VITA DI T. STROCCHI I VITA DI T. STROCCHI II VITA DI T. STROCCHI III Tito Strocchi garibaldino lucchese fra Mazzini e Garibaldi La stragrande maggioranza degli italiani quando pensa a un eroe ha in mente proprio Lui, Giuseppe Garibaldi, il Generale dei Mille, il Padre della Patria, l’ Eroe dei Due Mondi con dentro al cuore l’idea di un’Italia unita. A Garibaldi è toccato, forse anche al di là delle sue intenzioni, quanto non è riuscito a nessun altro personaggio nel corso di un secolo e mezzo di storia nazionale unitaria: entrare in profondità e in maniera duratura nell’immaginario collettivo, quello borghese e quello popolare, quasi circonfuso da una sorta di laica sacralità. Un fatto unico nella storia unitaria del nostro Paese, meritevole di attenzione perché tanta parte della nostra mentalità, della nostra percezione delle vicende pubbliche, le stesse idee di politica, repubblica, democrazia, solidarietà si sono plasmate in relazione all’operato e alla figura di Giuseppe Garibaldi. Nel corso di un secolo, dalle battaglie risorgimentali alla scelta di combattere il fascismo e il nazismo nella Resistenza, migliaia di italiani, di tutte le età e i ceti sociali, indossando, materialmente o idealmente la sua umile divisa, la camicia rossa, hanno, infatti, contribuito a rendere l’Italia quale la conosciamo oggi: unita, democratica, repubblicana. Tra gli innumerevoli giovani cresciuti alla luce intensa del mito garibaldino, spicca, per generosità, umanità, coraggio anche un figlio della nostra VITA DI T. STROCCHI IV Lucca: il lucchese Tito Strocchi (1846 - 1879), giornalista, avvocato, poeta, volontario nelle terza guerra d’indipendenza, a Mentana e nella guerra franco – prussiana. Cospiratore mazziniano, proprio per la radicalità delle sue convinzioni risultò personaggio controverso anche nella sua città, amato o avversato in un tempo in cui ancora fervide si agitavano in Toscana e nel resto del Paese le passioni di un processo nazionale unitario complesso e tormentato. Nondimeno Tito Strocchi fu una bella figura e una bella persona, tanto appassionata e generosa quanto disinteressata e povera. La sua nobile, breve esistenza rappresenta un esempio di coerenza con i valori e i principi che hanno animato la gioventù’ di un secolo e mezzo or sono: amor di patria, rifiuto di qualunque forma di oppressione e dispotismo, ricerca appassionata di una risposta politica a una sempre più urgente ‘questione sociale’. Convinzioni semplici e grandi insieme che dovrebbero tornare a ispirare anche le giovani generazioni di oggi, che percepiamo spesso disorientate e smarrite, di fronte a un presente dalle difficili prospettive. Noi ci auguriamo che le pagine della rinnovata pubblicazione della Vita di Tito Strocchi, scritta a due anni di distanza dalla scomparsa del volontario di Digione a opera del suo collega e amico Enrico Del Carlo possano trovare occhi e cuori attenti e ci aiutino a capire più e meglio qual è l’eredità storica che ci portiamo dietro come comunità nazionale. Cosa significhi, oggi, essere italiani. In quale misura la storia italiana può essere ancora considerata una preziosa miniera di identità. Quale idea di Italia vogliamo avere per il futuro. VITA DI T. STROCCHI V Presentiamo pertanto la ristampa della Vita di Tito Strocchi di Enrico Del Carlo, nel contesto delle Celebrazioni del 150°Anniversario della Spedizione dei Mille anche con un Convegno di studi sul mito garibaldino in Toscana e nella prospettiva della riapertura, che auspichiamo imminente, del Museo del Risorgimento di Lucca. Dr. Stefano Baccelli, Presidente della Amministrazione Provinciale di Lucca Lucca, Maggio 2010 VITA DI T. STROCCHI VI VITA DI T. STROCCHI VII La camicia rossa di Tito Strocchi: uniforme gloriosa e insegna di libertà Questa inziativa della ripubblicazione de “La Vita di Tito Strocchi” scritta dall’avvocato Enrico Del Carlo, nel 1881, due anni dopo la morte immatura dell’amico, nasce da un progetto di cui l’Anpi, Sezione Intercomunale di Lucca, si è fatta capofila nel quadro delle celebrazioni per il 150esimo della Impresa dei Mille, promosse dalla Provincia di Lucca. L’ANPI, che si batte da sempre per la tutela della democrazia , la difesa della Costituzione repubblicana, e soprattutto la conservazione della memoria storica., ha voluto valorizzare questo patrimonio locale di memorie del movimento repubblicano a Lucca di cui Tito Strocchi rappresenta la figura più significativa e originale. Il garibaldino Tito Strocchi, poeta, avvocato, ma soprattutto patriota, come emerge dalle pagine di Enrico del Carlo, è ancora vivo e capace di coinvolgerci per l’esempio che ci trasmette di esclusiva passione politica e di partecipazione generosa e disinteressata agli avvenimenti del nostro Risorgimento. La sua vita fu brevissima e intensissima, soprattutto illuminata dalla fede repubblicana e dalla speranza di un'Italia migliore e più libera, affrancata dal giogo della Monarchia e della Chiesa. Nella liberazione dell'Italia dai vincoli che ancora la tenevano disunita e asservita, fu al fianco di Ga- VITA DI T. STROCCHI VIII ribaldi nell'impresa di Mentana e in Francia a Digione, per la risorta Repubblica francese, contro i Prussiani invasori. Nel 1870, come capo dell’Unione Repubblicana Universale di Lucca, cospirò, con l'appoggio di Mazzini , per la sollevazione del territorio tra Lucca e Pescia, senza successo, ma con sincero spirito di libertà. Tutti avvenimenti che, agevolmente riusciamo a leggere quasi in presa diretta, come se a narrarli fosse lo stesso Tito, soprattutto per le copiose citazioni.Vorrei anche sottolineare come nascono i miti e come la storia dimostri più continuità di quanta non ci aspetteremmo con le parole del nostro, lasciatemi dire , prode Tito: « Qual grandiosa epopea è quella del volontario italiano in questi ultimi anni di rivendicazione!…La camicia rossa sarà sempre una insegna di gloria e di libertà; i fortunati che hanno potuto indossarla la mostreranno ai loro figli, raccontando loro le battaglie che essa ha vedute, lo sgomento che ha ispirato a tanti nemici. Essa ha veduta la fronte, spesso le spalle di tre eserciti. La camicia rossa sarà una veste tradizionale di vittoria che i nostri posteri ricorderanno; essa è la uniforme dei liberi figli della patria che tutto hanno abbandonato per volare a morire in sua difesa; essa è l’aureola dei martiri di questa terra gloriosa, è l’insegna della libertà.»1 1 Vita di Tito Strocchi, di Enrico Del Carlo, pg..XLIX, premessa all’opera postuma di Tito Strocchi, Lucrezia Buonvisi, Racconto storico lucchese del secolo XVI, Tipografia, Editrice del Serchio 1882, Lucca, VITA DI T. STROCCHI IX E’ per questo , e in sintonia, con il movimento garibaldino, che durante la Resistenza numerose formazioni partigiane scelsero di richiamarsi nel nome alle Brigate Garibaldi, di cui condividevano lo spirito e i valori. Dott.ssa Paola Rossi Vicepresidente dell’A.N.P.I., Sezione Intercomunale di Lucca Lucca, Maggio 2010 VITA DI T. STROCCHI X VITA DI T. STROCCHI XI ENRICO DEL CARLO VITA DI TITO STROCCHI VITA DI T. STROCCHI XII VITA DI T. STROCCHI XIII I. Parlare convenientemente d’un amico col quale abbiamo trascorso gli anni migliori della nostra vita, morto quando il suo ingegno stava per affermarsi con opere degne di vivere ne’ ricordi non solo della sua città natale, ma nel mondo universo del pensiero e dell’arte, non è impresa da poco. Pure io mi pongo a farlo con quella fiducia che ne assicura l’amore che mi unì a lui, e che sì cara ancora mi rende la sua santa memoria. Pochi giovani ho conosciuto come lui sì pieni di fede e di ardimenti, sì ricchi di studi e di opere nobilmente pensate e compiute; e senza dubbio nessuno tanto sventurato per vicende private e pubbliche a soli trentatre anni di vita. La quale fu tutta un sacrifizio per la libertà, una lotta continua per l’esistenza; sicchè le più belle speranze della giovinezza videsele svanire a una a una, e la sua vita operosa venir meno e spengersi senz’altro compenso che la stima e l’affetto di pochi. Povero amico! Che il tuo nome sia benedetto in eterno, e quel poco che io potrò scrivere di VITA DI T. STROCCHI XIV te, porga almeno esempio efficacissimo alla gioventù italiana, del come si deve amare la patria, per lei combattere e per le sue libertà; e come soltanto una fede viva, illimitata, costante nella verità di certi principii possa render tetragoni contro la corruzione de’ tempi e gl’infingimenti de’ più! VITA DI T. STROCCHI XV II. Nacque il nostro Tito in Lucca il 26 giugno 1846 da Stefano Strocchi e da Giovanna Consolini, ambedue di modestissima famiglia romagnola, essendo Stefano di Forlì, Giovanna di Brisighella. Giovinetto frequentò con profitto la scuola di disegno e di architettura nell’accademia lucchese di Belle Arti: studiò grammatica latina e le umane lettere nelle scuole dette di santa Maria nera, dove per la povertà dell’insegnamento che vi impartivano i Chierici della Madre di Dio, e per la non molta sua assiduità alle lezioni imparò poco: compì gli studi classici e apprese gli elementi di Filosofia e di Matematica nel patrio Liceo. Fino a que’ primi anni però dette prova di avere un ingegno svegliato, pronto, e molta disposizione alla poesia; ciò che lo indusse assai per tempo a scrivere versi con una facilità e varietà di metro sorprendente, con una vivezza di immagini e forza di sentimento poco comuni ne’ giovani della sua età; frutto ricavato da’ nostri migliori poeti, che leggeva del continuo e con molto piacere. « L’arte mi mancherà, scriveva egli di que’ giorni, mi mancherà tutto ciò che può fare di me un poeta, sì che io non sarò al- VITA DI T. STROCCHI XVI tro che un ignorato scrittore, nè mai avrò fama fuor che ne’ miei sogni: ma pure il genio che mi ha dato la natura io mel riconosco: per me basta il trovarmi nel silenzio della solitudine, perché tolga un foglio e scriva; me la veduta di una campagna trasporta, me il silenzio di una placida notte inebria(1)… ». Ricco di cuore e di fantasia, ugualmente presto si svegliò in lui l’amor di patria; e se non gli fosse stato d’impedimento la troppo giovane età, si sarebbe certo trovato a combattere tra i volontari garibaldini nel mezzogiorno d’Italia nel 1860. E nel 1862 fu la catastrofe d’Aspromonte che gli troncò a mezzo i suoi più be’ sogni. « Verso la metà del mese d’agosto, egli scrive, anzi prima, i giornali, i fogli pubblici incominciarono a parlare del generale Giuseppe Garibaldi che fatto appello agl’italiani, chiuso nel bosco di Ficuzza vicino a Palermo, ordinava i suoi volontari per marciare su Roma. Io rammentavo sempre i miei sentimenti provati nel 1860, quando Garibaldi era in Sicilia, il mio dispiacere di non poterlo seguire a cagione della mia poca età; io li rammentavo e troppo, perché non pensassi alla prima occasione di correre sotto il prode Generale e battermi io ancora per questa mia patria, che ho imparato ad amare fin da i miei primi anni. Per cui io unitamente a molti miei amici prefiggemmo partire appena Garibaldi uscito di Sicilia (troppo lontana per noi) s’avvicinasse a Roma. D’allora in poi quell’idea formò la natura 1 Sia detto una volta per sempre. Quel che si legge di virgolato in queste pagine è tolto con esattezza scrupolosa, sia pel concetto sia per la forma, da Memorie, Lettere, ed altri scritti varii del caro Estinto, inediti la maggior parte e meritevoli di esser pubblicati. VITA DI T. STROCCHI XVII d’ogni mio pensiero; io anelava il momento della partenza, e mi sognava la mia futura vita del campo, gravato della mia carabina in sentinella avanzata in una bella notte di autunno sui campi romani… Ohimè, la realtà troncò spietatamente tutti que’ bei sogni!.» S’iscrisse come studente di Giurisprudenza nell’Università di Pisa il 1863, e co’ migliori intendimenti, deciso proprio, com’è diceva, di metter capo a partito, di studiare e far bene. Ma non fu poi così; chè pochi giovani io credo, si gettaron come lui con tanta voluttà nella vita spensierata dello scolare: debiti, orgie, stravizi d’ogni sorta. Era poi così vago di promuovere avventure e di figurarvi come protagonista che a malincuore mi trattengo dal riprodurre qui qualche episodio di questo suo periodo di scapigliatura. Tanto più che ne lasciò descritti alcuni con tanta evidenza che ce lo rappresentano tal quale egli era, con quel suo carattere franco e con quel suo spirito arrischiato che in seguito poi lo resero sempre così pronto e imperterrito dinanzi a qualsiasi pericolo. Ma oltre i limiti segnati a questo mio scritto, mi impediscono di farlo anche certi riguardi personali che ogni scrittore onesto deve avere. Vivendo in mezzo a questo bailamme, nessuna meraviglia pertanto che il nostro amico sentisse avvicinarsi ogni anno il tempo degli esami con rammarico e disperasse di vincerne la prova, che poi sempre o quasi sempre vinceva, un po’ aiutato dalla fortuna e più dal suo ingegno e da quel miracolo di memoria di cui era fornito. « Ho letto sopra un giornale, sono sue parole, che una persona piangeva se vedeva delle anguille, che un’altra VITA DI T. STROCCHI XVIII restava confusa e distratta alla vista dell’insalata, che un’altra se odorava delle patate versava sangue dal naso, che un guerriero valorosissimo aveva paura ad assalire un sorcio colla spada alla mano, e tante altre strane e inesplicabili antipatie, per cui quasi quasi mi persuaderei che fosse un mio difetto naturale questo di provare tanto orrore alla vista dei temi per l’esame. Bisogna convenire però che è un difetto che si riscontra in molti e specialmente quando hanno assunto con isfacciata menzogna il nome di studenti!». Ma questa sua avversione allo studio delle discipline legali, è da lui meglio colorita con queste parole che riproduco, vera fotografia dell’animo suo in que’ giorni d’ incertezza intorno al proprio avvenire. « Ah fortuna, esclama, perché mi desti tu tanto odio per l’applicazione noiosa, se non volevi poi darmi i mezzi per soddisfare queste tendenze del mio animo irrequieto? Io doveva essere un artista, un comico o un musico, e allora lo studio non mi avrebbe prostrato. Ma le applicazioni libere del genio, cui l’anima simpatizza, dovevano solamente conoscersi da me per desiderarsi e ardentemente desiderarsi; perché io devo procurarmi uno stato certo, consentaneo ai bisogni del secolo, che mi dia dell’oro; perché bisogna che giorno per giorno io mi mantenga la vita, e non posso assicurare il mio avvenire sopra una voce del cuore che mi dice: ribellati, vola, ma che non mi dà diplomi!... Io sento qui dentro di me dove non ci s’inganna, che io sarei un giorno più bravo comico o musico, di quello che non sarò avvocato; che dovrei soffrire per questo meno privazioni e abnegazioni. Ma che fare? la necessità mi ha condotto fin qui, posso io tornare in dietro?…Dunque VITA DI T. STROCCHI XIX studia, studia, gettati sulle Istituzioni Imperiali; sul Codice di Commercio e prepara nella tua testa il magazzino dei cavilli, delle chiacchiere che dovrai aprire e vuotare fra qualche anno. Studia, l’esame è vicino, queste pastoie che c’inceppano il volo! tuo padre, pover uomo, aspetta il buon esito del tuo esame; gli amici ti guardano; i professori che non hanno l’onore di conoscerti, quel giorno mettendosi gli occhiali sul naso ti squadreranno e attenderanno da te la rivelazione di quello che hai imparato alle loro lezioni, alle quali non sei mai stato; studia, perché tu senza proporzione sai più cavatine, più barcarole, più rondeaux, più côri che regole e principii di giurisprudenza; studia perché non potrai cantare a quei marmorei professori una melodia di Bellini, o recitare loro un brano di Shakespeare. Studierò, studierò…» E qui come trascinato dalla forza di que’ pensieri che ognora più lo allontanavano dalle fredde carte di scuola appena aveva fatto proposito di studiarle, con passione e verità ci rileva un altro stato dell’animo suo, ci fa conoscere com’e’ sapesse poeticamente amare. Ascoltiamolo: « Che bella notte! Il cielo è sereno e trasparente come la pura onda d’un ruscello, le stelle brillano avvolte nelle loro zone di freddo aere, misteriose, inesplicabili come colui che le ha create. La luna è la regina del cielo; essa è là tacita, mesta, soave come un sospiro dell’anima, e inonda la terra di una luce che ci avvolge in un’aura di pensiero, d’inesplicabile mestizia. Un lieve venticello rapito dalle onde del mare spenge gli ardori del giorno e passa, come la gioia che cancella una ruga del volto e un dolore dall’anima e fugge per non tornare mai più. Il Creatore volando VITA DI T. STROCCHI XX di stella in stella si aggira per lo spazio immensurabile dei Cieli rimirando con compiacenza a bellezza dell’opera sua. Il silenzio interrotto costringe il pensiero. Io appoggiato sul davanzale della mia finestra, attratto dalla bellezza del creato, penso alla creatura. Penso a colei che nella agitazione della mente, nei palpiti del cuore, nel desio della vista, nell’ irrequieto sognare mi rivelò l’amore. Eros, dormirai tu adesso il tacito sonno della gioventù, o condotta dalla medesima simpatia che me pure trascina, starai contemplando le stelle che brillano, la luna che attrae come avesse una misteriosa corrispondenza colle anime il firmamento che attraverso la sua limpidezza lascia quasi vedere i misteri dell’infinito?…Se tu poggiata la bella testa sul braccio candido dormirai come il fanciullo nel grembo della madre, se confusi nella tua mente si aggireranno i sogni della giovinezza, possa questo mio pensiero, questo mio sospiro giungere tacito fino a te, ed aggirandosi intorno al tuo labbro, intorno alle tue chiome, sussurranti l’amore che mi arde, se tu invece sul tuo balcone ascolterai il silenzio della notte, aspettando che in lontananza si oda il gorgheggio della mia voce e l’arpeggiare della mia chitarra, voli l’anima mia presso di te, mio angelo, e colla tua si trattenga in dolce colloquio d’amore, e bassamente ti mormori quello che fino ad ora non ho ardito io stesso palesarti, l’amore che provo, l’amore che mi agita e mi tormenta!…» S’ingannerebbe peraltro chi credesse il nostro Tito dimentico del suo dovere. No: anche fra mezzo alla più chiassosa spensieratezza, al vorticoso cozzarsi delle passioni; anche quando è trasportato nel mondo ideale de’ suoi sogni da poeta, d’artista, VITA DI T. STROCCHI XXI quando par che non viva se non che di canto e d’amore come gli uccelli, che non pensi che alla felicità di un giorno, di un’ora, di un momento, oh anche allora egli sente nel fondo dell’anima sua una voce che lo chiama alla realtà delle cose, che lo fa pensare, e pensare seriamente a casi suoi. Così egli che aveva si può dire trascorsa la vita senza grandi dolori, che lungo tutto il corso della sua fanciullezza non aveva mai incontrato ostacoli serii, anzi ogni cosa gli si era presentata ridente, piacevole, lo vediamo afflitto, mesto, sconsolato; lo vediamo che piange e si dispera il giorno in cui gli è stato detto che non potrà più continuare i suoi studii. Allora, oh allora egli pensa al passato e rimpiange i giorni sprecati, e comprende tutto il male che ha fatto; vorrebbe avere studiato, essersi fatto onore, vorrebbe poter giustificare i sacrifizi fatti fare a suo padre e quelli che ancora dovrebbe fare. Perché è il vecchio Stefano che gli ha parlato, è suo padre che gli ha dato la triste novella. Il pover’uomo non può più mantenerlo agli studii, all’Università, a Pisa :ha fatto per il passato sforzi superiori a’ suoi mezzi; ha tutto tentato per vedere di continuare nel generoso e amoroso proposito, ma invano. Quale tristezza ! che sconforto ! « La vita, così scrive il nostro Tito il 23 novembre 1865, la vita ha finito di apparire un fiore dagli eterni profumi, un’ alba sempre rosea, sempre seguita da un sole puro ; la vita non è più un inno continuo alla gioventù, alla spensieratezza ; il sentiero sparso di fiori è terminato, comincia l’aspra salita, ed è forza ascendere Forse sull’erto e scosceso dirupo tratto un fiore olezzerà , ma più sovente dopo un giorno di viag- VITA DI T. STROCCHI XXII gio, di stenti, non troverò che una roccia dove assidermi e riposare. Giorni di spensieratezza illimitata, di gioia innocente, voi avete finito per me; io non mi alzerò più cantando come l’augelletto che sa che la natura gli prepara il pasto nei campi, io non mi addormenterò più senza pensieri. La vita dell’uomo comincia colà dove per lui le necessità della vita diventano un peso che egli deve sopportare. Mio padre ha parlato, ed io ho sentito quelle parole, che per ma la vita non era più un canto, una gioia, una corsa! … Ecco dunque terminati i miei studii. Adesso conosco quanto perdo nel perdere la certezza di una professione bella e lucrosa. Oh tempo perduto, o studii fatti ! speranze, gioie dell’avvenire come la fredda realtà del presente vi annienta in un colpo. Ed io era già certo d’essere un giorno avvocato, di farmi un nome e una posizione, e di rendere largamente a mio padre quello che per me aveva fatto. Non posso esprimere il dolore, il disinganno che io provo. Dovere abbandonare gli studii così inoltrati e tornare come se mai avessi studiato! » La quasi certezza di dovere abbandonare gli studii universitari, il dolore, la solitudine, cui s’era abbandonato in que’ giorni di sconforto, fan rinascere in lui l’amore della poesia, e in essa va cercando conforto e pace. L’amore gli aveva in altri tempi ispirato de’ versi: ebbene, ora egli tutto si affatica intorno a quelle pagine sparse, e cerca e studia come dar loro unità di concetto per farne un unico componimento, che intitola: Due poveri cuori! … Ma checché faccia per distrarsi, per dimenticare la dura sorte toccatagli, la sua mente torna sempre agli studii dovuti troncare a metà; la sua idea fissa è quella, come potersi procacciare il denaro necessario per tornare a Pisa e com- VITA DI T. STROCCHI XXIII piervi il corso universitario. Un’idea frattanto gli balena nella mente: stampare que’ suoi versi; raccorre delle firme mediante note di soscrizione, e quindi venderli ad una lira al copia. Ma quanto quest’ idea dapprima gli sembra bella e di facile attuazione, altrettanto poi la crede indecorosa, difficile ad effettuarsi. Già troppo bene e’ conosceva il suo paese e i suoi concittadini…e non poco era tormentato dal pensiero di doversi confessare uom bisognoso di danaro e povero ! Pure il desiderio di tornare all’Università e a’ suoi studii, vince in lui ogni ritegno, vola dallo stampatore, gli consegna il manoscritto, pattuisce il prezzo dell’edizione, dà fuori le note e le raccomanda agli amici. Ma ahimè!, odi tu esclamare di lì a poco il giovane nostro poeta. « Ahimè! … Lettore, la tua mente supplisca a quello che taccio, e questa reticenza sia più eloquente di tutte le orazioni passate e future; dà a quel lamentoso ahimè tutti i suoni di dolore, di disinganno, di pentimento e rammarico. Io sperava di guadagnare almeno cento cinquanta franchi sulla mia poesia, e temo invece di dover pagare io qualche franco per soddisfare lo stampatore. Sono nel caso del Buffo nell’opera: Eran due e or son tre, che andando alla ruota dei trovatelli per deporvi due fanciulli se ne trova affibbiato un terzo ! M’ingegno per fare dei quattrini e invece ne perdo dei nuovi. Le firme arrivarono a trenta, e lo stampatore voleva pel suo lavoro sessanta franchi. La poesia fu stampata. Quanti la lessero mi fecero molti complimenti e rallegramenti …Ma lasciamo la questione della fama per quella dell’economia. Vedute che le firme raccolte pagavano appena la metà della somma occorrente pel tipografo, io mi detti a girare insieme qualche amico VITA DI T. STROCCHI XXIV per cercare compratori del mio libretto. Ma dopo tanti passi fatti, dopo tante umiliazioni patite, son giunto a questo, che certamente non vi guadagno un soldo, e forse dovrò rimettervi cinque o sei franchi. Ecco l’utile che ho tratto da tanta fatica.» Fallitagli e anche questa speranza dovè nuovamente rivolgersi al padre. Ancora un anno, gli dice, e potrò essere dottore! Ed era vero, dacchè il Ministro della Pubblica Istruzione aveva or ora risposto favorevolmente alla supplica che gli era stata indirizzata dagli scolari di terz’anno, e aveva loro concesso di poter fare insieme col corso di quart’anno anche quello di quinto e così di potersi laureare un anno prima. La qual cosa aveva sollevato non poco l’animo del nostro amico che vedeva di poter più facilmente indurre il padre suo a fare ancora un ultimo sacrifizio per lui. Né s’ingannava, perché il buono Stefano, l’amoroso padre, vinto dalle sue preghiere secondavalo, pur conoscendo di peggiorare la propria condizione e quella di tutta la famiglia. Quanto gli era concesso di poter fare, fece… E allora il sorriso tornò sulle labbra del nostro Tito, allora la gioia nuovamente brillò ne’ suoi occhi; e della contentezza del figlio non fu meno lieto il padre. Rassegnatosi nuovamente all’ Università, questa volta è assiduo alle lezioni, ci trova piacere, n’è contento. Ma una grande circostanza vien purtroppo a distrarlo, e ad accorciar anche il tempo per dar gli esami. S’era a’ primi di maggio, ed egli così scriveva: « Tutti parlano di guerra, nessuno più di studio, ognuno già si figura di essere sui campi dell’onore e sentire il tuono del cannone e il sibilo increscioso delle palle, nessuno pensa al giorno in VITA DI T. STROCCHI XXV cui dovrà temere non di assise bianche, ma sebbene di toghe nere, in cui le palle che lo uccideranno non saranno quelle di piombo uscite dalle canne dei cacciatori tirolesi, ma sebbene le palline nere gettate con empia mano nell’urna dai professori tiranni. Le lezioni sono pochissimo frequentate, tutti stanno a parlare di marcie e di battaglie future. Tutte le mattine alle cinque e il giorno dopo desinare ci raduniamo in gran numero e usciamo fuori di una porta ove ci esercitiamo per due o tre ore alle manovre militari. Io sono ascritto alla compagnia dei bersaglieri. E’ veramente una cosa che rallegra il dovere un duegento giovani esercitarsi per essere forti alle prossime battaglie col nemico, tutti risoluti appena scoppi il primo colpo, a lasciare la casa, gli agi, l’ozio per andare alle fatiche del campo. Noi teniamo dietro con ansia alle notizie politiche e temiamo che la speranza non ci fugga dinanzi. Il nostro desiderio sarebbe quello di formare il battaglione universitario, e giuro a Dio che colla nostra bandiera, che portarono sì valorosamente i nostri fratelli il 1848 a Curtatone, saremmo invincibili. Se questo battaglione non potrà farsi, i più andranno con Garibaldi, coll’apostolo della libertà, col salvatore dei popoli! Io anelo quel giorno, è tanto che lo desidero. Mi abbrucìa il desio di una vita nuova, varia, piena di emozioni. Anelo trovarmi nel fuoco della mischia e conoscere me stesso in mezzo ai pericoli. Questa vita che conduciamo è una vita da oche; a noi che arde il sangue dei vent’anni abbisogna una vita di avventure, io anelo provare una qualche emozione forte, sia pure quella della paura, ma sono certo che al tuono del cannone, alla notte del fumo, al correre del sangue, al suonar delle VITA DI T. STROCCHI XXVI trombe io sentirò infuocarmisi il sangue e la rabbia corrermi per le vene santa, e allora io non sarò l’ultimo a correre colla mia carabina sopra il nemico e misurarmi con uno e stenderlo a terra fra i cadaveri dei suoi compagni di catena, fra gli avanzi laceri della sua bandiera. Io anelo poter dire un giorno, se vivrò, anch’io ho fatto qualche cosa per la patria mia, io non sono indegno dei miei genitori. E se morrò? sarò morto onorato per una causa santa; e dopo i miei fratelli e mio padre, che pure nel suo dolore andrà contento di me, qualcheduno ancora mi piangerà, e piangerà sì presto reciso il fiore della mia gioventù, e crederà forse qualche speranza troncata! e lungo tempo durerà la memoria di me nel mio paese. Di questo almeno giova sperare per incontrare la morte col sorriso sul labbro; il credo che morendo con questa speranza abbia a sembrare di non morire intieramente e di lasciare sulla terra e nei luoghi a noi cari una parte dell’anima che si aggiri ove si parla di noi, e goda al suono di quei lamenti, e innocentemente si rallegri del pianto. » Però una nota domina su tutte le altre nell’armonia de’ suoi pensieri: amor di patria, entusiasmo di patriota, desiderio di gloria, ma gli affetti di famiglia sono in lui sopra ogni altro potentissimi. Ecco una pagina stupenda, dettata colle lagrime agli occhi; come conchiusione di quelle testé riportate, preambolo alle future sue geste di soldato della libertà: « Povero mio padre ! qual dolore per te se morissi, per te che con tante cura mi hai allevato, che con tanti sudori hai provveduto ai miei studii, che hai fatto di me più di quello che il tuo dovere non chiedesse, e con tanta fatica e con tanti sacri- VITA DI T. STROCCHI XXVII fici e tutto questo con amore leale e santo. Povero babbo, il solo pensiero che mi affligga, il solo pensiero che mi amareggerebbe le ultime mie ore, sarebbe il pensiero di te, sarebbe il vedere troncate le speranze che io ho fatte e che dovrebbero essere certezza, sarebbe il non potere io averti rimeritato,e degnamente rimeritato di tutto quello che ti devo. Ma io devo partire; innanzi a questo dovere, sacro, ed anche se tanto il dovere disinteressato non potesse, innanzi all’orgoglio, all’amor proprio che mi tingerebbe il volto di vergogna nel mostrarmi ai conoscenti, alle donne quando gli altri fossero al campo, io giovane, io amante della patria, che mi costringerebbe a coprirmi colle mani nella faccia quando leggessi gli italiani hanno vinto , nella viltà di non avervi avuto parte; innanzi a quel dovere, innanzi a questo onore che così impera, io non posso arrestarmi nemmeno se penso che morendo tu resterai desolato, vedendo svanire tutto quello che hai formato con tanti sacrifici. Piuttosto io pregherò mia madre, mia sorella, quelle due donne che sono lassù nel cielo, le pregherò a difendermi per riguardo tuo, perché io possa tornare in patria non indegno del tuo nome, perché non andando io lo disonorerei, e preparato a pormi sotto alla fatica per risparmiare te, mio buon babbo, che tanto hai per me e per i miei fratelli faticato, e far passare gli anni della tua vecchiaia contento di te, contento del tuo figlio. » Intanto i suoi studii, com’era naturale, procedevano lenti e interrotti dagli esercizi e delle passeggiate militari, alle quali non mancava mai . E in che stato d’animo poi e come preparato, si presentasse agli esami può facilmente immaginarsi. « Il terre- VITA DI T. STROCCHI XXVIII no, scriveva, mi abbrucia sotto i piedi vedendo partire i miei amici d’Università per Bari e per Barletta, ove si radunano i volontari. Non vedo l’ora d’essere sbrigato per poter partire anch’io. » Così dal 15 al 24 maggio dà e facilmente tutti gli esami speciali, ma la disgrazia vuole che fallisca sulla tesi scritta all’esame di laurea. La qual cosa gli fu di grande dispiacere, e solo il forte desio di raggiungere presto i suoi amici, potè fargli dimenticare quel brutto quarto d’ora. Si che subito corse a Lucca per salutare i suoi, e il giorno dopo partiva pel campo; e il 30 era a Barletta, soldato della quattordicesima compagnia del decimo reggimento, animato da un solo pensiero, quello di battersi; chè s’egli dovesse tornare a casa senza aver fatto alle fucilate, ne sarebbe addoloratissimo. Il caldo soffocante, la fatica, la fame gli stenti tutti del campo e’ sopporta con animo di vecchio soldato; e questo appunto perché sa, che ogni giorno che passa, ogni fatica superata, ogni marcia fatta lo avvicina al momento desiderato. E quando il 6 luglio sente per la prima volta parlare di possibile armistizio il nostro Tito è di cattivo umore e maledice alla sua sorte avversa. No, non può credere,non vuol credere all’infausta voce che circola: no, « mi vedrei, scrive, rapita quella gioia colla quale pensava ritornare a casa dopo essere scampato al pericolo della morte. Io non sarei pago di dire: l’onore è lo stesso, poiché io ho fatto quanto ho potuto, e senza mia colpa devo tornare senza essermi battuto.» E attende con ansia nuove e più precise notizie. Ma purtroppo viene e sorprenderlo l’armistizio concluso per otto giorni, dal 26 luglio al 3 agosto. VITA DI T. STROCCHI XXIX Del quale ecco quel ch’egli scriveva da Salò, ed ahi! purtroppo con verità, il giorno 3 agosto, ultimo dell’armistizio:« Ormai ogni speranza è svanita come un bel sogno rotto da un secchio d’acqua che ti sia gettato sul volto da una persona che ti derida. I nostri prodi sono stati fermati dalla diplomazia, e il loro cuore ardente non ha potuto varcare quei confini. La pace è quasi sicura, l’armistizio intanto è prolungato, e a quanto dicesi le condizioni della pace non saranno tali come dovrebbero essere state per poter perdonare loro di aver fatto cessare la guerra, poiché sembra che l’Austria ceda solamente il Veneto, restando sempre padrona del Tirolo e dell’Italia. Oh quanto entusiasmo reso inutile, oh quanto valore incatenato di nuovo dopo aver fatto un passo. In tutti i volontari si è sparso lo scoramento, doloroso a vedersi , ma purtroppo giusto. Ognuno di noi partendo sognava battaglie piene di gloria e di pericoli, marcie trionfali, libertà di tutta Italia, e lontano lontano improbabile un lieto ritorno alla casa abbandonata. Adesso quei sogni si sono dileguati come una nube di augelli al soffiare del vento della tempesta. Si dice che fra poco saremo congedati, ma sento che il ritorno non sarà lieto come avevo accennato…» Né le sue previsioni erano esagerate, chè la pace fu conclusa e pochi giorni dopo incominciarono le retro marcie; da Salò a Verbano, a Rocca d’Anfo, a Bergamo, a Brescia, poi a Palazzuolo, dove il 7 settembre principiarono a darsi i congedi: l’esercito garibaldino era disciolto. Al nostro Tito per altro convenne rimanere sotto le armi per un altro po’ di tempo; perchè creato ne’ primi giorni VITA DI T. STROCCHI XXX d’armistizio caporal furiere dovette essere degli ultimi a lasciare la compagnia: non ebbe il suo congedo che il dì 16. E con che ansia, con che gioia salutasse di ritorno la sua patria lo dicono queste parole: « A mano a mano che il treno si avvicina sento battermi il cuore più rapido…Finalmente vedo apparir le mura e le torri della mia città, bacio gli ultimi miei compagni, e secondo nella stazione coll’animo pieno di gioia. Sono a casa e rivedo mio padre, mia sorella, i miei fratelli…Così ha termine la mia prima campagna. « E non era un’ostentazione la sua dicendo, la mia prima campagna, però che egli sentisse già come non sarebbe mai mancato all’appello tra le file de’ volontari, ogni volta che ci fosse stato da combattere per la patria e per la libertà. Riavutosi dalle fatiche della campagna, egli ritorna agli studii interrotti, e il 28 novembre prende all’Università di Pisa la laurea in iscienze giuridiche e politico-amministrative. Il nostro Tito è dottore, e il primo periodo della sua vita, quello del giovane studente è finito, per incominciare quello dell’uomo. « Ma che cosa ho io mai imparato in quattro anni d’Università, egli si domanda? Ho imparato, risponde, ho imparato assai di quella scienza che forma veramente un uomo, e ciò molto a mie spese e molto sull’esempio degli altri, utile che, non può mancare a chi viva in società. Ho imparato che il giuoco è una perfida passione che rovina ogni uomo, ho imparato che amici dei quali uno veramente può far conto sono pochi, e che per contrario non bisogna fidare sul primo sorriso e sulla prima stretta di mano che qualcuno t’indirizza; ho imparato che è molto imprudente VITA DI T. STROCCHI XXXI fidare solamente sui propri pregi, ho imparato che l’ ubriacarsi oltre essere segno di poca gentilezza è anche uno sterile piacere che si risolve in nausea e in dispiacere,e ho imparato finalmente che anche lo studio delle severe discipline può allettare e può far provare una vera soddisfazione a chi voglia sacrificargli qualche ora di vani passatempi. Ed aggiungendo a tutto questo quel colpo d’occhio con cui si conosce l’indole di ciascuno che per la prima volta ci si presenta, scienza impossibile a impararsi se non in pratica, quell’astuzia colla quale si è sempre pronti a guardarci da qualunque tranello che ci si tenda, quel facile modo di conversare proprio di un studente, io sono contento di quello che ho imparato, e dichiaro che mio padre non ha gettato i suoi danari, né io il mio tempo.» E conclude: «Però - e vorrei che queste parole leggessero tutti i padri, i quali hanno un falso modo di educare i loro figli, tenendoli segregati, - però tutte queste cose, queste cognizioni che veramente formano l’uomo non si possono imparare se non nella società, e spesse volte in quella società dalla quale poi si impara ad evitarle e a guardarsene, quando si sia bene conosciuta; e non si possono imparare se non tutto provando, tutto assaggiando: il giuoco, i debiti, le donne, l’orgia, il tradimento degli amici e i disinganni penosi. » VITA DI T. STROCCHI XXXII VITA DI T. STROCCHI XXXIII III. Dopo la vita gaia e spensierata dello studente, dopo le fatiche del campo e i pericoli della guerra, ecco il nostro amico tornato nel seno della famiglia, alla quiete monotona del paese natio. Dottore, egli si è iscritto fra i giovani praticanti nello studio del professor avvocato Leonardo Martini, valente giurista; ma non potrà essere avvocato che fra quattro anni, non consentendo la legge, prima di aver fatto questo tirocinio, l’esercito di sì nobile professione. E dico nobile così per mo’ di dire, perché in che consista la tanto vantata sua nobiltà non l’ho davvero mai saputo; l’avvocherìa è una professione come tutte le altre, e più delle altre, secondo quel ch’io vedo, scaduta. Quattro anni di pratiche poi son troppi, perché i più si stancano per le lunghe promesse coll’attender corto. E il nostro Tito più d’ogni altro dovè stancarsi, lui così ricco di fantasia, così appassionato per le arti belle, lui nato poeta e non per nulla col bernoccolo dello avvocato. Sicchè quando lo senti giurare a se stesso di voler divenire ad ogni costo un buon avvocato, però che da questa professione si ripromette un comodo avvenire, e allora appunto che noi lo vediamo quasi dimenticarsi d’essere praticante nello studio VITA DI T. STROCCHI XXXIV Martini, e finir poi col non frequentarlo più, per ridarsi tutto a’ suoi studii prediletti e alle sue serenate, a’ suoi amori, dai quali chiede ispirazioni pe’ futuri suoi poetici componimenti, pe’ suoi romanzi e commedie. Né si arresta qui; chè giovane dalle più arrischiate avventure durante il pericolo universitario; caldo di patrio amore e desideroso di combatter contro lo straniero durante la campagna del 1866, ora più che mai sente il bisogno di scegliere fra’ diversi partiti quello, cui sarà devoto, e di manifestare un’opinione. E il suo ingegno, i suoi studii, la sua educazione lo portano abbracciare spontaneamente il partito repubblicano. « Però, egli dice; io non voglio col pretesto d’esser tale osteggiare qualunque cosa alle mie opinioni contraria, quando anche giovi alla patria mia. Per me la Repubblica è un santo ideale che mi adoprerò con tutte le mie forze a realizzare, le mie opinioni saranno sempre le opinioni libere, generose del repubblicano; io mi voterò anima e corpo al bene del popolo di cui faccio parte, di quella onesta parte del popolo che soffre, lavora e si batte per la patria. Sventuratamente i miei mezzi saranno troppo insufficienti al grande scopo, ma io non abbandonerò mai quella causa che io sento esser quella verso cui si slancia l’anima mia.» E fu appunto di questi giorni che costituitosi anche in Lucca un comitato Italo-Ellenico per raccogliere soccorsi agl’insorti Candiotti, che lottavano eroicamente per liberarsi dalla schiavitù degli Ottomani, si strinse fra noi amicizia; dacchè entrambi se ne faceva parte come segretari; amicizia che nata non per mera combinazione di casi, non per interesse personale, ma per corrispondenza VITA DI T. STROCCHI XXXV d’idee e di sentimenti, per accordo di principii e di fede in un comune ideale, non venne mai meno, quantunque poi non sempre ci trovassimo d’accordo nella scelta de’ mezzi per conseguirlo. Difatti da indi in poi, egli non fa più nulla che io non ne sia messo a parte; non scrive un verso, non una pagina di prosa, se prima non ne ha parlato meco lungamente. Noi nutriamo lo stesso amore per l’arte, come la stessa avversione per l’avvocatura, quantunque datisi entrambi a questa professione. Delle varie forme dell’arte, noi preferiamo la drammatica; il teatro è il nostro tema prediletto. Ma se uguale è l’amore, la passione che ci governa e ci fa passare veri giorni di speranza e d’illusioni, a lui solo però son concesse ale così potenti da volare a certe l’altezze senza precipitare! Frattanto ha ideato di scrivere una Commedia, con animo d’inviarla al concorso aperto in Firenze dalla società d’incoraggiamento all’arte teatrale, concorso che si sarebbe chiuso il 30 settembre 1867. Ma non ha ancora incominciato il suo lavoro che già si parla di possibili avvenimenti politici, i quali se si verificassero lo distrarrebbero certamente per qualche tempo da suoi studii; però che s’egli ama l’arte e confida di potere un giorno acquistar nome per essa, più dell’arte, più di tutto ama la patria sua, e di lieto animo, festante, lui poeta, lascia volentieri la penna per prendere il fucile. E potrebbe egli rimanere indietro, quando si combatte per la patria? No: è la sua coscienza che gli dice: sii soldato e combatti finché vi sarà un palmo di terra italiana in mano dello straniero, finché vi sarà parte di popolo italiano senza libertà! VITA DI T. STROCCHI XXXVI Il 22 giugno infatti la spedizione che il generale Garibaldi pensava fare su Roma non era più un vago si dice. Già i giornali ne parlavano dando notizie come questa: « Terni. Circa duecento giovani armati hanno tentato di passare il confine. Quarantasette di essi sono stati arrestati; gli altri sono sbandati. La tranquillità è ristabilita al confine. » E il nostro Tito che s’era fino dal 20 dichiarato pronto a partire, ne attendeva con ansia di giorno in giorno l’ordine, dacchè doveva far parte della sesta spedizione, che secondo il piano che si diceva allora stabilito, doveva comporsi co’ volontari delle città di Milano, Bologna, Firenze, Livorno, Lucca. Le cose per altro andarono così in lungo, che egli non potè poi partire prima del 3 settembre. E in che stato d’animo il nostro Tito lasciasse anche questa seconda volta la sua famiglia, e con quai mezzi s’avventurasse ad una impresa tanto rischiosa, lasciamolo raccontare a lui stesso: « Alle cinque e un quarto io doveva partire. Mio padre dormiva , io lo svegliai perché mi aspettava dei denari necessari al viaggio e al mio mantenimento per quindici o venti giorni, come ci avevano detto, nel luogo ove saremmo stati condotti. Il povero mio padre alzatosi dal letto mi pose in mano una carta da cinque franchi, dicendomi che maggiore spesa non poteva fare. E purtroppo era vero. Io sentii un sudor freddo colarmi sulla fronte nel vedere quell’umile pezzo di carta, e non ebbi coraggio di far parola. Io doveva andare a Orvieto e vivere quindici giorni con cinque franchi! Uno scoramento terribile m’invase ed atterrò d’un colpo tutto il mio entusiasmo. Mio fratello Pio, che doveva accompagnarmi al Vapore, mi chiamava perché VITA DI T. STROCCHI XXXVII mi affrettassi, io strinsi la mano a mio padre, ma io era così disperato, così avvilito che il mio saluto a quel padre che stava per lasciare col pericolo di non riveder più, fu poco affettuoso. Non già che io questo facessi per rancore che gli serbassi pel poco danaro che mi aveva offerto, ma l’anima mia atterrata da quell’inaspettato incidente che veniva a distruggere la mia gioia con un soffio, non poteva muoversi in quell’istante. Era rimasto sbigottito, perché quei sogni che io vedeva prossimi a realizzarsi, sicuri ormai mi cadevano atterrati dalla più piccola delle avversità, la mancanza di pochi franchi, come un castello di carte da giuoco. Ed io non salutai mio padre come deve fare un figlio, che il padre abbandona, e come il mio cuore avrebbe voluto. Oh quante volte in appresso mi sono pentito, e mi sono duramente rimproverato di questa mia sconoscenza, quand’io temeva di non veder più quel povero vecchio. Allora io pensava che egli certamente aveva dovuto avvertire quella mia freddezza, che aveva dovuto attribuirla forse al dispetto ingiusto in me che conoscevo le strette finanze di mio padre in quei momenti, e doveva rimproverarmi della mia sconoscenza. Uscii di casa risoluto però di non tornarvi, di partire ad ogni costo. » Così lasciava la sua famiglia. Ma poi come partire con soli cinque franchi? « Volsi il passo, continua il suo racconto, verso la stazione ove mi si aspettava, e mio fratello mi veniva dietro dimandandomi ad ogni passo perché camminassi verso il Vapore se non aveva in tasca nemmeno il quarto del valore del biglietto di una misera terza classe. Io non lo ascoltava e camminava quasi non cre- VITA DI T. STROCCHI XXXVIII dessi alla triste realtà, e alla miseria della mia condizione. Mi pareva non potesse esser vera. Per fortuna che appena io giungeva alla porta della città, il Vapore partiva per Pisa e lasciava sulla strada i miei compagni che mi aspettavano, sdegnati del mio ritardo. Stabilimmo allora di partire alle 8 1/2. In questo tempo mi proposi di trovare dei danari. Quanto più vedeva crescere il sole, aprirsi le botteghe, io sentiva lo scoraggiamento invadermi, poichè in tutto questo destarsi di uomini e di cose, l’orologio inesorabile suonava le ore, e quella della partenza si avvicinava. Pio era a casa a perorare presso il Babbo la mia causa. Io ero fermo dinanzi al Caffè l’Italia e guardava, guardava se apparisser persone cui potessi domandare qualche franco.Oh la brutta ora che trascorsi! Io vedeva che per la miseria di pochi franchi, io stava per perdere la più bella giornata della mia vita, e quello fu un istante in cui più che non avessi mai fatto, imprecai alla miseria. Passò A.G. Un’idea mi sorse e lo raggiunsi. Io gli chiesi dieci franchi. Egli me li prestò senza fare una parola, ed io di cuore lo ringraziai. Poco dopo giunse Pio con altri dieci franchi. Io mi trovava così possessore di venticinque lire. Era quello che abbisognava per lanciarsi alla ventura fidando al caso. Corsi alla Stazione con viso sereno; alla peggio il viaggio era assicurato. » Giunto a Orvieto ivi stette fino alla sera del dì 7 senza incontrare ostacoli, sebbene ad ogni istante temesse d’essere arrestato; perché egli di fronte al governo italiano era anche colpevole d’essersi allontanato da Lucca senza permesso, essendo come coscritto soldato di prima categoria. Laonde l’ora della partenza per passare il confine, VITA DI T. STROCCHI XXXIX fu da lui salutata con vera gioia: lo tormentava il pericolo imminente, poco o nulla curando i pericoli avvenire. Partì insieme cogli altri suoi compagni lucchesi (1) ; erano in quattro e condotti da persona pratica de’ luoghi e sicura. E ci voleva proprio tutto il fuoco, tutto l’entusiasmo di giovani ventenni amanti di avventure tanto pericolose; come quella cui volontariamente s’erano abbandonati, soldati d’una guerra santa, per sopportare tutti i disagi di una marcia a traverso monti e dirupi fino a Civita sulla via di Bagnorea, luogo destinato per loro primo asilo nello stato pontificio: a Civita, dove rimasero fino al 10, abitando in un magazzino di legnami, proprietà di un giovane del luogo. Di lì avanzaronsi poi fino a Viterbo, affidati al patriottismo d’un popolano che attendeva anch’esso con entusiasmo il giorno della riscossa: e da Viterbo fino a Soriano. E « oggi è il 15, scriveva il nostro amico, Garibaldi ha promesso che nella seconda quindicina di settembre scoppierà la rivoluzione. Da oggi dunque comincia a decorrere il tempo e questo ci rincuora. Però, a vero dire, noi non vediamo nessun preparativo, e questo ci spaventa. A quest’ora i fucili almeno dovrebbero essere introdotti, e il non veder cosa alcuna ci fa temere. La parola di Garibaldi però è sacra, e speriamo che non passeranno molti giorni che noi sentiremo le fucilate. » Ma intanto i giorni passavano; e sempre circondati dal mistero, i nostri ogni po’ erano costretti a cambiare di abitazione. E siffatta prigionia principiava ad essere loro insopportabile; e più al no(1) Erano Fabio Ragghianti, Pertinace Giannini, Enrico Giorgi. VITA DI T. STROCCHI XL stro Tito, quantunque cercasse di ingannare le lunghe ore d’ozio scrivendo versi che a suo tempo vedremo come non sieno del tutto indegni d’essere ricordati per testimoniare della sua facile vena di poeta. Finalmente, il 23, par proprio che sia giunto il momento di agire: qual che cosa si dice esser già accaduto; ma purtroppo le notizie non danno molto a sperare, difettando gl’insorti e di danaro e di armi. L’arresto avvenuto in Viterbo di chi si diceva avesse in mano tutte le fila della congiura destò in molti un po’ di scoraggiamento, tanto che si consigliava al nostro amico di tornare con tutti gli altri ad Orvieto, nessuno essendo più sicuro a Soriano ove si trovavano. Ma Tito non era uomo d’abbandonare il territorio pontificio in quel momento. Sicchè, guadagnati gli amici al parer suo, è soltanto per compiacenza verso i suoi ospiti timorosi d’esser compromessi che si allontana da Soriano per ridursi verso Bagnaia, dove si nasconde approfittando di un convento disabitato e mezzo diroccato, deciso ormai di aspettar ivi il giorno della rivoluzione. «Arrivati al convento della Trinità, egli dice, ci inoltrammo nei suoi sotterranei, sperando di guadagnare una buca che erasi aperta nel solaio del primo piano e per la quale avremmo potuto introdurci e vivere sicuri. Ci arrampicammo l’uno sull’altro per arrivarvi, ma tutta la nostra ginnastica non fu bastante a farci pervenire a quel luogo, poiché il pavimento crollava e non poteva reggere il peso del primo che vi si afferrava. Una voce che non era umana ruppe il tetro silenzio di quelle rovine. Perdio questo luogo è abitato, dissi io. Con un lume ci aggirammo a cercare chi fosse il mi- VITA DI T. STROCCHI XLI sterioso abitatore di quella solitudine. Ma quale non fu il disinganno di noi che credevamo trovarvi una specie di Han d’Islanda o un essere qualunque che ci mettesse terrore, nel vedere agitarsi per la terra due e tre maiali irritati del disturbo che loro arrecavamo. Certamente i frati che anticamente abitavano quel convento non dovevano mostrarsi così scortesi verso i poveri viaggiatori che avessero loro chiesto un asilo per la notte. Contuttociò noi non volemmo disturbarli più lungamente, e dopo aver tentato invano di rompere la porta del convento, alla quale solamente riuscimmo a torcere il chiavistello, ci rassegnammo a dormire sul prato, all’aria aperta. Ci sdraiammo l’uno presso dell’altro al chiarore delle stelle che scintillavano, carezzati un poco crudamente dall’aria fredda della notte che nel settembre comincia a non essere più adatta agli accampamenti. Disgraziatamente non fu possibile prender sonno, perché il freddo si faceva sentir troppo sulle nostre poveri carni, coperte dai leggeri vestiti da estate, che ci dovevano poi far soffrir tanto. » La fame, come suol dirsi, caccia il lupo dal bosco. E i nostri, dopo avere atteso invano per più giorni chi era solito portar loro di che vivere, essendo ormai ridotti a nutrirsi di castagne arrostite sulla bragia, decisero di abbandonare il Convento della Trinità per tornare a Orvieto, ed ivi attendere il giorno in cui sarebbe scoppiata la rivoluzione. E’ vero che Garibaldi aveva detto che il 28 sarebbe stato il giorno desiderato, ma il 28 era giunto e nulla avevano veduto e saputo. Se non che fermatisi di ritorno a Bagnaia per ivi pernottare presso persona amica, l’animo loro si rinfrancò alla notizia, che una colonna di circa ottanta garibaldini era entrata a VITA DI T. STROCCHI XLII Bomarzo distante sette miglia, e che all’aprir di quella i carabinieri avevano abbandonato il paese. Fu per essi un momento di vera gioia; le loro speranze stavano per realizzarsi; da indi innanzi non sarebbero stati più costretti a nascondersi come lupi a vivere nelle grotte, ne’ boschi, ad evitare così la presenza di ognuno. E festanti entrarono nel paese, dove con grande ardimento, fra mezzo ad una popolazione indifferente, abbatterono l’arma pontificia, partendo poi per Bomarzo a raggiungere i garibaldini. Ma quale disinganno! A Bomarzo i garibaldini s’erano trattenuti poche ore, diretti per Soriano distante altre otto o nove miglia. Sicchè colpiti da questa nuova e inattesa sventura, stanchi, sfiniti, riarsi dalla sete, cercan d’un’osteria, v’entrano e chiedon da bere. Non avevan peraltro ancora ricolmi i bicchieri che si accorgono d’esser caduti in bocca al lupo. Di faccia ad essi stanno seduti due sargenti di linea pontificia; vederli pagare l’oste e fuggire fu come un lampo, ma non avevan fatto ancora dieci passi che il fermi,siete in arresto! E l’essere uno di loro afferrato pel collo fu pure un momento solo. Se non che quell’uno soltanto rimase preda dei pontefici; chè il nostro Tito insiem con gli altri tre suoi compagni potè fuggire, e dopo lunga e precipitosa corsa per la campagna nascondersi entro folta macchia, ove stettero tutta la notte per riprendere il giorno di poi la strada che doveva condurli alla meta desiderata, alla ricerca della colonna Corseri. Così i giorni e le notti si succedevano; e spossati dalla fatica, bisognosi di tutto, più e più volte quasi disperando, son lì per rinunziare all’impresa di trovare quella banda che sempre fuggiva loro dinanzi! VITA DI T. STROCCHI XLIII Siamo al 30 settembre, e il nostro amico è sempre disperso, ramingo co’ suoi compagni. Pure, colla disperazione nel cuore, cerca d’incorare gli altri a nuove fatiche, ripetendo loro di tanto in tanto: li troveremo! Avanti!… Sicchè riandando poi le vicende di questa campagna, ecco come ne parla: « Adesso che scrivo queste memorie, che quei giorni sono passati da molto tempo ed altre avventure hanno cancellato l’impressione delle avventure di quelle, non m’è dato che ristringere in poche parole i dolori provati in quei giorni che correvamo dietro alla colonna Corseri, le ansie continue, le speranze. i disinganni, lo scoraggiamento che ci assaliva, e le nuove forze che trovavamo nel convincimento della nostra causa; ma in quei giorni quelle sensazioni ripetute, alternate, ci facevano contare le ore, l’una dopo l’altra, e sempre più lunghe, più penose, e ci faceano sembrare sempre nuove le fatiche, i dolori già provati che adesso la memoria sa distinguere, ma che la parola non può esprimere che con una sola, con una stessa frase. Eppure il nostro umore era sempre allegro, noi eravamo più forti di tutte le avversità, e con lieto animo sopportavamo il nostro destino, sacrificando tutto alla santa causa per la quale c’eravamo mossi. Noi potremmo dire che abbiamo sofferto più di tutti in questa campagna di stenti, che più di tutti abbiamo sopportati i dolori lietamente, che partendo noi sapevamo di andare incontro a tutte queste fatiche, poiché adesso saremmo pronti a cominciare un’altra volta la faticosa vita che ora volge al suo termine, senza che il buon esito ci abbia soddisfatti. » Così di paese in paese. da Campina a Carbognano, a Vignarello andarono errando ancora per VITA DI T. STROCCHI XLIV due giorni, finché volle il caso che s’imbattessero in una piccola squadra di sette garibaldini, vestiti e armati di tutto punto, i quali andavano per viveri facendo parte d’una colonna composta di trenta e più, che si trovava accampata a poca distanza, e che andava anch’essa in cerca di quella Corseri, per formare quel primo nucleo di forze che dovevano iniziar la campagna contro i mercenari pontifici. Esultarono i nostri a questo fortunato incontro, chè se non era la colonna che da tanti giorni seguivano senza mai poterla raggiungere, erano garibaldini e tanto loro bastava. Sicchè poi marciando uniti e con più sicure indicazioni poteron raggiungere Corseri a Bagnarea il 4 ottobre, il giorno dopo ch’egli vi era arrivato in tempo per soccorrere i pochi garibaldini che ivi trovavansi alle prese co’ pontifici e di questi rimaner vincitore. A Bagnarea frattanto s’andaron formando le prime compagnie, e armati vi furon quelli che ancora non erano. I garibaldini quivi riuniti ammontavano a circa quattrocento cinquanta, e n’ebbe il comando il maggiore Ravini. Né il momento di entrare in azione guerresca si fece loro attendere lungamente; e al nostro Tito non parve vero fosse suonata l’ora di fare alle fucilate e porre così alla prova, com’e’ diceva, il suo coraggio. Infatti il giorno 6 i papalini in numero di ben mille duecento, con due cannoni, mossero all’attacco di Bagnorea. La lotta fu accanita; valorosamente si difesero i nostri combattendo dalle nove antimeridiane alle tre pomeridiane, e valorosissimo fu il nostro amico, però che egli rimase de’ pochi che mentre i più s’erano ritirati in disordine sopraffatti dal numero e dalla superiorità delle armi, rientrati in Bagnorea tennero VITA DI T. STROCCHI XLV indietro per oltre due ore il nemico, facendo fuoco dalla porta del paese. Erano circa una cinquantina, ma a mano a mano andarono scemando di numero, così che rimasero soltanto in sette; nè questi lasciarono il posto prima che il cannone avesse fatto breccia nelle muradi cinta e avessero bruciata l’ultima cartatuccia(1) « Ahi com’è dolorosa la fuga!, esclama il nostro valoroso amico ricordando questo fiero cimento nelle sue memorie. Fu una giornata infame pel dolore dell’ anima e per lo strapazzo del corpo. Ed io che il giorno innanzi dopo avere con tanta fatica raggiunti i garibaldini, credeva che fosse venuto il tempo di riposarsi e faticare allegramente, io senza avere avuto nemmeno il tempo di dormire abbastanza, era spinto a lanciarmi in balìa di una nuova marcia avventurosa e più rapida, poiché alle nostre spalle si avanzavano trionfanti i papalini. I papalini avevano vinto! Qual dolore per noi poveri disgraziati che avevamo resistito fino all’ultimo momento!I papalini entravano gridando voci di trionfo nel paese, passando sopra i nostri morti e i nostri feriti, che noi eravamo costretti ad abbandonare, e il suono insolente delle campane ripercotendosi di monte in monte giungeva al nostro orecchio doloroso come un insulto ai poveri fuggitivi. I papalini erano entrati per quella porta sulla quale noi saremmo morti volentieri, se la nostra morte avesse potuto giovare alla causa. E frattanto noi dovevamo fuggire e senza riposo, poiché i vincitori non erano distanti un miglio da noi, e avrebbero ben voluto inseguire colo(1) Fra questi valorosi era un altro nostro concittadino, Fabio Ragghianti. VITA DI T. STROCCHI XLVI ro che li avevano tenuti tanto tempo lontani dal paese, con sette fucili; e i paesani che suonavano le campane a celebrare la loro vittoria, avrebbero ben loro insegnato il cammino dei pochi valorosi. Bisognava correre, abbandonarsi sulla rapida scena delle colline, passare i fossi, i fiumi, risalire gli alti monti faticosi, sotto i raggi del sole ardente, assetati e morenti di stanchezza, poiché dall’alba eravamo in piedi e dalle nove era cominciato il combattimento. » Avanti poveri fuggitivi; correte!… E correndo affamati, co’ piedi laceri, la sera giunsero a Castiglione dove trovarono poco più di cento compagni, fra’ quali era il maggiore Ravini, fuggiti prima di loro. Ma non erano appena arrivati, non avevano appena potuto mangiare qualche cosa che fu loro forza ripartire per non rimaner soli e andare nuovamente raminghi per quelle campagne. Pur troppo però di lì a poco dovettero rimaner soli e dispersi, non avendo potuto per stanchezza seguitare gli altri tutti. Sicchè riprendendo poi il cammino a caso fra mezzo alle tenebre della notte e sotto una pioggia dirotta, si accorsero che senza saperlo avevano ripassato il confine; e fu fortuna, chè pernottarono così in una casa ospitale di contadini. Il giorno di poi all’alba rientrarono sul territorio pontificio, e riuscì loro facile raggiungere i compagni che trovarono assai scemati di numero; non erano appena sessanta! E da capo in marcia; e ad ogni tappa sempre nuove defezioni. Una mattina poi svegliarsi dopo aver dormito a Bomarzo si contarono e non erano più di trentasette: anche molti ufficiali erano spariti. Dimodochè il 7 ottobre ridotti in esiguo numero, senza munizioni e senza danari, fu una- VITA DI T. STROCCHI XLVII nime il parere di disciogliersi e rimpatriare. Deposti e nascosti i fucili, provvisti delle barche necessarie per passare il Tevere, sbarcano presso Giovo, dove un picchetto di linea del trentanovesimo reggimento italiano pareva che si trovasse lì apposta per riceverli e per condurli tutti in carcere ad Amelia. Era la prima volta che il nostro Tito metteva il piede in una carcere. Da Amelia furono condotti a Terni ove stettero carcerati fino al dì 11, giorno in cui fu loro rilasciato il foglio di via e data l’indennità di viaggio, perché ciascuno tornasse alle proprie case. Ma il nostro amico si trovava in così misero stato, tutto lacero e sporco che, vergognando di tornare a Lucca, si diresse a Firenze, poi a Cipollatico da certi suoi parenti, sicuro di trovar presso lor buona accoglienza, e se non denari, certo il necessario per rivestirsi e ritornare fra’ volontari, quando gli si fosse presentata un’occasione favorevole e avesse rimediato qualche soldo scrivendo a Casa. Stette difatti contento e accarezzato presso i suoi zii materni a Cipollatico fino a tutto il 14; due altri giorni passò poi in Firenze, dove in cambio di trovare incoraggiamento ed esser secondato nel suo ardente e disinteressato amore di ritornare alla dura, faticosa e pericolosa vita del campo, rinvenne tale freddezza e nel Comitato di soccorso per l’insurrezione romana che ivi s’era costituito, e in que’ patrioti che pure andavano per la maggiore allora in Firenze, che altri meno caldi di lui, non come lui educato alla dura scuola del disinganno, e deciso ormai di sacrificare tutto anche la vita per la santa causa cui s’era dato, altri dico, sarebbe senza pensarvi su molto tornato a casa, alla vita comoda di famiglia, pago di aver fatto quello che aveva VITA DI T. STROCCHI XLVIII fatto e che non era poco. Ma il nostro Tito non ha pensava così, anzi quanti più erano gli ostacoli che incontrava, più in lui s’accresceva la brama di superali. « Ho fatto il viaggio una prima volta, senza denari e senza speranze, ho lottato contro le più dure avversità della fortuna, ho resistito, ho vinto; ebbene, e’ diceva,lo farò una seconda volta»; e senz’indugiar più, ricevute da Lucca venti lire, partiva la sera del 17 per Terni. Le cose erano un po’ cambiate; non erano più come a’ primi di settembre. A Terni i volontari si trovavano in gran numero; il governo s’era fatto più tollerante, vedeva e non vedeva. Ivi si trovava il generale Fabrizi che organizzava i battaglioni, e a mano a mano si facevano partire pel confine. Partì il nostro amico da Terni il 19 ottobre e il 20 per via ebbe il suo fucile. Le marcie, le fatiche tutte d’una campagna eccezionale erano incominciate e soprappiù mancavano i viveri. Il 22 da Cutigliano partono per Poggio San Lorenzo, dove hanno la notizia che Garibaldi è riuscito a fuggire da Caprera, ov’ era guardato a vista dalle navi italiane e che si trova a poca distanza, a Scandiglia. Passarono il confine e si fermarono a Monte Libretti il 24 con ordine di proseguire per Monte Rotondo, avendo Garibaldi deciso l’assalto di quel paese pel giorno dopo, come difatti avvenne, e con vittoria pei bravi nostri volontari. I quali dal fortunato successo di quella giornata si ripromettevano vicino il giorno che sarebbero entrati trionfanti in Roma, unico asilo rimasto alle truppe papaline. Ecco come il valoroso nostro amico ci descrive questa gloriosa giornata pe’ volontari italiani: « Era il 25 ottobre, il giorno dell’assalto di Monte VITA DI T. STROCCHI XLIX Rotondo. Egli non poteva più lietamente spuntare; la natura sembrava esultasse con noi. Eravamo in una macchia folta di alberi ove mille uccelli cantavano. Il sole ne indorava le cime e ci riscaldava le membra assiderate pel freddo terribile della notte. Cominciammo a marciare verso Monte Rotondo. Garibaldi allo spuntare del giorno aveva già attaccato i papalini. Dopo una lunga marcia cominciammo a sentire le cannonate. Com’è solenne la voce del cannone per chi gli muove incontro e sente ognora più farsi vicino quel tuono, e sa che presto sarà sotto il tiro della sua mitraglia. Affrettammo la marcia varcando fosse e colline. A ogni momento ci pareva di essere in prossimità di Monte Rotondo, ma sempre si presentava invece una nuova collina da varcare. Finalmente vedemmo in lontananza Monte Rotondo e udimmo il fuoco delle fucilate e quello più lento, ma più terribile delle cannonate…I papalini chiusi in Monte Rotondo potevano esser forse cinquecento zuavi, armati di eccellenti carabine con due cannoni. Quel numero e quelle armi erano una forza imponente per le bande garibaldine male armate e sprovviste di cannoni, in quella posizione sì forte. I volontari che dovevano combattere a Monte Rotondo potevano essere quattromila o pochi più. La mattina di quel giorno erano cominciati i primi colpi. Quando noi giungemmo in vista di Monte Rotondo ci arrestammo un momento per riposarci, poi fu ordinata la marcia forzata e ci avvicinammo di gran passo. Sarà stato mezzogiorno; il sole splendeva purissimo e la giornata era calda sì, che noi sudavamo sotto quella sferza affaticati per quella marcia. Feci la comparazione fra stato dell’animo mio in quel giorno e quello che aveva sentito a Bagno- VITA DI T. STROCCHI L rea. E’ forza confessare che quel giorno io era un poco più commosso, ma la ragione è in questo, che a Bagnorea fummo assaliti ad un tratto, sicchè non avemmo tempo di pensare al pericolo, mentre a Monte Rotondo assalivamo e ad ogni passo sentivamo accrescersi il rumore delle fucilate e del cannone. Però io rammento con gioia quelle forti emozioni, però che in quei momenti ci sentiamo battere il cuore di un palpito generoso. L’uomo è grande nel momento della battaglia, egli sfida la morte ad ogni passo che muove e il suo volto è sorridente, è fermo il suo braccio che stringe l’arma. Io volsi un pensiero al mio paese, alla mia famiglia, a’ miei amici. La memoria me li presentò tutti quasi fossero stati veramente essi, ed io li salutai, detti loro un addio che poteva esser quello della morte, e fui più tranquillo. Io aveva tutto il tempo per prepararmi a quel combattimento, poiché esso era già in tutto il suo fuoco mentre noi ci avvicinavamo, e ad ogni passo sentivamo farsi più forte il rumore dei colpi. Giungemmo sotto il colle dove ci fermammo un poco per riposare della marcia forzata. Eravamo terribilmente stanchi. Il sole bruciava, noi cercavamo un poco di acqua per bagnare le labbra arse. Mentre eravamo fermi in quel luogo fummo certo scoperti dai papalini, poiché ad un tratto una bomba cadde poco distante da noi e scoppiò. Quando noi fummo a poca distanza dalla città il fuoco era cessato. Un timore che vivamente mi agitava era la incertezza sovra il mio fratello Pio. Io credeva che egli si trovasse a quel combattimento ed ogni fucilata poteva esser quella che lo colpisse. Io aveva tanto timore che avendo trovato un morto al quale avevano coperto il volto con un abito mentre VITA DI T. STROCCHI LI alcuno lo discopriva per vederlo, volgeva la faccia temendo quasi di dovervi riconoscere mio fratello. » « Cessato il fuoco ci fecero riposare. Eravamo quasi a tiro di fucile sotto Monte Rotondo. Colsero l’occasione per dispensarci del pane, del formaggio e del vino. Dopo il pasto ci avevano promesso di condurci all’assalto, sicchè mangiammo allegramente. Dopo poco ci condussero ad una casa ove era in quel momento il generale Garibaldi, pochissimo distante dalla città. Quella casa era la villa di un Monsignore, nella quale avevano resistito i papalini alla mattina e dalla quale erano stati respinti. I papalini si erano ritirati nel paese. Le colonne che avevano preso parte al combattimento erano la colonna Menotti, la colonna Frigeysi, e la colonna Valzanìa. I papalini dopo qualche resistenza fuori della città si erano ritirati dentro di essa, e facevano fuoco sicuri, inoffesi. I garibaldini erano costretti ad esporsi ai loro colpi sicuri, dovendo ascendere il colle. Il palazzo del Principe che da una parte, da quella di dietro, chiude il paese, ha una porta che si apre precisamente sulla strada della campagna che sale fino a quel punto. Ad ogni tratto quella porta si apriva e si presentavano due cannoni caricati a mitraglia che distruggevano le file dei valorosi che si avanzavano. Ecco qual era diventata la pugna. I papalini riparati dalle mura del palazzo e da quelle della città mostravano solamente la bocca delle loro armi e prendevano sicuramente la mira su coloro che erano forzati ad avanzarsi a passo a passo sotto quel fuoco micidiale. Però ognora più il cerchio si stringeva e le truppe del Papa si trovavano rinserrate entro quelle mura. La casa ove noi giungemmo era circondata da molte compagnie di gari- VITA DI T. STROCCHI LII baldini. In essa era Garibaldi. Le compagnie avevano fatto i fasci d’arme intorno, e tutti si riposavano dalle fatiche della giornata. Era una bellissima vista quell’amena villa circondata da tante armi e da tanti uomini. Il sole stava per tramontare. In quella casa ove era nascosto l’Eroe delle patrie battaglie che stava per segnare un nuovo trionfo sulla pagina delle sue vittorie, ed aggiungere un’altra stella alla sua corona, si agitava uno straordinario movimento. Cento messaggeri giungevano, quali a piede, quali a cavallo, cento persone uscivano apportatrici di notizie, mille uomini passeggiavano rimirando la città assediata, o giacevano accanto ai fasci delle armi, sulle quali il sole scintillava cogli ultimi suoi raggi. E quei raggi illuminavano pure lietamente la cima delle case di Monte Rotondo, circondate da una selva di viti e l’estremità del palazzo del Principe e della torre entro la quale i papalini inquieti rimiravano quello assedio che sempre più li stringeva. Intanto la notte scendeva, ma quel palazzo cupo, marmoreo si disegnava sempre nel cielo sull’altezza della sua collina, e intorno intorno si vedevano accendersi dei fuochi e si udivano delle grida e dei canti. Che bel giorno! Come io mi sentiva felice in quella posizione avventurosa, innanzi a quella magnifica scena. Giammai città è stata assediata in modo così vario, così pittoresco, giammai città assediata, in procinto di essere teatro di una strage orribile, è stata così lieta, quasi sorridente. Come erano leggiadre a vedersi quelle casette incerte fra il raggio ultimo del giorno e l’ombra della notte, quella collina coperta di alberi e di viti, quei drappelli di uomini armati, tutta quella gente che si muoveva lieta e VITA DI T. STROCCHI LIII baldanzosa, incerta di vedere il sole della dimane. Come è grande e poetico il volontario nei momenti della battaglia. Qual grandiosa epopea è quella del volontario italiano in questi ultimi anni di rivendicazione!… La camicia rossa sarà sempre una insegna di gloria e di libertà; i fortunati che hanno potuto indossarla la mostreranno ai loro figli, raccontando loro le battaglie che essa ha vedute, lo sgomento che ha ispirato a tanti nemici. Essa ha veduta la fronte, spesso le spalle di tre eserciti. La camicia rossa sarà una veste tradizionale di vittoria che i nostri posteri ricorderanno; essa è la uniforme dei liberi figli della patria che tutto hanno abbandonato per volare a morire in sua difesa; essa è l’aureola dei martiri di questa terra gloriosa, è l’insegna della libertà.» «Intanto che si faceva notte era ricominciato il suono di qualche fucilata, e più tardi si fece più spesso; i papalini non volevano stare in ozio; e dovere di cortesia comandava che loro si rispondesse. E’ ben vero che per i papalini era un divertimento lo sparare in quel luogo sicuro, certi di offendere e non essere offesi. In quella casa di cui parlo, intorno alla quale eravamo radunati, era una magnifica cantina, piena di grandi botti colme di vino eccellente ; una cantina degna di un monsignore. Già nella mattina i soldati più fortunati avevano penetrato nel sacro orrore di quel luogo ed erano restati ammirati innanzi a quella schiera di botti. Sulla sera si fece una generosa dispensa di quel vino. Un gran tino colmo di vino era stato recato e un ufficiale lo dispensava ai soldati.Però, guarda destino! Non ci fu caso che io potessi assaggiarne. Dopo poco mettendomi dietro a due o tre dei più audaci, VITA DI T. STROCCHI LIV giungo a penetrare nella cantina. Credetti di aver trovato il paese della cuccagna e di non uscire se non brillo. Ahimè! Mida moriva di fame fra i monti d’oro. Coloro che erano già nella cantina e quelli che meco vi erano entrati si accavalcavano intorno a quelle botti che potevano aprire mediante un coltello, un ferro qualunque. Uno per aprire uno zampillo lasciò andare nella botte una fucilata. Secondo il solito io mi restava a guardare quella gente colla bocca serrata allo zampillo, ma non riusciva a mettermi nel loro posto. La confusione si fece così grande che furono costretti a fare uscire tutti dalla cantina, ed io me ne dovetti partire senza avere assaggiato un bicchiere di vino, dopo essere stato in mezzo a quell’abbondanza.» « Ma quella era la terra promessa; era impossibile dover conservare il desiderio di ciò che tanto abbondava. Altri vasi ancora di vino eccellente furono collocati sul prato. Io mi procurai un vaso e più volte tornai a empirlo. Aveva accesa la mia pipa caricata di scorze di vite; mi sedeva sull’erba al chiarore delle stelle brillanti e vuotava la mia tazza di vino al suono delle fucilate che partivano dal palazzo di Monte Rotondo. Oh ch’io mi ricordi sempre di quei lieti momenti!. Quando ebbi bevuto tanto da spengere la mia sete di vino, cercai di dormire un poco, essendochè fossi molto stanco, e mi rincantucciai sotto una porta per ripararmi un poco dal freddo. Ma non mi era ancora adagiato che la mia compagnia fu chiamata sotto le armi. Essa doveva andare sotto Monte Rotondo… Entrammo nel piccolo borgo che precede la porta della città. I papalini avevano serrata quella porta e barricatala, difendendone poi il passo colle fucilate. Ma sul co- VITA DI T. STROCCHI LV minciare della notte furono portati dei sacchi di zolfo, della legna sotto quella porta cui si attaccò il fuoco. Le fiamme si appiccarono a quella porta ferrata investendola tortuosamente e crepitando sordamente. Quand’io giunsi, la porta cadeva lasciando libero il passaggio e gli avanzi ardevano sulla soglia dando una luce fantastica a quella scena. Le prime compagnie del mio battaglione entrarono nella città a baionetta spianata, i papalini si erano ritirati e chiusi nel palazzo dal quale seguitavano il fuoco. Noi eravamo sempre fermi nel borgo dove faceva un freddo terribile. Verso le tre del mattino anche la mia compagnia si mosse verso il paese e allora cominciai a sentire il sibilo delle palle intorno agli orecchi. Si parlò subito di fare una barricata presso quella porta per guardarci in caso che i papalini facessero una sortita dal palazzo. Tutti si adoprarono a trovar materiali. Vorrei qui dipingere l’aspetto della città in questa notte, aspetto così pittoresco, così fantastico, ma sono certo di non poterlo fare che imperfettamente. Entrando in Monte Rotondo per quella porta incendiata, che non rammento come si chiami, si trova una strada che conduce sopra una piazza dov’è inalzata una colonna che regge la statua non so se di un Papa o di un Cardinale. La piazza è chiusa tutta all’intorno dalle case, tranne che in faccia si apre un arco che conduce ad altre contrade e a sinistra ove è una strada larga in fondo alla quale si vede una chiesa. Descrivere qual fosse l’aspetto di queste contrade è impossibile. Esse formicolavano di persone vestite in diverse foggie, in diversi costumi. Pareva un Carnevale. I più erano a borghese, ma colla differenza che quell’abito aveva qualche co- VITA DI T. STROCCHI LVI sa di militare, di pittoresco. Chi un cappello a bandito colle penne, chi gli stivali alla cavalleresca. Moltissimi indossavano la uniforme completa garibaldina, la camicia e il berretto, chi non aveva che l’una, chi non aveva che l’altro. Alcuni avevano l’abito delle guide di Garibaldi, altri quello dei bersaglieri, altri berretti di nuova foggia, nei quali il colore che predominava era il rosso. Tutti armati di fucile, di carabina, molti di sciabola e di pugnali. Era una varietà che stancava l’occhio. I mille lumi sparsi per le contrade rompevano le tenebre come in una pubblica illuminazione. Sulla porta ardevano gli avanzi dell’uscio e intorno a quello alcuno si scaldava. A tutte le finestre delle case si vedeva una torcia, un lume, più lumi. I paesani sembravano tutti fuggiti, niuno si vedeva di essi, e i garibaldini battevano a tutte le porte, tutti le aprivano per trarne dei materiali per formare la barricata. E si vedevano discendere quali portando una trave, quali una tavola, quali un utensile, un mobile qualunque, quali trascinavano un birroccio e tutti radunavano quegli oggetti fuori della porta, sicchè in poco d’ora la barricata fu formata. Le grida poi, gli urli, i diversi dialetti d’Italia tutti adunati in quel luogo formavano una torre di Babele.» « Io mi aggirava fra quella folla col mio fucile in ispalla, ammirando quella scena di gioia. Spuntò il giorno e allora il fuoco si attaccò vivo. I papalini raddoppiarono le loro fucilate micidiali, e noi rispondevamo vivamente. Li serrammo entro un cerchio di fuoco che sempre più si stringeva. I nostri colpi andavano perduti, poiché essi erano racchiusi nel palazzo e non facevano fuoco che dalle aperture delle finestre, ma sempre più ci avanzavamo sotto VITA DI T. STROCCHI LVII quella fortezza. Se fossimo pervenuti a raggiungere la porta del palazzo e ad incendiarla, essi erano perduti. E nuovi garibaldini intanto cadevano, ma gli altri sempre più si avanzavano, la vittoria era imminente. Saranno state le dieci della mattina. La colonna Menotti, da lui stesso guidata, fu quella che prima toccò la porta del palazzo. Era il momento fatale. I Papalini erano vinti, snidati dalla loro posizione. Invano aveva seguitato a tuonare il loro cannone. Allora essi si videro perduti e alzando bandiera bianca si arresero. La bandiera sventolò sulla torre del palazzo. L’allegro squillo della tromba suonò: cessate il fuoco. E allora fu un correre, un affollarsi tutti verso quel palazzo a disarmare i prigionieri. La scena che ho già dipinto prese allora una tinta più viva. La gioia del trionfo, della vittoria sparsa su tutti i volti animava quella folla. I prigionieri furono tosto disarmati e guardati. Più tardi posti in mezzo ad una scorta furono condotti al confine e consegnati nelle mani dei bersaglieri italiani… Appena suonato, cessate il fuoco, Garibaldi andò a prendere la consegna del palazzo. Che momento! Una banda lo precedeva suonando l’inno, quell’inno diventato il canto della battaglia e della libertà, egli, il Generale, era a cavallo, sorridente, felice, circondato da Canzio e da suo figlio Menotti. Aveva in capo un cappello alla calabrese, addosso aveva una specie di giacchetta di colore cenerino e al collo un fazzoletto a varii colori. Non aveva armi. Io sentii nel vederlo quella emozione che già aveva provato vedendolo a Salò e a Nozza, e che ho sempre provato quando l’ho veduto in seguito. Mi sentiva gonfiare il cuore dalla gioia, quasi spuntare le lagrime agli occhi…Il 26 ottobre sarà un giorno VITA DI T. STROCCHI LVIII che io sempre nella mia vita rammenterò, un giorno di gioia generosa, di esultanza vera.» A Roma! Questo era il grido, o per meglio dire il voto che i garibaldini emettevano dopo la vittoria riportata a Monte Rotondo. Infatti il giorno 28 fu dato l’ordine di partire e prender la via che conduce all’ eterna città. Garibaldi, secondo la sua tattica, non perdeva tempo. E col cuore caldo d’entusiasmo e la mente piena delle antiche memorie il valoroso soldato, il bravo nostro poeta marciava su quella via e « mi sembrava, egli dice, una marcia trionfale.» Il 28 i garibaldini si son già di molto avanzati, quali si trovano, e tra questi il nostro Tito, a Castel Giubileo, quali fino a Villa Spada, tutti più o meno accampati su que’ colli in buone posizione strategiche; e Garibaldi è con loro. Vi rimangono il 29 e il 30; quando alla sera di questo giorno con meraviglia di tutti, poiché erano ignari affatto di quel che accadeva per manco di notizie, s’ebbero l’ordine di dovere abbandonare que’ luoghi per tornare a Monte Rotondo, dove restaron poi fino al 3 novembre, giorno memorabile in cui l’impero napoleonico doveva macchiarsi con una nuova infamia, e il governo italiano, suo schiavo, rendergli quasi gli onori di casa. Tanto può esser vile un governo che non ha la coscienza del suo dovere, e quindi non sente l’orgoglio della sua nazionalità! La mattina del 3 novembre però chi fosse passato dalla strada che da Monte Rotondo prosegue per Mentana, avrebbe veduto tutto il piccolo esercito garibaldino schierato lungo quella via; non più di quattro mila cinquecento uomini, con due soli cannoni, pe’ quali non si avevano che settanta colpi! Messosi in marcia verso le undici e arrivato presso Menta- VITA DI T. STROCCHI LIX na, una guida rimasta ferita dà l’allarme. Nessuno de’ garibaldini però crede imminente una battaglia. Sicché , che cosa è, che cosa non è? e intanto s’odono le prime fucilate. Ma lasciamo ancora che parli il nostro amico: « Dopo queste prime fucilate fu comandato di abbandonare la strada e di distendersi a destra di essa sul colle. Non erano dieci minuti che il fuoco era cominciato, che già erano passati sorretti moltissimi feriti avviandosi verso Mentana. Perdio, si disse, se sono sì pochi mirano giusto. Corremmo avanti e ci stendemmo sul colle. Allora si vide l’esercito che ci aveva assaltati. L’occhio non arrivava a scorgere tutta la linea che occupavano e si perdeva in una lunghissima schiera di calzoni rossi, fra i quali si vedeva anche il mantello bianco della cavalleria pontificia. I papalini erano seimila, i francesi novemila, provvisti di quattordici cannoni. Noi non pensavamo però minimamente ai francesi, li scambiammo coi legionarii d’Antibo che hanno la stessa uniforme. Sul principio della battaglia però erano i soli papalini che ci avevano assaliti. Inoltrandoci sempre sulla linea di quel colle sul quale fischiavano le palle, trovammo un altro colle coperto di qualche albero. In quel punto trovammo il generale Fabrizi che ci comandò di seguitare quella linea, raggiungerne il culmine e fare fuoco da quel luogo. Noi seguimmo l’ordine e restammo in quel punto molto tempo seguitando una viva fucilata. La battaglia era cominciata fortunatamente. Le nostre fucilate e le nostre cariche facevano indietreggiare i papalini. I volontari occuparono la posizione che essi occupavano al momento dell’attacco. I nostri due cannoni tiravano meravigliosamente. Dei soli settanta colpi che a- VITA DI T. STROCCHI LX vevamo, non uno andò perduto. Fu detto perfino dal nemico che i cannonieri erano della nostra armata regolare, tanto li maravigliò l’aggiustatezza dei loro tiri. I papalini erano vinti. Ormai noi non avremmo fatto che inseguirli fin sotto le mura di Roma. Ma coloro su cui veramente si contasse per quella giornata si avanzavano intanto. I francesi si inoltrarono sul terreno della mischia stendendosi sulle due ale, armati dei loro fucili Chassepot.» « Sarà stato forse l’una dopo mezzogiorno quando sentimmo le prime scariche francesi. Noi non avevamo cognizione delle armi nuove. Quel fucile scarica cinque colpi al minuto. Nell’udire quelle scariche così rapide, continuate, spesse che rassomigliano perfettamente al rullo di un tamburo, ci meravigliammo che i papalini le potessero fare col fucile ordinario. Le palle piovevano come la grandine, e i feriti cadevano numerosi. E in mezzo a quella fitta scarica che assordava si udiva il colpo lento, cupo, rimbombante del cannone nemico. I nostri fucili erano ormai inutili. Ad un tratto io mi sentii portar via il fucile dalla mano, come urtato da una scossa violenta. Lo raccolsi; una palla aveva colpito il calcio, portandone via un scheggia. Quella era la palla destinatami. Da quel momento la battaglia era perduta. Senza un fucile che risponda degnamente è impossibile resistere al fucile Chassepot; non si regge alla tempesta di quelle palle. Noi eravamo sempre su quel colle sparso di alberi. Le palle rompevano i rami e passavano fischiando, o si cacciavano in terra sollevando la polvere. Quanti infelici cadevano gridando: viva Garibaldi. Aiutatemi! Io avrò sempre nell’anima il grido di uno che cadde gridando l’ultimo evviva e l’ultima parola di soc- VITA DI T. STROCCHI LXI corso. Nessuno l’alzò. Quando tutti hanno bisogno di guardare la propria vita, nessuno si ferma a raccorre il misero che non può muoversi, ed egli chiama invano, e fa appello alla pietà di coloro che gli si sono detti amici per un istante. Un fratello però, un vero amico non abbandonerebbe il ferito, morirebbe con lui.» «Sotto quella tempesta però fu lento lo indietreggiare dei volontari. Noi ci ritiravamo sopra Mentana, ma le schiere papaline e francesi avanzavano passo per passo. E intanto il giorno cominciava a declinare; il fuoco però era sempre vivissimo; i volontari resistettero finchè non fu persa l’ultima casa di Mentana. La nostra ritirata era imminente. La mia compagnia sempre guidata dal capitano Battista si trovò all’altezza del colle che avevamo occupato, e che cominciammo a discendere dalla parte opposta per ritirarci sopra il paese. Un infelice, era un genovese, ferito da una palla ad una gamba, gridava chiamando soccorso; nessuno si fermava per soccorrerlo. Tutti passavano e lo lasciavano steso sul suolo. Due genovesi suoi amici, e un lombardo, si fermarono e mi richiesero del mio aiuto per trasportarlo. Le compagnie intanto si allontanavano. Per un poco noi le seguitammo, ma poi fummo costretti a lasciarle allontanare, poiché il ferito voleva ad ogni tratto riposarsi, e noi pure non eravamo in grado di portarlo continuamente. Io avrei potuto fuggire con tutti, ma non volli; quel povero infelice colla sua gamba fracassata mi faceva pietà. Restai con lui. Intanto a poco a poco rimanemmo soli. Eravamo cinque compreso il ferito. Contavamo di riposarci un poco e riprendere poi la via seguita dagli altri. Frattanto più non si udivano che poche VITA DI T. STROCCHI LXII scariche. La battaglia era vinta. I volontari si erano ritirati in Mentana e contrastavano al nemico la barricata che avevano formata sull’entrare del paese. Ma essa non tardò ad esser presa.» « Restammo forse venti minuti riposandoci. Ad un tratto, mentre pensavamo di riprendere il nostro ferito e partire, sentimmo delle voci. Ascoltammo. Erano parole francesi. Ci sdraiammo per la terra, sperando di non esser veduti, senza fare una parola. Dopo poco si vide una compagnia di soldati dai calzoni rossi avanzarsi lentamente distesa in quadriglia. Noi non potevamo più fuggire. Che momento d’ansia fu quello! Noi non respiravamo nemmeno! Frattanto il suono di quelle voci straniere si avvicinava, e noi li vedemmo sempre più inoltrarsi. Ancora qualche passo e ci avrebbero scoperto. Oh qual dolore mi tormentava in quell’istante. Io non pensava più a me, pensava a Garibaldi, pensava alla battaglia perduta, a Roma tornata in tutto il potere dei pontefici. Pensava a tutti i sogni che io aveva fatti, ai desideri di tutta Italia recisi dall’evento di un giorno. Chi avrebbe creduto che quel giorno dovesse essere così funesto all’Italia? Noi eravamo vinti, ecco la conoscenza che io solamente sentiva. Garibaldi era stato vinto; aveva già conosciuta la preponderanza delle forze che ci avevano vinto; ignorava però ancora che era stata la Francia quella che aveva avuto l’onore di vincere Garibaldi. Intanto che in me si agitavano questi dolorosi pensieri, i francesi avanzavano. Noi udivamo distintamente i comandi degli ufficiali. Ci guardammo in faccia per dimandarci che cosa avessimo dovuto fare. Noi non avevamo da scegliere. Passare inosservati era ormai impossibile, noi era- VITA DI T. STROCCHI LXIII vamo prigionieri. Però non ci muovemmo. Il povero ferito tratteneva i suoi lamenti. I francesi ci scopersero e gridarono; les garibaldiens! Appena gettato questo grido si avanzarono a baionetta spianata e ci circondarono. Era una compagnia del 29° di linea. Noi non ci muovemmo. Eravamo sdraiati in terra; non facemmo altro che lasciare andare dalle mani il fucile. Dopo poco ci posero in mezzo a loro e ci portarono dove accampava il loro reggimento. Nessuno mi vanti la gentilezza francese…Sapete di che cosa furono capaci i francesi? non già di circondarci di baionette, cosa che non mancarono di fare, ma sebbene di legarci le mani con una fune. Era già notte inoltrata. La strada tutta offriva l’aspetto di un paese conquistato da un esercito straniero. Ovunque si sentivano delle voci, dei comandi, dei suoni di tromba, e fra tutte quelle voci non una italiana. Era l’invasione straniera sotto le mura di Roma.» Così era terminata quella pugna; così il nostro amico aveva veduto volgere le sorti di quella campagna che doveva aprire alla rivoluzione, al genio della libertà le porte di quella Roma, meta e sospiro da secoli di tutte le anime grandi, libro eterno in cui a lettere di monumenti sta scritta la storia di due civiltà. Ma fu vera gloria per gli eserciti alleati, per l’esercito Francese? La storia ha già risposto: no; e gli eventi hanno dato ragione a’ vinti. Pure è giustizia il dire che anche di que’ giorni la Francia liberale arrossì di quel simulacro di vittoria riportata dall’intrigo di Corte, dal dispotismo imperiale mascherato, sulla libertà, dalla forza contro il diritto, dal tornaconto d’una dinastia pericolante contro le aspirazioni di tutta una nazione che vuole la sua capitale. Ed Engard VITA DI T. STROCCHI LXIV Quinet, il grande patriota francese così scriveva da Veytaux il 12 novembre, nove giorni dopo la battaglia di Mentana, a Garibaldi: « Quando ebbi l’onore di scrivervi al Varignano ultimamente, ignorava il rapporto (telegrafico) del generale francese comandante le truppe papaline e francesi a Mentana. Quale confessione gloriosa per voi la verità strappa ai vostri avversari! essi confessano che la loro presenza a Roma era urgente per salvarla. Così eglino riconoscono, e il mondo lo saprà, che senza l’invasione straniera voi avreste dato Roma all’Italia. E dal punto di vista militare quali confessioni terribili! L’esercito francese ed il pontificio avevano tutti i vantaggi: quelli del numero e dell’ organizzazione. Essi avevano numerosa artiglieria (14 pezzi), delle armi di precisione portate alla perfezione, i fucili ad ago, i fucili Chassepot. Contro simili forze che potevate voi opporre? Quattromila giovani senza istruzione militare, giunti di recente sul campo di battaglia, senza viveri, senza provvigioni, appena armati di vecchi fucili di scarto e quasi rotti, senza calzatura, e avendo le comunicazioni interrotte dal governo italiano. Veracemente parlando Voi avevate sulle braccia tre eserciti. E con questi elementi che cosa avete voi fatto? Una cosa senza esempio. Voi avete opposta ferma resistenza durante tutta la giornata del tre novembre alle truppe alleate. Per loro propria confessione, malgrado tutta la superiorità schiacciante, non hanno potuto rompervi sopra alcun punto. I vostri hanno dormito sul campo di battaglia a Mentana, essi non sono stati affatto inquietati la notte. Le truppe alleate non hanno nemmeno attaccati gli avamposti. Voi avete avuto così tutta la notte per conti- VITA DI T. STROCCHI LXV nuare senza esser molestati, col grosso del vostro piccolo esercito la ritirata che avevano principalmente cercato d’impedirvi. I vostri avversari non sono dunque riusciti in nulla di ciò che volevano. La retroguardia che voi avete lasciato in Mentana, non è stata affatto sforzata, essa si è mantenuta nella sua posizione fino all’indomani. Vedendo allora che la pugna aveva perduto il suo significato sotto i colpi di tre eserciti, non si è malgrado ciò perduta d’animo un istante, ma ha fatto una grande capitolazione regolare, onorevole. Ecco, caro e grande Garibaldi, ciò che tutti diranno in Europa della giornata di Mentana. Essa sarà ritenuta come una delle più gloriose per voi e per i vostri eroici compagni d’arme. Si vedrà l’immensa disparità di forze, e nonostante questo, la vittoria contrastata fino all’ultimo momento . Un nucleo d’uomini, quasi senz’armi, ha tenuto in iscacco, nella rasa campagna degli alleati che avevano per sè ogni sorta di vantaggi, e dietro di sè due e tre potenze. Che i nostri amici siano fieri di tale giornata. Essi ne hanno il diritto. Quanto a me, la mia sola consolazione, il mio solo orgoglio è di dirmi vostro amico. » Il nostro amico e tutti gli altri prigionieri fatti nella giornata son condotti alla villa Cantucci; ed ivi rinchiusi, pigiati come greggie di pecore, in poche stanze stettero fino all’alba del 4, quando posti fra mezzo a due file di soldati francesi e preceduti dalla cavalleria furon condotti a Roma: Oh, come diverso da quello che il nostro Tito aveva immaginato fu il suo ingresso nell’eterna città! Egli v’entrava non trionfante dopo la vittoria, ma prigioniero dopo la sconfitta, con l’anima lace- VITA DI T. STROCCHI LXVI rata dal dolore e il cuore gonfio d’ira pel sorriso schernitore de’ vili sgherri di quel potere condannato dalla civiltà, riavutosi per poco ancora coll’ aiuto di armi straniere. Pure entrando da Porta Pia, da quella porta che pareva ormai destinata a dar passo alla rivoluzione, percorrendo la lunga via che conduce al Quirinale, poi traversando la piazza del Collegio Romano e giù giù fino al ponte Sant’Angelo, non potè fare a meno di ammirare con occhio d’artista, e d’interrogare con mente d’erudito e appassionato cultore delle memorie patrie quei vetusti palazzi e que’ grandiosi momenti che vi s’incontrano. Vide ed ammirò l’antica mole Adriana che sovrasta il Tevere; ma là entro trovò la sua carcere. Nel castello infatti furono introdotti tutti que’ valorosi e ivi tenuti chiusi e guardati per tre giorni, fino a che non furono condotti a Civitavecchia per esser poi rinchiusi nel nuovo Bagno che era appena finito di costruire; sicchè per l’umidità della calce e pel fetore delle poche latrine e della paglia che serviva di giaciglio a centinaia di persone, presto quel carcere divenne insopportabile e dannoso alla salute di molti. Ma il Vicario di Cristo, una volta fatto Re, non poteva, non doveva aver pietà di coloro che avevano cercato di rapirgli il regno, fosse pure per completare l’unità d’Italia e riconquistarle la sua capitale.« Era una continua agitazione, narra il nostro prigioniero, invano io cercava di persuadermi a soffrire di buon animo, argomentando che presto doveva necessariamente terminare quella situazione sognandomi il compenso delle gioie del ritorno, ma non poteva più resistere. Oh quante volte pensava a tutto quello che amava! Quante volte mi dipingeva VITA DI T. STROCCHI LXVII innanzi quelle liete, tenere scene di famiglia, di cui non poteva godere.» Come Dio volle però spuntò l’alba del 24, e i prigionieri garibaldini che si trovavano nelle prigioni di Civitavecchia furono messi in libertà, e accompagnati cioè al confine dai soldati francesi e consegnati alla Nunziatella ad alcuni ufficiali italiani che erano lì a riceverli, per poi, fatta anche quest’ultima comparsa, tosto rilasciarli. Così il nostro amico potè nuovamente godere della tanto desiderata sua libertà e correre a Lucca in compagnia degli altri garibaldini lucchesi per riabbracciare i suoi. « Oh qual momento, esclama, io lo rammenterò sempre; fu uno dei più belli della mia vita. Era il tramonto del 26 novembre. Non volli muovermi dal mio posto se non dentro alla stazione. Eravamo tutti ebbri di gioia. Una folla di amici ci aspettava. Fummo circondati, abbracciati, baciati, portati quasi in trionfo. Da quel luogo fino a casa non fu per me che un continuo saluto di amici, lieti di rivedermi, dopo avermi creduto morto. E giunsi a casa. Rividi mio padre, povero vecchio! com’era lieto, mia sorella, tutti i miei fratelli….» Dirà forse taluno che ci siamo diffusi troppo a narrare questo periodo della vita di Tito Strocchi; ma, checchè si dica, non ce ne pentiamo, anzi diciamo che lo facemmo di proposito. Perché ad ogni passo che muovevamo in compagnia di lui, sulla via che doveva condurlo a Mentana, poi prigioniero a Roma, la sua figura ingigantiva e sempre più si andava delineando e colorendo il suo carattere di uomo generoso e forte. E fin qui possiam dire ch’egli non si è mai smentito, mai è caduto in contradizione, è stato sempre eguale a sé stesso. E per VITA DI T. STROCCHI LXVIII verità noi l’abbiamo spesso sorpreso nel segreto della sua anima, solo co’ suoi pensieri; abbiamo cercato di udire la sua voce, di trascrivere le sue parole, quando era sicuro di non essere udito da chicchessia, altro che dalla sua coscienza. E’ anzi in questi colloqui intimi con la sua coscienza che noi lo abbiam potuto indovinare e rappresentare al lettore quale egli era veramente, e tale si fu fino alla morte, come vedremo continuando nella sua vita, che d’altre geste non meno gloriose e di più tremendi dolori e sacrifici essa s’intesse. Poi, Mentana!… Oh, ma parli per noi oggi il momento che alla memoria de’ caduti in quella memorabile giornata è stato inalzato tredici anni dopo in Milano sulla piazza di santa Marta, e ci sia solo concesso di ripetere con Felice Cavallotti che ne dettò la bellissima epigrafe: quante vittorie immortali questa disfatta oscura! VITA DI T. STROCCHI LXIX IV. Dissi già nel corso di questo che il nostro amico fino da quando partì da Lucca per la campagna di Roma, era soldato di leva e di prima categoria. Difatti dopo pochi giorni che egli era tornato in patria, ebbe la dolorosa notizia che il primo dell’anno la classe del 1846, cui apparteneva, sarebbe stata chiamata sotto le armi. E il 4 gennaio 1868 eccolo arruolato con destinazione Mantova, dove si trovava il settimo reggimento di fanteria. Partì da Lucca il 6; né la sua partenza da casa fu lieta come tutte le altre volte: anzi quale differenza dalle altre due volte! Allora abbandonava gli agi della vita per le fatiche, gli stenti del campo, allora andava incontro alla morte volontario, coll’ entusiasmo nel cuore, ora invece partiva, ma forzatamente e a malincuore. Volontario garibaldino Tito Strocchi era pur sempre Tito Strocchi soldato nell’esercito regolare non sarebbe stato certamente nulla più di un numero, di una macchina, di un automa. Addio studii, addio speranze dell’ avvenire!… Eppure vi sono degli scrittori così ingenui che hanno tentato di fare l’apologia di questa tiran- VITA DI T. STROCCHI LXX nica istituzione degli eserciti permanenti in pieno secolo decimonono, secolo di civiltà e di libertà! No, il nostro amico non era nato per una vita siffatta. Sicchè dopo aver pensato lungamente a’ casi suoi finì col rinvenire un fil di speranza: era miope e poteva essere riformato, sebbene di questo suo difetto non avesse mai fatto parola. Con cotesta speranza nel cuore frattanto chiese ed ottenne una nuova visita, e le ripetute prove lo allietano, ora lo rattristano. Ma i giorni passano e si annoia mortalmente e si ammala, tanto che è costretto di recarsi allo Spedale: nuovo e inaudito dolore per lui, chè fra le molte traversìe della sua vita non gli era accaduto mai di provar lo Spedale. Vi stette sedici giorni e sempre coll’ incertezza nell’anima pel suo avvenire. Il 21 febbraio finalmente ottenne il desiderato congedo, e fu giorno di vera esultanza per lui. Sicchè riandando dopo del tempo questo periodo della sua vita scriveva:« chi può adesso descrivere la gioia piena, ineffabile che sentii dentro di me? Oh certamente io proverò poche gioie come questa. Io era congedato, libero di quella schiavitù che doveva pesare su me per bene undici anni!» Così ritornava a’ suoi studii, e volendo esser sincero dirò anche a’ suoi amori. Per altro per quanto facesse proposito di dedicarsi all’avvocatura, a quella professione che doveva procurargli il necessario alla vita, la letteratura è quella che lo vince, e ad essa consacra la maggior parte del tempo. Sente di dover esser poeta, e tutto si abbandona alle sue fantasie: rivede la sua novella Berto e Lisa, e con amore tien dentro ad altri poetici componimenti. Ma non vuol essere soltanto un letterato, uno scrittore: desidera, vuol essere anche un uomo politico, un uo- VITA DI T. STROCCHI LXXI mo d’azione. E poiché già in molte città d’Italia dopo la infelice campagna di Roma, erano state istituite associazioni fra’ volontari, apparentemente con lo scopo del mutuo soccorso, ma in realtà pel fine di non disperdere, anzi di meglio organizzare la gioventù democratica in vista di altri possibili avvenimenti per le presenti e per le future condizioni politiche della patria nostra, anch’ egli si dà attorno per costituirne una in Lucca, e vi riuscì per modo, che ne tenne poi sempre o quasi sempre la presidenza, e con quell’autorità che i suoi studii e il suo valore gli avevan procurata. Oltre all’istituzione della società fra’ volontari, che prese poi il nome di associazione fra’ Reduci dalle patrie battaglie, egli insiem con me e con pochi altri amici divisò di fondare in Lucca un giornale, cosa desiderata da molti e da molti incoraggiata. Non occorre dire che il nuovo giornale doveva essere di colore e carattere democratico. Si discusse il programma, e sulle prime non tutti ci trovammo concordi; se tutti eravamo democratici, non tutti eravamo egualmente repubblicani. Laonde invece di un programma ne furono scritti due, e per non mandare a vuoto un’idea che tutti più o meno solleticava, convenimmo di accogliere e pubblicare dei due il meno accentuato. E di cotesto avviso prima d’ogni altro, ad eccezione di chi lo aveva scritto, fu il nostro Tito, ricordando forse il proverbio: cosa fatta capo ha. Il 6 di gennaio 1869 uscì il primo numero del Serchio, chè così fu intitolato il nuovo giornale lucchese. Il programma era quello che era, un programma di conciliazione fra opinioni diverse, vale a dire una cosa assai moderata. A rinforzare la quale però pensò subito il nostro VITA DI T. STROCCHI LXXII amico, scrivendo un articolo, Luce e Libertà; ispirato al più aperto razionalismo; articolo che non solo provocò una risposta anonima assai violenta dal titolo: omaggio al nuovo Messia, ma, com’era naturale urtò anche le credenze religiose di molti, e ruppe subito quell’accordo che per un momento pareva si fosse trovato fra’ componenti la redazione del Serchio, fino a farne ritirare alcuni protestando. Ciò nonostante, avendo la direzione dichiarato ne’ numeri successivi di non essere stato mai suo intendimento di impegnare lunghe discussioni filosofiche e molto meno religiose, pur lasciando piena libertà a’ suoi collaboratori, se attaccati in qualche loro scritto, di tornare sull’argomento, e in ispecial modo quando col firmare l’articolo ne rimanevano essi soli moralmente responsabili, il giornale continuò nelle sue pubblicazioni per ben cinque anni, e riuscì uno dei migliori periodici lucchesi e fors’anche d’Italia, interprete fedele e sincero delle dottrine morali, politiche e sociali di quel sommo intelletto che fu Giuseppe Mazzini. « Lettore costante del Serchio, scriveva il venerando Maurizio Quadrio alla direzione il 24 febbraio 1873, lo considero come uno dei migliori diari settimanali d’Italia, interprete savio e sincero delle dottrine del santo Maestro. E ho non di rado occasione di rallegrarmi, di trovarmi col Serchio in pieno accordo sopra le importanti questioni e sugli avvenimenti che vengono mano mano discussi.» L’impianto dell’associazione de’ Reduci in Lucca e la nomina fatta da questa di Giuseppe Mazzini a suo presidente onorario, aveva messo il nostro amico in più stretta relazione col grande patriota, tanto che fu invitato di recarsi presso lui a Lugano ne’ giorni 21 e 22 febbraio. Ma purtroppo VITA DI T. STROCCHI LXXIII non potè rispondere all’invito e soddisfare al desiderio ardentissimo che da lungo tempo aveva di vedere l’Esule illustre e dalla sua viva voce avere istruzioni per la causa, cui sentiva ormai di doversi consacrar tutto. Non potè andare per mancanza di danari: centocinquanta o duecento lire al più. E quanto soffrì pensando alla perduta occasione!« Io rammenterò sempre, egli dice, questi due o tre giorni passati in agitazione continua, in orgasmo, tormentato sempre da un’idea fissa, quella del mio viaggio, addolorato sempre da un disinganno, quello della povertà delle mie finanze, ed il momento in cui ho dovuto rassegnarmi a dire. pazienza!…Eppure ciò non mi sembrava possibile. Come, diceva io, quando mi si presenta l’occasione che da tanto tempo desiderava ardentemente, quando io possa essere superbo di parlare al più grande cittadino d’Italia, di presentarmi a lui, di strigere la sua mano, di tornare portatore dei suoi consigli, dei suoi ammaestramenti per adoperarmi in pro della causa di cui sarò non ultimo campione, dovrò io privarmi di tanta soddisfazione, di tanto onore forse danneggiare l’utilità della causa per questo paese per la somma di centocinquanta franchi? Mi sembrava una cosa mostruosamente impossibile, un ostacolo ridicolo. Ahimè! Era e fu una barriera insormontabile. Io fui vinto da pochi grammi di oro. Se io avessi la decima parte di ciò che spendete, o giovani eleganti del bel mondo, in un’ ora dei vostri geniali ritrovi, delle vostre feste da ballo, nelle vostre tavole d’ecartè; se io potessi rubarvi una parte delle somme che pagate al vostro tailleur, una frazione di ciò che scommettete ad una corsa di cavalli, io sarei felice, come non lo sarete giammai voi in mezzo al vostro oro, alle vostre VITA DI T. STROCCHI LXXIV scommesse, alle vostre feste. E frattanto, voi mi passate daccanto sorridenti sul vostro cavallo, mentre io guardo con rammarico il pomo d’oro del vostro fouet. Con quello io potrei veder Mazzini, essere utile alla libertà della patria mia, soddisfare al desiderio del mio cuore, mentre che a voi non giova che a mostrare la vostra opulenza e la vostra inettezza.» L’ invito fatto da Giuseppe Mazzini al nostro amico di recarsi a Lugano doveva senz’altro riferirsi alla costituzione dell’Alleanza repubblicana universale, perchè fu di questo tempo che anche in Lucca s’istituiva un Comitato di detta associazione, dal quale poi sorgeva il futuro Circolo repubblicano, di cui il nostro Tito fu uno de’ membri più attivi o per meglio dire, l’anima. Tra il giornale, la società de’ Reduci e il Circolo egli aveva così occupato il suo tempo. E l’attività sua aumentava coll’ aumentare degli ostacoli che gli si paravano dinanzi: chè se i moderati gli fanno guerra a parole, i clericali, i paolotti glie la fanno co’ fatti, e così insistente da far pietà. La sua audacia aveva spinto questi a sfidarlo non già palesemente e a viso aperto, ma in segreto. Sicchè non potendolo ferire direttamente, si studiano di ferirlo indirettamente e tanto si sussurra e si fa, che il povero padre suo vede ogni giorno venirgli meno quella clientela che con tanti sudori s’era acquistata coll’ esercizio della sua industria di locandiere. A poco a poco i frequentatori della sua locanda si allontanano, e quando maravigliato, sorpreso di questo abbandono il pover’uomo volle indagarne la causa si sentì rispondere: e come potrebbe essere diversamente con un figlio che osa attaccare così arditamente le cose più sante, e offendere la coscienza de’ più? E Tito pure lo seppe, e con dolore dovè VITA DI T. STROCCHI LXXV convincersi di sì triste verità; sicchè consigliato poi dagli amici di allontanarsi per un po’ di tempo la Lucca per vedere di migliorare le condizioni del traffico di suo padre, non titubò un istante e rispose: io mi allontanerò! Temeva per l’avvenire de’ suoi, non già del suo;e ne sia prova che incitato maggiormente a combattere, dalla guerra sleale che gli si faceva, volle e seppe ancora scoccare un darlo infocato dal suo arco di libero pensatore contro il clericalismo e il paolottismo invadente! In tutte le città d’Italia era stata fondata da poco una associazione vastissima detta delle Figlie di Maria. Era un fittissima tela ordita dalle mani del paolottismo allo scopo di meglio padroneggiare la presente società per mezzo della donna, centro della famiglia. Or bene, ogni terreno era buono per combattere, e il nostro amico scese in lizza armato di tutto punto, e con quel fuoco, con quell’ardimento che egli era proprio quando si trovava a fronte di avversari potenti. La sua penna è ben temperata e resistente, la sua mano è veloce quanto il suo pensiero, e in pochi giorni riesce a scrivere, a improntare un libro che è una schiacciante requisitoria contro la nuova sétta clericale femminile. La Figlia di Maria di Tito Strocchi fu letta con avidità da amici e da nemici, fu commentata pro e contro, e finì coll’ esser posta all’Indice dalla Santa Romana Chiesa. Certo in altri tempi all’ardito nostro scrittore sarebbe toccato di peggio! Un certo risveglio nella vita politica s’ andava frattanto manifestando in alcune parti d’Italia; la Democrazia principiava ad agitarsi e più che altrove in Milano. Il governo avuto sentore di un prossimo movimento repubblicano, ordina arresti di patrioti in gran numero, e non contento fa rimostranze alla VITA DI T. STROCCHI LXXVI Svizzera, dove si trova Giuseppe Mazzini, creduto a ragione l’iniziatore della minacciata rivoluzione, e il grande patriota esule, è cacciato da Lugano. Né si fu sazi; la paura è quella ormai che consiglia il governo italiano caduto nelle mani del più reazionario de’ Ministri; lo presiede un Menabrea, si trova all’ Interno un Cantelli alla Giustizia un Pironti! Agli arresti, tengon dietro le perquisizioni a domicilio e i sequestri de’ giornali; si vuole porre il bavaglio alla stampa liberale democratica, si vuol rinchiudere nelle carceri quanti repubblicani sono in Italia. Una circolare del Pironti ai Procuratori generali, gli mette tutti in moto; e il meglio ch’ essi posson fare per avere il plauso del Ministero imperante, è di battere lo scudiscio a destra e a sinistra. Chi non è notoriamente un moderato, un consorte o un clericale, dev’ essere un repubblicano, un demagogo: si perquisisca, s’ imprigioni, si processi. Furono giorni ben tristi questi del ministro Menabrea per la libertà; e le geste del Pironti rimarranno pagine nere nella storia d’ Italia! Né da questo furore monarchico reazionario poteva andare esente il nostro amico, lui così apertamente repubblicano, né il giornale il Serchio nel quale scriveva. Quindi il 16 di luglio egli è passivo d’una perquisizione a domicilio e all’associazione de’ Reduci della quale era presidente, perquisizione che, com’era naturale, non poteva essere che un preludio di più gravi persecuzioni, perché il 28 era arrestato in pubblico caffè per mandato del Procuratore generale di Genova, sotto l’imputazione di aver cospirato contro lo Stato, e tradotto nelle carceri di san Giorgio ed ivi rinchiuso…« V’ entrai, egli dice, ebbi paura nel vedere che il carceriere si VITA DI T. STROCCHI LXXVII apprestava a chiudere la porta, a dividermi col girar di quella chiave da tutto il mondo; temetti di restar solo, credei che ivi sarei morto di fame, di noia. Ebbi per un attimo il pensiero di raccomandarmi a lui, perché mi lasciasse ancora dieci minuti all’aria, e perché mi tenesse compagnia; ebbi nel medesimo momento l’ idea di afferrarlo pel collo, strangolarlo e fuggire, fuggire a costo di uccidere cento persone, mille persone. Ma fu una vertigine rapida come il giro di una stella che cade. Durò tutto il tempo che il carceriere mise a muovere la porta ed accostarla allo stipite, quando toccò la chiave io era libero e tranquillo. Mi passai la mano sulla fronte, e quell’assalto di pazzia si dileguò rapidamente, come il sonno dalle palpebre di una magnetizzata al tocco delle mani del magnetizzatore. Quando il carceriere tirò il chiavistello, io guardava già le pareti della carcere con animo sicuro. L’ avvenimento era stato troppo inaspettato, perché io non mi maravigliassi un poco della mia nuova posizione. Mezz’ ora prima era libero, allora prigioniero, senza averlo temuto. Mi parve strana e sorrisi. Per un istante mi venne in pensiero questa domanda: quando escirò? Mi tolsi la giacchetta, perché faceva caldo, mi assisi pensando come dovesse esser terribile la noia in carcere. Sempre senza far cosa alcuna, sempre disoccupati, sempre soli! E’ una cosa terribile!.. Per passare il tempo mi detti a esaminare le pareti della prigione. Qual libro eloquente è la parete di una carcere! In essa ciascun prigioniero scrive una parola, un motto, con un lapis, spesso con una pietra, colle unghie, impiegandovi la pazienza di un’ anacoreta, e quella parola è una lezione, è una rivelazione, è parola di un’anima per cui è caduto il velo delle finzio- VITA DI T. STROCCHI LXXVIII ni, e che parla ammaestrata dalla triste scuola della esperienza. Ahimè quanti disinganni! Vidi una figura; era rozzamente disegnata, ma esprimeva meravigliosamente un forte concetto. Era la figura di un uomo inginocchiato; il capo teneva rivolto al cielo, la vita piegava in atto doloroso, le mani sollevava supplichevoli, stringendovi un rosario. Sembrava che chiedesse a Dio l’oblio di un doloroso pensiero, la morte di un rimorso terribile. Dietro alle sue spalle si vedeva un cielo nuvoloso, nero, come una notte tempestosa; su quelle nubi aleggiava una civetta, poi due, dieci, innumerevoli civette che sembravano urlare fra le tenebre il loro canto sinistro. Forse quell’infelice sentiva sempre il grido di quei notturni augelli, e quel grido gli rammentava forse una scena tetra, paurosa, terribile, ed egli cercava dimenticarlo, ed al cielo chiedeva la misericordia dell’oblio, del sonno, della morte; ma sempre davanti agli occhi gli stava quella notte profonda, e nell’orecchio quel suono, e forse sulle mani quel sangue. Ahime come deve essere infelice colui che chiuso in una carcere abbia il tormento del rimorso!…» Intanto che il nostro carcerato faceva queste considerazioni, si disponeva di lui. Il tenerlo a Lucca lungamente si reputava pericoloso per le sue molte aderenze, e più per l’amore della Società de’ Reduci, che saputo del suo arresto s’era convocata d’urgenza per deliberare cosa dovesse farsi. Sicchè trascorsi appena due giorni, all’insaputa di tutti, per fino della sua famiglia, senza danari, senza biancheria, ma bene ammanettato fu condotto a Pisa, poi a Livorno, poi a Genova nelle carceri della Torre, dove stette quasi un mese senza mai poter prendere VITA DI T. STROCCHI LXXIX una boccata d’aria, mancando ivi i cortili necessari. Da queste carceri fu fatto passare poi in quelle di sant’Andrea, lungo molto più decente e dove già si trovavano altri molti prigionieri politici, tra’ quali Antonio Mosto, Stefano Canzio, Luigi Stallo, Ernesto Pozzi, noti repubblicani, nella cui compagnia egli potè trascorrere meno peggio i lunghi giorni di prigionia, prima che fossero decise le sue sorti; le quali secondo che potevasi argomentare dalla partigiana e cavillosa requisitoria del Procuratore Morello, non potevano essere molto lusinghiere. Ma poi, checchè pensasse de’ prigionieri di Sant’Andrea quel magistrato inquirente, se in buona fede o no poco giova indagare, la Sezione di accusa nella sua saviezza e severità d’animo, pensò bene il sentenziare con un non farsi luogo a procedere, e chiudere il dramma col por tutti in libertà. La qual cosa accadde il dì 27 settembre col plauso generale di tutto il partito liberale democratico d’Italia, e particolarmente di Genova, che giubilante sì recava ad attendere quegli onesti e prodi cittadini fuori della porta di Sant’Andrea. La folla v’era stivata, racconta Tito Strocchi, i lumi erano alle finestre, la banda popolare del Borgo a Pila suonava l’inno di Garibaldi; un grido di applauso universale scoppiò come un uragano poi fummo travolti nella marea popolare, abbracciati, baciati, festeggiati, stretti, pestati, confusi. Il più confuso era io che non conosceva nessuno fra quel numero immenso di popolo, e camminava sospinto, barcollante e pensava qualche volta al mio cappello che correva rischio da cascare e scomparire sotto i mille piedi del popolo. Genova! Io non ti dimenticherò mai; io ti amo come il cuore della patria mia; quel momento mi ti legò eternamente, come un VITA DI T. STROCCHI LXXX immenso benefizio lega il cuore d’un uomo al suo benefattore. Genova, io amo il tuo mare e le tue colline, i tuoi superbi palazzi e le tue fortezze; il dialetto de’ figli tuoi m’incanta così che io sono costretto a guardare con simpatia tutti coloro che un suono, un accento, una inflessione di voce mi riveli genovesi!» Tornato in patria la sua propaganda repubblicana continuò. Nulla per quanto fosse terribile poteva piegare quell’animo d’acciaio del nostro amico, né affievolire quella fede ardentissima che lo rendeva così entusiasta per quell’ideale che infallantemente dovrà essere la meta di tutti i popoli civili. Sì, quel giorno verrà; né giova saper quando: la vita de’ popoli non è vita di giorni, di mesi, di anni, ma è vita di secoli. L’avvenire non è in mano di nessun potente, ma di Dio che lo prepara per mezzo dell’Umanità. E all’avvenire guardava con ansia Tito Strocchi; e ogni occasione che gli si presenta per maggiormente affermarsi col suo apostolato, non la sfuggiva, anzi se ne impossessava, se la faceva sua, sempre fermo, immutabile, deciso di perdere anche per poco quella popolarità alla quale molto teneva, se convinto di giovare alla causa, cui s’era tutto dedicato. Così noi lo vediamo nella Loggia Balilla fare il possibile per indurre i suoi fratelli a staccarsi del Grande Oriente di Firenze e a mettersi sotto quello di Palermo, apertamente repubblicano, sperando di poter ancora infondere un po’ di nuova vita in quella vecchia e logora istituzione della Massoneria: poi ritirarsi da quella, quando i suoi consigli e la sua calda parola non ne han potuto convincere la maggioranza per portare tutta l’opera sua in un campo più vasto, nel campo della Democrazia militante. La VITA DI T. STROCCHI LXXXI quale ogni giorno più dava segni di vita rigogliosa e s’agitava e si preparava all’azione; chè fino dal marzo 1870 sapevasi da chi era un po’ addentro a siffatte cose che nella primavera o nell’estate doveva tentarsi un movimento repubblicano; movimento che iniziato poi, come vedremo, non riuscì a nessun pratico risultato, se ne eccettui quello di dimostrare anche una volta che nelle attuali circostanze d’Italia e dell’Europa siffatte rivoluzioni, se possono dar agio ad anime generose di sacrificarsi per una idea, sia pur santa, però non riescono a fondare governi stabili. Dacchè nessuna idea, nessun principio può imporsi a mano armata, e molto meno quando trova viva resistenza in un governo costituito a larga base come le attuali monarchie. Se feconde di libertà sono le armi che un popolo rivolge contro lo straniero oppressore, fatali spesso tornano alla libertà, se si fanno provocatrici di guerra civile. E’ nel campo dell’idee e de’ principii che i cittadini della stessa patria devono combattere fidando in quella evoluzione storica che può farsi attendere, ma che non può mancare. La repubblica, checchè si dica e si creda da certuni, è e dev’ essere necessariamente la conclusione logica della Democrazia, vita, anima, dell’epoca nostra. Ma il nostro amico purtroppo nulla o ben poco fidava nell’evoluzione, e molto invece, anzi tutto nella rivoluzione. E con quanto ardore predicasse questa sua fede, non può crederlo se non chi ebbe agio di moderarne qualche volta gl’ impeti generosi. Intanto l’Alleanza repubblicana aveva messo profonde radici anche in Lucca, per opera sua principalmente. E se ne compiaceva così che ogni dì più scaldavasi a’ propositi di quel movimento repub- VITA DI T. STROCCHI LXXXII blicano, che come dissi fino dal marzo s’andava preparando. Laonde quando nel maggio le prime bande d’ insorti mossero da Catanzaro e da Como, sicchè parsegli giunta l’ora di secondare l’iniziato movimento, non titubò un istante. Allora dette la sua parola e da quel giorno consacrò tutto se stesso ad organizzare anche in Lucca una banda pronta ad insorgere appena ne avesse avuto l’ordine, e alla quale poi avrebbero tenuto dietro altre bande e di Pisa e di Livorno e di Carrara e di Spezia, che a traverso vie diverse e difficili avrebbero dovuto far capo sugli appennini pistoiesi, per muovere verso Firenze appena l’insurrezione si fosse generalizzata in Toscana e nella Liguria e da queste alla Lombardia ; dall’Italia peninsulare, alla Sicilia. Cosa così arrischiata e di così difficile attuazione da far dubitare dell’esito anche i più ardimentosi e pronti ad ogni sommossa. Ma era tanta e così viva la fede che scaldava di santo entusiasmo per la repubblica il nostro amico, che non soltanto non curava le difficoltà che da’ più cauti gli venivano enumerate, ma nemmeno volle tener conto di tutti quegli indizi che purtroppo facevano prevedere l’impossibilità di riuscire a far cosa utile e profittevole alla causa per la quale egli tanto s’era adoperato. E l’ora della prova venne, e grande e doloroso fu il disinganno che ne soffrì. La notte dal 4 al 5 era stata fissata pel movimento: più bande armate riunite sugli appennini pistoiesi dovevano ivi attrarre le guarnigioni delle principali città della Toscana, perché queste potessero alla lor volta insorgere. Ma se da Lucca settanta e più giovani, tutti armati di fucili, che con grande accortezza e ardimento erano riusciti a sottrarre dal R. Liceo, ove erano custoditi, avendo ser- VITA DI T. STROCCHI LXXXIII vito qualche mese prima agli esercizi militari di quella scolaresca; se settanta e più giovani, dico, erano potuti uscire di città senza che nessuno li disturbasse, e avevan preso la campagna e presto guadagnato i monti delle Pizzorne, non così poteron fare i repubblicani delle altre città, vuoi pel tradimento di un tal Buglio da Livorno, o meglio perché fossero avvisati in tempo di desistere, essendo eguale avviso giunto anche a Lucca, ma troppo tardi. Dimodochè la festa dello Statuto che ricorreva appunto in quel giorno 5 giugno, venne in Lucca disturbata dall’inaspettato avvenimento. Ogni sollazzo pubblico andò a vuoto, e cittadini ignari di tutto furono arrestati e condotti in carcere con grande strazio delle loro famiglie e maraviglia generale. Dapertutto sodati, guardie, spie, curiosi; alla sera il libero passaggio delle mura interdetto. Mille discorsi, quante notizie inventate, supposizioni fatte, calcoli sbagliati! chi giudica la cosa una ragazzata, chi invece crede giunto il finimondo! Intanto uno squadrone di Lancieri e tre compagnie del cinquantottesimo reggimento di linea inseguono gl’insorti; e le arti più indegne son messe in opra per eccitare l’odio delle popolazioni limitrofe contro quella schiera di giovani, i quali, se si potevano dire illusi da un roseo avvenire, erano però tutti onesti e molti avanzo delle patrie battaglie. Furono tre giorni di trepidazione per gli amici, per i conoscenti, di paura pe’ meticolosi, di curiosità per gl’indifferenti; tre giorni, chè tanti rimase il nostro Tito co’ suoi su’ monti inseguito e circondato da numerosa truppa, e sotto una pioggia continua, insistente quale raramente cade nella stagione estiva. La qual pioggia poi doveva tornare tanto benefica, chè si dee forse ad VITA DI T. STROCCHI LXXXIV essa, se non s’ebbero a lamentare guai maggiori; se non fu sparsa una goccia di sangue fu proprio perché ogni resistenza da parte degl’insorti era divenuta impossibile; le munizioni fracide, avevano resi inutili i fucili! Per la verità storica debbo per altro dire che la truppa appena s’imbattè ne’ rivoltosi, scaricò loro contro una cinquantina di colpi, e fu fortuna se nessuno rimase ferito, poiché due ebbero forato il cappello. La qual cosa si cercò poi giustificare come provocata da un colpo di fucile lasciato fuggire da uno degl’inseguiti, e per mero caso, perché era l’unico fucile, dice il nostro amico, che si fosse conservato in buono stato. Ma ecco com’egli ci racconta l’arresto avvenuto di tutti i componenti la Banda il giorno 7 giugno in prossimità di Prunetta sul pistoiese. « Eravamo alla metà del colle,quando alla sommità del medesimo vedemmo spuntare distesi in catena i soldati del cinquantottesimo reggimento di fanteria. Essi avevano girato dalla parte opposta, lasciando sulla strada un battaglione e la cavalleria, ed ascendendo a rinchiuderci. Eravamo circondati strettamente; né al comandante tornò difficile il farlo con tanta truppa, contro un gruppo così piccolo, e colla conoscenza del luogo e coll’ aiuto di guide che a lui certamente non mancavano. Appena i soldati ci videro cominciarono a far fuoco e scaricarono una cinquantina di colpi. Fu ventura che la presa deliberazione di non resistere, la mancanza delle polveri e la infelicità della posizione ci trattenessero dal resistere,poiché quel momento se mi fossi trovato in altra posizione, cioè nel luogo in cui erano i soldati, se avessi avuti i fucili asciutti ad onta della conoscenza che avevo di fare cosa inutile rispondendo e di pro- VITA DI T. STROCCHI LXXXV vocare una strage generale, poichè i soldati ci avrebbero uccisi tutti, io preso dalla rabbia, dalla disperazione, avrei fatto scaricare il primo colpo, e dopo quello chi ci poteva trattenere? Se ci avessero trovato il giorno innanzi a Pontito, meno stanchi, meno scoraggiati, la scena sarebbe stata terribile; incominciata la resistenza non sarebbe terminata che colla morte di quasi tutti noi. I miei erano pieni di coraggio e deliberati a tutto, ma non eravamo più nel caso di far resistenza; eravamo sorpresi in posizione troppo sfavorevole, senz’armi, senza certezza di condotta. E fu meglio. Chi sa quanto sangue si sarebbe sparso, del quale certamente si sarebbe fatto colpa a me…La vita!…Chi dirige le vicende umane? Chi è il regolatore della Società, del destino, degli uomini? Se non avesse piovuto in quei giorni, ed era facile essendo d’estate, chi sa quanti uomini erano morti. Ed io vivo perché nei primi giorni di giugno piovve. Bizzarrie del caso!… » Arrestati, disarmati, perquisiti, son tutti condotti a Piteglio, paese che si trovava distante cinque o sei miglia, ed ivi rinchiusi in una piccola chiesa. La mattina seguente fatti uscir fuori e circondati da un battaglione del cinquantottesimo si mettono in marcia per Pistoia, ove saliti in treno vengon portati a Lucca e rinchiusi nelle carceri di san Giorgio. Dalle quali trascorsi pochi giorni, o sia perché soverchiamente piene di prigionieri politici, o sia per qualsivoglia altra ragione di sicurezza pubblica, furono mandati, spartiti in più gruppi, chi a Pistoia, chi a Firenze e il nostro Tito con pochi altri a Rocca san Casciano. E il più colossale processo politico che la Procura Generale presso la Corte d’Appello di Lucca avesse mai avuto, era iniziato e VITA DI T. STROCCHI LXXXVI condotto con quello zelo che spesso tradisce il magistrato e lo fa essere più che il diligente scopritore del vero e il severo esecutore della legge, lo strumento cieco di un potere che s’impone alla giustizia all’ombra dell’opportunità e della ragion di Stato. Molti furono gl’interrogativi cui fu sottoposto il nostro amico, ai quali rispose sempre con la massima franchezza, chè mai una parola a discolpa fu pronunziata da lui. Disse aperto lo scopo cui mirava coll’ iniziato movimento, negò di avere intelligenza con altri d’altre città e si mostrò generoso verso gli amici. Della sottrazione delle armi al R. Liceo egli solo si chiamò responsabile. E come lui, uguali esplicite dichiarazioni furon fatte da tutti gli altri come ne fa fede l’ atto d’accusa stampato e notificato loro il 14 settembre 1870. in conformità del quale il Procuratore generale Cesarini chiedeva fossero rinviati all’Assise ben cento tre imputati, primo tra questi Giuseppe Mazzini « per attentato contro la sicurezza interna dello Stato, commessa mediante cospirazione, per aver costituito una Società politica occulta con vincolo di giuramento fra i Soci, e partecipato alla medesima preordinata e diretta a rovesciare il Governo e mutarne la forma; ed avere con direzioni, eccitamenti ed atti di esecuzione nel maggio e giugno ultimi decorsi in Livorno, nelle Maremme, nella provincia di Lucca e presso Pisa tentato di porre in atto e posto effettivamente in atto,con animo ostile, un moto insurrezionale, avendo a tale oggetto tenuto segreti concerti e convegni, preparato armi e munizioni da guerra e formate bande armate, le quali scese poi nella pubblica via con insegne ed emblemi repubblicani, si sarebbero impadronite con minacce, ed anche per via di sot- VITA DI T. STROCCHI LXXXVII trazione seguita con scasso e scalamento di altre armi, avrebbero in vari punti tolto le verghe alla ferrovia e rotto i fili del telegrafo, dato opera a manifestazioni sediziose, tentato di uccidere un cantoniere ed assunta un’attitudine di resistenza di fronte alla pubblica forza.» Due cose per altro facevano prevedere fino dal suo nascere che questo processo non avrebbe avuto seguito: il grande numero degli imputati, e il figurare tra questi Giuseppe Mazzini. Il quale se si era potuto imprigionare, sarebbe però stato troppo pericoloso il trarre dinanzi all’Assise, e più il condannare all’ergastolo. Checchè si dica e si pensi un Governo costituzionale e in ispecial modo quello d’Italia non avrebbe potuto non tener conto delle qualità di una si alta personalità storica; Mazzini comunque si volesse giudicare di fronte ai fatti accaduti, non cessava per questo di essere sempre il primo iniziatore, il grande apostolo dell’unità e dell’indipendenza italiana. Quindi può dirsi senza tema di errare, che Mazzini liberò dal carcere tutti gli altri. E fu per me anche prudenza politica il tirar tanto in lungo colla procedura, attendendo un evento qualsiasi cui appigliarsi per dare un’amnistia generale. Né l’evento si fece attendere lungamente, e fu de’ più avventurosi. Caduto Napoleone III a Sedan, proclamata in Francia la Repubblica, denunziata la Convenzione del settembre 1864, in forza della quale il governo italiano aveva volontariamente rinunziato a Roma capitale, il 20 settembre 1870 per consiglio della Prussia vittoriosa e per espressa volontà popolare, l’esercito italiano entrava in Roma per la breccia di porta Pia, sostituendo ai burleschi mezzi morali, tante volte esaltati, i cannoni e le VITA DI T. STROCCHI LXXXVIII bombe. Sicchè il 9 ottobre, giorno in cui veniva presentato il plebiscito de’ Romani al Re in Firenze, questi concedeva amnistia a tutti gl’imputati politici. Così il nostro Tito il giorno 10, insieme co’ suoi compagni, usciva per la terza volta di carcere, da quella carcere, ove quattro mesi prima era entrato con un ben triste presentimento. Frattanto mentre il nostro amico era in carcere le cose di Francia andavano di male in peggio. Guglielmo di Prussia che aveva detto di far guerra non al popolo francese; ma a Napoleone III, imbaldanzito dalle vittorie riportate e fiducioso nell’aiuto del cielo, solita ipocrisia di tutti i potenti, continuava nella guerra ed accennava a volere invadere tutto il territorio francese, fino ad entrare, come poi fece, da conquistatore in Parigi: Garibaldi sempre generoso, dimentico del passato, già era corso in aiuto della giovane repubblica sorta or ora sulle rovine del secondo impero. La qual cosa rendeva anche più triste il carcere al nostro amico, smanioso com’era di prender parte a sì nobile impresa. Tanto che messo in libertà, tornato in famiglia, subito pensa a partire; e quando considerando le non liete condizioni della sua famiglia trova buone ragioni per non allontanarsi da casa, allora per non esser vinto esclama: « Si combatterà dunque per la Repubblica in Europa senza che io vi concorra col mio braccio, quando da tanto tempo desidero farlo, quando pure ieri per la Repubblica soffrii la carcere?.. L’aurora spunta, la Repubblica in Francia è speranza di Repubblica in Italia. Combattendo per la Repubblica, combattiamo sempre per la nostra fede, poiché la libertà non abbia patria e sia d’ogni popolo, e sostenendola in Francia indirettamente giovasi all’Italia… Combattere VITA DI T. STROCCHI LXXXIX per la libertà, per la Repubblica che santa e lieta cosa!…» Ma il recarsi in Francia non era cosa facile, chè il governo italiano si adoperava con ogni mezzo ad impedirlo. I Porti erano guardarti, sorvegliati; non si lasciava imbarcare alcuno che non fosse provveduto di passaporto, il quale non era rilasciato, cui dava sospetto di andare a combattere per la Repubblica. Guardate del pari erano le vie di terra, e molti giovani erano già stati arrestati. Con tutto ciò il nostro amico, sempre eguale a se stesso, il 27 ottobre, appena trascorsi diciassette giorni da che era uscito di carcere, partiva da Lucca pensando d’imbarcarsi a Livorno per Genova, da dove più facilmente, aiutato da molti amici che vi aveva, sarebbegli riuscito sfuggire agli occhi della polizia e passar presto su terra francese. Ma s’ingannò; perché se gli riuscì a notte inoltrata di recarsi a bordo del Var, bastimento francese che alle quattro del mattino doveva partire per Marsiglia, e sul quale già trovavansi molti altri giovani garibaldini, mentre questo stava per levar l’ àncora fu circondato da numerose barche, piene di carabinieri e di guardie, in una delle quali era il Procuratore del Re e il Console francese per dargli l’autorizzazione di poterlo far perquisire. Né valsero le proteste del capitano: i carabinieri saliron su, frugaron dappertutto, e quanti giovani vi rinvennero trassero in arresto compreso il nostro Tito. Il quale fu condotto prima alla caserma de’ carabinieri, poi alle carceri de’ Domenicani: Bisogna proprio dire che la carcere per il nostro amico fosse ormai diventata la meta d’ogni sua aspirazione. Era uscito or ora dalle carceri di Rocca san Casciano e me lo ricacciano in quelle di Livorno! VITA DI T. STROCCHI XC Questa volta però fu una prigionia di soli cinque giorni, chè il 3 novembre veniva messo in libertà e tornavasene a Lucca, non già per rimanervi, ma ripartire appena si fosse provveduto di danaro avendo spesso il poco che aveva. E difatti il 5 novembre raccolte una sessantina di lire da pochi amici, ripartiva prendendo questa volta la via di terra. E da Viareggio e da Spezia giungeva a Genova la sera del dì 7 senza avere incontrato ostacolo. Se non che un po’ di scoraggiamento dovè assalirlo quando seppe che i migliori suoi amici, quelli su cui più contava, erano già partiti. Pure tanto cercò, tanto fece che il giorno 8 guidato da due facchini del porto e quasi travestito da marinaio della marina mercantile, potè prender posto in una barca e con molta cautela, necessaria ad eludere la vigilanza continua che quivi pure si faceva dalle guardie a da’ carabinieri, esser condotto a bordo della Principessa Clotilde che partiva per Marsiglia. Credeva di aver vinto; ma un’altra sorpresa, un nuovo imbarazzo gli si preparava. Il capitano voleva pel suo trasporto centocinquanta lire! « Che fare?, egli dice. Io non le aveva; scrissi un biglietto a Mosto pregandolo a prestarmi cento lire. Egli me le mandò subito. Io allora detti centoventi lire al Capitano, così accordandoci quasi che egli mi facesse un gran favore, qualcosa detti a coloro che mi avevano accompagnato, sicchè rimasi con tredici lire!…» Nonostante egli era lieto e contento; era riuscito fedelmente a vincere tutti gli ostacoli che avevano così tanto ritardata la sua partenza! Pure, quando il battello principia a muoversi e, salito sul ponte, dietro invito del Capitano che gli annunzia essere ormai sicuro vede Genova che si allontana e VITA DI T. STROCCHI XCI a poco a poco si perde nella oscurità della notte, e in lei guarda l’Italia, l’Italia che forse non rivedrà più, egli è mesto e dal suo cuore prorompono parole commoventi come queste: « Oh patria mia, profondo come questo mare è l’amore che io ti porto, è quanta tristezza mi scende nel cuore nel vedere le tue coste allontanarsi e perdersi a poco a poco, come una cara immagine, come memoria gradita dietro il velo del tempo. Mi sembra che lontano da te, io nemmeno debba più vedere le stelle che scintillano nel sereno delle tue notti. Io ho baciato la mia ultima orma impressa sulla rena; la marea copre già quell’orma e quel bacio. Pure questa tristezza, ombra dell’anima, è dolce e quieta, come l’ombra di questa terra; io sono triste e felice, come il buio di questa notte è scintillante per la lontana luce degli astri. Triste nell’allontanarmi, felice su questa via che mi avvicina alla battaglia della libertà, della libertà che per te prima vorrei e che ancora non hai. Io avrei voluto morir per te e salutarti morendo con ultima parola italiana, poiché tu mi hai dato il cuore - solamente quello ed è assai - degno di te!.. E mi sembra che tu a questa nostra partenza pei campi di un popolo fratello che combatte ormai per la sua libertà, scosso il giogo del suo despota, tu benedica o madre alma, come contenta dei figli che uscirono dal tuo seno, dolente, pure orgogliosa del sangue che uscirà dal nostro. « Quante volte accompagnasti ai lidi delle tue marine i tuoi figli che correvano la terra a gridare il tuo nome alle genti? Tu li vedesti salpare sotto le ali delle aquile romane, di cui con passi poderosi seguivano il volo poderoso per le contrade che l’antichità conobbe; e l’esterno Oriente e i de- VITA DI T. STROCCHI XCII serti della Numidia e della Libia e la Clyde e il mare Iperboreo e le brune Selve degli Sciti e l’Eufrate e il Ponto ascoltarono il suono della tua favella in un canto di vittoria. E li vedesti poi dai tuoi porti di Genova e di Pisa , di Napoli e di Venezia ricercare le orme dei padri e ritrovarle, ricoprire le onde dei tuoi mari di galee, di bandiere repubblicane che giungevano ai lidi più lontani a portarvi i tuoi drappi e le tue armi, i tuoi marmi e le tue dovizie e le creazioni e le invenzioni del tuo genio; e da Amalfi vedesti partire la prima bussola, guida dei mari, e dietro a Colombo i tuoi marinai scopritori di mondi. «E tu benedicesti agli Italiani che esulando dal tuo seno contristato dagli stranieri combattevano in Spagna, a Santorre Santarosa che partiva per la Grecia combattente, a Garibaldi e a’ suoi prodi che pugnavano in America per la libertà, a Nullo a Bechi che cadevano per la Polonia, a tutti dicendo: mostrate di esser degni di libertà combattendo per lei; nel suo nome spargete il vostro sangue sulle terre straniere, suscitate ovunque il fuoco dei vostri vulcani, il fuoco dei vostri cuori. Ed ora, o patria, tu ci saluti su questo lido donde noi salpiamo per una terra grande più di quello che essa degnamente non si senta, per una terra in cui il popolo combatte l’invasore.Noi porteremo alla Francia l’amore d’Italia, a un popolo il braccio della rappresentanza di un popolo. Alcuni fra noi sopravvissero alla difesa Repubblica Romana, moltissimi alla funesta giornata di Mentana, e sono gli avanzi di quelle stragi che Italia invia al soccorso di Francia. Oh patria mia sei grande!.. Rivedrò io la primavera delle tue verdi colline, la gloria delle tue città, l’occhio nero delle tue donne? L’onda scorre sotto la chiglia del battello, VITA DI T. STROCCHI XCIII Genova scomparve nella notte che cresce. Domani quando il giorno sorgerà ove sarò io? Quanto da te lungi? Tu però mi sarai sempre nel cuore. Addio mia patria, belle coste della Liguria addio, addio Italia.» Così alle tre pomeridiane del 9 la nave Clotilde entrava nel porto di Marsiglia, e dopo poco il nostro amico si trovava solo in quella grande e popolosa città. Né sapendo a quell’ora cui rivolgersi, va in un modesto restaurant, chè i suoi tredici franchi non gli permettevano certo di far del lusso! Mangia qualche cosa e poi, vinto dalla sua curiosità d’artista, si mette a percorrere le larghe e numerose vie di questa superba città della Francia, ove i suoi palazzi immensi se non sono quelli di Roma, di Firenze, di Venezia e di molte città d’Italia dalle severe linee architettoniche, pure son belli e ti piacciono. L’architettura francese ha una fisionomia tutta propria, e a me pare che corrisponda perfettamente all’indole, al carattere di quel popolo. Con ogni cosa in Francia più che ad educare la mente,si vuol colpire la fantasia; là tutto dev’ essere piacevole, sorridente. Il che dovette certo osservare anche il nostro Tito, ma più lo sorprese il vedere tutte quelle variate uniformi, indossate da una quantità immensa di soldati e di guardie nazionali e di cittadini armati, non che tutti que’ cartelloni giganteschi affissi su per i muri, portante iscrizioni ciarlatanesche come a mo’ d’esempio: Halte là, Prousiens, on n’avance plus ! Chè ancora in siffatto modo si continuava in Francia ad ingannare l’opinione pubblica,sebbene il nemico s’avanzasse di giorno in giorno, dilagando le sue provincie e i suoi dipartimenti come fiumana irrompente, e ovunque regnasse il massimo disordine. VITA DI T. STROCCHI XCIV Chiunque si fosse trovato in Francia di que’ giorni facilmente si sarebbe potuto accorgere d’esser caduto in mezzo ad un popolo smarrito, quasi perduto, incerto dell’oggi, e più del domani. Alla tremenda sconfitta di Sedan, era succeduta la vile capitolazione di Metz; e a queste due vergogne dell’Impero avevano tenuto dietro le facili recriminazioni, le pazze gelosie, ed una grande sfiducia era entrata nell’animo di tutti. Il governo della difesa nazionale sorto il 4 settembre, lo vedi costretto a uscire da Parigi ormai investito dai nemici per ritirarsi a Tour: Garibaldi invitato a portare il suo vigoroso braccio in difesa della giovane Repubblica, dapprima applaudito, poi poco men che abbandonato per un male inteso orgoglio nazionale. Uomini ambiziosi, falsi patrioti, vili speculatori ivi accorsi da ogni luogo, da ogni paese e nazione, tutti in moto sempre pronti ad ogni comoda occasione per far fortuna; e così poi, misti ad atti di abnegazione ed eroismo, le maggiori vigliaccherie! Purtroppo lo stato morale e politico della Francia era questo quando vi arrivò il nostro amico, lui deciso a morire per Lei e per la sua libertà!« Ma ogni causa buona, egli dice e con ragione, ha i bugiardi apostoli, ha i furbi che se ne approfittano per isfruttarla, che la disonorano per riempirsi le tasche. Nella democrazia, più che in qualunque altra società vi sono gl’ impostori, i furbi, i disonesti che piena la bocca di grandi parole commettono le più turpi azioni ed ingannano il prossimo. Ma sarà questa una colpa della democrazia? La colpa è degli infami, dei codardi, della canaglia che prende a sfruttare quel campo piuttosto che un altro. Non è democratico chi disonora la democrazia. Costoro sono imbroglioni senza arte né parte, che corrono sempre colà dov’è un poco di con- VITA DI T. STROCCHI XCV fusione per immischiarvisi ed accrescerla, per trovarvi sempre qualche cosa da guadagnare, danneggiando sempre e disonorando gli onesti e i veramente buoni che si ritirano, tacciono mortificati di fronte a tanta improntitudine e a tanta sfacciata temerità. Corrono tutti alla caccia d’impieghi, di gradi, di guadagno, ed ottengono sempre coloro che meno ne hanno il diritto. L’onesto sdegna di cacciarsi entro quell’intrigo, in quell’affaccendarsi e brigare di ambizioni, di invidie, di calcoli e di appetiti, scende l’ultimo gradino, si confonde fra la moltitudine e cerca un premio nella propria coscienza.» Così pensava e così faceva Tito Strocchi. Difatti il giorno dopo il suo arrivo a Lione, ove maggiore trovò l’armeggio degli scaltri affaristi, degli ambiziosi ricercatori di gradi, egli si reca al Comitato di arruolamento, cui dà il suo nome, non d’altro sollecito che d’esser mandato presto al campo. E fu ben contento di poter partire la sera stessa con altri quaranta volontari per Autun, sebbene poi dovesse esser dolente di giungervi quando, affranti dalle fatiche e con lo scoraggiamento nell’animo, vi tornavano quei battaglioni italiani e francesi, che avevano preso parte la notte del 26 all’assalto di Digione. Fatto d’arme glorioso pe’ i volontari italiani, ma che purtroppo non poté esser coronato dalla vittoria, un po’ per esser pochi i combattenti, ma più per mancanza di coraggio nelle guardie mobili francesi, che fuggirono dinanzi al nemico. «Garibaldi, scrive nel suo libro Da Firenze a Digione Ettore Socci, che prese parte a questo combattimento, Garibaldi voleva sorprendere Digione, ed era sicuro d'impadronirsene con uno dei suoi colpi di mano; e vi garantisco che sarebbe riuscito: mille valorosi di più, VITA DI T. STROCCHI XCVI duemila vigliacchi di meno!» Laonde non solo il piccolo esercito garibaldino dové poi ritirarsi ad Autun, ma il 30 dové tornarvi anche Garibaldi col suo quartier generale; però con animo di prendersi presto la rivincita. La quale non si fece attendere lungamente, poiché ì Prussiani che erano in Digione, incoraggiati dal successo del 26 e sperando di poter sorprendere Garibaldi e di cacciarlo d'Autun, il primo novembre s' avanzarono fin sotto la città, avendo lasciato loro libero il passo un battaglione di Guerriglie d' Oriente, che si trovava agli avamposti e che al primo apparir del nemico fuggiva (1). Erano circa le due pomeridiane quando i primi colpi di cannone dettero l'allarme. Fu una sorpresa: nessuno davvero pensava di dover combattere in quel giorno. Senza Garibaldi tutto sarebbe stato perduto, con Garibaldi invece tutto fu vinto. Non era trascorsa mezz' ora che già tutti i battaglioni si trovavano sotto le armi e in posizione dinanzi al nemico. E prima sono le artiglierie collocate in prossimità della Stazione che tengono indietro i Prussiani, poi le brillanti e ripetute cariche alla baionetta de' volontari italiani, che li costringono a ritirarsi e a ritornare in Digione; da dove poi dovettero presto allontanarsi, visto che Garibaldi s’ avanzava per dar loro battaglia più decisiva. Ed è appunto in questa occasione che il nostro amico per la prima volta in Francia prende parte ad un combattimento; ma in un modo quasi (1) Comandava questo battaglione il luogotenente colonnello Edoardo Chenet, che condannato da un Consiglio di guerra alla fucilazione, venne da Garibaldi graziato. Fu però degradato pubblicamente dinanzi a tutti' le truppe schierate e messo disposizione del Governo. VITA DI T. STROCCHI XCVII comico, certo ben diverso da quello che avrebbe desiderato. Ecco com' egli ci racconta questa sua prima fazione dinanzi al nemico. « Si sentiva, egli dice, il cannone tuonare alla distanza di mezzo chilometro. Noi... il nostro battaglione era senz'armi. Io corsi al mio quartiere sentendo ì primi colpi di cannone in questa campagna. Ordinarono il battaglione, schierandolo per bene, poi lo condussero fuori della città, in prossimità della battaglia, per quanto però ci tenessero sempre al coperto. Bella posizione era la nostra! Sentivamo il rombo vicino del cannone e lo schioppettio rapido delle fucilate e ci trovavamo senz' armi. Se il nemico si avanzava che dovevamo far noi?... Mi ricordo che furono due o tre ore di serio imbarazzo per noi tutti; la nostra posizione era assai critica ; ognuno sì guardava in faccia coll'altro c ci auguravamo che i Prussiani ne toccassero bene. II fuoco seguitò fin quasi alle cinque..... Fu un combattimento breve, ma serio e decisivo. Così Garibaldi aveva salvato Autun e con essa tutto il sud della Francia.» Autun intanto acquistava di giorno in giorno importanza di città militare. L'esercito garibaldino s'andava a mano a mano aumentando, e come potevasi si organizzava. Ricciotti Garibaldi che già s'era fatto molto distinguere nel combattimento di Chatillon era tutto occupato a formare un piccolo squadrone di guide, cui dette poi il nome di Francs Chavaliers de Châtillon appunto in commemorazione di quel fatto d'arme, per lui tanto onorevole. Lo squadrone delle guide si componeva quasi tutto di italiani. N'era capitano uno de` Mille Antonio Radovich, dalmata, e luogotenente Antonio Orlandi Cardini di Pescia in Toscana. Il quale amico intimo VITA DI T. STROCCHI XCVIII del nostro Tito e desideroso di far la campagna insiem con lui, facevalo entrare nelle guide. Sicchè quando meno se lo aspettava fu, come diceva poi scherzando, inalzato così per la prima volta alla dignità di cavaliere! e potè far parte della quarta Brigata sotto il comando del prode Ricciotti Garibaldi che tanta parte ebbe in quella campagna. Partiva la quarta Brigata da Autun il 23 dicembre, e per una lunga escursione allo scopo di meglio conoscere le posizioni dei nemico. Furono ventidue giorni di marcie faticose quanto pericolose a travero quattro Dipartimenti di Saone et Loire, della Nievre, della Côte d'Or e della Yonne. Se non che giunta la Brigata a Chateau Chiron, da dove non ripartì che il 26, metà delle guide ivi si trattennero fino al 2 gennaio, chè non tutte erano provvedute di cavallo e fra queste trovavasi il nostro amico, il quale anzi può dirsi che non possedesse mai un cavallo, dacchè essendo stata a lui affidata la cassa del reggimento, dovè seguir questo nelle lunghe marcie in una carrozza che apparteneva al suo capitano. « Non avevo anche un cavallo, egli dice, ed avendolo non mi sarei sentito in grado di marciare con esso tutto il giorno. Ero un soldato di cavalleria, ma senza cavallo; avevo la sciabola di cavalleria, gli stivali, gli sproni, non potevo quindi marciare nemmeno a piedi. Ero un soldato misto un pò cavaliere un pò fantaccino, e infatti feci così la campagna, marciavo qualche volta da cavaliere e mi battei sempre da soldato di fanteria.» II nostro amico dunque partiva da Chateau Chiron il 2 gennaio, nè potè riunirsi all' intiero squadrone prima del 7 e a Semiur, abbandonata due o tre ore prima dai Prussiani per l'avanzarsi della VITA DI T. STROCCHI XCIX Brigata Ricciotti, la quale aveva poi proseguita la sua marcia per Bontbard e per Flavigny, dov'ebbe una scaramuccia col nemico e fortunata. Però il 12 gennaio tutta la Brigata era costretta nuovamente a mettersi in marcia per sottrarsi a seimila Prussiani che si avanzavano; e per Aignay-Le-Duc, Ir-Sur-Tille il 15 sì riuniva col resto dell'esercito a Digione. Chè ivi appena ritiratisi i Prussiani credendosi poco sicuri dopo il tentativo del 26 dicembre, tutto l'esercito dei Vosgi s' era riconcentrato, e Garibaldi vi aveva posto il suo quartier generale e fatto aveva di Digione, il centro dello sue operazioni. Le vicende della guerra frattanto incalzavano, il giorno della battaglia decisiva anche per Garibaldi si avvicinava. I Prussiani sicuri ormai dell'ultima vittoria, dopo aver circondata Parigi, inviavano altri uomini, e delle loro truppe migliori, nella Borgogna. E il generalo badese Werder con tutto il grosso del suo esercito muoveva lento e poderoso per ischiacciare l'esercito de' Vosgi e proseguir poi sicuro la sua marcia d' invasione. E Garibaldi, collocate le sue cinque Brigate in campo e in buone posizioni, si teneva pronto alla difesa di Digione fino dal 19. Sicchè il 21 conosciuto come l’esercito nemico diviso in due corpi, si fosse steso sopra una lunga linea dalla parte di Fontaine e di Talant, le cui alture erano già state occupate dai generali garibaldini Bossak e Menotti Garibaldi, stendendosi con la sua ala sinistra fino a Mesigny, per la via di Poully a nord est di Digione, e poi per quella di Angres e Ir-sur-Tille faceva fin là marciare la quarta Brigata comandata da Ricciotti Garibaldi allo scopo di tentare il nemico alla sua sinistra e di costringerlo a ripiegare sul suo centro, di fronte appunto alle colline di Fontaine e di Ta- VITA DI T. STROCCHI C lant, dov’erano pure state collocate le artiglierie più potenti di cui potesse disporre l’esercito de’ Vosgi. E il nostro amico come sempre, cavaliere e soldato di fanteria ad un tempo, salito sulla sua carrozza, seguiva la Brigata, sicuro ormai che il giorno della battaglia era giunto, che l’ora delle grandi emozioni era vicina.«Era un bel giorno, così egli, e marciavamo al solito senza sapere niente di sicuro, ma prevedendo però che qualche cosa stava per succedere. Ci parve di udire un lontano rombo. Era il cannone che tuonava sotto Digione. La Brigata si fermò sulla strada al punto in cui lasciava quella di Ir-sur-Tille per prendere l’altra a sinistra di Messigny. Noi giravamo per coprire Digione dal suo lato destro. Allora io scesi dalla carrozza e facendomi vedere consegnai all’ordinanza la borsa che aveva i denari. Lo faceva per due ragioni, perché i denari non andassero perduti s’io moriva, e perchè, non si può mai sapere – e pensando sempre al peggio si fa cosa prudente – quella borsa piena d’oro addosso a me, poteva far sì che qualche soldato dietro di me sbagliasse il tiro e invece di colpire un Prussiano colpisse me nella schiena. Non so qual diavolo fosse che mi mettesse in testa questo pensiero e mi consigliasse di adottare ogni volta che andavo al fuoco questa regola di prudenza, certo doveva essere un diavolo, ma diavolo o no, mi parve che la sapesse lunga ed accettai il consiglio. Presi la mia carabina e il povero Paredi (l’ordinanza del Capitano che conduceva la carrozza ) mi guardò che mi allontanava e mi guardò con affetto; egli mi amava. Andai subito presso la compagnia dell’Isere …. «Capitaine me voilà avec vous. A jordui il fera bien chaud» – « Certainement: dans peu nous serons au VITA DI T. STROCCHI CI face de l’annemy.- «Voilà le petit italian qui vient avec nous, dicevano fra di loro i franchi tiratori, e tutti mi avevano preso ad amare e vedevano con piacere che io avessi scelta a preferenza la loro compagnia.» Intanto la Brigata si avanzava sulla via di Messigny, e già alcune guide s’erano spinte innanzi ad esplorare…. E il nostro Tito…Oh lo dica egli, chè nessuno non potrebbe mai avere tanta efficacia di parola per descriverci con verità lo stato dell’animo suo in questo momento solenne ! « Io, senza farmi vedere, egli dice, trassi i due ritratti di Livia e di …. E li baciai. Era l’ultimo ch’io dava ai miei cari…. Dopo aver dato quel bacio a quelle due donne – e la situazione ed il pericolo in cui mi trovava di non più vederle, mi cresceva la dolorosa voluttà di quella contemplazione e me le faceva apparire più care – caricai la mia carabina, facendo proposito di farmi onore al fuoco e meritare la stima dei francesi fra cui mi trovava. Poco dopo sentimmo lo schioppettio delle fucilate rapido come su può fare colle armi a retrocarica e vicinissimo. Nello stesso tempo a gran trotto tornavano indietro gli esploratori, col capo chino sul collo del cavallo. Eravamo presso a Messigny. Alcuni contadini esterrefatti dalla paura ci guardavano inoltrarci dalle loro finestre, e quasi piangendo ci dicevano: curage, voilà les Prussiens! Erano ottomila e attaccavano con proposito di prendere il paese e respingerci sopra Digione. Camminiamo ancora un poco ed eccoci al momento solenne!....Nello scrivere queste pagine la mia memoria torna a quei momenti, ed io sento la emozione che inevitabilmente sente l’uomo cui pende sopra inevitabilmente la morte. Non avevo paura, ma quei sibili mi dicevano, fra un secondo tu sarai morto. Io ripeto non tremava e vo- VITA DI T. STROCCHI CII leva esser là dove sarebbero stati i primi, e vi fui…. Ogni colpo mi pareva che dovesse trapassarmi, non credeva a me stesso nel sentirmi sempre sano, e nonostante, aveva piacere dir restare per fare un altro colpo, un altro, poi un altro come avviene a due amanti che si baciano nel lasciarsi e non sanno risolversi a darsi l’ultimo bacio. Strana similitudine, perché i nostri erano veramente terribili baci.» La Brigata Ricciotti entrò in paese, e il fuoco continuò sempre per un’ora e più. Finalmente i Prussiani dovettero ritirarsi e riconcentrarsi in faccia a Digione, come era desiderio di Garibaldi. E il nostro amico sapendo di avere fatto il suo dovere e confortato in questa opinione dalla stima che dimostravano aver per lui tutti gli ufficiali, era contento di sè e acquistava nuova lena e nuovo coraggio. La battaglia frattanto infieriva in vicinanza di Digione. Ma là era Garibaldi che dalla collina di Talant dirigeva il combattimento; e colla sua presenza, salito a cavallo, sebbene vecchio e storpio pe’ dolori, infiammava i suoi e portavali alla vittoria. Il 21 gennaio fu la prima di quelle tre memorabili giornate di Digione che ricoprirono di gloria il giovane esercito dei Vosgi, e tanto splendore accrebbero al nome già immortale del suo duce supremo. Ma ahimè! quante vite preziose vi perirono. Fu un’ecatombe, dice il valoroso nostro Tito; e quanto son piene di dolore, di tristezza queste sue parole: « Rientrato in Digione (dopo il combattimento), tornai al mio albergo, stanco, affamato da non dirsi. Ero digiuno dal giorno innanzi e dopo aver fatta quella vita !..Era corsa notizia tra i miei amici che io fossi morto ed alcuni erano andati alle ambulanze per cercarmi…Nella stanza ov’io mangiava, allo stesso tavolo pranzavano nelle altre sere tre italiani VITA DI T. STROCCHI CIII ufficiali della legione Tanara. Essi mancavano tutti e tre, erano morti! Tutto ciò era triste e conteneva in noi la gioia per la vittoria conseguita …». Eppure al combattimento del 21 ne dovevano tener dietro altri e se non più aspri, più decisivi. Il nemico quantunque fosse stato battuto, s’era ritirato poco lontano e il giorno dipoi fino dalle prime ore del mattino riattaccava le stesse posizioni. Ma come il giorno innanzi falliva nell’impresa, così dovette nuovamente ritirarsi. Gli onori della giornata toccarono alla brigata Menotti Garibaldi, chè le altre brigate erano rimaste in seconda linea; e tra queste quella Ricciotti Garibaldi della quale egli il nostro Tito, come sappiamo, faceva parte. Peraltro s’ingannerebbe chi credesse di vedere là in Digione il nostro amico seduto a desco in un caffè o in un Restaurant contento di riposarsi delle fatiche passate in attesa degli eventi della giornata.Ove fosse il 22 le petit italien, come lo chiamavano ormai i Franchi tiratori, ce lo dice Ettore Socci nel suo Da Firenze a Digione: «Arriviamo, egli narra parlando di questa seconda battaglia, arriviamo alle nostre batterie, un ronzio impertinente di palle ci avvertiva che il nemico era poco lontano; Garibaldi, Menotti, Bizzoni, Sant’Ambrogio in quel momento erano là. Troviamo lo Strocchi che ci avevano dato per ferito, lo abbracciamo e si unisce a noi.» Nè poteva essere altrimenti: egli era sempre là dove si combatteva, anzi dove maggiore era la mischia e il pericolo. Ma ecco come egli ci racconta questa circostanza. «Dopo mezzogiorno, dice, io vedendo che per noi non v’era ordine alcuno, presi la mia carabina sulle spalle e en amateur mi avviai verso il luogo della battaglia, dicendo al Capitano: «Capitaine la brigade Strocchi, VITA DI T. STROCCHI CIV composèe de moi, part pour renforser les autres brigades!» e me ne salii sulla collina di Talant. » E la sera anch’egli rientrava nuovamente in Digione fra gli evviva di quelle popolazioni festanti, pazze di gioia per la vittoria riportata da Garibaldi su’ Prussiani, meno contrastata di quella del 21, ma più decisiva. « Io, esclama egli pieno di entusiasmo, io mi sentivo venire una lagrima negli occhi ed avrei voluto raccoglierla per farne un diamante da far impallidire tutti i ricchi gioielli di cui i felici si adornano nelle loro feste da ballo. » Ma i Prussiani non sono ancora soddisfatti, e il 23 tornano all’assalto più che mai incaponiti di impadronirsi della città di Digione. Ammaestrati però dalle sconfitte del 21 e del 22 questa volta non osano attaccare di fronte le forti posizioni di Talant e di Fontaine e le girano invece dalla parte di Langres o d’Ir-sur-Tille. Muovono ad incontrarli la Brigata Canzio e la Brigata Ricciotti dall’altra. E il nostro amico si trovava come sempre al suo posto, lui cavaliere …a piedi, anche questa volta è la fra i suoi franchi tiratori dell’Isére, i quali lo considerano ormai come un loro concittadino. E il nostro amico si trova come sempre al suo posto, lui cavaliere… a piedi, anche questa volta è là fra i suoi franchi tiratori dell’Isére, i quali lo considerano ormai come un loro concittadino. E se la giornata del 23 fu per l’esercito dei Vosgi non meno gloriosa delle altre due precedenti, chè i prussiani dopo ott’ ore di combattimento dovettero battere in precipitosa ritirata, fu un vero trionfo pel valoroso nostro amico. « La brigata Ricciotti, dice Luigi Stallo nel suo libro Verità e calunnia dinanzi al generale Garibaldi, ebbe l’onore di prendere la bandiera del sessantunesimo reggimento VITA DI T. STROCCHI CV prussiano che porta il nome del Re Gugliemo, la quale fu raccolta sopra un mucchio di cadaveri dal bravo amico nostro Tito Strocchi di Lucca, soldato delle guide e che per questo fatto è stato subito promosso al grado di sottotenente» E poiché questo fatto della bandiera dette luogo a tanti discorsi, né mancò perfino chi volle porne in dubbio la verità, sento il dolore di riprodur qui per intiero la descrizione che il nostro amico lasciò nei suoi scritti inediti Ricordi di Francia 1870-71. del glorioso combattimento del 23 gennaio, e della parte ch’ei v’ebbe; descrizione non pubblicata mai per quella ripugnanza ch’egli sentì sempre a parlare di sé e delle cose sue: Tito Strocchi era modesto quanto valoroso. Ascoltiamolo: « I prussiani avvedutisi dell’errore commesso assaltando le posizioni di Talant e di Fontane giravano ora dalla strada di Langres e d’Ir-Sur-Tille. Garibaldi aveva ordinato alla brigata Canzio di muovergli incontro da una parte e alla brigata Ricciotti dall’altra. Al primo incontro i mobilizzati di Canzio erano fuggiti disordinatamente ed erano entrati in città senz’armi, spargendo per tutto la paura, lo sgomento. Intanto i prussiani liberi, sbaragliato quel debole nemico, s’erano inoltrati fino al castello di Poully e stavano per piombar tutti sovra di noi, sovra di noi povera brigata di millecinquecento uomini. A due chilometri da Digione trovammo sul lato sinistro della strada maestra e proprio sorgente al suo limite una fabbrica di nero animale, appartenente al signor Bargy. Entrammo nella fabbrica; il locale era stato abbandonato e in un’ attimo fu invaso, si sfondaron porte,si rinvennero delle pale, dei picconi ed altri utensili, e tutti con un attività febbrile, con VITA DI T. STROCCHI CVI energia tremenda pari a quella di un naufrago che si costruisca una zattera vedendo affondare il bastimento, tutti si dettero ad aprire nei due muri del cortile delle feritoie, dei buchi da cui si potesse far fuoco sul nemico, difesi. Ricciotti Garibaldi correva in su e in giù animando tutti, dando ordini rapidi, tutto disponendo per una terribile difesa. Prima di un quarto d’ora il piombo cominciava a fischiare su quel baluardo. I nemici erano giunti: cominciarono a tirar granate sulla strada per smontare i nostri due cannoni che ivi erano stati piazzati e che aprirono energicamente il loro fuoco. Le giornate cadevano ora più vicine, ora più discoste e sempre più si vedeva che colui che mirava perfezionava il suo tiro. Cadevano a pochi passi da noi sollevando un nuvolo di terra e di polvere e scoppiando tremendamente.. Io ero nel cortile e stavo a guardare quei proiettili rispettabili, immaginandomi di vederne di momento in momento scoppiare qualcuno entro al cortile ed in mezzo a noi. Era frattanto incominciato il fuoco della moschetteria. Nulla di più terribile, nulla di più accanito di quelle tre ore di combattimento. I prussiani si spingevano innanzi in grandi masse, decisi di togliere quel lieve imbarazzo e marciare sulla città. Sul primo la loro fanteria era disposta e nascosta dietro ad una specie di foresta che è sulla strada di Poully, in faccia a noi. I cannoni nostri tiravano incessantemente e quel loro colpi ci rassicuravano poiché il soldato di fanteria ha una grande fiducia sul cannone che lo protegge. Ma le granate tedesche piovevano una dopo l’altra e già i nostri artiglieri avevano qualche ferito, come pure qualche cavallo era stato colpito e staccatosi fuggiva all’impazzata, ove lo conduceva la paura… VITA DI T. STROCCHI CVII « Cessato il fuoco dei nostri cannoni, i prussiani si avanzarono terribili, fulminando il nostro riparo con scariche tremende. Ma i franchi tiratori rispondevano fieramente. I loro colpi erano però più fortunati perchè miravano con istudio e ad ogni scarica atterravano un nemico. Quella casa pareva che vomitasse fuoco, sembrava una immensa mitragliatrice con millecinquecento bocche che incessantemente sputassero piombo e fiamme; da ogni finestra partirono colpi, il muro aperto in tanti luoghi da tutte le parti faceva scaturir fuoco e per quanto ne riceveva, tanto ne rendeva agli assalitori. Impossibile il dire qual fosse il rumore infernale di quel luogo ristretto in cui era tanta vita, contro cui si dirigevano tanti colpi e dal quale tanti ne partivano: era un inferno… Eravamo circondati da due parti e il nemico minacciava girare a sinistra e chiuderci ogni paso. I reggimenti non più trattenuti dai nostri cannoni si erano avanzati fino a cinquanta passi dal muro del cortile. Si vedevano come a tal distanza si può vedere un amico avanzarsi, far fuoco ed incalzare, sospinti da altri. Noi credevamo che in poco saremmo stati se no sterminati, fatti tutti prigionieri. E Ricciotti pure si avvide della critica posizione e incoraggiava tutti alla più disperata resistenza; ma non credeva di uscirne libero. Egli era però calmo e freddo come sempre, dimostrava il più imperturbabile coraggio: aveva fatto proponimento di difendersi fino all’estremo e di morire poi combattendo a corpo a corpo coi primi che fossero penetrati nel recinto, Sarebbe stata una lotta terribile; egli avrebbe mantenuto quel proponimento che così freddamente e così seriamente faceva; gli altri avrebbero fatto come lui, io era deliberatissimo a farlo e fu anzi VITA DI T. STROCCHI CVIII da quel momento che io, mentre prima mi era limitato a tirare qualche fucilata cominciai a darmi attorno con tutta la possibile energia. Un buon comandante che dimostri coraggio e grandi propositi comunica agli altri la propria virtù. Nessuno o pochi si sarebbero arresi in quel momento. Il sessantunesimo reggimento Guglielmo era il più avanzato; era sotto il muro del cortile e vi fu quasi distrutto, poiché si trovarono l’uno sopra dell’altro a cinquanta o pochi passi di distanza ottanta morti di quel reggimento, il che fa immaginare quanti dovessero essere i feriti. «Ricciotti Garibaldi osservava ora da destra ora da sinistra per vedere di quanto avanzasse il nemico; di fronte era ben tenuto in iscacco dal fuoco mirabile e dai tiri aggiustatissimi dei franchi tiratori appostati sui tetti e dietro alle finestre. « - Bisognerebbe fare una piccola sortita sulla strada, disse Ricciotti accostandosi all’apertura d’ ingresso. « - Ci vado io. « - No voi, mi rispose trattenendomi, quasi gli dispiacesse di vedermi incontrare così una morte certa. « Nessuno si presentava. Io guardai la mia carabina e mi accinsi a uscire. Allora egli si volse a qualche francese che era nel cortile e disse: «- Allons qui va- il donc avec Strocchi? « Sembrava che ne avessero poca voglia. E infatti bisognava compatirli: sulla strada fischiava come spinto dal vento un nembo di piombo; i tronchi degli alberi volavano via spezzati e troncati come pagliuzze. VITA DI T. STROCCHI CIX Eravi presso Augusto Rostaing, il capitano dei franchi tiratori dell’Isére, uomo alto, serio, che avrà avuto quarantatre anni e che aveva fatto altre campagne, del quale io era amico; com’egli lo era di me, di quell’amicizia stretta sul campo di battaglia, fra i disagi e i pericoli. « - Allons nous, disse risolutamente. « – Allons, gli risposi. «- Tutti e due avevano la carabina spencer. Uscimmo e d’un salto ci spingemmo sulla strada dietro un albero, uno di quelli che la fiancheggiavano. Le palle urlavano intorno e battevano nei tronchi sopra di noi… Io aveva, me lo rammento bene, un sangue freddo che credo di non avere mai avuto simile. Conosceva il pericolo, ma un dolce entusiasmo mi riempiva l’anima, ed era ubriaco di bella ambizione; non pensava alla morte niente più di quello che io pensassi a prendere un reuma, e nonostante ad ogni passo mi aspettavo di sentirmi spezzare qualche cosa… « Da quell’albero tirammo due colpi, quindi uscendo rapidamente e girandogli intorno ci mettemmo, senza far parola e istintivamente d’accordo, dietro al riparo dell’albero precedente e in due salti fummo dietro a quello. Ivi pure facemmo fuoco. I prussiani erano sparsi in qua e in là. Allora ci azzardammo a traversare la strada e ci portammo dietro agli alberi del filare opposto, tirammo diversi colpi. Cominciava a cader la sera. Non distinguevamo, almeno io, molto chiaramente dinanzi a noi, ma assai bene però per vedere i nemici. Vedemmo a tre passi da noi due prussiani, i quali nel vederci cosi prossimi non fecero il menomo atto di resistenza. VITA DI T. STROCCHI CX «- Voilà deux proussiens, gridò Rostaing, alzando su loro la carabina. «Essi lasciarono cadere il fucile. Fummo loro addosso. Egli ne agguantò uno, io presi l’altro per un braccio, raccolsi il suo fucile e me lo spinsi innanzi per tornare entro il cortile. Era un giovinotto alto più di un palmo di me; se mi avesse dato un pugno mi gettava dieci passi lontano.Ma egli tremava come un bambino, si lasciava condurre, sicchè io non pensava neppure a guardarmi da una sua resistenza e mi prendeva pietà di lui nel vederlo così sfatto dalla paura… Pover uomo,se potessi sapere chi eri tu, vorrei ben rider teco!… Rientrammo nel cortile, presentai il prigioniero e gettai a terra il suo fucile. Così pure faceva Rostaing. Ricciotti era più tranquillo. Infatti era già al fuoco a sinistra sui campi la brigata Canzio coi cacciatori di Marsala ed altri. «Ricciotti aveva preso gusto alle sortite e noi più di lui, cosicché appena rientrati sortimmo e questa volta dalla parte sinistra sui campi. E fu in quel momento che noi due vedemmo un gruppo di Prussiani i quali tenendo la bandiera del 61° Reggimento tentavano salvarla e salvarsi. Furono subito presi di mira.Confesso che l’entusiasmo cominciava allora a farmi ragionar poco, perché adesso non rammento le sensazioni che provai né ciò che feci veramente. Ciò che noi facevamo però era bello. Dei franchi tiratori erano alle finestre della casa, al disopra di noi, ci gridavano bravi. Avevamo le otto cartatuccie di riserva per le nostre carabine. Facemmo fuoco ciecamente, precipitosamente su quel mucchio di gente, i nostri sedici colpi furono scaricati a bruciapelo in pochi secondi a caddero tutti. Il VITA DI T. STROCCHI CXI 61° Reggimento era caduto fieramente. Tutti quei cadaveri colpiti dalle palle dei franchi tiratori erano uno sovra l’altro, stesi sconciamente, quasi cadendo avessero voluto allungare il braccio per toccare quelle mura sotto cui si erano spinti. E così fu presa la bandiera del 61° Reggimento. Era una bandiera di seta nera traversata da due striscie bianche inclinate, incrociatesi trasversalmente: nel mezzo eravi ricamata in oro l’aquila prussiana e il nome del Reggimento.» Questa la narrazione vera, genuina del glorioso fatto, cui tanta parte ebbe il nostro amico, e pel quale più splendida riuscì la vittoria riportata su’ prussiani dal piccolo esercito garibaldino dopo tre giorni di fiero combattimento in difesa di Digione. Eppure, che non si disse per travisare i fatti? quante calunnie non si addensarono sul capo de’ nostri valorosi e del valorosissimo Ricciotti Garibaldi? …«Avrei volentieri, dice il nostro Tito, avrei volentieri fatto a meno della parte di gloria che mi venne per quel fatto!… I francesi gelosi della gloria nostra, gelosi perché la sola, l’unica bandiera prussiana che fosse stata conquistata in quella lunga guerra, la fu per opera de’ garibaldini, trassero fuori mille calunnie, mille discorsi diretti a travisare il fatto, per menomarne il merito. Un giornale clericale di Macon giunse perfino a dire che Ricciotti Garibaldi l’aveva fatta fare da un tappezziere, dando ad intendere di averla conquistata!… Io ed il capitano Augusto Rostaing di Grenoble, usciti soli dal recinto, sotto gli occhi del colonnello Ricciotti, dopo aver fatto ciò che ho raccontato, di cui tutti furono testimoni, uccidemmo i difensori di quella bandiera. Io non la raccolsi, intendo materialmente, e lasciai che la racco- VITA DI T. STROCCHI CXII gliesse Rostaing, per quel sentimento di deferenza che io doveva alla sua età, al suo grado e al suo coraggio; egli la portò a Ricciotti, ed egli primo disse che l’avevamo conquistata insieme lui ed io, e questo seppero e videro tutti i franchi tiratori della quarta brigata… Io lo ripeto non l’ho presa colle mani,quando chi la teneva cadde, ma col Rostaing ho affrontato l’immenso pericolo che presentava lo esporsi all’aperto, con lui e forse qualche passo avanti a lui, specialmente nell’ultima sortita quand’io era più che mai entusiasmato, ho tirato sui soldati che tentavano salvarsi colla loro bandiera, ne ho uccisi la mia parte, per cui mi tengo in buona coscienza anche la mia partesi gloria, senza curarmi di ciò che hanno detto altri.» Dopo la vittoria del 23 riportata dall’esercito dei Vosgi, i Prussiani abbandonano ogni idea di riguadagnare le importanti posizioni di Digione e la loro ritirata è completa. Tra le file de’ Garibaldini per altro ciò non par vero, non si vuol credere che gli agguerriti soldati di Guglielmo siensi dovuti ritirare fuggendo dinanzi a pochi volontari italiani e francesi, tanto che da un momento all’altro se li aspettano nuovamente contro. Pure ciò non accadde..i Prussiani non solo si sono ritirati sconfitti da Garibaldi dopo tre giorni di fiero combattimento, ma non si arresteranno sicuri che a venticinque chilometri da Digione; sicchè il 24 il generale Garibaldi indirizzava: «Aux grave de l’armée des Vosges» un ordine del giorno che incominciava con queste calde parole: Eh bien! vous les avez revus les talons des terribles sodata de Guillaume jeunes fils de la liberté. Dans trois juors de combats a charnés, vous avez ecrit ine page ben glorieuse pour les annales de la Repubblique, et les VITA DI T. STROCCHI CXIII opprimés de la grande famille humaine salueront en vous ancore une fois les nobles champions du droit e de la justice…» E fu in questo stesso giorno che il nostro amico seppe d’essere stato dal colonnello Ricciotti nominato sottotenente, come era stato nominato maggiore il capitano Rostaing; e se ne compiacque, sentendo di essersi ben meritato tale distinzione. « L’ebbi caro, egli dice; un grado in una milizia buona piace, specialmente se guadagnato. Io nulla brigai prima per avere un grado e mi era facile averlo anche superiore a quello che mi ebbi poi, ma lo sdegnai. Nominato ufficiale dopo la giornata del 23 fui orgoglioso del mio avanzamento, poiché me lo era acquistato sul campo di battaglia vorrei certamente cominciarla con quel grado che nessuno può contestarmi.»(1) Ma gli effetti delle vittorie riportate da Garibaldi su’ prussiani, sono purtroppo paralizzati dalle sconfitte toccate a’ generali francesi. Mentre Garibaldi vince a Digione. Burbacki fallisce nel suo movimento su Belfort, e, costretto, non avendo altro scampo, si rifugia co’ suoi novantamila uomini nella Svizzera. Sicchè volgendo ormai le cose di Francia a certa rovina il governo della difesa nazionale è forzato a domandar prima un armistizio di ventun giorno, poi ad accettare la pace, dura e umiliante quale poteva essere offerta e consentita da un nemico vittorioso e trionfante. Tanto che Favre dovette acconsentire al Bismark, di non includere (1) Il nostro amico non ebbe il suo Brevetto regolare di nomina che l’ 4 marzo 1871.Eccolo: Répubblique francaise, Commandement général. – En vertu des pleins pouvoirs qui lui sont conférés par le Gouvernement de la Défense Nazionale, le Commandant de l’Armée des Vosges, Decrete :M. Strocchi Tito est nommé sous lieutenant de cavalérie à dater du 1Mars 1871. – Pour le Général et par sou ordre : Bordone. Pour copie conforme, Les Chef d’Etat Major : Jos. VITA DI T. STROCCHI CXIV nell’armistizio i tre dipartimenti, di Doubs, del Iura e della Cote d’Or, anzi convenire che vi dovessero continuare le operazioni militari fino a tanto che non fossero con ulteriori combinazioni diplomatiche convenuti e sottoscritti i patti della resa e della pace. Di modo che l’esercito dei Vosgi eccolo il solo esposto all’irrompere del nemico che triplicato marcia contro Garibaldi, sicuro di sorprenderlo con la spada discinta dal fianco e di trarlo prigione con tutti i suoi valorosi. E al generale Manteufel sarebbe forse riuscito, se invece dell’Eroe italiano avesse dovuto provarsi con qualche altro generale;chè Garibaldi, sebbene il 31 ignorasse ancora e intieramente ch’egli e il suo esercito non erano stati compresi nell’armistizio concluso il 28 – e si disse poi che ignoravalo perfino il Governo a Bordeaux, per una dimenticanza del Favre che di quella clausula non l’aveva reso consapevole! – Garibaldi seppe per tutto il giorno 31 tener così bene a bada co’ suoi cannoni il nemico, e nella notte così bene mascherare la sua ritirata dalla capitale della Borgogna, che riparò con somma destrezza e grande perizia di capitano all’inqualificabile abbandono in cui lo avevan lasciato. E il nostro Tito che con la quarta brigata è degli ultimi a partire da Digione, dalla città costata tanti sacrifici, ahime! come lo troviamo mesto in quest’ ora d’addio; il suo cuore è triste, e pieno di lagrime esclama: «Oh Giorgio Imbriani, o Carlo Anzilotti, o Perla, o Pastoris, o Cavallotti, o Rossi, o Bossack, o Squaglia, o Scali, o voi tutti, generosi italiani, quaggiù accorsi fidenti e caduti fieramente su queste colline che ne circondano, gridando: viva la Repubblica! avanti! addio a voi tutti. Noi abbandoniamo le vostre sepolture su cui cavalcherà l’ulano VITA DI T. STROCCHI CXV nemico, noi lasciamo notturni un baluardo che alla luca del sole abbiamo strenuamente difeso. O Talant o Fontaine, o Messigny, addio. Con voi resta il nostro cuore; ricordatevi degli italiani: che tutto perdonando, che dimenticando Roma e Mentana, lasciarono famiglia ed agi per correre a voi, quando di popolo supplicava. Ricordatevi che la prima parola del patto di alleanza fra i popoli è detta e noi l’abbiamo col nostro sangue suggellata. Addio Borgogna, reame del superbo Carlo il Temerario che i repubblicani svizzeri sconfissero, addio liete colline e ubertose, addio o popolo accorso sì spesso ad acclamarci sul nostro passaggio.» E un altro addio egli avrebbe dovuto dare, chè a Digione e in quel momento il nostro amico abbandonava una cosa a lui non meno cara di tante altre…la sua Chitarra! Sì, vo’ chiudere questo capitolo con un ricordo lieto, con la narrazione di uno di que’ fatti che bastano a dipingerci al vero e con la massima efficacia tanta parte del carattere di un uomo; anzi vo’ che lo narri egli stesso, il nostro Tito, con quel brio e con quel colore proprio di chi ritrae se e le cose sue. Ricorderà il lettore che all’amico nostro appena entrò a far parte delle guide, fu affidata la cassa dello squadrone. Ebbene l’amministrazione, egli dice, fu tenuta sulla fiducia, perché non aveva altro che il mio taccuino su cui segnare ciò che riceveva e ciò che consegnava o al furiere per le paghe, o per altre spese. E per quanto nessuno me ne abbia poi chiesto conto, avrei potuto fare i conti precisi di ciò che aveva ricevuto e di ciò che aveva speso. Non negherò che un bicchier di vino o due non c’incastrasse anche per me, ma ciò poteva fare senza scrupolo, perché danari ve n’erano assai. Il fatto è che io non portai VITA DI T. STROCCHI CXVI via un centesimo che non mi fosse dovuto. Del resto poi su quel resoconto, ossia sui miei appunti figuravano certe spese che io non so come l’Intendenza militare avrebbe inteso. Trovo per esempio notato: desinare pel capitano a Lormes L. 3,50;una bottiglia vino pel capitano alla Place L. 1,50; pagato per tabacco L. 14,60, e…per una chitarra L.8,00! La Chitarra poi segnata fra le spese occorse per l’amministrazione di uno squadrone di cavalleria è cosa amena e mi fa ridere pensando che cosa avrebbe detto Monsieur l’Intendant, se gli avessi detto: « - Monsieur, voilà huit francs pour une guitarre. « - Pour? « - Une guitarre « - Ce que c’est ça? « - Une guitarre? Ce tant fait. C’est un instrument à peu comme un violon, qui a des cordes et si ‘l est bien joué, il donne un son tres gentile et melancolique. Il use bien en Espagne et en Italie. « - Mais vous etez fau. Est qu’ une guitarre doit paraître parmi le frais d’ un esquadron de cavalerie? « - Mais, je ne sais pas. « Infatti a Digione il capitano mi aveva ordinato di comprarla in un bel magazzino di strumenti, sapendo che io la suonava, per divertirci un poco la sera. Io la presi e la pagai; secondo l’ordine, colla cassa dello squadrone. Povera Chitarra! Quando ci ritirammo con tanta fretta da Digione la lasciai nell’ albergo ove dormiva. I Prussiani, se vi andarono l’avranno trovata e avranno detto: saran sempre italiani; anche in faccia alla morte, nella VITA DI T. STROCCHI CXVII battaglia, essi hanno la musica nel cuore e sulle labbra!» VITA DI T. STROCCHI CXVIII VITA DI T. STROCCHI CXIX V Conchiusa definitivamente la pace fra la Prussia e la Francia, e che pace!, disciolto l’esercito de’ Vosgi, dal quale il generale Garibaldi s’era licenziato con quelle sue memorabili parole, « a rivederci a tempi migliori!» il nostro amico giungeva a Lucca quasi d’improvviso il 19 marzo, accolto con giubilo immenso e dalla famiglia e dagli amici. Lo vidi e lo abbracciai che vestiva ancora l’uniforme da ufficiale di cavalleria; e sotto quella divisa mi parve ingigantito della persona, pieno di vita e lieto di buone speranze: lo avresti detto proprio contento di sé, e forse lo era. Povero amico!.. Ma non precorriamo i fatti di quest’ultimo periodo della sua vita, periodo non meno operoso degli altri, anzi il più fecondo di ricordi durevoli per opere di caldo ingegno. Perché s’egli fu valoroso con le armi da guerra, non meno valoroso si mostrò poi e colla penne e colla parola, e come scrittore e come avvocato; lo stesso fuoco, la stessa fede, la stessa costanza; diversi i mezzi, ma uno sempre il fine: il vero e il bello ravvivati al sole della libertà. Dissi già ch’egli aveva ideato fino dal 1867 di scrivere una commedia per inviarla al concorso drammatico di Firenze, e che poi ne aveva dovuto abbandonare il pensiero distratto dagli avvenimenti VITA DI T. STROCCHI CXX politici di quell’anno memorabile. Però il desiderio di poter scrivere un giorno per il Teatro s’era manifestato in lui così vivo fin da bambino, quando almanaccava da mane a sera per recitare insieme co’ suoi fratellini, commedie, drammi, tragedie, quando un armadio parevagli più che sufficiente a indicare il Campidoglio, e una tenda gettata su gli omeri e raccolta intorno ai fianchi, il manto di un personaggio greco o romano, che quel che non ebbe agio di fare nel 1867, fece nella primavera del 1870 co’ suoi Volti e Maschere, soggetto pieno di passione e condotto con bell’intreccio e con un dialogo sempre vivace, spigliato, corretto. Ma scritta la commedia, come e da chi farla rappresentare? Cercò in vano; ché davvero non fu mai cosa facile per un autore novellino il poter vincere la durezza e la diffidenza di un capocomico qualunque! Intanto ecco gli avvenimenti politici che lo allontanano di nuovo dal Teatro: prima l’insurrezione delle bande repubblicane nella Toscana e nelle Romagne, indi il carcere come conseguenza di que’ moti, poi la campagna di Francia. Se non che avendo egli affidato a un amico quella sua prima commedia, questi tanto fece e si adoperò che la Compagnia drammatica Dondini e Pezzana la poneva in iscena a Mantova, e con buon successo, mentre egli si trovava ancora in Francia a combattere contro i Prussiani. E una volta fatto il primo passo, gli altri riescon più facili. Tanto è vero che tornato di Francia trovò a Lucca la stessa Compagnia Dondini che aspettava il suo arrivo per rappresentare Volti e Maschere. Ciò per lui fu una lieta sorpresa e una vera fortuna, perché festeggiato oggi come garibaldino, come valoroso soldato, domani sarà anche applaudito come poe- VITA DI T. STROCCHI CXXI ta. Sicché fatte alcune prove, sacrificate all’esigenze del capocomico e del prim’uomo e della prima donna alcune scene o parti di scene, subite a una a una tutte quelle umiliazioni che sono riservate a un giovane autore drammatico, dalla presunzione di artisti spesso ignoranti, ma più spesso egoisti; passato insomma a traverso tutte quelle piccole miserie del dietro scena che ti farebbero perdere la testa, s’essa in que’ momenti non vagasse già nelle nuvole, sognando ora l’applauso, ora i fischi, l’1 d’aprile 1871 rappresentavasi al teatro Pantera la sua commedia, e poche volte fu visto quel teatro così affollato. Grandissima pertanto l’aspettativa, varii i prognostici; tutti concordi nel riconoscere l’ingegno dell’autore, ma non così tutti egualmente si fidano delle sue idee politiche. E mentre i più temono tirate fuor di luogo e pericolose, a taluno invece non parrebbe vero che ve ne fossero e di quelle veramente scottanti! È un’ansia per tutti. Però e gli uni e gli altri s’ingannano; l’opera del nostro autore non è una cosa improvvisata, non è uno sfogo giovanile di un volgare scrittore, ma sì l’opera di un giovane d’ingegno, di uno scrittore serio; è l’opera d’arte non priva di difetti, ma che tutti coloro che hanno ingegno e buoni studi, e che si sentono disposti a scrivere per il Teatro, vorrebbero averla scritta come primo loro saggio della difficil’arte. E gli esagerati timori e le pazze speranze presto si dileguarono, e l’uomo politico, l’ardente garibaldino, il repubblicano disparve dinanzi a gli occhi e alla fantasia degli spettatori per non rimanervi che lo scrittore; e gli applausi scoppiarono spontanei, fragorosi, unanimi e ripetuti sì che il nostro amico, l’eroe di Digione, tremante come un fanciullo e trascinato quasi a forza da’ comici soddisfatti, dové più VITA DI T. STROCCHI CXXII volte presentarsi al pubblico. La commedia fu ripetuta per più sere. Dopo le rappresentazioni fatte a Lucca, la commedia Volti e Maschere di Tito Strocchi fece il giro della maggior parte de’ teatri d’Italia e ovunque fu sempre applaudita. Un vero trionfo l’ebbe a Pisa, presente l’autore che ne lasciò scritto: « Quanto mi furon cari quegli applausi… Pisa è città che io amo per le dolci rimembranze che mi suscita, per la vita beata che io v’ho passato per tre anni e mezzo. E questo primo e colossale successo me la rese più cara. Ognuno faceva a gara per conoscermi, tutti si ricordavan di me, e antichi compagni d’arme nella campagna del 1866, e caffettieri , e vecchi scolari, e vetturini, d’ogni condizione; e io umile in tanta gloria assaporava, lo confesso, questa prima aurora di popolarità e di gloria. E la gloria e la popolarità sono un frutto come quello del lago Afaltide, colorato al di fuori di brillanti colori, rosei, aurei e pieno al di dentro di cenere. Lo appressi alle labbra desioso, stringi, mordi, amarezza e cenere. Tale la gloria e la popolarità. Cose gratissime, non nego, che commuovono l’anima, che fanno piangere dolcemente, che ti compensano spesso d’ogni dolore sofferto, ma che in fine dei conti non hanno in se stesse niente di vero, niente di saldo e che ti lasciano poi come ti trovano. È una specie di ebbrezza, simile a quella prodotta dal vino, eccita, stordisce e stanca. Durante quell’ebbrezza l’uomo si sente sollevato al di sopra di se stesso e degli altri, pieno di energia e di buona volontà; è felice. Ma quei vapori svaniscono, quei fumi si dissipano, l’energia fittizia cade con essi, e cosa resta? niente. – Fumo di gloria, ha detto Giorgio Sand, non vale fumo di pipa. È vero! Intendiamoci che io parlo per VITA DI T. STROCCHI CXXIII conto mio e per la mia piccola gloria, ma petite glorire a moi; parlo di quella gloria che per quanto piccola, è per me cosa nuova e straordinaria, cosa che finalmente tutti non hanno provata.» Ma non è anche cessata l’eco degli applausi pei suoi Volti e Maschere, ch’egli ha già pronta una seconda commedia dal titolo Amore. La donna, lasciò scritto Tommaseo ne’ suoi Pensieri morali, educa, diverte o perverte; e da questo proverbio il nostro amico trasse il concetto del suo nuovo lavoro drammatico, concetto che svolse in modo vario e interessante in cinque atti pieni di ardimenti e di spirito, senza però perder mai di mira il fine morale propostosi. E, cosa mirabile di fecondo ingegno come il suo, la scrisse in pochi giorni, dal 13 maggio al 4 giugno, spintovi un po’ da quella confidenza in cui si trovava per il lieto successo della sua prima commedia, ma più dalle strettezze finanziarie nelle quali versava da mancargli perfino il pane quotidiano. Tanto che riandando que’ giorni, sempre meno tristi di quelli che lo tormentarono poi, scriveva:« Era quella per me una bella primavera, primavera dell’ingegno da cui avrei potuto togliere grandi frutti se le sventure sopravvenute, la tristezza, la miseria delle condizioni, la incertezza del vivere non mi avessero abbattuto, paralizzata ogni mia energia, ridotto ad un tratto impotente!» Frattanto la Compagnia drammatica Pezzana da Pisa s’era recata a Firenze e recitava all’arena Goldoni. Ne’giorni 7, 8,e 9 giugno vi aveva rappresentato Volti e Maschere e con ottimo successo: con i soliti applausi; con le solite chiamate al proscenio. Sicché migliore occasione non si poteva presentare al nostro autore per porre in iscena la sua nuova com- VITA DI T. STROCCHI CXXIV media; e senza indugio ne consegnava al Pezzana il manoscritto, proprio senz’averlo nemmen corretto, senza verlo fatto leggere ad anima viva, pur riputando questa sua commedia migliore di Volti e Maschere: lo spronava a far presto il bisogno, la necessità di guadagnare qualcosa per vivere! E sotto questi auspici il 9 se ne incominciarono le prove; e come pe’ Volti e Maschere, così per l’Amore si dovettero adoprar le forbici, onde ridurre il lavoro ne’ limiti delle esigenze teatrali; ché di soverchia lunghezza peccaron sempre gli scritti tutti del nostro amico, perché oltremodo fecondo d’idee e di pensieri e facile di parola , perché nemico del correggere e poco paziente nell’usar della lima! E i tagli che vi furon fatti così ad aocchio e croce, riuscirono com’era naturale in massima parte vere e proprie storpiature a danno della chiarezza e dell’effetto: si tagliava, si tagliava per accorciare, né il tempo corto consentiva di correggere e rifare; quindi guastata nella giusta proporzione delle sue parti, l’opera dové molto perdere dei suoi pregi artistici. E in tal modo fu rappresentata la sera del 15 giugno in Firenze, con grande aspettazione, con un teatro affollatissimo di pubblico scelto, ove brillavano i più noti letterati e i più noti rappresentanti della stampa giornalistica. Nonostante però i tagli fatti la commedia riuscì assai lunga; se ne cominciò la rappresentazione alle otto di sera e finì dopo la mezzanotte. Pure l’attenzione del pubblico non si stancò mai; si mantenne vivissima fino all’ultimo, né mancarono gli applausi e le chiamate al proscenio. La commedia fu ripetuta il giorno dopo, ma in generale non piacque e il successo non fu pari alla prima. I giornali tutti per altro ne parlarono e con serietà, e le critiche fatte torna- VITA DI T. STROCCHI CXXV rono a grande onore del giovane nostro poeta. Tanto che se non mi fossi proposto di dar qui soltanto un cenno delle opere edite e inedite di Tito Strocchi, riserbandomi a fare un’estesa bibliografia in un’appendice a parte, mi cadrebbe in acconcio il ricordare e trascrivere molti brani di rassegne pubblicate in prova di quanto dico, non che il dimostrare come ei non sdegnasse questa critica, anzi ne accogliesse gli appunti fatti con deferenza propria di chi sa di valere qualcosa, ed ha la coscienza di poter far meglio, ammaestrato dall’esperienza e dallo studio continuo. L’appunto principale che gli venne fatto fu quello di aver riprodotto nella donna, con una certa compiacenza da Mefistofele, gli angeli decaduti piuttosto che quelli incontaminati, ciò che a mio credere non è tutto vero, come egli stesso prese a dimostrare difendendosi in una prefazione a me diretta e che aveva in animo di stampare insiem con la commedia rimasta poi inedita. Vi sono è vero in questo suo lavoro drammatico delle scene che ti rappresentano la Società al nudo, scene come dissi piene di ardimenti, ma son anche scritte con sì squisita arte da apparire opera non di un giovane, ma di un provetto e grande scrittore. Ciò che fe’ dire nell’appendice del giornale l’ « Opinione » al severo D’Arcais: lo Strocchi corre sempre sul filo di un rasoio e non si taglia mai!.. Un gran dolore lo colpì in questi giorni « e tanto più grande » egli dice « che seppellito nel cuore, nessuno lo conoscerà mai, tranne coloro che me lo cagionarono». E dovett’essere grande davvero, perché tornato in Lucca il 23 luglio oh! com’era cambiato; avresti detto che fosse venuto meno in lui perfino quell’entusiasmo per la patria, per la libertà e per l’arte che formava tanta parte di sé, e che sempre a- VITA DI T. STROCCHI CXXVI vevalo reso superiore alle molte traversie della vita. Così, a chi non sapeva darsi ragione di cotesto suo improvviso abbattimento morale, a chi ripensando alle recenti festose accoglienze che da’ numerosi amici erangli state fatte al suo ritorno dalla Francia, non che agli applausi, a’ trionfi recentissimi ottenuti su le scene del teatro di Lucca, di Pisa, di Firenze co’ suoi Volti e Maschere, a chi lo interrogava su la cagione di cotesta sua tristezza, rispondeva: «che volete?.. il dolore dell’anima uccide lo spirito!..» Né io alzerò ora quel fitto velo dietro del quale e’ volle che rimanesse celata a tutti la vera e principale cagione del suo immenso dolore; e dico principal cagione, perché ad inacerbire maggiormente la piaga del suo cuore contribuì allora e non poco anche un forte disinganno patito. Amava il nostro Tito una bella fanciulla e si sentiva felice; « era tanto tempo » diceva « che il mio cuore sempre assorbito dalle grandi passioni dei patria, di libertà, aveva dimenticato di battere solo per sé dolcemente!» Pure anche questa sua dolcezza eragli di tanto in tanto turbata dal segreto presentimento che quell’«angelo» non sarebbe stato suo. Difatti dopo un’ardente dichiarazione fattale, quella bella fanciulla si disse pronta a qualunque sacrificio per lui, ma ad un patto; che tornasse a credere com’essa credeva; ché « tu pure » dicevagli « sei nato cattolico!..» Né per quanto egli si adoperasse per persuaderla che era vittima di un volgare pregiudizio a nulla valsero le sue argomentazioni; e rispondeva: « e come potrei io amare un uomo che rinnega la sua fede? » Quell’anima vergine, non ancora sfiorata dal dubbio, si sentiva solo atterrita dall’idea di doversi unire per sempre con chi non partecipava alle dolcezze del suo ideale, non divideva le sue aspira- VITA DI T. STROCCHI CXXVII zioni celesti, non si scaldava della stessa fede, con chi insomma aveva ben altro concetto della Vita; e senza più respinse la sua mano. Ma se la cieca fede rese irremovibile dal suo proponimento l’onesta fanciulla , anche la pura ragione non tradì il nostro amico che posto così tra la coscienza e l’amore non titubò un solo istante. Sicché poi con una certa compiacenza scriveva: « Io sono stato degno della causa per la quale combatto e mi sono sentito forte, ho vinto. Ma ahimè a qual prezzo!.. Sono nato all’infelicità e devo sopportare fino in fondo il peso che spontaneamente ho assunto… Soffri, soffri, povero mio cuore! ». Ora se allo strazio dell’anima sua per la malvagità degli uomini e l’avversità de’ tempi, aggiungi anche la sempre peggiorata condizione finanziaria del povero padre suo, che da solo e con la sua industria più non bastava al sostentamento della famiglia; al crescente urgentissimo bisogno ch’e’ sente di dovere abbandonare la casa paterna per non essere più di aggravio a’suoi e campare del proprio lavoro, facilmente comprenderai lo scoraggiamento in cui cadde, e come venuta meno in lui ogni fiducia di sé, diffidasse delle sue forze così da non poter poi nemmeno corrispondere all’impegno che aveva assunto con Giuseppe Mazzini; di scrivere cioè per la Roma del Popolo, periodico di molto valore, che pubblicavasi in Roma e che era non solo ispirato, ma scritto nella sua parte polemica da quel grande Atleta del pensiero italiano. « Tanto furono gravi le tristezze, scrive il nostro amico, e la noia che mi vinsero per un anno, cioè finché quel giornale seguitò a pubblicarsi, che io, con tutto il desiderio che aveva di accondiscende- VITA DI T. STROCCHI CXXVIII re a ciò che da me bramava l’uomo che più abbia venerato sulla terra, non scrissi per quel giornale nulla1. 1 Giuseppe Mazzini scrisse di questo tempo quattro lettere a Tito Strocchi. La prima non fu da lui ricevuta; le altre tre, rinvenute fra le sue carte, le trascrivo qui, perché ancora inedite e perché, secondo quel ch’io penso, nulla dovrebbe rimanere sconosciuto per la storia di ciò che scrisse e operò quel grande intelletto. Poi di quanto onore non sono pel nostro amico, se da esse apprendiamo che Giuseppe Mazzini reputavalo capace più di molti altri giovani e di cuore e di mente a scrivere pel suo giornale delle cose di Francia e della parte che vi ebbero gl’Italiani durante la guerra del 1870? – Eccole: "Fratello Vi mandai tempo fa una mia da Milano: vi giunse? Io vi chiedeva un lavoro che probabilmente per ragioni diverse non potevate fare. Ma questo importa meno dell’altro motivo che m’indusse a scrivervi. Aveste la lettera? E se l’aveste,perché non mi rispondeste? Siamo com’eravamo prima o non siamo? Potrei se occorresse mai un giorno far calcolo su voi per le cose nostre? Questo è ciò che stimandovi come meritate, mi preme sapere. Quanto alla Roma del Popolo non ho bisogno di dirvi che s’anche non potete fare il lavoro indicatovi, sarò lieto se scriverete qualche cosa per essa. – Scrivetemi all’indirizzo: Sig. Raffaele Rosselli, Palazzo della Posta Livorno. Le lettere mi giungeranno dovunque io sarò. 27. 6. 71 Vostro sempre Gius. “Fratello Mi duole della lettera smarrita. Non vi era cosa, ch’io ricordi, compromettente. È tardi per ciò ch’io vi chiedo. Era un sunto, in parecchi articoli s’intende, della parte che ebbero VITA DI T. STROCCHI CXXIX Sì, il nostro Tito ha ormai deciso di abbandonare Lucca, ché vivere in casa a spese di suo padre non vuol più, né potrebbe più. Ma dove andare? Che farà egli fuori di Lucca? Avendo finito il tempo necessario per le pratiche di avvocato, egli potrebbe dar l’esame, esercitare la professione; ma a lui occorrono gl’Italiani nelle cose di Francia per la Roma del Popolo. Era certo di averlo da voi scevro di entusiasmo per Francia e d’ire esagerate e scevro della cieca ammirazione per ogni starnuto di Garib. O per ogni colpo di fucile d’un italiano, ma colla debita lode al di lui genio e all’intrepidezza e capacità di sacrificio italiano. Avreste anche avuto campo di accennare alle piaghe della Francia e ai doveri dei nostri verso il loro paese che essi sembrano generalmente credere – e me lo provarono pur troppo in Gen. Mil. e altrove prima del mio soggiorno in Gaeta – inferiore in fatto di elementi alla Francia mentr’io lo credo superiore ad essa pel popolo della città. Quando io vi richiedeva di questo lavoro non v’erano che i ragguagli di Beghelli e di Bizz. Le loro eterne colezioni, enumerazioni di sigari fumati, ed oggi v’è il lavoro della Mario più serio e quello del Socci che non ho veduto. Forse non sarebbe tardi se il lavoro si convertisse in una specie di rivista di quei lavori, Di questo vedete voi. Ma quello o altro sarei lieto di vedere il nome vostro di tempo in tempo nella Pubblicazione fondata da me. Del resto era certo della vostra risposta. Ora ogni discorso sarebbe prematuro: è necessario che sorga un’agitazione qualunque. Ma da una proposta papale di Francia, da una vigliaccheria del Governo o da altro può escire. Allora farò di parlarvi. Intanto tenete i giovani fermi al fine e raccolti in piccoli gruppi e possibilmente armati. Val meglio che infuriar a parole sul Comune come fanno taluni dei nostri. Sono lieto pei vostri trionfi. Saranno stampate le vostre Commedie. Vostro sempre Gius VITA DI T. STROCCHI CXXX per prepararvisi almeno tre o quattro mesi di studio: dal giorno in cui prese la laurea non ha più aperto un libro di scienza legale! Frattanto il problema del come campare la vita durante questo tempo gli sta dinanzi minaccioso, terribile come la fame; sicché bisogna pur prendere un partito, bisogna decidersi. E il 9 di settembre ricevute dagli amici di Massa ducale trecento lire partiva da Lucca con la sorella Livia per Firenze deciso di prender ivi dimora, come difatti ve la prese. Tanto che da quel giorno può dirsi ch’egli abbia vissuto quasi interamente fuori della sua città natale, lontano da’ suoi e sempre povero e infelice. « Se io avessi potuto essere avvocato in quei giorni, egli ci dice, forse la mia sorte sarebbe stata diversa. Non aveva ancora provato i mille imbarazzi del dover vivere senza risorse, avevo conoscenze, amicizie ed avrei potuto procurarmi in qualche città lavoro stabile che ora sarebbe stabilissimo; ma costretto a lanciarmi in un avvenire ignoto consumai la mia energia, tutte le probabilità di fortuna, nella forzata impotenza… Solo io so quanto fosse terribile questa circostanza che m’imponeva di partire, di avventurarmi in braccio all’incertezza, come un naufrago sopra una zattera col pane che gli possa bastare per due giorni. E poi?..» Presa istanza a Firenze, egli ben presto acquistò sulla gioventù democratica fiorentin quell’ascendente cui poteva giustamente ambire pel suo ingegno e pel suo noto patriottismo. E ch’egli allora prevalesse su molti fu la sua fortuna, perché non solo si mostrò sempre tra’ più attivi nell’efficace apostolato repubblicano, ma in diverse occasioni riuscì anche a trattenere le esorbitanze di coloro che invasata la mente delle nuove idee socialiste che avevano procurato alla VITA DI T. STROCCHI CXXXI Francia i tristi giorni della Comune, s’erano distaccati dal partito mazziniano. Il quale per essi rappresentava la moderazione della Repubblica; dacché lo stesso Mazzini con santo ardore, con forza d’argomentazioni e splendore di forma inarrivabili aveva preso a combattere nella Roma del Popolo le teorie dell’Internazionale, reputando il grande italiano suo dovere, già che n’era in tempo, di far conoscere ai molti illusi tutto l’inganno di quell’errore generoso, di quell’eroismo sviato, perduto per deficienza nel fine, tutto il pericolo insomma che le loro medesime aspirazioni correvano gettandosi ad un tratto dietro una bandiera che non rappresentava altro che una materiale conquista di beni, di guadagno, altro che una nuova tirannia innalzata sulle rovine della vecchia tirannia; dietro una bandiera, un programma, che, com’egli dice, se trionfasse « riuscirebbe egualmente funesto all’avvenire delle classi operaie e al Progresso generale, dal quale quell’avvenire non può scompagnarsi: tentando da un lato a separare la questione sociale dalla politica, ciò che vale sopprimere il campo sul quale potrebbe inalzarsi il nuovo edifizio , dall’altro ad inaugurare un’insana guerra tra il lavoro e il capitale, mentre unica via a risolvere il problema è per noi l’associazione tra que’ due eterni elementi di produzione.» E il dissidio sorto fu serio e doloroso in modo che per un momento parve proprio fosse riuscito a far quello che non era mai riuscito fare a’ moderati; a scindere vo’ dire, a dividere il partito repubblicano. Se non che il buon senso finì poi com’era naturale a trionfare nuovamente, e il partito repubblicano tornò ad essere unito e compatto: e mentre in Italia i principi dell’Internazionale non trovano buon terreno per VITA DI T. STROCCHI CXXXII esservi coltivati, le dottrine politiche e sociali di Giuseppe Mazzini sono ancora il programma della gran maggioranza dei repubblicani;… e dico le dottrine politiche e sociali, perché purtroppo il numero di coloro che dissentono dalle dottrine filosofiche e religiose di Giuseppe Mazzini va ogni giorno di più aumentando. Peraltro s’ingannerebbe chi credesse cotesti repubblicani dissidenti, seguaci di quel razionalismo scettico che non ha entusiasmi, né conosce virtù di sacrificio; scuola atea e realista! « Io non vorrei ammettere nessuno Iddio, dice il nostro amico, nemmeno quello di Mazzini, ma neanche vorrei lo scetticismo dell’anima, poiché comprendo che dopo aver riso d’Iddio si riderà della patria e della virtù. Io vorrei combattere pel razionalismo, ma coll’ardore di un fanatico religioso; vorrei che la fede nella libertà, nella verità, nell’amore, nel bello riempisse la coscienza di tutti e fosse essa stessa la nuova religione ». In Firenze dunque il nostro Tito vive, se non lieto come avrebbe potuto, se si fosse trovato in migliore condizione, certo un po’ meno peggio di quel che vivesse a Lucca. Dinanzi a que’ superbi monumenti che gli ricordano la potenza e la gloria del popolo fiorentino, che gli ispirano nell’anima alti sensi di libertà repubblicana, e’ si sente quasi direi rinato a nuova vita, e il fuoco del suo apostolato, della sua fede si riaccende in lui; sicché lavora e spera… e spera anche in un migliore avvenire per sé e per la sua diletta sorella. Frattanto studia per prepararsi all’esame di libero esercizio come avvocato, deciso ormai di darlo appena può, e scrive per l’Italia Nuova, giornale passato al partito democratico quando il Bargoni, che n’era direttore e proprietario, lo cedé per andare prefetto di Pavia; e da questo ritrae appena tanto da VITA DI T. STROCCHI CXXXIII campare miseramente. E così miseramente che invitato dagli amici di Carrara a recarsi colà per assistere la sera del 23 gennaio alla rappresentazione de’ suoi Volti e Maschere, già ripetuta per più sere in quel teatro dalla compagnia drammatica diretta da Luigi Pezzana, risponde di non poter aderire al cortese invito per più e diverse cagioni. Né ci sarebbe andato, se quegli amici, indovinando la cagion vera ed unica del suo non possumus, non gli avessero mandato in tempo il denaro necessario pel viaggio.! Ecco quello che sotto questa data trovo scritto in un suo taccuino e che ci rivela lo stato vero dell’animo suo: « 23 gennaio 1872, ore quattro pomeridiane.- Anno passato a quest’ora le fucilate piovevano intorno a me, presso a Digione. Era una terribile posizione; i prussiani ci avevano circondati e ci minacciavano a pochi passi; io scaricava incessantemente la mia carabina e vedeva la morte cogliermi di momento in momento. Più tardi la bandiera del 61° fu conquistata e tornai a Digione lieto, mangiai e dormii felice come quando fanciullo, mi addormentava nel grembo di mia madre. – Ed oggi? Ho molte ragioni di tristezza, ne avrei anche molte di conforto, di gioia, eppure vorrei esser là fra quelle tempeste di piombo; e se vi fossi, chi sa? Forse cercherei la morte…- 23 gennaio 72, ore otto. – Piove. Il vapore corre dall’Avenza a Carrara; piove dirottamente e l’acqua batte sui vetri del Wagon assai tristemente. Vado a passare una sera felice, eppure non sono allegro… Oh come rideva volentieri pochi anni or sono, ora non so più ridere…» Dopo aver assistito nel teatro di Carrara alla rappresentazione della sua commedia, Volti e Maschere e riportato un nuovo trionfo drammatico, tor- VITA DI T. STROCCHI CXXXIV na a Firenze ove gli viene partecipato che il presidente della Corte d’Appello di Lucca gli ha accordato di poter dare l’esame ne’ giorni 22 e 23 marzo. Sicché, ottenuto quello che aveva domandato e desiderato, deposta ogni altra cura, si dà a studiare con maggiore assiduità per prepararsi meglio che può, sentendo urgente bisogno di diventare avvocato nella speranza di potere con l’esercizio della professione guadagnare almeno tanto da poter vivere. Ma ecco che anche in questo momento una nuova sventura lo coglie come coglie tutti i veri patrioti italiani. La morte di Giuseppe Mazzini avvenuta il 10 marzo a Pisa, dove nessuno o ben pochi sapevano che si trovasse ammalato da quasi due mesi, fu tal ferita pel suo cuore che lo distolse da’ suoi studi così, che l’esame gli arrivò addosso senza manco averci più pensato. Erano scorsi appena ventidue giorni ch’egli aveva ricevuto da Mazzini una lettera che vinceva ogni altra per opportunità di consiglio e calore di affetti 1; e ripensando a 1 (1 di p. 7) Pubblico anche questa lettera essendo rimasta inedita come le altre due; poi perché, come dissi, le lettere scritte da Giuseppe Mazzini a Tito Strocchi non vadano perdute per la storia politica d’Italia, quando sarà scritta con animo veramente scevro da spirito partigiano; il che non sarà tanto presto per l’umor de’ tempi che corrono. “Fratello, Ricaduto malato non posso scrivervi a lungo; ma mi fu cara la vostra e vi ritengo sempre come uno dei migliori e più fedeli repubblicani che abbiamo. Se, scossi come Lazzaro dal sepolcro – non ci vuol meno – gl’Italiani accennassero a cosa degna e vedessi ognora possibile, non dimenticherei certo voi.- Voi già sapete la mia opinione sul congresso proposto: riuscirà di scandalo e danno. Quanto ai principii sapete VITA DI T. STROCCHI CXXXV quella e al desiderio ivi nuovamente espresso di veder pubblicato nella Roma del Popolo qualche suo scritto se ne rammarica e ne sente il rimorso. «Egli è morto, dice, «desiderando da me una cosa che io non ho fatto! Ed avrei data la mia vita per lui.» Tanto che a sfogo dell’anima sua addolorata scrisse poi sulla perché: ogni insana parola pronunziata sarà arme agli avversi che la diranno espressione del partito a impaurire gl’ ignari. Quanto all’azione, non può produrre risultati. Quanto all’unione non v’è che l’azione che possa darla. In me, non vedo che una via. Garibaldini o non Garibaldini dovrebbero lasciare in pace l’individuo, unirsi nel programma repubblicano, prepararsi seriamente con un ordinamento di nuclei ed atti a cogliere l’opportunità di un’agitazione popolare che potrebbero cercare di suscitare o che sorgerà impreveduta. Allora avrete, non dico me – non v’è bisogno di dirlo – ma Garib. E nell’azione saremo uniti. Fin là non congressi, né troppe ciarle, ma apostolato con tutti i nuclei d’operai coi quali ciascuno di noi può avere contatto e far loro intendere ragione sulla questione politica. – Ma questo è affare di coscienze. – Voi l’avete e retta. Solamente, in ogni caso, riconsigliatevi sempre con essa. Voi non potevate attendere al lavoro che io vi aveva suggerito per la Roma del Popolo, ma sarei stato lieto se aveste anche per una volta sola, o con altri vostri lavori scritto qualche cosa per essa. Avrei desiderato che le sue colonne avessero raccolto il nome di tutti i buoni e capaci. Farete quello che Dio v’ispira. Io non voglio insistere. Le determinazioni hanno ad essere spontanee.- Io lavoro – a modo mio. Se mai venissi a capo di cosa che abbia importanza e probabilità chiamerei all’azione quei che stimo e voi siete fra quelli. Se no, farà presto o tardi chi rimarrà. Sono sfasciato, assalito in ogni parte del mio organismo; ma finché vivo abbiatemi qual mio conoscente e fratello.» GIUS. MAZZINI 16. 2. 72. VITA DI T. STROCCHI CXXXVI morte del grande italiano pagine eloquentissime che vorrei qui tutte pubblicare, essendo rimaste inedite, se non temessi di dilungarmi troppo, avendo già e di molto oltrepassato i limiti che mi erano stati assegnati. Pure non posso non trascriver quella pagina nella quale e’ ci descrive il momento quando in Pisa si trovò dinanzi alla salma di lui, pagina che non ho potuto leggere senza lagrime, convinto di far cosa grata a quanti tennero Giuseppe Mazzini in quell’alto concetto che meritava, e serbano anche oggi venerata memoria di lui, che tutta la vita spese pel bene della patria e dell’umanità. « Era la prima volta, scrive Tito Strocchi, ch’io lo vedeva e lo vedeva morto!... Entrai… non dirò quello che provai; tutto il sangue mi rifluiva al cuore ed i miei occhi erano fissi su lui… Avrei voluto baciarlo; esser solo con quel cadavere, senza tutti quelli che sospingevano, che volevano passare… Oh fra tutti costoro v’è uno che l’abbia amato come me e che come me ne serbi nell’anima le reliquie della memoria?.. Egli era steso sopra un lettuccio, pallido e severo, come cosa immortale; la barba bianca, la fronte… oh la fronte maestosa come un tempio di granito. Si vedeva che colà aveva abitato il genio, ed i suoi occhi erano chiusi ad un sonno che non ha mattina. Era coperto da un modesto scialle bianco e nero a strisce, che mi dissero avesse portato in vita e su quello scialle avevano attaccato un piccolo nastro coi tre colori d’Italia: i suoi tre colori. Io credeva che Egli non dovesse morir mai!... Che cosa potrei dire io? – Io lo guardava e non aveva pure il coraggio di guardarlo. Mi parve che fosse l’Italia morta; la patria nel sepolcro. E quella mano ora fredda ed immota aveva ventidue giorni prima scritto una VITA DI T. STROCCHI CXXXVII lettera a me, scritto il mio nome… Che cosa avrà Egli pensato di me?... Mi avrà amato, sarà stato convinto dell’amore ch’io gli portava, avrà creduto ch’io volessi qualche cosa di più di altri?... - Sì, egli me lo disse… Uscii dalla stanza. Ora lo rivedrei contemplandolo a lungo, allora non potei. Mi doleva il cuore come duol la testa se prende l’emicrania…» Spunta il sole del 22 marzo, ed ecco finalmente il nostro Tito alla prova… non del fuoco, ma della dabbenaggine umana, per mostrare urbi et orbi ch’egli è proprio degno degnissimo di vestire la toga dell’avvocato, e capace di difendere il diritto offeso, nell’interesse del privato cittadino e della società. L’esame… questa gran pietra del paragone per assaggiare gli uomini e vedere se sono dotti o ciuchi!... Quand’io penso agli esami e al tono con cui si danno, principiando dalle scuole elementari comunali per salir su su fino alla laurea dottorale nelle università regie, mi vien proprio da ridere, o per essere più sincero dirò mi fa quasi ira. Perché, e per l’esperienza fatta da me e per quella fatta da altri ho dovuto convincermi che, se gli esami sono sempre una superfluità, una cosa inutile, spesso son anche un inganno, una mistificazione. L’esame poi che si dà a’ dottori in legge, appena fatte le pratiche, per poter liberamente esercitare la professione d’avvocato o di procuratore, è cosa davvero ridicola se non indecorosa per la commissione esaminatrice e per il candidato che, fatte rarissime eccezioni, dalle quali generalmente non riescono i migliori professionati, non torna scolare per nulla; memore del passato egli ribatte la vecchia via… pur di andare innanzi e conseguire lo scopo, pur di raggiungere la meta. VITA DI T. STROCCHI CXXXVIII Volete aver la prova di quanto asserisco? Udito il nostro amico, e ab uno disce omnes. « Non sono più scolare, egli dice, ma tale diventa ogni uomo che debba prendere un esame; quindi si procura ogni mezzo perché gli esami scritti non debbano essere che una mistificazione. Così fanno tutti, così faccio io. - Il 22 vado al Palazzo ov’è la Corte; mi rinchiudono in una stanza. Il Cancelliere mi riceve, un giudice mi presenta le due tesi, civile e criminale da sciogliere durante la giornata, quindi sono lasciato solo e la porta è ben guardata. Io copio le tesi sopra due piccoli pezzi di carta ed aspetto che il cameriere di casa mi porti una bistecca per colazione. Sembra che quella bistecca debba darmi l’ispirazione. Intanto ho tratto di tasca un coltello… Per far che? Si direbbe che io disperato volessi uccidermi. Oh!... È un coltello da tavola. Il manico si svita dalla lama ed è vuoto nell’interno. Entro quel vano pongo le due tesi, poi ripongo il manico al suo posto, divoro la bistecca, poi al cameriere cui ho detto di aspettare ordino che porti via i piatti, le posate e soprattutto quel prezioso coltello. Poi passano le ore, fumo, leggo, scarabocchio della carta, mi provo a risolvere da me la tesi penale, ma aspetto con impazienza l’ora del desinare… e non ho fame. - Ebbene? Dice un Vice Cancelliere entrando, lo**, un uomo rosso di pelo come una carota, tutto gentile e manieroso. - Eh, è quasi fatto. Aspetto di aver desinato per dar l’ultima mano! « Alle quattro giunge il pranzo; io non guardo se vi siano carni, guardo se vi sia un coltello. Son solo; prendo il coltello, lo svito, traggo due fogliolini in VITA DI T. STROCCHI CXXXIX cui le tesi sono scritte, ripongo su quel tavolo il primo coltello, e quello misterioso rimetto in tasca. Quindi le copio, ed ecco fatto…» Le due tesi, com’era naturale, furono approvate e il 23 il nostro amico vestito di nero, frack e cravatta bianca come un invitato a Corte… o come un cameriere, si presenta per dare il suo esame orale. « Tremava come una foglia, egli racconta. Temevo che quei signori coi quali avevo avuto che fare qualche volta, ma in molto differente relazione, si volessero mostrare severi verso lo scapigliato repubblicano che si trovava allora sotto le loro unghie e mi potevano imporre la umiliazione di un rigetto. Essi avrebbero potuto facilmente imbrogliarmi con interrogazioni equivoche e costringermi al silenzio con interrogazioni difficili… Ma furono, debbo confessarlo, gentilissimi, e parve avessero compreso che in quegli anni di pratiche, io non aveva potuto studiar tanto fra le campagne, le carceri, eccetera. M’interrogarono; risposi discretamente ed eccomi avvocato!» Tito Strocchi è avvocato, ma la sua via crucis non è ancora ultimata: a ogni passo ch’egli fa, sempre un nuovo ostacolo gli si para dinanzi, principalissimo la sua povertà e quella della sua famiglia. No, non ha proprio modo di pagar subito la tassa governativa richiesta per poter essere iscritto sull’albo degli avvocati esercenti!.. Ma se a lui per la mancanza di poche lire è ora conteso di potersi presentare come avvocato dinanzi al pubblico di un Assise, egli può bene presentarsi come poeta dinanzi a quello di un teatro, ed esservi applaudito. Al teatro Pantera si trova la compagnia drammatica diretta dall’artista Pietriboni. Un amico glielo presenta, pregandolo di dargli qualche sua poesia, avendo egli divisato di chiu- VITA DI T. STROCCHI CXL dere le sue recite con una declamazione. Ma come fare? Il nostro Tito ha lasciate tutte le sue carte a Firenze; il tempo per poter scrivere qualche cosa di nuovo è troppo breve, la poesia dovrebbe esser consegnata per la mattina seguente. E… il soggetto? … Pensa un po’ il nostro poeta, poi dà la sua parola. Egli aveva più volte meditato un soggetto per farne un dramma: Sampiero d’Ornano, colpito da quella bella figura corsa che sacrifica alla patria il suo stesso amore coniugale. Questo il soggetto; e in poche ore la poesia è scritta. Sicché la sera del 25 gli applausi scoppiarono fragorosi dal pubblico numeroso, e il nostro avvocato poeta dové presentarsi sul palco scenico, quello stesso su cui si presentò la prima volta come autore drammatico co’ suoi Volti e Maschere. E, essendo in Lucca e godendo qualche giorno di tranquillità, scrisse anche una nuova commedia che intitolò Maria. Narrai ch’egli fu costretto a rinunziare alla mano di una bella fanciulla della quale era perdutamente innamorato, piuttosto che tradire la propria coscienza, ponendo essa per condizione al matrimonio ch’e’ tornasse alla religione cattolica apostolica romana. Ebbene, da ciò il nostro poeta trasse l’argomento della sua commedia; nella quale purtroppo il concetto, la tesi, dirò così, vince l’intreccio semplicissimo. « Non era tanto una commedia che io volevo presentare, egli dice, quanto la dimostrazione di una massima, quella cioè che l’onore, forte nell’anima di un giovane libero, è veramente più onesto di ciò che si chiama religione, poiché questa ha dei pregiudizi, ma non fortifica i principii, quello invece ha tutto il suo fondamento sulla verità e l’onestà.» Maria è scritta in versi martelliani, e i colori smaglianti della poesia danno a’ suoi due atti VITA DI T. STROCCHI CXLI quel non so che di piacevole e di attraente, che pel fatto e l’intreccio così semplici non avrebbe forse altrimenti potuto avere. Provò poi tanto piacere nello scriverla che in soli cinque giorni l’ebbe compiuta. « Io scriveva quelle scene, e’ dice, con passione, perché quelli affetti sentiva in me. Ricordo che nello scrivere le due scene d’amore, quella del primo atto in cui è Oberto che soffre, e quella del secondo in cui è Maria che piange, io era agitato, ispirato, e parevami di aver la febbre. Non ricordo di aver mai scritto cosa alcuna prendendo tanta e così sincera parte al soggetto. Mi pareva che fosse vero.»Difatti in cotesta commedia, anche leggendola – perché non fu mai rappresentata ch’io sappia – , tu trovi due pregi principalmente: la passione caldissima, che è azione drammatica per eccellenza; la virtù che rifulge e trionfa come stella, che è morale educativa – mezzo quella e fine questa dell’arte. Verso la metà d’aprile tornò a Firenze, ma per pochi giorni, perché il 29 parte per Roma con incarico ricevuto da persona cui premeva regolare in quella città alcune sue faccende. E parte avendo in animo di rimanervi anche più del necessario per soddisfare all’impegno preso, lavorando, ove necessità lo stringa, nell’ Italia Nuova che là ancora si pubblicava. Roma! Qual fortunata occasione per lui, qual gioia il poter rivedere l’eterna città non più prigioniero in mezzo alle schiere francesi e pontificie, come dopo la battaglia di Mentana, ma libero per liberamente poterne ammirare tutte le meraviglie!.. Sicché come rapito alla magica parola di Roma mentre vi è a poca distanza, prende il suo taccuino e scrive: «Roma, io non scriverò qui l’inno che mi sento traboccare dal petto. Che cosa dovrei dire io che fosse degno della VITA DI T. STROCCHI CXLII tua grandezza? Su queste pagine le mie parole ti ho già rivolte, quando soldato per la tua libertà, io era sotto le tue mura e contemplava scintillare ai raggi del sole la cupola di san Pietro. Meglio di allora non potrei parlare, perché quel fuoco che sentiva nell’anima, stando appoggiato al mio fucile, non potrei avere adesso. Allora io era presto a vederti pagando colla mia vita tal sorte, ora vi sono giunto pagando con pochi franchi un biglietto della ferrovia.» E l’entusiasmo aumenta in lui col volger de’ giorni, colpito ogn’ora più dalla magnificenza di que’ monumenti, che narrano da secoli e po’ secoli la storia di due civiltà, la pagana e la cristiana. Trovandosi in Roma, e adunatosi ivi nella prima quindicina di maggio il Congresso della Massoneria italiana per essere Costituente all’invocate riforme, e all’istituzione di un solo Grand’Oriente, egli v’interviene quale rappresentante delegato della Loggia Dante e Unità di Catania. Ma non ne resta contento: egli avrebbe voluto vedere la Massoneria farsi una buona volta associazione politica, ed essa invece si ostina a voler rimanere estranea alla politica, adottando la massima, né politica né religione; programma puramente negativo, che doveva poi di necessità ridurla all’impotenza, come tutte le istituzioni che non vanno più collo spirito de’ tempi, che progrediscono, pe’ vecchi pregiudizi de’ suoi sacerdoti che come tutti i preti di tutte le sètte religiose tengono all’immutabilità del dogma. La beneficenza, l’istruzione, il progresso, la libertà astrattamente considerata, indipendentemente da una forma politica sono bellissime cose, non lo nego, ma non saranno mai così efficaci da riparare al male che ci travaglia. In tempi come i nostri, ove la lotta è viva e incessan- VITA DI T. STROCCHI CXLIII te, bisogna combattere per vincere; e nulla oggi agita il mondo più della questione religiosa, politica e sociale: il secolo nostro eminentemente democratico, non mira che alla soluzione di questi grandi principii; il problema della riforma è complesso. Sicché ogni istituzione che non sia di spiriti retrogradi, deve necessariamente concorrervi e con tutte le sue forze. Avanti, avanti sempre se non si vuol perdere il tempo in inutili e vane apparenze!... Non avendo altro da fare in Roma, né sapendo come procurarsi i mezzi necessari per rimanervi più lungamente, perché anche la speranza di lavorare per l’Italia Nuova era svanita, conducendo quel giornale vita così stentata da prevederne prossima la morte, il 17 maggio ritorna a Firenze. E vi giunge in tempo per poter prender parte all’adunanza de’ rappresentanti della Democrazia toscana ivi convocati sotto la presidenza di Federigo Campanella, allo scopo di formare il fascio di tutte le associazioni democratiche della Toscana, come già in Romagna s’era formato quello delle società romagnole. E fu in quest’occasione anzi, come già accennai, ch’egli da convinto seguace delle dottrine politiche e sociali di Giuseppe Mazzini seppe tener testa ad una minoranza di seguaci delle teorie internazionalistiche che si opponevano all’adozione di un programma informato a’ principi della vecchia scuola repubblicana d’Italia: tanto da meritarsi il plauso non solo del venerando Maurizio Quadrio, del quale e’ dice « avrebbe voluto darmi l’anima sua per comunicarmi la sua fede », ma anche della grande maggioranza de’ convenuti, che lo elessero poi a far parte della commissione direttiva permanente. VITA DI T. STROCCHI CXLIV Ed è in Firenze che il nostro Tito, sebbene si trovi nella più sconfortante povertà, riprende l’argomento del Sampiero d’Ornano e ci scrive su un dramma in cinque atti e in versi; quadro dipinto a forti tinte, dove la verità storica de’ fatti è spesso sacrificata all’effetto drammatico, ma pur tale che ti rivela il potente ingegno del giovane poeta, meglio forse di tutti gli altri suoi lavori drammatici. Il 3 d’agosto l’aveva compiuto, e nell’ottobre cercò di farlo rappresentare; ma non gli riuscì, quantunque uno de’ capocomici più intelligenti d’Italia gli lodasse il lavoro e lo giudicasse di sicuro effetto per la scena, se rappresentato da un buon attore. Sicché anche questo componimento del nostro amico rimase per molto tempo, come vedremo, fra le sue carte, aspettando di uscire alla luce di un qualche teatro, quando, indipendentemente da ogni merito artistico e letterario, piacerà ad un capocomico di empire la sua cassetta di biglietti, sfruttando il nome dell’autore; e più che il nome suo di scrittore, quello di uomo politico, di garibaldino. Così volgono i tempi per l’arte in Italia, così va innanzi e prospera il nostro Teatro drammatico. No, non è mai o quasi mai il merito intrinseco dell’opera tua che ti fa largo, ma è l’orpello del tuo nome, se per un verso o per l’altro ti sei acquistata un po’ di fama!... È detto popolare, ed è anche una verità fisiologica, che di poco si vive, ma non si vive di nulla! E il nostro amico avrebbe dovuto col fatto dimostrare il contrario, cioè di poter vivere anche con nulla, per rimanere più a lungo tempo in Firenze; tutto ha tentato per fare qualche cosa e campare lavorando, e tutto ha esaurito, mezzi e speranze!... Un bel giorno si trova possessore di cinquanta lire, guadagnate traducen- VITA DI T. STROCCHI CXLV do per incarico avuto da Federigo Campanella un lungo articolo di Giuseppe Mazzini scritto in francese, e di queste si giova per tornare a Lucca. Quivi però non vuol vivere disoccupato e va a’ Bagni di Lucca, invitato dagli amici, ma più attrattovi dall’amore. Poiché è da sapersi che fino dal giugno, per una fortunata occasione, aveva là rinvenuta la donna del suo cuore, colei che sarebbe stata indubbiamente la sua sposa, se la morte non l’avesse colto prima di essersi fatta una comoda posizione. La vide per la prima volta il 27 giugno, e da quel giorno l’amò; e così schiettamente e serenamente l’amò, ch’io credo di non peccare d’indiscrezione riportando queste pagine delle sue memorie che sono a un tempo lo specchio fedele dell’animo suo, della nobiltà e santità de’ suoi affetti. «X***, ormai il tuo nome è pronunziato, e per la prima volta è segnato su queste memorie. È questa la prima volta ch’io ti vedo, eppure quanto questo giorno, quest’ora ha influito sulla nostra vita. La tua dolcezza, la tua modestia e il tuo volto gentile mi piacquero e teneramente mi scolpirono nel cuore la immagine di una sposa casta, affezionata, buona, dolce sollievo alle amarezze della vita, ai tormenti e alle lagrime della passione e della lotta. Tu mi sembrasti una mammola nascosta fra le erbe del prato, un asilo silenzioso e tranquillo, un palpito felice e sicuro, un seno amoroso su cui avrei potuto quietare i miei affanni. – Non eri la bruna innamorata dai palpiti ardenti, presso cui si cerca l’amore e la voluttà, la passione coi suoi delirii, i suoi vaneggiamenti, le sue ebbrezze e i suoi disinganni e la sua stanchezza; non eri la vampa che incendia, la rosa che inebria col suo profumo, il cuore che si rompe alla piena di un affet- VITA DI T. STROCCHI CXLVI to irrompente. Un tuo rifiuto non mi avrebbe fatto impazzire o non mi avrebbe determinato a uccidermi, ma mi sarei tristamente volto verso di te nel vederti allontanare, come il pellegrino stanco che si rigetta dall’ombra di un palmizio sotto cui ha sperato riposo e ristoro. Tu eri la quiete dopo la lotta, l’amore sereno, onesto, lieto di se stesso, come raggio di sole dell’alba; tu, la sposa onesta madre di figli, la sorella dolce, il conforto alla noia ed al dolore, il bacio che rinfresca la fronte e l’anima, il seno fido, il sorriso dell’innocenza, tutto ciò che è vero, che è santo e vero sulla terra, tutto ciò non seduce, ma persuade, che non inganna giammai, che non ubriaca, ma consola. Né allora, né tutte le altre volte che io t’ho veduta, il meno casto pensiero mi ha fatto nascere la tua gioventù e la tua bellezza; io non ho veduto in te che l’amante fidanzata, l’amante che dovrà essere sposa. E sarei geloso di me come di altri….X**, tu leggerai queste pagine; tu sola a differenza di tutti, le leggerai intere, poiché io non ho cosa alcuna a nasconderti. Un giorno, se la morte non ci colpisce, tu sarai mia sposa ed io ti racconterò tutti gli affanni della mia vita, e ti dirò quanto fosse dolce la speranza che mi scese nel cuore, quando io guardandoti sentii quel pensiero. Tu sarai allora sicura del mio amore e meglio che in queste pagine lo cercherai nel mio affetto, nella mia tenerezza verso di te. – Io da quel giorno ti ho amata e questo amore è andato sempre crescendo come cosa naturale; io t’amerò sempre…» Rimase a’ Bagni di Lucca fino alla metà di novembre, quando, pensando seriamente al modo come mettersi in regola per esercitare la professione, tornò in Lucca. Ma ecco ch’ivi di lì a pochi giorni lo colpisce una nuova sventura, e ahi! Come tremenda. Ugo, VITA DI T. STROCCHI CXLVII uno de’ suoi fratelli minori, Ugo da lui amato tanto per la dolcezza dell’animo e la vivacità dell’ingegno, muore di diciannove anni consunto da tisi. Chi vide il nostro Tito in que’ giorni oh, non può aver dimenticato l’immenso suo dolore: una cupa tristezza pareva che gli pesasse sull’anima sì, da far temere e fortemente del suo avvenire. Non poteva darsi pace; non gli pareva possibile che Ugo così giovane fosse morto! Tanto che anche dopo molto tempo così scriveva di lui:«E mi sembra impossibile, quando ci penso, che egli sia morto; mi sembra che ciò non possa essere. – E non so sopportare il dolore che mi penetra il cervello quando penso a lui, quando io evoco la sua immagine, la sua figura e mi sembra di sentirlo parlare, ridere, scherzare… Io non potrei respirare a pensarvi lungamente, e nello scrivere queste righe mi sembra che mi dolga la testa. Feci stampare alcuni suoi versi, come ricordo di lui; e spesso guardo i suoi fogli, i suoi appunti, lavori giovanili, ma che facevano conoscere quanto sarebbe diventato robusto il suo ingegno col tempo e colla istruzione, ed ogni volta che vedo quelle pagine scritte da lui, que’ progetti di lavori, di romanzi, di commedie che la morte troncò, oh lo ripeto, mi sembra impossibile che egli sia morto e mi viene da piangere. Ugo, fratello mio, sei tu proprio nulla? Oh purtroppo, io non ti vedrò più. Ho dimenticato mia madre, perché era troppo fanciullo quando elle morì, ma te non dimenticherò mai. Io avrei dovuto morire prima di te.» E a queste meste parole, succedono pagine di fuoco: egli delira e … spossato grida: « abbiate compassione di me! » L’anno 1872 passò dunque pel nostro Tito triste come i precedenti. E il nuovo anno? In Spagna ferve la guerra fra la Repubblica e don Carlos: dapprima e’ VITA DI T. STROCCHI CXLVIII vuole andarvi per arruolarsi nelle truppe repubblicane, ma poi si trattiene pensando che la Spagna può fare anche senza di lui, e ch’egli non deve buttarsi così allo sbaraglio in ogni avventura. E poiché G. P. di Collodi, un brav’uomo, un vecchio patriota amico suo e della famiglia gli è stato garante con la sua firma ad una cambiale di quattrocento lire, paga la tassa per poter esercitare la professione, fa tutte le altre spese di cui non può fare a meno avendo bisogno di tutto, e finalmente eccolo iscritto sull’albo degli avvocati esercenti del collegio di Lucca. Lucca per altro non è la città ov’egli possa farsi una clientela; le sue opinioni religiose e politiche vi son troppo note, e i moderati consorti ai clericali che in lui sanno di avere l’avversario più fiero e temuto non lascerebbero certo passare occasione per troncargli la sua carriera: gente siffatta non perdona mai. Bisogna proprio che parta da Lucca, se vuole esercitare la sua professione; e dopo avervi pensato su, decide di andare a stabilirsi a Bologna, città grande e di spiriti democratici. Si rivolge allora ad un suo amico di là; gli dice che ha bisogno, lui avvocato novellino, di essere collocato in uno studio de’ più accreditati, ove oltre farvi pratica possa trovarvi modo di guadagnare qual cosa per vivere, essendo sprovvisto di mezzi: e difatti prima del 15 maggio noi lo troviamo a Bologna collocato nello studio del valoroso avvocato Aristide Venturini. Il 9 maggio indossa per la prima volta la toga dell’avvocato difensore dinanzi al tribunale Correzionale di Bologna, timido come un agnello, incerto di sé, tutto pauroso, tremante. « Era molto commosso, egli dice, e tremava quasi. Io non sapeva ciò che poteva valere, non conosceva le mie forze, mi esponeva per la prima volta ad una lotta sconosciuta, sen- VITA DI T. STROCCHI CXLIX za sapere come avrei potuto resistere…Non aveva la più piccola cognizione della pratica, della procedura, delle regole con cui si tengono e si dirigono i dibattimenti. Non aveva mai, veramente mai assistito all’intero svolgimento di una causa, né di Pretura, né di Tribunale, Né di Corte. Non sapeva come s’ interrogassero i testimoni, non come si facessero requisitorie dal pubblico Ministero, né come si rispondesse all’avvocato. Mi gettava ad occhi chiusi in un abisso ignorato; ma contava un po’ sul mio coraggio, sebbene me lo sentissi mancare.» Quale differenza fra lui ricco d’ingegno e di erudizione e tanto facile parlatore, fra lui dico e tant’altri presuntuosi che allontanati un po’ dalle pratiche forensi, lavoro di ogni giorno, non sanno un’acca di quanto abbella lo spirito e arricchisce la mente, aridi come spugne, ma gonfi come aerostati inalzati in tempo di fiera!.. E a questa prima causa, tennero dietro altre: guadagnava poco, spesse volte nulla, ma vi trovava soddisfazione: era contento. Se non che poi, ripensando a’ casi suoi, alla realtà delle cose, alla sua povertà, usciva in queste parole: «Ma io forse sono condannato ad esser vittima di una eterna illusione; la mia fantasia, o meglio l’anima mia ama ingannarsi e tutto vela colla rosea illusione di una nube dietro a cui le misere cose traspariscono leggiadramente ridenti, ed io corro dietro a questi vaghi fantasmi creati dalla mia stessa immaginazione e non raggiungo mai cosa che abbia vera sostanza e produca un vero interesse. Io porto con me i miei sogni, li spargo dovunque mi trovi e amo essere circondato da essi. Come un pellegrino o un soldato che seco trasportano la propria tenda e dovunque si arrestano per riposarsi, o in un deserto, o sul piano di una rupe, fra le brume o VITA DI T. STROCCHI CL sotto i raggi dei tropici, quella stessa tenda si alzano e sotto di essa si riparano, così io dovunque vado, in qualunque circostanza mi trovi, traggo fuori la mia tavolozza di vivi colori, il forziere in cui tengo tutti i falsi diamanti delle mie illusioni, il turibolo su cui brucio gl’incensi dai profumi inebrianti, e il deserto, le steppe, la nudità, la miseria, la prosaica realtà, tutto sotto il pennello della mia fantasia cambia di aspetto, assume forme e pare cosa bella. Così nel viaggio di Caterina di Russia il suo amante Potonkin le allietava la sterile via, inalzando sul suo passaggio dorati castelli di cartone. E tutto ciò non giova ad altro che a perpetuare in me la favola di Ipsione che abbraccia eternamente delle nuvole… Io vorrei essere un avvocato onesto; il difensore del diritto e della giustizia conculcata, l’oppositore della violenza e del tranello, soldato nel foro come sul campo. E tutte queste non sono povere illusioni che faranno sì ch’io non riesca a nulla?» Difatti se il povero nostro amico presto si meritò le simpatie di molti degli uomini più chiari in Bologna; e con ciò la sorveglianza della Polizia com’era naturale! Se frequentando la migliore società, in casa dell’ex colonnello garibaldino Pais, allora direttore del giornale La Voce del Popolo, impara a conoscere il fiore della democrazia bolognese con l’illustre poeta Giosuè Carducci; e se incoraggiato dall’avvocato Venturini che in lui più di un maestro ha trovato un amico, ogni giorno s’avanza nelle pratiche avvocatesche e difende cause penali, facendo mostra del suo bell’ingegno, anche i mesi trascorrono, e dato fondo a’ pochi denari che aveva portati da casa, comincia ad accorgersi che co’ pochissimi soldi che guadagna, e che non sempre guadagna, non può vivere. «Con- VITA DI T. STROCCHI CLI sumai presti, scrive, quei pochi franchi che poteva avere e quelli che qualche amico durante quel tempo mi prestò. Io mi era troppo avventurato venendo a Bologna senza una posizione certa. Era avvocato, ma chi lo sapeva? A Bologna troppi avvocati v’erano e conosciuti, e molti valentissimi. Io pure avrei potuto farmi una clientela, ma mi sarebbe stato necessario un anno o due anni prima di averla, e frattanto come avrei io vissuto? Chi mi avrebbe data la forza di sciogliermi dalle spire della miseria? Lavorava trattando qualche causa, lavorava pel giornale La Voce del Popolo, scriveva articoli e appendici, ma nessuno mi dava un soldo, né io sapeva più donde avrei potuto levar denari.» E per lui ricominciavano i giorni tristi, se pure eran mai finiti!... «Tristi giorni, continua a dire, in cui tutto diventa cupo e doloroso, in cui l’idea del suicidio si affaccia alla mente, spontanea come la soluzione naturale di un intrigo fastidioso. Aver voglia di lavorare e non trovare! Essere istruiti, avvocati, pieni di volontà e non poter guadagnare ciò che guadagna un calzolaio, un muratore! Io non sapeva a qual diavolo votarmi.» Una inattesa circostanza però venne a toglierlo da tanto imbarazzo. Alcuni suoi amici di MassaCarrara avevano fino dal primo anno fondato colà un giornale di principii democratici, come sono generalmente in Italia tutti que’ piccoli periodici che si pubblicano nelle città capo luogo di provincia, e che meglio assai de’ giornali di gran formato rispondono al sentimento e a’ bisogni delle popolazioni, non essendo né sussidiati dal governo in nessun modo, né sempre dipendenti da uomini politici che spesso subordinano l’interesse pubblico all’interesse del proprio partito, quando non se ne servono come un mez- VITA DI T. STROCCHI CLII zo efficace per avvantaggiare se stessi nel proprio tornaconto. Si chiamava il Corriere della provincia di Massa; e pregato vi aveva già scritto qualche articolo contro un altro periodico apertamente clericale, che da poco tempo era pur nato colà. Dimodochè scrivendo appunto in que’ giorni di angustie per lui, prese occasione per far conoscere a quegli amici l’incertezza della sua condizione; e n’ebbe in risposta, che si recasse a Massa, dov’era molto da fare per gli avvocati, dove avrebbe presto potuto farsi una clientela, essendo città piccola, e dove avrebbe anche diretto il loro giornale, pensando essi al suo mantenimento, finché da sé non avesse guadagnato il necessario per vivere convenientemente. Pensate se se lo fece ripetere due volte! Abbandonava è vero Bologna per Massa, abbandonava quel centro di vita intellettuale e politica per ritirarsi in quel piccolo paese appiattato fra’ monti; ma in quel momento era egli libero di scegliere?... Sicché ricevuti i denari pel viaggio, un bel giorno parte senza dir nulla ad anima viva; troppo lo imbarazzava il dover manifestare altrui la sua deplorevole condizione. Era il 22 di luglio. Due cose principalmente adunque s’era proposto di fare il nostro amico in Massa: esercitare la professione, e dirigere il giornale. – Ora che cosa fosse un giornale per Tito Strocchi lo sappiamo, un campo aperto dove poter combattere in pro della libertà e del progresso, un’arma per ferire a morte i nemici della verità e della giustizia; e con che ardore e’ si ponesse all’opera, lascio considerarlo. Nemico com’era de’ mezzi termini, e volendo togliere ogni possibile equivoco, al vecchio programma ne sostituisce uno nuovo, e il Corriere diviene apertamente repubblicano; poi impegna subito polemica viva e a fondo con- VITA DI T. STROCCHI CLIII tro l’Apuano, giornale moderato e semiufficiale della provincia di Massa, e contro l’Operaio cattolico. E amici e nemici cercano e leggono il Corriere, e tutti van d’accordo nel riconoscerlo pel meglio fatto, e scritto con spirito e condotto da mano maestra. Quale odio però concepissero contro di lui i clericali di Massa è impossibile dire, pari e forse superiore a quello dei clericali di Lucca. Né si risparmiano i moderati consorti, che cercano di metterlo ogni dì più in mala vista presso le pubbliche autorità; le quali già stanno sull’avviso, non potendo dissimularsi l’incremento che in Massa e ne’ paesi vicini ha presto il partito repubblicano, mercé la sua instancabile operosità. Ma se tutto ciò piaceva alla sua indole battagliera e, diciamolo pure, giovava alla causa della libertà e della democrazia, non giovava certo a’ suoi interessi; poiché non era in tal modo ch’ e’ poteva sperare di farsi come avvocato, una larga clientela. Pure la parte più liberale del paese lo stima e lo ama così, che qualche cosa fa anche in professione e più si ripromette fare per l’avvenire. Dimodochè, se non può dirsi contento, il suo amor proprio è soddisfatto. «Insomma, scrivevami nel febbraio 1874, se non sono contentissimo, sono almeno sulla via di diventarlo. Le incertezze tremende sono terminate, non ho più a temere la fame, sono sulla strada dell’agiatezza, il lavoro mi sorride come un buono e vecchio amicone, dormo saporitamente, mangio con appetito, ho già da molti mesi perduto l’abitudine di bevere liquori, sto bene e comincio a pensare: finalmente ho un’ora di pace.» Povero amico, egli se lo credeva; ma poi non doveva essere così!... Perché ora che ha trovato lavo- VITA DI T. STROCCHI CLIV ro, ora che ha bisogno di salute per lavorare, ecco che si ammala gravemente. È l’alba del 17 marzo quando si sente per la prima volta al lato sinistro del petto un acuto dolore che gl’impedisce perfino di respirare; e quando un rauco rantolo doloroso lo affanna , e le mani e i piedi gli si agghiacciano e gli s’intorpidiscono da parergli a momenti di dover morire!... I medici diagnosticarono, o vollero pietosamente dargli a credere, che fosse un principio di avvelenamento prodotto dalla nicotina per troppo fumare. E se curato, di lì a sette od otto giorni poté alzarsi dal letto e uscir anche di casa, perché lo volle, presto ricadde giù e con tali sintomi che quegli stessi amici che gli erano stati prodighi delle più affettuose cure, lo consigliano di andare a Firenze ed entrare all’Ospedale, ove può esservi curato da buoni medici. Frattanto, scherno del destino! Al teatro di Massa recitava dal primo di quaresima la compagnia drammatica Arnous-Tollo; e pregato di dar loro qualche cosa, aveva dato il Sampiero. Il 30 era il giorno della recita, e sebbene ammalato volle ad ogni costo assistervi; e come si trovasse poi là fra le scene di quel teatro affollatissimo, un po’ per l’emozione e un po’ per la febbre che aveva, ognuno può indovinarlo senza ch’io lo dica. Basta ricordare che, reggendosi appena su’ piedi, a stento potè presentarsi al proscenio, chiamatovi da ripetuti e calorosi applausi. Il giorno dopo infatti decise di andare a Firenze, e il 3 aprile sul far della sera entrava all’Ospedale di Santa Maria Nuova, dicendo come De Musset; m’y voilà – eccomivi!... Malato di pleurite sinistra, con versamento, vi rimase fin quasi alla metà di maggio, quando tornò a Massa per darsi nuovamente alle sue occupazioni di VITA DI T. STROCCHI CLV avvocato e di giornalista. Però la sofferta malattia e la lunga assenza furono a lui di molto danno: aveva allora principiato a farsi un po’ di clientela, e quasi dovè tornare da capo nel lungo noviziato! Dimodoché scoraggiato, pensa di abbandonare Massa e di andare a Roma, sperando di trovar la miglior fortuna. La quale idea, sebbene lungamente vagheggiata non poté poi secondare, sconsigliatovi da persona autorevole e amica, che nell’aprile del 1875 scrivevagli: «Credo che vi siate fatto una pericolosa illusione su Roma. In questa città non v’ha probabil fortuna che pei farabutti e i cavalieri d’industria. Gli uomini onesti del vostro stampo o ne scappano o vi muoiono di fame. L’ingegno non giova a nulla, la probità vi è di danno. Il giornalismo o poverissimo o venduto. Gli avvocati più numerosi dei clienti e costretti a mangiarsi fra loro…« Parole che rivelano un animo esacerbato quanto e forse più del suo, per non pochi disinganni patiti; ma pur vere, per chi nato repubblicano fosse stato costretto a vivere allora in Roma. Sicché rassegnato a portare la sua croce se ne rimane per altri due anni in Massa, dove sempre malaticcio e tutto modesto lo vediamo esercitare la professione per vivere, e scrivere di tanto in tanto qualche articolo di critica letteraria, qualche commedia o racconto, lavori tutti che ad altri meno modesti di lui e non tanto sfortunati come lui, avrebbero non solo accresciuta la fama, ma dato modo di vivere agiatamente. Difatti, è verso la metà del 1876 ch’e’ riprende in mano, Una pagina de’ miei ricordi, 1867, pubblicata nell’appendice del periodico lucchese Il Serchio, durante il 1869; e aggiungendovi i ricordi del 187071, la rifonde così da comporne un libro che dobbiam dolerci non sia stato ancora pubblicato; perché alla VITA DI T. STROCCHI CLVI verità storica de’ fatti ivi narrati, i colori smaglianti della sua fantasia e l’intreccio e la passione del romanzo non tolgono, ma accrescono evidenza ed efficacia. L’amor di patria e il sacrificio per la libertà, la vita nuova e il vecchio mondo, la reazione e il progresso vi sono simboleggiati con caratteri così intieri, veri e parlanti che il lettore si scalda con essi, diviene, si fa quasi direi, attore del dramma. L’opera è divisa in due parti: Patria, 1867; Libertà, 1870-71, e porta la dedica a Giuseppe Mazzini. È da credersi che scrivesse di questo tempo, e certo prima del marzo 1877, anche la commedia Amore e Lavoro in quattro atti; la quale vorremmo pur vedere rappresentata, perocchè, oltre ad essere condotta con quell’arte che gli era familiare, di saper cioè intrecciare i fatti e svolgere l’azione per modo da interessare sempre il pubblico, vi sono figure fra que’ personaggi che se non si possono dire caratteri interamente nuovi per teatro italiano, certo vanno co’ meglio indovinati e resi; nobilissimo poi n’è il fine. Lavora, scrive il nostro povero amico, ma non gli giova; non può liberarsi dalla miseria! E quasi ciò non basti, sente che la sua salute si logora ogni giorno. Pure e’ fa il possibile per tener celata a’ più la sua triste condizione, e lotta, lotta con una abnegazione che non ha esempio, o se ne ha, son ben pochi ne’ giorni che corrono! e a’ sacrifizi passati ne aggiunge ognora di nuovi, senza perdersi mai. A qualcuno de’ più intimi amici peraltro cotesta sua condizione è nota, né manca chi s’adopra con amore e costanza in favor suo; tanto che la Direzione del Dovere, giornale repubblicano mazziniano che si pubblica in Roma, è lieta di potergli conferire nel marzo 1877 l’ufficio di suo corrispondente da Genova con l’onorario di ot- VITA DI T. STROCCHI CLVII tanta lire al mese, le quali sono una vera provvidenza per lui. Sicché verso la metà d’aprile, egli lascia Massa e va a Genova, da dove poi scrisse pel Dovere non solo delle corrispondenze, ma anche qualche racconto. E i suoi racconti son così graditi che da quella Direzione non solo si preferiscono per la pubblicazione ad altri di scrittori forestieri, ma gli si propone di diminuire il numero delle corrispondenze e di mandar più puntate per l’appendice. Il 19 luglio 1877 così scrivevagli da Roma G. Nathan, uno de’ fondatori e direttori di quel giornale: «Come avrete già visto annunziato nel Dovere domani cominceremo a pubblicare in appendice il romanzetto da voi speditomi. Da ciò capirete che se prima credevamo bene rimandarlo ancora per qualche tempo, adesso che l’abbiamo letto ci siamo convinti che è molto migliore di altri lavori di second’ordine, tradotti da lingue straniere. Accettate insieme alle mie congratulazioni i sensi della più alta stima e considerazione.» E i racconti di Tito Strocchi scritti pel Dovere sono: Alcuni versi di Virgilio, Una passeggiata a Gavinana, lavori dettati con tutta quella serenità d’animo, elevatezza di concetti e semplicità ed eleganza di forma, propria di coloro che non fanno dell’arte per l’arte, ma si studiano e vogliono dilettando, educare la mente e affezionare il cuore di chi legge ad una santa causa, quella della patria e della libertà. Col primo racconto e’ ci fa rivivere in Firenze a’tempi del giovane Cosimo; vasta tela per disegnarvi e dipingervi su uomini e cose da dare l’intreccio ad un romanzo: amori, avventure, tradimenti e scelleratezze d’ogni sorta, fremiti di libertà, d’odio e di vendetta; carceri, patiboli e quanto altro poteva far corredo ad uno de’ minori Medici che signoreggia su VITA DI T. STROCCHI CLVIII tutto un popolo fatto suddito e servo! E col secondo ci ricorda gli eroici sforzi fatti da’ Fiorentini in difesa della gloriosa repubblica, quando un Papa e un Imperatore insiem collegati nell’infamia, vollero in lei vedere spento anche l’ultimo raggio della libertà de’ nostri Comuni. Non è storia quella narrata dal nostro amico, ma in que’ suoi personaggi che si muovono, in que’ fatti che s’intrecciano, c’è la vita, la passione tutta di quel tempo, e basta. «Sono ombre, egli dice, quando volge alla fine del suo primo racconto, sono ombre che passano. Io come ombre le ho disegnate e come ombre scompaiono. Ombre che ebbero anima sensibile alla truce realtà del dolore, che piansero, sanguinarono dalle ferite del corpo e da quelle del cuore e scomparvero nella cenere dei miseri senza nome e senza memoria. La storia dei grandi fatti il lettore ricerchi nelle grandi pagine dei nostri scrittori; io l’ho appresa in quelle e ho tremato leggendola; ora in quei grandi sepolcri raccolgo un pugno di cenere e su quella piango e maledico, pianti e maledizioni che saranno cenere fra poco.» Presa stabile dimora in Genova. Egli nel luglio 1877 intraprese insiem con altri patriotti la pubblicazione di un nuovo periodico, Lo Squillo, nell’intendimento di difendere il partito mazziniano, vivamente attaccato e ne’ principii e nelle persone da un gruppo di repubblicani dissidenti che avevano Il Popolo per loro organo di pubblicità. E la polemica che s’impegnò fra’ due giornali fu così ardente, che come accade d’ordinario, la passione politica li fe’ scendere a personalità, da procedere senza freno di sorta nella discussione. Sicché poi se n’ebbe a lamentare una serie di fatti dolorosi, che valsero ad inasprire sempre più gli animi, e si vide per fino il brutto VITA DI T. STROCCHI CLIX spettacolo d’esser portati innanzi come vessillo di discordia fra’ repubblicani d’Italia, i due nomi immortali di Mazzini e Garibaldi. Di guisa che il nostro amico tanto se ne accuorò e tanto ne soffrì, che la sua salute, già molto deperita per la prima malattia, toccò di que’ giorni sì forte scossa ch’e’ dové finire coll’andare nuovamente all’ospedale; dove tra’ malati di tisi, senza denaro e senza conforti, quasi abbandonato come un pezzente, disperando di guarire, rimase più di quattro mesi, fino al 20 d’aprile. Ma allora l’associazione Giuseppe Mazzini di Lucca, della quale egli era presidente onorario, saputo della sua malattia e della mancatagli assistenza, con lodevole pensiero provvedeva, perché fosse condotto a Lucca. Il 21 aprile corsi a salutarlo all’albergo della Campana dove lo avevano messo, e lo trovai così sfinito dalla lunga malattia e più, credo, dalle inenarrabili sofferenze morali patite in que’ lunghi mesi di ospedale a Genova, che appena ebbi fiato di chiedergli come stava. Un nuvolo di amici, tutti lieti, soddisfatti che il nostro Tito fosse tornato tra noi, erano lì intorno al suo letto, chi in piedi, chi a sedere, e tutti animati da un sentimento di benevolenza verso di lui; era una gara per volerlo soccorrere, tutti avrebbero voluto ridonargli la salute e la pace. Il giorno dopo fu condotto in casa del bravo giovane A. M. che spontaneamente, col cuore in mano, avevagli detto: « Frattanto vieni in casa mia, poi vedremo quel che sarà da farsi.» E in casa del generoso amico rimase fino al 30 maggio, giorno in cui e per consiglio de’ medici e con piena sua soddisfazione, desideroso di guarire, di poter vivere dell’altro, veniva condotto all’ospedale di san Luca, in una camera riservata, essendosi a tutto provveduto mercé una sottoscrizione VITA DI T. STROCCHI CLX di amici e di altre rispettabili persone che s’erano obbligate di pagare un tanto al mese, finché non fosse guarito. E poi bisognava vedere con quanta sollecitudine e con quanto amore gli amici corressero ogni giorno e in ogni ora là nella sua camera per tenergli compagnia, per servirlo di tutto quanto abbisognasse; sicché il regalarlo di qualche cosa era divenuto quasi direi un dovere per tutti. Era cosa che commuoveva, che recava piacere,che incoraggiava, perché faceva pensare non esser l’egoismo un vizio comune, ma una rara eccezione, specialmente ne’ giovani. Oh sì, la gioventù operaia principalmente, sebbene cresca fra mezzo allo scetticismo delle classi privilegiate, vive anche oggi di amore, di filantropia ed è capace di far sacrifizi immensi in sollievo di chi soffre. L’epulone forse ti ricuserà una lira per un che chiede misericordia per grazia di Dio, l’uomo del popolo no; egli che pur suda per vivere lavorando da mattino a sera, non nega mai il suo soldo al più miserabile di lui. E grazie sieno rese a voi, o giovani amici personali e di fede del povero Tito, a voi che per mercé vostra egli poté esser curato, e riacquistare, per poco è vero! Un po’ di salute e con essa quella fiducia nelle giovani sue forze, che purtroppo aveva dovuto perdere quando s’era trovato solo e nella più squallida miseria nell’ospedale di Genova. E al riaversi delle sue forze morali e fisiche là nello Spedale di san Luca, in lui si risvegliò anche il desiderio , la bramosia di lavorare. Sicché non appena poté, e gli fu permesso alzarsi dal letto, eccolo che passa più ore del giorno al tavolino scrivendo. Poco prima di ammalarsi in Genova, il nostro amico s’era messo a scrivere un altro racconto, Lucrezia Buonvisi, invogliatosi di scrivere su tal soggetto, dopo di VITA DI T. STROCCHI CLXI aver letto la storia di cotesta donna lucchese, tanto colpevole e tanto infelice, raccontata su’ documenti del chiarissimo signor Bongi; e ora lavorava, lavorava per completarlo, e con tanto piacere , con sì dolce soddisfazione che parmi proprio ne scrivesse fin l’ultima pagina nell’Ospedale di Lucca, e non senza speranza di vederlo presto pubblicato. Valendosi de’ fatti storici narrati dal sig. Bongi, egli riuscì a tessere un racconto così ricco e vario nella sua unità d’azione, per episodi e avventure romanzesche di quel secolo XVI, secolo tristo, che giusta l’espressione di Cesare Balbo, fu un elegantissimo baccanale di cultura fra le pugnalate e i veleni, che a malincuore tu ne interrompi la lettura e vorresti andar fino in fondo tutto d’un fiato, tanto ti riesce piacevole e interessante: vi sono delle pagine stupende, vi sono de’ caratteri così scolpiti, degni davvero de’ migliori nostri scrittori. Qualcuno forse, non molto addentro nella storia scandalosa de’ monasteri in quel secolo, leggendo il libro dello Strocchi griderà esagerate per ispirito d’incredulità nell’autore certe scene della vita del chiostro, certe brutture morali appena più immaginabili a’ giorni nostri, che pure da certi piagnoni si vogliono così corrotti da vedervi il finimondo. Ma ove si faccia ragione al romanziere che usa l’arte di riavvicinare e intrecciare insieme più fatti. Di riunire e aggruppare più personaggi in un dato luogo e in un dato momento per rappresentarci in un quadro a grandi linee i costumi, gli usi e le tendenze tutte di una società, o di una parte di quella durante lo svolgersi di un periodo storico, si dovrà riconoscere che nella Lucrezia Buonvisi del nostro autore non c’è nulla che non sia stato studiato e reso con quella rettitudine d’animo, serenità e squisitezza di spirito propria VITA DI T. STROCCHI CLXII del vero artista, che non sa mentire a se stesso, né vuol mentire altrui. Trasportatosi egli in mezzo al patriziato lucchese del secolo XVI, così vago di avventure amorose e tanto diviso da fazioni politiche e più da vecchi odii di casate e di famiglia, un bel giorno lo vediamo entrare in compagnia del signor Bongi nel monastero di santa Chiara e là trovata la bella Lucrezia Malpigli, vedova di Lelio Buonvisi, le si avvicina e la interroga…, e dalle interrotte sue frasi, dall’alito affannoso, dal fuoco de’ suoi occhi, egli ne indovina lo strazio dell’anima, e con lei maledice al secolo tristo. Vede frattanto sfilargli dinanzi le altre suore tutte. Le guarda, le fissa, e da que’ corpi gentili da cui spira la nobiltà del lignaggio, sente il calore della passione che le rode e le consuma, e colto da sdegno e da compassione è costretto a piangere con la infelice e gentile Orizia Ortucci. E si fa triste alla vista di tante anime dannate al chiostro dall’avarizia di padri snaturati, dall’orgoglio di un patriziato corrotto e dal falso concetto che in que’ secoli, più che in questo nostro, si aveva della vita cristiana: vide quelle giovani creature che si consumavano in una forzata castità, mentre eran nate per amare ed essere amate e con la fantasia calda da tutte quelle memorie del tempo, lui artista facile e sincero, disegna con mano sicura e colorisce co’ più bei colori della sua tavolozza tutto quanto ha veduto coll’erudito compagno e intraveduto col suo genio; e compìta così l’opera sua; sicuro di non aver fatto cosa indegna di sé e del proprio paese, l’abbandona volentieri alla critica. Uscito che fu dall’Ospedale il 2 luglio, si recò a’ Bagni di Lucca dall’amico S., dove rimase, sussidiato sempre dagli amici, fino al 6 ottobre. E là, a quell’aria così pura e balsamica durante la state, e di- VITA DI T. STROCCHI CLXIII stratto dall’incantevole vista di quelle amene e pittoresche vallate, vivendo tutto ne’ ricordi de’ suoi tempi di giovinezza, fra mezzo a quella gente che lo ama, e presso la sua adorata fanciulla, e’ si sentì tornato a nuova vita: si credeva guarito; lo credevamo noi tutti. Sicché decise non partir più da Lucca, pensava come esercitarvi la professione, e già sognava una meritata tregua a’ lunghi dolori. Ma la sua malattia era divenuta ormai incurabile, e passò poco tempo che si ributtò giù per non riaversi: allora furono mesi di speranze e di rassegnazione, lunghi giorni di tristezza e di abbandono, però senza proferir mai un lamento, un rammarico, senza far mai un rimprovero a nessuno. Oh! ricordo quel giorno in cui gli dissi se amava di vedere suo padre, il buon vecchio Stefano, che viveva in Firenze costrettovi dall’arte sua. Egli impallidì, e una lagrima brillò ne’ suoi occhi; sentiva di non aver forza bastante per riceverlo in quella condizione, e pregò me, gli amici tutti, si raccomandò a sua sorella che da più giorni trovavasi presso di lui, perché nulla scrivessero al babbo!... E bisognò prometter tutto, tutto, mentre si sapeva che suo padre era per via, e fin quando si trovava lì nell’anticamera tutto in lagrime! Ma il buon vecchio voleva vederlo, voleva abbracciarlo, baciarlo almen per l’ultima volta e d’improvviso entrò nella sua camera. Lo vide e … No, la mia penna non può descrivere una scena come questa. E potess’ io tralasciare di descrivere altre scene di cui mi trovai testimone in que’ giorni; non per ché, ripensando a quelle, l’animo mio si senta commosso come al ricordo de la piena degli affetti che vidi prorompere dal cuore di quel padre infelice presso il figlio morente, ma perché di certe brutture, ove non fossi costretto a scrivere per ufficio di stori- VITA DI T. STROCCHI CLXIV co, vorrei fosse perfino cancellata ogni memoria per onore del mio paese e de’ miei contemporanei. Era il giorno…, non importa ch’io ricordi la data quando mi si venne a chiamare; perché mi recassi a casa di Tito. Non perdo un momento, ci volo; e appena entrato mi trovo dinanzi all’illustrissimo signor Ispettore di Pubblica Sicurezza che in compagnia di un suo Delegato mi attendeva. Il signor Ispettore mi dice che per dovere di ufficio era costretto a perquisire la camera del signor avvocato Strocchi, dolentissimo del resto di dover arrecare disturbo al mio povero amico che sapeva trovarsi così gravemente ammalato da dover temere della sua vita. Rimasi come fulminato; e se la nota cortesia del signor Ispettore e il pensiero ch’egli si trovava costretto a compiere quell’atto, e in quel momento! per ordine della Procura Generale, non mi avessero trattenuto, mi sarei opposto a tanta infamia. Avvertii l’amico della visita, inaspettata quanto importuna, e mi rispose: «Che passi!». Introdussi i due signori; aprii io il cassettone, unico mobile che trovavasi in quella modesta cameretta, e feci veder loro le carte tutte che appartenevano a Tito Strocchi. Non vi furon trovati sebben ricordo che pochi manifesti a stampa del Comitato direttivo della Consociazione Repubblicana Toscana, di cui egli era membro, copie che furon sequestrate; e steso il relativo verbale ch’io pure dovetti firmare come testimone, que’ signori se ne andarono, scusandosi presso l’amico mio di quella loro visita inaspettata. L’accaduto peraltro disturbò non poco il nostro Tito, perché in quel momento si trovava così aggravato dal male che ogni più lieve emozione poteva essergli fatale. Ma che cos’è la vita di un povero cittadino, dinanzi all’ordine pubblico? Si può bene da un Procu- VITA DI T. STROCCHI CLXV ratore Generale far entrare nella camera di un moribondo nella speranza di sorprendervi un segreto che può salvare la Monarchia da un imminente pericolo, o la Repubblica se il pericolo è per la Repubblica. Dinanzi alla Ragion di Stato, nel momento del fervore di un processo politico, ogni convenienza va messa da parte, ogni riguardo sparisce; avanti, avanti sempre, accada quel che vuole accadere! Anzi, quanto più gli officiali pubblici sono civili, le istituzioni sono liberali, convien essere barbari, spietati; il diritto della maggioranza copre tutto, giustifica, legittima tutto… Oh libertà, santa libertà invocata dagli spiriti magni che per te soffrirono e morirono nelle carceri e su’ patiboli, come gli uomini del giorno dopo il trionfo ti rendono spesso menzognera!... Nelle prime ore della notte del 12 giugno 1879, il povero nostro amico sentendosi morire, chiama presso di sé la sorella Livia e il fratello Enea, e dopo di aver dato loro un bacio… e detto: «salutate babbo!» spirò, nulla chiedendo al mondo che lasciava, nulla all’eternità cui non credeva. Lui morto, l’Autorità Municipale non vuol permettere che sia data alla salma del chiaro cittadino onorata sepoltura nel cimitero monumentale del Comune. È là fuori del recinto architettonico del cimitero comune, in un piccolo spazio di terreno abbandonato e deserto, da poco tempo improvvisato – quasi campo scellerato – a cimitero de’ così detti liberi pensatori, che dev’essere sepolta la salma dell’avvocato Tito Strocchi!... Ma a tanto sconcio, degno de’ più bassi tempi dell’intolleranza cattolica, e contrario non solo allo spirito moderno, ma allo spirito delle vigenti leggi, si oppone energicamente VITA DI T. STROCCHI CLXVI l’Autorità prefettizia, riscuotendo il plauso di tutti coloro che lo spirito di setta non ha reso ciechi d’intelletto, e che pensano di doversi le virtù civili di un cittadino onorar sempre, indipendentemente dalle sue credenze religiose, nulla essendovi al mondo di più sacro e inviolabile della coscienza umana. Così malgrado l’interdetto dell’Autorità municipale, i funebri resi alla salma del nostro amico, riuscirono degni di lui; di lui che aveva onorato la patria su’ campi di battaglia col suo eroismo, e ne’ libri col suo bello ingegno. Oltre alle Associazioni liberali lucchesi e le rappresentanze della Democrazia di tutta la Toscana e di molte altre parti d’Italia, seguì il feretro fino al Cimitero un numero considerevole di cittadini; e commoventissimo fu il momento in cui alcuni de’ più intimi amici del nostro Tito calaron giù nella fossa con amorosa cura la cassa che ne racchiudeva il corpo. Piansi d’angoscia… e avrei voluto che lì insiem con me fossero stati quanti si contendono il privilegio fin nella tomba, perché avrei gridato loro: «O gente superba che credi d’esserti fatta una privativa anche del cielo, prostrati e taci; dinanzi ad una tomba non c’è che Dio, giudice!» Son ora trascorsi trenta mesi da quel giorno, e ancora tutto vivo n’è il doloroso ricordo nella mia mente… Oh! come sarei soddisfatto se lo scrivere la Vita di Tito Strocchi, se con questa mia fatica avessi anch’io, per una piccolissima parte, potuto contribuire perché là su quelle poche zolle di terra a lui contese nel Cimitero di Lucca, sorga un modesto monumento che ne ricordi il nome e le virtù. Povero Tito… non avevi che trentatre anni. 12 dicembre 1881 VITA DI T. STROCCHI CLXVII NOTA ___________ Fin da quando incominciai a scrivere la Vita di Tito Strocchi, pensai di farla seguire da un’Appendice bibliografica su le sue opere edite e inedite, e più particolarmente su le sue poesie liriche, delle quali nulla dissi della Vita per non intralciare di troppo il corso naturale di essa. L’urgenza di questa pubblicazione peraltro mi obbliga oggi di dar corso alla povera opera mia, sebbene non completata com’era mio intendimento; ma, ove ciò altri non scriva prima di me e con quella competenza ch’io certo non ho, manterrò la promessa che mi son fatta VITA DI T. STROCCHI CLXVIII