Mercoledì 11 di gennaio 2012
Milano – Teatro Stella (Parrocchia dei Quattro Evangelisti)
Itinerario biblico / 1
IL ROTOLO DI RUT
Un’introduzione
don Matteo Crimella
0. Introduzione
Il libro di Rut è uno dei migliori esempi dell’arte narrativa biblica. La sua trama
propone una ben nota vicenda: la storia del matrimonio fra una ragazza povera
e un ricco possidente. Dall’antichità fino ai nostri giorni, decine sono i racconti
che ripercorrono quest’intreccio con infinite varianti. Ma il racconto di Rut ha
singolari e importanti dettagli: la donna è vedova e straniera, senza genitori, né
figli, né sostentamento. Non ci vuole molta fantasia per immaginare che il suo
problema è trovare un buon partito. In realtà la vicenda si complica a motivo
della suocera, Noemi, anch’ella vedova e senza figli, cioè priva di una
discendenza. Le vicende delle due donne s’intersecano, dando vita ad un
singolare e straordinario racconto. Alla fine Rut troverà in Booz un marito ricco
e generoso e Noemi vedrà una discendenza proprio grazie a Rut e Booz.
1. Un racconto ben strutturato
L’intreccio del libro di Rut assomiglia ad una pièce teatrale: un prologo, quattro
atti e un epilogo. La storia è costruita in modo simmetrico. Al centro vi sono
due incontri fra Booz e Rut: il primo avviene nei campi durante il giorno (2,123), il secondo si svolge presso l’aia di notte (3,1-18).
I due atti centrali sono preceduti e seguiti da episodi che occupano
ciascuno, curiosamente, diciassette versetti. Il primo episodio illustra
l’impossibilità di un matrimonio con un altro figlio di Noemi (1,6-22). Rut si
attacca a sua suocera e Noemi, tornata a Betlemme con la nuora, racconta alle
donne della città tutta la sua tristezza. Nel quarto episodio (4,1-17), invece, si
realizza lo scioglimento: le donne di Betlemme benedicono il Signore che ha
dato un riscattatore a Noemi. Nel primo e nel quarto atto vi sono pure altri due
personaggi: la cognata di Rut (Orpa) e l’anonimo parente di Elimèlec. Essi
interpretano un ruolo molto simile nelle due scene: ciascuno inizialmente è
pronto a compiere il proprio dovere familiare ma poi vi rinuncia. Orpa si alza
per seguire Noemi insieme a Rut ma poi torna a casa sua (1,14); così il parente
più prossimo dapprima è pronto a riscattare il campo di Noemi ma poi fa un
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passo indietro (4,8). Rut e Booz, al contrario, non si tirano indietro e rimangono
fedeli sino alla fine.
Il prologo del racconto (1,1-5) è una storia di morte: Elimèlec muore e
così i suoi figli Maclon e Chilion. L’epilogo (4,18-22), invece, è la genealogia del
re Davide, ovverosia un inno alla vita che continua. Inizio e fine sono
caratterizzati dal numero dieci: dieci anni Maclon e Chilion abitano nella terra
di Moab con Orpa e Rut; dieci sono invece le generazioni ricordate dalla
genealogia.
2. Un testo tardo
Nonostante la vicenda di Rut sia ambientata ai tempi dei giudici, prima di
Samuele, essa è stata redatta molto tardi. Gli esegeti hanno analizzato con
attenzione la lingua del libro, giungendo alla conclusione che esso, con tutta
probabilità (pur essendoci discussione a riguardo) è stato composto dopo
l’esilio (datato solitamente fra il 587/6 e il 538 a.C.) in un tempo in cui, forse, la
Torah (il Pentateuco) e i Profeti (corrispondenti più o meno ai libri storici e ai
libri profetici delle nostre Bibbie) erano già diventati canonici. Nella Bibbia
ebraica il libro è posto dopo i Proverbi (o dopo i Salmi), nella terza sezione,
detta “gli Scritti” (i ketubim). La Settanta, la versione greca della Bibbia, invece,
pone Rut fra il libro dei Giudici e il Primo libro di Samuele proprio perché il
racconto è ambientato nel tempo dei giudici e si conclude con le genealogia di
Davide. Solitamente le nostre edizioni della Bibbia seguono la Settanta. Ma, con
tutta probabilità, questa più comoda posizione del rotolo di Rut risulta essere
secondaria.
3. Un testo finemente polemico
Si comprende la forza del racconto di Rut confrontandolo con due altri libri
biblici, Esdra e Neemia. Quei testi ci offrono uno spaccato del ritorno dall’esilio
di Babilonia e della fondazione della teologia e della prassi dell’ebraismo
postesilico, detto poi “giudaismo”. Il filo rosso che attraversa quei racconti è
l’idea della sacralità: sacralità dello spazio, del tempo e pure delle persone. In
un’epoca di pluralità e pure di confusione, Esdra e Neemia intendono offrire
criteri oggettivi per definire i puri, ponendo un freno ad ogni infiltrazione e
diversità. Nasce cioè l’esigenza di costituire una “stirpe santa” (cfr. Esd 9,2). Da
qui l’invito di Esdra agli Israeliti: «Voi avete prevaricato sposando donne
straniere: così avete accresciuto le mancanze d’Israele. Ma ora rendete lode al
Signore, Dio dei vostri padri, e fate la sua volontà, separandovi dalle
popolazioni del paese e dalle donne straniere» (Esd 10,11). Esdra poi interviene
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su tutti i matrimoni misti (cioè le unioni fra Israeliti e donne straniere) e i figli
nati da essi: mogli e figli sono radiati dalla comunità dei puri. Basti ricordare
alcuni passi:
Terminate queste cose, sono venuti da me [Esdra] i preposti per dirmi: «Il
popolo d’Israele, i sacerdoti e i leviti non si sono separati dalle popolazioni
locali, per quanto riguarda i loro abomini, cioè da Cananei, Ittiti, Perizziti,
Gebusei, Ammoniti, Moabiti, Egiziani, Amorrei, ma hanno preso in moglie le
loro figlie per sé e per i loro figli: così hanno mescolato la stirpe santa con le
popolazioni locali, e la mano dei preposti e dei governatori è stata la prima in
questa prevaricazione» (Esd 9,1-2).
Neemia invece descrive quanto ha compiuto in questi termini:
In quei giorni vidi anche che alcuni Giudei si erano ammogliati con donne di
Asdod, di Ammon e di Moab; la metà dei loro figli parlava l’asdodeo, nessuno
di loro sapeva parlare giudaico, ma solo la lingua di un popolo o dell’altro. Io li
rimproverai, li maledissi, ne picchiai alcuni, strappai loro i capelli e li feci
giurare su Dio: «Non darete le vostre figlie ai loro figli e non prenderete le loro
figlie per i vostri figli o per voi stessi» (Ne 13,23-25).
Esdra fa preparare liste di proscrizioni con i nomi di coloro che avevano
contratto un matrimonio con una donna straniera: si tratta di un lungo ed
impressionante elenco (cfr. Esd 10,18-43). Il finale del libro ricorda l’esecuzione
del terribile ordine di Esdra: «Tutti questi avevano sposato donne straniere e
rimandarono le donne insieme con i figli» (Esd 10,44).
A fronte di questa ideologia che individua nell’esclusione delle donne
straniere la soluzione dei problemi in un tempo difficile, il libro di Rut appare
in tutta la sua forza polemica. Le posizioni reazionarie rappresentate dai libri di
Esdra e Neemia sono profondamente contrastate dall’esempio di una donna
moabita che la Legge considerava maledetta; costei è la bisnonna del re Davide.
4. Fra allusioni e riferimenti
Il libro di Rut, come ogni racconto, chiede che il lettore abbia alcune
competenze. La narrazione è ambientata al tempo dei giudici, evoca la legge del
levirato, suppone che si conosca la figura del go’el (o riscattatore), ricorda
l’antico rito del sandalo. Tutto ciò chiede al lettore moderno la pazienza dello
studio per comprendere usanze e tradizioni lontane e differenti dalla sua
cultura. Occorre cioè capire che cosa sia il levirato e il go’el, quale sia il senso del
rito del sandalo, etc.
Ma il racconto non evoca solo antichi costumi. Sua precipua caratteristica
è evocare testi e personaggi biblici. A questo proposito è necessario spendere
qualche parola. Quando infatti un testo (nel nostro caso il libro di Rut) evoca un
altro testo (passi della Genesi o di altri libri biblici) si tratta di capire qual è il
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nesso fra il testo d’arrivo (più recente) e il testo di partenza (più antico). Almeno
tre sono le modalità attraverso le quali un testo si riferisce ad altri testi: la
citazione, l’allusione e il riferimento.
La citazione è di norma introdotta da formule stereotipate («Come sta
scritto», «Dice il profeta», etc.): nel libro di Rut non ci sono citazioni.
L’allusione invece consiste nell’assunzione di un testo o di un’immagine
senza esplicitarne il ricorso. Questa tecnica opera almeno in due direzioni: in
primo luogo v’è una sorta di nascondimento in quanto il testo è in relazione
segreta con un altro testo; ma nel momento in cui il lettore, a motivo della sua
competenza, riconosce il nesso fra i due testi, ha inizio lo svelamento. Perché si
possa parlare di allusione sono necessarie corrispondenze verbali, qualche
pertinenza tematica o letteraria (sequenze narrative, struttura sintattica). Basti
un esempio. Quando Booz incontra Rut nei campi le dice: «Mi è stato riferito
quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito, e come hai
abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso gente che
prima non conoscevi» (2,11). L’affermazione dell’uomo richiama un famoso
passo della Genesi: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla
tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”» (Gen
12,1). Booz, parlando a Rut, allude alla chiamata che Dio ha rivolto ad Abramo:
il confronto del vocabolario lo mostra con chiarezza. Naturalmente occorrerà
interrogarsi sul senso di una simile allusione, mettendo in luce sì le somiglianze
ma pure le differenze delle due affermazioni.
Il riferimento invece è un esplicito rimando ad un avvenimento o ad un
personaggio. Anche qui basti un esempio. Quando gli anziani parlano a Booz
affermano: «La tua casa sia come la casa di Peres, che Tamar partorì a Giuda»
(4,12). Un simile auspicio evoca una vicenda del libro della Genesi, ovverosia la
nascita di Peres dalla singolare unione fra Giuda e la nuora Tamar (cfr. Gen
38,29). Anche a questo proposito sarà necessario comprendere il senso dei nessi
creati dai riferimenti.
5. Suspense e sorpresa
Bisogna però aggiungere ancora un’osservazione. L’evocazione di episodi e
personaggi biblici per mezzo della tecnica dell’allusione e del riferimento crea
nel lettore una certa attesa. Tale attesa è modellata proprio sulle vicende
raccontate nei testi di partenza. Il libro di Rut non raramente suscita un’attesa
ma poi la frustra per mezzo di una sorpresa che in realtà dà nuovo respiro al
racconto e apre orizzonti inediti. È il gioco fra suspense e sorpresa. Per suspense
s’intende l’attesa anticipata di un evento segnalato in precedenza attraverso una
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serie di indizi premonitori; la sorpresa, al contrario, riguarda un evento che, per
modo o contenuto, contraddice gli indizi premonitori. La narrazione di Rut si
pone in dialogo dialettico con altri testi biblici e sorprende con novità che non
appaiono essere solo narrative ma sono pure teologiche.
6. Un Dio assente?
Il lettore, abituato ai grandi racconti dell’Antico Testamento nei quali Dio
interviene nella vita degli uomini e del popolo d’Israele, rimane abbastanza
sorpreso nell’ascolto del rotolo di Rut. Se pensiamo ad Abramo, per esempio,
dobbiamo ammettere che Dio interviene spesso: gli comanda di lasciare la sua
terra (cfr. Gen 12,1-4), gli parla in visione (cfr. Gen 15,1-6), gli appare (cfr. Gen
17,1-8), dialoga con il patriarca (cfr. Gen 18,17-33), lo mette alla prova (cfr. Gen
22,1-2). L’epopea dell’Esodo, poi, vede tutta una serie di azioni celesti: Dio si
rivela a Mosè (cfr. Es 3,1-22), poi ordina a Mosè ed Aronne che cosa debbono
compiere di fronte al faraone (cfr. Es 7,8-9), li istruisce sul da farsi per lasciare
l’Egitto (cfr. Es 12,1-20), colpisce ogni primogenito d’Egitto (cfr. Es 12,29),
comanda a Mosè di stendere la mano sul mare perché si apra (cfr. Es 14,16) e
perché si richiuda sull’esercito del faraone (cfr. Es 14,26) e così via. Nulla di
tutto ciò nel libro di Rut: Dio non appare a nessuno, non parla direttamente ad
alcuno, non si rivela in sogno. La sua presenza è nascosta, velata dietro
l’intreccio delle azioni degli uomini e delle donne. Eppure, sembra suggerire il
rotolo di Rut, nello snodarsi delle vicende e nelle azioni dei personaggi del
racconto si realizza il disegno del Dio nascosto. Non si tratta di un caso isolato:
basti pensare alla vicenda di Giuseppe (Gen 37-50) e al rotolo di Ester.
Si tratterà di essere attenti alle modalità attraverso le quali il racconto
evoca o ricorda la presenza di Dio. Egli è colui di cui parlano gli uomini e le
donne: Dio è citato nelle sette benedizioni (cfr. 1,8-9; 2,4; 2,12; 2,19-20; 3,10; 4,1112; 4,14-15), è invocato nei giuramenti (1,17; 3,13), è al centro delle pesanti
accuse di Noemi (1,13; 1,20-21). Dio è pure riflesso nella percezione di Noemi:
alla fine del prologo, dopo che Elimèlec, Maclon e Chilion sono morti, il
narratore afferma: «Allora [Noemi] intraprese il cammino di ritorno dai campi
di Moab con le sue nuore, perché nei campi di Moab aveva sentito dire che il
Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli pane» (1,6). Dopo la tenebra della
carestia e della morte appare un raggio di luce; tale luce – la visita di Dio al suo
popolo – tuttavia, è riflessa nel prisma della percezione di Noemi. Solo alla fine
del racconto il narratore ricorda un intervento diretto di Dio: «Così Booz prese
in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un
figlio» (4,13).
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Inutile dire che tale presenza discreta è uno specchio formidabile per il
lettore credente di tutti i tempi. Egli, infatti, come i personaggi del rotolo di Rut,
invoca il Signore, lo benedice, in qualche occasione grida pure contro di lui. La
storia di quei personaggi diventa la sua storia. Tuttavia alla fine della vicenda
(4,13) il lettore viene a sapere, sorprendentemente, che il Signore è presente e
risponde a coloro che assumono il rischio della fede. Contro ogni tentazione di
fatalismo (“Non cade foglia che Dio non voglia”!) o di rassegnazione (v’è un
“destino” scritto da sempre!) il libro di Rut mostra che la volontà di Dio si
intreccia con le scelte degli uomini. V’è un legame inscindibile fra la potenza
della grazia celeste e la libertà delle persone che, in vari modi, rispondono alla
chiamata di Dio. Anzi, proprio riconoscendo questo indissolubile legame, è
possibile reperire l’opera di Dio nella storia degli uomini.
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Mercoledì 25 gennaio 2012
Milano – Teatro Stella (Parrocchia dei Quattro Evangelisti)
Itinerario biblico / 2
UNA STORIA DI MORTE
Rut 1,1-5
don Matteo Crimella
0. Introduzione
L’inizio del rotolo di Rut offre al lettore alcuni dati a proposito del tempo, dello
spazio e dei personaggi. Quando avviene la vicenda? Dove si svolge? Chi sono
gli attori della narrazione? In quella che viene chiamata l’esposizione, cioè il
prologo del racconto (1,1-5), il narratore fornisce alcune informazioni
fondamentali che permettono di inquadrare la vicenda.
1. Il tempo dei giudici
Il racconto è collocato nel passato, in un lungo periodo non precisato, quello dei
giudici. Il riferimento a quell’epoca rimanda all’omonimo libro e ad un tempo
caratterizzato dall’allontanamento dal Signore. Nonostante interventi continui
da parte di Dio, il popolo non smette di peccare, preferendo gli idoli Baal e
Astarte al Signore. All’inizio del libro dei Giudici il narratore ricorda una
costante di quel periodo: il popolo pecca servendo altri dei e abbandonando
Yhwh; a ciò segue l’oppressione da parte dei popoli vicini, cui Israele non è in
grado di tener testa. Quando l’oppressione diventa insopportabile il popolo
invoca Dio e il Signore fa sorgere un giudice che salva Israele dai nemici. Alla
morte del giudice tutto torna come prima: il popolo continua a peccare e non
desiste dalla sua condotta ostinata. È sufficiente riascoltare il racconto:
Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal;
abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra
d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti: si prostrarono
davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono
Baal e le Astarti. Allora si accese l’ira del Signore contro Israele e li mise in
mano a predatori che li depredarono; li vendette ai nemici che stavano loro
intorno, ed essi non potevano più tener testa ai nemici. In tutte le loro
spedizioni la mano del Signore era per il male, contro di loro, come il Signore
aveva detto, come il Signore aveva loro giurato: furono ridotti all’estremo.
Allora il Signore fece sorgere dei giudici, che li salvavano dalle mani di quelli
che li depredavano. Ma neppure ai loro giudici davano ascolto, anzi si
prostituivano ad altri dèi e si prostravano davanti a loro. Abbandonarono ben
presto la via seguita dai loro padri, i quali avevano obbedito ai comandi del
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Signore: essi non fecero così. Quando il Signore suscitava loro dei giudici, il
Signore era con il giudice e li salvava dalla mano dei loro nemici durante tutta
la vita del giudice, perché il Signore si muoveva a compassione per i loro gemiti
davanti a quelli che li opprimevano e li maltrattavano. Ma quando il giudice
moriva, tornavano a corrompersi più dei loro padri, seguendo altri dèi per
servirli e prostrarsi davanti a loro: non desistevano dalle loro pratiche e dalla
loro condotta ostinata (Gdc 2,11-19).
Quest’epoca è caratterizzata dalla violenza e termina nella più totale anarchia:
le tribù di Giacobbe si fanno guerra e si dividono le une contro le altre.
In un quadro così oscuro il sopraggiungere della carestia non è casuale.
Nell’orizzonte teologico del libro dei Giudici il flagello della fame è da collocare
all’interno di quelle calamità che conseguono alle colpe d’Israele, divenendo un
appello esplicito alla conversione.
2. La carestia
La carestia è un motivo ben noto nei testi della Scrittura. Essa è causata dalla
siccità (Gen 41,27), dalla guerra (2 Re 6,24-25), dall’invasione delle cavallette
(Am 4,9-10). La narrazione non fa parola sulle cause della carestia, piuttosto
intende evocare la vicenda di Abramo e di Isacco. Infatti anche ai loro tempi
«avvenne una carestia nel paese» (Gen 12,10; 26,1). Il racconto di Rut inizia ad
intrecciarsi col racconto dei patriarchi non senza conseguenze. La carestia,
infatti, «nonostante le apparenze tragiche, fa progredire il progetto di Dio»
(Scaiola): Abramo andò in Egitto e Isacco si recò dai Filistei, sperimentando la
protezione di Dio. Al loro ritorno, finito il tempo della fame, essi erano più
ricchi di prima. Pure Giacobbe scese in Egitto, dove già si trovava Giuseppe e là
conobbe ricchezza e benedizione. Interessante è l’interpretazione del Targum
(un’antica traduzione aramaica di Rut):
Dieci pesanti carestie furono decretate dai cieli perché accadessero nel mondo
dal giorno in cui il mondo fu creato fino a che verrà il re Messia, per ammonire
con esse gli abitanti della terra. La prima carestia fu nei giorni di Adamo (cfr.
Gen 3,17), la seconda carestia nei giorni di Lamech (cfr. Gen 5,29), la terza
carestia nei giorni di Abramo (cfr. Gen 12,10), la quarta carestia nei giorni di
Isacco (cfr. Gen 26,1), la quinta carestia nei giorni di Giacobbe (cfr. Gen 45,6), la
sesta carestia nei giorni di Booz (cfr. Rt 1,1) che era chiamato Ibsan il pio da
Betlemme di Giuda, la settima carestia nei giorni di Davide re di Israele (cfr. 2
Sam 21,1), l’ottava carestia nei giorni del profeta Elia (cfr. 1 Re 17,1), la nona
carestia nei giorni di Eliseo in Samaria (cfr. 2 Re 6,25), la decima futura carestia
non sarà la fame di mangiare pane e non sarà la sete di bere acqua, bensì di
ascoltare una parola di profezia da parte di Yhwh (cfr. Am 8,11) (1,1).
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3. Emigrò da Betlemme
In questo contesto il principio del libro sottolinea per ben due volte che
Elimèlec lascia Betlemme, Bet-Lechem, la «casa del pane», per rifugiarsi nelle
campagne di Moab (vv. 1.2). A fronte della carestia l’uomo, invece d’intendere
l’appello di ritornare al Signore, va all’estero. L’abbandono di Betlemme per
rifugiarsi nei campi di Moab evoca, ancora una volta, il libro dei Giudici.
Allorché «non c’era un re in Israele» (17,6; 19,1), in un tempo di grande
confusione, il narratore racconta due episodi segnati dal motivo dell’abbandono
di Betlemme.
Il primo racconto ha per protagonista un Levita: un «uomo era partito
dalla città di Betlemme di Giuda, per cercare una dimora dovunque la trovasse.
Cammin facendo era giunto sulle montagne di Efraim» (17,8). Là si era posto al
servizio dell’idolo di Mica per poi sottrarre la statua della divinità per conto dei
Daniti.
Anche il secondo racconto ha per protagonista un Levita di Efraim che
cerca la sua concubina a Betlemme di Giuda. La donna è violentata a morte
durante il viaggio e l’incidente sarà la causa della guerra fra le tribù israelite
(cfr. Gdc 19-21).
Queste vicende fanno parte del bagaglio di conoscenze del lettore. Ne
consegue che la menzione del viaggio di allontanamento di Betlemme è
finemente ironica: si lascia Betlemme per sfuggire alla carestia e alla morte,
dunque per vivere; in realtà non si sfugge alla morte!
4. I campi di Moab
Elimèlec si reca nei campi di Moab, ovverosia nel territorio abitato dai Moabiti.
Le origini dei Moabiti, secondo la Bibbia, risalgono all’incesto tra le figlie di Lot
e il loro padre (cfr. Gen 19,30-38). Non bisogna poi dimenticare che durante il
cammino verso la terra promessa, i Moabiti si erano opposti al passaggio
d’Israele (cfr. Nm 21,21-24) e avevano inviato il veggente Balaam per maledire il
popolo (cfr. Nm 22,1-6). Inoltre le figlie di Moab avevano spinto Israele
all’idolatria, provocando la collera di Dio (cfr. Nm 25,1-5). Per questa ragione
Mosè ha escluso categoricamente che i Moabiti potessero entrare a far parte del
popolo d’Israele. Afferma il Deuteronomio:
L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno
dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità
del Signore. Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane
e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto, e perché, contro
di te, hanno pagato Balaam, figlio di Beor, da Petor in Aram Naharàim, perché
ti maledicesse (23,4-5).
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Il lettore, che ricorda la vicenda biblica, apprende la notizia del trasferimento di
Elimèlec in terra moabita non senza stupore. Se la Torah è così dura e
determinata nei confronti dei figli di Moab perché Elimèlec si reca in quel
territorio? A dispetto del suo nome che proclama la regalità di Dio, Elimèlec
sembra pronto a tutto pur di sfuggire alla fame. Risulta allora sorprendente che
quell’uomo trovi la morte nella terra di Moab? Da quella terra, in realtà, verrà la
vita con Rut la Moabita.
5. I nomi
Nel libro di Rut i nomi propri sono indicativi del ruolo e del destino dei
personaggi. Elimèlec significa “Il mio Dio è re”: tale nome pare essere in
contraddizione con la scelta dell’uomo che abbandona Betlemme per la terra di
Moab. Anche i suoi figli hanno nomi simbolici. Maclon molto probabilmente
significa “essere malato”, “essere debole”, mentre Chilion “essere stanco”,
“essere debilitato”. Nei nomi i due uomini hanno il segno della loro fragilità che
li conduce presto all’esito fatale. Noemi significa “dolce”, “piacevole”. I nomi
delle due donne moabite sono meno chiari. Secondo la tradizione ebraica Orpa
significa “nuca”, in quanto Orpa volta le spalle alla suocera; Rut invece
l’”amica”, la “vicina” o, forse, “consolazione”, “conforto”.
La tradizione ebraica ha largamente speculato sul significato del nome di
Rut, offrendo interpretazioni etimologiche fantasiose che tentano, tuttavia, una
riappropriazione simbolica della sua vicenda. Leggendo il suo nome al
contrario (le tre lettere ebraiche reš, waw e taw sono lette tor) si paragona Rut ad
una tortora (in ebraico tor); come la tortora è pura e quindi adatta per il
sacrificio sull’altare, così Rut è degna di entrare a far parte del popolo
dell’alleanza. Speculando sul valore numerico del suo nome (in ebraico ogni
lettera dell’alfabeto ha un valore numerico e le tre lettere che compongono il
nome Rut sono: reš = 200, waw = 6, taw = 400) si giunge a 606, coincidente col
numero dei comandamenti contenuti nella Torah, cui bisogna aggiungere i 7
comandamenti dati a Noè riguardanti anche i non-ebrei (in tutto sono 613). Nel
suo nome la donna ha iscritto il numero dei comandamenti che accetterà nel
momento della sua conversione al Dio d’Israele. Infine leggendo il nome di Rut
al contrario e aggiungendo la lettera he (la lettera che rappresenta Dio) si ottiene
Torah: la donna si è convertita (è cioè tornata) e si è attaccata a Dio.
6. Matrimoni con donne straniere
Dopo la morte di Elimèlec la moglie Noemi diventa il perno della famiglia. Il
matrimonio dei suoi figli con donne moabite è indicato per mezzo di
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un’espressione singolare: essi «alzarono per sé mogli moabite»; si tratta di
un’espressione rara, meno usuale di “prendere moglie”. Tuttavia una simile
espressione ricorda i passi dei libri di Esdra e Neemia (Esd 9,2.12; 10,44; Ne
13,25) dove, per mezzo dello stesso verbo, sono descritti i matrimoni con donne
straniere, in particolare moabite, unioni proibite da una legge (cfr. Dt 7,1-4) che
Esdra e Neemia cercheranno di far applicare a tutti i costi. Ne consegue che i
matrimoni dei figli di Noemi hanno qualcosa di irregolare. Così si esprime il
Targum: «Essi trasgredirono il decreto della parola del Signore e si presero in
moglie donne straniere dalle figlie di Moab» (1,4).
Anche Maclon e Chilion muoiono. Tuttavia la morte dei due uomini non
sembra essere stata provocata dai loro matrimoni, quanto piuttosto dalla scelta
di abitare dieci anni in quella terra, prolungando il peccato del padre. Alla fine
scampa la sola Noemi, chiamata qui semplicemente «la donna» (1,5), quasi a
dire che non è più né sposa né madre. Il narratore, che precedentemente aveva
parlato dei «figli» di Noemi (1,3), ora non solo dà notizia della loro morte ma
riafferma (con un effetto di ridondanza) che la donna ha perso i suoi «bambini»
(1,5). Una tale insistenza evidenzia la grande sofferenza di Noemi: non solo ha
perso i figli ma, essendo vedova, non può più generare, sicché è rimasta sola e
senza posterità. Questi lutti sono interpretati dalla donna (1,13) come un
intervento punitivo del Signore, un castigo divino.
7. Tre donne
Al termine dell’esposizione restano in vita solo tre donne, tre vedove: Noemi,
Orpa e Rut. Il narratore in poche righe ha sintetizzato una vicenda iniziata a
Betlemme e proseguita nei campi di Moab, passando attraverso avvenimenti
familiari lieti e tristi che si sono conclusi con la morte di Elimèlec e dei suoi due
figli. Il finale dell’esposizione, tuttavia, non rivela la presenza delle due nuore,
ma semplicemente la presenza della sola Noemi. La storia è cioè raccontata dal
punto di vista di Noemi. Il problema non è tanto l’avvenire della famiglia
decimata nei territori di Moab, ma la vicenda di una donna privata del marito e
dei figli. Proprio sulla privazione della donna insiste la narrazione: questo è il
problema che mette in moto tutto l’intreccio; tale mancanza sarà tolta solo alla
fine del racconto.
8. Iniziare un racconto
L’inizio del libro di Rut evoca la vicenda dei patriarchi, l’epopea dell’Esodo, il
tempo dei giudici, le leggi di Esdra e Neemia. Pare che il narratore, iniziando a
raccontare la sua storia, voglia echeggiare avvenimenti ben noti, luoghi
5
simbolici, fatti pregnanti. Ad essere sollecitata è la memoria biblica del lettore.
Tuttavia la novità del libro sta in uno sviluppo sorprendente del racconto che si
rivela essere sorpresa narrativa e pure teologica.
L’evocazione del tempo dei giudici, per esempio, ricorda violenza,
oppressione, anarchia. Tuttavia la vicenda di Rut è ben diversa: all’inizio è
tragica e disperata ma poi prende un’altra piega per concludersi sul tono della
letizia e della consolazione. Lo stesso tempo conosce tristezza e gioia,
prevaricazione e pietà, confusione e ordine. Ne consegue che la storia, ogni
storia, è complessa e nasconde nei suoi anfratti molte e differenti sfaccettature.
Per comprenderla sono necessari discernimento e sapienza; non ci si può
fermare a facili e riduttivi schemi interpretativi ma bisogna andare più in là.
Al principio del racconto Elimèlec sfugge dalla carestia emigrando in
terra di Moab, fra gente straniera e da cui occorre guardarsi, stando alla Torah.
La sua morte e la morte dei suoi figli non fa sperare niente di buono. Eppure
dietro l’apparenza di un così tragico inizio, v’è un misterioso e provvidenziale
piano di Dio per la salvezza. Ma è necessaria pazienza per scorgerlo.
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Mercoledì 8 febbraio 2012
Milano – Teatro Stella (Parrocchia dei Quattro Evangelisti)
Itinerario biblico / 4
RUT, UN ABRAMO AL FEMMINILE
Rut 2,1-23
don Matteo Crimella
0. Introduzione
Il secondo capitolo del libro di Rut (corrispondente al secondo atto del dramma
in quattro atti) inizia a prospettare una soluzione per Noemi e la nuora moabita.
L’azione si svolge a Betlemme, patria di Noemi, dove la donna è tornata
insieme a Rut. La prima scena è in casa di Noemi (2,1-3): viene introdotto un
nuovo personaggio, Booz, parente di Elimèlec; inoltre Rut esplicita il suo
proposito di andare a spigolare il grano dietro ai mietitori. La seconda scena è
nei campi (2,4-17) ed è dominata dall’incontro fra la donna moabita e Booz. Un
primo dialogo fra Booz e il servo preposto a controllare i mietitori verte proprio
su Rut (2,4-7); il secondo dialogo vede in scena il parente di Elimèlec e la
Moabita (2,8-14). Lo stesso Booz, poi, dà precise indicazioni ai mietitori che
lavorano alle sue dipendenze perché accordino a Rut una serie di permessi e
privilegi (2,15-17). La terza scena è di nuovo in casa di Noemi, dove la giovane
nuora moabita ritorna a sera. Tutto è dominato da un dialogo fra Rut e la
suocera (2,19-22), introdotto (2,18) e concluso (2,23) dal narratore.
1. Una straniera prende l’iniziativa
Rut prende l’iniziativa di andare a spigolare. La Moabita non solo intende
sopravvivere ma pure assicurare il sostentamento alla suocera. La solidarietà
già rilevata precedentemente continua a caratterizzare la donna. Tuttavia prima
di andare nei campi chiede il permesso a Noemi e spera di trovare grazia agli
occhi di qualcuno (2,2). Le precauzioni di Rut mostrano che la donna ha chiara
coscienza di essere una straniera senza alcun diritto. In realtà a Rut capiterà il
contrario di quello che è successo a Noemi in terra di Moab: mentre infatti
Elimèlec e la moglie avevano lasciato il proprio popolo in cerca
dell’abbondanza, trovando però solo miseria, Rut, abbandonati i suoi, ha scelto
la miseria ma troverà colui che potrà riscattarla e colmarla di ogni bene.
Dalla risposta del sovrintendente dei mietitori di Booz veniamo a sapere
l’impressione che la donna ha fatto sui braccianti (2,6-7). Il lettore sente ripetere
alcune notizie che già conosce: Rut è una donna moabita, è la nuora di Noemi.
1
Ma, insieme a Booz, viene a sapere che la vedova straniera è zelante nel lavoro.
Sembra quasi che si sia trasferita nei campi e non si prenda nemmeno un attimo
di riposo. L’osservazione del sovrintendente dei mietitori fa crescere la stima
per Rut.
2. Spigolare
Rut si reca nei campi a spigolare. Appare strano che la donna voglia compiere
questo lavoro dopo «aver trovato grazia» agli occhi di qualcuno (2,2). Infatti la
Torah prevedeva che i poveri (vedove, orfani e stranieri) potessero racimolare
quanto restava dalla mietitura o quanto veniva lasciato nei campi. Afferma il
Deuteronomio:
Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche
mannello, non tornerai indietro a prenderlo. Sarà per il forestiero, per l’orfano e
per la vedova, perché il Signore, tuo Dio, ti benedica in ogni lavoro delle tue
mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il
forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non
tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova.
Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti comando di fare
questo (Dt 24,19-21; cfr. anche Lv 19,9-10).
A fronte di questa prescrizione della Legge, appare per lo meno singolare che
Rut debba ingraziarsi qualcuno per poter spigolare. Forse, essendo straniera,
non aveva un’esatta conoscenza delle usanze o forse il narratore intende
reinterpretare il dettato della Torah applicandolo con una certa libertà.
Non bisogna dimenticare che il verbo “spigolare” ricorre unicamente nel
racconto della manna (Es 16,4.18.22). Israele durante il cammino nel deserto ha
visto coi suoi occhi il segno della cura di Dio: ogni giorno cadeva dall’alto il
cibo sufficiente e necessario per saziarsi. Rut, al contrario, deve faticare per
procurarsi da mangiare. E tuttavia anche la donna moabita sperimenta che cosa
significhi vivere del dono di Dio: non nella forma straordinaria sperimentata da
Israele nel deserto, ma nell’ordinaria ferialità del lavoro.
3. Rut, un Abramo al femminile
Booz, informato dal sovrintendente dei mietitori a proposito della donna
moabita, accorda a Rut una serie di permessi: potrà spigolare nel suo campo,
bere all’orcio dell’acqua e non sarà molestata dai mietitori (2,8-9). A fronte di
tanta generosità Rut si prostra con il volto a terra in segno di gratitudine,
dichiarando però la propria condizione di straniera (2,10). A questo punto Booz
le risponde affermando: «Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera
dopo la morte di tuo marito, e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la
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tua patria per venire presso gente che prima non conoscevi» (2,11). In questa
dichiarazione di Booz si sente l’eco della storia delle origini e dei patriarchi.
“Lasciare il padre e la madre” ricorda il progetto di Dio sull’uomo e sulla donna
secondo il racconto della creazione: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24).
L’espressione “abbandonare la tua patria” evoca il racconto della vocazione di
Abramo: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua
parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”» (Gen 12,1;
vedi anche Gen 24,7 e Gen 31,13 a proposito di Giacobbe). Come Abramo anche
Rut ha lasciato la sua patria, la casa di suo padre, le sue sicurezze per andare
incontro ad un futuro ignoto. Se però Abramo e Giacobbe hanno risposto ad
una chiamata divina, Rut non ha percepito nessuna voce: è stata la concreta
situazione della suocera a spingerla in quella direzione. Invece di seguire il
cammino del suo antenato Lot, Rut ha seguito le tracce di Abramo. Mentre
Abramo e Lot si erano separati (cfr. Gen 13,9-13), Rut non si è separata (1,17) da
sua suocera. Come Abramo così Rut spera che il Signore operi in suo favore
donandole un figlio (cfr. Gen 15,1).
Il Targum, ben conoscendo le difficoltà a far entrare la donna moabita nel
popolo d’Israele, così interpreta:
Quella allora si chinò, si prostrò a terra e disse: «Come mai ho trovato grazia ai
tuoi occhi, da interessarti di me? Io appartengono alle figlie di Moab, ad un
popolo straniero, a cui non è permesso entrare dell’Assemblea del Signore!».
Booz le rispose dicendo: «Mi è stato spiegato bene, in base alla parola dei Saggi,
che quando il Signore decretò contro di esso [il popolo di Moab], decretò solo
contro gli uomini. E mi è stato detto, in profezia, che in futuro usciranno da te
re e profeti, per il bene che hai fatto a tua suocera, che hai mantenuto dopo che
tuo marito era morto; e come tu abbia abbandonato il tuo dio, il tuo popolo, la
casa di tuo padre e di tua madre e la tua terra natale, per venire a essere
proselita e ad abitare in mezzo ad un popolo che prima ti era sconosciuto»
(1,10-11).
4. Le ali di Dio
Booz, oltre a lodare il coraggio di Rut, pronuncia pure una preghiera: da una
parte invoca la ricompensa divina sull’azione compiuta da Rut, dall’altra evoca
la metafora delle ali di Dio sotto le quali la donna moabita è venuta a rifugiarsi
(2,12). Le “ali” indicano la protezione e la rigenerazione. Così invoca l’orante
del Salmo: «Vorrei abitare nella tua tenda per sempre, vorrei rifugiarmi
all’ombra delle tue ali» (Sal 61,5). Il salmista, salendo al tempio (la tenda), si
pone sotto la protezione di Dio. Al cuore del tempio v’era il santo dei santi e
all’interno v’era l’arca di Dio coperta dalle ali dei cherubini (cfr. Es 25,20). Salire
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al tempio significa dunque porsi sotto le ali di Dio, cioè sperimentare la sua
protezione e la sua salvezza. Il cammino che Rut ha compiuto l’ha condotta
all’incontro del Dio d’Israele. La donna moabita troverà rifugio e salvezza sotto
le ali del Dio d’Israele nel quale ha professato la sua fede (1,16).
Concretamente le ali di Dio assumono la figura di Booz, «uomo di
valore» (2,1) che manifesta generosità nei confronti di Rut. L’uomo ordina
addirittura ai suoi servi che lascino cadere appositamente alcune spighe per la
donna (2,16). Rut porterà a casa il frutto del suo lavoro, consapevole però di
essere oggetto di particolare favore da parte di Booz e sperimentando così la
Provvidenza di Dio.
5. Attingere acqua
Il primo incontro fra Rut e Booz costituisce una variante della scena-tipo dei
racconti patriarcali, quella del riconoscimento al pozzo (cfr. Gen 24,10-61; 29,120; Es 2,15-22 e pure Gv 4,5-42). In questi episodi un giovane uomo straniero
incontra una ragazza presso un pozzo; la donna offre dell’acqua per abbeverare
uomini e animali, poi la stessa ragazza annuncia ai parenti l’arrivo di un uomo
e lo straniero è invitato ad un banchetto festoso; alla fine lo straniero e la
ragazza si sposano. L’incontro fra Booz e Rut offre una variante di questa scenatipo. Qui la donna è straniera (2,6); il dialogo con l’uomo non riguarda le greggi
da abbeverare ma l’orzo da spigolare (2,8-9); all’incontro non segue un
banchetto ma per Rut e Noemi una sola efa di orzo è una festa (2,14); Rut
annuncia l’incontro con un parente, suo potenziale marito (2,18-19).
Nonostante la scena sia stata rielaborata, sono tuttavia rimasti alcuni
particolari dell’incontro al pozzo: l’acqua attinta dai giovani e donata a Rut
(2,9); il fatto che la donna finisca per caso nel campo di Booz (2,4; vedi il servo
di Abramo che incappa in Rebecca in Gen 24,12). Quando la nuora comunica a
Noemi il nome di Booz, la gioia della suocera è comparabile alla gioia del
servitore di Abramo allorché viene a sapere che Rebecca è una parente del suo
padrone (cfr. Gen 24,27). Per mezzo di questa allusione il narratore suggerisce
un parallelo fra Rut, Rebecca e Rachele, madri del popolo d’Israele, come pure
si dirà al termine del racconto (cfr. 4,11).
6. Il caso e la Provvidenza
La vicenda di Rut, così come si è snodata finora, sembra essere del tutto casuale.
Per caso Rut arriva nel campo di Booz, per caso quell’uomo è parente del
defunto marito di Noemi, per caso la Moabita e il proprietario terriero
s’incontrano. Sembra cioè che Dio sia assente. In realtà proprio per mezzo di
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questa casualità il libro di Rut sviluppa il tema della Provvidenza di Dio. Nei
casi della vita di questa donna straniera v’è una mano invisibile che scrive un
progetto. Tuttavia è necessario intravedere il segno di quella presenza, non
senza fatica.
Se pensiamo agli echi di episodi e personaggi biblici che abbiamo
ricordato, dobbiamo ammettere una notevole differenza. Abramo è chiamato da
Dio perché lasci la sua patria e la casa di suo padre; Rut non avverte alcuna
chiamata ma, semplicemente, segue la suocera. La manna è segno tangibile
della potenza di Dio che nutre il suo popolo nel deserto; Rut invece deve
lavorare duramente per spigolare dietro ai mietitori. L’inizio della storia del
matrimonio di Rebecca e Rachele (l’incontro al pozzo) ha qualcosa di favoloso e
di straordinario; Rut invece è solo una straniera cui è concesso di attingere
acqua.
Ma, pare insistere il libro di Rut, si tratta di discernere e riconoscere la
presenza di Dio e del suo disegno provvidente dentro le pieghe di un’ordinaria
ferialità nella quale Dio abita. Dio, cioè, continua ad agire nella storia non in
forme straordinarie ma attraverso persone concrete: Booz è generoso e prende
sotto la sua protezione la donna straniera; Rut, da parte sua, lavora per
procurarsi il cibo. In queste vicende che non hanno nulla di eccezionale il lettore
è invitato a riconoscere il disegno provvidente di Dio che continua ad operare
nella storia.
7. Lo stupore di Noemi
Nel momento in cui Rut torna a casa porta con sé un’efa di orzo. Per quanto sia
difficile quantificare esattamente il valore di questa antica unità di misura, per
mezzo del confronto con altri testi e, rifacendosi ad alcuni ritrovamenti
archeologici, è possibile ipotizzare che la giara contenente un’efa era capace di
22 litri; da qui si deduce approssimativamente la notevole quantità di orzo
portato da Rut a Noemi. La prima domanda che la suocera pone alla nuora
riguarda il dove: «Dove hai spigolato oggi? Dove hai lavorato?» (2,19). Poi, senza
nemmeno attendere la risposta di Rut, stupita dall’abbondanza del dono di cui
la nuora è stata ricolmata e, prima di sapere l’identità del donatore, Noemi
invoca su di lui la benedizione divina. Costui, infatti, merita un tale
riconoscimento per essersi preso cura di una donna straniera. A questo punto la
prima domanda circa il dove, lascia spazio alla curiosità a proposito dell’identità
del generoso personaggio. Tuttavia il narratore informa che Rut, prima di dire
chi l’ha favorita, ricorda che cosa è successo. Tale strategia comunicativa fa
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crescere la tensione e l’attesa di Noemi che solo alla fine viene a scoprire
l’identità del generoso donatore: Booz.
8. Chi dona?
Giungendo dai campi con un’efa di orzo, Rut dà tutto a Noemi (2,18). Il verbo
“dare” era già comparso all’inizio del primo atto, allorché il narratore
informava che Noemi tornava a Betlemme «perché nei campi di Moab aveva
sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli pane» (1,6). In
altre parole: il pane che Dio ha donato al suo popolo (1,6) giunge per mezzo di
Booz alle due vedove (2,14.18). Non bisogna tuttavia dimenticare che Rut ha
spigolato tutto il giorno raccogliendo orzo. Proprio attraverso la sua fatica la
suocera riceve pane.
Appena il nome di Booz è pronunciato da Rut (2,19), Noemi riformula e
precisa la benedizione. La donna non augura solo che Dio benedica Booz (come
aveva già detto), ma dichiara: «Sia benedetto dal Signore, che non ha rinunciato
alla sua bontà verso i vivi e verso i morti!» (2,20).
Bisogna ricordare che nella Scrittura la benedizione è strettamente legata
al tema della vita e della fecondità. Inoltre si possono distinguere una
benedizione “costitutiva” e una benedizione “dichiarativa”. La prima ha come
soggetto Dio che dona vita (si pensi alla pagina della creazione, Gen 1,22.28).
Quando Dio benedice dona fecondità alle piante, agli animali e agli uomini così
che vita e prosperità abbondano. La benedizione dichiarativa, invece, ha come
protagonista l’uomo che benedice Dio, riconoscendolo come principio e origine
della vita. Tuttavia anche un uomo può benedire un altro uomo, pregando Dio
di accordargli vita e fecondità (2,19). Un uomo può anche riconoscere che
nell’altro uomo opera la benedizione di Dio (2,20).
Noemi riconosce che la benedizione di Dio opera in Booz. Ai suoi occhi il
parente del suo defunto marito è un segno tangibile della bontà del Signore.
Colei che aveva accusato l’Onnipotente di averla amareggiata (cfr. 1,20-21)
inizia a vedere qualche bagliore di luce e parla della fedeltà di Dio. Tale fedeltà
non si estende solo verso i vivi ma pure verso i morti. Nel gesto di accogliere
Rut, Booz ha dato prova di una misericordia che va al di là dei vivi e tocca pure
i defunti (il marito e i due figli). A partire da questo momento Noemi percepisce
la presenza di Rut in modo del tutto differente.
9. Il diritto di riscatto
Noemi precisa a Rut quanto il lettore già conosce (cfr. 2,1), ovverosia che Booz è
un parente stretto di Elimèlec. Poi aggiunge una novità per la nuora e pure per
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il lettore: Booz è «uno di quelli che hanno su di noi il diritto di riscatto» (2,20).
Per la prima volta Noemi usa il “noi”, includendo se stessa e Rut nel suo
discorso. La donna cioè considera finalmente anche la nuora parte della propria
famiglia.
A proposito del “riscattatore” o “protettore” (go’el) e del diritto di riscatto
è necessario spendere una parola. Secondo il libro del Levitico il termine go’el
designa il parente più prossimo che, nel caso di una situazione difficile, diventa
il protettore degli interessi dell’individuo e della famiglia:
Se il tuo fratello cade in miseria e vende una parte della sua proprietà, colui che
ha il diritto di riscatto, cioè il suo parente più stretto, verrà e riscatterà ciò che il
fratello ha venduto (Lv 25,25).
Il riscattatore ha pure il compito di liberare per mezzo del pagamento di una
somma di denaro quei membri del clan che, a causa della povertà, erano stati
costretti a vendere se stessi come schiavi:
Se un forestiero stabilito presso di te diventa ricco e il tuo fratello si grava di
debiti con lui e si vende al forestiero stabilito presso di te o a qualcuno della sua
famiglia, dopo che si è venduto ha il diritto di riscatto: lo potrà riscattare uno
dei suoi fratelli o suo zio o il figlio di suo zio; lo potrà riscattare uno dei
consanguinei della sua parentela o, se ha i mezzi per farlo, potrà riscattarsi da
sé (Lv 25,47-49).
In virtù dell’obbligo di vendicare l’uccisione di un parente con la stessa misura,
il go’el può uccidere l’assassino (cfr. Dt 19,6-12). In senso positivo il go’el assiste
un membro del clan implicato in una causa legale per assicurare che venga fatta
giustizia (cfr. Ger 50,34). Il diritto di riscatto si fondava sul senso di solidarietà
che univa fra loro i componenti di uno stesso clan familiare: ogni atto che
metteva a repentaglio l’unità tribale era avvertito come una minaccia cui far
fronte adeguatamente. Nell’Antico Testamento il termine conosce pure un uso
religioso e si allarga dunque all’idea di solidarietà e di protezione. Dio si fa go’el
degli orfani:
Non spostare il confine antico, e non invadere il campo degli orfani, perché il
loro vendicatore è forte e difenderà la loro causa contro di te (Pr 23,10-11).
Dio protegge i poveri e i giusti messi alla prova. Il salmista così si rivolge a Dio:
«Avvicinati a me, riscattami, liberami a causa dei miei nemici» (Sal 69,19).
Nel libro di Rut si parla del go’el in riferimento al riscatto delle terre
appartenute ad Elimèlec ma, soprattutto, a proposito dell’esigenza di
proteggere una vedova in ristrettezze, ponendo cioè l’accento sulla solidarietà
nei suoi confronti. L’istituzione del go’el viene cioè largamente reinterpretata.
Nella persona di Booz Noemi intravede uno spiraglio di speranza. La
famiglia che la donna ha perso nelle terre di Moab può ritrovare un futuro,
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prospettandosi un possibile matrimonio e dunque un eventuale figlio. Un
parente così generoso non può forse essere lo sposo della vedova? A partire da
qui si comprende l’entusiasmo di Noemi per Booz.
10. Che cosa fare?
Rut ricorda a Noemi l’invito di Booz: «Mi ha anche detto di rimanere insieme ai
suoi servi, finché abbiano finito tutta la mietitura» (2,21). Tuttavia,
confrontando attentamente quanto aveva detto Booz e quanto riporta Rut, si
nota un’importante differenza. Booz si era espresso così: «Ascolta, figlia mia,
non andare a spigolare in un altro campo. Non allontanarti di qui e sta’ insieme
alle mie serve. Tieni d’occhio il campo dove mietono e cammina dietro a loro»
(2,8-9). Rut parla dei “servi” allorché Booz aveva parlato delle “serve”,
presentando invece i servi come potenziali aggressori. Forse Rut sta sondando il
terreno della suocera? Di fatto Noemi la corregge immediatamente,
raccomandandole di accettare l’invito di Booz, ma di uscire solo con le “serve”
(2,22). Forse Noemi teme che la giovane nuora perda la testa per i giovani servi
e così s’allontani da Booz? O forse v’è solo una giusta prudenza? Di fatto la
suocera offre alla nuora la stessa indicazione che aveva suggerito Booz: Rut
dovrà andare nel campo del parente di Elimèlec e non altrove, in un altro
campo (2,8.22).
Si può immaginare che Noemi e Booz abbiano in mente un progetto di
matrimonio per Rut? È troppo presto per dirlo! E tuttavia l’una e l’altro sono
d’accordo su che cosa la giovane donna moabita debba fare.
Appena il nome di Booz è pronunciato (2,19) l’atteggiamento di Noemi
cambia radicalmente. Per ben due volte parla direttamente alla nuora (2,20.22) e
si rivolge a lei chiamandola «figlia mia» (2,22). Questi piccoli dettagli segnalano
un cambiamento della relazione fra la suocera e la nuora. Tale cambiamento è il
segno della nuova speranza che si è aperta nell’esistenza delle due donne. La
nuora che Noemi non aveva nemmeno presentato alle donne di Betlemme al
tempo del loro ritorno in città (1,20-21), assume d’un tratto una notevole
importanza ai suoi occhi. Senza di lei sarebbe vana la speranza che l’incontro
con Booz ha suscitato.
Colui che si è mostrato generoso donando orzo a Rut potrà pure
intervenire per risolvere la grande mancanza di Noemi: ella ha perso non solo il
marito ma soprattutto i figli, cioè la sua casa e il suo futuro. Nel cuore della
donna si è riaccesa la speranza.
Nel libro di Rut il personaggio più importante di tutta la Bibbia, Dio, è
quasi defilato, nascosto nelle pieghe dell’intreccio. Dio è colui di cui parlano i
personaggi, è riflesso nella loro percezione ma non interviene direttamente
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nella storia raccontata dal narratore, se non in una precisa occasione (4,13). Se in
altri libri (si pensi alla Genesi e all’Esodo) Dio opera potentemente prendendo
l’iniziativa, qui la sua presenza pare essere modesta, velata, quasi
impercettibile. In primo piano vi sono le azioni degli uomini, la loro preghiera,
la loro invocazione, la loro fede, la loro fatica. Ma è proprio per mezzo delle
scelte di questi personaggi che il disegno di Dio si realizza.
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Mercoledì 15 febbraio 2012
Milano – Teatro Stella (Parrocchia dei Quattro Evangelisti)
Itinerario biblico / 5
L’INCONTRO NELLA NOTTE
Rut 3,1-18
don Matteo Crimella
0. Introduzione
Il terzo capitolo del libro di Rut (corrispondente al terzo atto del dramma in
quattro atti) è composto da tre scene, caratterizzate da unità di tempo, luogo e
personaggi. La prima scena si svolge di giorno in casa di Noemi (3,1-5): è un
dialogo fra la suocera e la nuora. La seconda scena avviene di notte sull’aia di
Booz e vede protagonisti Rut e il parente di Elimèlec (3,6-15). La terza scena, più
breve, è di nuovo in casa di Noemi: le protagoniste sono, ancora una volta, le
due donne che parlano di quanto è avvenuto durante la notte (3,16-18).
Nell’intero episodio si respira un clima di segretezza e di mistero, mentre
un’esplicita dimensione erotica attraversa la narrazione da un capo all’altro. La
suocera, prima preoccupata di salvaguardare la nuora dalle possibili molestie
dei mietitori, ora la spinge all’incontro con Booz durante la notte.
1. Dire e non dire
All’inizio del capitolo Noemi, preoccupata per il futuro della nuora, si rivolge a
Rut (3,1-2). La suocera le pone due domande negative che mettono in luce
quanto ha in animo. La prima domanda insiste sul riposo: «Figlia mia, non
dovrò cercare per te un luogo di riposo che sia bene per te?» (3,1). Anche la
seconda domanda è posta allo stesso modo: «Ora, non è forse Booz nostro
parente, quello con le cui serve sei stata?» (3,2). La soluzione da cercare, il
“luogo di riposo” adeguato per la Moabita, a parere di Noemi coincide con un
marito, cioè Booz. L’idea di trovare un “luogo di riposo” per Rut non è nuova;
Noemi si era già espressa in simili termini, allorché aveva augurato a Rut e a
Orpa: «Il Signore vi conceda di trovare riposo ciascuna nella casa di suo marito»
(1,9).
Le parole di Noemi dimostrano affetto per Rut: la chiama «figlia mia», si
dichiara interessata per il “suo bene”, ipotizza una sistemazione per la nuora. E
tuttavia la donna non esprime chiaramente le sue intenzioni. Pare quasi che
Noemi nasconda ai suoi stessi occhi quanto ha nel cuore. Non osa dire
chiaramente il suo inconfessabile desiderio, bloccata dal presentimento che
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esprimerlo ne comprometta la realizzazione. In questo dire e non dire si
percepisce, tuttavia, quanto alberga nel suo intimo in favore di Rut e Booz.
Inoltre questo modo di esprimersi fatto di mezze parole coinvolge Rut: la nuora
deve capire le intenzioni della suocera, al di là di quanto è detto.
2. La strategia della seduzione
Noemi fornisce a Rut una serie di dettagliate istruzioni perché la giovane donna
seduca Booz (3,3-4). Le indicazioni della suocera non lasciano dubbi: Rut dovrà
lavarsi, profumarsi e indossare il mantello per presentarsi all’uomo in modo
adeguato. Noemi poi indica alla nuora quali passi dovrà compiere una volta
scesa all’aia. La postura che Noemi si limita ad evocare è fin troppo esplicita per
indicare quanto Rut dovrà fare con Booz. Inoltre i “piedi” talvolta sono un
eufemismo per indicare il sesso dell’uomo (cfr. Es 4,25; 2 Sam 11,8.11; Is 7,20).
Anche la ripetizione, nel contesto, dei verbi “sdraiarsi” e “conoscere” (altro
eufemismo per indicare la relazione intima) esplicita l’allusione. Rut dovrà
scendere all’aia e vedere senza essere vista per realizzare il suo scopo. Il piano
di Noemi ha come fine che la nuora seduca e conquisti Booz: dopo che avrà
mangiato e bevuto l’uomo sarà più disponibile e allora la Moabita dovrà agire.
Noemi è così sicura della reazione di Booz che ricorda alla nuora: «Ti
dirà lui ciò che dovrai fare» (3,4). Booz, cioè, si troverà in una situazione tale da
non poter resistere al fascino di Rut, donna per la quale ha già mostrato un
evidente interesse, offrendole la possibilità di spigolare e dandole una buona
quantità d’orzo (cfr. 2,18-21).
Noemi, animata forse da buone intenzioni e dalla preoccupazione di
trovare un buon partito per la nuora, chiede a Rut di sedurre Booz, lasciando
però all’uomo la direzione degli avvenimenti. L’oscurità, il cuore allietato dal
vino e dal cibo, l’assenza di altre persone sono gli ingredienti tipici che daranno
il risultato sperato. Così, almeno, immagina Noemi.
3. Rut, le figlie di Lot e Tamar
L’incontro notturno fra Rut e Booz (3,6-7) allude alla vicenda delle antenate di
Rut, le figlie di Lot. Fra l’episodio della concezione di Moab – il padre dei
Moabiti (Gen 19,30-38) – e Rt 3,1-10 vi sono non pochi contatti. Così si
esprimeva la Genesi:
Lot partì da Soar e andò ad abitare sulla montagna con le sue due figlie, perché
temeva di restare a Soar, e si stabilì in una caverna con le sue due figlie. Ora la
maggiore disse alla più piccola: «Nostro padre è vecchio e non c’è nessuno in
questo territorio per unirsi a noi, come avviene dappertutto. Vieni, facciamo
bere del vino a nostro padre e poi corichiamoci con lui, così daremo vita a una
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discendenza da nostro padre». Quella notte fecero bere del vino al loro padre e
la maggiore andò a coricarsi con il padre; ma egli non se ne accorse, né quando
lei si coricò né quando lei si alzò. All’indomani la maggiore disse alla più
piccola: «Ecco, ieri io mi sono coricata con nostro padre: facciamogli bere del
vino anche questa notte e va’ tu a coricarti con lui; così daremo vita a una
discendenza da nostro padre». Anche quella notte fecero bere del vino al loro
padre e la più piccola andò a coricarsi con lui; ma egli non se ne accorse, né
quando lei si coricò né quando lei si alzò. Così le due figlie di Lot rimasero
incinte del loro padre. La maggiore partorì un figlio e lo chiamò Moab. Costui è
il padre dei Moabiti, che esistono ancora oggi. Anche la più piccola partorì un
figlio e lo chiamò «Figlio del mio popolo». Costui è il padre degli Ammoniti,
che esistono ancora oggi (Gen 19,30-38).
Sia l’episodio raccontato dalla Genesi come quello del libro di Rut seguono
sempre una disgrazia familiare dove due donne perdono il loro marito e sono
dunque nell’impossibilità di assicurare la discendenza. Ciò spinge le donne ad
escogitare un piano per giungere al risultato. I fatti succedono di notte, dopo
che l’uomo ha bevuto e si è sdraiato. Il vocabolario delle due scene riflette il
medesimo stratagemma: la donna arriva (Gen 19,33; Rt 3,7) e si sdraia (Gen
19,32.33.34; Rt 3,3.4.7.8) durante la notte (Gen 19,33.34.35; Rt 3,2.8) accanto
all’uomo ignaro. Le similitudini fra le due scene sono forti, ma vi sono pure
significative differenze. Le figlie di Lot prendono l’iniziativa, ubriacano il padre
e giungono sino alla relazione incestuosa col genitore (Gen 19,33.35); Rut invece
segue il consiglio della suocera ma la Moabita non giace con Booz (Rt 3,3.4). Al
risveglio dell’uomo Rut gli chiede di sposarla senza far ricorso ad alcun intrigo.
Se le figlie di Lot assicurano la discendenza del padre in modo problematico
(selvaggio e detestabile), Rut chiede che Booz sposi una straniera ma tutto
avviene secondo i canoni della Legge.
In altre parole: Rut non è la Moabita che ci si aspetterebbe. L’allusione
all’episodio delle figlie di Lot crea nel lettore un’attesa caratterizzata dalla
suspense, attesa poi frustrata da quanto compie Rut, il cui comportamento è
davvero sorprendente, dando nuovo slancio al racconto stesso.
Il tema del riscatto evoca un’altra vicenda, quella di Tamar e Giuda (Gen
38). Anche in quell’episodio si narra della morte di due fratelli: prima Er, marito
di Tamar (Gen 38,7), poi Onan, secondogenito di Giuda che dovrebbe assicurare
la discendenza del fratello defunto (Gen 38,10). La morte dei due figli spinge
Giuda e rimandare Tamar alla casa di suo padre, con la falsa promessa di darle,
a suo tempo, il terzo figlio, Sela, ancora bambino (Gen 38,11). Dopo alcuni anni
Giuda si reca a Timna, luogo dove vive Tamar. La vedova, riconosciuto il
suocero, si traveste da prostituta, giace con lui e concepisce. Quando appare la
gravidanza si decide la condanna a morte della donna ma Tamar dimostra che
il padre dei nascituri (due gemelli) è il suocero. A questo punto Giuda esclama:
3
«[Tamar] è più giusta di me: infatti, io non l’ho data a mio figlio Sela» (Gen
38,26).
Come Tamar così Rut, durante una festa agricola, si avvicina ad un
parente del marito (un uomo anziano) in una scena certamente equivoca. In
entrambi i casi (per ragioni differenti) l’uomo (Giuda e Booz) loda la donna, una
volta scoperta la sua rettitudine: Tamar e Rut hanno corso un notevole rischio
per onorare il costume del levirato e così assicurare una discendenza al defunto.
4. Una diversa realizzazione
Fra il piano orchestrato da Noemi e la realizzazione di Rut v’è una notevole
differenza. La suocera aveva consigliato alla nuora di lavarsi, profumarsi e
mettersi il mantello (3,3) per poi sedurre Booz. Ma appena Rut entra in azione il
narratore non racconta nulla di tutto ciò. La Moabita, cioè, non segue i consigli
di Noemi. La vicenda, cioè, prende una piega diversa da quanto aveva previsto
la suocera. Allorché Rut s’avvicina a Booz, l’uomo già dorme, mentre Noemi le
aveva suggerito di sorprenderlo mentre si stava coricando. Nel momento in cui,
nel cuore della notte, l’uomo si sveglia d’improvviso, vede la donna ai suoi
piedi e le chiede di presentarsi. Invece di sedurlo Rut dice: «Stendi il lembo del
tuo mantello sulla tua serva!» (3,9). L’espressione è sibillina e può indicare sia
una richiesta di protezione come pure una proposta di matrimonio. Crediamo
che la forza di tale affermazione risieda proprio nella sua ambiguità: evocando
infatti il lembo del mantello si rimanda alle ali, tipica metafora per indicare la
protezione di Dio; d’altro canto il matrimonio con Booz sarebbe per la giovane
Moabita il segno della protezione proveniente dall’alto.
Ancora una volta Dio non interviene direttamente. A differenza di altri
libri dell’Antico Testamento dove l’azione divina è sotto gli occhi del popolo,
qui non v’è nulla di tutto ciò. Uomini e donne devono prendere l’iniziativa e
cogliere la presenza divina all’interno delle intricate vicende umane. Infatti
proprio attraverso le azioni di uomini e donne Dio si rende presente.
Noemi aveva istruito Rut per sedurre Booz ma la Moabita ha intrapreso
una strada diversa. Se la suocera aveva pensato di agire con furbizia per
conquistare Booz, la nuora parla all’uomo con chiarezza e stabilisce una
relazione fondata su altri presupposti. Rispondendole Booz dichiara a Rut tutta
la sua stima. L’uomo ignora le macchinazione tessute dietro le quinte da Noemi.
Per lui la Moabita è semplicemente una donna che gli pone una richiesta e il cui
comportamento è degno di onore e di plauso. E come Booz aveva lodato Rut
per quanto aveva fatto nei confronti della suocera (cfr. 2,11), così ora l’uomo
qualifica l’agire della donna con il pregnante termine hesed: ella ha compiuto nei
4
suoi confronti un gesto colmo di bontà, benevolenza, lealtà. La Moabita lo ha
anche preferito ad ogni altro possibile riscattatore, pur essendo più anziano
(3,10).
5. Una reinterpretazione della Legge
Rut chiede a Booz di porsi sotto la sua protezione (e, come abbiamo ricordato,
una simile richiesta allude anche al matrimonio), facendo appello al fatto che
l’uomo è il suo “riscattatore” (go’el). Ma Booz è solo uno dei possibili
riscattatori. Inoltre la donna, chiedendo a Booz di sposarla, sembra confondere
il go’el (il cui dovere di “redenzione” riguarda soprattutto i beni materiali) con il
levir (colui che doveva assicurare la discendenza del marito defunto). Perché
questa confusione fra due distinte istituzioni i cui compiti erano differenti? A
questo proposito i commentatori discutono ma ci sembra suggestiva
l’intuizione di chi vede qui un’originale reinterpretazione della Legge. Unendo
la figura del go’el e quella del levir Rut intuisce che l’uno e l’altro permettono la
sopravvivenza della famiglia. Entrambe le istituzioni rispondono ad un reale
bisogno: un parente assume la responsabilità di soccorrere chi è gravemente
segnato dalla povertà o dalla vedovanza, dentro un comune orizzonte di
solidarietà. In questo modo la preoccupazione di Noemi perché Rut trovi un
buon partito è ampiamente superata: in Booz Rut non solo ha trovato uno sposo
ma pure un riscattatore che le permette di onorare l’impegno che si era assunta
di restare vicina alla suocera (cfr. 1,16-17).
6. Una donna di valore
«Ora, figlia mia, non temere! Farò per te tutto quanto chiedi, perché tutti i miei
concittadini sanno che sei una donna di valore» (3,11). Con queste parole Booz
si rivolge a Rut. Una tale definizione è gravida di significato, in quanto Rut è
definita “donna buona”, “donna ideale”. Anche Booz era stato definito in
questo modo, un «uomo di valore» (2,1): l’uomo altolocato e la Moabita, cioè, si
assomigliano, sembrano essere fatti l’uno per l’altra.
I commentatori fanno notare che nella Bibbia ebraica il libro di Rut segue
immediatamente il libro dei Proverbi. L’ultimo capitolo dei Proverbi riportava
una domanda aperta: «Una donna di valore chi potrà trovarla?» (Pr 31,10). Il
racconto di Rut pare essere l’ironica risposta a tale domanda: proprio Rut, una
straniera moabita, è la donna di valore. La sua bellezza non è fisica (il libro non
fa parola del suo aspetto) ma interiore. È per le sue qualità che Rut è detta una
«donna di valore».
5
Mercoledì 22 febbraio 2012
Milano – Teatro Stella (Parrocchia dei Quattro Evangelisti)
Itinerario biblico / 6
ALLE PORTE DELLA CITTÀ
Rut 4,1-12
don Matteo Crimella
0. Introduzione
Tutta la scena è ambientata alla porta della città, luogo di passaggio e di
mercato, spazio aperto dove tradizionalmente avvengono i procedimenti legali
in presenza di testimoni. La narrazione ha forti paralleli con la scena iniziale
(capitolo 1) ma il tenore è ben differente. Se all’inizio era raccontata una storia
segnata dalla morte, ora la vita sta rinascendo. E come al principio del racconto
tutti gli uomini erano falciati dalla morte e rimanevano solo i personaggi
femminili, ora invece gli uomini prendono l’iniziativa e riaccendono la speranza
di un futuro. Rut, protagonista dell’intera vicenda, nell’ultimo capitolo sembra
scomparire: Booz e l’altro parente, cui spetterebbe il compito di riscattare
l’eredità, parlano di lei ma la donna resta sullo sfondo.
Dopo un’introduzione che offre le coordinate dell’atto giuridico (4,1-2),
Booz discute con un anonimo personaggio, anch’egli parente di Noemi e
titolare di un maggiore diritto di riscatto rispetto a Booz (4,3-6). Il narratore poi
spiega il rito del sandalo (4,7-8); infine Booz “acquista” Rut come sua proprietà
(7,9-12).
1. Un tale
Durante l’incontro nella notte (3,12) Booz aveva già detto a Rut che c’era un
parente più stretto, uno al quale spettava il diritto di riscatto della proprietà del
defunto Elimèlec e che, dunque, avrebbe potuto pure sposare Rut. Quest’uomo
è ricordato come «un tale»; Booz si rivolge a lui proprio in questo modo così
singolare: «Vieni, siediti qui, tu, tal dei tali» (4,1; la traduzione della CEI “amico
mio” è davvero problematica!). Questo strano appellativo ha suscitato e suscita
molti interrogativi: perché Booz non chiama per nome una persona che
certamente conosceva, visto che era un suo parente? La cosa appare ancor più
significativa all’interno di un libro nel quale ogni personaggio ha il suo nome
proprio. Forse l’anonimato del parente di Elimèlec sottende un giudizio del
narratore: colui che non avrà il coraggio di riscattare Rut non è nemmeno degno
di essere ricordato col suo nome proprio.
1
Non è certamente un caso che all’inizio del racconto vi siano due nuore
(Orpa e Rut) e nell’ultimo capitolo due possibili riscattatori (Booz e l’anonimo
parente). Come Orpa ritorna alla sua casa e abbandona Noemi, così il parente
più prossimo rinuncia a riscattare Rut e lascia campo libero a Booz. Sia l’una
che l’altro sono figure di spalla che fanno emergere la grandezza di Rut e di
Booz. Inoltre la narrazione sembra suggerire che di fronte alle scelte si profilano
almeno due possibilità, una positiva e l’altra negativa: abbandonare una
persona o prendersi cura di lei, restare nella propria terra o partire per una terra
straniera, riscattare una donna vedova oppure scegliere di non farlo.
2. Il discorso di Booz
Booz intercetta alla porta della città il parente prossimo di Elimèlec e lo invita a
sedersi. Poi chiama dieci anziani della città (4,2). Di questi personaggi non si
precisa il ruolo sociale; basta tuttavia la precisazione della loro anzianità per
evocare la loro saggezza e la loro autorità giuridica in Israele. Un consiglio di
anziani, infatti, pronunciava un giudizio in caso di omicidio (cfr. Dt 21,1-9), si
occupava del diritto d’asilo (cfr. Dt 19,11-12) e del matrimonio leviratico (cfr. Dt
25,5-10). In questo caso specifico gli anziani hanno piuttosto il compito di essere
testimoni affidabili perché la questione fra Booz e l’anonimo possibile
riscattatore si svolga alla luce del sole. Gli anziani sono dieci, un numero che in
tutto il libro evoca completezza: dieci anni sono stati trascorsi in terra di Moab
(cfr. 1,4), così come, al termine del libro, saranno evocate dieci generazioni (cfr.
4,18-21). Tuttavia ai dieci anziani si debbono sommare Booz e l’anonimo
riscattatore: i personaggi diventano dodici, rappresentando così, in piccolo,
tutto Israele.
Il discorso di Booz riserva qualche sorpresa. Veniamo a sapere che
Noemi, precedentemente descritta come una vedova povera e costretta a
mandare la nuora a spigolare, in realtà possedeva un campo. La donna, che ha
probabilmente ereditato dal marito defunto quel campo, ora intende darlo in
usufrutto. Un simile trasferimento pare che fosse soggetto al diritto di
prelazione da parte di un parente. Booz alletta il riscattatore presentandogli la
possibilità della prelazione, precisando che ogni cosa deve avvenire secondo le
regole della Legge, davanti agli anziani. Inoltre manifesta esplicitamente il
proprio interesse per quell’appezzamento di terra. All’anonimo riscattatore, in
effetti, il campo interessa (4,4).
Una volta che il parente ha espresso le sue intenzioni, Booz scopre le
carte, rivelando che l’interesse per il campo porta con sé il dovere di sposare
Rut e di assicurare la discendenza del defunto marito. Booz si riferisce, ancora
una volta, alla legge del levirato, secondo cui il parente più prossimo deve
2
assicurare la discendenza del defunto (cfr. Dt 25,5-10). Ma, sembra far intendere
Booz, gli eredi del campo saranno proprio i figli di Rut. Di fronte alla
prospettiva di mantenere una famiglia che non sarebbe stata sua ma del
defunto marito di Rut, danneggiando così il proprio patrimonio, l’anonimo
parente fa un passo indietro (4,6).
3. Terra e discendenza
Il racconto fa intravedere i motivi del rifiuto del parente più prossimo, senza
però entrare nei dettagli della sua scelta. Il midrash Rut Rabbah, un’antica
interpretazione ebraica di Rut, mette in bocca del parente questa affermazione:
«Maclon e Chilion sono morti precisamente perché avevano preso per mogli
[Orpa e Rut, donne moabite]. Posso prenderla [in moglie] stando così le cose?».
L’uomo cioè non intenderebbe mescolare il proprio sangue con quello di una
straniera.
Al di là di questo curioso particolare, è importante sottolineare lo stretto
legame fra l’”acquisto” del campo e l’”acquisto” di Rut. È l’unica volta, lungo
tutta la Bibbia, in cui si indica il matrimonio col termine “acquistare” (4,5). Alle
nostre orecchie suona strano ma forse ricorda che quel matrimonio leviratico
porta con sé una transazione commerciale più ampia. Più in profondità
sottolinea che Booz non solo agisce in modo legalmente corretto ma pure
manifestando una grande generosità. Se si comporta in questo modo è a motivo
della propria magnanimità che supera di gran lunga la Legge. In questo senso
Booz assomiglia molto a Rut il cui comportamento nei confronti della suocera è
andato al di là del dettato della Legge.
Booz ricorda all’anonimo parente la necessità di non disgiungere il
riscatto del campo e il dovere nei confronti di Rut per assicurare una
discendenza al defunto. Fanno qui capolino due termini essenziali delle
promesse divine fatte ai patriarchi: la terra e la discendenza. Si pensi, per
esempio, alla promessa di Dio ad Abramo:
Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine
di nazioni. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre
di una moltitudine di nazioni ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti
farò diventare nazioni e da te usciranno dei re. Stabilirò la mia alleanza con te e
con la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza
perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. La terra dove
sei forestiero, tutta la terra di Canaan, la darò in possesso per sempre a te e alla
tua discendenza dopo di te; sarò il loro Dio (Gen 17,4-8).
La promessa di Dio parla di una terra e insieme di una discendenza. Booz ha
compreso che terra e discendenza non possono essere divise. A chi ha perduto
3
l’una e l’altra l’”uomo di valore” intende restituirle. Ancora una volta la
narrazione mostra che la promessa di Dio raggiunge le persone per mezzo di
qualcuno che agisce concretamente a loro favore.
4. Lo scalzato
Il narratore introduce una specie di glossa esplicativa (4,7-8), facendo
riferimento ad un’antica usanza. Con questo intervento la cornice temporale in
cui è collocato il racconto sembra retrocedere di molto, perdendosi quasi nei
meandri di una storia avvertita come lontana dagli ascoltatori cui il libro di Rut
si rivolge idealmente. L’usanza è ricordata dal Deuteronomio, all’interno delle
norme del levirato:
Se quell’uomo non ha piacere di prendere la cognata, ella salirà alla porta degli
anziani e dirà: «Mio cognato rifiuta di assicurare in Israele il nome del fratello;
non acconsente a compiere verso di me il dovere di cognato». Allora gli anziani
della sua città lo chiameranno e gli parleranno. Se egli persiste e dice: «Non ho
piacere di prenderla», allora sua cognata gli si avvicinerà in presenza degli
anziani, gli toglierà il sandalo dal piede, gli sputerà in faccia e proclamerà:
«Così si fa all’uomo che non vuole ricostruire la famiglia del fratello». La sua
sarà chiamata in Israele la famiglia dello scalzato (Dt 25,7-10).
Tuttavia fra il testo del Deuteronomio e il racconto di Rut vi sono non poche
differenze. Nella Legge è la vedova che sfila il sandalo del cognato e gli sputa in
faccia; qui invece è lo stesso riscattatore (almeno così sembra, anche se il testo
ebraico non è chiarissimo) a levarsi il calzare. Il sandalo è un segno di potere, di
possesso e di dominio. Togliersi i sandali significa rinunciare ad un possesso.
L’anonimo personaggio sparisce così dalla scena, senza lasciare alcuna orma di
sé.
Booz allora tira le conseguenze del rifiuto di colui che aveva maggior
diritto di lui: egli dichiara solennemente di fronte ai testimoni la sua intenzione
di riscattare la terra che apparteneva a Elimèlec e di sposare Rut (4,8-9). La sua
affermazione rimanda senza ombra di dubbio alla Legge:
Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la
moglie del defunto non si sposerà con uno di fuori, con un estraneo. Suo
cognato si unirà a lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il
dovere di cognato. Il primogenito che ella metterà al mondo, andrà sotto il
nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele (Dt
25,5-6).
Booz cita tutti i defunti proprio perché i loro nomi non si perdano.
4
5. La benedizione
A conclusione della scena v’è una benedizione pronunciata dagli anziani di
Betlemme (4,11-12). Essi si rivolgono anzitutto a Rut e poi anche a Booz. La
Moabita è paragonata a Rachele e Lia, le due mogli di Giacobbe. Rachele era più
giovane, mentre Lia è stata la prima moglie di Giacobbe (cfr. Gen 29,15-30). Qui
però Rachele è citata per prima, forse per sottolineare la scelta del minore, tipica
della logica divina. Viene poi ricordata anche Tamar insieme al figlio Peres e al
padre del bambino, Giuda (cfr. Gen 38). Se finora il testo ha proceduto per
allusioni, evocando cioè passi famosi della Scrittura e chiedendo al lettore di
riconoscere il valore di quelle allusioni, qui vi sono veri e propri riferimenti: i
nomi ricordano storie bibliche ben note. Ma quelle storie narrate nel libro della
Genesi vengono rilette in una nuova luce. Le vicende di quelle donne sono
infatti costellate di imbrogli e furbizie. Giacobbe intendeva sposare Rachele ma
Labano gli diede anzitutto Lia: Giacobbe però scoprì l’imbroglio solo la mattina
dopo le nozze (cfr. Gen 29,25); Rachele per restare incinta prese alcune
mandragore, cedendo per una notte Giacobbe alla sorella Lia (cfr. Gen 30,14-24);
infine Tamar si velò fingendosi una prostituta per giacere con Giuda e così
avere un figlio (cfr. Gen 38,14-15). Rut, invece, si è comportata in modo ben
diverso, percorrendo la strada della dedizione alla suocera, della generosità,
dell’osservanza della Legge.
Inoltre la menzione di Efrata e Betlemme (4,11) preannunciano il punto
d’arrivo della genealogia: Iesse e Davide, Efratei di Betlemme (1 Sam 17,12). In
Gen 35,16-19 Efrata e Betlemme sono legati alla morte di Rachele, la prima
madre d’Israele ad essere evocata dagli anziani di Betlemme. Il narratore
sembra suggerire che laddove è morta la sposa amata di Giacobbe la vita
riprende proprio attraverso Rut, la Moabita, dono del Signore al popolo di
Betlemme di Efrata. Ma in questo modo Rut, la donna moabita, entra
ufficialmente a far parte del popolo d’Israele.
5
Mercoledì 29 febbraio 2012
Milano – Teatro Stella (Parrocchia dei Quattro Evangelisti)
Itinerario biblico / 7
LA GENEALOGIA DI DAVIDE
Rut 4,13-22
don Matteo Crimella
0. Introduzione
Il racconto di Rut termina con l’unione fra la donna e Booz (4,13-17). Al
racconto stringato del matrimonio e della nascita del figlio maschio (4,13) segue
un discorso delle donne di Betlemme a Noemi (4,14-15). Il narratore informa
che Noemi fece da nutrice al bambino (4,16); poi le donne intervengono di
nuovo (4,17). Infine v’è la genealogia del re Davide (4,18-22).
1. Il Signore dona
Risolta la questione fra Booz e l’anonimo parente (4,1-12) ha luogo il
matrimonio. Il narratore ha dedicato molto spazio all’incontro fra il ricco
possidente e la donna moabita durante la notte, come pure ha dato largo risalto
alla discussione fra Booz e il parente presso la porta della città; ora invece, in
poche battute, sintetizza molti avvenimenti: il matrimonio, il concepimento, la
nascita del bambino. Più di nove mesi sono compressi in un solo versetto.
Il Signore, che ha donato pane al suo popolo (1,6), ora dona a Rut di
concepire e di far nascere un figlio (4,13). Sono gli unici due passaggi del libro
nel quale Dio è attore della storia. Se però la notizia iniziale (1,6) era filtrata
dalla percezione di Noemi (era la donna che aveva sentito dire nei cambi di
Moab…), quest’ultima notizia (4,13) è invece offerta dal narratore, fonte sicura e
affidabile. Due sono le conseguenze. Anzitutto il narratore assicura al lettore
che niente di ciò che è stato percepito e vissuto nella fede è stato vano: il Dio che
ora dona a Rut di concepire un figlio è lo stesso che diede il pane, come riteneva
Noemi all’inizio della vicenda. Ma in questo modo le due mancanze che
caratterizzavano l’inizio della vicenda, cioè la fame e l’assenza di una
discendenza, trovano una soluzione proprio a partire dall’intervento di Dio.
Tale intervento, tuttavia, si è manifestato proprio per mezzo di una catena di
gesti delle persone: Booz ha dato l’orzo a Rut (3,17); Booz poi ha preso Rut in
sposa e, grazie a ciò, il Signore le ha dato una gravidanza (4,11-12).
1
2. Un riscattatore
La notizia del matrimonio e della nascita del bambino (4,13), pur essendo lo
scioglimento dell’intera complicazione, tuttavia non rappresenta la fine della
storia. Al contrario è un nuovo inizio che conduce ad una conclusione inattesa e
sorprendente. Il narratore, come abbiamo già notato, interviene sia per
annunciare il matrimonio e la nascita del figlio, sia per ricordare che Noemi
«prese il bambino, se lo pose in grembo e gli fece da nutrice» (4,16). Avviene un
duplice passaggio: Rut è “presa” da Booz e diviene sua moglie, permettendo al
Signore di darle un bambino. Poi il bambino passa a Noemi che lo “prende” e
diventa la sua nutrice, mentre le vicine gli danno un nome. Inquadrata in queste
affermazioni del narratore v’è il discorso delle donne di Betlemme (4,14-15). Per
tre volte ripetono a Noemi quanto è successo e precisano che tutto ciò è «per
te»: “per te” è sorto un riscattatore (4,14), egli sarà “per te” il sostegno della
vecchiaia (4,15), il figlio è stato partorito “per te” dalla nuora che ti ama (4,15).
La corale esultanza delle donne funziona da controcanto alle parole
disperate che Noemi aveva rivolto alle sue nuore all’inizio del racconto (cfr.
1,11-13). Quando poi Noemi era tornata dai campi di Moab reagiva con forza
contro le donne di Betlemme che la riconoscevano («Ma questa è Noemi», 1,20),
urlando contro l’Onnipotente tutta la sua amarezza perché l’aveva fatta tornare
vuota (1,20-21). A quelle parole disperate le donne di Betlemme non avevano
risposto; ora invece le stesse donne esprimono la loro gioia per mezzo di una
benedizione. Il triste passato di Noemi scolora e si profila un futuro colmo di
speranza.
La benedizione delle donne è giocata su un singolare quiproquo. Esse
infatti benedicono il Signore perché “oggi” le ha donato un go’el, cioè un
riscattatore (4,14). Il lettore pensa subito a Booz; quando poi le donne
aggiungono che «il suo nome sarà ricordato in Israele» (4,14) e affermano che
egli «sarà il tuo consolatore» (4,15), l’impressione che si parli di Booz trova
conferma. La benedizione però continua e il prosieguo del discorso non lascia
dubbi: colui di cui si parla non è Booz ma il bambino nato da Rut. In altre
parole: questo finale a sorpresa raddoppia il riscattatore. Il go’el di Rut è Booz,
ma il bambino è il go’el di Noemi, colui che le dona vita, consolazione e
sostegno.
3. Tornare
V’è un altro segnale che collega il finale e il principio della narrazione,
mostrando il capovolgimento della drammatica situazione iniziale: è l’uso del
verbo tornare (šûb) che nel libro ricorre per ben quindici volte. Noemi si
2
presentava amareggiata perché il Signore l’aveva fatta tornare vuota (1,21); ora
invece le donne si rallegrano con lei perché il figlio di Rut è il suo consolatore
(letteralmente: “uno che fa tornare la vita”, 4,15). Altro compito del bambino è
quello di sostenere la donna, cioè di provvederle il cibo. Noemi che ha provato
lo spettro della fame sarà sostenuta nel tempo della sua vecchiaia proprio dal
nipote che le assicurerà il nutrimento, cioè la vita.
L’attenzione riservata a Noemi sembra trascurare Rut. Colei che aveva
lasciato la sua terra per seguire la suocera era già stata dimenticata da Noemi
nel momento in cui le due donne erano giunte a Betlemme: in quell’occasione la
suocera piangeva i suoi mali senza spendere nemmeno una parola in favore
della nuora (1,20-21). Le donne di Betlemme, invece, trovano le parole giuste
per definire quanto la Moabita ha fatto per la suocera betlemmita: Rut ama
Noemi (4,15). Le donne hanno compreso che alla radice delle scelte di Rut v’è
un profondo amore nei confronti di Noemi. Inoltre affermano che quella nuora
per lei è meglio di sette figli (4,15). In una società nella quale il maschio vale più
della ragazza, un simile paragone nei confronti di una nuora straniera è la lode
più grande che si possa immaginare.
4. È nato un figlio a Noemi
Pare quasi che sia Noemi a diventare la madre del bambino: se lo pone in
grembo e ne diventa la nutrice. La donna che aveva perso i suoi figli (1,5), ora
ha un bambino sul suo grembo (4,16) – sul suo grembo e non nel suo grembo –
al punto che le vicine esclamano: «È nato un figlio a Noemi!» (4,17), mentre è
chiaro che il Signore ha dato un figlio a Rut (4,13). «Noemi riceve una nuova
vocazione. Assicurata in tal modo della presenza affidabile di Dio, della quale
la donna aveva in precedenza dubitato, adesso accetta di prendersi cura di chi
nel futuro si prenderà cura di lei, provvedendo al suo sostentamento e
restituendo vitalità alla sua vita» (Scaiola).
Al bambino il nome viene imposto dalle donne di Betlemme, cosa
abbastanza strana. È chiamato Obed, cioè «colui che serve». Nel suo nome v’è il
suo compito: egli dovrà servire Noemi in quanto go’el. Ma nel suo nome v’è
pure un riflesso di quanto ha fatto sua madre nei confronti di Noemi ed è pure
anticipato quello che farà il suo discendente, il re Davide, ovverosia servire
Israele.
La storia termina allargando gli orizzonti verso il futuro. La narrazione
non riguarda più una sola famiglia, i suoi mali e il capovolgimento delle sue
sorti, bensì la storia di un popolo che nel re Davide ha un rappresentante di
riguardo. Il lettore, a questo punto, comprende il più ampio disegno celeste:
3
Dio, prendendosi cura di queste due donne e della loro particolarissima vicenda
di sofferenza, rivolge la sua attenzione a tutto il popolo d’Israele.
In un tempo in cui la visione ideologica di Esdra e Neemia imponeva
norme molto severe a proposito dei matrimoni con donne straniere (cfr. Esd 910; Ne 13,23-27), questo aureo libretto mostra che la bisnonna di Davide è una
donna moabita. In realtà questo modello sembra essere abbastanza consolidato
nella tradizione biblica. Giuseppe, infatti, ebbe due figli da Asenat, figlia di
Potifera, sacerdote egiziano (cfr. Gen 41,50-52). Giacobbe poi riconobbe quei
due figli come suoi (cfr. Gen 48,5) e il più piccolo, Efraim, divenne l’antenato
della dinastia d’Israele. Giuda poi generò Peres da Tamar, una donna
probabilmente cananea (cfr. Gen 38,6.29). Il libro di Rut, cioè, ha una forza
polemica di notevole spessore. Mostrando però che dietro questa vicenda v’è
un duplice intervento di Dio che dona pane (1,6) e assicura una discendenza
(4,13) il narratore, con grande discrezione, attribuisce proprio all’intervento
divino l’elezione di Davide: essa non è la conseguenza di abili mosse politiche e
militari, bensì frutto della scelta di Dio che opera nella storia grazie alla fede di
persone semplici e di nessuna importanza.
5. La genealogia
Il libro si era aperto ricordando dieci anni di permanenza nella terra di Moab; il
libro si chiude citando dieci generazioni fino al re Davide. La morte lascia
spazio alla vita, la disperazione cede il passo alla speranza, il triste passato si
apre ad un futuro radioso.
Le genealogie sono distanti dalla nostra sensibilità: a noi sembrano noiosi
e interminabili elenchi di nomi (si pensi a Mt 1,1-17). Nella Bibbia, invece, le
genealogie sono di primaria importanza. Gli autori biblici, infatti, attribuivano
alla discendenza una grande importanza e le genealogie ne sono la prova. Le
genealogie fondavano i rapporti fra le tribù, permettevano di risalire ai propri
antenati per rivendicare prerogative particolari, stabilivano legami tra membri
dello stesso gruppo sociale. Dopo la tragica esperienza dell’esilio gli Israeliti
non persero la coscienza di appartenere al popolo della promessa: fu allora che
tornarono in auge le genealogie. Esse permisero agli esiliati di ricongiungersi
nella terra promessa e di rinsaldare i legami con i loro antenati immediati ma
anche con i più lontani patriarchi. Dal punto di vista antropologico la
genealogia permette di stabilire una cronologia che passa attraverso la vita delle
persone; dal punto di vista teologico la genealogia pone in evidenza la
promessa divina che si compie proprio attraverso la successione di generazione
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in generazione. Dio, nonostante tutti gli sconvolgimenti della storia, continua a
guidare la trama della vita degli uomini.
Le dieci generazioni ricordate ci riportano a Peres, figlio di Giuda e di
Tamar, la cui vicenda è narrata nella Genesi (cfr. Gen 38,29). Si giunge infine al
re Davide: con lui si compie la promessa già fatta ai patriarchi. Nella
genealogia, al settimo posto, ritorna il nome di Booz. Non c’è né Elimèlec, né
Maclon, i due uomini di cui Booz doveva riscattare il nome. Il narratore registra
così il nome di colui che ha preso Rut come moglie e che, con lei, ha dato vita a
Obed. Tutto si realizza secondo l’augurio che gli anziani avevano rivolto a Booz
(cfr. 4,11-12). In questo modo due giusti, un “uomo di valore” proveniente da
Israele (2,1) e una “donna di valore” proveniente dalle nazioni (3,11)
s’incontrano e diventano tramite della promessa di Dio.
Matteo, nella sua genealogia, ricorderà sia il nome di Booz come pure il
nome di Rut (cfr. Mt 1,5). La donna moabita, insieme a Tamar, Racab, Betsabea
e Maria, entra nel novero di coloro attraverso cui la promessa di Dio giunge
sino a Gesù. L’appartenenza di Gesù al popolo ebraico è indubitabile ma fra i
suoi antenati vi sono donne straniere, a significare un’apertura universale che
anticipa il comando del Risorto di fare discepole tutte le nazioni (cfr. Mt 28,19).
6. Conclusione
Al termine del nostro itinerario dico qualche parola di conclusione. Questo
libretto breve, stringato, tutto incentrato sulla storia feriale di due donne,
lontano dalle grandi epopee del popolo d’Israele ha molto da dirci.
Oltre ad essere uno schiaffo all’ideologia di Esdra e Neemia,
sottolineando che proprio una Moabita è fra le antenate del re Davide, questo
libro ha un sottile ma importante valore teologico.
Il libro di Rut, infatti, spazza via ogni idea magica di Dio, accantona
qualsiasi enfasi su visioni, rivelazioni, comparse, voci notturne, manifestazioni
private. Come abbiamo visto tutto il racconto è costruito su un duplice pilastro:
il primo è la notizia della visita di Dio, filtrata dalla fede di Noemi (1,6); il
secondo è l’affermazione del narratore a proposito dell’intervento divino (4,13).
In mezzo nessun intervento di Dio, nessuna rivelazione, nessuna apparizione:
niente, solo le azioni degli uomini, il loro lavoro, i loro intrighi, le loro
debolezze, i loro slanci. In una parola: il racconto di Rut è la storia degli uomini:
scelte, azioni, crisi, fatiche, pensieri, idee, pianti, tristezze, soddisfazioni.
Detto in altre parole: è la storia il luogo dove riconoscere la presenza di
Dio. Questa affermazione per noi cristiani ha un’importanza fondamentale.
Perché Dio, creando, si è a tal punto legato con il mondo che, per poterlo
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vedere, non è solo impossibile slegarsi da esso, ma è doveroso riconoscere il
senso di questo legame. Gesù si è legato alla terra – fino a morire – e così
facendo riconosce e rivela il volto del Padre. Non dobbiamo cercare altro per
comprendere Dio se non di capire la nostra storia, il nostro tempo, la nostra
umanità.
Nel libro di Rut uomini e donne sanno leggere negli avvenimenti della
loro esistenza la rivelazione della bontà di Dio, la sua hesed. Il termine hesed
compare tre volte nel libro: 1,8; 2,20; 3,10. È un termine difficile da tradurre
perché significa al contempo “misericordia, bontà, amore, fedeltà”: nella sua
radice esprime “il radunarsi insieme per aiutare qualcuno”, quindi rimanda alla
reciprocità, al mutuo servizio, alla fraternità, alla fiducia, all’amore. Dunque
hesed ha tre caratteristiche: è un atto concreto, è un tipo di relazione, esprime un
atteggiamento costante. È bontà, benevolenza, favore, affidabilità. Ebbene: hesed
è quella di Rut quando sceglie di rimanere con Noemi, hesed è quando decide di
andare a spigolare, hesed è quella di Booz che riscatta la vedova straniera. Hesed
è la bontà. La bontà di Dio, la bontà degli uomini e delle donne che cambia la
sorte dell’umanità, non il destino.
Noi oggi non viviamo più l’epoca in cui ci sono persone contro Dio. I
tempi in cui si proclamava il proprio ateismo militante sono passati, travolti
dalla storia. Noi non siamo più in un’epoca contro Dio; siamo in un’epoca senza
Dio. Molte persone non hanno più le antenne per intercettare questa presenza,
occupate in altre faccende, distratte da varie sirene che si presentano sulla
spiaggia della vita. Proprio in questo tempo così triste («l’epoca delle passioni
tristi» l’hanno definito due attenti osservatori, Miguel Benasayag e Gérard
Schmit) noi cristiani abbiamo l’immenso dono di aver sperimentato la hesed di
Dio per noi in Gesù. Questa rimane la buona notizia capace ancora di fare
notizia. Un dono così grande non si può che condividere.
7. Una poesia per concludere
Vorrei terminare con il canto dello stupore, la poesia Nella moltitudine di
Wisława Szymborska1:
Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
come ogni caso.
In fondo avrei potuto avere
Wisława SZYMBORSKA, Attimo, a cura di Pietro MARCHESANI, Libri Scheiwiller, Milano 2009, 1921.
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altri antenati,
e così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.
Nel guardaroba della natura
c'è un mucchio di costumi:
ragno, gabbiano, topo di campagna.
Ognuno va subito a pennello
ed è portato docilmente
finché si consuma.
Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.
Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne una pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.
Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.
Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.
Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.
E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?
Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?
La sorte, finora,
mi è stata benigna.
Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.
Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.
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Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.
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