Mercoledì 29 febbraio 2012
Milano – Teatro Stella (Parrocchia dei Quattro Evangelisti)
Itinerario biblico / 7
LA GENEALOGIA DI DAVIDE
Rut 4,13-22
don Matteo Crimella
0. Introduzione
Il racconto di Rut termina con l’unione fra la donna e Booz (4,13-17). Al
racconto stringato del matrimonio e della nascita del figlio maschio (4,13) segue
un discorso delle donne di Betlemme a Noemi (4,14-15). Il narratore informa
che Noemi fece da nutrice al bambino (4,16); poi le donne intervengono di
nuovo (4,17). Infine v’è la genealogia del re Davide (4,18-22).
1. Il Signore dona
Risolta la questione fra Booz e l’anonimo parente (4,1-12) ha luogo il
matrimonio. Il narratore ha dedicato molto spazio all’incontro fra il ricco
possidente e la donna moabita durante la notte, come pure ha dato largo risalto
alla discussione fra Booz e il parente presso la porta della città; ora invece, in
poche battute, sintetizza molti avvenimenti: il matrimonio, il concepimento, la
nascita del bambino. Più di nove mesi sono compressi in un solo versetto.
Il Signore, che ha donato pane al suo popolo (1,6), ora dona a Rut di
concepire e di far nascere un figlio (4,13). Sono gli unici due passaggi del libro
nel quale Dio è attore della storia. Se però la notizia iniziale (1,6) era filtrata
dalla percezione di Noemi (era la donna che aveva sentito dire nei cambi di
Moab…), quest’ultima notizia (4,13) è invece offerta dal narratore, fonte sicura e
affidabile. Due sono le conseguenze. Anzitutto il narratore assicura al lettore
che niente di ciò che è stato percepito e vissuto nella fede è stato vano: il Dio che
ora dona a Rut di concepire un figlio è lo stesso che diede il pane, come riteneva
Noemi all’inizio della vicenda. Ma in questo modo le due mancanze che
caratterizzavano l’inizio della vicenda, cioè la fame e l’assenza di una
discendenza, trovano una soluzione proprio a partire dall’intervento di Dio.
Tale intervento, tuttavia, si è manifestato proprio per mezzo di una catena di
gesti delle persone: Booz ha dato l’orzo a Rut (3,17); Booz poi ha preso Rut in
sposa e, grazie a ciò, il Signore le ha dato una gravidanza (4,11-12).
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2. Un riscattatore
La notizia del matrimonio e della nascita del bambino (4,13), pur essendo lo
scioglimento dell’intera complicazione, tuttavia non rappresenta la fine della
storia. Al contrario è un nuovo inizio che conduce ad una conclusione inattesa e
sorprendente. Il narratore, come abbiamo già notato, interviene sia per
annunciare il matrimonio e la nascita del figlio, sia per ricordare che Noemi
«prese il bambino, se lo pose in grembo e gli fece da nutrice» (4,16). Avviene un
duplice passaggio: Rut è “presa” da Booz e diviene sua moglie, permettendo al
Signore di darle un bambino. Poi il bambino passa a Noemi che lo “prende” e
diventa la sua nutrice, mentre le vicine gli danno un nome. Inquadrata in queste
affermazioni del narratore v’è il discorso delle donne di Betlemme (4,14-15). Per
tre volte ripetono a Noemi quanto è successo e precisano che tutto ciò è «per
te»: “per te” è sorto un riscattatore (4,14), egli sarà “per te” il sostegno della
vecchiaia (4,15), il figlio è stato partorito “per te” dalla nuora che ti ama (4,15).
La corale esultanza delle donne funziona da controcanto alle parole
disperate che Noemi aveva rivolto alle sue nuore all’inizio del racconto (cfr.
1,11-13). Quando poi Noemi era tornata dai campi di Moab reagiva con forza
contro le donne di Betlemme che la riconoscevano («Ma questa è Noemi», 1,20),
urlando contro l’Onnipotente tutta la sua amarezza perché l’aveva fatta tornare
vuota (1,20-21). A quelle parole disperate le donne di Betlemme non avevano
risposto; ora invece le stesse donne esprimono la loro gioia per mezzo di una
benedizione. Il triste passato di Noemi scolora e si profila un futuro colmo di
speranza.
La benedizione delle donne è giocata su un singolare quiproquo. Esse
infatti benedicono il Signore perché “oggi” le ha donato un go’el, cioè un
riscattatore (4,14). Il lettore pensa subito a Booz; quando poi le donne
aggiungono che «il suo nome sarà ricordato in Israele» (4,14) e affermano che
egli «sarà il tuo consolatore» (4,15), l’impressione che si parli di Booz trova
conferma. La benedizione però continua e il prosieguo del discorso non lascia
dubbi: colui di cui si parla non è Booz ma il bambino nato da Rut. In altre
parole: questo finale a sorpresa raddoppia il riscattatore. Il go’el di Rut è Booz,
ma il bambino è il go’el di Noemi, colui che le dona vita, consolazione e
sostegno.
3. Tornare
V’è un altro segnale che collega il finale e il principio della narrazione,
mostrando il capovolgimento della drammatica situazione iniziale: è l’uso del
verbo tornare (šûb) che nel libro ricorre per ben quindici volte. Noemi si
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presentava amareggiata perché il Signore l’aveva fatta tornare vuota (1,21); ora
invece le donne si rallegrano con lei perché il figlio di Rut è il suo consolatore
(letteralmente: “uno che fa tornare la vita”, 4,15). Altro compito del bambino è
quello di sostenere la donna, cioè di provvederle il cibo. Noemi che ha provato
lo spettro della fame sarà sostenuta nel tempo della sua vecchiaia proprio dal
nipote che le assicurerà il nutrimento, cioè la vita.
L’attenzione riservata a Noemi sembra trascurare Rut. Colei che aveva
lasciato la sua terra per seguire la suocera era già stata dimenticata da Noemi
nel momento in cui le due donne erano giunte a Betlemme: in quell’occasione la
suocera piangeva i suoi mali senza spendere nemmeno una parola in favore
della nuora (1,20-21). Le donne di Betlemme, invece, trovano le parole giuste
per definire quanto la Moabita ha fatto per la suocera betlemmita: Rut ama
Noemi (4,15). Le donne hanno compreso che alla radice delle scelte di Rut v’è
un profondo amore nei confronti di Noemi. Inoltre affermano che quella nuora
per lei è meglio di sette figli (4,15). In una società nella quale il maschio vale più
della ragazza, un simile paragone nei confronti di una nuora straniera è la lode
più grande che si possa immaginare.
4. È nato un figlio a Noemi
Pare quasi che sia Noemi a diventare la madre del bambino: se lo pone in
grembo e ne diventa la nutrice. La donna che aveva perso i suoi figli (1,5), ora
ha un bambino sul suo grembo (4,16) – sul suo grembo e non nel suo grembo –
al punto che le vicine esclamano: «È nato un figlio a Noemi!» (4,17), mentre è
chiaro che il Signore ha dato un figlio a Rut (4,13). «Noemi riceve una nuova
vocazione. Assicurata in tal modo della presenza affidabile di Dio, della quale
la donna aveva in precedenza dubitato, adesso accetta di prendersi cura di chi
nel futuro si prenderà cura di lei, provvedendo al suo sostentamento e
restituendo vitalità alla sua vita» (Scaiola).
Al bambino il nome viene imposto dalle donne di Betlemme, cosa
abbastanza strana. È chiamato Obed, cioè «colui che serve». Nel suo nome v’è il
suo compito: egli dovrà servire Noemi in quanto go’el. Ma nel suo nome v’è
pure un riflesso di quanto ha fatto sua madre nei confronti di Noemi ed è pure
anticipato quello che farà il suo discendente, il re Davide, ovverosia servire
Israele.
La storia termina allargando gli orizzonti verso il futuro. La narrazione
non riguarda più una sola famiglia, i suoi mali e il capovolgimento delle sue
sorti, bensì la storia di un popolo che nel re Davide ha un rappresentante di
riguardo. Il lettore, a questo punto, comprende il più ampio disegno celeste:
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Dio, prendendosi cura di queste due donne e della loro particolarissima vicenda
di sofferenza, rivolge la sua attenzione a tutto il popolo d’Israele.
In un tempo in cui la visione ideologica di Esdra e Neemia imponeva
norme molto severe a proposito dei matrimoni con donne straniere (cfr. Esd 910; Ne 13,23-27), questo aureo libretto mostra che la bisnonna di Davide è una
donna moabita. In realtà questo modello sembra essere abbastanza consolidato
nella tradizione biblica. Giuseppe, infatti, ebbe due figli da Asenat, figlia di
Potifera, sacerdote egiziano (cfr. Gen 41,50-52). Giacobbe poi riconobbe quei
due figli come suoi (cfr. Gen 48,5) e il più piccolo, Efraim, divenne l’antenato
della dinastia d’Israele. Giuda poi generò Peres da Tamar, una donna
probabilmente cananea (cfr. Gen 38,6.29). Il libro di Rut, cioè, ha una forza
polemica di notevole spessore. Mostrando però che dietro questa vicenda v’è
un duplice intervento di Dio che dona pane (1,6) e assicura una discendenza
(4,13) il narratore, con grande discrezione, attribuisce proprio all’intervento
divino l’elezione di Davide: essa non è la conseguenza di abili mosse politiche e
militari, bensì frutto della scelta di Dio che opera nella storia grazie alla fede di
persone semplici e di nessuna importanza.
5. La genealogia
Il libro si era aperto ricordando dieci anni di permanenza nella terra di Moab; il
libro si chiude citando dieci generazioni fino al re Davide. La morte lascia
spazio alla vita, la disperazione cede il passo alla speranza, il triste passato si
apre ad un futuro radioso.
Le genealogie sono distanti dalla nostra sensibilità: a noi sembrano noiosi
e interminabili elenchi di nomi (si pensi a Mt 1,1-17). Nella Bibbia, invece, le
genealogie sono di primaria importanza. Gli autori biblici, infatti, attribuivano
alla discendenza una grande importanza e le genealogie ne sono la prova. Le
genealogie fondavano i rapporti fra le tribù, permettevano di risalire ai propri
antenati per rivendicare prerogative particolari, stabilivano legami tra membri
dello stesso gruppo sociale. Dopo la tragica esperienza dell’esilio gli Israeliti
non persero la coscienza di appartenere al popolo della promessa: fu allora che
tornarono in auge le genealogie. Esse permisero agli esiliati di ricongiungersi
nella terra promessa e di rinsaldare i legami con i loro antenati immediati ma
anche con i più lontani patriarchi. Dal punto di vista antropologico la
genealogia permette di stabilire una cronologia che passa attraverso la vita delle
persone; dal punto di vista teologico la genealogia pone in evidenza la
promessa divina che si compie proprio attraverso la successione di generazione
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in generazione. Dio, nonostante tutti gli sconvolgimenti della storia, continua a
guidare la trama della vita degli uomini.
Le dieci generazioni ricordate ci riportano a Peres, figlio di Giuda e di
Tamar, la cui vicenda è narrata nella Genesi (cfr. Gen 38,29). Si giunge infine al
re Davide: con lui si compie la promessa già fatta ai patriarchi. Nella
genealogia, al settimo posto, ritorna il nome di Booz. Non c’è né Elimèlec, né
Maclon, i due uomini di cui Booz doveva riscattare il nome. Il narratore registra
così il nome di colui che ha preso Rut come moglie e che, con lei, ha dato vita a
Obed. Tutto si realizza secondo l’augurio che gli anziani avevano rivolto a Booz
(cfr. 4,11-12). In questo modo due giusti, un “uomo di valore” proveniente da
Israele (2,1) e una “donna di valore” proveniente dalle nazioni (3,11)
s’incontrano e diventano tramite della promessa di Dio.
Matteo, nella sua genealogia, ricorderà sia il nome di Booz come pure il
nome di Rut (cfr. Mt 1,5). La donna moabita, insieme a Tamar, Racab, Betsabea
e Maria, entra nel novero di coloro attraverso cui la promessa di Dio giunge
sino a Gesù. L’appartenenza di Gesù al popolo ebraico è indubitabile ma fra i
suoi antenati vi sono donne straniere, a significare un’apertura universale che
anticipa il comando del Risorto di fare discepole tutte le nazioni (cfr. Mt 28,19).
6. Conclusione
Al termine del nostro itinerario dico qualche parola di conclusione. Questo
libretto breve, stringato, tutto incentrato sulla storia feriale di due donne,
lontano dalle grandi epopee del popolo d’Israele ha molto da dirci.
Oltre ad essere uno schiaffo all’ideologia di Esdra e Neemia,
sottolineando che proprio una Moabita è fra le antenate del re Davide, questo
libro ha un sottile ma importante valore teologico.
Il libro di Rut, infatti, spazza via ogni idea magica di Dio, accantona
qualsiasi enfasi su visioni, rivelazioni, comparse, voci notturne, manifestazioni
private. Come abbiamo visto tutto il racconto è costruito su un duplice pilastro:
il primo è la notizia della visita di Dio, filtrata dalla fede di Noemi (1,6); il
secondo è l’affermazione del narratore a proposito dell’intervento divino (4,13).
In mezzo nessun intervento di Dio, nessuna rivelazione, nessuna apparizione:
niente, solo le azioni degli uomini, il loro lavoro, i loro intrighi, le loro
debolezze, i loro slanci. In una parola: il racconto di Rut è la storia degli uomini:
scelte, azioni, crisi, fatiche, pensieri, idee, pianti, tristezze, soddisfazioni.
Detto in altre parole: è la storia il luogo dove riconoscere la presenza di
Dio. Questa affermazione per noi cristiani ha un’importanza fondamentale.
Perché Dio, creando, si è a tal punto legato con il mondo che, per poterlo
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vedere, non è solo impossibile slegarsi da esso, ma è doveroso riconoscere il
senso di questo legame. Gesù si è legato alla terra – fino a morire – e così
facendo riconosce e rivela il volto del Padre. Non dobbiamo cercare altro per
comprendere Dio se non di capire la nostra storia, il nostro tempo, la nostra
umanità.
Nel libro di Rut uomini e donne sanno leggere negli avvenimenti della
loro esistenza la rivelazione della bontà di Dio, la sua hesed. Il termine hesed
compare tre volte nel libro: 1,8; 2,20; 3,10. È un termine difficile da tradurre
perché significa al contempo “misericordia, bontà, amore, fedeltà”: nella sua
radice esprime “il radunarsi insieme per aiutare qualcuno”, quindi rimanda alla
reciprocità, al mutuo servizio, alla fraternità, alla fiducia, all’amore. Dunque
hesed ha tre caratteristiche: è un atto concreto, è un tipo di relazione, esprime un
atteggiamento costante. È bontà, benevolenza, favore, affidabilità. Ebbene: hesed
è quella di Rut quando sceglie di rimanere con Noemi, hesed è quando decide di
andare a spigolare, hesed è quella di Booz che riscatta la vedova straniera. Hesed
è la bontà. La bontà di Dio, la bontà degli uomini e delle donne che cambia la
sorte dell’umanità, non il destino.
Noi oggi non viviamo più l’epoca in cui ci sono persone contro Dio. I
tempi in cui si proclamava il proprio ateismo militante sono passati, travolti
dalla storia. Noi non siamo più in un’epoca contro Dio; siamo in un’epoca senza
Dio. Molte persone non hanno più le antenne per intercettare questa presenza,
occupate in altre faccende, distratte da varie sirene che si presentano sulla
spiaggia della vita. Proprio in questo tempo così triste («l’epoca delle passioni
tristi» l’hanno definito due attenti osservatori, Miguel Benasayag e Gérard
Schmit) noi cristiani abbiamo l’immenso dono di aver sperimentato la hesed di
Dio per noi in Gesù. Questa rimane la buona notizia capace ancora di fare
notizia. Un dono così grande non si può che condividere.
7. Una poesia per concludere
Vorrei terminare con il canto dello stupore, la poesia Nella moltitudine di
Wisława Szymborska1:
Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
come ogni caso.
In fondo avrei potuto avere
Wisława SZYMBORSKA, Attimo, a cura di Pietro MARCHESANI, Libri Scheiwiller, Milano 2009, 1921.
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altri antenati,
e così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.
Nel guardaroba della natura
c'è un mucchio di costumi:
ragno, gabbiano, topo di campagna.
Ognuno va subito a pennello
ed è portato docilmente
finché si consuma.
Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.
Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne una pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.
Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.
Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.
Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.
E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?
Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?
La sorte, finora,
mi è stata benigna.
Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.
Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.
7
Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.
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