EDIZIONE MENSILE N. 5/2013 DELLA RIVISTA DELLA FONDAZIONE CRISTOFORO COLOMBO PER LE LIBERTÀ
Far politica ai tempi
della crisi
Nel numero di Maggio
Valori, buon senso, infrastrutture. Vincere la crisi
di Rocco Buttiglione*
I
l mondo intorno a noi ha smesso di esserci familiare.
Non ci raccapezziamo più. Non capiamo più quello
che accade e ci sentiamo insicuri. Diritti che ci eravamo abituati a considerare acquisiti vengono rimessi in discussione. Le risposte giuste che eravamo abituati a dare
in modo quasi automatico alle situazioni di difficoltà e di
crisi adesso non funzionano più. Anche i sindacati, anche i
partiti, anche gli uomini politici cui avevamo affidato la
rappresentanza dei nostri interessi brancolano nel buio.
Alla superficie tutto sembra funzionare come sempre. Le
solite liti, i soliti compromessi e poi alla fine una qualche
soluzione si troverà. Ma non è così. Sentiamo oscuramente o comprendiamo più o meno distintamente che non è
così. Questa volta le solite medicine non funzionano e cresce il timore che finisca il nostro mondo, il mondo che noi
abbiamo amato e nel quale noi ci troviamo a nostro agio.
Non sappiamo in che mondo vivremo nei prossimi anni,
non sappiamo in che mondo vivranno i nostri figli, che lavoro faranno o anche solo se mai troveranno un lavoro.
Per questo abbiamo paura e diventiamo più cattivi. La
paura non è mai una buona consigliera.
Ce l’abbiamo con gli immigrati che ci portano via il lavoro,
ce l’abbiamo con i meridionali che vogliono vivere di assistenza dello Stato o con i settentrionali che sfruttano il
Mezzogiorno, ce l’abbiamo con i politici che si ingrassano
alla greppia dello Stato, ce l’abbiamo con i greci che vogliono vivere senza lavorare o con la Germania che vuole
dominare l’Europa.Vorremmo poter dire che la colpa è di
un altro e che basta punire lui, fargli pagare le sue colpe, e
tutto andrà a posto e tornerà come prima. Sappiamo bene
Far politica ai tempi della crisi
Rocco Buttiglione
Opere pubbliche e contestazioni, le mille Tav italiane
Andrea Camaiora
Osservatorio Nimby Forum
Consigli per la lettura
«La mia testimonianza di fronte al mondo»
«Il Don Chisciotte» di Pietro Citati
La prigione di Contrada, martire tra gli indiffernti
«Il demone meridiano»
«I ricordi di Parigi»
Consigli per il grande schermo
Iron Man 3: Tony Stark ancora campione d’incassi
«NO. I giorni dell’arcobaleno»
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Valori, buon senso, infrastrutture. Vincere la crisi
La politica
sistema politico internazionale, con due enormi aggregazioni di potenza intorno agli Stati Uniti e all’Unione
Sovietica e con una istanza di mediazione e diplomatizzazione dei conflitti che erano le Nazioni Unite. Si delineava una nuova divisione internazionale del lavoro e
nuove regole di funzionamento della economia globale
e, al suo interno, della economia europea. Anche l’Italia
ha vissuto allora un momento di politica straordinaria.
È in crisi anche la politica. La gente è arrabbiata con la
politica e non senza ragione, anche se la ragione vera
forse non è quella che essi credono. La colpa vera della
politica non è tanto l’avidità di alcuni (o molti) politici. La
colpa più grave è quella di non capire la natura della crisi
e di non sapere indicare la via per uscirne. La politica è
per gran parte rappresentanza di interessi e questa parte della politica i politici per lo più la padroneggiano bene. Rappresentano interessi territoriali o anche interessi
settoriali che lottano per conseguire vantaggi o (sempre
più spesso) per essere risparmiati nella ripartizione dei
sacrifici. Cercano di dirottare flussi di risorse pubbliche
verso i loro amici o le loro clientele. Non è necessariamente una attività disprezzabile. Il politico è un po’ come un avvocato che rappresenta gli interessi del suo
cliente. Se il cliente è una persona perbene i suoi interessi saranno legittimi.
Alcide De Gasperi ha visto con straordinaria lucidità le
caratteristiche del mondo nuovo e ha saputo inserire
l’Italia nel nuovo ordine mondiale in modo tale da liberare enormi energie positive per lo sviluppo del Paese.
Sul solco tracciato da De Gasperi l’Italia ha camminato
per molti anni. Le linee fondamentali erano stabilite e
all’interno del quadro definito da De Gasperi si è sviluppata la politica della breve durata che ha governato il
Paese. Un periodo di politica straordinaria si è poi prodotto, su scala minore, negli anni del terrorismo. Questa
volta erano forze endogene al sistema Italia a metterlo
Non c’è nulla di male nel preoccuparsi che la propria in pericolo. Aldo Moro allora seppe trovare un percorso
regione abbia una quota ragionevole di finanziamenti per uscire dalla crisi.
per nuove infrastrutture o che i precari della scuola trovino alla fine la possibilità di avere una sistemazione Oggi ci troviamo di fronte a un mondo che cambia più
stabile. Ancora più meritorio è battersi per dare un so- radicalmente e più profondamente che negli anni di
stegno adeguato alle famiglie o preoccuparsi per i disa- piombo, forse ancora più radicalmente e profondamenbili. Certo c’è anche chi si preoccupa di far avere appalti te che nel dopoguerra, ma la politica non riesce a capire
agli amici suoi eludendo le regole nazionali ed europee o e a spiegare al popolo la natura e l’ampiezza della sfida
di far avere posti di lavoro agli amici suoi eludendo i alla quale stiamo di fronte. È questo il nostro problema.
concorsi. Questo è evidentemente sbagliato e ancora
peggio è quando qualcuno cerca i voti della criminalità Lunga durata e sfida
organizzata e ne rappresenta gli interessi. In Parlamento
tutta la società italiana è rappresentata, le sue parti mi- In queste riflessioni sul presente e sulla politica ho preso
gliori e quelle peggiori, le più avanzate e le più arretrate, in prestito due concetti derivati dalle scienze storiche. Il
le più idealiste e quelle più grette e meschine. Questo è primo è quello di lunga durata elaborato dalla scuola
il gioco della politica.
francese degli Annales. Questi storici francesi ci hanno
spiegato che esistono fenomeni storici di superficie e
La politica è però anche un’altra cosa. La politica è an- fenomeni profondi che possono anche non essere perche capacità di vedere ciò che si muove e sta cambiando cepiti per lunghi periodi ma che erodono alla base le
nel mondo e capacità di agire perché la nazione o co- strutture politiche o economiche esistenti. Poi, in un
munque il territorio del quale si è politicamente respon- modo che sembra improvviso, quelle strutture crollano.
sabili si inserisca nel cambiamento con il massimo dei Chi però avesse seguito la trasformazione molecolare
vantaggi e il minimo degli svantaggi. La politica che ab- che si svolgeva nel profondo non sarebbe stato tanto
biamo descritto per prima si occupa del funzionamento sorpreso e, forse, avrebbe potuto guidare più facilmente
del sistema economico e sociale esistente. La chiamere- il passaggio, la transizione, da un ordine in crisi a un ormo politica ordinaria o politica della breve durata.
dine nuovo. Proporremo adesso due esempi, tratti ambedue dalla storia italiana, per illustrare questo conLa seconda politica che abbiamo descritto la chiamere- cetto. Uno è universalmente noto, l’altro, forse, meno.
mo politica straordinaria o politica della lunga durata.
Dopo la Seconda guerra mondiale il mondo ha vissuto Verso la fine del secolo xv Colombo scopre l’America e,
un momento di politica straordinaria. Nasceva un nuovo quasi contemporaneamente, Vasco da Gama circumna-
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Valori, buon senso, infrastrutture. Vincere la crisi
viga l’Africa e arriva a Calicut aprendo la nuova rotta delle spezie. Venezia perde il semimonopolio del traffico
delle spezie da cui traeva tanta parte della sua forza economica. La decadenza dell’impero veneziano sarà ancora
lunga e (a tratti) splendida ma era comunque iniziata e si
sarebbe rivelata alla fine inarrestabile.
assorbente per le prossime elezioni.
Non è facile rivolgere lo sguardo verso la lunga durata.
Informazione, comprensione e capacità di decidere
Per di più anche il mondo della comunicazione non aiuta.
Giornali e televisioni non vogliono ascoltare discorsi
complessi, cercano la semplificazione a ogni costo e slogan a effetto È nata una nuova politica efficacissima nel
vincere le elezioni ma del tutto inadatta a governare. I
sondaggi permettono di sapere in tempo reale ciò che la
gente vuole sentire. Basta ripeterlo e il successo è assicurato. Tutto questo sembra molto bello e, soprattutto,
molto democratico. Non è forse l’ideale della democrazia
fare quello che il popolo vuole? Purtroppo quello che il
popolo vuole sentire spesso non è vero e non è possibile.
A tutti noi piacerebbe diminuire le tasse ed aumentare la
spesa per offrire servizi migliori ai cittadini. Purtroppo
non è possibile. Dobbiamo allora rinunciare all’ideale
democratico?
Qualche anno dopo sarebbe cominciata l’ultima miniglaciazione delle Alpi. I passi che univano i due versanti delle Alpi cominciarono a essere ingombri di neve per gran
parte dell’anno.
I commerci, per esempio, fra i due versanti del Monte
Rosa o del Monte Bianco divennero sempre più difficili. Il
ducato di Savoia, che controllava appunto i passi delle
Alpi Occidentali, entrò in una crisi drammatica. Non era
più possibile spostare con facilità merci, persone e anche
rinforzi militari da un versante all’altro. Il ducato avrebbe
potuto affrontare le minacce provenienti dalla Francia
attingendo solo alle risorse dei suoi territori sul versante
francese, e per fronteggiare quelle provenienti dall’Italia
avrebbe potuto contare solo sulle risorse del suo versante italiano. I duchi di Savoia (in particolare Vittorio Amedeo II) seppero rinunciare ai progetti di espansione oltre
le Alpi, scegliere una vocazione nazionale italiana e trasformarsi nei custodi delle Alpi contro le invasioni provenienti dalla Francia. Trasformarono così una crisi in una
opportunità che diede loro un ruolo importante nella
politica europea.
No, dobbiamo però ricordarci che quello democratico è
un ideale esigente. Se il popolo deve governare allora è
necessario che il popolo impari le virtù dei governanti, la
prudenza e il consiglio. Cicerone ci spiega che esiste una
differenza fra l’opinione superficiale del popolo, il suo
umore momentaneo, e la sua volontà vera. La volontà
vera il popolo la esprime quando i politici gli spiegano
esattamente le questioni su cui deve decidere e gli delineano le alternative fra le quali deve scegliere.
L’altro concetto che prendiamo in prestito dalle scienze
storiche è quello di sfida. Questo lo ha elaborato Arnold
Toynbee. Marx, che ha studiato anche lui i fenomeni della lunga durata, era convinto che la evoluzione delle
strutture profonde portasse con sé necessariamente la
crisi catastrofica dei sistemi culturali e politici costruiti su
quelle strutture. Toynbee dice invece che le strutture
culturali e politiche hanno la capacità di trasformarsi
mantenendo però la loro identità fondamentale per fare
fronte alla sfida del cambiamento. Il cambiamento profondo costituisce sempre una sfida. A questa sfida si può
dare una risposta vincente o si può invece soccombere a
essa.
Se il popolo sbaglia la colpa non è sua ma dei politici che
lo hanno mal consigliato e male informato. Tutti i sistemi
istituzionali delle democrazie moderne sono ispirati alla
preoccupazione di garantire le condizioni necessarie perché il popolo arrivi a deliberare sulla base di una informazione adeguata e di una comprensione sufficiente.
Certo, oggi questo compito di parlare al popolo non può
essere delegato solo ai politici. Il sistema della comunicazione ha un ruolo fondamentale per la salvezza (o per la
rovina) delle nostre democrazie.
In questo libretto noi cercheremo adesso di spiegare la
crisi nella quale ci troviamo, legando le sue apparenze di
superficie con le trasformazioni profonde del mondo in
cui viviamo. Comprendere il cambiamento è la condizione prima per poterlo guidare e per non esserne travolti.
Non diremo quello che la gente vuole sentire. Molti dicono alla gente quello che la gente vuole sentire in modo
da averne il consenso. Pensano, in tal modo, di essere
democratici. Non è forse la democrazia il fare la volontà
È lecito trasporre queste categorie dall’ambito della storia a quello della politica? A me sembra di sì. Cosa è infatti la politica se non la storia contemporanea che si
svolge sotto i nostri occhi? Certo, è necessario che il politico prenda una certa distanza dalla contingenza immediata della lotta politica. Oggi purtroppo l’attenzione del
politico è spesso tenuta in ostaggio dalla preoccupazione
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Valori, buon senso, infrastrutture. Vincere la crisi
della gente? Per quelli che la pensano in quel modo questo è un libro impolitico. Consapevolmente, deliberatamente, volontariamente impolitico. Diremo molte verità
sgradevoli e non ci preoccuperemo più di tanto neppure
di cercare di abbellirle.
ra una brutta parola, Polibio preferisce parlare di regime
misto) proprio perché nel sistema romano la passione
momentanea della moltitudine era contenuta da un solido sistema istituzionale che restaurava, su base democratica, un giusto principio di autorità. Tutte le costituzioni moderne, a partire da quella degli Stati Uniti, si
sono ispirate a Polibio. Il sistema istituzionale esiste proprio per evitare che il popolo scelga prima di avere compreso esattamente i termini del problema o anche per
fare in modo che il popolo deleghi a decidere uomini di
cui si fida e che abbiano tempo e modo di approfondire i
problemi. Il compito del politico nel senso di Polibio è
dire la verità al popolo perché il popolo possa decidere.
La democrazia non è la volontà della gente ma la volontà del popolo. Il popolo non è la gente. La gente è la
massa tumultuaria radunata in una piazza, magari mediatica e televisiva.
Il popolo è una adunanza regolata dalle leggi con lo scopo prima di capire come stanno le cose e poi di decidere. Polibio pensava che il sistema istituzionale romano
fosse superiore a quello greco ovvero che la democrazia * parlamentare, presidente Udc – autore di «La sfida.
romana fosse superiore a quella greca (ma Polibio non Fare politica ai tempi della crisi» (ed. Rubbettino)
usava la parola democrazia che, ai suoi tempi, era anco-
a fronte di una evidente carenza di risorse finanziarie
(150 miliardi contro i 367 necessari alle 390 infrastrutture “strategiche”) nell’allegato infrastrutture al documento di finanza pubblica (Def) non si registra alcuna indicazione circa le priorità su cui concentrare gli investimenti.
Opere pubbliche e contestazioni, le mille Tav italiane
di Andrea Camaiora*
L’apparente incapacità del nostro Paese di pianificare e
realizzare, in modo lineare e condiviso, grandi infrastrutture per la sua modernizzazione, non è certo ascrivibile a una pregiudiziale avversità dei cittadini. Piuttosto ha a che fare con un serio problema di governance
dei processi decisionali che ha finito paradossalmente
con l’alimentare il pregiudizio da parte di settori importanti dell’opinione pubblica.
L
a presentazione del rapporto Nimby – giunto
all’ottava edizione e per la prima volta realizzato in collaborazione tra Aris e Anci – costituisce
un’occasione preziosa per ripensare e costruire le strategie indispensabili per rimuovere gli ostacoli che hanno
prodotto il ritardo infrastrutturale a cui oggi assistiamo.
Sono molteplici le ragioni che hanno prodotto il nostro
sempre più conclamato ritardo infrastrutturale e non
certo solo riconducibili a elementi di natura economicafinanziaria. Infatti senza dubbio nell’ultimo ventennio si
è assistito a una contrazione della spesa pubblica per
investimenti infrastrutturali (dovuta al rispetto degli impegni comunitari e ai “decreti anticrisi”) ma anche alla
difficoltà di programmare la spesa.
È infatti evidente che opere programmate senza un
adeguato livello di condivisione sul territorio, la cui utilità non è quindi percepita come tale dai cittadini e dalle
loro istituzioni di riferimento, si prestano troppo facilmente a diventare elementi di conflitto come già nel
recente passato è accaduto in val di Susa.
Inutile sottolineare poi come la conflittualità intorno ai
grandi progetti infrastrutturali abbia spesso come esito
Si registra una difficoltà di attuazione delle opere pro- quello di farli decollare in ritardo, quando dunque essi
grammate sia sotto il profilo delle risorse impegnate che hanno ampiamente esaurito la loro spinta innovativa.
della concreta realizzazione degli interventi e ciò appunto per carenza di una “visione strategica” intesa come L’esplosione dell'effetto Nimby, con 354 casi censiti nel
incapacità di definire il modello di sviluppo al cui servizio 2012 a fronte di 190 casi della prima edizione e 283 delle infrastrutture strategiche dovrebbero essere destina- la quinta, si traducono nel fatto che le lungaggini conte.
nesse alla necessità di far forzosamente “digerire” tali
opere alle comunità locali, finiscono quindi per allungarTale incapacità è testimoniata ad esempio dal fatto che ne così tanto i tempi di realizzazione da rischiare di vani-
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Valori, buon senso, infrastrutture. Vincere la crisi
rischiare di vanificarne l’utilità o, comunque, dal limitar- divisa verso lo sviluppo e il progresso. Come? Con tutti i
ne enormemente il ciclo di vita rispetto alle esigenze da suoi limiti, il “Piano Città” varato dal ministro Passera –
cui ne era scaturita la necessità.
di recente realizzazione – ha sposato questa logica rappresentando un felice elemento di discontinuità e di
Diventa quindi indispensabile e non più procrastinabile passo verso la giusta direzione e la costituzione del Cipu
affrontare il tema di quali meccanismi costruire per un - Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane efficace coordinamento tra i vari livelli istituzionali. È sembra promettere di voler proseguire su questa strada.
infatti necessario ricomporre i centri di potere decisio- Purtroppo, però, troppo facilmente si è ceduto alle resinale attraverso una leale e fattiva collaborazione tra i stenze inerziali che hanno impedito a un metodo giusto
vari soggetti istituzionali.
di dispiegare al meglio le sue potenzialità.
Si prende spesso a modello il meccanismo francese del
“débat public” ma quello italiano non è uno Stato che
soffoca il dibattito. Anzi. Se proprio si vuole fare autocritica, va piuttosto sottolineato che in Italia si parla per
venti, trenta, quarant’anni della realizzazione di una infrastruttura. Ma non c’è mai nessuno che fischia la fine
del tempo per la discussione, con l’evidente risultato
che tutto può essere sempre, sistematicamente, ridiscusso.
Non si è aggiunto un euro ai 318 milioni stanziati da Mit
(224) e Coesione territoriale (100 per le Zone Franche
Urbane) nonostante una montagna di risorse – oltre 2
miliardi di euro soprattutto di fondi strutturali –
rimangano dormienti e a sempre più alto rischio di disimpegno presso le Regioni dell’Area Convergenza. Ritornando al significato del cosiddetto “effetto Nimby”,
ovvero l’atteggiamento che si riscontra nelle proteste
contro opere di interesse pubblico come ad esempio
grandi vie di comunicazione, termovalorizzatori, discariche, centrali energetiche, cave e altro ancora, non ci si
può tuttavia non interrogare su un fenomeno che presenta anche, indipendentemente dalle caratteristiche
peculiari dei singoli casi, una sempre crescente dose di
ideologia.
L’Italia, quindi, anche nel settore infrastrutturale è un
Paese caratterizzato da un drammatico deficit democratico, per il quale tutti parlano e nessuno decide. La sfida
che abbiamo di fronte consiste dunque nella definizione
di come intendiamo ristrutturare le modalità di collaborazione e confronto in modo che si possano contemperare esigenze dei vari centri di interesse coinvolti e Esiste nel nostro Paese, non da oggi, un rigurgito che
obiettivo decisionale finale: localizzare e realizzare le uno storico di valore come Piero Melograni avrebbe
opere pubbliche.
definito senza mezzi termini "antimoderno" e che si manifesta, appunto, attraverso la radicale opposizione a
Dobbiamo però essere consapevoli che tali problemi ogni tentativo di progresso, a ogni innovazione. Assistianon si superano con la semplice revisione di meccanismi mo così nel nostro Paese a guerre di religione contro i
procedurali. Occorre un reale coinvolgimento delle co- termovalorizzatori che sono adottati in ogni Stato che
munità locali e in questo senso l’esempio del “débat intenda definirsi civile, oppure a fenomeni di guerriglia
public” può essere un punto di riferimento utile. D’altra- quando a dover essere costruita è una nuova via di coparte non si può prescindere dalla restituzione alle co- municazione.
munità locali e alle loro istituzioni dei margini di autonomia e autodeterminazione che, è inutile negarlo, negli Indipendentemente dalle convinzioni di ciascuno, quinultimi anni, complici la crisi economico finanziaria e l’ap- di, occorre che anche gli organi di informazione, le istiprossimazione con cui si sta riprogettando l’assetto isti- tuzioni e in fondo l’opinione pubblica, distinguano queltuzionale federalista del Paese, si sono inaccettabilmen- le che sono proteste nel merito, argomentate e fondate,
te e rovinosamente compressi.
da pregiudizi di natura ideologica che si traducono in
movimenti del “No” che giorno dopo giorno rischiano di
Emblematica, in proposito, è l’ottusa testardaggine con fermare definitivamente l’Italia e di farlo, per giunta, in
la quale si mantiene il patto di stabilità interno e con modo violento. Detto in altri termini, dopo i fatti della
esso la decisione di bloccare gli 11 miliardi di residui notte scorsa relativi alla Tav, cosa ancora deve accadere
passivi presso i comuni che toglie loro, nei fatti, qualsiasi per definire non soltanto violente, ma anche eversive,
margine di discrezionalità nella allocazione di risorse per certe iniziative?
investimenti sul proprio territorio. È dunque dal sistema
delle autonomie locali che può ripartire una spinta con- * presidente commissione Infrastrutture e ll.pp. Anci
5
Valori, buon senso, infrastrutture. Vincere la crisi
Osservatorio Nimby
I Comitati a capo della protesta
Sono i comitati a guidare la classifica della protesta, rappresentando il 24,2% dei soggetti coinvolti, ma al secondo posto si piazzano i soggetti politici locali (20,7%) e i
Comuni (18,3%), distaccando in maniera netta le associazioni ambientaliste locali (8,1%) e nazionali (2,1%).
Per lo stretto legame tra opera presentata e territorio, i
Comuni sono gli enti che maggiormente si espongono
nei confronti di un impianto. Se da un lato il 64,3% dei
Comuni interessati direttamente dai progetti manifesta
opposizione alle opere, dall'altro si rileva un'incidenza
importante di amministrazioni limitrofe (Comuni e Province) contrarie, che lamentano lo scarso o mancato
coinvolgimento nelle scelte relative all'impianto. Il fenomeno cambia dimensioni passando a livelli decisionali
successivi, dove Province e Regioni interessate si attestano su valori inferiori: 40,7% e 30%. Complice il ruolo
più istituzionale che tali soggetti sono tenuti a svolgere,
a questi compete l'iter autorizzativo e la valutazione tecnica dei progetti nonché l'indirizzo di sviluppo territoriale e la rappresentanza degli interessi di una comunità
più ampia. Passando all'analisi delle tipologie dei soggetti contrari agli impianti, si conferma il ruolo predominante della contestazione popolare (35,6%) che raccoglie cittadini, comitati, associazioni e organizzazioni territoriali. Seguono le contestazioni promosse dagli enti
pubblici (28,3%, in aumento di quasi 5 punti percentuali
rispetto al 2011) e quelle di matrice politica (23,2%, -6%
rispetto alla settima edizione). Percentuali nettamente
inferiori riguardano le contestazioni delle associazioni
ambientaliste e di categoria (rispettivamente 9,8% e
3,1%).
È la Lombardia la “Regione Nimby” con il 14,7% dei casi
censiti
Sono le regioni del Nord Est quelle più colpite dalla sindrome Nimby. È qui infatti che cittadini, organizzazioni e
istituzioni locali protestano di più perché non vogliono
che un'infrastruttura o un'opera vengano realizzate sul
proprio territorio. Ed è la Lombardia la regione che contesta di più, con il 14,7% dei casi. Le regioni del Nord Est
registrano infatti, nel 2012, il maggior numero di impianti contestati, sia in termini assoluti, sia in riferimento ai
nuovi casi rilevati (ben 48) dall'ottava edizione dell'Os-
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servatorio Nimby Forum. In netta controtendenza rispetto alla precedente edizione dell'Osservatorio, sono i
dati relativi alle regioni del Centro (con 36 nuove contestazioni e in calo di oltre due punti percentuali, piazzandosi al secondo posto della classifica), e le rilevazioni per
il Nord Ovest (19,8%, in calo di quasi 10 punti percentuali). Le ragioni del risultato possono risiedere nel maggior grado di industrializzazione e urbanizzazione di regioni quali la Lombardia e il Veneto che porta a proporre
un numero più elevato di progetti per lo sviluppo energetico e infrastrutturale del territorio. Ne sono un esempio la Pedemontana Lombarda, la strada Varesina bis,
diverse discariche e centrali idroelettriche per la Lombardia, la Pedemontana Veneta, il rigassificatore di Trieste, il gassificatore di Cassola e un elevato numero di
centrali a biomasse proposte nella regione Veneto. Lombardia e Veneto raggruppano il 28,6% delle opere censite dal NIMBY Forum, seguite da Toscana (37 impianti)
ed Emilia Romagna (30 impianti).
I “No” colpiscono soprattutto centrali a biomassa e parchi eolici
Se è il comparto elettrico, con 222 impianti, ad essere il
più colpito dalle proteste con il 62,7% dei casi censiti
dall'ottavo Osservatorio Nimby Forum, non fanno eccezione gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili che contano 176 contestazioni: su 10 impianti
di produzione di energia elettrica oggetto di opposizioni,
ben 9 prevedono l'uso di fonti rinnovabili. Ad essere più
contestati, le centrali a biomasse (con 108 impianti), le
centrali idroelettriche (32) e i parchi eolici (32). Gli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti convenzionali e rinnovabili (centrali termoelettriche, parchi
eolici, impianti a biomasse, centrali idroelettriche e parchi fotovoltaici) sono complessivamente 192 e rappresentano il 54,2% del totale delle opere contestate. Per
fare qualche paragone, i termovalorizzatori contano 28
casi di contestazione (7,9%), le discariche 21 (5,9%), i
rigassificatori 7 (2,0%), le centrali a carbone 6 casi (1,7%)
e i depositi di scorie nucleari un solo caso di contestazione registrato dal Nimby Forum. Le ragioni della contestazione verso gli impianti da fonti rinnovabili, che godono generalmente di consenso, sono trasversali e sia i
progetti sia opere in attività. Diverse sono anche le motivazioni della contestazione: incompatibilità ambientale,
ripercussioni sulla salute e sugli stili di vita, contraccolpi
economici.
I cittadini, le organizzazioni e la politica locale dicono
'no', quindi, anche alle cosiddette energie pulite. Il dato
comprende i grandi impianti di produzione, ma è in gran
Valori, buon senso, infrastrutture. Vincere la crisi
parte costituito da un numeroso elenco di piccoli impianti, di potenza inferiore a 1 Mw elettrico. Dato che
potrebbe trovare spiegazione nella legislazione vigente
che prevede, per quest'ultima tipologia di opera, un percorso autorizzativo semplificato, in capo alle amministrazioni locali. Se infatti per i progetti di potenza da 1 a
50 Mw è necessario il parere preventivo della Commissione Via regionale, per gli impianti di portata fino a 1
Mw è sufficiente ottenere l'autorizzazione unica provinciale.
Andrea Camaiora (Anci): «In Italia un problema di governance dei processi decisionali»
«L'apparente incapacità del nostro Paese di pianificare e
realizzare, in modo lineare e condiviso, grandi infrastrutture per la sua modernizzazione, non è certo ascrivibile a una pregiudiziale avversità dei cittadini. Piuttosto ha a che fare con un serio problema di governance
dei processi decisionali che ha finito paradossalmente
con l'alimentare il pregiudizio da parte di settori importanti dell'opinione pubblica». Così il presidente della
commissione Infrastrutture e lavori pubblici di Anci, Andrea Camaiora, commentando il rapporto Nimby. «È
infatti evidente che opere programmate senza un adeguato livello di condivisione sul territorio, la cui utilità
non è quindi percepita come tale dai cittadini e dalle
loro istituzioni di riferimento, si prestano troppo facilmente a diventare elementi di conflitto» aggiunge Camaiora, per il quale è indispensabile «affrontare il tema
di quali meccanismi costruire per un efficace coordinamento tra i vari livelli istituzionali». «Si prende spesso a
modello il meccanismo francese del 'de'bat public' ma
quello italiano non è uno Stato che soffoca il dibattito.
Anzi. Se proprio si vuole fare autocritica - continua - va
piuttosto sottolineato che in Italia si parla per venti,
trenta, quarant'anni della realizzazione di una infrastruttura. Ma non c'è mai nessuno che fischia la fine del
tempo per la discussione, con l'evidente risultato che
tutto può essere sempre, sistematicamente, ridiscusso».
Alessandro Beulcke, presidente Aris, l'Agenzia di Ricerche Informazione e Società che promuove l'Osservatorio Nimby Forum. Beulcke rileva «una confusione crescente e una difficoltà maggiore a far entrare capitali in
Italia, con multinazionali che stanno andando via a causa
delle difficoltà a investire in realizzazioni sul territorio
italiano. Speriamo di poter registrare, l'anno prossimo,
un'inversione di tendenza, magari con procedimenti legislativi da parte del nuovo governo, e che il de'bat public, di cui si parla molto, possa essere concretamente
inserito in Italia come procedura reale». Contestazioni
trasversali che investono tanto le reti viarie quanto il
comparto energia, «una grande paura che, attraverso
internet, ha un'ampia eco - aggiunge Beulcke - e così
anche un'informazione errata messa in rete ha una portata molto più ampia rispetto al passato». E a fronte di
questo rischio «i centri di competenza mondiale, dall'Organizzazione mondiale della sanità all'Enea, dovrebbero
farsi promotori di se stessi e mettere in rete le proprie
comunicazioni per contrastare le informazioni sbagliate». Rispetto agli anni passati, incide sempre più, nelle
contestazioni, la preoccupazione dell'impatto ambientale. «Questo di per sé non è un dato negativo - commenta Beulcke - anzi, ma bisogna farlo con cognizione di
causa ed essere informati. Spesso gli oppositori dicono
no a un impianto senza sapere che quello stesso impianto ha già avuto valutazioni di impatto ambientale positive, questo vuol dire che ha attraversato un processo
autorizzativo complicatissimo con delle leggi molto
stringenti. Tutto questo dovrebbe essere promosso da
chi ha le informazioni corrette». Una curiosità. Se prima
si parlava solo di sindrome Nimby, il fenomeno che riguarda l'opposizione di cittadini e comunità che non vogliono realizzata sul proprio territorio una determinata
infrastruttura o opera, ora si fa largo la sindrome Nimto,
letteralmente 'Non in my turn of office', cioè non nel
mio mandato, «con amministratori pubblici che non vogliono che si realizzi un determinato impianto nel corso
del proprio mandato e che a volte cavalcano la protesta
a fini di proselitismo elettorale».
Alessandro Beulcke (Aris): «Per la politica arriva la sin- Corrado Clini: «Il problema è valutare se le proteste
drome Nimto, “non nel mio mandato”»
siano fondate o meno»
«A fronte di un inasprirsi delle contestazioni a impianti e
infrastrutture, la cosiddetta sindrome Nimby, che nel
2012 conta 354 casi con un aumento del 7% rispetto
all'anno precedente, quello che serve è una maggiore
informazione da parte di soggetti qualificati e un percorso di confronto e partecipazione che vada nella direzione del modello francese di 'debat public'». Lo spiega
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Tra le ragioni a monte delle contestazioni a opere e infrastrutture, il 2012 vede prevalere le preoccupazioni
per l'impatto ambientale dei progetti. Con un'incidenza
del 37,3%, questa voce registra una crescita decisa rispetto al 2011 (quando si attestava al 29,1%), stando a
quanto rileva l'ottava edizione dell'Osservatorio Nimby Forum. Probabilmente a causa dell'“effetto
Consigli per la lettura/ a cura di Andrea Camaiora
Ilva” - rileva il rapporto - che ha acuito la sensibilità di
tutti i soggetti territoriali rispetto al tema dell'ambiente.
Decisamente staccati dal primo posto occupato dall'impatto ambientale, seguono le carenze procedurali e lo
scarso coinvolgimento dei soggetti (15,5%), gli effetti
sulla qualità della vita (13,3%) e quelli sulla salute (12%).
Quando si parla di proteste dei cittadini legate alle
preoccupazioni ambientali, «il problema è valutare se
siano fondate o meno. Se sono fondate, vanno prese in
considerazione e va data una risposta, nel rispetto della
legge», commenta Corrado Clini, direttore generale del
ministero dell'Ambiente. Per Clini, l'unico effetto Ilva
visibile «è che il referendum che era stato organizzato è
fallito perché non c'è stata la partecipazione dei cittadini
interessati, e che i rappresentanti politici che avevano
fatto della chiusura dell'Ilva la propria bandiera non sono stati eletti. Per cui, l'effetto Ilva non sarebbe esattamente un effetto Nimby».
pee è risanare l'ambiente, non chiudere le fabbriche aggiunge Clini - Se facciamo rispettare le direttive Ue e
le leggi nazionali, mettiamo le imprese italiane nella condizione di concorrere in maniera corretta in Europa, ma
se non lo facciamo creiamo un effetto di distorsione della concorrenza e di questo bisogna assumersi la responsabilità». «Chi voleva chiudere l'Ilva - continua - doveva
anche assumersi la responsabilità della chiusura di un
ciclo industriale importante in Italia e della perdita di
20mila posti di lavoro. Troppo facile lanciare segnali di
allarme, di terrore a volte, senza assumersi la responsabilità delle conseguenze».
Intanto, anche se per l'Ilva «il cambio richiede il tempo
necessario - conclude Clini - per la prima volta in
quell'impianto siamo riusciti a far partire un piano di
risanamento. I risultati raccolti dall'Agenzia regionale
per la protezione dell'ambiente della Puglia a Taranto
dimostrano che in questo periodo non c'è stato mai il
«L'obiettivo delle leggi nazionali e delle direttive euro- superamento dei limiti di pericolosità ambientale».
po di transito di Bełzec e, fatto ancora più inaudito, a
«La mia testimonianza di uscirne indenne, deciso a denunciare al mondo le atrocità commesse dai nazisti ai danni della nazione polacca e
degli ebrei tutti.
fronte al mondo»
«
Porterà in effetti la sua testimonianza diretta ai grandi
della terra, incluso il presidente Roosevelt, ma per motivi politico-strategici il suo appello non verrà raccolto né
avrà seguito: non gli resterà, nel 1944, che affidarlo a
questo libro. Dimenticato nel dopoguerra in ragione dei
nuovi assetti politici mondiali, Karski sarà riscoperto e
intervistato dal regista Claude Lanzmann per il celeberrimo Shoah (1985), che darà l'avvio alla seconda fase della sua missione: ricordare l'indifferenza degli Alleati di
fronte al consumarsi del genocidio.
Non le darò istruzioni né le farò raccomandazioni ... Dovrà soltanto riferire obiettivamente quello che ha visto, raccontare quello che
ha vissuto in prima persona e ripetere ciò che in Polonia
le è stato ordinato di dire su coloro che vivono là e negli
altri paesi occupati d'Europa»: con questo viatico il premier Sikorski mandò Jan Karski a informare gli Alleati di
ciò che stava accadendo agli ebrei nel suo paese e di
come i polacchi non avessero mai smesso di lottare.
Nella veste consueta, sobria ed elegante che conquista
sempre gli appassionati lettori, Adelphi propone un documento storico di grande importanza. Le memorie di
Jan Kodielewski sono «la storia di uno stato segreto»,
quello polacco, un’eccezione decisamente peculiare nel
panorama dell’Europa sconvolta dai tumulti della seconda guerra mondiale. Il senso della nazione e dello stato
mostrato da un popolo martoriato da mille ingiustizie
affascina ancora oggi studiosi e semplici appassionati ma
Oltre a svolgere temerarie missioni – culminate nella
è capace di fare breccia nel cuore e nel cervello di chiunsua cattura da parte della Gestapo e in una rocamboleque legga questo splendido libro. Trentadue euro e circa
sca fuga –, Karski aveva compiuto un'impresa inaudita:
cinquecento pagine.
era riuscito a infiltrarsi nel ghetto di Varsavia e nel camUnitosi alla Resistenza nel 1939, il giovane ufficiale della
riserva era stato incaricato di tenere i collegamenti fra lo
Stato segreto polacco – una struttura clandestina perfettamente funzionante nelle sue varie ramificazioni,
caso davvero unico quanto misconosciuto nell'Europa
occupata dai nazisti – e gli organi ufficiali del governo in
esilio a Londra.
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Consigli per la lettura/ a cura di Andrea Camaiora
cale ambiguità del Don Chisciotte libro inquieto, modello di tante opere scritte negli ultimi quattro secoli. Capolavoro «di sogno e di fumo», il Don Chisciotte è infatti un
testo al tempo stesso misterioso e molteplice. Chi è il
narratore saggio e bugiardo che ha creato la trama, i
personaggi, i colori, le ombre, la filosofia, la psicologia,
le variazioni di «questa storia gravissima, altisonante,
n attesa di capire se la prossima sfida di Citati, i dolce e immaginata»?
Vangeli, sarà vinta o persa, consigliamo questo
volume edito da Mondadori che del romanzo di Con garbo, discrezione, ironia, buffoneria, menzogna,
Cervantes spiega tutto, dalle calze smagliate dell’eroe verità, Miguel de Cervantes gioca con questa domanda
alla fuga di Sancio passando per la bella Dulcinea. In pa- per tutto il romanzo, e più gioca e più la risposta si fa
gine luminose e di straordinaria leggerezza l’autore gui- sfuggente e segreta. A tratti, lo scrittore si perde in un
da attraverso vertiginosi raccourcis, fa vedere le peripe- gioco infinito di incantesimi dove sembra che tutte le
zie del Cavaliere dalla Trista Figura, bastonato, percosso, verità, le menzogne, le parole e i silenzi formino un meumiliato, travolto dai mulini a vento e ad acqua.
raviglioso guazzabuglio. Ma poco dopo si scopre che nel
«Il Don Chisciotte»
di Pietro Citati
I
romanzo dell'incantesimo e degli incantatori non tutto è
Di Sancio Panza, il fido scudiero, ci fa sentire l'enorme incantato e alla fine lo stesso Don Chisciotte diventa un
risata che rivela per qualche istante l'essenza del mon- lettore realistico della realtà. Diciassette euro per poco
do: riso liberato e scatenato che sconfigge qualsiasi pas- meno di centocinquanta pagine.
sione e sentimento. Ma soprattutto ci rammenta la radi-
La prigione di Contrada
Martire tra gli indifferenti
L
a drammatica vicenda di Bruno Contrada, se
conosciuta, toglierebbe il sonno a chiunque. Anche a Kafka. «Bruno Contrada era lo sbirro più
famoso di Palermo. Per trent’anni ha servito lo Stato
dando la caccia ai mafiosi. I mafiosi da lui arrestati si
sono dichiarati “pentiti” e hanno accusato lo sbirro di
mafiosità. Lo Stato ha rimesso in libertà i mafiosi e li ha
stipendiati e con le loro accuse ha processato e ha condannato lo sbirro. I mafiosi vivono liberi e lo sbirro è finito agli arresti domiciliari dopo anni di galera». Così scriveva alcuni anni fa il celebre giornalista Lino Jannuzzi
firmando un libro eccezionale sul caso contrada «Lo
sbirro e lo Stato» edito da Koiné.
Palermo con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Al termine di una complessa vicenda giudiziaria sarà condannato a scontare dieci anni di reclusione. Da allora Contrada non ha mai smesso di proclamare
la sua innocenza portando avanti una tenace battaglia.
Nato dall'incontro con la giornalista Letizia Leviti, questo
libro raccoglie il racconto dei fatti, i ricordi, le considerazioni, le previsioni di un uomo che nell'arco della vita ha
conosciuto la mafia e i mafiosi, la politica e i politici, la
magistratura e i magistrati.
E ha conosciuto il carcere. Ripercorrendo decenni di storia d'Italia - dal suo arrivo a Palermo nel 1962 a oggi Contrada affronta tutti i risvolti, anche i più oscuri, della
sua storia: le accuse dei pentiti, i rapporti con Falcone e
Borsellino, il suo presunto coinvolgimento nella strage di
via d'Amelio, la trattativa stato-mafia.
A completare il quadro, un documento inedito: un'informativa sulla situazione della mafia a Palermo e provincia
Oggi è Marsilio, con la giornalista lunigianese Letizia Le- che Contrada stilò nel 1982 all'indomani dell'omicidio La
viti a riportare alla luce la storia vera di questo eroico Torre, in cui per primo faceva riferimento all'esistenza
poliziotto di Palermo in questo libro intervista che si leg- della cosiddetta «zona grigia».
ge bene ma che fa accapponare la pelle per le sconcertanti rivelazioni che contiene. È la vigilia di Natale del Risultato di un profondo travaglio morale, il libro si com1992 quando Bruno Contrada, dirigente del Sisde con pone di tante risposte, ma genera altrettante inquietanti
alle spalle una lunga carriera in Polizia, viene arrestato a domande.
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Consigli per la lettura/ a cura di Andrea Camaiora
lingua volgare e il figlio di Savignan inclina pericolosamente verso questa eresia. Sullo sfondo c’è la lotta della
Chiesa contro il nemico esterno (la politica anticlericale
olfanelli da un po’ di tempo stupisce sempre
massonica) e quello interno (il modernismo).
positivamente. Lo fa ancora riportando alle
stampe «Il Demone meridiano», capolavoro di Il demone meridiano ha un intreccio perfettamente funPaul Bourget. Se «Il Santo» di Fogazzaro è considerato il zionante, ma è soprattutto un raffinato scavo psicologiromanzo del modernismo, «Il demone meridiano» è il co e, infine, un grande romanzo ideologico. La maestria
romanzo della Tradizione cattolica. Cos’è il «demone del suo autore non fa mai scadere il lavoro nel didascalimeridiano»? La tentazione di chi ha raggiunto il merig- smo.
gio della vita. Per Louis Savignan, affermato storico e Paul Bourget (1852-1935) è uno dei più importanti
bandiera degli intellettuali cattolici, tornato da Parigi scrittori cattolici francesi. Accademico di Francia, consinella natia Alvernia quando gli viene offerto di candidar- derato un pericolo dalla sinistra per il gran numero di
si al Parlamento, tale tentazione consiste da un lato nel lettori, fece della letteratura uno strumento di battaglia
poter trascurare gli studi per la politica, dall’altro la mo- politico, morale e religioso.
rale per amare la donna con cui era stato fidanzato
Un grande classico dimenticato (o premeditatamente
vent’anni prima e da cui era stato abbandonato. Nel
ignorato!?!). Venticinque euro per circa quattrocento
frattempo, a Parigi, un prete modernista celebra
pagine. Complimenti all’editore Solfanelli!
(cinquant’anni prima del Concilio!) con un nuovo rito in
«Il demone meridiano»
S
«I ricordi di Parigi»
Povero Edmondo De Amicis! Ignorato, bistrattato, appena ricordato per il suo «Cuore». Solfanelli ci ha regalato
la riedizione de «I ricordi di Parigi». Si tratta di un documento di rilievo storico e letterario. Perché l’autore originario di Oneglia sceglie la capitale di Francia? La risposta alle richieste di un pubblico desideroso di scoprire la
sua natura sfaccettata: «cloaca» e «ventre», città del
piacere e delle scoperte scientifiche, delle cattedrali e
delle grandi Esposizioni Universali; sorridente, invitante,
cocotte sulle rive placide della Senna romantica dei bateaux-mouches; affamata, quando fruga fra le immondizie dei sobborghi, si vende per pochi denari e si sveglia
scarmigliata alle prime luci dell’alba, fra i comignoli fumanti e le case ancora addormentate, per aprire bottega o andare a lavorare in fabbrica. Ricordi di Parigi fu
frutto di due diversi soggiorni, effettuati nel 1873 e
1878, in seguito ai quali il libro uscì per l’editore Treves
dapprima nel 1875 e successivamente, accresciuto, nel
1879 (l’edizione oggi riproposta da Solfanelli).
barazzati. Avevamo letto nei giornali che i fiaccherai di
Parigi spingevano le loro pretese fino al punto di non
voler più trasportare persone grasse. Io feci osservare al
Giacosa che noi due eravamo fatti apposta per provocare e giustificare un rifiuto sdegnoso del più cortese dei
fiaccherai. Egli s’impensierì, io pure. Avevamo indosso,
per giunta, due spolverine che c’ingrossavano spietatamente. Come fare? Non c’era che da tentare di produrre
un po’ d’illusione avvicinandosi a una carrozza a passo di
contraddanza e interpellando l’uomo con una voce in
falsetto. Il tentativo riuscì. Il fiaccheraio ci rivolse uno
sguardo inquieto, ma ci lasciò salire». La descrizione della metropoli in piena attività è scintillante.
Quella di De Amicis è una bellissima «scrittura di viaggio». Ma è al tempo stesso affascinante il rapporto che
si stabilisce con due grandi autori francesi.
Colpisce la deferenza e l’entusiastica ammirazione con
cui De Amicis si accosta, appena trentaduenne, al
«mostro sacro» Victor Hugo. Scrive De Amicis dello stile
di Hugo: «Nello stesso tempo dolce e tremendo, fantastico e profondo, insensato e sublime».
Diviso in cinque capitoli, presenta tra l’altro il reportage D’altra parte, Zola: «Egli ha buttato in aria con un calcio
fatto da De Amicis dall’Esposizione Universale del 1878, tutti i vasetti della toeletta letteraria e ha lavato con uno
nonché gli incontri avuti con Victor Hugo e Émile Zola. strofinaccio di tela greggia la faccia imbellettata della
Verità». Un grande «classico» italiano racconta i propri
incontri con grandi «classici» francesi. Quattordici euro
Folgorante già l’inizio del libro: «Siamo discesi alla staben spesi per centoquaranta pagine che si lasciano legzione della strada ferrata di Lione, alle otto della mattigere.
na, con un tempo bellissimo. E ci trovammo subito im-
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Consigli per il grande schermo/ A cura di Silvana Murgia
Iron Man 3: Tony Stark
ancora campione d’incassi
I
l terzo capitolo della saga, diretto da Shane Black e
ambientato al termine dell’esperienza collettiva di
“The Avengers”, si apre con il ricordo di una serata
in Svizzera durante la quale l’eclettico miliardario Tony
Stark trascorre allegramente il tempo con la bella Maya
Hansen mentre, sullo sfondo, si intravede Aldrich Killian
– interpretato da Guy Pearce-, personaggio determinato
che vuole diventare un leader nell’industria, e includere
Stark tra gli scienziati a lui fedeli. In Medio Oriente, intanto, il Mandarino – uno straordinario Ben Kinsley -,
terrorista spietato e grande nemico dello stesso Stark,
complotta con l’obiettivo di colpire il Presidente. Prima
però decide di attaccare diverse zone degli Stati Uniti
d'America spargendo sangue e panico, e includendo tra i
suoi obiettivi anche l’avveniristica villa Stark, distrutta
durante un incredibile raid aereo. Preoccupato per la
sicurezza di Pepper, interpretata, come sempre, da
Gwyneth Paltrow, e in preda, per la prima volta, a intensi attacchi di panico, Iron Man è costretto ad affrontare
«NO. I giorni dell’arcobaleno»
P
ablo Larrain, già conosciuto per l’originale
«Tony Manero» (2008) e per il drammatico
«Post Mortem» (2010), affronta nuovamente
le vicende della storia cilena recente legate alla dittatura
di Pinochet con «NO – I giorni dell’arcobaleno». Film nel
quale il regista, insieme allo sceneggiatore Pedro Peirano, realizza una ricostruzione puntuale e rigorosa di un
momento determinante per la vita del popolo cileno
tralasciando, per l’occasione, le atmosfere oniriche che
avevano caratterizzato le pellicole precedenti. Vincitore
del premio della Quinzaine des Réalisateurs a Cannes
2012, e tra i candidati agli Oscar 2013 come Miglior Film
Straniero, «NO» è tratto dal testo teatrale di Antonio
Skármeta “El Plebiscito”, e racconta dei ventisette giorni
di campagna referendaria che segnarono l’inizio della
fine per la dittatura di Pinochet in Cile. Quindici anni
dopo il colpo di Stato che aveva abbattuto la democrazia
di Allende, il dittatore si vide infatti costretto a indire,
per il 5 ottobre del 1988, anche su sollecitazione degli
Stati Uniti, un referendum sull’opportunità o meno della
sua permanenza al potere, convinto dell’esito plebiscita-
le situazioni d’emergenza più diverse, e proprio in un
momento di enorme debolezza. Rispetto ai due episodi
precedenti – affidati al regista Jon Favreau – Iron Man 3
è una pellicola, per così dire, più “seria”: da accantonare, almeno per questa occasione, le frasi ironiche e le
situazioni paradossali che hanno da sempre coinvolto
Stark, interpretato ancora una volta da uno straordinario Robert Downey Jr. Parla poco, non cede alle battute
sarcastiche e ride ancora meno: l’ironia, in Iron Man 3, è
affidata quasi del tutto a Don Cheadle, che torna sin
dall’inizio del film nei panni di Rhodey. È probabile che
qualcuno non apprezzerà la “rilassatezza” del film, il
ruolo fondamentale che assumono i dialoghi, gli spazi
contenuti e poco illuminati e la parziale assenza di scene
d’azione, alle quali vengono riservati soltanto i trenta
minuti finali del film che riscattano comunque la calma
apparente della prima parte. Gli altri gradiranno invece
la maniera accattivante di reinventare, e riscattare con
trovate del tutto geniali, un “classico” del cinema d’azione, riscrivendone lo spirito e ridipingendone le atmosfere. E come sempre ricordiamo che non è opportuno abbandonate la sala dopo i titoli di coda: quello che si potrà vedere non sarà, forse, forse una vera e propria anticipazione, ma contribuirà sicuramente ad aggiungere
ottimismo alla serata…
rio e favorevole. Nel film l’intera vicenda è vissuta attraverso lo sguardo e la personalità di René Saavedra (uno
straordinario Gael García Bernal), giovane pubblicitario
cresciuto sotto il regime al quale viene affidata la campagna propagandistica del “NO”. Uomo politicamente
indifferente, René riesce man mano a coinvolgersi
nell’avventura, finendo anche per mettere a rischio la
propria vita e quella della sua famiglia.
E proprio nel momento della vittoria, quando Pinochet
perde il potere aprendo per il Cile la strada della democrazia, decide di tornare a vendere e promuovere telenovelas, mentre sul suo viso appare la lieve disillusione
di chi intuisce quanto anche gli “automatismi” della democrazia possano essere sfuggenti e indefinibili. «NO - i
giorni dell’arcobaleno» è un film intenso, raffinato sia
sotto l’aspetto linguistico che estetico, nel quale il regista sceglie volutamente di utilizzare una telecamera d’epoca per garantire scene e immagini dal fascino decisamente insolito, muovendosi con grande disinvoltura dal
materiale di repertorio alla ricostruzione cinematografica vera e propria. In una serie di cambiamenti di scena
che diventano, così, assolutamente inavvertibili, e che
assicurano una totale immersione nel passato, e nelle
vicende che ne hanno segnato per sempre la storia.
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Far politica ai tempi della crisi