L’Ombra dell’Orchidea
di
Rino Di Stefano
Romanzo
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Copyright © 2014 Rino Di Stefano. Tutti i diritti riservati.
Questo libro è stato depositato presso la SIAE – Sezione OLAF – Servizio Opere
Inedite, in data 7 Marzo 2011 con il n° 2011001076 di repertorio.
Date di pubblicazione:
Febbraio 2014 (Formato digitale Kindle, ISBN 978-88-909650-0-5)
Aprile 2014 (Formato cartaceo, ISBN 978-1-4975-6161-8)
Gli articoli e i libri del giornalista Rino Di Stefano sono visionabili nel sito
www.rinodistefano.com
In copertina:
la foto originale dello sfondo è di Edward Burns (http://thegoodsoupguide.co.uk)
Design copertina: Daniele Di Stefano
Questo libro è un’opera di fantasia. Anche se alcuni posti esistono, personaggi e
luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla
narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è
assolutamente casuale.
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Il destino
mescola le carte
e noi giochiamo
Arthur Schopenhauer
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CAPITOLO UNO
La cartomante
La cartomante tirò fuori dall'ampia borsa uno specchietto e, alla luce del fanale,
se lo puntò verso il viso ormai sfiorito, per darsi un'ultima ritoccatina prima di
iniziare una lunga serata di lavoro. Era una di quelle donne dall'età indefinibile. A
occhio, ammesso che in quella penombra si potessero distinguere bene i tratti di
una persona, poteva avere tra i sessanta e i settant'anni, e non troppo tempo prima
doveva essere stata una bella donna. I capelli, ondulati e un po' troppo corvini per
essere naturali, circondavano un viso lungo e regolare con il naso appena
pronunciato e la bocca forse un po' rugosa, ma ben disegnata. Gli occhi, che
tradivano una vita dalle molteplici esperienze, erano inclinati verso il basso e
apparivano di un castano intenso, circondati da un'aureola d'ombretto azzurro
lucente, quasi metallico.
Quanto vide nello specchietto sembrò comunque soddisfarla e, rabbuffandosi con
la mano destra un ricciolo ribelle, ripose l'oggetto nella borsa e tirò fuori le carte.
Quella sera via Campo dei Fiori non era ancora affollata. Di solito, ai primi d'agosto, i
milanesi rimasti in città riempiono le strade e quell'anno non faceva eccezione. Del
resto la crisi economica aveva scoraggiato molte famiglie a intraprendere la
tradizionale avventura delle ferie nel paese natio, e comunque nessun milanese
d'agosto ha voglia di passare le serate chiuso in casa davanti a un televisore. Molti,
forse i più, preferiscono fare un giro sui navigli dove, a parte la guerra con le
zanzare, c'è sempre la possibilità di incontrare qualche amico e bersi una birra
insieme. Oppure, e non sono pochi, c'è qualcuno che va a farsi una passeggiata a
Campo dei Fiori per respirare l'aria della città antica e farsi leggere le carte.
Con un gesto istintivo, la cartomante alzò la testa e si guardò in giro, quasi per
rassicurarsi di non essere sola sulla strada; anche le altre infatti stavano preparando
i banchetti e nessuna di loro sembrava accorgersi di lei. Allora si alzò, dispose i due
seggiolini di fronte al tavolino e si riaccomodò, pronta a ricevere gli eventuali clienti.
Dall'inizio della strada era la terza e, a suo modo di vedere, la posizione era buona;
infatti raramente i nuovi clienti si fermano alla prima della fila. Di solito gli indecisi si
guardano un po' intorno e, camminando, si siedono lungo la strada attratti da
qualcosa che nemmeno la stessa cartomante saprebbe descrivere. Non c'è dubbio,
però, che a vincere è sempre la più rassicurante, sicché finisce che c'è la cartomante
dove si deve sempre fare la fila e alcune non battono chiodo.
Verso le dieci, mentre cercava di completare l'ennesimo solitario, la cartomante
notò con la coda dell'occhio una coppia che si stava avvicinando al suo banchetto.
Lui poteva avere trentacinque anni, altezza leggermente superiore alla media,
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capelli corti biondo scuri e viso regolare; indossava una camicia celeste su un paio di
pantaloni color canapa. Lei, capelli castani lunghi e un corpo armonioso, portava una
camicetta giallo oro su un paio di jeans scoloriti. Il viso, dall'ovale perfetto,
denunciava appena un'ombra di trucco e il labbro inferiore era più accentuato del
superiore, rendendo l'insieme ancora più attraente. Era veramente carina e lo
teneva a braccetto rafforzando la presa con la mano sinistra, quasi a voler
sottolineare che quell'uomo era roba sua. Con i tacchi, era di tre o quattro
centimetri più bassa di lui. Sembravano una bella coppia, anche se a parlare era solo
lei; lui l'ascoltava ma guardava davanti a sé, quasi distrattamente. Quando
arrivarono all'altezza della cartomante, lei sentì i loro discorsi.
"Avanti, fatti leggere le carte. Non fare il solito musone...", insisteva la donna.
"Tanto lo sai che non ci credo, perdiamo soltanto tempo...", cercava di reagire
l'uomo.
"Non è vero, quel tuo maledetto razionalismo ti impedisce di vedere certe verità
che non conosci. E poi le carte indovinano: con me hanno sempre funzionato".
"Sarà, ma per me restano una cazzata...".
"Allora, se secondo te è tutta fantasia, che cosa ti costa provare? Tanto pago
io...".
"Molto gentile da parte tua, ma è comunque una perdita di tempo".
"Di tempo ne abbiamo questa sera. Dai, perché non mi accontenti?".
La ragazza, pensò la cartomante, sapeva usare le sue armi. E infatti, piegato da
quello sguardo implorante, alla fine l'uomo capitolò.
"Va bene, sia come vuoi. Dove ci fermiamo?".
"Qui, vieni qui". Lo guidò la ragazza. E si ritrovarono seduti di fronte alla
cartomante che li squadrò. L'uomo aveva gli occhi molto chiari, di un celeste quasi
ceruleo, e i tratti del viso, per quanto leggermente spigolosi, denunciavano un
carattere schietto e corretto. Lei, invece, aveva occhi tra il verde e il marrone, che
con una punta di civetteria definiva verde bosco. A un estraneo non sfuggiva
l'espressione maliziosa dipinta sul viso, così come si vedeva che era ben cosciente di
quanto fosse bella e dell'ascendente che aveva su di lui.
"Cosa posso fare per voi?", chiese la cartomante guardando prima l'una e poi
l'altro.
"Il mio fidanzato è in un momento particolare della sua carriera e vorrebbe sapere
che cosa gli riserva il futuro", rispose la donna facendo un sorriso complice alla
cartomante.
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"Capisco. Quindi lei si aspetta qualche cambiamento a breve. Non è così?", chiese
la cartomante all'uomo.
Lui, che sembrava più imbarazzato che divertito, fece cenno di sì con il capo. "In
effetti - disse - potrei essere a un punto importante". Ma non aggiunse altro. Del
resto che cosa avrebbe mai dovuto spiegare a quella zingara? Doveva dirle che era
un avvocato, che lo studio per il quale lavorava da quasi dieci anni stava per aprire
un nuovo settore del quale, a quanto si diceva in giro, sarebbe potuto essere proprio
lui il responsabile? Che cosa poteva importare di tutto questo a quella donna che si
guadagnava da vivere facendo le carte al prossimo? E, soprattutto, che cosa ci
faceva lui seduto come un cretino davanti al banchetto di una cartomante? Il primo
impulso sarebbe stato quello di alzarsi e andarsene. Ma ormai non poteva e tanto
valeva stare al gioco.
La cartomante lo guardò dritto negli occhi e non disse niente, anche se lui ebbe
l'impressione che avesse capito il suo stato d'animo. Poi prese le carte, le mischiò e
delicatamente, una per una, le posò coperte sulla stuoia verde che copriva il
tavolino. La prima la collocò alla sua sinistra, la seconda alla destra, la terza in alto e
la quarta in basso. L'ultima. La quinta, la pose al centro. Aveva disegnato una croce.
Poi, sempre con molta calma, sapientemente cominciò a girarle nello stesso ordine
in cui le aveva posate. Apparve una donna con la testa coronata e una spada nella
mano destra.
"La giustizia...Lei è un uomo di legge, vero? Magistrato o avvocato...".
L'uomo cambiò espressione e la guardò con più attenzione, passando in una
frazione di secondo dalla noia alla perplessità.
"Sì - disse piano - sono un avvocato..."
"Lei è un uomo molto equilibrato, ama il discernimento e la logica. La disturba ciò
che non rientra nel suo ordine mentale...".
E sollevò la seconda carta, quella a destra. "Il diavolo. Appunto. Ho paura che il
suo prossimo futuro non sarà come lei se lo aspetta. Non almeno come lei lo ha
progettato. Sta per succedere qualcosa di inatteso e di traumatico nella sua vita, un
grosso capovolgimento che le farà perdere molte delle sue certezze. Per lei sta per
aprirsi una porta sul disordine. Vivrà passioni che non pensava potessero
coinvolgerla".
E la mano destra girò la terza carta, in alto. "Ma ecco l'Imperatore. Nonostante le
difficoltà cui lei andrà incontro, la sua volontà e il suo intelletto riusciranno a
portarla fuori dai guai. Il suo cammino sarà rischiarato da una luce superiore. Forse
incontrerà qualcuno che le darà una mano a trovare la via giusta. Sì, penso che sia
così".
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E girò la quarta carta, quella in basso. La guardò, poi sollevò lo sguardo e lo fissò
per un lungo momento, occhi negli occhi, prima di parlare. "Queste sono le stelle, le
vede? Ciò significa che lei è una di quelle rare persone che vengono al mondo con un
compito e un destino ben definiti. Lei è un predestinato, caro signore. Per cui tutti i
problemi che avrà, tutte le prove che dovrà superare, saranno semplicemente lo
scotto che lei dovrà pagare alla sorte per ottenere il risultato finale".
Lui la guardò con una punta di ironia. "Quello che mi sta annunciando è
affascinante, ma il mio lavoro è fatto di tanta routine, mi creda. E comunque non
credo di essere tanto ambizioso da essere disposto a pagare chissà quale prezzo alla
fortuna. I miei sono desideri molto più a portata di mano...".
"Questo non sarà lei a stabilirlo. Il destino non chiede permesso quando viene a
bussare alla nostra porta. E le carte dicono che, nel suo caso, il momento si sta
avvicinando".
E sollevò l'ultima carta, la quinta, quella nel mezzo della croce. "La ruota della
fortuna. Non sarò quindi io a dirle che piega prenderà il suo destino. Tutto sta nelle
sue mani, nella sua fede. In ciò che lei sarà capace di fare per dare un nuovo ordine
alla sua vita dopo che il vecchio sarà stato distrutto dagli eventi. Le carte le possono
soltanto dare un'indicazione. Niente di più. Ha qualche domanda?".
L'uomo fece segno di no col capo e si alzò. La donna, che fino a quel momento
non aveva aperto bocca, mise una banconota da dieci euro sul piattino accanto alla
cartomante e la salutò ringraziandola. Sul volto dell'uomo c'era ancora l'ironia di
prima.
"Signore - disse la cartomante rivolgendosi verso di lui - mi scusi se mi permetto,
ma lei si ricrederà. Capisco il suo scetticismo, ma molte volte ci sono aspetti
dell'esistenza che non si conoscono. Le carte, spesso, aprono una finestra su questa
realtà. Ci rifletta sopra...".
"Senz'altro", rispose lui ancora meno convinto. E dopo averle augurato una buona
serata, mise la sua mano sotto il braccio della compagna e si allontanò con lei nella
notte.
La cartomante li guardò camminare finché non sparirono alla sua vista. "Vedrai,
bello mio, vedrai - sussurrò quasi con un ghigno, parlando a se stessa - Le carte non
sbagliano mai...".
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L'indomani Giulio Raimondi si svegliò col cuore in gola. Di solito dormiva bene e
senza problemi, ma quella notte aveva avuto un incubo che l'aveva svegliato quasi
alle quattro del mattino. Nel sogno si vedeva correre disperato nelle buie strade di
una città sconosciuta, senza sapere chi lo inseguisse. Correva e basta. Ogni tanto si
fermava davanti a un portone, cercava di aprirlo ma quello era inesorabilmente
chiuso. Allora batteva i pugni contro lo stipite, urlava affinché qualcuno lo aiutasse,
che qualcuno aprisse, ma nessuno rispondeva. Però la presenza, quella misteriosa
presenza, si avvicinava sempre di più. E lui riprendeva a correre, sempre più
terrorizzato e sempre più impotente contro il pericolo che lo perseguitava. Finché,
giunto ormai senza fiato davanti all'ennesimo portone, privo di forze e rassegnato al
peggio, una mano misteriosa apriva l'uscio al quale bussava. La porta si apriva
lentamente, cigolando, su un androne buio e minaccioso. Lui faceva appello alle sue
ultime energie per varcarne la soglia, ma proprio mentre stava entrando, una
signora interamente vestita con un lungo abito nero di foggia ottocentesca, con un
velo sul viso, si affacciava dall'oscurità. "Te l'avevo detto - gli diceva con voce
profonda, quasi spettrale - non puoi sfuggire al tuo destino...". Lui, ormai al culmine
del terrore, allora allungava una mano e le strappava bruscamente il velo dal viso.
Gli occhi della cartomante lo guardavano fissi e severi, brillando nel buio. L'urlo gli
restò in gola. E si tirò su dal letto di scatto, agitato e coperto da un sudore freddo e
fastidioso. Non riuscì più a riaddormentarsi.
Nella penombra della camera da letto, quando finalmente si calmò, cercò di
mettere un po' d'ordine nei suoi pensieri, riflettendo su quello strano incubo. In
effetti la cartomante della sera prima lo aveva infastidito. Riprendendo la strada,
aveva avuto una piccola discussione con Roberta circa la veridicità di quella strana
profezia a Campo dei Fiori e continuava a ripeterle che quei dieci euro sarebbero
stati meglio spesi in due grandi e squisiti gelati. Lei, però, non accettava la sua
chiusura mentale verso il paranormale. E insisteva col dire che le carte, quando sono
fatte dalle mani giuste, possono davvero aprire una finestra sul destino: avrebbe
fatto bene a non prendere troppo sottogamba certe cose e tanto meno quella
cartomante. Quando l'aveva lasciata sotto casa, in corso Sempione, ognuno era
ancora della propria idea. Poi, la notte, aveva avuto quell'incubo.
Quando uscì di casa, vestito con un completo di lino color carta zucchero, cravatta
Missoni su camicia celeste e mocassini marroni, era pronto ad affrontare gli ultimi
tre giorni dell'ultima settimana prima delle ferie estive. Il cielo era di un azzurro
intenso e il sole illuminava equamente uomini e cose. Alle nove del mattino via Sarpi
era vivace come non mai. Pochi i negozi che avevano già abbassato le serrande per
le vacanze. Giulio si fermò davanti a un'edicola per leggere i titoli dei quotidiani
esposti, poi proseguì verso il fondo. Raggiunse l'emporio cinese all'angolo e si
incamminò verso la fermata del tram per aspettare il 12. Lo studio legale Filangeri &
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Nansen, uno dei più noti della Lombardia, aveva sede a piazzale Cordusio, a due
passi dal duomo. L'avvocato Raimondi era solito scendere all'ultima fermata di via
Brera, si fermava al bar dell'angolo a prendere cappuccino e cornetto, con un
bicchiere d'acqua finale, e poi si avviava verso l'ufficio zigzagando tra le macchine.
Antonella, la segretaria, lo accolse con un rispettoso "Buongiorno". Quella
ragazza, pensò Giulio passandole accanto, doveva avere qualche problema. Da che
la conosceva, e ormai erano quasi due anni, non l'aveva mai vista sorridere.
Nascosta dietro i suoi occhialini rettangolari, i capelli bruni a caschetto e il cipiglio
professionale stampato sul viso, sembrava molto più anziana dei suoi 28 anni.
Eppure sarebbe stata anche carina se solo fosse sembrata un po' più umana. Aveva
anche una bella presenza. Comunque, rifletteva Giulio quella mattina, non erano
affari suoi. Contenta lei...
"Avvocato Raimondi, c'è l'avvocato Filangeri che vorrebbe vederla". Quando gli
rivolse la parola Giulio era ancora immerso sulle sue considerazioni estetiche su
Antonella. La guardò quindi un po' svagato e le rispose automaticamente. "Vuole
vedermi? Sa per quale ragione?".
"No, non me l'ha detto. Mi ha chiesto soltanto di dirle che vorrebbe vederla prima
possibile".
"Ricevuto, grazie. Quando il capo vuole vedermi con urgenza significa che c'è
qualcosa di importante che bolle in pentola. Non le pare?".
"Non saprei", rispose lei con la sua solita freddezza.
Lui le lanciò un'altra occhiata. "Ragazza mia, sei calda come un ghiacciolo
d'inverno", pensò in cuor suo. Ma dalla sua bocca uscì soltanto un malinconico
"Già".
E si avviò verso la porta di quercia scolpita che faceva accedere ai locali del mega
ufficio del più anziano titolare dello studio.
Fabrizio Filangeri, 68 anni di ricca borghesia lombarda portati senza acciacchi e
senza ostentazioni, era quello che si dice un gentiluomo d'altri tempi. Molto alto,
stempiato, fin troppo magro, rigorosamente vestito di grigio con cravatta scura,
conosceva da quasi quarant'anni i segreti e i peccati di un cospicuo numero di
imprenditori che, grazie al suo aiuto, se l'erano cavata in centinaia di situazioni
decisamente difficili. Lo studio era specializzato in diritto internazionale, ma in
pratica curava globalmente gli interessi delle aziende che a lui si affidavano. I suoi
avvocati erano divisi in squadre specializzate in ogni ramo del diritto e della finanza.
Chi ha Filangeri dietro le spalle, si diceva a Milano, sa di essere dentro una botte di
ferro. Fabrizio Filangeri era dunque uno di quegli uomini potenti e discreti che non
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appaiono mai sui giornali, ma che proprio per questo rappresentano al meglio il
nerbo della borghesia che conta.
Il discreto bussare alla porta lo colse mentre stava sfogliando il Sole 24 Ore, uno
dei sei quotidiani che leggeva ogni mattina che Dio manda in terra.
"Avanti...", disse senza neppure alzare lo sguardo.
"Buongiorno, avvocato. Ho sentito che voleva vedermi", disse Giulio affacciandosi
dalla porta.
"Buongiorno a lei, Raimondi. Venga, si accomodi. In effetti ho da dirle qualcosa". E
con la mano destra gli fece segno di sedersi davanti all'imponente scrivania.
Giulio si sedette, accavallò le gambe e restò in attesa. Filangeri avvertì
l'imbarazzo. "Mi scusi se la faccio aspettare, ma sto finendo di leggere un articolo
sulla borsa che mi interessa parecchio. Un secondo e sono da lei".
Passarono circa due minuti, poi Filangeri tirò su la testa, chiuse in quattro il
giornale e lo ripose insieme agli altri sulla mazzetta alla sua destra.
"Le cose non stanno andando bene. La borsa è troppo ballerina e c'è gente, tra cui
il sottoscritto, che ci hanno rimesso dei bei soldi anche puntando su titoli di tutto
rispetto. Mah, vedremo come andrà a finire. Comunque non l'ho fatta chiamare per
parlarle del mercato azionario. Ho una novità per lei. Si ricorda del commendator
Parodi, quell'armatore genovese per il quale lei quattro anni fa ha sbrigato quella
pratica d'importazione dall'Argentina?".
"Sì, certo. Ho lavorato per quasi sei mesi dietro a quella storia. Quando l'abbiamo
presa in mano sembrava un disastro certo, poi le cose si sono messe bene e siamo
riusciti a salvaguardare gli interessi della compagnia armatrice. A dire il vero ho
avuto anche un po' di fortuna, all'inizio mi sembrava un caso disperato. Ricordo che
Parodi mi telefonò personalmente per ringraziarmi...".
"Appunto. Come lei ben sa, Parodi è un mio vecchio amico. Non ci lega dunque
solo un legame d'affari. Tra l'altro subito dopo la questione argentina lui venne
colpito da una terribile disgrazia. Se ne ricorderà certamente: la moglie e la figlia,
l'unica figlia, gli morirono in un incidente stradale. E' uno di quei drammi da cui non
ci si può riprendere. E infatti Parodi non è più quell'uomo energico e volitivo che io
avevo conosciuto. Per quanto potevo, ho cercato di stargli vicino, l'ho invitato anche
a passare qualche giorno con la mia famiglia, tanto perché non si sentisse troppo
solo. Ma non c'è stato nulla da fare. E' diventato ombroso, sempre più chiuso in se
stesso, e non vuole vedere nessuno. Lavora e basta, non so se mi capisce".
Giulio fece segno di sì col capo. Anche lui era rimasto colpito dalla disgrazia di
Parodi. Si ricordava anche della considerazione che aveva fatto quando aveva
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saputo dell'incidente, e cioè che tutti i suoi milioni non lo avevano protetto da quel
destino infame. E gli fece avere le sue condoglianze.
"Non le nascondo dunque la mia sorpresa quando ieri mi ha chiamato
chiedendomi un favore che io, come può ben capire, non ho potuto rifiutargli".
Giulio non perdeva una parola, ma continuava a non capire. Così come non
comprendeva quell'improvvisa pausa nel racconto e l'espressione di Filangeri che lo
fissava con insistenza.
"E di che cosa si tratta, se posso domandaglielo", gli disse tanto per rispondere
allo sguardo.
"Si tratta di lei, mio caro Raimondi. Parodi mi ha chiesto di metterla a sua
disposizione per risolvere una vicenda che gli sta particolarmente a cuore. Mi ha
detto che lei gli aveva fatto un'ottima impressione, che è un giovane molto sveglio e
altre cose che non le sto a ripetere per non farle montare la testa. Insomma, vuole
che sia proprio lei, e nessun altro, a occuparsi della sua questione. Sono stato
abbastanza chiaro?".
"Chiarissimo, non ne dubiti. E sono lusingato della fiducia che il commendator
Parodi mi accorda. Ma potrei sapere qualcosa di più su questa pratica? Dopotutto
sto per andare in ferie e lei sa bene che al mio ritorno ho due o tre cose che
assorbiranno tutto il mio tempo. Non capisco quindi che ordine di priorità devo dare
al caso del commendator Parodi".
"Priorità assoluta, amico mio. E anche per quanto riguarda le sue ferie, mi duole
dirle che per il momento le deve accantonare. So che le sto chiedendo un sacrificio,
ma la sua presenza è richiesta con urgenza a Genova. Diciamo tra un paio d'ore,
minuto più minuto meno. Per quanto riguarda invece i dettagli, glieli dirà
direttamente Parodi che la sta già aspettando. Le auguro buon viaggio".
E senza più degnarlo di uno sguardo, allungò la mano verso la mazzetta dei
giornali e aprì il “Corriere della Sera”. Il colloquio era finito.
Raimondi sapeva per esperienza che ogni tentativo di saperne di più sarebbe
stato inutile. Per cui si alzò, salutò e si chiuse la porta alle spalle.
Passando vicino ad Antonella si fermò. "Ascolti, rimandi tutti gli appuntamenti che
ho per oggi. Purtroppo devo andare immediatamente fuori Milano".
"Lo so, ho già provveduto. Le auguro buon viaggio".
"Questo significa che lei sa già dove sto andando?".
"A Genova, dove deve incontrare il commendator Parodi verso mezzogiorno. Mi è
stato comunicato e ho quindi provveduto a rinviare i suoi appuntamenti".
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"Brava. Ma prima, quando le ho chiesto se sapesse che cosa voleva l'avvocato
Filangeri, mi ha risposto di no".
"Così mi è stato detto di comportarmi".
"Lei è unica, lo sa?".
La ragazza non rispose e abbassò gli occhi. Lui le passò accanto e si diresse verso
l'uscita. Mentre la porta si chiudeva gli giunse un "Arrivederci, avvocato". L'avrebbe
strozzata.
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L'autostrada Milano-Genova è dritta come un fuso ad eccezione della parte
appenninica da Serravalle a Genova, un via vai di tornanti a due sole corsie che
hanno fatto conferire a questo vecchio percorso camionale il titolo di autostrada più
pericolosa d'Italia. A bordo della sua Saab 9.3 Raimondi rifletteva su quello strano
appuntamento. Aveva inserito l'aria condizionata e il parabrezza continuava a essere
macchiato dagli insetti che esplodevano contro il vetro. Che cosa poteva volere il
vecchio Parodi da lui? Tanto per cominciare, era strano anche il modo in cui aveva
richiesto i suoi servigi. Se aveva bisogno di lui, poteva chiamarlo direttamente e
spiegargli il perché. E' vero che Parodi e Filangeri sono amici, ma in condizioni
normali sarebbe toccato a lui chiedere al suo capo il permesso di andare a Genova
per la richiesta di Parodi. Invece era stato proprio l'armatore a chiedere a Filangeri il
permesso di poter contare su di lui. Perché? Più ci pensava e meno ci capiva. E
mancò poco che strisciasse contro il guard rail in una curva un po' più stretta delle
altre. Allora decelerò, mise la quarta e si avviò a velocità più ragionevole verso il
capoluogo ligure.
Uscito al casello di Genova Ovest, Raimondi proseguì verso la sopraelevata che
corre lungo il porto. L'impatto con il mare e con le navi all'ormeggio gli risollevò il
morale. Del resto la giornata era molto soleggiata e l'azzurro del cielo si rifletteva
sulle calme acque del porto, rendendo l'insieme un quadro da cartolina. Giunto allo
svincolo di Piccapietra deviò a destra, passò nel tunnel e si diresse verso il
parcheggio adiacente il teatro Carlo Felice. Non poteva dirsi un gran conoscitore di
Genova, ma quel percorso ormai lo sapeva a memoria.
La città era decisamente più affollata di Milano. Gente in giro se ne vedeva molta
e il caldo era soffocante. Non c'era un alito di vento. Giulio si diresse quindi verso via
Garibaldi scendendo lentamente verso piazza Fontane Marose, nel cuore della città
antica. Il palazzo dove si trovava la sede della compagnia armatrice Parodi era un
edificio patrizio del Seicento, con un ampio e austero cortile che dava su quella che
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una volta era chiamata la Via Aurea, poi ribattezzata in onore dell'Eroe dei due
mondi. Al centro c'era una fontana non funzionante, da cui partivano due opposte
rampe di scale. Ampi gradini d'ardesia, consumati dal tempo, portavano ai lussuosi e
grandi appartamenti dei piani superiori. Tutta la parte destra del palazzo
apparteneva alla International Freight Sea Lines, la compagnia armatoriale di Parodi.
La direzione era al primo piano e lo occupava interamente. La signorina alla
reception si fece dire il suo nome e lo accompagnò in un'ampia sala d'attesa, dove si
trovava un enorme tavolo rettangolare di legno massiccio, circondato da poltroncine
rivestite di velluto rosso. In fondo, a destra, c'era un'antica libreria dello stesso stile
contenente, chiusi a chiave, libri che a prima vista non sembravano avere meno di
un secolo. Apparentemente non c'era aria condizionata, ma in qualche modo i locali
sembravano avere una certa frescura. L'attesa di Giulio non durò molto. Dopo circa
dieci minuti la stessa signorina di prima aprì la porta e gli si rivolse con un sorriso. "Il
commendator Parodi l'aspetta: se vuole seguirmi...". Giulio si alzò e le andò dietro.
Mentre la seguiva si strinse il nodo della cravatta che prima aveva allentato.
Gerolamo Parodi, uno dei più noti armatori italiani e una vera potenza nella sua
Genova, era seduto su una poltrona di pelle nera dietro l’ampia scrivania stile fratino
dove si notava solo lo stretto essenziale: un paralume d'ottone, una cartella da
scrittoio e un'agenda chiusa, col segnalibro rosso penzolante nel vuoto. A occhio egli
poteva avere intorno agli 80 anni, era alto e corpulento, con folti capelli bianchi
pettinati all'indietro che gli lasciavano la fronte scoperta. Il naso era prominente, il
viso spigoloso e massiccio; gli occhi, leggermente incavati, erano tristi e circondati
da un'aureola scura. Era interamente vestito di nero e anche la cravatta, a quanto si
poteva vedere a causa della scarsa luce, era scura anch'essa. Solo qualche raggio
riusciva a filtrare, clandestino, dalle tende chiuse.
Giulio si fece avanti e andò verso di lui tendendogli la mano, che egli strinse
ancora con energia.
"Grazie di essere qui, avvocato. Mi scusi se non le sono venuto incontro, ma i miei
problemi di artrite mi impediscono di alzarmi e camminare come una volta. La prego
anche di voler scusare questa penombra, ma i miei occhi non resistono più alla luce
del sole. Sono solo un povero vecchio, ormai".
"Non si preoccupi, ci vedo benissimo", rispose Giulio con cortesia.
"Lei si domanderà come mai l'ho fatta chiamare con tanta urgenza. E come mai il
mio amico Filangeri l'ha messa a mia disposizione...".
"In effetti è così. Anche perché stavo per partire per le ferie. Ma presumo che se
lei ha ritenuto di dovermi chiamare con tanta urgenza, ci sia una ragione
importante. Sono qui per questo".
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"La ringrazio della sua disponibilità. Sì, c'è una ragione molto importante. E direi
anche molto urgente. Fin troppo. Ho davvero bisogno che lei faccia qualcosa per me,
ho bisogno che in questo incarico lei ci metta tutta la sua intelligenza e competenza
e che lo porti a termine in tempi, diciamo così, piuttosto brevi. Se la sente?".
"Da quando lavoro nello studio Filangeri ho sempre sentito dire che l'impossibile,
in senso assoluto, non esiste. C'è una soluzione per tutto. Il più è pensarci e trovarla.
Onestamente non so se sono all'altezza di tanta bravura, ma posso provarci...".
"E tanto mi basta. L'ho vista lavorare e so di che cosa è capace. L'unico problema
è che quanto sto per chiederle non è esattamente un problema legale. Ho paura che
per risolvere la questione lei dovrà metterci anche un po' di fantasia. Mi capirà
meglio quando le spiegherò di che cosa si tratta".
"L'ascolto".
"Quanto sto per dirle è ovviamente strettamente riservato e non deve uscire da
questa stanza per nessuna ragione. Quando dico riservato intendo dire che neanche
il mio caro amico Filangeri deve venirne a conoscenza. Per nessuna ragione. Mi ha
capito?".
"Perfettamente. Non le nascondo che è un po' insolito che io non possa parlare
con il responsabile del mio studio di un caso di cui mi sto occupando; ma se così
vuole, così sarà".
"Benissimo, sapevo che potevo fidarmi di lei. E adesso mi ascolti con attenzione.
Prima di tutto sappia che il mio vero nome non è Gerolamo Parodi. Per dirla tutta, io
non so quale sia il mio vero nome. E' una storia antica quella che sto per raccontarle,
una storia che inizia più di ottanta anni fa in chissà quale paese della Sicilia. Era il
1922 quando un uomo poco più che trentenne lasciò l'isola con un bambino di circa
due anni e raggiunse Genova via mare. Quell'uomo fuggiva, anche se non so da chi e
perché. E fuggendo si era portato dietro il figlio. Una volta a Genova quell'uomo si
rivolse ad un vecchio amico che lo ospitò e al quale confidò tutto. Dio solo sa che
cosa gli disse; l'unica cosa certa è che lo pregò di tenergli il bambino perché lui
doveva fuggire, lasciare l'Italia e cercare rifugio in un Paese dove avrebbe potuto
rifarsi un'esistenza, cancellando definitivamente la vecchia. E così fece. Da quanto
ne so, l'uomo si imbarcò su uno dei vapori che a quel tempo partivano dal porto di
Genova per le Americhe e raggiunse gli Stati Uniti. Da New York inviò una cartolina
all'amico genovese, dicendo che il viaggio era andato bene e che a quel punto
avrebbe iniziato la sua nuova vita. Fu il primo e unico messaggio che l'amico
ricevette da lui. Dopodiché l'uomo scomparve per sempre. Comincia a capire?".
Giulio fece lentamente di sì col capo. E mentre lo guardava, notò la vecchia
cartolina ingiallita che Parodi si rigirava tra le mani, ammirandola di tanto in tanto
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come se fosse una reliquia. Da quello che poteva vedere, l'illustrazione sembrava
raffigurare un monumento, quello di una donna con un braccio alzato: la statua
della libertà.
"Quel bambino - riprese l'anziano armatore - crebbe in casa degli amici genovesi
di quell'uomo. Non avevano figli e, essendo una famiglia abbiente, riuscirono ad
adottarlo legalmente, sostenendo che il piccolo era stato abbandonato davanti alla
porta della loro casa. Poi la vita prese il suo corso. Il bambino si adattò presto ai suoi
nuovi genitori, anche perché lo riempirono davvero d'amore. Della famiglia
d'origine, di quel padre che lo aveva strappato alla madre e condotto con sé su una
nave per abbandonarlo poi in casa di amici, non gli restò che qualche fuggevole
ombra che il tempo ha reso sempre più evanescente. Diventò davvero il figlio di
quella famiglia che lo aveva accolto. Frequentò le scuole migliori della città, prese
una laurea in Ingegneria navale, si sposò, anche se in tarda età, ereditò una delle più
grandi compagnie armatrici italiane e alla fine, quando gli sembrava di avere ormai il
mondo in mano, un terribile incidente gli portò via in un colpo solo le due persone
che più amava nella vita: sua moglie e sua figlia. Questo accadeva tre anni, quattro
mesi e dodici giorni fa...".
Parodi abbassò la testa e stette per un lungo attimo in silenzio. Poi la tirò su di
scatto, si ricompose sulla sedia e portò entrambe le mani sui braccioli finemente
intagliati. Era di nuovo l'armatore.
"Quel bambino, come ha capito, ero io. I miei non mi dissero mai che ero stato
adottato. Tra l'altro, per uno di quegli strani scherzi del destino che ogni tanto
avvengono, io somigliavo davvero al mio padre adottivo e a nessuno sarebbe mai
venuto in mente di dire che non ero suo figlio. E quando morì non mi disse
assolutamente niente. Poi, anni dopo, sul letto di morte, mia madre mi rivelò infine
la verità e mi diede questa cartolina. Erano le sue ultime parole, eppure non mi volle
dire il nome di quell'uomo. Disse che lui aveva fatto giurare loro che il bambino non
avrebbe mai dovuto sapere che cosa era accaduto. E lei, morendo, mi disse
semplicemente che non poteva venir meno alla promessa fatta, ma che doveva
dirmi la verità sulle mie origini perché non poteva presentarsi davanti al Signore con
quel peso nell'animo. E morì senza aver detto il nome del mio vero padre. Tutto
quello che so di lui è dunque in questa cartolina, la cartolina di uno strano emigrante
che dice che il viaggio è andato bene, sta per cominciare la sua nuova vita negli Stati
Uniti e si firma Nino. Capisce che cosa voglio dire? So soltanto che il mio vero padre
si chiamava Nino. Un po' poco, non le pare?".
"Già, decisamente un po' poco. Ma mi perdoni, commendatore, io non ho ancora
capito che cosa posso fare per lei a questo punto...".
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"Adesso ci arrivo, non si preoccupi. Il mio problema è il fegato: ogni giorno che
passa è sempre più divorato da un famelico cancro. Non è più operabile e, secondo i
medici, ne avrò al massimo per tre o quattro mesi. Sei se sono fortunato. Lei
conosce benissimo lo stato finanziario della mia società e io adesso mi pongo un
grosso interrogativo: a chi dovrei lasciarla? Ho ancora in vita lontani parenti di mia
madre che, in caso del mio decesso, si ritroverebbero ad ereditare tutto senza
neppure saperlo. Per il resto non ho altri eredi, anche perché mia figlia è morta
prima di farmi diventare nonno. Allora, pensandoci e ripensandoci, alla fine sono
giunto alla conclusione che l'unica cosa che mi resta da fare è trovare i miei veri
parenti. Ritrovare le tracce di mio padre, seguirle e vedere se lui ha lasciato
qualcuno nelle cui vene scorre il mio stesso sangue. Lo prenda come l'attacco di
romanticismo di un vecchio pazzo, se crede. Ma io voglio così: voglio sapere chi
erano mio padre e mia madre, voglio sapere se avevo dei fratelli, che cosa accadde e
perché mio padre fuggì portandomi con sé . Era ovvio che la sua fuga sarebbe stata
molto più agevole senza un bambino così piccolo da accudire. Eppure lui lo fece:
perché?".
Giulio, che fino a quel momento non si era perso una parola, sentì un lungo
brivido di freddo scorrergli lungo la schiena.
"Scusi, commendatore, ma io cosa c'entro in tutto questo? Intendo dire: come
può un avvocato aiutarla in questa circostanza?".
"E' semplicissimo, caro Raimondi: lei farà quella ricerca per me. Lei, con il suo
ingegno, ritroverà senza dubbio i miei parenti e mi restituirà la mia vera identità.
Non ne faccio una questione di soldi, anche perché là dove devo andare non mi
serviranno: pagherò tutte le spese e lei stesso riceverà un compenso di cui non
potrà davvero lamentarsi".
"Io la ringrazio, ma mi chiedo che cosa ne dirà l'avvocato Filangeri. Una ricerca di
questo genere è pazzesca: tutto quello che abbiamo in mano è una cartolina
illustrata di ottant'anni fa, proveniente da New York con la firma di un certo Nino.
Trovare un ago in un pagliaio sarebbe più semplice. Non saprei da dove cominciare.
Davvero...".
"E io, invece, sono sicuro che lei se la caverà benissimo. Lei conosce le lingue, ha
pratica di affari internazionali e sa come sbrigarsela anche in ambienti estranei al
suo. Lei è l'uomo giusto, mi creda. E comunque io ho fiducia in lei. Piuttosto le devo
dire un'altra cosa: ritengo opportuno che lei scambi due chiacchiere con una
professoressa della nostra Università, qui a Genova, che da anni si occupa dei
problemi relativi all'emigrazione. E' una vera esperta, lo vedrà. Lei potrà darle
qualche utile consiglio circa questa cartolina, cioè l'unico indizio fino ad oggi in
nostro possesso. La mia segretaria le darà tutte le indicazioni per rintracciarla.
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Abbiamo già fissato un appuntamento per lei questo stesso pomeriggio. Non mi
resta dunque che augurarle buona ricerca e buon viaggio. Si ricordi che non ho
molto tempo a disposizione, deve fare in fretta".
E si alzò, allungandogli la mano. Era il commiato. Giulio era senza parole. Gli
strinse la mano quasi meccanicamente, tornò sui suoi passi e raggiunse la porta.
Mentre la apriva si sentì chiamare. "Avvocato, si ricordi: non ho molto tempo...".
Giulio fece cenno di sì con il capo, salutò ancora e si chiuse la porta alle spalle.
Mentre scendeva gli antichi gradini d'ardesia, si domandava in quale razza di guaio
l'avessero cacciato.
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Seguendo un'antica quanto rispettata abitudine, Giulio si diresse verso un
ristorante dove era sicuro di mangiare secondo le tradizioni gastronomiche del
posto. Lo faceva sempre quando si trovava fuori Milano. Non era uno di quei
viaggiatori che pretendono di mangiare le stesse cose, a prescindere dal posto in cui
si trovano. Amava assaggiare la cucina locale e, possibilmente, accompagnare il cibo
con il vino giusto, tanto meglio se della stessa regione. Perciò, senza nemmeno fare
tanta strada, andò direttamente verso l'antico ristorante Bedin. Erano circa quattro
anni che non ci metteva piede, eppure ebbe la sensazione che tutto fosse rimasto
come prima. Salì dunque la scaletta di legno sulla sinistra e, dietro indicazione del
cameriere, si sedette a uno dei tavoli accanto al muro. A dire il vero, il locale era
mezzo vuoto, avrebbe potuto scegliere più che comodamente dove sedersi. Ma quel
tavolo gli sembrava abbastanza riservato per potersi studiare la cartella che gli aveva
consegnato la segretaria di Parodi. Ordinò dunque un piatto di trenette col pesto e
una bottiglia di Vermentino della Riviera di Ponente, poi aprì la borsa di pelle e tirò
fuori il voluminoso plico. Parodi era stato molto scrupoloso: a parte un promemoria
dove veniva riassunto il racconto che gli aveva fatto, c'erano due fotocopie molto
nitide e ingrandite con il fronte-retro della cartolina di cui gli aveva parlato;
l'indirizzo dell'ufficio dell'Autorità Portuale di Genova dove poteva recarsi a
consultare gli archivi del movimento navi, con il nome e i numeri di telefono della
persona responsabile; la prenotazione di una camera dotata di telefono, stampante
e computer con accesso Internet presso lo Starhotel di Brignole, in pieno centro,
dove poteva soggiornare per tutto il suo periodo a Genova; una carta di creditobancomat emessa a suo nome e con le relative password, senza limiti di spesa, per
quanto gli fosse servito per le sue ricerche; un conto corrente con relativo libretto di
assegni, sempre a suo nome, aperto presso la sede locale della Banca Intesa, un
telefonino palmare quadri-band con abbonamento fisso, un computer portatile
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dell'ultima generazione in grado di collegarsi automaticamente a Internet con
scheda telefonica interna, una macchina fotografica reflex digitale Nikon di ultima
generazione, le istruzioni per redigere un rapporto finale, con relative pezze
d'appoggio, sull'esito delle ricerche stesse e una nota completa delle spese
sostenute. L'incartamento terminava con l'indirizzo e il numero di telefono della
professoressa Annalisa Manieri, la docente della Facoltà di Lettere che avrebbe
dovuto aiutarlo nella ricerca. L'appuntamento era per le 15.
Due le riflessioni che gli vennero subito in mente. La prima è che quel conto
corrente e la carta di credito stavano a significare che il suo coinvolgimento in quelle
strane ricerche era stato deciso da almeno un mese e, ovviamente, con il
beneplacito di Filangeri. Ciò significa che mentre lui pianificava tranquillamente le
ferie, i suoi superiori gli stavano preparando quel bel piattino. Secondo, quanta
collaborazione avrebbe potuto fornirgli quella Manieri? Dicono che chi bene inizia è
a metà dell'opera, ma se quella professoressa non lo avesse aiutato come si deve, la
ricerca si sarebbe insabbiata ancora prima di partire. Comunque non era il caso di
farsi del nervoso anzitempo, meglio prima incontrare quella donna e poi trarne le
conclusioni. Tra l'altro si domandava come avrebbe presentato la vicenda a Roberta,
che ancora non sapeva niente. Avrebbero dovuto incontrarsi quella sera stessa,
sempre che non fossero emersi nuovi problemi. E si versò nel bicchiere a calice un
po' di quel fresco Vermentino che il cameriere gli aveva appena portato con qualche
stuzzichino di focaccia calda. Sapeva che non doveva eccedere con i carboidrati e
quindi si controllava, ma quel giorno aveva già avuto troppe sorprese per stare a
pignoleggiare anche sul mangiare. Per cui addentò la focaccia senza farsi troppi
scrupoli. Mentre ne gustava il sapore, il cameriere gli portò le trenette. Il pesto era
come piaceva a lui: tagliuzzato finemente e non passato al frullatore, come nella
maggior parte dei ristoranti. Insomma, visto che a Genova per un po' ci doveva
lavorare, tanto valeva assaporarne le cose buone. E si portò alla bocca il primo
fumante e gustoso rotolo di trenette.
Verso sera avrebbe chiamato Filangeri per fargli una prima relazione sull'incontro
con Parodi, ma già sapeva che cosa gli avrebbe risposto. Era stato tutto
maledettamente organizzato ai suoi danni: l'unica cosa che ormai poteva fare era
portare a termine l'incarico nel migliore dei modi.
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La sede genovese della Facoltà di Lettere è in via Balbi, un'antica strada patrizia
oggi ridotta ad un budello con le facciate dei palazzi corrose dallo smog. Dieci minuti
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prima delle 15, Giulio Raimondi entrava nella segreteria della Facoltà e chiedeva
della professoressa Manieri.
"La stavamo aspettando", gli rispose l'impiegata. E annunciò la sua visita. Quindi
gli fece strada verso un ufficio in fondo al corridoio.
Quando la porta si aprì, la prima cosa che Giulio vide fu un grande planisfero del
mondo appeso ad una parete. Sotto era seduta una donna che dimostrava poco più
di una quarantina d'anni, con lunghi capelli castani, occhiali ovali cerchiati d'oro e
lineamenti regolari, anche se un po' affilati.
"Buon giorno avvocato Raimondi, lieta di conoscerla", si presentò. La stretta di
mano era forte. Giulio si accomodò nella poltroncina dall'altra parte della scrivania.
"Dunque - disse lei con un sorriso - pare che lei debba lavorare a un caso a dir
poco complicato...".
"Già, e non ho la più pallida idea di dove cominciare. Fino a due ore fa ero un
avvocato milanese in trasferta a Genova per quello che sembrava un lavoro di
routine, ora invece mi ritrovo immerso fino al collo in una caccia al tesoro dagli esiti
quanto mai incerti".
"Non sarà facile trovare quello che il commendator Parodi desidera, ma d'altra
parte non mi pare che lei abbia scelta".
"Quello che mi spaventa, a dire il vero, è che devo muovermi in un ambiente che
non mi è affatto famigliare. Intendo dire che sono abituato ad avere a che fare con
leggi e scartoffie, non certamente con ricerche di questo tipo. E poi, che cosa
abbiamo come punto di partenza? Una cartolina vecchia di ottant'anni firmata da un
certo Nino. Io spero che lei sia più ottimista di me".
"Metto sempre una certa dose d'ottimismo quando inizio un lavoro nuovo. E direi
a maggior ragione in questo caso. In ogni modo, se lei è d'accordo, le propongo di
iniziare subito. Anche perché i tempi sono davvero stretti".
Giulio annuì con un cenno della testa. Guardandola, cominciava a trovarla
interessante. E comunque dava l'impressione di sapere il fatto suo.
"La prima cosa da fare è analizzare l'unico indizio in nostro possesso. Già da
qualche giorno sto esaminando la cartolina e mi sono portata un po' avanti. Se la
guarda bene, vedrà che è stata spedita da New York il 23 dicembre 1922. Se lei
considera il periodo che una nave dell'epoca impiegava per la traversata GenovaNew York e la quarantena, chiamiamola così, a cui gli emigranti dovevano sottoporsi
a Ellis Island prima di avere libero accesso nel territorio americano, direi che il
nostro uomo si è imbarcato nel porto di Genova nei primi giorni di novembre.
Questo delimita già la nostra ricerca, in quanto dobbiamo trovare una nave che è
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partita da qui diciamo entro la prima decade di novembre. Ho fatto anche fare la
perizia calligrafica delle poche righe scritte sulla cartolina ed è venuto fuori che il
signor Nino, per adesso possiamo chiamarlo solo così, è un uomo di istruzione
decisamente superiore, dal carattere piuttosto forte e dall'inclinazione direi
artistica, se con questo termine possiamo definire un soggetto con una buona dose
di creatività e impulsività".
"Lei ha ricavato tutte queste cose da una semplice cartolina?".
"E c'è dell'altro, se solo ci pensa. Dal momento che sappiamo che si chiamava
Antonio o Antonino, da cui Nino, e che doveva per forza avere una professione
borghese, il campo si restringe ancora di più. Una volta che noi abbiamo individuato
la nave, dobbiamo cercare la lista d'imbarco o dell'emigrazione dove, a fianco al
nome, appare spesso anche il mestiere. Il nostro non poteva farsi passare per un
manovale analfabeta e si può giurare che, a prescindere dalla nave, non viaggiasse
certo in terza classe. E allora, se abbiamo un po' di fortuna, la nostra ricerca
potrebbe restringersi ad un limitato numero di persone che avessero la ventura di
avere lo stesso nome di battesimo. Anche sul cognome, comunque, si può lavorare.
Un cognome siciliano degli anni Venti difficilmente può confondersi con uno
proveniente dalla Toscana, tanto per fare un esempio. Insomma, qualche possibilità
l'abbiamo".
"Lei mi sta rincuorando, non avevo preso in considerazione tutti questi indizi. E
dove ritiene che possiamo trovare la lista delle navi partite da Genova in quel
periodo? Ho visto che tra i miei appunti c'è l'indirizzo dell'Autorità Portuale: è a loro
che dobbiamo rivolgerci?".
"Esatto, proprio agli uffici dell'Autorità Portuale a Palazzo San Giorgio, poco
distante da qui. Se lei è d'accordo, potremmo andare già domani mattina".
"Capisco la fretta, ma io come faccio? Devo tornare a Milano, sbrigare le mie
commissioni. Ho bisogno di almeno un paio di giorni...".
"Non vorrei sembrarle scortese, ma a quanto mi è stato detto non credo che lei
avrà la possibilità di tornare a Milano prima di qualche tempo. Né io del resto posso
dedicarle molto del mio...".
"Ha perfettamente ragione, mi scusi. Il fatto è, se le devo dire la verità, che sono
proprio furioso per il modo in cui sono stato messo al corrente di questo incarico.
Non è così che ci si comporta. D'altra parte, però, mi rendo conto che non è
certamente con lei che posso prendermela. Per cui mi dia qualche ora e una notte di
sonno per sbollire la rabbia. Domattina sarò qui da lei".
"Perfetto, l'aspetto qui alle 10". E gli porse la mano.
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Mentre si dirigeva di nuovo verso il centro, Giulio si sforzava di contenere il suo
malumore urlando, mentalmente, insulti innominabili verso la ditta Filangeri &
Nansen. La dedizione al lavoro è una cosa, lo schiavismo è un'altra, continuava a
ripetersi. E per quanto lo avessero abituato alle situazioni impreviste, quella gli
sembrava davvero troppo. Poi, man mano che saliva verso la zona di Piccapietra, il
suo razionalismo ebbe la meglio. "Hai voluto lavorare per un grande studio legale?
Adesso non ti lamentare", gli sussurrava una vocina interna. E a ogni passo si
rendeva conto che non aveva vie di fuga. Il peggio sarebbe stato spiegare tutto a
Roberta. Tra l'altro proprio l'indomani doveva andare a prendere i biglietti aerei per
l'Egitto. Niente da fare: addio Piramidi e crociera sul Nilo, almeno per adesso. Quella
sera stessa avrebbe telefonato a Roberta, sperando che lei capisse. Certo sarebbe
stato duro, visto che non poteva certamente fornire dettagli su quello che stava
facendo. "Che Dio me la mandi buona", si scoprì a pensare.
E in effetti Roberta non la prese affatto bene. Già pronta a partire, sia per aver
ormai preparato i bagagli, sia, soprattutto, per essersi disposta mentalmente alla
partenza, non riusciva proprio a capire il perché di quell'improvvisa rinuncia. Il
lavoro è lavoro, e questo lo accettava, ma le sembrava francamente incomprensibile
che la decisione di posticipare le ferie venisse comunicata, o meglio imposta, con
sole 48 ore di anticipo. Per cui quando mise giù il telefono le ci volle un bel po' per
digerire la notizia. Tra l'altro Giulio le aveva detto che non sapeva neanche quando
avrebbe fatto ritorno, quindi le si prospettava davanti un periodo a dir poco incerto
e noioso. Sempre che comunque le fosse possibile posticipare le sue ferie, tanto
faticosamente fatte coincidere con quelle di Giulio. E fu con questi pensieri che
quella sera andò infine a dormire.
————————————————————
Il Palazzo delle Compere di San Giorgio, che venne costruito tra il 1260 e il 1262
da Guglielmo Boccanegra, Capitano del Popolo, su progetto di frate Oliviero,
monaco cistercense dell'abbazia Sant'Andrea di Sestri Ponente, in un primo tempo
fu Palacium comunis Januae de Ripa, cioè la sede del Comune, ed è uno dei più
classici esempi di architettura medievale della storia di Genova. L'edificio si trova in
posizione strategica tra il mare, i portici della Ripa e piazza Banchi, nella zona di
Caricamento, e divenne il fulcro dell'attività marittima e commerciale della
Repubblica di Genova tra il XV e il XVII secolo. Il prospetto principale del palazzo,
rifatto nel 1989, è affrescato con un gigantesco dipinto di San Giorgio, protettore
della città, nell'atto di uccidere il drago. Ed è proprio questa facciata che appariva ai
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naviganti al tempo di Cristoforo Colombo quando entravano nel Porto Antico,
attraccando nella vecchia Darsena.
Il palazzo, spiegò la professoressa Manieri a Raimondi, è famoso soprattutto
perché intorno al 1300 vi venne imprigionato Marco Polo, catturato dai genovesi
nella battaglia di Curzola. E fu proprio a Palazzo San Giorgio che il navigatore
veneziano dettò al compagno di prigionia Rustichello da Pisa il suo Livre des
merveilles du monde, più noto come “Il Milione”.
La persona che doveva aiutarli nella loro ricerca era Daniela Fontana, una
dirigente dell'Autorità Portuale che da alcuni anni si occupava di rimettere ordine
nell'archivio dell'emigrazione. Di statura media, intorno ai cinquant'anni, bionda,
con un filo di trucco su un viso sveglio e simpatico, quando li vide andò loro incontro
e dimostrò subito un certo entusiasmo per quella insolita ricerca.
"Quando sono stata informata della vostra indagine, mi sono chiesta subito in che
modo potevo aiutarvi - spiegò facendoli accomodare ad un lungo tavolo nella
grande sala delle colonne -. Fino a poco tempo fa, una ricerca di questo tipo sarebbe
stata davvero assai difficoltosa. Oggi, invece, disponiamo di mezzi molto più potenti,
se così si può dire, grazie alla costituzione del nostro Istituto Mondiale di Studi
sull’Emigrazione Italiana. Ritengo dunque che la cosa migliore sia consultare il nostro
computer che aggiorniamo in continuazione, a mano a mano che veniamo a
conoscenza di nuovi dati. Ma, per fare questo, devo pregarvi di venire con me nella
nostra sede al palazzo della Commenda. Da lì potremo fare la ricerca che vi interessa
e, con un po' di fortuna, ottenere qualche risultato. Se siete d'accordo, direi di
andarci subito in modo da non perdere tempo; una delle nostre macchine ci porterà
direttamente sul posto: è a poche centinaia di metri da qui".
La Commenda di Prè dal 1180 fu stazione e ospizio per i pellegrini in partenza per
la Terrasanta, o in arrivo da essa, ed era stata data in gestione ai cavalieri del Santo
Sepolcro, futuri cavalieri di Malta. La facciata della struttura risale al Cinquecento ed
è aggiunta al corpo medievale del retro. I piani superiori vennero ristrutturati tra il
1200 e il 1400, mentre il pian terreno è rimasto originale. Ed è qui che alloggiavano e
riposavano i pellegrini.
Raimondi rimase impressionato appena entrò nello storico palazzo. Guardandosi
in giro "respirava" l'aria di quelle antiche mura e per un attimo si fermò cercando di
immaginare le ombre dei pellegrini accalcati contro quei muri di mattoni rossi, alla
luce delle fiaccole notturne. Poi si riprese e seguì le due donne al piano superiore,
lungo la moderna scala che era stata applicata internamente.
Li accolse una ragazza bruna che la Fontana presentò come sua collaboratrice.
"Marta - disse sorridendo - conosce tutti i nostri segreti".
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E fu proprio Marta, cercando al computer, che trovò una prima e importante
traccia.
"Ecco qua, ci siamo - disse trionfante Daniela Fontana indicando lo schermo ai
due ospiti - Come potete vedere da questa cartella d'imbarco, l'unica nave di
emigranti partita dal porto di Genova ai primi di novembre del 1922, ed
esattamente il 4 novembre, è la “Konigin Luise”, un vapore tedesco da 10.566
tonnellate attivo sulla linea Napoli-Genova-New York, in grado di trasportare 225
passeggeri in prima classe, 235 in seconda e 1940 in terza classe, alla velocità di 14,5
nodi. Un vero transatlantico dell'epoca, direi. Purtroppo non c'è l'intera lista dei
passeggeri, anche perché una buona parte erano stati imbarcati a Napoli. Forse, con
un po' di fortuna, potremmo trovare qualcosa nell'archivio di Ellis Island. Stiamo
trattando per avere un una convenzione con loro. Mi sembra però che la persona
che stiamo cercando sia stata imbarcata a Genova e doveva chiamarsi Antonio o
Antonino. E comunque non era analfabeta, come la maggioranza degli emigranti del
tempo. Ebbene quel giorno nel porto di Genova sulla Konigin Luise furono imbarcate
513 persone, delle quali 9 in prima classe, 14 in seconda e 490 in terza. Coloro che si
chiamavano Antonio o Antonino, come potete vedere da questa lista separata,
erano in tutto 18. Del resto si tratta di un nome molto comune anche adesso.
Ebbene, come la nostra Marta ci sta facendo vedere, di tutti questi soltanto uno si è
imbarcato in prima classe e nella lista di imbarco risulta con una professione
davvero insolita per una nave di emigranti: l'avvocato Antonino Ponteleone. Che ne
dite?"
La professoressa Manieri e Raimondi sorrisero compiaciuti. "Siete davvero
meravigliosi - si lasciò scappare Giulio - Mai più avrei immaginato che si potesse
arrivare così in fretta a identificare il nostro uomo...".
"Siamo stati soltanto fortunati", rispose la Fontana passandosi una mano tra i
capelli per non far vedere il piacere che le procurava quel complimento.
"No, siete stati davvero bravi - insistette la Manieri - Certo ora dobbiamo
verificare se si tratta della stessa persona. Mi dica, esiste un qualche documento con
la firma di coloro che si imbarcavano?"
"Direi di sì: se riusciamo a trovare la lista dell'emigrazione, dovrebbero esserci le
firme di tutti coloro che si sono imbarcati a Genova. La maggior parte firmavano con
una croce, ma diversi altri sapevano leggere e scrivere. In questo caso dovremmo
trovare anche la firma di questo avvocato".
"Sarebbe davvero ottimo, perché in quel caso potremmo confrontare quella firma
con un breve scritto di cui disponiamo. Se collimano, è fatta".
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"Datemi un attimo di tempo e ve lo saprò dire. Se la lista dell'emigrazione è
disponibile, intendo. Adesso sappiamo in quale settore cercare e, di solito, dove si
trova un documento si trovano anche gli altri".
La Fontana e la ragazza cominciarono a perfezionare la loro ricerca. E per qualche
minuto saltarono da una schermata all'altra, inseguendo la traccia di quel nome.
"Adesso vediamo - riprese la dottoressa Fontana, girandosi verso Raimondi e la
professoressa Manieri -. Dunque, se i miei colleghi che hanno archiviato quei
documenti erano tanto ordinati quanto io credo, tutto l'incartamento di quel viaggio
dovrebbe essere presente. Ecco, questa è la cartella della Konigin Luise . Vediamo
cosa c'è... Ecco qua: è il nostro giorno fortunato".
E con delicatezza, quasi avesse tra le mani un prezioso vaso di porcellana, depose
sul tavolo il foglio che era appena uscito dalla stampante laser accanto al computer.
Lo spazio era diviso in sei settori e in ognuno l'antico scrivano, in bella scrittura,
aveva inserito un'informazione sull'emigrante. I nomi erano scritti in corsivo,
inclinati da sinistra a destra, e quello dell'avvocato Antonino Ponteleone era il
penultimo del primo foglio. La prima a vederlo fu la professoressa Manieri. "Eccolo,
è lui", disse. E gli altri guardarono, quasi con un senso di deferenza, la firma
svolazzante e aristocratica di quel nobiluomo siciliano che tanto interesse stava
suscitando.
"Potremmo avere un ingrandimento di questa firma?", chiese la Manieri alla
dirigente dell'Autorità Portuale.
"Certamente", rispose lei. E sempre con circospezione raccolse il foglio e si diresse
verso la fotocopiatrice che si trovava in un angolo della sala. Un attimo dopo la
docente aveva tra le mani una copia ingrandita del 180 per cento della firma.
Quando la lasciarono, la dottoressa Fontana augurò loro che fosse davvero quello il
personaggio cercato. Raimondi le assicurò che glielo avrebbe fatto sapere e ringraziò
lei e la ragazza per l'aiuto che gli avevano dato.
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"Ascolti, adesso io farò vedere questa firma allo stesso esperto che ha fatto la
perizia calligrafica sulla cartolina - disse la Manieri a Raimondi sul taxi che li
riportava in centro - . E' una persona amica e non mi farà perdere tempo. Se tutto va
come spero, entro domani sapremo se la persona che cerchiamo è davvero questo
Ponteleone".
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"Io non avrei dubbi, ma aspettiamo pure questo parere - rispose Raimondi -.
Intanto la ringrazio veramente di tutto. Senza di lei non avrei saputo come fare".
"Assolutamente di nulla, avvocato. Dovevo questo favore al commendator Parodi
e lo faccio davvero volentieri. Appena so la risposta, la chiamo".
Quella sera, quando tornò in albergo dopo avere speso il pomeriggio in giro per
shopping in vista dei prossimi viaggi, Giulio si scoprì a fare diverse considerazioni.
Prima di tutto cercava disperatamente di mettere un po' di ordine mentale nella
sua testa per organizzarsi al meglio. Gli dispiaceva il modo in cui Roberta aveva
preso la notizia, ma d'altra parte che cosa poteva farci? Le ferie sono state rinviate?
E va bene, non ne poteva fare a meno. Lo avevano messo in una situazione a dir
poco difficile? E va bene, ci sta pure quello. Ma adesso doveva darsi da fare perché
di tempo non ne aveva poi molto. Parodi glielo aveva ricordato e sapeva quanto
avesse ragione. Doveva trovare dei risultati prima che la malattia si portasse via
l'amico del suo capo. Senza contare che quella dimostrazione di fiducia nei suoi
confronti adesso doveva guadagnarsela. Per cui, al diavolo tutto: "Si torna al lavoro rifletteva - ed è meglio non perdere neanche un solo minuto".
Facendo mente locale, prendeva atto che il primo grande passo, e cioè dare un
nome al misterioso Nino, era stato fatto. Adesso doveva dare una casa, un luogo di
provenienza, all'avvocato Antonino Ponteleone. Naturalmente aspettava che la
Manieri gli comunicasse l'esito della perizia calligrafica, ma anche a occhio si vedeva
che le due scritture erano identiche. Per cui, in attesa della conferma definitiva,
meditava sul da farsi.
Sdraiato sul letto dell'albergo a pancia all'aria, ancora vestito e illuminato da una
delle due abat-jour laterali, Giulio cercava di porsi le domande giuste per saperne di
più sull'avvocato Ponteleone. Tanto per cominciare viaggiava col suo nome. Quindi,
presumibilmente, non era inseguito da nessuno. O forse, sempre ammesso che
qualcuno si fosse messo sulle sue tracce, voleva far vedere chiaramente che
espatriava. Ma perché? Perché lasciava l'Italia in quel modo, abbandonando in
patria il suo stesso figlio, ancora bambino? Figlio, tra l'altro, che non avrebbe mai più
rivisto... "Di certo, se uno si comporta così, qualcosa deve essere successo", pensava
Giulio. Ma che cosa? Com'è che improvvisamente un avvocato trentenne, che a quei
tempi era come un'autorità, decide da un giorno all'altro di mollare tutto, lavoro,
famiglia e amici, portandosi dietro un figlio piccolo, per poi infine fuggire negli Stati
Uniti da solo. No, non poteva essere: le tessere non collimavano. La si poteva
mettere come si voleva, ma l'avvocato Ponteleone doveva comunque scappare da
qualcuno o da qualcosa.
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primo capitolo del libro