improvvisatore non vuol dire impreparato e incompetente. È il
contrario». Radio e tv italiane sono piene di “arborini” arruffoni e volgari: le piacciono? «Per niente. L’improvvisazione che facciamo noi è quella del jazz: la conversazione al posto della sceneggiatura. Io parlo di un artista che conosce ed entra in un testo, ma si esprime solo quando esce da quel testo e improvvisa. In questa casa, io allenavo tutti a stare ciascuno dentro un personaggio predefinito. Frassica era il bravo presentatore, Marenco il bimbo dispettoso… Poi in trasmissione
stimolavo ed “attivavo” Benigni e per lui diventava impossibile non improvvisa-
CREDO PERSINO ALLA RINASCITA
DEL NOSTRO SUD. LO SA CHE C’È UN SUD
DOVE MAFIA E CAMORRA NON ENTRANO?
A TAORMINA NON C’È LA MAFIA. A ISCHIA,
AMALFI, RAVELLO NON C’È CAMORRA
re. E, come nel jazz, ci vuole anche la complicità di chi ascolta». Non sempre è compatibile con l’audience. «Il mio slogan è sempre stato “meno siamo e meglio stiamo”». Per la verità ha riempito il Sistina come nessuno quest’anno e tutti in piedi
cantavano in coro «ohi vita, ohi vita mia».
La canzone italiana esiste ancora? «Vorrei proporre al ministro Franceschini
un piano per rilanciare la canzone italiana nel mondo». Non basta l’orrore di Sanremo? «Sanremo, da tempo, non è la canzone italiana. Perciò mi sono sempre rifiutato di presentarlo. Ma ci sono melodie bellissime, di Gaber, Dalla, De André, Paoli, De Gregori che potrebbero farcela nel mercato americano». Beh,
se non ce l’hanno fatta da sole. L’espressione “made in Italy” non le fa venire l’orticaria? «Èbrutta. Rivendica l’italianità in inglese». Come le spingule francesi, le spille da balia, di origine americana, che furono riverniciate a Napoli di francese. «È provincialismo. Meglio sarebbe “gusto italiano”. Ma sa, io sono un patriota, forse l’ultimo». Mi mostra, al capezzale del suo letto, «il ritratto di famiglia degli italiani: Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele». Allora a Franceschini proponiamo il Risorgimento della canzone con il rock made in
Italy, suoni già suonati, uno scimmiottamento di ritorno?
«No. Ci sono le nostre melodie e nel jazz siamo i più bravi del
mondo; lo sa che il jazz è nato in Italia, grazie al siciliano Nick
La Rocca?». Sarà vero filologicamente. Nell’Enciclopedia
Britannica c’è scritto che lo champagne è nato in Inghilterra. Ma lo champagne rimane francese e il jazz americano. E
però Arbore crede davvero che, anche grazie al jazz, possa rinascere il nostro Sud: «C’è un sud dove la mafia e la camorra
non entrano». Per esempio? «A Taormina non c’è la mafia. A
Capri non c’è la camorra. A Ischia, ad Amalfi, a Ravello… La camorra si ferma a Castellamare». Disarmati dalla bellezza?
«Non lo so. Forse hanno soggezione. Potremmo ripartire da lì.
Ma non diciamolo. Se no, anche questa volta, arriveranno prima di noi».
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