0 UNIVERSITÉ PARIS-SORBONNE ÉCOLE DOCTORALE IV, CIVILISATIONS, CULTURES, LITTÉRATURES ET SOCIÉTÉ ELCI (EA 1496 Équipe de recherche Littérature et Culture Italiennes) THÈSE pour obtenir le grade de DOCTEUR DE L’UNIVERSITÉ PARIS-SORBONNE Discipline: Littérature et culture italiennes Présentée et soutenue par : Michela MASTRODONATO le 9 decembre 2013 à 9h00 «PIETÀ PER LA CREATURA!». Il sentimento del sacro nella poesia di Pier Paolo Pasolini Sous la direction de: M. François LIVI Professeur Émérite de Langue et Littérature Italiennes, Université Paris-Sorbonne. JURY Mme Adele DEI M. Paul GEYER M. Gérard GENOT M. Walter ZIDARIČ Mme Edvige Comoy FUSARO Université de Florence. Universitat Bonn. Université Paris Ouest Nanterre. Université de Nantes. Maître de Conférences HDR Université Nice Sophia Antipolis. 1 Sulla forte sensibilità pasoliniana verso il tema del sacro esistono studi critici, sebbene poco numerosi, soprattutto attinenti alla produzione cinematografica e, più raramente, alla produzione di Pasolini come saggista e polemista. Ma Pier Paolo Pasolini ha sempre considerato sé stesso anzitutto un poeta e la mitopoiesi, a partire dalla prima poesia scritta all’età di sette anni, diventa l’esperienza creativa privilegiata in cui egli esprime la propria visione del mondo ed elabora negli anni la propria teoria conoscitiva del mondo e della realtà: in un tempo che precede cronologicamente ma anche logicamente il tempo dei romanzi, dei saggi critici, della filmografia, della drammaturgia e dell’attività saggistica e giornalistica. Da queste considerazioni è nata l’esigenza critica di indagare in modo specifico la ricca produzione poetica pasoliniana, conducendo una ricerca dal punto di vista del sacro che fin dall’inizio ha dovuto fare i conti con il fatto che Pasolini, almeno «nell’intelligenza»1 – per usare la felicissima espressione di Franco Fortini – si definisce «ateo», cioè “senza Dio”, malgrado il rapporto pieno di sacro e di mistero intrattenuto con le cose del mondo2. Ha dovuto fare i conti, cioè, con un oggetto d’indagine fragile e di difficile individuazione, anche se certamente meritevole di un lettura critica di natura precipuamente poetico-letteraria. In questo senso, lo spazio di analisi critica che si è aperto ha assunto la forma di una strettoia, di un percorso angusto sempre in bilico tra due dimensioni apparentemente antinomiche: da una parte un Pasolini persuaso sostenitore di una visione del mondo «senza Dio», deciso a respingere qualunque spiegazione trascendente dell’esistenza e della storia umane; e, d’altra parte, un Pasolini vigorosamente ispirato nella contemplazione di quella stessa realtà dalla sua dimensione immateriale, dalla sua significazione «non finita», non meccanicamente determinata, e non conoscibile attraverso la dialettica o la logica deduttiva. Si è cercato dunque di rintracciare questo sacro nella poesia pasoliniana e di decifrarne la fenomenologia seguendo quelli che Gianfranco Contini chiama sintomi costanti3: cioè lemmi appartenenti ad un medesimo «sistema metaforico» (nel nostro caso quello della religione cattolica, ma solo come punto di partenza) o ad una medesima esperienza poetica, che per la loro collocazione o per la loro insistente ricorrenza, delineano un sistema sotterraneo di rimandi, di reciproche illuminazioni e di fecondi rispecchiamenti; sintomi che a volte ricorrono a distanza di molto tempo l’uno dall’altro, o dissimulati in contesti radicalmente disomogenei tra loro, quasi confusi nella ricchissima orizzontalità dell’opera poetica ma capaci di illuminare, se notati e interpretati, la radice unica e unificante dell’ispirazione4. 1 L’espressione è di Franco Fortini che in una lettera a Pasolini del 24 giugno 1958, così definisce la dimensione intellettuale tematizzante del poeta, distinguendola da quella «viscerale» tutta interna alla sua poesia. 2 LAURA BERGAGNA, Intervista sincera con Pasolini sul mondo, l’arte, il marxismo, «La Stampa», 12 luglio 1968, p. 3. 3 «Il campionario di citazioni tende a soddisfare l’assunto centrale del ragionamento […] il quale vorrebbe sforzarsi di descrivere, se non di trascrivere […] sintomi costanti nel poema; di alludere a un dato che si documenti non da questo o da quel luogo, ma dalla totalità dell’opera», GIANFRANCO CONTINI, Un’interpretazione su Dante, I, cit.,p.12. 4 Condivisibile, in questo senso, Alessandro Bosco secondo cui Pasolini parla «retroattivamente di “sospensione del significato” anche per opere quali Ragazzi di vita e Accattone, quasi a indicare nella propria religiosità la sorgente prima di tutta la sua produzione poetica», ALESSANDRO BOSCO, «E come si può adorare 2 Seguendo il criterio cronologico la nostra lettura ha preso le mosse da un punto di partenza certo, vale a dire l’indiscutibile presenza di una religiosità di natura arcaica che permea le poesie giovanili di Poesie a Casarsa (poi confluite ne La meglio gioventù) e de L’Usignolo della Chiesa Cattolica, testi in cui Pasolini attinge a piene mani nell’archivio di immagini, simboli e stilemi della cristologia e della tradizione biblica. L’esperienza di sentirsi «senza Dio», infatti, in queste due prime raccolte si manifesta attraverso l’espressione di un irrisolto senso di colpa per la propria omosessualità, di un sentimento di penosa esclusione, della percezione di una cacciata o di un allontanamento da Dio: il quale, però, sebbene assente, continua a tenere ben fermo sotto il proprio sguardo gli occhi spauriti del reietto respinto e predestinato alla solitudine. Poesie a Casarsa (Landi,1942) apre La Meglio gioventù e rappresenta l’esordio poetico di Pier Paolo Pasolini. Si compone di testi in dialetto friulano attraverso il quale egli scopre le «sacre apparizioni» del paesaggio della campagna friulana materna, scopre la poesia e insieme la vitalità espressiva della parola còlta allo stato nascente di pura sonorità nei lemmi del dialetto. In questo paesaggio si specchia anche la scoperta da parte di Pasolini della propria omosessualità e di una diversità radicata nel «disperato amore per la madre», la tessitura del sacro prende le mosse dalla magia di un paesaggio campestre archetipico, dalla «proiezione»5 nella poesia dalla naturale religiosità contadina, dalla meditazione poetica su questa diversità vissuta come un stato di «colpa» non volontario, bensì innato e in qualche modo «innocente». Nella fase giovanile, la «fenomenologia del sacro» attinge copiosamente al «sistema metaforico» proprio della religione cattolica: l’immagine del «Cristo», l’immagine della «croce» («Piegatevi, gente cristiana /a sentire un filo di voce, / fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce», La not di maj6); l’immedesimazione nel corpo crocifisso («Porterai muta / Anche tu la mia croce», A na fruta7); riscrive l’oratione dominica. Ma dà vita anche a questa particolare visione dell’«oscura luce» che resterà feconda in tutta la produzione poetica successiva, la visione di un Dio che resta invisibile ma di cui si scorge, riflessa, la sua luce «immensa»: «Oso alzare gli occhi / sulle cime secche degli alberi: /non vedo il Signore, ma il suo lume /che brilla sempre immenso» (Misteri, in Poesie a Casarsa). La stesura de L’Usignolo della Chiesa Cattolica, raccolta scritta in lingua italiana, si sovrappone cronologicamente a Poesie a Casarsa e ai primi testi in friulano de La meglio gioventù. Il nucleo originario concepito come «libretto di meditazioni religiose» è infatti già pronto alla fine del 1943, e si configura come un’allocuzione alla Chiesa Cattolica da parte di un usignolo-poeta che invoca ascolto ed accoglienza. Ne La Chiesa ancora dominano le atmosfere paesane di Poesia a Casarsa, e in molti testi grande peso ha la metafora cristologica del «sangue versato» nell’ambito di una visione, piuttosto stereotipa a dire il vero, di una Chiesa delle origini che «langue ferita», soffocata dalla maschera mondana della ciò che strazia?». Sacro e religiosità in Sciascia e Pasolini, in La place de la religion et le sens du religieux dans la littérature narrative italienne contemporaine (1970-2006), Atti del Convegno Internazionale di Grenoble, 2324 novembre 2006, in «Cahiers d’ètudes italiennes», 9/2009, GERCI, Universitè Stendhal- Grenoble. 5 «Quei parlanti era i contadini friulani, religiosi. E quindi questa loro religiosità si è proiettata nella nella mia poesia quasi automaticamente», in Pasolini rilegge Pasolini, cit., p.43. 6 La not di maj, vv.29-32, Poesie a Casarsa, cit., p.56 7 A na fruta, vv. 7-8, Poesie a Casarsa, cit., p.27. 3 moderna Istituzione ecclesiale, Chiesa che sopravvive nel «canto» e nella devozione della gente semplice. La raccolta segue insomma il dipanarsi dell’«interminabile crisi religiosa» di cui parla Pasolini stesso in una pagina dei «Quaderni rossi» del ’47. A partire da questa indicazione, l’analisi dei testi de L’Usignolo ha messo in evidenza come l’io poetico, a partire da questa diversità non scelta ma solo vissuta, tenti di di ridefinire il concetto di «peccato»; ma anche il concetto di «verginità», da intendersi non nel senso di un’astinenza dai richiami del corpo bensì nel senso di «castità», di fedeltà a sé stessi e alla natura ricevuta in sorte. E questo incolpevole peccato dal punto di vista retorico assume la forma dell’ossimoro: «Il gesto santo / del mio peccato/ cade in un vespro/di castità (Litania8). Rispetto a questo mitico esordio l’intera raccolta de L’Usignolo agli occhi di Pasolini appare come la «storia di una decadenza», come annota nei manoscritti, temendo che la questa meditazione poetica sia ormai giunta ad un vicolo cieco, né «decadenza» e né «purificazione»: «Non so liberarmi da questo “destino”, non so neanche capacitarmene o rassegnarmi. Vorrei poter dare al lettore almeno un barlume di quella che potrebbe essere la purificazione; ma non si tratterebbe che di un appiattimento assoluto, la definitiva scomparsa della mia immagine di giovane»9. Ma è senz’altro vero, e su questo si è insistito, che Pasolini non si dà facilmente per vinto innanzi a questa assenza, e nelle pagine della sezione Paolo e Baruch egli ingaggia una vera e propria disputa con Dio scendendo sul suo stesso terreno di battaglia, le Sacre Scritture, nel tentativo di svuotare dall’interno le argomentazioni del giudizio divino di condanna che sente pesare su di sé. Inizia cioè a contendere e a dialogare con l’Assente. Nasce così quello che abbiamo definito il trittico biblico: Lettera ai Corinti, Baruch e La crocifissione, tre poesie che includono e provocano al proprio interno ampie citazioni tratte dal Libro di Baruch dell’Antico Testamento e dalla Lettera ai Corinzi di San Paolo: stralci sapientemente selezionati che approfondiscono il tema dell’accoglienza del peccatore, la definizione di malvagità, il senso della punizione di mancanza di dolo. Disputa che nei Madrigali a Dio approda ad una vera e propria accusa a Dio, non buon pastore bensì presenza colpevole che resta muta innanzi alle orme dell’agnello smarrito e soggiogato da un istinto non voluto di autodistruzione: «Dio, mutami! Muta la mania / di chi vuole morire... Ma Tu taci / sopra le peste del perduto agnello, / sopra il morente» (Madrigali a Dio10). Pasolini in queste pagine poetiche dà il meglio di sé nel tentativo di espugnare la rocca di un Dio che egli avverte assente e colpevole di quest’assenza. Il racconto poetico de L’Usignolo si serve insomma di immagini e lemmi molto connotati nel sistema metaforico della religione cattolica, mantenendosi interno a quel sistema di pensiero. La percezione del sacro, cioè, non assume solo la forma dei lemmi riconducibili alla religione cattolica ma anche i concetti che quei lemmi veicolano. È però un racconto che non riesce a quadrare il cerchio, «non risolve» lo stallo di una condizione che non riesce a legittimare sé stessa al cospetto della norma postulata da una religione eletta comunque ad interlocutore privilegiato. «I Diarii, 1943-1953»: il «non finito» e la lezione leopardiana 8 Litania, vv.21-24, in L’Usignolo, cit., p.412. Cfr Note e notizie sui testi a Lingua, in L’Usignolo della Chiesa Cattolica, cit., p.1559. 10 Madrigali a Dio, I, vv.1-12, in Tragiques, L’Usignolo della Chiesa Cattolica, cit., p.485. 9 4 La cosiddetta poesia diaristica pasoliniana si compone di diverse raccolte minori riunificate sotto il titolo I Diarii. 1943-1953: si tratta di Dal diario (1945-1947); Venti pagine di diario (1948-1949); Roma 1950. Diario; Ritmo Romano risalente al 1950-51; Poesia con letteratura risalente al 1951 e parzialmente pubblicata postuma nel 197511, e Sonetto primaverile, risalente al 1953 e pubblicata nel 196012. Si tratta di un percorso poetico parallelo che condivide con La meglio gioventù e con L’Usignolo della Chiesa Cattolica la stessa radice ispirativa ma che si configura come un luogo in cui Pasolini si mette all’ascolto di suggestioni poetiche ulteriori, in cui risuonano approdi poetici archetipici della letteratura classica nell’alveo della quale Pasolini ha edificato la propria cultura poetico-letteraria e la propria cultura tout court. In questo senso emerge la presenza feconda e pervasiva di Giacomo Leopardi che nutre la poesia pasoliniana, senza fornire tessere testuali più o meno fedeli bensì ponendosi come termine a quo di una riflessione più profonda sulla dimensione non finita dell’esistenza e sulla vocazione della mitopoiesi a cogliere questo non finito. È la dimensione denotata dall’incanto, lemma che per primo Leopardi affranca dalla significazione ariostesca di fatatura, di incantamento magico, spostando il centro semantico sull’accezione di contemplazione delle meraviglie della natura («l’incantevole e magico effetto / Che natura concede alle creature»13). Accezione che Pasolini ha in mente, che rielabora nell’espressione «incanto di una “forma divina”»14 e che colloca in diversi testi poetici. In questi testi, definiti diaristici forse perché molto lirici e non vistosamente engagé, il dialogo con Leopardi è vasto e radicale. Come Leopardi, d’altronde, alla fine degli anni Quaranta Pasolini s’interroga sull’entusiasmo e sulle modalità espressive dei suoi «contemporanei»15; come Leopardi indaga la potenza evocativa della parola poetica innanzi all’immensità del non finito16. Un dialogo in cui la tessitura poetica pasoliniana si muove arrivando a prolungare la meditazione leopardiana di elementi nuovi o solo accennati. Come accade per quella dimensione altra contemplata dall’incanto dello sguardo poetico che a differenza di Leopardi Pasolini non situa «oltre la siepe» o al di là della realtà sensibile, bensì dentro questa realtà: «fino, / non oltre, l’orizzonte»17. Pasolini cioè, a partire e facendo tesoro dell’intuizione poetica leopardiana, approda alla visione di una dimensione ultrasensibile che si situa, tuttavia, nello stesso luogo in cui questa realtà appare ed è concretamente sensibile. Pasolini cioè presuppone la «siepe» leopardiana come limite che provoca e inaugura l’immaginazione poetica, ma aggiunge qualcosa in più: egli scorge in quella stessa «siepe», come pure «in noi e in tutte le cose terrene»18| che abitano il creato, il luogo fisico da cui propriamente si irradia il sovrasensibile. In qualche modo, dopo aver seguito le orme di Leopardi, egli le supera, spingendosi a 11 Cfr PIER PAOLO PASOLINI, Le poesie, Milano, Garzanti, 1975 e «Nuovi Argomenti», sett-dic.1975. Cfr l’edizione “All’insegna del Pesce d’oro”, Milano, novembre 1960. 13 Cfr Concetto dell'idillio secondo, in G.LEOPARDI, Tutte le opere, I, cit., p.73. 14 «Quaderni rossi», in Romanzi e Racconti, I, cit. p.156. 15 L'ispirazione nei contemporanei, marzo 1947, in Saggi sulla letteratura e sull'arte, I, cit., pp.203-209. 16 I nomi o il grido della rana greca, inedito risalente al 1945-46, in Saggi sulla letteratura e sull'arte, I, cit., p.193-198. 17 Per i cigli assolati, v.12-13, Dal diario, in Tutte le poesie, I cit., p.605. 18 I nomi o il grido della rana greca, cit., p.193. 12 5 concepire e intuire nella materia l’immanenza del immateriale, della «dimensione paurosa che non sfugge ai mistici». Superando, crediamo, anche il cosiddetto materialismo leopardiano. «La ceneri di Gramsci» (1957): la salvezza nella coralità e nella conoscenza La scoperta della dimensione corale e, insieme, di una rinnovata ispirazione civile è il cardine dell’ispirazione nella raccolta poetica più famosa di Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, e di queste nuove suggestioni risente anche la ricerca espressiva del sacro. In un’intervista rilasciata in epoca tarda, Pasolini definirà «l’apparizione del sottoproletariato romano come» come un «apparizione traumatica», un «trauma umano» che «lo ha sconvolto». E dà a questo trauma un nome preciso: «La pietà è quella che ho chiamato prima il “trauma”»19. Ed è proprio la pietà, lemma con cui si conclude il testo poetico Le ceneri di Gramsci, il nuovo spazio semantico cui, da questo momento in poi, attinge la riflessione poetica di Pasolini sul sacro anche se è ne La religione del mio tempo che il percorso conoscitivo inaugurato dalla pietà giungerà al suo culmine. Cercando di individuare le nuove visioni che danno forma e realtà poetica a questa meditazione, fin dai primi versi della raccolta si siamo imbattuti nella presenza del poeta che meglio di qualunque altro, nella storia della letteratura italiana, coniuga la dimensione corale con il sacro e con il bisogno profondo di una militanza civile: vale a dire Dante Alighieri. Anche Dante, come Leopardi, non emerge in modo immediato alla superficie de Le ceneri, cioè non nella semplice ricorrenza di citazioni letterali bensì in visioni poetiche che Pasolini rigenera in contesti affatto distanti da quelli dell’archetipo cui si richiamano, tracciando una personale visione metaforica del sacro. Spiccano così lemmi che, pur non appartenendo al vocabolario religioso-sacrale tradizionalmente inteso, suggeriscono un’ispirazione sottostante profondamente radicata nella percezione del sacro. Accade nella poesia L’umile Italia (titolo che in un primo tempo Pasolini pensò di dare all’intera raccolta) in cui il lemma «umile», apparentemente neutro dal punto di vista sacrale, si àncora a precise visioni dantesche: alla mitica e sacra Italia di Enea e dei padri fondatori evocata nel I canto dell’Inferno20; come all’«umilissimo» garrito delle rondini che a quell’Italia continuano a dare voce e che nell’immaginario dantesco, e pasoliniano, sono intimamente legate all’aurora, «ora» magica in cui si dà l’epifania del sacro, tempo interiore quasi onirico in cui la «mente nostra [...] a le sue visïon quasi è divina»21. «La religione del mio tempo» (1961): dalla Crocifissione all’Incarnazione Dal punto di vista del sacro, La religione del mio tempo rappresenta una svolta. Proprio nella poesia che dà il titolo alla raccolta, nei primi cinquanta versi del V lemma, Pasolini delinea infatti una visione del sacro che appare compiuta, coerente in sé stessa e in grado di coniugare armonicamente tra loro le soluzioni metaforiche e gli approdi ideali che in 19 Pasolini rilegge Pasolini. cit., p.45. Il virgolettato di «trauma» è di Pasolini. «Di quella umile Italia fia salute / per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute», in DANTE, Inferno, I, vv.106-108, cit., p.49. 21 «Ne l'ora che comincia i tristi lai / la rondinella presso a la mattina,/ forse a memoria de’ suo’ primi guai, / la mente nostra, peregrina / più da la carne e men da' pensier presa, / a le sue visïon quasi è divina», DANTE, Purgatorio, IX, 13-18, cit., p.474. 20 6 ordine sparso sono andati chiarendosi nelle raccolte precedenti, trasferendo la sua meditazione ad un livello più alto di consapevolezza. Questa visione compiuta del sacro prende forma in quello che abbiamo definito un orizzonte creaturale che tende a sovrapporsi alla complessiva visione del mondo pasoliniana e che prevede una centralità assoluta del valore insito nel concetto di «creatura». Non del concetto astratto di creatura, bensì di ogni concreta creatura che. còlta nella sua specificità ineliminabile, appare sacra e intoccabile proprio in questa sua unicità: «una delle infinite branche della pianta / che frondeggia alla semplice vita». La riflessione poetico-conoscitiva di Pasolini fa tesoro della tradizione filosofica dell’Empirismo e del Sensismo, secondo cui ogni processo di conoscenza della realtà non può che muovere dalla multiforme veste, empirica e sensibile, della realtà stessa che per quanto dissipata e disomogenea possa apparire, è il punto di partenza di ogni possibile indagine (nihil fuit in intellectu quod prius non fuerit in sensu). Pasolini, cioè, è ben consapevole della portata eversiva e antiautoritaria di una simile posizione intellettuale (e poetica) rispetto all’idealismo o, peggio, all’ideologismo (non a caso una delle più importanti raccolte di saggi critici curata dallo stesso Pasolini nel 1972 s’intitola appunto Empirismo eretico). La sostanza sacra della creatura empiristicamente individuata dalla poesia consiste, infatti, unicamente nella sua «volontà di esistere» (quella tenace de Il glicine), e non nella contingenza della sua indole naturale. Una creatura per la quale Pasolini invoca un’«infinita misera pietà»22: «Pietà per la creatura!»23. Col passare del tempo diventa sempre più centrale, nella poesia di Pasolini, la lezione di autori della letteratura classica (Leopardi, ma anche Petrarca e su tutti Dante) che hanno a loro modo sperimentato il cruccio esistenziale legato all’amore e al peccato, e i cui «sistemi metaforico-poetici» si configurano come limitrofi ma non sovrapponibili a quelli della tradizione religioso-sacrale propriamente intesa. «Poesia in forma di rosa»: lo sguardo sacralizzante della mitopiesi. La cronaca degli anni dedicati alla sperimentazione di una nuova tecnica espressiva come il cinema, è il filo rosso di Poesia in forma di rosa, un racconto che si dipana all’insegna di una continua osmosi tra la dimensione sacra e il vissuto quotidiano. La raccolta, però, trae il titolo da un’esperienza particolare: il dono di una rosa che Susanna Colussi, madre di Pasolini, lascia di buon mattino sulla scrivania del figlio. Pasolini la trova e ne nasce una meditazione poetica che apre uno squarcio sulla sacralità di una dimensione inaugurata dall’amore per sua madre e dal mucchio di carte sulle quali si accanisce per ore ogni giorno, vale a dire la poesia. Si tratta di versi poi eliminati dalla versione definitiva, ma il giardino da cui questa rosa còlta proviene è un «umile giardino» («umile» per Pasolini è un lemma che denota sacralità), e il suo sacro impulso vitale la spinge ad «erigersi verso il cielo»: «Sì. In questa rosa posata / da una madre sul tavolo del figlio, / c’è un’allusione monumentale / alla Colpa divenuta Morte. / Cresciuta in terra, in qualche / umile giardino, si erige in cielo»24. 22 «[...] e vinco, questo mio poco, / immenso bene, vinco quest’infinita, / misera pietà / che mi rende anche la giusta ira amica», Frammento alla morte, vv. 25 e sgg. in La religione del mio tempo, cit., p.1049-50. 23 «Questi due che per quartieri sparsi»,v.22, La religione del mio tempo, cit., p.976. 24 Note e notizie sui testi, Poesia in forma di rosa, in Tutte le poesie, I, cit., p.1717. 7 Ne La Guinea troviamo d’altronde confermata l‘idea della poesia come veicolo privilegiato di sacralizzazione della vita e della realtà, quando così Pasolini si rivolge al poeta e amico Attilio Bertolucci: «Alle volte è dentro di noi qualcosa / (che tu sai bene, perché è la poesia) / qualcosa di buio in cui si fa luminosa / la vita: un pianto interno, una nostalgia / gonfia di asciutte, pure lacrime […] ecco farsi, in quel pianto sacri / i più comuni, i più inutili, i più inermi / aspetti della vita»25. In questa raccolta troviamo, però, anche l’immagine rovesciata dell’orizzonte creaturale, in versi che riflettono il disagio di chi si sente perseguitato da diversi processi tra cui quello contro il mediometraggio La ricotta per vilipendio alla religione di Stato. Di questi testi il più significativo è La realtà in cui Pasolini dà fondo, dialogando ancora con Leopardi e con Dante, a tutta la sua capacità visionaria nel raffigurare lo scenario di un’idea del mondo autoritaria e omologante che minaccia la creazione stessa, con una visione unica ed unificante di che cosa debba essere la realtà stessa: vale a dire un’unica realtà uguale e valida per tutti, in cui la variegata e multiforme molteplicità della creazione, come in un incubo, si trasforma in unanimità culturale e morale. «Trasumanar e organizzar»: Dante e la «luce» onirica Pasolini torna a parlare di sguardi che incrociano il divino alla fine della poesia Trasumanar e organizzar che dà titolo all’ultima raccolta poetica. E lo fa alla fine del testo poetico che compendia in sé molte delle acquisizioni pasoliniane sul sacro inteso come percorso privilegiato di conoscenza della realtà. La poesia, infatti, dopo un lungo disquisire sull’opportunità per l’io poetico di iscriversi al Pci oppure no, arriva a sciogliere questo dilemma; ebbene la ragione ultima e squisitamente poetica per cui malgrado tutto vale la pena iscriversi al partito degli operai risiede in una visione, anzi in un colore particolare dell’«aria che si oscura» nella quale ancora una volta i «vólti» degli operai si «accendono» varcando i confini del cielo. In questa ultima, eterogenea, avvincente ma per certi versi faticosa raccolta poetica di intenso spessore metaletterario, il «sistema di metafore» attraverso cui Pasolini continua ad esprimere la propria sensibilità verso una dimensione immateriale dell’esistenza e verso gli aspetti della realtà che alludono ad un senso altro («i più inermi, i più inutili aspetti della vita», come dice ne La Guinea), svetta senza dubbio il pregio e il peso del lemma dantesco «trasumanar», mutuato dal I canto del Paradiso. Le terzine sono quelle famose in cui Dante si confronta con la necessità di tradurre in parole («per verba») la mutazione interiore che egli subisce al cospetto di Beatrice26 e che coincide con una metamorfosi che potremmo definire verticale, vòlta cioè a trasvalutare la natura umana in direzione del divino. Ebbene Pasolini ritiene che in questo lemma, «trasumanar», sia racchiuso il senso della mitopoiesi, capace di cogliere nel suo momento più fuggevole, il darsi di questa immaterialità, nel momento cioè in cui appare qualcosa che è unico e che in nessun modo è riproducibile una seconda volta. 25 La Guinea, vv.1-11, La realtà, in Poesia in forma di rosa, I, cit., p.1085. «Nel suo aspetto tal dentro mi fei, / qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi. / Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperïenza grazia serba», DANTE, Paradiso, I, vv.67-72, cit., p.778. 26 8 Ne La religione del mio tempo la metafora dell’incarnazione, e i suoi equivalenti, ambisce a restituire poeticamente un movimento ideale che da una dimensione totalmente altra si cala verso il basso della dimensione mondana. Nell’ultima raccolta, invece, il lemma «trasumanar», appartenente al «sistema metaforico» dantesco che è limitrofo a quello religioso in senso stretto, sembra l’indizio poetico di un movimento ideale uguale e contrario a quello dell’incarnazione: un movimento che dal basso si volge a guardare verso un luogo altro, pregno di senso ma afono come il linguaggio «non verbale» di Bob Kennedy in Egli o tu. È il movimento verso l’alto, nella poesia Trasumanar e organizzar, degli «operai» e delle «operaie» che appaiono come «presenze carnali della volontà delle istituzioni»27 con i «loro vòlti accesi nel mondo dell’azione come sull’altra faccia del cielo»; un movimento suggerito dall’apparizione «sulla schiena» dell’io-poetico della «mano sacra e untuosa di San Paolo»28, figura ossimorica stretta tra «attualità» e «santità»29. Il lemma «trasumanar» è cioè indizio che per Pasolini allude ad una dimensione che non è contattabile sul piano sensibile se non indirettamente, come attraverso un confine invalicabile che solo negli «istanti prodigiosi»30 della poesia diventa come poroso, un muro che si assottiglia fino allo spessore di una coltre di nubi da cui filtra una luminosità onirica, simile a quella di un’eclissi di sole. Pasolini dialoga o almeno guarda con ossessiva tenacia a questo luogo-non luogo: fonte invisibile di una luce visibile, spazio in cui si suppone che Dio consumi la propria assenza. E da questo luogo-non luogo egli raccoglie quel poco di luce che gli serve per illuminare di senso le esperienze storiche, materiali e concrete, che altrimenti resterebbero senz’anima, prive di soffio vitale: le istituzioni, il PCI, la Chiesa, i generi letterari che smonta e rimonta, la contestazione studentesca del ’68. In una parola l’organizzar: che senza il trasumanar precipita tutto e tutti nell’«omologazione delle anime»31. Per questo la nostra indagine ci porta a parlare di una sicura durata verticale dell’interlocuzione poetica pasoliniana, una disposizione esistenziale vocata all’ascolto di ciò che si muove “non visto” nelle storie e nelle esistenze degli uomini. 27 Trasumanar e organizzar, vv. 27-29, in Tutte le poesie, II, cit., p. 81. Trasumanar e organizzar, vv.141-148, cit., p.86. 29 Progetto per un film su San Paolo, in Appendice ad «Appunti per un fiilm su San Paolo», in P.P.PASOLINI, Scritti per il cinema, II, cit., pp.2023 e sgg. 30 Cfr I nomi o il grido della rana greca, inedito risalente al 1945-46 oggi in P.P.PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, I, p.193-198. 31 La reazione stilistica,vv.60-61, La religione del mio tempo, cit., p.1042. 28 9 Titre : «Pitié pour la créature!». Le sentiment du sacré dans la poesie de Pier Paolo Pasolini Résumé: L’écoute du sacré touche les racines de la poésie de Pasolini, même si Pasolini se décrit toujours comme un athée. Cette recherche analyse la poesie de Pasolini dans son évolution chronologique, indiquant comment les premier collections de la jeunesse (La meglio gioventù et L’usignolo della Chiesa Cattolica) sont caractérisées par visions et images christologiques, dans un paysage de « apparences sacrée » où il découvre son homosexualité comme une «faute innocente», pas intentionnelle, qui lui empêche d'entrer en communion avec les autres créatures. Pour ce péché il demande écoute, engageant même une dispute biblique et théologique. Mais avec l'arrivée à Rome s’ouvre une nouvelle phase: Pasolini découvre la dimension chorale des banlieues romaines et cette découverte rompt son isolement intellectuel (Le ceneri di Gramsci). Alors il cesse de demander pardon et revoit le concept de péché qui n'est plus ou pas seulement à l'intérieur mais aussi à l'extérieur de lui-même, commis par qui (la bourgeoisie néo-capitaliste, hégémonique, irréligieuse et « fasciste ») empêche chaque «créature» d'être telle qu'elle est. Pour chaque «créature», unique et différent de tous les autres, Pasolini appelle à la miséricorde: «Pitié pour la créature!» (La religione del mio tempo) et construit, dans le chemin de la meilleure tradition humaniste de Virgile à Dante à Leopardi, une vision sacrée de la réalité inscrite dans un horizon peut-être non « creationniste » mais certainement « creaturelle», dans lequel Dieu ne peut pas être vû mais seulment aperçu, à la façonne d’un soleil éclipsé. Une sorte de lumière occulte dont on ne voit pas la source, qui tombe sur les créatures (surtout les dernières: les travailleurs, les Noirs, les différents, les marginalisés) et qui leur donne une vie pleine de sens poetique: l'incarnation du «surhumain» dans l’«humaine» (Trasumanar et organizzar). Mots-clés: Pasolini, poesie, sacré, Dieu, pitié, faute, peché, innocence, choralité, créature, Dante, Leopardi, Virgil, humanisme) Title : «Pity the creature!». Sacred feeling in the poetry of Pier Paolo Pasolini. Résumé EN ANGLAIS: The concept and sense of a sacred vision deeply influences the poetry of Pasolini. This research paper confronts the fact that Pasolini always saw himself as an atheist. It analyses his poetry in its chronological evolution, indicating how the first collections written in Friuli (La meglio gioventù and L’Usignolo della Chiesa Cattolica) are characterized by Christological visions and images. In Friuli, in a maternal landscape made up of “sacred appearances”, he discovers his homosexuality as a "guilty innocent", something that was not intentional and that prevents him from entering into communion with other creatures. For this sin, he asks to be heard, engaging in a biblical-theological dispute. His arrival in Rome opens a new phase: Pasolini discovers the choral dimension of the Roman suburbs that breaks the previous isolation (Le ceneri di Gramsci). He stops asking for forgiveness and reviews the concept of sin that is not only internal, but also external, committed by the neo-capitalist, bourgeoisie, who are both irreligious and “fascist”, preventing any single “creature” from being as it truly is. For every “creature”, unique and different from all the others, Pasolini calls for mercy: «Pity the creature!» (La religione del mio tempo) and in the wake of the best humanistic tradition from Virgil to Dante onwards to Leopardi, he builds a sacred vision of reality which is inscribed into a philosophical horizon, not “creationist” but certainly “creatural", in which God is felt rather than seen, like an eclipsed sun, a dimmed light whose source is impossible to see. A light which illuminates the last “creatures” (workers and all marginalized people), giving them the precious present: a meaningful existence, the incarnation of celestial dimension in human history (Trasumanar e organizzar). Key-words: Pasolini, sacred, poetry, God, pity, fault, sin, innocence, creature, Dante, Leopardi, Vergile, humanisn. Discipline: Littérature et culture italiennes École Doctorale IV, Civilisations, Cultures, Littératures et Société (EA 1496- ELCI - Littérature et culture italiennes), Maison de la Recherche Serpente (28 rue Serpente, 75006 Paris).