Paolo Gallarati
Trent’anni all’Opera
(1978-2010)
Le Lettere
INDICE GENERALE
Prefazione
Lo spettacolo nello specchio della recensione.................................................. p. 7
I. Seicento e Settecento................................................................................... » 19
II.Ottocento.................................................................................................... » 81
III.Novecento................................................................................................... » 229
Indice delle opere............................................................................................... »319
Indice dei nomi................................................................................................... »323
II
Ottocento
Mi ama per i soldi o per me stesso?
Un applauso ha accolto l’altra sera, al Palasport di Pesaro, l’alzarsi del sipario su La
pietra del Paragone (1812) che Pier Luigi Pizzi, autore di regia, scene e costumi, ha
allestito per il Rossini Opera Festival. La sua trasposizione della vicenda in epoca
contemporanea non fa una grinza; anzi, esalta l’attualità di questo spaccato di vita
borghese che consacrava la fama di Rossini ventenne al suo debutto alla Scala di
Milano con un successo tale da procurargli l’esenzione dal servizio militare.
Siamo in una splendida villa, con pareti a riquadri bianchi e rossi, dotata di
tennis e piscina al­l’interno di un parco secolare dove si svolge la vicenda del ricco Conte Asdrubale, desideroso di saggiare la sincerità delle signore che gli ronzano intorno: si traveste, così, da creditore straniero, finge di perdere tutto il suo
patrimonio e, attraverso questa “pietra del paragone”, può distinguere tra chi veramente lo ama (la marchesa Clarice) e le semplici aspiranti a un matrimonio da
nababbi. Questa storia galante acquista uno straordinario mordente attraverso le
tre macchiette che appartengono alla mondana società di cui il Conte si circonda:
un giornalista, Macrobio, fiero del suo potere sul­l’opinione pubblica («Mille vati al
suolo io stendo /con un colpo di giornale») e due poeti, uno, Giocondo, più serio
e compiaciuto della propria presunta superiorità intellettuale («Vil timore ai versi
miei / mai non fece alcun giornale») l’altro, Pacuvio, sciocco, pedante e insistente
nel recitare a tutti le sue poesie idiote, tra cui l’esilarante, famosissima «Ombretta
sdegnosa del Missipipì» [sic]. Questa vicenda, che va ben oltre la convenzionalità
delle trame buffe tradizionali, fece scoppiare dei veri fuochi d’artificio nella fantasia
del giovanissimo Rossini. Se nelle quattro farse del 1810-12 il prodigioso ragazzo
aveva inventato un nuovo ritmo e una nuova velocità, qui mette a punto la sua inconfondibile personalità melodica: i motivetti che zampillano ovunque sono ormai
tutti, inconfondibilmente rossiniani, e attendono solo un libretto meno dispersivo di
quello di Romanelli per conquistare, l’anno seguente, con L’Italiana in Algeri, quella
compattezza che porterà l’opera comica di Rossini a livelli qualitativamente assoluti
nel suo equilibrio tra dramma e gioco.
Per metterlo in scena oggi, nel 2002, Pizzi ha fatto una cosa intelligente, spiritosa, elegantissima. Nella villa del­l’alta società le signore si bagnano in piscina, gli
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uomini duettano giocando a tennis sul bilanciarsi ironico delle simmetrie rossiniane,
gli innamorati si parlano al telefono, risolvendo così molto bene, col gesto di coprire
ogni tanto la cornetta, l’imprudente profluvio degli “a parte” che dilagano nel confuso libretto di Romanelli. I cantanti, sotto la guida di Carlo Rizzi, devono essere
stati scelti anche con l’intento di ben figurare in costume da bagno o con gli splendidi vestiti della collezione Torelli di Roma: un seguito inesauribile di Dior, Chanel, Saint Laurent, ecc., uno più bello del­l’altro nella fantasia di stoffe, colori, tagli
elegantissimi e molto ben portati. Carmen Oprisanu, slanciata come un’indossatrice, era una garbata Marchesa Clarice, Marco Vinco un generoso Conte Asdrubale,
Raul Gimenez un poeta Giocondo che supplisce a una voce un poco stimbrata con
tecnica sopraffina. Meglio di questi, tuttavia, hanno cantato Pietro Spagnoli, dotato di bella voce e sufficiente personalità nella parte del giornalista Macrobio, che
dovrebbe peraltro essere più graffiante, e Bruno De Simone, l’unico assolutamente
completo, per voce e presenza scenica, nei panni del goffo poeta che Pizzi veste in
pantaloni corti, sandali e calzini neri. L’orchestra del Comunale di Bologna ha suonato abbastanza bene, ma à stata la regia, stavolta, e non l’esecuzione musicale a far
scattare quel­l’incanto che a Pesaro si ripresenta, ogni anno, puntuale: i colori della
villa, a linee bianche e rosse, il gruppo di bersaglieri che accompagnano la Marchesa
vestita da ufficiale, i movimenti dinoccolati e ostentatamente disinvolti di quella società ultrachic, distesa sotto gli ombrelloni bianchi o sul verdeggiante praticello del
bosco secolare, o impegnata a far ginnastica, si sposano alla musica di Rossini con
una leggerezza ironica e mostrano, nel lavoro di Pizzi, un’attenzione alla recitazione
dei singoli personaggi più evidente qui che in altri suoi spettacoli. Tutti d’accordo,
quindi, alla fine nel­l’applaudire lungamente senza riserve. [11.8.2002]
Tancredi eroe al Palasport
Con quello che costano gli spettacoli, il Rossini Opera Festival ha deciso di spostarli, almeno in parte, al Palafestival, raddoppiando, così, il numero degli spettatori.
L’operazione, abbastanza rischiosa, si può dire sostanzialmente riuscita, anche se un
palazzetto dello sport non è un teatro e certe soluzioni sceniche sono precluse in
partenza. Nel nuovo allestimento del Tancredi, affidato alle cure di Pier Luigi Pizzi, che ha firmato regia, scene e costumi, tutto funziona assai bene sino al­l’ultimo
quadro, quando Tancredi, disperato per il creduto tradimento di Amenaide, cerca la morte, senza trovarla, nella battaglia contro i saraceni. La scena è prescritta
in montagna, luogo sacro alla disperazione romantica, tra burroni scoscesi, torrenti
che precipitano, foreste e, in fondo, il selvaggio profilo del­l’Etna. Ma qui siamo inchiodati alla scena fissa e tutto avviene dove si è svolta l’azione precedente: davanti
al gran palazzo di Siracusa, tra torrioni medievali con lo spazio diviso in due rettangoli di prati verdi e, al centro, uno specchio d’acqua azzurro e navigabile.
Pizzi ha voluto sfruttare al massimo la vastità della scena, impegnando interamente il rettangolo del campo sportivo, reso verdeggiante con erba e arbusti: ci
sono cavalli veri che portano in scena i protagonisti di questo medioevo avventurosamente letterario, e una vera barca che, scivolando sul canale, rende quanto mai
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realistico l’arrivo di Tancredi. Ma, fortunatamente, non ha ceduto alla tentazione di
trasformare in grand opéra il primo capolavoro serio di Rossini, l’opera che lanciò il
musicista ventunenne e che affascinò Stendhal per il suo «candore verginale»: sarebbe stato un errore marchiano. Al contrario, Pizzi sembra aver fatto tesoro della
definizione di Goethe: «favola boschereccia». Così ha conferito a scene e costumi la
leggerezza colorata e spiritosa di un fiabesco torneo medievale, scostandosi molto
dal­l’allestimento sontuoso e barocco che aveva proposto nel 1982: costumi a scacchi, a striscie, a pezze di colori squillanti, movimenti roteanti di personaggi, cavalli
e comparse, discreto ma pungente impiego dei “tableaux vivants”, come quando,
durante la lettura della lettera che accusa Amenaide di tradimento, nella luce soffusa della scena, tredici personaggi si bloccano sugli spalti in pose diverse e assistono,
come statue nel silenzio generale, al momento più grave e solenne del primo atto.
Un particolare dei costumi non si può tacere: la straordinaria bellezza degli elmi
dorati su cui troneggiano teste di cervi e di cani, aquile, cigni, teste di moretti con
turbante, i simboli radunati del mondo cavalleresco tra esotismo, caccia e guerresca
avventura.
Buona l’esecuzione musicale, nella migliore tradizione del Festival pesarese.
Lucia Valentini Terrani è semplicemente straordinaria nei panni di Tancredi: spavalda, severa, disperata nella cocciutaggine con cui decide di morire per dimenticare il presunto tradimento del­l’amata, con la sua sola presenza riempie il vastissimo
palcoscenico del Palafestival. La voce, poi, affronta la coloratura di forza con fiammeggiante bravura, pronunciando le parole in modo da farle capire anche quando
sono centrifugate nella girandola dei vocalizzi. Così la Valentini smentisce qualsiasi
sospetto circa la “freddezza” del belcanto acrobatico: e mostra come Rossini, ereditando dal Settecento l’arte del gorgheggio, ne facesse l’espressione di una vitalità
nuova, sottraendola alla stilizzazione arcadica per adeguarla alla vitalità saettante,
al­l’energia della nuova età napoleonica.
Se la Valentini è ormai una veterana in queste che sono tra le imprese più difficili cui è chiamato un cantante d’opera, Mariella Devia si conferma a ogni prova
più intensa: la sua Amenaide è semplicemente perfetta per intimità, commozione e
splendore vocalistico. La crisi delle voci che si lamentava qualche anno fa sembra
ben avviata a risolversi con la comparsa di questi giovani fuoriclasse. L’opera cresce nel secondo atto e, se non fosse per la Valentini che le tiene testa, la figura di
Amenaide, interpretata dalla Devia, assumerebbe una preponderanza schiacciante:
imprigionata, perseguitata dal destino avverso, canta melodie che nel 1813 irrompevano sulla scena del melodramma italiano con una forza di coinvolgimento emotivo
che non ha perduto un grammo del suo potere.
Anche lo splendido duetto tra Tancredi e Argirio, nel secondo atto, ha avuto una
resa adeguata, grazie alla partecipazione del tenore Raul Gimenez, navigatore esperto
tra le insidie del belcanto, mentre Boris Martinovic (Orbazzano), Susanna Anselmi
(Isaura) ed Enrico Facini (Roggero) completavano degnamente la compagnia.
Buona la prestazione del­l’Orchestra e del Coro del Teatro Comunale di Bologna: Daniele Gatti ha diretto con slancio e precisione, mettendo in rilievo il disegno
generale dei singoli pezzi e cesellando con amore l’infinita grazia e bellezza dei par-
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ticolari strumentali: specialmente i legni è come se distendessero sotto le voci continue manciate di fiori, irrorando di screziature colorate anche le parti più “selvagge”
e guerresche. Perché questa è, sin dagli inizi, l’essenza del Rossini serio: da un lato
fondare il Romanticismo musicale italiano, dal­l’altro scherzarci su con una agilità,
una grazia e uno spirito che solo Mozart nella storia della musica ha posseduto in
eguale misura. [12.8.1991]
L’opera che visse tre volte
Dopo vent’anni il Rossini Opera Festival ha ormai creato un repertorio e ripropone
capolavori che erano una volta di rarissimo ascolto. Così, l’altra sera, è andata in
scena al teatro Rossini la terza edizione di Tancredi, nuovamente firmata, come le
precedenti, da Pier Luigi Pizzi, autore di regia, scene e costumi. Il primo Tancredi
pesarese di Pizzi (1982) era un trionfo barocco di capitelli dorati e colonne azzurre
di lapislazzulo, e sottolineava l’ascendenza settecentesca del­l’opera seria di Rossini;
il secondo (1991), dilatato nei grandi spazi del Palasport, puntava invece sul medioevo cavalleresco e favoloso dei tornei, con cavalli sontuosamente addobbati e cavalieri multicolori. Quello visto l’altra sera è forse il più vero e commovente. La Sicilia
in cui si svolge l’azione è quella greca dei templi dorici e dei bassorilievi classici: le
architetture sono nitide e semplici, tanto massicce quanto flessibili perché sprofondano, si piegano e si rialzano in pochi secondi. Pizzi concepisce il Tancredi, composto dal ventunenne Rossini, come un dramma di ragazzi: liberi nei movimenti, senza
armature né abiti sontuosi, amano e si disperano, piangono ed esultano nei loro vestiti leggeri, appassionato Tancredi, dolce e flessuosa Amenaide, nella sua disgrazia
di fanciulla perseguitata.
Nel progetto, perseguito con un gusto sovrano (quelle figure nere in controluce,
il cavallo di marmo, la barca, la gabbia che scende come prigione, i pepli bianchi, neri
e grigi, le luci mattutine e sfumate…), Pizzi era favorito dalla compagnia di canto formata da giovani che il Festival ha scoperto e lanciato tra il plauso generale. Il contralto Daniela Barcellona, alta e irruente, canta benissimo nella parte di Tancredi: la sua
prima nota, emessa come un sospiro nel­l’atto di baciare il suolo della patria ritrovata,
dapprima piano, poi in crescendo, poi di nuovo pianissimo, è bastata a incatenare
il pubblico senza mollare più la presa sino alla fine: colorature splendide, e un tono
elegiaco che rovescia l’impeto guerriero di certi modelli precedenti, sino al finale tragico quando Tancredi muore in scena, sostenuto da Amenaide, tra sussurri appena
percettibili. Questo esito, che Rossini aggiunse in un secondo momento, rifacendo il
convenzionale lieto fine della prima versione, è stato il culmine di uno spettacolo volto a commuovere, più che a stupire: e Gianluigi Gelmetti, dirigendo l’Orchestra della
Toscana e lo splendido Coro di Praga, ha sottolineato, oltre alla grazia della musica,
alla sua tenerezza ingenua e sorgiva, anche quel­l’impasto di vivacità e malinconia con
cui Rossini rinnovava il teatro musicale europeo, inondandolo attraverso un profluvio
di musica nuova. Guai ai cantanti che la riducono a un gelido pizzo di puri gorgheggi: anima ci vuole, oltre alla tecnica, e Darina Takova (Amenaide), Giuseppe Filianoti
(Argirio), Simone Alberghini (Orbazzano) ce ne hanno messa molta, determinando,
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insieme a tutti gli altri, il trionfo di uno spettacolo che meriterebbe la diffusione televisiva, a dispetto dello strano disinteresse che la Rai ostenta ormai da molti anni nei
confronti di questo Festival, tra i primi in Europa. [18.8.1999]
Dario Fo più forte di Rossini
È un’esplosione di vitalità creativa la regia che Dario Fo ha ideato a Pesaro per L’Italiana in Algeri. Dopo poche note, della sinfonia la macchina scenica gira già a pieno regime: si vede un naufragio che, in un grande agitarsi di onde azzurre, voli di
gabbiani, marinai che nuotano, vascelli in tempesta, utilizza l’Ouverture come colonna sonora, spiegandoci che la nave italiana che trasporta Isabella sta avvicinandosi alle coste di Algeri. Poi si apre il sipario e inizia la festa, inesauribile, provocante,
audace. Siamo nel palazzo del Bey: dondola un’altalena, ballonzolano mimi, sfilano
comparse su trampoli altissimi, una garitta semovente si apre e compare Mustafà. Il
palco è pieno come un uovo, che cosa mancherà ancora? Molto, moltissimo, come
mostrano, in un parossistico crescendo, le scene seguenti. Scimmioni, cammelli, leoni, struzzi, zebre contrappuntano l’azione che ogni tanto viene riassunta da scritte
in italiano e in arabo. Tutto si muove, incessantemente: scende una grata dal­l’alto su
cui si arrampicano i personaggi, Isabella si spoglia in controluce, passano ombre di
giocolieri, portantine, baldacchini, attaccapanni pieni di abiti, manichini semoventi
e volanti, paraventi, scale a pioli, lunghi pali, di cui uno si trasforma in un missile,
palme che si allungano, aiuole che si spostano, vasi di fiori, nastri, enormi coccarde
tricolori, trofei di bandiere, macchine fotografiche al lampo di magnesio, cavalletti,
la nazionale italiana di calcio, quella di ciclismo, navi, barche, onde, uccelli, pesci.
In questa barocca sovrabbondanza di elementi, i personaggi si aggirano come
i visitatori di un colorito bazar delle meraviglie: ne restano, perciò, come sperduti, confusi, spaesati, mentre nulla resta di quella rettilinea asciuttezza che caratterizza l’opera comica di Rossini, dove si celebra il razionale e italico trionfo del­
l’intelligenza, del­l’intraprendenza, della capacità di dominare le situazioni e di volgerle a proprio vantaggio, doppiando spiritosamente gli ostacoli della fortuna.
Più che interpretata, L’Italiana in Algeri viene così travestita, anche se con
scontata bravura, nella forma di un colossale balletto: ma, facendo muovere sempre
tutto e tutti, Dario Fo finisce per distruggere la vera comicità rossiniana, quella intrinseca al discorso musicale che gioca sul contrasto tra staticità e moto, bloccando
periodicamente i personaggi al proscenio mentre si scatena il delirio del ritmo e del
suono, e l’espressione passa i confini del reale. Straordinaria per forza comica è, comunque, la scena finale della cerimonia dei «Pappataci»: qui il carattere grottesco,
il movimento roteante di arredi e personaggi, i bellissimi costumi con la cresta di
gallo che troneggia in testa a Mustafà sono perfettamente centrati. Ma, dopo tutto
il carnevale precedente, chi ci bada più? L’effetto del colpo di scena si affloscia e
la fine del frastornante allestimento giunge quasi come una liberazione. Non per il
pubblico, però, che ha mostrato di gradire oltremodo la ricchezza e la fantasia dello
spettacolo, festeggiando il regista, scenografo e costumista, con sincere ovazioni, e
perdonandogli la sua sostanziale impermeabilità ai valori della musica.
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trent’anni all’opera
Quanto al­l’esecuzione, mi è parsa un po’ al di sotto dei livelli sovente eccelsi cui ci ha abituato il Rossini Opera Festival. Due cantanti spiccano indiscutibilmente: Jennifer Larmore, bravissima e fascinosa Isabella e Bruno Praticò, misurato
e spiritoso Taddeo. Facendosi largo nella selva degli elementi scenici, come Tarzan
nella foresta equatoriale, sono stati in grado di far intravedere l’individualità dei
loro personaggi: cosa che è riuscita meno a Donato di Stefano (Mustafà) e pochissimo a Markus Schäfer (Lindoro), piuttosto sfocato anche sul piano vocale. Pungente, invece, la sortita del giovane e bravo Ildebrando d’Arcangelo nel­l’aria delle
«femmine d’Italia» cantata da Haly, e buona la prestazione del­l’Orchestra del Comunale di Bologna e del Coro Filarmonico di Praga (maestro Henryk Wojnarowsky) diretti da David Robertson. Noi che amiamo la satira tagliente, l’esplosiva concentrazione mimica di Dario Fo, il suo gusto essenziale e asciutto ci aspettavamo di
tutto, tranne che uno spettacolo spossato dal­l’eccesso di decorazione: ma la sincerità e l’energia messi dal regista nel correre questo rischio, pur nel dissenso, ci inducono un moto di ammirazione. [14.8.1994]
C’è Sigismondo e Rossini finisce in manicomio
Dopo più di trent’anni, il Festival di Pesaro continua a riscoprire opere sconosciute. Ora tocca a Sigismondo, presentato da Rossini a Venezia, con scarso successo,
nel 1814, un anno dopo la rivelazione del nuovo genio, avvenuta nel 1813 con Tancredi e L’Italiana in Algeri. Siamo nel periodo giovanile del­l’opera seria rossiniana,
in cui dominano freschezza, leggerezza, spirito e tenerezza nella rappresentazione
degli affetti. Poi Rossini, a Napoli, s’impegnerà in opere più severe, drammatiche e
cupe. Sigismondo si basa su un libretto assurdo di Giuseppe Foppa: nei suoi versi, la
vicenda medievale di Geneviève de Brabant, nota e diffusissima nel­l’Ottocento romantico (la trattarono, tra gli altri, Schumann, Tieck, Hebbel, Puškin, Rimskij-Korsakov, Offenbach) non offre nessun appiglio al compositore per dar vita a personaggi e situazioni credibili. La musica di Rossini, così, va per va conto suo, e in questa
alata indifferenza gira per lo più meravigliosamente a vuoto; e non potrebbe far diversamente, visto l’anguillesca inafferrabilità del dramma. Tipico esempio di “opera
concerto”, Sigismondo incanta in molte pagine per la freschezza delle melodie, l’arguzia dei ritmi, la felicità delle combinazioni strumentali, l’elettricità dei crescendo.
Molte pagine sono deliziose, altre più convenzionali, ma l’ascolto fila veloce, tanto
più se guidato da un direttore come Michele Mariotti che ha condotto l’Orchestra
del Comunale di Bologna in modo preciso, energico, raffinato e spiritoso. Eccellenti i cantanti: Daniela Barcellona, contralto strepitoso nella parte en travesti del
re Sigismondo, Olga Peretyatko, soprano acrobatico dalla voce un po’ asprigna ma
gorgheggiante a dovere in quella di Aldimira, Antonino Siragusa, sempre autorevole nel belcanto di un personaggio serio come Ladislao, Andrea Concetti (basso)
e Manuela Bisceglie ottimi comprimari. Tutto il gruppo degli esecutori ha ricevuto
applausi entusiastici.
Sulla regia di Damiano Michieletto (scenografo Paolo Fantin), accolta tra approvazioni e proteste, bisognerebbe stendere un velo pietoso. Per dovere di crona-
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ca segnalerò che l’idea centrale è quella del manicomio: siccome il re Sigismondo
è ossessionato da allucinazioni varie, dovute al rimorso per aver fatto uccidere la
moglie, che in realtà si è segretamente salvata, tutto il primo atto è ambientato nella
corsia di un reparto psichiatrico, con le infermiere, i medici e i poveri matti che si
aggirano in camicioni grigi, facendo gesti inconsulti, tra risse, urla, singhiozzi, tremiti, pianti, espettorazioni e conati. Tutto si svolge lì, e la differenza degli ambienti
(la reggia, la campagna, il bosco, l’abitazione rustica) è abolita. Nel secondo atto
la cura ha fatto evidentemente effetto e Sigismondo, che era sulla sedia a rotelle,
appare guarito. Ma in quale sala di riunione si trova ora? Tribunale? Sala lauree universitaria? Grande albergo? Non si capisce. Dovremmo assistere a una guerra, in
mezzo a montagne e dirupi: ma qui tutto è risolto con la frenetica estrazione di molti fogli dai cassetti. E tornano i matti, poveri, derelitti, sconvolti. Questa esibizione
decorativa della sofferenza umana passa di gran lunga i limiti del buon gusto e, forse, anche della morale. Quindi giù il sipario, per favore. Eppure c’è chi applaude.
[11.8.2010]
Questo turco frizzante, maestro di dolce vita
Una bella edizione del Turco in Italia, forse la più bella tra quelle viste negli ultimi anni, ha aperto la stagione del Teatro Comunale di Bologna. Il regista Antonio
Calenda ha allestito una vera commedia, vivace e briosa, leggera e frizzante, senza
cupezze né tratti pessimistici. Perché è vero che, come spiega Bruno Cagli nel programma di sala, Il Turco in Italia sostituisce alla visione positiva e ottimistica del­
l’Italiana in Algeri la vicenda di una umanità mediocre, senza buoni né cattivi, bloccata nel labirinto del­l’inganno, della disillusione e dello smarrimento: ma è anche
vero che su quel paesaggio di seduzione e frivolezza, di sarcasmo e, talvolta, di sconforto, Rossini, a 22 anni, intreccia una partitura scintillante per grazia e arguzia, con
un sorriso che anima tutto, contro la risata travolgente e fragorosa che scrosciava,
l’anno prima, nel­l’Italiana. Sullo sfondo si vedevano i paesaggi del golfo di Napoli,
quando era il più bello del mondo, prima della speculazione edilizia: una cascata di
verde che cola nel­l’azzurro del mare. Molto fine, anche nei quadri notturni, questa
rielaborazione dei vedutisti napoletani fornita dallo scenografo Nicola Rubertelli e
dal costumista Maurizio Millenotti è perfettamente adatta a incorniciare la vicenda
del Turco come «manifesto di dolce vita» (Mila): l’aura seduttrice del meridione,
la bellezza delle sue donne dagli occhi neri e pieni di luce, il gusto del colore, della
mascherata e del mistero, tutte cose che la musica di Rossini fissa in modo chiarissimo, e che l’altra sera sgusciavano fuori dal­l’esecuzione in piccoli, continui momenti
di rivelazione. Ecco, dunque, il caso di uno spettacolo “tradizionale” che, in virtù
della sua consonanza con lo spirito del­l’opera, sembra nuovo di zecca.
Bravo Evelino Pidò, alla guida del­l’Orchestra del Teatro Comunale: si è imposto l’ideale della trasparenza e della leggerezza, raggiungendolo a colpo sicuro,
con andamenti spiritosi e scattanti e una concertazione molto accurata. Sotto le voci
ha disteso un tappeto degno di una compagnia eccezionale per levatura e omogeneità. Trionfatrice della serata è stata Mariella Devia, alla cui Fiorilla manca ancora
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un poco di vivacità teatrale, abbondantemente compensata dalla qualità unica del
canto, capace di seghettature nervose nei vocalizzi ma anche di effusioni nelle frasi
melodiche, magari appena sussurrate. Il tenore Rockwell Blake, qui nei panni del
cicisbeo Don Narciso, è quel portento che tutti conosciamo: voce brutta ma tecnica onnipotente e stile impeccabile. Ottimo Michele Pertusi, che disegna un Turco
galante e dominatore, ma senza prevaricazioni (unica cosa che non mi piace della
regia, quel farlo entrare in scena sulla prora altissima di una nave, in atteggiamento
eroico, che pare Attilio Regolo di ritorno dalla prima guerra punica). Bravi Susanna
Anselmi come Zaida e Bruno Praticò, un «buffo» eccellente per rappresentare la figura del «marito scimunito» che scemo, poi, non è mica tanto, visto che alla fine tira
fuori le unghie e sa riconquistare l’affetto della capricciosa Fiorilla. Ma questa è una
malignità del poeta Prosdocimo che si aggira sul palco, osservando il carattere da
mettere in scena nel suo prossimo dramma: straordinario personaggio rappresentato, in genere, come piuttosto anziano, e qui, invece, affidato al giovane e bravissimo
Roberto De Candia, in redingote e bombetta, animato da un’agitazione appassionata che già si addice a un drammaturgo romantico. Tratto certo, molto inatteso, ma
determinante per accentuare il trionfale successo dello spettacolo impreziosito dalla
coreografia di Aurelio Gatti. [28.11.1994]
Fiorilla strega il Turco con malizia
Splendido Turco in Italia al Teatro Rossini di Pesaro, quasi deturpato da un recentissimo restauro che ha rovinato il foyer: ma non potevano chiedere un consiglio a
Pier Luigi Pizzi, di casa a Pesaro, per rifare un ambiente che è diventato color giallo
limone, tra volte basse e lampadari di cristallo, completamente in contrasto con la
bellezza della sala neoclassica? Passata quella specie di penitenziale tunnel gialloverde, che porta in sala, si è comunque entrati in un mondo magico: la turchesca vicenda del principe Selim, in viaggio a Napoli dove incontra la bella Fiorilla, «donna
capricciosa ma onesta», e se ne innamora, è sbocciata in tutta la sua ironica grazia.
Cantanti splendidi, tra veterani e quasi debuttanti. In omaggio al­l’anzianità di carriera cominciamo da Alessandro Corbelli: il suo Don Geronio, «marito scimunito»
del­l’incontrollabile Fiorilla, è da manuale. Arriva in frac grigio, cilindro e basettoni,
pieno di risentimento represso verso l’invadenza di quel maledetto turco che viene
a casa sua a prendere il caffè, e corteggia sua moglie: Corbelli mette a fuoco Geronio con nitidezza fotografica, non trascura una parola del testo di Felice Romani, e
canta con stile e voce meravigliosa. Quasi altrettanto pungente è Roberto De Candia nello straordinario personaggio del poeta Prosdocimo che segue tutta la vicenda con l’occhio ironico, divertito, affettuoso e insieme distaccato di chi cerca, nei
casi della vita, l’argomento per un dramma buffo, da scrivere per qualche musicista.
Rossini ne fa l’autoritratto della propria visione della vita: un gioco aperto a tutte
le possibilità, compresa quella di un eventuale esito felice. Questo esistenzialismo
latente distacca Il Turco in Italia dalla comicità carnevalesca, fragorosa e tutta positiva del­l’Italiana in Algeri e del Barbiere di Siviglia. Qui serpeggiano inquietudini,
ombre fugaci si allungano, uno strano senso del mistero chiazza qua e là una musica
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straordinariamente frizzante che non scoppia nelle fragorose risate delle grandi opere comiche italiane, ma sembra preannunciare, con quattordici anni di anticipo, le
effervescenze maliziose e volatili del francese Comte Ory.
Questa leggerezza Patrizia Ciofi l’ha fatta propria ed esaltata con grazia e stile.
Come faccia a tirar fuori tanta voce da quel corpicino minuto e asciuttissimo è quasi
un mistero: la sua Fiorilla svolazza meravigliosamente in gorgheggi nervosi e pieni
di charme. Grande, poi, la sua prestazione nel­l’aria seria del­l’ultimo atto, molto difficile ma non tanto bella, come non lo sono quelle di Geronio e Narciso, perché il
Turco non è opera di arie plastiche e scultoree, ma di pittorici pezzi d’assieme, trattati con impressionistica levità. Il giovanissimo e gigantesco basso georgiano Ildar
Abdrazakov, nella parte di Selim pascià, è una rivelazione: fisico solenne, portato
in modo ironico, voce ben timbrata e forte, sguardo fulminante tra i baffi appuntiti e galanti. Tutti sono stati subissati di applausi, compreso Matthew Polenzani,
garbato Narciso. Riccardo Frizza ha diretto con spirito e vivacità l’Orchestra del
Festival, bisognosa di una buona cura ricostituente nel settore degli ottoni. Lo spettacolo di Roberto de Monticelli, con i colorati costumi ottocenteschi di Santuzza
Calì e le scene funzionali di Paolo Bregni, era molto ben costruito sul gioco degli
attori, splendidamente colorato e ben ritmato tra vivacità e stupori. Avesse tolto, al­
l’inizio, il telo che fluttua nello sfondo, e che non si capisce che cosa sia, nonché il
cascamorto deficiente che accompagna occasionalmente Fiorilla, offrendole fiori e
rotolandosi per terra, sarebbe stato perfetto. Due piccoli nei, comunque, facilmente asportabili. Per il resto, una festa piena di allegria e capace di caratterizzazione
squisita. [13.8.2002]
Diavolo di un Rossini: anticipò anche Brecht
Successo clamoroso, l’altra sera, al­l’Auditorium Pedrotti di Pesaro, per l’esecuzione
di Elisabetta regina d’Inghilterra, la prima opera composta da Rossini per Napoli,
nel 1815. Fulcro di questo successo, la prestazione di Sonia Ganassi nella parte protagonista. Elisabetta è crudele, furibonda, aggressiva: Rossini le affida un campionario di colorature di forza, ossia gorgheggi acrobatici che vanno resi non come aerei e delicati cinguettii, ma con slancio, spessore, volume e vigoroso scatto ritmico.
Sono frustate, galoppate veloci dal basso al­l’acuto e viceversa, arresti improvvisi su
una nota da cui spiccare il volo per nuove, scroscianti cascate. La Callas ha insegnato al canto moderno a riscoprire questa vocalità che si era, nel tempo, perduta.
La Ganassi è una delle sue numerose eredi: e, anche se la sgranatura delle note nelle colorature potrebbe essere ancora più nitida, nel suo canto vi è concentrata al
meglio l’idea fondamentale del teatro rossiniano che è, insieme, immedesimazione
nel dramma e straniamento ludico, scultura di gesti musicalmente ralizzati e insieme
liberazione del canto nel puro arabesco. Un’idea molto moderna, quasi brechtiana
nel suo continuo gioco di specchi che l’ascoltatore moderno deve capire per apprezzare le bellezze e l’originalità del­l’opera seria rossiniana.
Elisabetta è una partitura aspra, severa. Non possiede le grazie melodiche del
Tancredi che ci aveva deliziato la sera prima; molti suoi pezzi hanno invece un anda-
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trent’anni all’opera
mento febbrile, sospinto da un’orchestra che predilige colori cupi, armonie dense,
ritmi galoppanti. Ogni tanto Rossini sparge guizzi brillanti, che ricordano l’opera
buffa; ma, in quel contesto, perdono il loro valore ironico e appaiono, piuttosto,
come scintille sopra un dominante fondo scuro.
Il direttore Renato Palumbo ha messo in evidenza con vigore questa forza che
stupì, al­l’epoca, il pubblico napoletano; a differenza di quanto era accaduto la sera
prima nel Tancredi, qui l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna ha acquistato
il ruolo di un personaggio, in continuo dialogo con i cantanti in scena. Dialogo che
potrebbe essere più raffinato, nella stratificazione delle sonorità, ma che appariva,
comunque, sempre vitale. Anche lo spettacolo di Daniele Abbado, con le scene e i
costumi di Giovanni Carluccio, mirava opportunamente, grazie alle luci di Guido
Levi, a suggerire la cupezza di fondo che caratterizza la partitura, per molti versi sperimentale, di Elisabetta: un’incastellatura metallica fatta di colonne d’acciaio,
con piani sovrapposti, pedane, corridoi, occupa la scena dal­l’inizio alla fine, mentre
l’argento del metallo lampeggia sul nero. Nel fondo si disegnano tanti riquadri, nei
quali i personaggi prendono posto con ieratica fissità: un effetto che piace lì per
lì, ma che viene progressivamente a noia, perché la scena è sempre la stessa, ed è
movimentata solo da uno scorrere di grate, con una vera e propria ossessione per il
motivo quadrettato: troppo poco per alleviare l’ascolto di un’opera che non ha certo l’immediatezza e la tenuta dei grandi capolavori buffi né la continuità inventiva di
una Semiramide.
Se lo spettacolo non aiuta molto l’ascoltatore, spicca ancor più il merito del­
l’esecuzione musicale. Accanto alla Ganassi che, oltre alla coloratura di forza, sa
cogliere anche i lati umani di Elisabetta e, in particolare, la straordinaria dolcezza
del­l’ultima aria, molto bene hanno fatto Mariola Cantarero (Matilde), Antonino Siragusa (Norfolc) Bruce Sledge (Leicester): tutti sono apparsi consapevoli delle esigenze stilistiche imposte dal belcanto rossiniano, e accumunati, alla fine, da applausi
scroscianti. [9.8.2004]
Torvaldo a Pesaro
Tra i Festival internazionali quello di Pesaro costituisce un caso unico: nessun’altra manifestazione può vantare, infatti, nel suo cartellone, la presenza di “novità”
maggiormente rilevanti per la cultura musicale europea. In più di vent’anni la manifestazione pesarese ha portato avanti la riscoperta delle opere di Rossini, cadute
nel­l’oblio a partire dalla metà del­l’Ottocento: il che significa aver messo in luce la
maggior parte della produzione di uno tra i massimi dei geni della storia musicale. Quest’anno l’inaugurazione è toccata a Torvaldo e Dorliska, opera semiseria rappresentata a Roma nel dicembre del 1815, un paio di mesi prima del Barbiere di
Siviglia. È la vicenda di Dorliska, una ragazza polacca concupita da un tiranno prepotente, che la sottrae a Torvaldo, marito amatissimo, e la tiene prigioniera nel suo
castello. Ma, con un colpo di stato organizzato dal­l’intraprendente Giorgio, custode
del feudo, il Duca viene detronizzato, permettendo, così, alla coppia di ritrovare la
felicità.
ottocento
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Rispetto alle partiture, tra cui alcune fulgidissime, riscoperte in questi anni, direi che quest’opera semiseria possiede la brillantezza posticcia del similoro, e aggiunge ben poco alla rinnovata immagine di Rossini. L’invenzione è stanca, le melodie sono poco incisive, i giochi di scambio tra orchestra e voci privi di quei guizzi
fantasiosi e geniali con cui Rossini aveva colpito, con straordinarie folgorazioni, il
pubblico del suo tempo. Ciononostante, è utilissima per documentare ex negativo
lo spessore del genio. Torvaldo e Dorliska è “montata”, infatti, facendo ricorso a
un formulario musicale, rossiniano al cento per cento: il che significa che nel 1815
Rossini aveva già rivoluzionato il melodramma italiano con uno stile così personale e caratterizzato, da fornire un modello di cui lui stesso si serve. Se l’arte, nelle
sue massime espressioni, offre dei modelli assoluti, capaci di generare un repertorio
di formule cristallizzate, Torvaldo e Dorliska ci ricorda che il ragazzo, autore del­
l’Italiana in Algeri e del Tancredi, a ventun anni, aveva già raggiunto quelle vette, e
poteva diventare, al­l’occorrenza, epigono di se stesso.
Detto questo, restano da osservare un paio cose. Una è lo straordinario mestiere
sfoggiato dal giovanissimo Rossini, anche in un’opera minore. I gorgheggi, qui, non
raggiungono l’estasi paradisiaca del “bello ideale” che faceva impazzire Stendhal, ma
scorrono e s’intrecciano al­l’orchestra con una fluidità naturale; gli strumenti stentano a trovare le idee melodiche che, nei grandi capolavori, lampeggiano in una fantasmagoria di trovate geniali, ma giocano tra loro con raffinata leggerezza. Chi soffre
meno di questa momentanea fretta, o stanchezza, o distrazione inventiva, è il ritmo,
specie nei “crescendo” dei concertati. Il ritmo è l’anima della musica, diceva Rossini,
e, grazie al­l’invenzione ritmica, nel terzetto «Ah qual raggio di speranza» nel primo
atto, si accende, improvvisamente, una straordinaria vampata. Questo pezzo si eleva su tutta l’opera come una torre tra graziose casette. È un gigantesco divertimento musicale condotto su tre stati d’animo: Torvaldo gioisce perché sta per rivedere
Dorliska, il Duca tiranno crede di poterla finalmente avere per sé, il custode Giorgio si compiace d’aver ingannato a buon fine il suo violento padrone. Giorgio è una
parte buffa, portatrice di energia musicale e drammatica: dalla sua voce di baritono, infatti, partono a più riprese, frenetiche raffiche di sillabe che trascinano gli altri
due, li risucchiano nei propri mulinelli, mentre la polifonia cresce, cresce, sino alla
trascendenza ritmica e sonora. Rossini ha lasciato qui briglia scolta al suo genio, che
s’intravede anche nel duetto tra Duca e Giorgio nel secondo atto, per poi rientrare
nei limiti di un grande artigianato, vuoi per fretta, vuoi perché il libretto di Cesare
Sterbini, per banalità e piattezza, è ben lontano da offrirgli gli stimoli straordinari
che, due mesi dopo, scateneranno l’invenzione del musicista nel Barbiere di Siviglia.
L’esecuzione, musicale e scenica, è stata ottima e il successo degno della tradizione di Pesaro. L’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano ha suonato assai bene sotto
la guida di Victor Pablo Perez. La regia di Mario Martone, con i costumi di Ursula
Patzak e le scene di Sergio Tramonti, sostiene la debole partitura con uno spettacolo vivacissimo, che acquista molto mordente anche grazie alla continua discesa dei
cantanti in platea. Tra questi spiccano i tre uomini: il basso Michele Pertusi, solenne e impetuoso ma sempre elegantissimo nella parte del Duca, il tenore Francesco
Meli, molto gradevole in quella del perseguitato e romantico Torvaldo, e il baritono
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trent’anni all’opera
Bruno Praticò che impersona il custode Giorgio, incarnazione tipicamente rossiniana del­l’italica intraprendenza, volta a fini umanitari ma sottilmente compiaciuta di
sé e della sua capacità di gabbare gli stupidi, neutralizzare i violenti, affermare il
trionfo dei buoni e degli onesti. Il che significa, musicalmente, una sorgente di energia comico-vitale che, a differenza dei grandi capolavori, nel nostro Torvaldo si attiva, qua e là, in modo solo intermittente. [12.8.2006]
Un Barbiere giovane, ma che tristezza
Il Festival del bicentenario ha dovuto affrontare l’osso durissimo del Barbiere di Siviglia, l’opera più famosa di Rossini, fatta oggetto negli ultimi vent’anni di importanti riletture, registrazioni esemplari, allestimenti memorabili nei primi teatri del
mondo. Per far qualcosa di diverso e sottrarsi a imbarazzanti confronti, il Rossini
Opera Festival di Pesaro ha quindi pensato a una compagnia di giovani guidata
da un direttore ai primi successi e da un regista di provata esperienza come Luigi
Squarzina che s’è avvalso delle scene e dei costumi di Giovanni Agostinucci. Dietro
le quinte, come sempre, a muovere le fila c’erano il sovrintendente Gianfranco Mariotti che entrerà nella storia come l’inventore del Festival cui dobbiamo la moderna
riscoperta del­l’opera di Rossini, e il consulente artistico Alberto Zedda, in procinto
di lasciare Pesaro per passare alla direzione artistica della Scala.
Questo Barbiere era decoroso sul piano del­l’esecuzione musicale: Paolo Carignani ha guidato con sicurezza l’Orchestra Sinfonica della Rai di Torino, tenendo
ritmi brillanti e trattando i tempi con un’elasticità talvolta un po’ libera, ma sostanzialmente accettabile. Sul palcoscenico Roberto Frontali è parso vocalmente e scenicamente brillante nella parte di Figaro e Giovanni Furlanetto ha disegnato un Basilio davvero straordinario per sottigliezza, ambiguità e nitore vocale. Bruce Ford
e Lola Casariego hanno fatto del loro meglio nelle parti acrobatiche del Conte di
Almaviva e di Rosina, cantando con correttezza di stile e sufficiente esattezza tecnica, mentre Maurizio Picconi e Gabriella Morigi hanno disegnato non senza vivacità
le figure di Bartolo e di Berta.
Un tipo di vivacità, naturalmente, compatibile con l’interpretazione seriosa di
Luigi Squarzina che intende privilegiare la commedia di carattere più che la farsa
e, come scrive Zedda, non vuole mai «uscire dai binari del gusto e della misura».
Risultato: Bartolo è un vero dottore in medicina che canta la sua comicissima aria,
prendendo le misure di un manichino appoggiato su un tavolo anatomico, in uno
splendido studio di legno tra statue, colonne tortili, giganteschi portali. Scelta di per
sé piuttosto neutra, se non fosse che non s’è mai visto un Bartolo così accigliato, severo, triste, d’una cupezza addirittura tragica nelle movenze e nel trucco. Squarzina,
intendiamoci, è un grande maestro e fa recitare i suoi attori con un’eleganza e una
scioltezza ammirevoli, lavorando accuratamente i gesti, i movimenti, il gioco sempre
mutevole del dialogo mimico. Difficile, ad esempio, realizzare l’aria della calunnia
con maggiore sottigliezza: l’ipocrisia di Basilio è folgorata con assoluta precisione.
Ma la paura di far ridere, il timore di “cadere nella farsa” gettano su tutta questa
regia una cappa soffocante di serietà che mi trova del tutto dissenziente.
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Togliere il riso a Rossini sarebbe un po’ come negare il cristianesimo dei Promessi sposi: vuol dire svuotarlo nella sua essenza estetica e morale. Il barbiere di Siviglia è una grande festa del riso, celebrato nella sua capacità di relativizzare il male,
annullare la paura, trasformare il negativo – qui la cattiveria di Don Bartolo – in un
gioioso spauracchio comico. La commedia realistica c’entra, ma solo nella misura in
cui è travolta, e continuamente risucchiata in una risata travolgente quale il teatro
d’opera non aveva mai conosciuto e che, in ogni brano, trasforma la realtà, rovesciandola, carnevalescamente, nella “farsa”. Non vedo perché questo nome debba
essere impronunciabile, se non in una visione completamente distorta che ignora,
o per lo meno nega dignità a un grandissimo filone della cultura occidentale: quello
della risata libera e gioiosa che da Aristofane a Plauto alle farse medievali, giunge
sino a Rabelais, a Shakespeare, a certo Molière, al­l’opera buffa: un filone di comicità
scrosciante che esprime una precisa visione del mondo e che trova in Rossini la più
alta espressione musicale.
Negando tutto questo, lo spettacolo di Squarzina diventa imbarazzante quando
deve affrontare per forza le situazioni più comiche, come il travolgente quintetto del
«Buona sera», mentre Bartolo, il colossale antagonista attorno a cui ruota tutta la
comicità della burla, sbiadisce sino ai limiti del­l’inconsistenza. Ecco perché il pubblico non ha riso quasi mai, anche se alla fine, riconoscendo la mano tecnicamente
magistrale del regista, ha accolto lo spettacolo con applausi un po’ frettolosi ma sostanzialmente unanimi. Da notare che l’opera è stata eseguita in versione integrale
e che, nelle riprese delle arie e dei duetti, sono state aggiunte fioriture non scritte,
come si faceva al­l’epoca di Rossini; idea filologicamente apprezzabile, se non fosse
che quei ghirigori posticci finiscono quasi sempre per guastare bellissime linee melodiche. Difficile, insomma, riprodurre in vitro quello che i cantanti rossiniani facevano, sorretti da una tradizione allora viva e operante. [2.8.1992]
Chailly: Barbiere delle meraviglie, tra soldati, acrobati, mongolfiere
Torna Il barbiere di Siviglia alla Scala dopo 15 anni. Riccardo Chailly lo dirige in
modo raffinatissimo. L’orchestra è ridotta, forse troppo per colmare la sala con le
sonorità dei «crescendo» e dei «fortissimo» rossiniani: ma in compenso suona con
meravigliosa leggerezza, e Il barbiere ne esce brillante e veloce. Nel fraseggio sta
il segreto di questa esecuzione: anche quando il ticchettìo dei bassi incede implacabile, bastano un respiro, un accenno di rubato, una pausa appena più evidente
del solito, per animare la frase musicale con un respiro organico, e toglierle ogni
secchezza. Il lavoro fatto da Chailly in tal senso è stato capillare. Anche i cantanti
sono eccellenti. Evidentemente, il direttore ha richiesto loro massima leggerezza, e
la sgranatura dei vocalizzi è venuta fuori nitida e scorrevole, come se fosse eseguita
dai violini o dai flauti.
Questo non è solo un pregio musicale. Quando, dal­l’intonazione ben comprensibile della parola, i personaggi di Rossini spiccano il salto e si lanciano nel delirio
dei loro gorgheggi, si stabilisce un gioco tra i più originali del­l’intero teatro occidentale: le scultoree figure di Figaro, Rosina, Bartolo, Basilio, Almaviva si immobilizza-
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trent’anni all’opera
no, percorse da un delirio di pura elettricità musicale, immagine di un assoluto che
faceva dire a Hegel di amare più il Figaro di Rossini che quello di Mozart. In questi
passaggi tutto dev’essere fermo sulla scena, mentre il turbine si avvita nelle voci e in
orchestra. Il regista Arias, con lo scenografo Roberto Platé, casca, invece, nel tranello che ha già prodotto vittime illustri (ad esempio Dario Fo, nella regia del­l’Italiana
in Algeri): far muovere costantemente tutto e tutti. L’azione della commedia è quindi soffocata da una pletora di balzi, piroette, corse, giravolte, saltelli e ruzzoloni che
non danno tregua ai cantanti. Inoltre, le più strane comparse passano sulla scena:
ballerini in grigio, uomini in frac, cortei di incappucciati, un amorino con le ali, sfilate di soldati ecc. E siccome neanche questo sembra sufficiente, molte immagini
contenute nel libretto vengono esplicitate: il «vulcano» cui Figaro paragona la sua
mente è una montagnola rossa e fumante, l’«incudine» e il «pesantissimo martello»
vengono proiettati sullo sfondo, durante l’aria di Bartolo, Rosina è chiusa in una
garitta d’argento, il pettine e le forbici, strumenti del barbiere, compaiono giganteschi sul palcoscenico, e così via. Una platea di bambini del­l’asilo avrebbe battuto
festosamente le manine nel vedere Figaro scendere da una gigantesca mongolfiera
e la scena illuminarsi alla fine come alla festa di Piedigrotta. Il puerile spettacolo di
Arias è stato contestato. Grandi ovazioni hanno invece accolto Juan Diego Florez
(Almaviva) Alfonso Antoniozzi (Bartolo) Sonia Ganassi (Rosina) Roberto Frontali
(Figaro) Giorgio Surian (Don Basilio) e Tiziana Tramonti (Berta) protagonisti di un
cast perfetto, nonché Chailly e la splendida orchestra della Scala. [19.06.1999]
Soleri rinfresca il Barbiere
Da qualche tempo ci preoccupa un poco la messinscena delle opere buffe di Rossini: c’è una tendenza a sovraccaricare, riempire ogni spazio di gesti, figure, comparse, trucchi, movimenti e apparizioni scenotecniche, come nel­l’ultimo Barbiere visto
alla Scala, dove, nel­l’orgia di balzi, piroette, corse, giravolte, saltelli e ruzzoloni, Figaro s’inventava, tra l’altro, un trionfale atterraggio in mongolfiera.
Lo spettacolo di Ferruccio Soleri, il grande Arlecchino di Strehler, allestito dal
Teatro Regio di Torino, rimette, invece, le cose a posto. Finalmente un regista “senza idee”, e con l’unica, preoccupazione di capire e mettere in luce quelle di Rossini:
fare cioè una commedia basata sul gioco degli attori, un’azione pulita, fresca, vivace, senza distrarci mai dalla straordinaria vicenda musicale che ci viene presentata.
Ci avete mai pensato che nei pezzi musicali del Barbiere non succede quasi nulla?
Sono arie dichiarative, conversazioni inframmezzate da lunghe e ripetute esclamazioni, intere scene dove l’azione è sospesa in quadri di festa o di stupore. Ma chi
s’accorge, al­l’ascolto, di questa sorprendente staticità? Nessuno. Anzi, la commedia
non solo non viene interrotta ma fila veloce e incalzante, talmente è forte la capacità
di Rossini di impossessarsi del tempo, stringerlo e dilatarlo a suo piacimento, tenendoci sempre col fiato sospeso. Il barbiere è forse il più clamoroso esempio di come il
melodramma possa ricostruire il tempo in una dimensione tutta interiore, e tale da
renderlo velocissimo proprio nel momento in cui lo arresta. Di qui la sua strepitosa,
fantastica originalità.
ottocento
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Soleri l’ha messa in rilievo perché, evidentemente, capisce e ama la musica.
Nulla di speciale avviene in questo spettacolo, ma la naturalezza, il senso del gioco
leggero, il palcoscenico quasi vuoto (finalmente!) che mette in evidenza i gesti dei
cantanti-attori, discretamente ispirati alla commedia del­l’arte, la deliziosa scenografia di Luisa Spinatelli, a piastrelle spagnolesche dipinte di maiolica bianco-azzura
con motivi rococò, tutto ciò dà il senso di un’ariosità felice.
Anche l’esecuzione è molto vitale, con pregi e limiti capaci di fondersi in una
forma armoniosa e divertente, poiché, in teatro, due più due può fare quattro, ma
anche di meno, o molto di più. Dipende dal contesto. Qui c’è un cantante perfetto,
Bruno Pola, nella parte di Bartolo: arrota il testo rendendolo affilato e tagliente, è
buffo ma misurato, e la sua bella voce dà il timbro e lo stile giusto al vivacissimo
vecchio, tirannico, borioso, e percorso dalle scosse elettriche che Rossini gli somministra nella sua straripante allegria. Non meno notevole il basso Andrea Papi come
Don Basilio: quando entra in scena magnetizza l’attenzione, e la voce, forte e ben
timbrata, gli permette di far nascere, di scena in scena, un personaggio sempre più
plastico e vivo nella sinistra, ma insieme buffa codardia del­l’intrigante.
Molto bene canta Anna Caterina Antonacci come Rosina: i gorgheggi sono precisi e leggeri, fluidi e carezzevoli, la voce è morbida e calda, il timbro sempre gradevole. Il suo canto dà costante piacere, mirando alla bellezza, ideale supremo di
Rossini: solamente, Rosina mi piacerebbe un po’ più maliziosa e mordente («Sarò
una vipera, sarò»). Poco accettabile, invece, la modifica di alcune colorature che la
Antonacci introduce nella ripresa delle arie e del duetto con Figaro: Rossini le scriveva stupendamente, aveva combattuto affinché i cantanti le rispettassero, perché
dunque cambiarle, rendendole più banali? Cosa che non fa il protagonista, Roberto
Servile, un Figaro dal canto elegante, preciso e misurato, ma un po’ al di sotto delle
esigenze del personaggio, che deve apparire come il pirotecnico demiurgo e osservatore del­l’azione. Per esempio, nel­l’ultimo terzetto Figaro prende in giro le effusioni dei due amanti per indurli a sbrigarsi e scappar via: ma Servile, al pubblico, non
lo fa capire.
E siamo giunti al­l’ultimo degli interpreti principali, il grande tenore Rockwell
Blake, croce e delizia dello spettacolo. Croce, perché la voce è ormai usurata; delizia, perché non si può cantare con più stile, spirito, sprezzatura, e anche autoironia. Eseguire il rondò del­l’ultimo atto, di solito giustamente tagliato, è diventata da
parte sua una sfida temeraria, ma gli serve per dare al Conte d’Almaviva l’ultimo
tocco: non solo sentimentale, ma anche un po’ vanesio, e molto divertito nel piacere
della burla giocata ai danni del goffo Don Bartolo. L’unico modo per salvare questo
pezzo inopportuno, è, infatti, l’ironia, e Blake lo intuisce e lo realizza nei minimi
particolari. Bravissima Giovanna Donadini nei panni di Berta, la vecchia, filosofica
cameriera.
Il direttore Corrado Rovaris, subentrato al­l’ultimo momento per la malattia del
collega Lodovico Zocche, ha preso in pugno la situazione, e ha condotto l’orchestra a esiti ragguardevoli, garantendo la vivacità dei ritmi e la brillantezza dei colori,
cose, in Rossini, assolutamente essenziali. Di qui, le accoglienze assai liete che hanno segnato, prevedibilmente, il termine della festa. [2.12.2000]
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trent’anni all’opera
Date un montacarichi a Figaro il barbiere
Grande successo al Palasport di Pesaro per l’esecuzione musicale del Barbiere di
Siviglia, spettacolo di punta nel cartellone del Festival 2005; la regia di Luca Ronconi ha trovato invece il pubblico diviso tra i contenti e i delusi, applausi e forti
proteste. Daniele Gatti ha guidato assai bene l’Orchestra del Teatro Comunale di
Bologna: se la nitidezza strumentale, specie negli archi, è ancora perfettibile, il ritmo
appare vitale, la dinamica ben contrastata, il fraseggio plastico e sempre propulsivo.
La compagnia di canto ha un monarca assoluto nella persona del tenore Juan Diego
Florez: voce gorgheggiante con un’agilità e una precisione che, alla fine del grande
rondò del secondo atto, musicalmente pregevole ma teatralmente disastroso (tant’è
vero che viene di solito, opportunamente tagliato), hanno prevedibilmente scatenato una vera tempesta di applausi e ovazioni. Questa si è ripetuta, alla fine, non solo
per il tenore: il contralto Joyce Di Donato è, infatti, una deliziosa Rosina, dalla voce
bella e dallo stile impeccabile, Bruno De Simone un bravissimo Don Bartolo, Natale
de Carolis un Don Basilio di ottima levatura. Dalibor Jenis è piaciuto nella parte del
protagonista, anche se una maggiore autorevolezza scenica e vocale non guasterebbe per rendere appieno la colossale statura del personaggio.
Ma non è solo lui che soffre, in questo spettacolo, di un certo appiattimento
delle caratteristiche individuali. La grandezza del Barbiere sta, prima di tutto, nella
plastica definizione dei personaggi che fa di Rossini il Plauto del teatro moderno: il
vitalissimo Figaro, Bartolo, torreggiante trombone, il maligno e untuoso Basilio, la
giovane Rosina, con la sua indiavolata furbizia, il Conte, disinvolto e spavaldo, affettuoso e divertito, devono spiccare con evidenza in un gioco di contrapposizioni che
fa scoccare, attraverso quella musica immortale, continue scintille teatrali. Qui, questo avviene solo in parte: vestiti tutti di nero, tranne Figaro che è in bianco, quasi si
confondono l’uno con l’altro, nonostante la bontà del­l’esecuzione musicale. Ma non
è solo colpa dei costumi. È che i personaggi, invece di far la commedia, pensano
ad altro, preoccupati come sono di giocare senza danni con la scenografia gelida e
razionale, in stile Bauhaus, di Gae Aulenti, di una invadenza che sfiora l’ossessione.
L’idea centrale sembra essere quella del montacarichi: dal soffitto scendono
enormi guardaroba stretti e alti; dal palcoscenico salgono grandi sedie. Seduti su di
esse, i personaggi restano appollaiati a mezz’aria, anche a grande altezza, e pazienza
se soffrono le vertigini. Una selva di cavi d’acciaio, in scarsa sintonia con la frizzante
leggerezza e il senso di libertà che spira dalla musica di Rossini, taglia verticalmente
il palcoscenico: dal­l’alto scende una grancassa perché siamo nel­l’aria della calunnia
e Basilio deve evocare il colpo di cannone; dal basso risale una chitarra; scende un
grappolo di monete d’oro mentre Figaro tesse le lodi del denaro; sale un pianoforte
a coda; scende un cesso (lavabo e WC) mentre sul palcoscenico scorre un catafalco,
e sullo sfondo è parcheggiato un pulmino da cui escono periodicamente i vari personaggi.
Ma i marchingegni non sono solo questi. Sul palcoscenico scorrono anche poltrone da barbiere con specchi e luci, un catafalco con quattro ceri, un frigorifero,
un confessionale semovente in cui entra Almaviva travestito da prete, quattro letti e
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così via, trasformando la scena del Barbiere nel teatro di un perenne trasloco. Gondrand sostituisce Rossini.
Peccato. Il gioco, che a Ronconi era riuscito così bene nella Cenerentola, grazie
alle scene fantasiose, ironiche e affettuose di Margherita Palli, qui si risolve in un’esposizione di cose vecchie, viste mille volte, da più di vent’anni, negli spettacoli di
questo regista; e se al­l’inizio la regia del Barbiere ci strappa qualche sorriso, a lungo
andare simili trovate pesano sempre più sulla partitura più allegra del mondo come
una cappa plumbea, di vera noia. Più che interpretata, insomma, l’opera appare
semplicemente arredata, anche se un’idea, sotto sotto, sembra esserci: proiettando
su di uno schermo un vecchio film del Barbiere di Siviglia degli anni ’40, Ronconi
vuole evidentemente sottolineare la differenza tra un allestimento tradizionale, di
gusto posticcio, e quello moderno in cui tutto viene ripensato, decostruito, tagliato
a fette e messo in vetrina; non ci sarebbe niente di male, se tutto fosse fatto con allegria. Invece, su quel fondale perennemente nero, la lieta vitalità di Rossini irrimediabilmente appassisce. [12.8.2005]
Fo “prevarica” Rossini
Nella seconda serata del Festival rossiniano di Pesaro è comparso Dario Fo, regista,
scenografo e costumista de La Gazzetta, insieme a Francesco Calcagnini e Pao­la Mariani. Su quest’opera comica, di rarissima esecuzione, rappresentata a Napoli nel 1816
e composta in tutta fretta, con grandi parti prese da lavori precedenti e abilmente rimaneggiate, Fo ha esercitato lo stesso arbitrio prevaricante che aveva guidato anni fa
il suo allestimento del­l’Italiana in Algeri: solo che qui i danni sono assai più contenuti,
e il risultato complessivamente accettabile, perché La Gazzetta è un’operina leggera,
disponibile a trattamenti disinvolti, e non costringe l’interprete alla comprensione di
una visione del mondo, come fanno L’Italiana, Il barbiere e La Cenerentola. Il libretto
di Giuseppe Palomba ricostruisce in chiave d’opera buffa, con parti scritte in napoletano, la trama del Matrimonio per concorso di Goldoni che ruota attorno a un’inserzione pubblicitaria messa da Don Pomponio Storione su di una gazzetta parigina
con lo scopo di trovare un marito per accasare la figlia Lisetta. Un gioco di coppie,
con equivoci e travestimenti, conduce al lieto fine e alla conseguente delusione di Don
Pomponio. La Gazzetta appartiene al filone rossiniano della commedia, culminante
nel Turco in Italia (da cui Rossini prende, non a caso, due pezzi lunghi e bellissimi) ma
Dario Fo non ne fa una commedia. Nelle sue mani, quest’opera sconosciuta diventa
la colona sonora di un frenetico balletto ambientato negli anni venti del Novecento, a
tempo di charleston e di tango. Mentre i personaggi cantano, conversando o meditando, si vedono ciechi che passano con i loro bastoni, suore, gente che porta bandiere
colorate, un’automobile che emette scoppi di petardi con coriandoli, comparse che
spazzano il palcoscenico, ragazzi e ragazze discinte che corrono su pattini a rotelle
reggendo cartelli con scritte tratte dal libretto, eccetera. Così la maliziosa Lisetta è una
diva inqadrata dalla cinepresa, i disegni musicali degli strumentini che accompagnano
l’aria di Doralice sono tradotti nelle mossette di tre galline che si beccano vivacemente, l’aria sentimentale di Alberto è una serie di variazioni sul tema dei glutei femmini-
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trent’anni all’opera
li che nel numero di dodici – scelti indubbiamente con gusto – descrivono, dietro il
romantico tenore, le più allusive figurazioni ginniche. Ma non crediate che sia tutto
qui. Il madornale errore di credere che la musica di Rossini non sia capace, da sola, di
fare teatro, e che vada riempita in ogni modo da elementi estranei, genera in questo
spettacolo altre sorprese, talvolta troppo rumorose. Ad esempio, il comico duello in
cui è coivolto Don Pomponio s’amplifica in uno scoppiettìo di bombe a mano, e si
conclude con le martellate di chi sta inchiodando una cassa da morto; l’aria di Filippo,
che evoca la provenienza esotica di possibili pretendenti alla mano di Lisetta, introduce nuovi personaggi: un leone, una zebra, uno struzzo, una giraffa, un cammello,
mentre i fogli della gazzetta tappezzano periodicamente lo sfondo del palcoscenico e
aeroplanini di carta volano ovunque. Peccato che il pallone, che doveva sollevare alla
fine Don Pomponio come una mongolfiera, sia scoppiato prima del tempo. In questo
guazzabuglio, delle due l’una: o si esce frastornati prima del tempo, oppure, come ha
fatto il pubblico del­l’Auditorium Pedrotti, che ha decretato allo spettacolo un successo vivissimo, si sta al gioco, e si passa una serata divertente, accettando che la musica
della Gazzetta venga trattata, per una volta, come un arredo tra molti altri, una tappezzeria sonora di valore quasi esclusivamente decorativo.
Contro questa ipotesi ha lottato con successo l’eccellente esecuzione musicale, guidata con gusto, vivacità e finezza da Maurizio Barbacini a capo del­l’orchestra
giovanile del Festival. I cantanti formavano una compagnia ideale: Bruno Praticò
(Don Pomponio) Stefania Bonfadelli (Lisetta) Antonino Siragusa (Alberto) Pietro
Spagnoli (Filippo) Laura Polverelli (Madama La Rose) hanno cercato di far sì che
l’impetuosa corrente figurativa scatenata dal regista non cancellasse completamente
i connotati dei loro personaggi, e ci sono riusciti. Inoltre, hanno offerto una prova
superba di belcanto rossiniano, mostrando come nella Gazzetta ci siano alcune pagine nuove, non prese da altre opere, in cui Rossini cesella cose preziose per finezza
e delicatezza di mezzetinte. Così, pagato il tributo di pazienza alle divertenti ma alla
lunga frastornanti esuberanze di Dario Fo, resta vivo il desiderio di riascoltare l’opera in un allestimento che ce la presenti per quello che è. [13.8.2001]
Rossini e i mille bagliori Otello
Dopo essere stata, ai suoi tempi, l’opera seria più famosa di Rossini, Otello (Napoli
1816), col declinare del belcanto ottocentesco, andò incontro a una strana fortuna
critica: chi ne parlò – da Meyerbeer a Hanslick a Fétis – lo descrisse un poco come
un pianeta diviso in due emisferi: uno ricoperto da ghiacci, l’altro ardente, pittoresco e avventuroso. Al primo apparterrebbero i due atti iniziali, tacciati di freddezza,
dove lo squinternato libretto di Francesco Berio di Salsa ignora quasi completamente Shakespeare e la musica di Rossini dà libero sfogo al furore virtuosistico del belcanto (l’opera fu scritta per la Colbran, Nozzari e il grandissimo David).
Senza riserve, invece, si è sempre ammirato il terzo atto, shakespeariano in toto,
e stupefacente per l’immediatezza espressiva del­l’invenzione musicale. Ora, la riuscita del­l’esecuzione che ha aperto l’altra sera, con grande successo, il Rossini Opera Festival sta semplicemente nel­l’aver sanato questa frattura: il che assume quasi
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Trent`anni all`Opera - Casa editrice Le Lettere