La disaffezione per la Psicoanalisi Interviste a Giuseppe Di Chiara e Antonino Ferro GIUSEPPE SABUCCO Quando la Redazione di questa rivista decise di dedicare il primo numero nel nuovo formato on-line al tema dell’Attaccamento, mi sembrò naturale proporre il tema del dis-attaccamento, cioè la disaffezione, verso la psicoanalisi, che sarebbe diffuso nella società moderna. La psicoanalisi è stata data per morta molte volte (in qualche caso si è cercato di accopparla materialmente, e ci sarà eco di questo nelle interviste) ma negli ultimi anni il coro funebre si è infittito, presentandosi a tratti come il testimone di un fatto di cronaca: tempo fa la rivista Time mise il ritratto di Freud in copertina, annunciando la fine della disciplina da lui creata. Anche se, come fece Mark Twain con il quotidiano che ne aveva improvvidamente pubblicato il necrologio, pure noi psicoanalisti possiamo rispondere che «la notizia della nostra morte è un poco esagerata», nondimeno è opportuno affrontare il tema senza rimuoverlo, proprio in quanto psicoanalisti. È vero che la terapia psicoanalitica e, più in generale, la concezione psicoanalitica della vicenda umana, sono oggetto di un crescente rifiuto? La Società Psicoanalitica Italiana (SPI) è quella che finora, a livello mondiale, ha condotto la ricerca statistica più ampia e dettagliata sullo «stato dell’arte» in un ambito nazionale. I risultati dell’indagine, relativa all’anno 2003 e condotta con l’ausilio dell’istituto di ricerca Eurisko, sono stati resi pubblici nel 2005 sul numero speciale per il cinquantenario della Rivista di psicoanalisi (anche di questo si troverà qualche eco nelle interviste). Alla ricerca partecipò più della metà degli psicoanalisti italiani, il che garantiva una solida base statistica, ma soprattutto rappresentava, rispetto a ricerche analoghe, «un risultato straordinario che deve venire considerato in sé un indicatore di fiducia e di orgoglio di appartenere alla Società», come allora scrisse il presidente dell’Eurisko, Giuseppe Minoia. Sta di fatto che nell’ultima assemblea generale della SPI, a un lustro esatto dalla pubblicazione di quella ricerca, il dottor Francesco Conrotto, Segretario nazionale dell’Istituto di Training, ha potuto segnalare con soddisfazione che finora non c’è stata flessione nel numero annuale di domande d’accesso al training psicoanalitico, e che anzi si nota una flessione (sia pure lieve) dell’età media di chi si presenta per la prima volta. Per riflettere su questi argomenti, ci è sembrato utile ricorrere allo strumento dell’intervista a due importanti conoscitori della storia e dell’evoluzione della psicoanalisi: il dottor Giuseppe Di Chiara, ex presidente della SPI, ed il dottor Antonino Ferro, le cui pubblicazioni di psicoanalisi sono ormai note in tutto il mondo. 1 INTERVISTA A GIUSEPPE DI CHIARA Nell’ultima nostra assemblea il dottor Conrotto ha segnalato con soddisfazione che finora non c’è stata flessione nella richiesta d’accesso al training della SPI. Almeno tra chi aspira ad occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica, in Italia, l’appeal della psicoanalisi sembra essere immutato. Ciò è vero, nel senso di «occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica», come formula la domanda. I candidati sono ancora presenti, sono numerosi e ciò è legato all’apporto della nuova componente psicologica che ormai da parecchi anni arricchisce le fila degli psicoterapeuti, e quindi anche degli psicoanalisti. Sono aumentati in proporzione gli psicologi, rispetto agli psichiatri. Sì, danno un contributo notevole. Gli psichiatri sono diminuiti. In realtà quella che non è avvenuta è la possibilità di un corso specifico – né medico, né psicologico – di specializzazione e di laurea nel nostro tipo di attività, che era il progetto freudiano di una «psicoanalisi per i laici». Quel progetto fornì la particolarissima situazione per cui personalità formatesi nei campi più diversi affluirono all’analisi, portando ognuna il suo contributo dalle scienze in cui si erano formati. Noi stessi non possiamo trascurare di ricordare che, dei padri fondatori della Società Psicoanalitica Italiana, a parte Perrotti che era medico, medici non erano né Servadio (un intellettuale contributore fondamentale dell’Enciclopedia Italiana), né Musatti, che nasceva matematico e filosofo. Oggi abbiamo una situazione più omogenea. La cosa interessante, tuttavia, è proprio che non è diminuito il numero delle persone che aspirano ad occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica. Direi di più: non è diminuito il numero, mentre è aumentata la nostra offerta di formazione, poiché oggi abbiamo quattro, e non più due, sezioni locali dell’Istituto nazionale di training [due a Roma, una a Milano e una veneto-emiliana con sede a Bologna – nota del redattore]. La nostra offerta è aumentata e non è diminuito l’afflusso di chi si vuole occupare di analisi della mente. Chiamiamola proprio così, scomponendola come dovrebbe essere: psico-analisi. Perché questo effettivamente è il punto centrale. Esiste ancora un numero sufficiente di persone che vengono ai nostri corsi, e che a partire da una formazione psicologica o medica intendono occuparsi di quella particolare forma di psicoterapia che si chiama psicoanalisi, la quale, attraverso l’analisi della mente, sortisce anche un effetto terapeutico che non avrebbe come primum movens. Anzi, in un certo senso l’intento terapeutico viene sospeso nell’interesse della cura. Nel 2003 il Presidente dell’International Psychoanalytical Association (IPA) indicò in un documento ufficiale (per la prima volta, che io sappia) la necessità di prestare «attenzione strategica» al fenomeno della «crisi della psicoanalisi», definito dalla diminuzione dei pazienti che chiedono un’analisi a tre o più sedute la settimana, dalla diminuzione dei candidati che vogliono intraprendere una formazione analitica, da una contrazione del tasso di crescita degli analisti e da un aumento della loro età 2 media, e di coloro che diventano candidati. Questi fenomeni erano denunciati da diverse società psicoanalitiche. L’Italia costituisce dunque una relativa eccezione rispetto alla «crisi della psicoanalisi»? No, non credo che l’Italia rappresenti un’eccezione. Il fatto che la richiesta si sia mantenuta tale da coprire il numero di candidati in una sezione non significa che sia aumentata, mentre la popolazione dei terapeuti è enormemente aumentata. Nel libro di Giangaetano Bartolomei [Come scegliersi lo psicoanalista, ETS, Pisa, 2000 – ndr], si dava conto del fatto che su settantamila possibili psicoterapeuti circolanti in Italia dieci anni fa, gli psicoanalisti – quelli della SPI e quelli bona fide vicini alla SPI – non andavano oltre i duemila. Questo significa che la gran maggioranza della popolazione che ha bisogno di terapia per disagio psicologico non accede, di fatto, alla psicoanalisi. L’aspetto critico è un altro ancora: in questo momento esiste una forte pressione per evitare di fare il numero di sedute abitualmente necessarie per un’analisi. Questo è un dato di fatto ed in questo momento c’è un braccio di ferro tra l’utenza che ha bisogno, e gli analisti che vorrebbero dare il loro contributo. D’altro canto, anni fa, uno dei presidenti dell’IPA, in uno dei suoi discorsi inaugurali, segnalava che possono esserci delle situazioni d’ordine sociale e d’ordine culturale nelle quali l’analisi non si può praticare. Non siamo protetti dalla possibilità di non poter fare l’analisi. Così come non si possono fare certi interventi medici, operatori o tecnici, in situazioni in cui mancano le strutture portanti di base per poterli eseguire. La SPI si è mossa con decisione sul piano dell’indagine statistica del fenomeno, con la ricerca SPI-Eurisko, e qualche dato di quella ricerca consente di speculare anche sul presente. Per esempio, nel 2003, in media, gli analisti partecipanti alla ricerca avevano un numero uguale di pazienti in analisi e in psicoterapia. Ma nei precedenti cinque anni i pazienti disponibili all’analisi erano diminuiti di una misura stimabile attorno all’11%. Inoltre, sempre nel 2003, le consultazioni terminate con un’indicazione per una psicoterapia erano quasi il doppio di quelle concluse con un’indicazione di analisi. Un trend incrociato, con le analisi in diminuzione e le psicoterapie in crescita. Sì, questo dato si conferma. Anche prima del 2003 avevamo raccolto dei dati in maniera più semplice che davano già un’indicazione di questo tipo. D’altra parte, almeno nel panorama europeo, le due Società che hanno avuto una crescita maggiore e corrispondente sono due Società che hanno numerosi centri periferici, l’italiana e la tedesca, mentre l’aumento di numero nei gruppi inglesi o francesi, per esempio, è stato relativamente più contenuto. Noi abbiamo avuto per un certo periodo un aumento più vivace. Era da mettere in conto, tra le richieste di terapia che ci venivano fatte, che una parte non sarebbe stata per l’indicazione psicoanalitica. Mi fa piacere che nella ricerca citata si sia tenuto conto del dato di fatto che il professionista che si qualifica come psicoanalista ha, spesse volte, anche la competenza per fare delle psicoterapie. Piuttosto che inviare ad un collega, se ha la disponibilità, può attivare anche un percorso psicoterapico. Ma quel che secondo me è da sottolineare, specialmente per il pubblico, è che si possono fare due cose che sono diverse. Sono 3 apparentate o apparentabili, ma sono diverse. Una cosa è un percorso psicoanalitico, altra cosa è un percorso psicoterapico. Come dicevo prima, in un percorso psicoanalitico prima di tutto viene l’analisi, che porterà con sé inevitabilmente ed essenzialmente la terapia. Nel caso di un intervento psicoterapico, invece, la terapia avrà la priorità su qualunque altro tentativo. Da questo punto di vista c’è un singolare fenomeno: stiamo tornando ad una situazione che era caratteristica dell’epoca d’inizio della psicoanalisi. Quando la psicoanalisi iniziò era abbastanza frequente, dopo avere visto un paziente, poter dire «questo paziente ha bisogno di una psicoterapia», e avviarlo a quei colleghi psicoterapeuti che avevano una sufficiente competenza. Un altro paziente invece aveva bisogno, ed era indicato, per un’analisi, e veniva effettivamente inviato o preso in carico in tal senso. La differenza era più precisa, più significativa. Nel corso degli anni ci sono stati degli incroci al riguardo, anche supportati da inferenze teoriche abbastanza interessanti e che bisognerebbe indagare. Tuttavia, ad un certo punto è avvenuta una specie di confusione che per un certo tempo è stata fatta dai pazienti che dicevano di essere in psicoterapia quando erano in analisi e dicevano spesso di essere in analisi quando erano in psicoterapia; la stessa confusione – e questo è un rischio serio – può essere fatta dagli stessi terapeuti. Analisti e psicoterapeuti potrebbero effettivamente non differenziare con sufficiente chiarezza la qualità del loro intervento. Questo è un punto rilevante, e ci dovremo tornare più avanti, ma per il momento vorrei proseguire la riflessione sul dis-attaccamento alla psicoanalisi. Va detto, per la verità, che essa ha incontrato ben altri momenti di crisi. Il nazi-fascismo e lo stalinismo hanno cercato di cancellare quasi del tutto, in molti casi anche fisicamente, il pensiero psicanalitico dall’Europa. Questo è avvenuto anche per il gruppo italiano che era più piccolo e debole e venne effettivamente fermato. La notazione che è stata fatta – ricordo da Musatti, ma quasi sempre da chi si è occupato di quest’aspetto – è che per un verso venne utilizzato l’aspetto totalitario del regime al potere per sbarazzarsi della psicoanalisi, e quindi fu l’autorità di polizia fascista a gestire la soppressione della Società Psicoanalitica Italiana. Sono interessanti, in un libretto raccolto da Bellanova, le note informative dei funzionari di pubblica sicurezza che parlano di Freud come di un ricercato, di un eversore [Bellanova P. e A., Le due Gradive. Notizie sull’attività della SPI 1932-1982, Roma, Cepi, 1982. Se ne trova traccia anche nella Conversazione sulla Psicoanalisi che Di Chiara ha scritto insieme a Pirillo, Napoli,Liguori - ndr]. Ma per un altro verso il primum movens della soppressione, chi ne aveva interesse, fu in effetti tutta l’ideologia culturale portante che era contraria alla psicoanalisi e che approfittava della situazione per sbarazzarsene. In Italia il fenomeno fu molto evidente. Per la Germania non avrei indicazioni. Invece la psicoanalisi ha resistito in Inghilterra e naturalmente negli Stati Uniti dove anzi ebbe una notevole diffusione. Cosa significa questo? Che in certi momenti le resistenze all’analisi possono assumere configurazioni particolarmente violente e aggressive? Potremmo chiedercelo: è interessante, grave, pericoloso, e potrebbe anche essere vero. Una volta, durante la sua 4 presidenza, Francesco Corrao ci prospettò un altro tipo di conflitto, che avrebbe potuto riguardare la psicoanalisi e i computer. Il confronto tra un tentativo della coscienza di avere ragione di qualche cosa che non conosce, di cercare in qualche misura di catturare i meccanismi attraverso i quali funziona nell’inconscio, da una parte, e dall’altra un sistema ultra sofisticato di circuiti che attraverso la macchina computerizzata competono con l’analista. Corrao raccontò un saggio fantascientifico che effettivamente si concludeva con la fagocitazione dell’analista da parte della macchina. La vittoria di una razionalizzazione sostenuta dalla tecnica. Questo per dire che le forme di difesa e resistenza nei confronti della scoperta dell’inconscio continuano ad essere presenti e ad operare. Freud ne era consapevole e lo diceva: non me lo perdoneranno. Perché l’offesa al narcisismo che la psicoanalisi compie di fatto, come elemento primitivo e fondamentale, è sempre lì, brucia, mortifica, se vogliamo, il sentimento di superiorità narcisistica dell’Uomo costruttore, dell’Uomo fattore che non riesce ad accettare di essere trascinato più di quanto egli non pensi. A sostegno di questa affermazione, si può osservare che neppure l’ideologia oggi trionfante, il consumismo globalizzato, sembra molto più benevola dei regimi totalitari. È meno truce nei modi, ma più subdola e pervasiva negli effetti, perlomeno per quanto riguarda il disprezzo verso i tempi, i ritmi e le finalità di un’analisi. Assolutamente sì. In questa domanda sviluppi ciò cui abbiamo prima accennato. Parlavo in maniera quasi provocatoria di categorie come quelle dell’Uomo fattore, l’uomo capace di realizzazioni. L’Uomo fattore dovrebbe però, in qualche modo, misurarsi con la realtà. Per produrre qualcosa che davvero li affronti e li superi, deve in qualche modo misurarsi con i limiti posti dalla Natura, e in qualche modo anche con i limiti posti dalla propria natura. Cerco di spiegarmi con un paradosso. La recente tragedia nucleare in Giappone, oltre al dolore e all’angoscia che diffonde, rappresenta senz’altro una ferita narcisistica per l’uomo costruttore, che si illudeva di avere provveduto a tutto. C’è voluto però un avvenimento di inusuale potenza per vincerlo: ha sottovalutato i propri limiti, ma sapeva di avere dei limiti. Chi cerca di trovare modi per sottrarsi alla realtà, ai suoi limiti e alla coscienza della propria impotenza mi sembrerebbe piuttosto l’uomo consumatore, quando si lascia sedurre dalla promessa della tecnologia moderna che gli consentirà di sbarazzarsi del confronto con la realtà. Per esempio attraverso le realtà virtuali. È vero che l’uomo «faber», l’uomo prometeico, in qualche misura cerca il confronto con la realtà e deve confrontarsi con essa. Ma per far questo ha uno strumento che non può essere né quello del consumismo, né quello della pura operatività. Ha la necessità di associare al «fare» il precedente importante che è il pensare. Deve confrontarsi con una serie di situazioni nelle quali utilizza un’altra funzione che è quella della riflessività, sospendendo – per quanto utile e necessario – il fare. Dopo può procedere al fare. Se tutto si consuma e si esaurisce nella fattività, non nasce quella 5 civiltà cui Bion alludeva quando diceva che, se gli Homo sapiens rimangono soltanto ai trucchi scimmieschi, non avremo quella sostanza che consente di affrontare effettivamente la realtà. Anche se della realtà si possono avere alla fine solo modelli incerti e sempre da costruire e rivedere, nel tentativo di un percorso che non si esaurisce mai. Quando parli dell’Uomo fattore e di trucchi scimmieschi, pensi dunque a un culto ideologico del tecnicismo. Esattamente. Penso ad un «fare» che si sia sbarazzato del pensare e che trova nel consumare la sua espressione più radicale. Molto agito e poco pensato. L’attuale insofferenza verso la psicoanalisi, tuttavia, si manifesta in un modo che a me pare non solo minaccioso, ma anche euristicamente interessante: il principale problema, oggi, non è posto da un Potere che ci vorrebbe zittire, esiliare o giustiziare, ma da persone che vengono, chiedono un aiuto «psi», ma non accettano la forma di aiuto che gli analisti hanno selezionato come la migliore – dal loro punto di vista – nel corso della loro storia. È così. Probabilmente c’è una variazione nelle manifestazioni psicopatologiche. Non solo nel senso di una maggiore gravità, come già documentava Eugenio Gaddini nei suoi scritti [«Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni», Rivista di psicoanalisi, 30, 1984 - ndr]. Adesso possiamo aggiungere: anche nel senso di una socializzazione maggiore dei disturbi. Per usare un’espressione, titolo di un mio contributo, il paziente in «sindrome psico-sociale» diluisce, mette insieme il proprio disagio con una condizione più generale, e si fa forte non più di una sua difesa singola, individuale, ma di una difesa collettiva. Dice: «Non ho il tempo» e, se si rivolge ai suoi compagni di strada, essi gli dicono: «Hai ragione, tu non hai il tempo. Perché devi rimanere più tardi possibile al lavoro in ufficio. Il fatto che tu debba fare l’analisi non è compatibile. Devi cercarti qualche forma di terapia in cui puoi andare una volta ogni tanto, perché non hai il tempo». Questo è quanto mai interessante. Mentre prima il paziente faceva i conti con la propria resistenza, la propria vergogna, la propria umiliazione a sentirsi malato, le difficoltà che gli venivano dal dovere nascondere la sua condizione, oggi utilizza altri sistemi. Sistemi che sono addirittura evidenti, palesi, che si attagliano come se avessero un contenuto di realtà, ma in realtà hanno un contenuto mistificato di realtà. È detto bene nella domanda: il disprezzo, la svalutazione riguardano i tempi e i ritmi dell’analisi. Ci si chiede: «Perché mai dovresti andare due, tre o quattro volte, poi sospendi, poi vai di nuovo?» Vale a dire, perché la discontinuità è un elemento fondamentale del nostro lavoro? Per fare l’analisi, infatti, abbiamo bisogno di praticare una cosa straordinaria, che è una continuità insieme con una necessaria discontinuità. Diversamente la macchina mentale non si mette in funzione nel modo in cui noi possiamo effettivamente vederla vivere. Ma la svalutazione riguarda anche le finalità dell’analisi. 6 Mi sembra che pensi a una sorta di alleanza tra l’ideologia culturale dominante e il singolo. L’ideologia ti chiede di lavorare più che puoi – quando va bene, quando c’è lavoro – perché devi rendere di più, per esempio in relazione a mercati del lavoro meno costosi, ma questo costituirà per te una giustificazione per condividere l’idea che tu non abbia davvero tempo per la tua mente. Il ricorso al concetto di «potere dominante» indica l’utilizzo di comuni denominatori della cultura meno incline a porsi problemi, meno critica. Guarda la differenza con la popolazione dei pazienti degli inizi della psicoanalisi: di chi si trattava? Si trattava di soggetti che a fronte di un doloroso conflitto vivevano una situazione di notevole dolorabilità. Effettivamente «pativano», ma non si erano adeguati alla loro situazione culturale ordinaria. Sentivano la necessità di portare una sfida, e per fare questo accettavano di iniziare quel percorso che era l’analisi, che li portava a dovere scoprire tutto ciò che loro competeva, senza potere avere nessuna preliminare assicurazione che sarebbero stati indirizzati in una piuttosto che in un’altra direzione. La scelta sarebbe avvenuta nel corso del tempo sulla base delle loro possibilità e disponibilità. Questa è una condizione diversa da quella nella quale, invece, il paziente attuale prima di venire in analisi cerca di curarsi con le categorie culturali e sociali più diffuse. Molti anni fa Sergio Bordi diceva che il problema centrale dell’analisi nel futuro sarebbe stato quello della droga: l’analisi si sarebbe sempre più scontrata con pratiche sociali «con effetto droga», che cercano di eliminare il senso e la spinta della sofferenza e del conflitto (pensiamo al film Fahrenheit 451 di François Truffault). L’analisi, al contrario, accoglie, sostiene e utilizza trasformativamente questa spinta. Questa è una differenza notevole. Ecco perché un paziente che vive una sua vita già abbastanza travagliata, ma di cui non si rende conto, pur avendo dei sintomi – che curiosamente sono cambiati, perché oggi sono incerti e mal definibili il più delle volte – viene dall’analista e, sentitosi dire che se vuole potrà rendersi conto di com’è la situazione, dice: ma io sono già informato, ho tutto quello che mi serve, ho solo bisogno di una sistemazione. In un certo senso è analogo a quel paziente – sempre esistito – che viene perché è stato mandato da qualcuno e non viene in proprio. Ecco perché le molte richieste dei pazienti contengono poche richieste di analisi. Un problema di conformismo. C’è un problema di maggiore conformismo. Paradossalmente, la conflittualmente conformi. richiesta sarebbe quella di essere resi meno Tanto tempo fa, agli inizi della psicoanalisi, si pensava che un elemento di conformismo che avrebbe potuto impedire lo sviluppo dell’analisi, ma soprattutto la possibilità di utilizzare la cura analitica, poteva essere rappresentato da un tipo di background culturale, soprattutto religioso, col quale si pensava che l’analisi potesse 7 essere in contrasto. In realtà questo è stato superato: si arrivò alle analisi nei conventi in America, di cui rimangono indicazioni sull’International Journal [Gilberg, A.L., «The Ecumenical Movement and the Treatment of Nuns», International Journal of PsychoAnalysis, 1968, 49 – Ma già nel 1965 Emilio Servadio (Riv. psicoanal., 1967, 266) aveva partecipato ad una discussione sul tema: «Rapporti fra psicoanalisi e cattolicesimo», a proposito di un’esperienza analitica su larga scala, effettuata in un Convento di Benedettini in Messico, sulla quale il Priore, Padre Lemercier, aveva relazionato al Concilio Vaticano II° - ndr]. Ci sono casi singoli che possono utilizzare questo impedimento, ma il fatto in sé non era così forte come può essere oggi questa forma che giustamente tu indichi come conformismo. Alcuni analisti ritengono che prestare attenzione allo «psichico», nelle sue diverse manifestazioni, stimoli una curiosità psicoanalitica. Nell’ambito della cura pensano che il miglioramento clinico dovrebbe favorire l’interesse dei pazienti verso la psicoanalisi nella forma piena. Un buon inizio di psicoterapia dovrebbe aprire la strada a una psicoanalisi. Ma nella maggioranza dei casi le cose non vanno così e ci troviamo costretti a interventi fatti di mezze misure e/o a psicoterapie senza fine. È così perché il numero di persone che vengono all’analisi eccede il numero di persone che potrebbero fare un’analisi? Oppure perché la psicoterapia che noi impostiamo in realtà non funziona come uno stimolatore, un incentivo all’approfondimento analitico? Potrebbe trattarsi, infatti, dell’una o dell’altra cosa, o le due cose potrebbero convergere. Io ho avuto accesso direttamente all’analisi, quindi potrei essere un cattivo psicoterapeuta da questo punto di vista, ma nella mia esperienza ricordo, tanti anni fa, dei casi che mi venivano inviati dicendo: «Senta, dottore, le invio questo paziente; però non è il caso di fare un’analisi. Lo veda due o tre volte la settimana, ma al tavolo, con un’impostazione più psicoterapica». Allora la cautela nell’indicazione era maggiore. Succedeva però che, ascoltando tali pazienti, avvenisse – non sempre, ma in un certo numero di volte – che impostassero loro stessi un discorso analitico: sognavano, associavano e presentavano uno scenario che era quello dell’analisi. Per ciò era agevole poter dire: «mi sembra che sia indicata una situazione d’analisi». Nascevano così delle analisi effettive. Un dato molto importante è quello della psicoterapia senza fine, ma questo riguarda anche l’analisi, perché c’è anche l’analisi senza fine. Esso è legato a dei limiti della capacità dell’analisi al punto attuale del suo sviluppo, e alla forza delle situazioni psicopatologiche attuali, che non riescono a sopportare quella parte importantissima dell’analisi che è la conclusione, con tutta la ricchezza di contributi che devono venire da questa. Inoltre c’è da tenere conto di quale tipo di psicoterapia si è impostata: quando una psicoterapia può diventare psicoanalisi? Quando, durante quel tempo di lavoro, si sono salvaguardati alcuni canoni sufficientemente rispettosi di ciò che serve per fare un’analisi. Se questo non si è fatto, la trasformazione non sarà possibile e l’analisi non verrà in mente all’analista né al paziente. 8 La possibilità del paziente di accedere a un’analisi è che si sia rispettato fin dall’inizio un certo tipo di assetto. E se il paziente questo non ha potuto sopportare, o l’analista questo non ha voluto somministrare, evidentemente poi non potrà avere luogo. È lecito, tuttavia, avanzare l’ipotesi che ci sia una qualche necessità autentica, e non solo resistenza, nella richiesta di cure senza fine o fatte di mezze misure? In altre parole, la diffusa pressione sulle caratteristiche della tecnica analitica da parte di una considerevole schiera di pazienti non potrebbe contenere, insieme al loglio di elementi ostili, anche il grano di elementi utili per sondare aspetti non ancora pensati del funzionamento della mente? Esiste la possibilità che il paziente non esprima con la sua difficoltà a fare l’analisi una resistenza o solo una resistenza, ma piuttosto una richiesta di ampliamento, miglioramento dello strumento psicoanalitico, perché solo in tal modo i contenuti e le vicende mentali impervie e impercorribili, con la strumentazione abituale, potranno essere affrontati. Questo è stato il caso della psicoanalisi con i bambini ed è stato risolto con il setting rigoroso della «stanza dei giochi». Altre situazioni aspettano un progresso psicoanalitico. Questo non può essere fornito da «mezze misure», ma da «nuove misure» che continuino a soddisfare le esigenze del metodo psicoanalitico. V’è poi una situazione affatto particolare che è quella della conclusione dell’analisi, che in alcuni casi è difficile o impossibile, perché ci si trova di fronte ad una richiesta di cure senza fine (si veda il bel volume sulla fine dell’analisi di Ferraro e Garella, In-fine, edito nel 2001 da Franco Angeli). È difficile, allora, realizzare una psicoanalisi che fornisca, dopo un tempo e un’esperienza adeguati, i mezzi mentali per una gestione autonoma della propria vicenda interiore. Il paziente non ha interesse a questo, cerca dell’altro, vuole dare un indirizzo diverso alla pratica dell’analisi e alla relazione analitica… Un indirizzo protesico? … protesico, ma anche educativo, di rinforzo o sostegno. Credo che se ci si potesse rendere conto di questo e se ci fossero degli elementi per poterlo verificare – ecco uno studio che potrebbe essere fatto seriamente, e che espanderebbe la nostra competenza – a quel punto sarebbe meglio proporre al paziente una soluzione diversa dal percorso analitico. Piuttosto, la frequenza di un professionista che avesse le competenze adatte per assicurare al paziente una vita migliore, senza la necessità di dovere compiere un percorso analitico. A quel punto ci sarebbero altre modalità, bisognerebbe inventare altri setting per mantenere il nuovo tipo di discorso. Bisognerebbe però avere chiaro che si sta facendo qualche cosa di diverso da quello che si voleva fare. C’è tuttavia l’altro caso. Esistono situazioni in cui condizioni interessanti, ma anche intense e profonde, non riescono a essere sufficientemente intercettate dal setting che in questo momento abbiamo? Questa è una domanda importante, perché la risposta 9 può essere – anzi, deve essere – sì. Non è vero che un paziente che dica fin dal principio: «Non ce la faccio a venire quattro volte», per questo non possa fare un’analisi. Perché potrebbe soffrire tanto da non poter venire quattro volte, ma disporre tuttavia di una competenza, di una forza del suo Io, nonostante tutto, tale da potere utilizzare il sistema analitico. Questo paziente, mantenuto in un contesto rigorosamente analitico, nel tempo potrà fare più sedute, potrà fare quelle che gli servono; e nello stesso tempo potrà compiere approfondimenti che prima non riteneva possibili. In sostanza, i modi secondo i quali noi affrontiamo la relazione col paziente rappresentano una media sicura, dentro la quale i pazienti possono stare. Ho pensato, e talvolta suggerito, devo dire con buoni risultati, che è più importante la disponibilità dell’analista nei confronti del venire del paziente piuttosto che l’incontrario. Noi dovremmo dire, o potremmo dire a un paziente: «Guardi, io sono qui quattro volte la settimana e lei mi pagherà una cifra che sarà naturalmente minore della contabilità seduta per seduta. Se viene quattro volte, saranno quattro volte, ma lei può venire le volte che vuole». Noi avremmo a questo punto un paziente che effettivamente sa che c’è una disponibilità, che misurerà in base alla propria capacità di sopportare l’incontro, lo stimolo e la successiva riflessione di un certo tipo. Sarà lui che si darà inizialmente delle pause, di un tipo o di un altro. Mantenendo costante la nostra presenza e lasciando che il paziente si adatti all’interno di questa, secondo le sue esigenze. Naturalmente stiamo parlando di casi al margine della nostra esperienza, per i quali può valere la pena di fare delle analisi così, di frontiera, per modo di dire. Credo che per tutto il resto invece le cose dovrebbero rimanere invariate, per quello che finora sappiamo. Non penso che enactment o self-disclosure [il primo è una sorta di «messa in scena» che coinvolge paziente e analista, e che si rende evidente attraverso un loro comportamento; il secondo è una comunicazione privata e personale dell’analista al paziente – ndr] possano essere elementi favorevoli ai fini dell’apertura di nuove prospettive nell’analisi. Ci sono situazioni eccezionali che possono talvolta verificarsi e che danno luogo a un progresso in una analisi. Si tratta di quelle alterazioni temporanee del setting, capitate per caso, che possono mettere in movimento qualcosa di nuovo. Ma un conto è ciò che è capitato per caso, gestito in qualche modo dagli inconsci nonostante tutto «informati» del paziente e dell’analista, e un conto è predisporsi a compiere queste operazioni, che modificano lo stato del rapporto analitico. Ci sono alcune acquisizioni che non possono essere assolutamente abbandonate, perché sono fondamentali, tra le quali l’assoluta necessità di mantenere il rapporto «esogamico» e quelle relative a una sufficiente stabilità del rapporto. Tuttavia esperienze possono farsi, perché esistono delle analisi che cominciano effettivamente con poche sedute nelle quali si fa molto lavoro. Non c’è dubbio che da questo punto di vista la fatica dell’analista aumenta, e quindi possiamo pensare che la sua prestazione diviene più difficoltosa. Si sente più tranquillo nelle condizioni in cui ha a disposizione un numero maggiore di sedute, e generalmente avviene lo stesso per il paziente. Credo si possa dire che mentre noi vediamo la crisi e i pazienti che non vengono, dall’altra parte ci sia ancora tanto interessante lavoro da fare in psicoanalisi. Questo lavoro si fa non ricominciando da capo, buttandosi alle spalle quello che finora è stato fatto, ma ri-impiantandosi su quello che è stato fatto per nuove aperture. Sono 10 convinto, per esempio, che una rivisitazione del concetto di interpretazione sia la chiave per un reale progresso nell’intervento dell’analista nel rapporto col paziente e nell’efficacia terapeutica. Interpretazione non nel senso della Deutung, della significazione, ma proprio nel senso della capacità dell’analista di mettersi nei personaggi che si attivano nel corso delle sedute, cosa che finora insegniamo anche poco, nel senso che una tecnica interpretativa in questa direzione non è ancora oggetto di un insegnamento sistematico. Anche se la mente, la seduta, l’analisi come teatro, e l’attenzione ai personaggi che entrano in scena, sono temi tipici della psicoanalisi italiana, soprattutto negli ultimi decenni. Hai ragione. Petrella ha appena ripubblicato La mente come teatro [Torino, Centro Scientifico – ndr]. Per questo ne parlo con piacere, perché credo che questa sia effettivamente una tendenza e un contributo che l’analisi italiana sta dando in questo momento. I numerosi libri di Antonino Ferro sono un grande repertorio di competenze rappresentazionali, di interventi dell’analista come protagonista, come attore di personaggi che nascono nella seduta. Questo è il punto della efficacia della rappresentazione. Nel lavoro di Francesco Barale su Freud e Theodor Lipps [«Alle origini della psicoanalisi. Freud, Lipps e la questione del “sonoro-musicale”», Riv. psicoanal., 2008, 1 - ndr] si parla dell’aspetto estetico che turbava Freud, che è stato un grande scrittore di testi teatrali ma forse non un ottimo attore personalmente. Oggi a noi è richiesto di scriverli col paziente questi testi, ma anche di mandarli in scena: è quello che dà carne e sangue al discorso analitico. Mi sembra di avere colto un tuo accenno critico all’idea di enactment. A me pare che, quando non venga proposto come una prescrizione metodologica, «fate gli enactment», l’emergere di un enactment sia un momento abbastanza fecondo, sia nelle psicoterapie che nelle analisi. Penso che una condizione indispensabile per metterlo a frutto sia che l’enactment si imponga contro una resistenza: il terapeuta deve cercare di non metterlo in atto. Quando però si realizza, fatta salva questa condizione, appare come una messa in scena ricca di scoperte per entrambi, terapeuta e paziente. Vedi come è profondamente diversa la prescrizione dell’enactment dal raccoglierlo quando si verifica? Il punto è questo: noi dobbiamo, per quanto sia possibile, sopprimere l’azione, perché sopprimendo l’azione verrà fuori la rappresentazione. In proposito abbiamo un testo fondamentale di Freud e un commento a quel testo di Fernando Riolo [«Ricordare, ripetere e rielaborare: un lascito di Freud alla psicoanalisi futura», Riv. psicoanal., 2007, 2 - ndr] che sono straordinari: noi possiamo ricordare, possiamo ripetere, noi dobbiamo elaborare. Gli agiti che compaiono sono forme ripetitive, nelle quali è capitato qualcosa, per cui qualcosa è sfuggito alla parola ed è entrato in un agito. A questo punto il problema è ricatturarlo con la parola. Questo lo puoi fare in quanto ti sei mantenuto in una condizione – come bene dicevi – contro una resistenza. In questo senso sono del parere che non dobbiamo considerarlo a 11 priori tra la strumentazione: quando si verificherà, sarà uno degli strumenti attraverso i quali noi capiremo qualche cosa. Anche l’agito ha un significato traghettatore. Più che uno strumento, un’occasione? Quando si verifica è un’occasione che diventa uno strumento. La cosa importante a quel punto, però, è ricordarci che è uno strumento di traghettamento: ha un punto di partenza, contiene un contenuto, appartenente al mondo del paziente, che sta cercando di esprimersi nel contatto con l’analista. Non è semplicemente una forma camuffata di rapporto tra paziente e analista. È espressione di qualche cosa che ha avuto un suo percorso all’interno dell’analista, evidentemente, e che è sortito in questa situazione piuttosto che in un’altra. C’è un altro punto che mi pare richieda un chiarimento, quando hai parlato delle sindromi psico-sociali e del problema del conformismo. Mi è parso che mettessi sulle spalle dei pazienti del giorno d’oggi una qualche responsabilità, se confrontati con i pazienti degli esordi della psicoanalisi, che erano in qualche modo anche loro, al pari dei pionieri della disciplina, dei coraggiosi indagatori. Mi viene da osservare che molti oggi hanno da lottare contro difficoltà formidabili. L’impoverimento collettivo non è solo una questione di fantasmi, è anche un dato di fatto, se pensiamo alle ultime generazioni che spesso entrano nel mondo del lavoro senza tutela. Mi faccio scrupolo a pensare che sia solo una dimensione immaginaria, quella per la quale si presentano come persone che non hanno molte disponibilità economiche e di padronanza del loro tempo. È diventato più difficile oggi per tutti e due, analisti e pazienti, fronteggiare questa situazione, che richiede abnegazione e coraggio. In un certo senso è stato sempre così, perché, a parte l’episodio di eccezionale concentrazione di psicoanalisti a Beverly Hills negli anni cinquanta del secolo scorso, anche nelle statistiche statunitensi lo psicoanalista era all’ultimo posto tra i guadagni. Tra tutti i professionisti dell’area medica, misurando il compenso rispetto al tempo messo a disposizione, le statistiche mettevano ai primi posti le microchirurgie specializzate e agli ultimi posti il medico generalista, poi il pediatra ed infine lo psicoanalista-psicoterapeuta. L’idea dello psicoanalista opulento è un falso, un mito che non è mai esistito. Certamente oggi la situazione è difficile. Non sono del parere di imputare al paziente l’impossibilità di pagare. Di fatto noi vediamo con evidenza che la diminuzione degli onorari degli analisti sulla base della minore disponibilità dei pazienti è significativa. La situazione che si è creata è più oppressiva, è vero. Questo potrebbe farci pensare che le situazioni di sofferenza che a un certo punto ne scaturiscono (e che si incrociano con le condizioni di sofferenza personali) possano essere più facilmente evidenziabili. Attraverso una diminuzione del conformismo? O non è vero che il conformismo tende invece, da questo punto di vista, a non agitarsi, a conservare per quanto sia possibile uno stato anestetico di torpore e quindi a difendersi dall’analisi, che bene o male i problemi li solleva? 12 Mi sembra che tu attribuisci maggiore responsabilità ai pazienti per il fatto di non darsi, non concedersi tempo. In un contesto nel quale c’è una situazione di intreccio, naturalmente, perché il tempo che non trovano non viene loro neanche dato. Non vi è dubbio che vi è un furto del tempo: è diventata una convinzione generale che un tempo che non è produttivo è un tempo inutile. Noi siamo nel trionfo del negozio e nella lotta sfrenata contro l’ozio, che Cicerone riteneva essere l’unico segno di libertà dell’individuo. C’è un problema di tempo disponibile, di tempo proprio che è continuamente usurato. Da questo punto di vista bisogna dire che l’analisi, questa pratica terapeutica e indagativa, contiene dentro di sé alcuni elementi della condizione umana che sono molto importanti, e che implicano esattamente questo rilassarsi, sospendere, aspettare, non sapere, non decidere, che sono molto in contrasto con i valori culturali correnti. In una certa misura l’analisi è stata e sarà sempre in contrasto con i valori culturali del momento, perché disturba la comodità di un adattamento che è necessario – perché è anche necessario – nel conflitto di base che nasce quando la coscienza «prende» la condizione umana. Questo è il conflitto di base. Poi ci sono tutti gli altri conflitti, fino a quelli più gravi che sono fondati su situazioni palesemente traumatiche, con una complicazione ovviamente assai più grande di quella legata a una conflittualità di base, alle difficoltà che sorgono soltanto con la condizione umana. Riguardo alla diminuzione della frequenza delle sedute d’analisi, segnalata dalla ricerca SPI, un collega anglosassone mi ha chiesto di recente se caratteristiche culturali storiche e tradizionali, o che hanno saputo imporsi in Italia – pensava specificamente al cattolicesimo, all’idealismo e al fascismo – possano avere condizionato l’apertura verso l’analisi (con le sue caratteristiche peculiari di frequenza, durata e finalità) in modo differente da quanto è accaduto in altri paesi. Mi sembra poco proponibile una dichiarazione di questo genere. In realtà abbiamo avuto dei momenti di gloria, momenti durante i quali, per esempio, il fatto che un operatore psichiatrico facesse l’analisi era un titolo anche nei confronti dei concorsi, un riconoscimento. È anche vero che ora, nella maggior parte dei casi, quando si legge o si ascolta, soprattutto sui media, di qualcuno che viene definito psicoanalista, poi si scopre che tale non è. Ritornando al tema della frequenza, c’è un altro fatto da richiamare. Tanti anni fa, in un numero dell’International Journal, comparvero le frequenze massime e minime di sedute, rilevate nelle varie società (spesse volte erano citate società europee) e il numero era da due a quattro. Parlo di altri anni, di altri tempi. È anche vero che in certi gruppi e società analitiche è considerato assolutamente tranquillo il fatto che si facciano quattro o cinque sedute, soprattutto in Sudamerica. Sono società che, possiamo immaginare, non abbiano condizioni economiche floride. La psicoanalisi non è un fenomeno così ampio e generale come a volte sembra. Per esempio, in Inghilterra, che noi consideriamo come un luogo dove la pratica analitica è molto importante e forte, l’analista non ha gran riconoscibilità. È più lo psicologo clinico che viene indicato. In 13 questo senso è più nota la Tavistock Clinic, che pure ha una matrice analitica, che non l’istituto di psicoanalisi britannico. L’analisi come luogo di ricezione di una fascia sociale abbastanza ristretta? Non fascia socio-economica ristretta, ma fascia socio-culturale ristretta. Bianca Gatti ci ha sempre ricordato che è la classe media quella che utilizza di più la psicoanalisi. Se questa classe si assottiglia, per il divaricarsi della forbice socioeconomica, diminuirà la richiesta d’analisi? E come va negli altri paesi? Germania ed Italia sono paesi che hanno visto crescere il numero degli psicoanalisti, che crescono invece molto lentamente in Inghilterra e Francia. E poi la psicoanalisi ha sue proprie difficoltà a crescere, a crescere bene soprattutto. Lo ha ricordato principalmente Bion, che riteneva che dell’analisi si parlasse ormai troppo e che gli psicoanalisti troppo si vantavano di curare gli psicotici («Si mettono la psicoanalisi della psicosi come una piuma sul cappello»). Il rischio era che la psicoanalisi venisse coperta di gloria per poi affondare. Che significa ciò? Che dobbiamo andare avanti e possiamo andare avanti ricordandoci sempre della necessità di un lavoro che non è mai concluso, non può mai essere concluso. Per quanto abbiamo la precisa convinzione che noi, anche se possiamo smettere d’indagare l’inconscio, quello continua a funzionare. Questo è il punto che colpisce. Per altre scoperte si è abbastanza tranquilli: una volta fatte, non c’è motivo di abbandonarle. Questa dell’inconscio, invece, incontra ogni tanto delle situazioni per cui sembra che non perduri. Qui entra in gioco il punto della nostra capacità di mantenere livelli sufficienti e adeguati per fare questo tipo di lavoro, e il nostro tipo di ricerca. Prima si parlava dell’analista e dei suoi pazienti, ma non possiamo trascurare che noi stessi siamo dentro al contesto sociale, quindi noi stessi ne risentiamo e non possiamo evitarlo. Dovremmo essere sì capaci di una certa autocritica, ma sempre limitata, perché facendo parte noi stessi dell’attuale raggruppamento sociale, effettivamente possiamo veicolare anche noi resistenze e difficoltà nei confronti della stessa analisi che noi pratichiamo. Rischiare anche noi delle derive conformistiche. Assolutamente. E se no, perché la nostra formazione deve cominciare con un’analisi che quasi sempre è profonda e preliminare e non è per questo una garanzia sufficientemente sicura? Se no, perché bisogna sempre confrontarsi con questo notevole ritorno della tendenza a rimuovere? Il che nulla toglie al dato di fatto della bellezza degli scenari e dell’interesse per il nostro lavoro, e al fatto che, in altre maniere, gli stessi fenomeni si impongono nell’umanità anche ad altri livelli; per esempio quelli autenticamente artistici, che contengono sicuramente valenze che pertengono allo stesso territorio, e che noi studiamo da un altro punto di vista. 14 INTERVISTA A ANTONINO FERRO Inizio con la stessa osservazione che ho proposto a Di Chiara: Nell’ultima assemblea SPI, il Segretario dell’INT ci ha detto che finora non c’è stata flessione nel numero annuale di richieste d’accedere al nostro training. Sembra che, almeno tra chi aspira ad occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica, in Italia, l’appeal della psicoanalisi sia immutato. In un primo luogo, posso parlarti della mia esperienza a Pavia, dove siamo in un’isola felice. Nel senso che Pavia è una cittadina con 80 mila abitanti e 30 mila studenti, perciò veramente piccola, e noi analisti siamo sedici più i candidati – quindi poco più di una ventina – eppure tanti di noi lavorano soltanto come psicoanalisti. Qui c’è una richiesta d’analisi senza nessuna flessione rispetto agli anni precedenti, anzi direi con incrementi significativi. Per il piccolo esempio di Pavia, che pure ha una storia nella psicoanalisi, legata anche alla tradizione di De Martis, Petrella e della Clinica psichiatrica, richieste d’analisi ce n’è, talvolta addirittura in esubero, per cui alcuni pazienti si spostano addirittura su Milano. Poi, globalmente, abbiamo anche il fenomeno dell’espansione. Se usciamo dai confini di Pavia e parliamo delle cose di cui ho conoscenza, io ad esempio sono Chair di uno dei due Committee per la psicoanalisi in Turchia. Quando sono arrivato là alcuni anni addietro c’erano cinque analisti che erano quasi tutti membri della Società Psicoanalitica di Parigi, formatisi a Parigi, e operavano a Istanbul. Adesso, da quando nel giro di cinque o sei anni si è formato il Gruppo di studio, che diverrà fra poco Società provvisoria, tra candidati ed analisti già formati credo che ad Istanbul siano abbondantemente più di quaranta, più altrettanti nell’altro gruppo di studio di cui è Chair Mira Erlich. E lo stesso sta accadendo in tanti posti, specie nei Paesi dell’Est (e grande al riguardo è il merito del nostro collega Paolo Fonda), in Oriente, e vicino a noi nel Mediterraneo, dove soprattutto le Società francesi si sono fatte carico di attivare nuovi Gruppi di studio, nuove Società provvisorie, che vanno dal Libano al Marocco, tutta la fascia francofona del Maghreb. Si erano spinti addirittura fino all’Iran: c’era stata – e c’è – una mezza trattativa. Direi che la psicoanalisi in senso globale sembra in buona salute. Credo che poi ci siano delle zone sicuramente in flessione ma, se dovessi mantenere uno sguardo globale nel mondo, direi che non possiamo certo lamentarci. Anche negli Stati Uniti. C’era stato un boom della psichiatria biologica, ma visti poi i risultati non particolarmente brillanti, l’analisi ha ritrovato un suo motivo d’essere. Una volta mi sono trovato alla Columbia University, dove facevo delle supervisioni ai candidati della Columbia, un istituto IPA, e questi stessi candidati arrivavano a me dopo un altro seminario sull’imaging cerebrale. Erano psichiatri in formazione, e avevano questa doppia esperienza e doppia formazione: analitica, con gli standard IPA, e contemporaneamente con le più moderne e sofisticate metodologie di psichiatria biologica. Per quanto mi risulta, per i contatti che posso avere, a me sembra che la psicoanalisi sia in un momento felice. 15 Credo che sia importante continuare a mantenere il «marchio di qualità», continuare a intendere per psicoanalisi quella cosa che necessita di almeno tre o quattro sedute. Ciò che invece vedo, con un certo dispiacere, è che anche in ambienti IPA talvolta capita che ci siano terapie – assolutamente legittime! – a due sedute o a una seduta, che però vengono spacciate per analisi. Lo stesso accade coi bambini. Come se ci fosse un po’ il vezzo di chiamare tutto «analisi», mentre io manterrei alti gli standard nell’analisi, al di là di tutte le altre cose che poi formano un’analisi. Il resto sono cose ugualmente legittime, di cui ci può essere ugualmente bisogno. Anche con i bambini, perché con i bambini si assiste a una sorta di tendenza a fare più psicoterapie, a fare terapie che coinvolgono altre persone intorno al bambino. Il che è assolutamente lecito e assolutamente utile, però lo «stampino» di psicoanalisi infantile lo riserverei sempre per i trattamenti dalle tre alle cinque sedute. Non chiamerei tutto «analisi», come fanno molte altre scuole, dalle quali credo che, in questo, è legittimo differenziarci. Nel 2003, la Presidenza dell’IPA aveva fatto circolare un documento ufficiale (credo fosse la prima volta) con cui indicava la necessità di prestare «attenzione strategica» al fenomeno della «crisi della psicoanalisi». Nel documento ne veniva data una definizione: diminuzione dei pazienti che chiedono un’analisi a tre o più sedute la settimana, diminuzione dei candidati che vogliono intraprendere una formazione psicoanalitica, contrazione del tasso di crescita degli analisti eccetera… Il documento rilevava che questi fenomeni erano denunciati da diverse Società psicoanalitiche. Mi sembra di capire, da quel che dici, che per te questo fenomeno è stato relativamente transitorio e che l’Italia costituisce una relativa eccezione rispetto alla lamentata «crisi»? Credo ci siano nel mondo delle aree in cui quanto segnalato dall’IPA è vero, ma credo che questo corrisponda a quelle zone in cui la psicoanalisi è rimasta meno «sparkling», meno frizzante e che, invece, in tutti quei posti in cui la psicoanalisi non è stata tanto una religione che celebrava se stessa ma è diventata un fenomeno vivo, questo non sia accaduto. A Boston, dove c’è il famoso gruppo di studio, c’è un incremento assolutamente notevole di pazienti. Lo stesso a San Francisco. Ci sono delle Società che si sono paludate, addormentate su se stesse, in cui c’è crisi, e credo che sia in fondo anche utile che ciò accada. Dove la psicoanalisi celebra se stessa, dove la psicoanalisi è diventata una religione autoconfermantesi, dove non c’è proposizione di idee e fermenti nuovi accade, e direi per fortuna accade, perché è un segnale che in quel modo non va. In altri posti, dove c’è stato e c’è un movimento psicoanalitico per un motivo o per l’altro vivace e nuovo, questo non si è verificato. Credo che un po’ lo stesso accade anche in Italia. Probabilmente vi sono aree diverse. La SPI si è mossa precocemente e seriamente per indagare il fenomeno, con la ricerca SPI-Eurisko. Ora ti risparmio i dettagli, ma una cosa che emergeva tra le altre era l’esistenza di un evidente trend incrociato, con le analisi in diminuzione e le psicoterapie in crescita. Ciò coincide con la tua esperienza, o pensi che anche questo possa essere stato un fenomeno transitorio? 16 La mia esperienza è limitata, perché è la mia e quella delle persone più vicine. Vedo che molte volte i candidati, per esempio, hanno una specie di paura e di vergogna a chiedere al paziente un numero di sedute alto. Quando poi si fanno coraggio e chiedono le tre o le quattro sedute, il più delle volte si riesce a farle. Poi introdurrei anche questo: tante volte si tratta di poterlo proporre come un punto di arrivo. Come io dico: nuotare fino alle tre o alle quattro sedute con alcuni pazienti. Credo inoltre sia naturale che, se vogliamo fare analisi, vanno anche un po’ ridimensionate le richieste economiche. Se faccio una seduta posso chiedere una tariffa più alta che se ne faccio quattro. In questo ci deve essere un minimo di criterio da parte dell’analista: essere disponibile almeno per un certo numero di ore della giornata a sacrificare l’aspetto del guadagno a favore del poter lavorare anche analiticamente. Credo che anche il fattore economico sia significativo. Solo il fattore economico? Non c’è anche uno sfondo socio-culturale? L’ideologia che oggi trionfa – quella connessa alla cosiddetta «globalizzazione», il consumismo planetario – non sembra molto benevola, e anzi sembra apertamente sprezzante, nei confronti del senso del tempo, dei ritmi e delle finalità della psicoanalisi. Credo che spetti all’analista la capacità di trasmettere quel gusto particolare che ha l’analisi. L’analisi ha un gusto – e un retrogusto – particolare, e secondo me sta all’analista riuscire a trasmettere questo sapore. Se riesci a trasmetterlo a quel singolo paziente, credo che rapidamente il paziente cominci ad apprezzarlo. Credo che una buona parte dipende dall’analista e da come si pone, di far sentire il sapore speciale che ha l’analisi. È come il cannolo o la cassata siciliani: se li assaggi difficilmente puoi farne a meno. Però devi assaggiarli, e non puoi spacciare per cassata alla siciliana il gelato al sapore di cassata che fanno e vendono in tutta Italia: la cassata ha un gusto speciale. Molto sta all’analista di far gustare il sapore speciale dell’analisi, compresi i suoi ritmi, i tempi, oltre a saper fornire – per citare Bion – un buon motivo per tornare il giorno dopo. L’analisi, secondo me, dovrebbe essere un’esperienza non solo dolorosa, come è inevitabile che sia – basti ricordare che sempre Bion diceva che noi diventiamo quello che accettiamo di soffrire – ma anche un’esperienza piacevole e persino divertente. Dovrebbe essere qualcosa che assomigli all’andare al cinema a vedere un bel film. Anche se il film riguarda la propria vita. In certi momenti anche alla Quentin Tarantino, o alla Woody Allen. Ma non necessariamente un film «pizzoso». Ripeto: ben consapevole dell’aspetto di sofferenza che l’analisi ha. Solo che dovrebbe avere anche un gusto e anche dei momenti di piacere di fare l’analisi. Credo che sia una delle cose che un analista dovrebbe poter trasmettere. Non quelle analisi – non so se ce ne siano ancora – molto chiesastiche: il famoso analista muto che non ti parla per sedute e sedute. Super-carismatico. L’analista non è 17 un super-uomo: è come uno che ha avuto la tubercolosi, ha avuto la necessità di farsi una terapia antitubercolare e adesso è capace di passare la terapia antitubercolare agli altri. Oppure nasce come qualcuno con un difetto di fabbrica. Perché se uno fosse uscito dalla fabbrica «normale», integro, avrebbe fatto di tutto tranne che fare l’analista. Ci dovrebbe essere questa consapevolezza, di essere usciti col difetto di fabbrica. Poi in buona misura aggiustati – ma sempre meno rispetto a chi è uscito sano dalla fabbrica – e con questa attitudine e capacità a potere fare la stessa cosa a chi dopo di noi è uscito col difetto di fabbrica, aiutandolo a ritrovare il buon funzionamento che avrebbe avuto se non ci fosse stato il difetto. Tutto sommato, l’analista più che un «plus» lo vedo come un «minus», uno un po’ handicappato che dovrebbe mantenere la consapevolezza del proprio handicap – e anche la specificità e la piacevolezza del proprio handicap, se vogliamo. Mantenendo sempre questo contatto con la propria difettualità, che se non ci fosse stata, lo ripeto, si sarebbe fatto altro nella vita. Qui a Milano gli analisti sono numerosi, la società civile ha caratteristiche un po’ particolari – Milano è una città che va sempre di fretta – così capita spesso che ci siano persone che ti vengono a cercare, che vengono a cercare proprio uno psicoanalista, ma poi non accettano la forma di aiuto che gli analisti hanno selezionato come la migliore – dal loro punto di vista – nel corso della loro storia. Quelli che non vogliono fare le quattro sedute. Di questa fascia di pazienti, cosa dobbiamo pensare? È una cosa un po’ diversa dalla tua domanda, ma non posso non citare l’esempio di Ogden, brillante come sempre, riguardo a un paziente che va da lui e gli dice: io ho bisogno di una terapia, però non voglio fare l’analisi. Ogden gli dice: «Se non vuole fare un’analisi, va bene, ma Lei è disposto a mettersi sul lettino?» «Sì, sì, guardi, per me non c’è nessun problema. Però non voglio fare un’analisi!» «Ma lei è disposto a dirmi quello che le viene in mente, cercando di non sottrarsi a questa indicazione?» «Sì, sì, non c’è nessun problema. Però non voglio fare l’analisi!» «Ed è disposto a venire quattro volte la settimana?» (E questa è la differenza rispetto alla tua domanda, perché tu dicevi del non voler fare le quattro sedute). Quel tizio invece risponde ad Ogden: «Sì, sì, sono disposto a fare quattro sedute, ma non voglio fare un’analisi». E Ogden conclude: «Va bene, non faremo un’analisi. Lei venga e cominciamo a parlarci». È anche possibile fare l’analisi senza sapere di farla, o almeno sotto la necessaria menzogna che non la si sta facendo. Come nelle famose analisi «didattiche», in cui uno dice: voglio fare un’analisi perché voglio diventare un analista, e poi ci mette quattro anni per capire che fa l’analisi perché c’è qualcosa che non va, che è una bugia che vuole fare l’analisi per diventare un analista. Fa l’analisi perché sta male. Ha trovato la scusa per mettersi in contatto col suo difetto di fabbrica. Esattamente. Poi ci sono quelle persone che dicono che non hanno la possibilità per problemi economici. E lì, con «problemi economici» dobbiamo intendere cosa ci stanno dicendo. Spesso i problemi economici non sono «economici» tout court. Sono i problemi di economia psichica. Credo che questi siano i casi che si possono 18 accompagnare iniziando con due sedute e poi, quando sarà il momento, vedere se sarà possibile passare a tre, e se si fosse particolarmente fortunati dopo tre anni passare anche a quattro, ma nei termini di mostrare al paziente che con un numero maggiore di operai l’azienda si sviluppa e produce meglio. Se poi qualcuno, per motivi di altro genere, non volesse fare che una o due sedute, credo che lì stia all’analista guardare alla propria disponibilità e – perché no? – tranquillamente decidere di fare una psicoterapia a una o due sedute. Non vedrei motivo di dire di no, se uno è interessato a fare un’altra cosa, che è la psicoterapia, per la quale credo che ci voglia un’attitudine un po’ diversa rispetto a quella dell’analisi. Noi abbiamo ormai una lunga tradizione riguardo al fare gli analisti, un buon allenamento, abbiamo degli istituti che si occupano della nostra formazione in tal senso. Rispetto ai pazienti che «non vogliono fare l’analisi», ed effettivamente mostrano che disponibilità non ne hanno, non è che siamo carenti? Nel senso che, pensando sempre all’analisi, non ci poniamo il problema del perché questi pazienti non la vogliono fare, e quali possono essere le loro «buone ragioni». In fondo, un analista dovrebbe essere anche come un idraulico, che è chiamato da un signore, una signora, una famiglia. All’idraulico può essere chiesto semplicemente di aggiustare o sistemare un termosifone perché perde. Non vedo perché l’idraulico dovrebbe sentirsi in dovere di cambiare tutto l’impianto idraulico, di rifare tutti i tubi sotto il pavimento, di sconquassare la casa. Dovremmo essere disponibili a offrire quello che il paziente ci chiede. Non credo che l’analisi debba in qualche modo essere imposta più di tanto, o suggerita più di tanto. Credo che ci siano pazienti che si possono giovare più di una psicoterapia ben fatta. Quelli che hanno le loro buone ragioni, come tu dicevi, per non voler fare un’analisi. Seguendo il tuo esempio dell’idraulico, ho l’impressione che una cosa ci colpisca soprattutto, come psicoanalisti. La descrivo riprendendo un commento di Widlöcher a proposito della distinzione tra psicoterapia e psicoanalisi. Widlöcher lamenta il fatto che nel caso di questi pazienti che chiedono di «non fare» l’analisi – purtroppo non nel senso del paziente di Ogden –, si parte sperando che prestare attenzione allo «psichico», nelle sue diverse manifestazioni, stimoli una curiosità psicoanalitica. Nell’ambito della cura, un miglioramento clinico dovrebbe favorire l’interesse dei pazienti verso la psicoanalisi nella forma piena. Un buon inizio di psicoterapia dovrebbe facilmente aprire la strada a una psicoanalisi. Invece nella maggior parte dei casi – lamenta Widlöcher – le cose non vanno così, e ci troviamo costretti a interventi fatti di mezze misure e/o a psicoterapie senza fine. Mi veniva in mente, pensando al tuo esempio dell’idraulico, che questi pazienti ti possono chiedere di passare con una certa regolarità, magari una volta alla settimana, a vedere se c’è da mettere a punto qualche sgocciolio, ma non ti chiedano più di quello e creano queste situazioni di terapia a bassa frequenza e senza fine così sconcertanti per noi. 19 Tante cose mi vengono da dire. La prima riguarda quei pazienti che hanno il mostro del Loch Ness, ma non lo sanno e vorrebbero lasciarlo nel fondo del lago (perché in fondo non dà neanche particolari disturbi), e l’analista intuisce che c’è il mostro del Loch Ness. Là dipende anche dall’analista, se si vuole cimentare con un paziente da cui prevede che prima o poi salterà fuori il mostro oppure no. Quella è una scelta molto personale, tant’è vero che abbiamo la vexata quaestio dei criteri di analizzabilità: qual è il paziente analizzabile e quale non lo è. Taglierei via quest’aspetto, nel senso che guarderei più ai criteri di cimentabilità dell’analista: è l’analista che deve sapere sin dove lui sente di potersi spingere. Ci può essere un analista che dice: io al di là del coniglio non mi sento di andare; uno che dice: io sino alla tigre me la sento; uno che dice: mah, uno sguardo al mostro del Loch Ness lo darei volentieri, non mi fa paura. Penso che sia una questione di quanto l’analista si possa sentire Tarzan e quanto Don Abbondio. Anche legittimamente Don Abbondio: non è detto che l’analista debba essere sempre Fra Cristoforo. Uno deve sempre commisurare le proprie risorse come analista. Meltzer diceva che il suo vero criterio dell’analizzabilità erano gli spazi vuoti che aveva nell’agenda, che non mi sembra male come criterio. Se la sentiva di prendere anche pazienti col mostro del Loch Ness. Un’altra cosa vera è che dobbiamo tener conto che c’è scuola e scuola. C’è la scuola psicosomatica di Parigi, di Marty e compagni – un’eccellente scuola, ormai diventata una società che fa praticamente un training parallelo a quello della SPP, direi con gli stessi insegnanti, ottimi analisti – che in fondo sostengono che di fronte ad un paziente psicosomatico il lavoro migliore che può essere fatto sono le due sedute vis à vis. Un analista di formazione inglese, un analista della British per esemplificare, lo stesso paziente lo metterebbe cinque volte sul lettino. I criteri di analizzabilità nella psicoanalisi francese sono molto più restrittivi rispetto a quelli di formazione britannica. Ho sempre problemi col computer e un bel giorno il mio «computerologo» mi ha proposto che gli paghi un tot all’anno, e lui si renderebbe disponibile per tutti gli interventi che fossero necessari. Perché no, allora, la seduta a richiesta per tutta la vita? «Anziché cambiare tutti i tubi sotto al pavimento, i termosifoni eccetera, io sarei più contento se posso chiamarLa, ed ogni volta che c’è un termosifone o la doccia che perde, anziché cambiare tutto, io vengo, e Lei», dice il paziente al terapeuta/idraulico, «mi cambia la doccia o mi aggiusta la perdita». Why not? Il titolo del film di Woody Allen è formidabile: «Basta che funzioni». Deve essere in fondo il paziente a dirmi che cosa vuole, mica posso imporgli la mia verità o la mia soluzione. Se lui vuole una soluzione «basta che funzioni» e un contratto del genere di quello che ho io col mio esperto informatico, mi chiederei appunto perché no. Il meglio è talvolta nemico del bene. Suggerirei, fin tanto che è di buon gusto, di chiedere a un paziente di incrementare, di «nuotare» fino alle quattro sedute, di «nuotare» fino al lettino. Se poi vedi che ha la fobia dell’acqua – Dio santo! – andiamo in montagna. L’analisi è stata la migliore soluzione per noi; non è detto che debba esserlo per tutti. È come per la penicillina: ci sono anche quelli allergici alla penicillina. Non mi porrei mai nell’ottica di giusto o sbagliato, ma di cos’è meglio per quella persona in quella situazione. 20 E anche per quell’analista. Anche per quell’analista. Come credo che ci sia anche il diritto che un analista possa dire: guardi, io faccio soltanto analisi, perché io sono capace soltanto di fare quella cosa. In questo caso sarebbe augurabile che l’analista potesse farsi carico di un invio di quel paziente a una persona di cui si fida e che sapesse fare altri tipi d’intervento, psicoterapie ben fatte che sono assolutamente utili e preziose. Perché non ci preoccupiamo tanto, mi verrebbe da chiedere, di quello che ci potrebbero insegnare queste situazioni? Per esempio, nella formazione analitica la psicoterapia non c’è tanto, né come tecnica da applicare, né come campo d’esperienza che possa fornire indicazioni e insegnamenti. Capisco il tuo discorso, che bisogna mantenere la distinzione tra quello che è analisi e quello che non lo è. Tuttavia ho l’impressione che in quello che non è analisi c’è un sacco di insegnamenti circa aspetti non ancora concettualizzati del funzionamento della mente. Non rischiamo di perdere questa informazione? La dobbiamo lasciare elaborare alle scuole di psicoterapia? Credo che quel che noi sappiamo della mente umana sia grosso modo il 3%, e il bello della psicoanalisi è questo, che in fondo se noi riconosciamo di sapere il 3% abbiamo il 97% che non sappiamo e – secondo me – la vera ricerca psicanalitica è cercare di dare un nome a questo 97%. Per questo l’analisi è stupenda, perché se noi ci mettiamo a lavorare su quel 97% che non sappiamo, purtroppo poi scopriamo che è il 127% che non sappiamo. Cioè: più ne sappiamo, più si espande l’area di mistero. Per questo l’analisi è bella, perché è come un’avventura, come Sandokan e le tigri di Mompracen, come Verne, come Indiana Jones. Per questo dico che uno psicoanalista dovrebbe saper trasmettere anche al bibliotecario più smorto il gusto per l’avventura e la scoperta, anche se questo comporta sofferenze, come dicevamo. Il rischio è che noi, anziché considerarci degli addetti alla ricerca, ci consideriamo dei santoni della Verità, tra i quali poi l’analista «Alfa plus» – cioè il massimo grado dell’analista – si consideri uno che, per ciò stesso, sa fare psicoterapie, sa occuparsi di bambini, saprebbe guidare anche il Nautilus, ma non in senso metaforico: in quanto analista è uno che sa fare tutto. Non è affatto così. Nel nostro training le psicoterapie non si insegnano assolutamente. Non solo, c’è anche la pretesa di dire che noi sappiamo qual è la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: ma se non sappiamo nulla delle psicoterapie, come facciamo a dire la differenza qual è? Per definire la differenza tra scarpe e sandali, devo anche avere l’idea di cosa è il sandalo; non posso dire ogni volta che c’è una scarpa che non mi convince che questo è un sandalo. Perché in certe occasioni, per esempio d’estate, il sandalo va meglio delle scarpe. Credo che dovremmo avere nel nostro training corsi di psicoterapia fatti da analisti che si sono particolarmente interessati ed impegnati in questo campo, che ci insegnino che cosa è la psicoterapia e che cosa tecnicamente vi si fa di diverso, e che ci aiutino a capire quando stiamo usando più strumenti psicoterapeutici che non squisitamente analitici – il che piacerebbe capire anche a me. Una delle offese più terribili che si possono fare a un collega è dirgli: questa non è analisi, è psicoterapia! Ognuno poi si inventa una sua particolare Gestalt di riconoscimento della psicoterapia; 21 allora è psicoterapia se non c’è questo, se non c’è quello. Poi ognuno s’inventa la sua. Sono cose che non sappiamo. Dovremmo studiarle e poi le sapremmo, quel tanto che ci è dato saperne. Secondo te, quali sono gli ingredienti di base dei nostri cannoli e delle nostre cassate? Gli ingredienti della psicoanalisi per i quali si può dire: ci vuole questo, senza questo non c’è cannolo, non c’è cassata. Poi ci vorranno altre cose, quali l’arte di cucinarli insieme, di prepararli e anche di venderli, ma questi sono gli ingredienti indispensabili. Direi, intanto, un’attitudine mentale dell’analista che è quella di essere un buon navigatore dell’inconscio. Un esempio viene dal congresso IPA di Mexico City, il cui titolo è abbastanza onnicomprensivo – inconscio, sessualità, sogni [il congresso si è tenuto nella capitale messicana dal 3 al 6 agosto 2011, ed un saggio dei lavori presentati è reperibile sulla Rivista di psicoanalisi, 2011, 2 - ndr]. Credo che il concetto di inconscio è un concetto che non ha esaurito assolutamente il suo motivo di esistenza, anche se è molto cambiato. Da Bion in poi l’inconscio è qualcosa che viene formato dopo il sogno. Abbiamo tanti cambiamenti in psicoanalisi e facciamo finta che non ci siano. Quali possono essere le altre cose senza le quali non c’è psicoanalisi? Uno, che l’analista abbia sperimentato un’analisi sufficientemente buona, che è quello che lo rende un buon navigatore dell’inconscio, ma che non pensi di essere analizzato una volta per tutte, e che sia curioso di continuare a fare il suo viaggio. Poi che abbia il piacere sempre di esplorare nuove zone e di creare nuove mappe di quello che non sappiamo: che non ci siano pazienti scontati, ma sempre ogni volta avventure nel mondo, viaggi sconosciuti. Di non fare viaggi organizzati. Come punti centrali, direi, il sapere che l’analisi in fondo è aiutare il paziente a continuamente creare un proprio inconscio; non volere dimenticare quello che dice Ogden, che scopo della psicoanalisi dovrebbe essere quello di aiutare il paziente a fare, insieme all’analista, quei sogni che non è stato capace di fare, e che sono diventati sintomi. Riuscire nell’operazione inversa, trasformare il sintomo in sogni condivisi dentro la stanza d’analisi. Qui c’è tutto un cambiamento di prospettiva, perché non è più l’analisi in quanto scoperta di contenuti scissi o rimossi eccetera, ma l’analisi diventa: sviluppare gli strumenti di cui ogni essere umano può disporre, per ampliare continuamente le proprie attitudini a pensare e a sognare. Un’altra cosa che non può mancare assolutamente, quindi, è il livello onirico della comunicazione, l’analisi come qualche cosa in cui ogni volta «si spengono le luci, tacciono le voci, e nel buio senti sussurrar “Scusi, vuol ballare con me?”». Ogni volta essere disponibili a ballare quel ballo che può andare dal tango al rock e può anche essere, invece, fare a botte. Il gusto per l’avventura dell’analista, che lo sappia trasmettere al paziente. E il gusto del nuovo, il gusto del nuovo, il gusto del nuovo… Non la celebrazione di quello che sappiamo, di quello che siamo e di quello che siamo stati. Aprire porte e finestre e guardare fuori e al nostro futuro, riuscendo a distinguere l’utilità e la fondamentalità delle cose passate, ma 22 riuscire a capire che oggi nessuno si farebbe operare la prostata con i metodi che si potevano usare in chirurgia cent’anni fa. Adesso c’è l’interventino per la prostata, che fanno addirittura in endoscopia, e dopo mezz’ora il paziente si alza e fa la pipì, non c’è neanche bisogno di degenza e il giorno dopo è a casa. Se amiamo veramente l’analisi, dobbiamo fare come re Salomone, che disse che la vera mamma era quella capace di staccarsi e rinunciare al proprio bambino purché vivesse. Secondo me, ama veramente l’analisi chi permette all’analisi di staccarsi dal suo passato e di volare via verso il suo nuovo e sconosciuto futuro. Mi sembra che tu ribalti un po’ la questione della disponibilità di tempo e disponibilità all’analisi, nel senso che proprio in quanto è una cosa che libera, è un vero viaggio avventuroso, sarebbe un vero peccato se qualcuno se lo limitasse. Perciò, da questo punto di vista, la richiesta di vedersi di più è una richiesta legata alla sensazione che sarebbe un vero peccato organizzare il viaggio con tappe troppo distanziate, prima di tutto proprio per il paziente. In uno dei suoi seminari – come ricordavo sopra – Bion dice: ogni seduta dovremmo dare al paziente un buon motivo perché ritorni la seduta dopo. In fondo deve essere un po’ come in quegli abominevoli serial televisivi in cui aspettiamo tutta una settimana per vedere la puntata successiva, e uno si dice: «Ma quando arriva venerdì, che fanno Ris 2?» Noi dovremmo essere Ris 4, perché facciamo quattro sedute… Il paziente e l’analista dovrebbero avere la stessa intensa curiosità per vedere cosa succede, come la puntata successiva risolve il problema aperto dalla precedente, e ne apre degli altri. Non come in quelle analisi noiose in cui già si sa che ci deve essere la scena primaria, e la castrazione, e l’angoscia di questo e di quello. Quelle analisi già sapute, col libretto come nei viaggi organizzati. C’era un vecchio film che mi pare si chiamasse «Se è giovedì è il Belgio»: lo sapevi dal giorno, dove eri. Quelle analisi in cui già sappiamo tutto o quasi di quello che deve accadere, di quello che dobbiamo trovare, e se il lenzuolo è insanguinato, è qualcosa che riguarda la scena primaria. Ma se il lenzuolo è insanguinato, potrebbe essere uscito il sangue dal naso a qualcuno; se il lenzuolo è insanguinato, potrebbe essere stato un delitto e qualcuno che ha ucciso qualcun altro su quel lenzuolo; quella potrebbe essere salsa di pomodoro sul set di un film. L’analisi che non sa: è quello il bello. Perché ci piacciono i Ris? A chi piacciono, ovviamente; a me piacciono e aspetto sempre la puntata successiva. Perché deve essere una cosa che apre, sia pure con sofferenza, al piacere della scoperta. Pensi di avere qualcosa da aggiungere, per concludere? L’analisi nasce come peste e per tanti anni è stata pestifera. Freud andando negli Stati Uniti diceva: noi stiamo portando la peste. Non stava portando antibiotici. Temo che l’analisi abbia un po’ perso questo carattere pestilenziale – e pestifero. E che talvolta gli Istituti di training facciano qualcosa di simile al battesimo cristiano. Al battesimo cristiano al bambino si chiede: «Rinunci a Satana?» (Per giunta non è neanche lui a rispondere, è un padrino che parla per bocca sua; lui poverino non 23 risponde). E il poverino risponde, ma con la bocca di un altro: «Sì, rinuncio a Satana». Credo che talvolta gli Istituti di training abbiano questa funzione, di far rinunciare i candidati a Satana. Credo che l’analista debba essere, invece, pestifero e capace di salvare quel tanto di satanico di cui c’è bisogno nella vita, soprattutto per non celebrare il rito dell’analisi, ma andare sempre alla ricerca di quello zolfo, di quel satanico, di quel misterioso che proprio perché è misterioso assume il sapore del satanico. Poi, man mano che lo si conosce… Se noi pensiamo all’analisi sempre come qualcosa di cui già sappiamo tutto, di cui sappiamo la giusta soluzione, sappiamo le coordinate, diventa tremendamente noiosa. Io non andrei assolutamente a fare un’analisi così. Non rinuncio a Satana, ecco. Oggi lo posso dire con la mia bocca. E non vorrei che gli Istituti di psicoanalisi fossero degli esorcisti, che ci fanno rinunciare al nuovo, allo sconosciuto, che ci fanno sempre celebrare i fasti del nostro passato. 24