“IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA di Ginette Herry I l ventaglio è stato pubblicato per la prima volta, senza lettera dedicatoria e senza “A chi legge”, nel tomo quarto dell’edizione Zatta (Venezia, 1789). La commedia era andata in scena il 4 febbraio 1765 a Venezia, quinta e penultima mandata da Parigi per onorare il contratto che continuava, dopo la partenza dalla patria, a vincolare Goldoni a Francesco Vendramin, il nobile padrone del Teatro di San Luca. 21 GINETTE HERRY «Avrei piacere di far vedere in Venezia come si fanno le commedie di trasformazione, senza le fiabe, senza i diavoli, e senza le piazzate. Tutto sta nelle poche cose che ordinerò, siano bene eseguite». (Carlo Goldoni, Lettera a Stefano Sciugliaga, Opere, XIV, 126, p. 326) «La fama di un autore spesso dipende dall’esecuzione degli attori. Non bisogna nascondersi questa verità, abbiamo bisogno gli uni degli altri, dobbiamo amarci e stimarci a vicenda. Servatis servandis». (Carlo Goldoni, Memorie, I, 41, pp. 204-206) «Questo rigoroso precetto di adattar le parti agli Attori non lo ha lasciato scritto nessuno, ma io me ne sono fatta una legge, e me ne trovo contento. Da ciò riconosco la maggior fortuna delle opere mie sui Teatri rappresentate, e da ciò riconoscono i Commedianti il loro concetto. (…) Le Commedie stampate e lette sono sempre le stesse, ma rappresentate cambiano aspetto, a tenore de’ Recitanti». (Carlo Goldoni, Lettera dedicatoria a Pietro Priuli, Opere, I, pp. 858859) 22 “IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA La commedia è lo sviluppo di un canovaccio che l’autore ha fatto rappresentare alla Comédie-Italienne di Parigi il 27 maggio 1763. Aveva avuto l’idea di comporre questo scenario in reazione alla situazione in cui si era ritrovato in quanto autore a contratto della Comédie-Italienne già dall’autunno precedente. Per sei mesi, la necessaria dedizione esclusiva degli Italiani di Parigi alla Commedia dell’Arte lo aveva costretto, dopo il mezzo fiasco dell’Amor paterno interamente scritto, a tornare alle maschere e a ricavare canovacci dalle sue passate commedie, adattandoli ai nuovi attori; ma sentiva ferita la propria dignità di autore-riformatore e la sua creatività si ribellava. Nella primavera del 1763 decide di cambiare metodo quando vede gli attori criticati per la loro pessima recitazione del canovaccio Arlecchino erede ridicolo tratto dal Ricco insidiato (1758). Per la prima volta Goldoni dà loro una commedia a soggetto del tutto nuova, una commedia in cui ha cercato di coniugare il proprio desiderio di rinnovamento con le cattive disposizioni della compagnia. È quanto illustra al marchese Albergati Capacelli di Bologna, in una lettera del 18 aprile 1763: «Ora ho pensato a un nuovo genere di commedie per vedere se da questi attori posso ricavare qualcosa di buono. Essi non imparano le scene studiate; non eseguiscono le scene lunghe, ben disegnate, ed io ho fatto una commedia di molte scene, brevi frizzanti, animate da una perpetua azione, da un movimento continuo, onde i comici non abbiano a far altro che eseguire più coll’azione che colle parole. Vi vorrà una quantità grande di prove sul luogo dell’azione, vi vorrà pazienza e fatica, ma vuò veder se mi riesce di far colpo con questo metodo nuovo. Il titolo della commedia è L’Eventail. Un ventaglio da donna principia la commedia, la termina e ne forma tutto l’intrigo. La scena è stabile, e rappresenta una piazza di villa con varie case e botteghe, e viali d’alberi. Al primo alzar della tenda, tutti i personaggi si vedono in scena, in situazioni, impieghi ed attitudini differenti. Tutti agiscono. Si vuota e si riempie la scena, e termina con tutti Pietro Longhi, La tazza di caffè (part.), Firenze, raccolta privata. Nella pagina precedente, Nicolas de Largillière, Studio di mani (part.), 1715 circa, Parigi, Louvre. i personaggi in situazioni diverse» (Tutte le opere di Carlo Goldoni, ed. Mondadori, vol. XIV, p. 280). Tale il canovaccio dell’aprile 1763 il cui testo non ci è pervenuto. Ma sappiamo, da una nuova lettera al marchese Albergati Capacelli, che il 27 maggio la doppia attesa di Goldoni fu crudelmente delusa: «Si è data la mia commedia intitolata Il ventaglio, ma non ha fatto quell’incontro, che io credeva. È troppo inviluppata per l’abilità di questi comici. Sono stato risarcito dai Due fratelli rivali, picciola commedia in un’atto che è una cosa da niente, ed ha fatto incontro grandissimo. Non ostante il suo incontro, non la credo buona per Lei. È troppo comica, è troppo bassa, e questo è quel che piace a Parigi al Teatro Italiano». (lettera del 13 giugno 1763, ibid., p. 287). Trascorrerà ancora più di un anno prima che Goldoni torni al canovaccio del Ventaglio e ne faccia una pièce interamente scritta, da mandare al Teatro di San Luca. Rimette mano all’argomento non soltanto per soddisfare Sua Eccellenza Vendramin che attende con impazienza le sei commedie promesse, ma perché, in quel periodo, è preoccupato dalla questione del meraviglioso a teatro: Il ventaglio, malgrado la sua scena stabile e il suo totale rifiuto delle magiche “trasformazioni”, dimostra che il vero meraviglioso quello del semplice e del naturale, non quello del magico fiabesco - si può scoprire là dove non ci si aspetta di trovarlo. Mandando Il ventaglio a Venezia, Goldoni scrive: «È una gran commedia, è una gran commedia perché mi ha costato una gran fatica, e una gran fatica costerà ai comici rappresentarla. Fatica d’attenzione, di qualche prova di più. […] Da un atto all’altro [i personaggi] sono sempre concatenati, né mai resta un momento la scena vuota. […] Il colpo d’occhio della prima scena, la scena muta del terzo atto, e il gioco perpetuo di tutte le parti della scena e di tutti i personaggi, secondo me sono cose che dovrebbero far bene… Raccomandate che facciano diverse prove. Tutto dipende dall’esecuzione… La commedia dipende dai comici. E so che sono in sicuro». (lettera del 27 novembre 1764 a Stefano Sciugliaga, 23 GINETTE HERRY Giovanni Paolo Panini, Galleria immaginaria con le vedute di Roma moderna, 1759, Parigi, Louvre. «I miei amici volevano assolutamente che mi dessi a qualche altro argomento da romanzo: per risparmiarmi, dicevano, la fatica dell’invenzione. Stanco delle loro insistenze, finii col dire che invece di leggere un romanzo, per cavarne una commedia, preferivo comporne una con la quale si potrebbe fare un romanzo. Gli uni scoppiano a ridere, gli altri mi pigliano in parola: “Bene - dissero - fateci un romanzo in azione, una commedia complicata come un romanzo”. (…) Torno a casa e infiammato dalla scommessa attacco commedia e romanzo tutt’insieme, senza aver l’argomento né dell’una né dell’altro. Mi dissi che occorreva molto intreccio, elementi di sorpresa e meravigliosi, e nello stesso tempo interesse, comico e patetico». (Carlo Goldoni, Memorie, II, 11, pp. 291-295) 24 “IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA ibid., p. 327). Malgrado queste raccomandazioni, anche a Venezia «la pazienza e la fatica» furono indubbiamente insufficienti se Il ventaglio, pure rimasto in cartellone per sette giorni di seguito, non arrivò alla fine del Carnevale e se, prima del proprio scioglimento (1770), la compagnia lo riprese una sola volta. […] Per anni e anni la commedia continuò ad avere poca fortuna fino al ventesimo secolo in cui fu considerata, da Renato Simoni (1936) in poi, come puro gioco di teatro. Ma quando si pensa che è l’ultima pièce “italiana” che Goldoni invia al Teatro di San Luca, quando ci si lascia portare dal suo flusso e si osserva con quale economia e felicità di scrittura Goldoni ne tracci il percorso e ne convogli l’energia, quando si sa, d’altronde, che i ruoli del calzolaio Crespino e della contadina Giannina erano stati concepiti a Parigi per Carlo Bertinazzi e Camilla Veronese, sul cui talento Goldoni ha condotto in Francia le sue più nuove esperienze drammaturgiche, è difficile ridurre Il ventaglio a puro meccanismo teatrale, a virtuosismo gratuito, o a testimonianza di una presupposta rottura fra mondo e teatro apparsa nel Goldoni degli “anni francesi”. Già nel 1979 Squarzina constatava che Il ventaglio è l’unico dei duecento testi teatrali goldoniani ad avere per titolo il nome di un oggetto e che questo oggetto mediatore che “forma tutto l’intrigo” si carica lungo la sua corsa di molte emozioni contraddittorie. Bisogna dunque interrogare attentamente la pièce e la singolarità del fascino che emana, accettando di pensare che la maestria, come in Mozart, possa farsi induttrice di poesia, anziché costituire un ostacolo o rimanere un’illusione. […] Perché non immaginare che, ripercorrendo, da Parigi, gli innumerevoli aspetti del proprio teatro ricordiamoci che sta allora rileggendo e correggendo le proprie opere, per pubblicarle in tanti volumi successivi presso l’editore Pasquali di Venezia Goldoni faccia il punto sull’insieme del proprio percorso, lo interroghi e perfezioni il proprio sapere drammaturgico con il metterlo in pratica nel Giuseppe Maria Crespi, Gli sportelli della libreria di padre Martini, 1720-30 circa, Bologna, Conservatorio G. B. Martini. Ventaglio? Perché non pensare che ci stia consegnando con questo testo, come Shakespeare con La tempesta, o Pirandello con I giganti della montagna, la sua pièce metateatrale per eccellenza e il suo capolavoro “d’addio”? Ovviamente, vi chiama in campo la propria scienza del palcoscenico. Quella della costruzione dinamica dello spazio, ad esempio. La scena fissa del Ventaglio, con le sue azioni simultanee in diversi luoghi, non è nuova, e Goldoni l’ha già sperimentata nella Bottega del caffè (1750), nel Filosofo inglese (1754), nel Campiello (1756) e nelle Baruffe chiozzotte (1762). Tuttavia, nella lettera citata indirizzata a Sciugliaga, insiste sulla perfetta concatenazione delle azioni e dei personaggi, e sulla scena che non rimane mai vuota, dal momento che i suoi diversi luoghi funzionano insieme o in alternanza. Così riesce a coniugare con gradevole libertà lo spazio scenico unico, coerente e verosimile nato nel Rinascimento, con il sistema dei “luoghi deputati” della tradizione medievale. Ma va oltre. Crea dei luoghi deputati nel retro della scena, sorta di nicchie in cui accadono cose fondamentali di cui lo spazio scenico accoglierà soltanto gli effetti. Sono di questo tipo, in modo minore, l’osteria di Coronato (con la stanza in cui il barone decide di confidarsi con il conte e la cantina dove l’oste dimentica il ventaglio su una botte), la casa di Geltruda (con il salone dove il barone chiede la mano di Candida e la camera in cui la ragazza si rifugia e la zia trova alcune lettere significative), la bottega di Timoteo, dove il barone va a sbrigare la corrispondenza e il conte a chiedergli indietro il ventaglio… Sono di questo tipo, in modo maggiore, il giardino del caffè sul quale affaccia la finestra di Candida che permette ad Evaristo di ritrovare l’amata, il giardino di Susanna, in cui Geltruda e la merciaia si scambiano informazioni e dove Geltruda chiede a Evaristo quali intenzioni nutra nei confronti di sua nipote… Insomma, il modo secondo il quale sono costruite le scene a vista del Ventaglio ci obbliga ad immaginare le scene fuori campo e lo spessore della scenografia. Il che perfeziona, ovviamente, la tecnica 25 GINETTE HERRY Giandomenico Tiepolo, Svaghi della villeggiatura, 1791, affresco, Venezia, Ca’ Rezzonico. 26 “IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA teatrale ma spostandola e intrecciandola a quella del romanzo. Il discorso vale anche per il tempo. Qualunque sia l’intensità delle azioni in scena, lo spettatore non può fare a meno di chiedersi quali siano i pensieri di Evaristo quando è a caccia nel bosco con Moracchio, o quando riposa sul letto di quest’ultimo dopo aver creduto di morire; quale sarà lo stato d’animo di Candida chiusa nella propria camera fino a quando la zia la farà chiamare in piazza. O quello di Crespino, quando cerca Evaristo fuori della piazza, e quello di Geltruda, dopo che ha allontanato il conte e il barone e ha letto le lettere scoperte nella camera di Candida… Per Geltruda, enigmatica figura di madre-padre di sostituzione, siamo addirittura obbligati ad immaginare un prima e un dopo: come capirla senza raccontarci, come già faceva Squarzina, la sua vita di sposa felice e il disastro della morte del marito, senza chiederci cosa ne sarà di lei quando non avrà più la nipote da tutelare. Ovviamente, questa bella vedova definita “la più saggia e onesta donna del mondo”, non è fatta per continuare a regnare sulla piazza di un villaggio milanese in compagnia di un maturo conte un po’ matto… Occupa d’altronde nella commedia il posto dell’autore, il quale, come lei, veglia sereno sul mondo che ha creato e interviene quando occorre. Pure per Evaristo bisogna immaginare un prima. Cosa potrebbe giustificare la sua presente familiarità affettuosa con Giannina e Moracchio se non il fatto che, in passato, siano stati compagni di gioco, all’epoca delle vacanze in campagna del giovane figlio del «Mi ha fatto un dettaglio esatto delle regole non della Commedia, ma dei Commedianti, che mi ha fatto talvolta ridere e talvolta arrabbiare. La regola la più ridicola delle altre, e che mi ha più disgustato, è questa: le prime Donne, i primi Amorosi, non cedono le prime parti a nessuno. Sieno vecchi, cadenti, non lasciano di rappresentare le parti di giovani amanti, di semplici giovanette, e che la Commedia precipiti, e che il teatro perisca, piuttosto che perdere il diritto del loro posto. (…) Sono i Comici tutti, e buoni e cattivi, e Italiani e Francesi, inflessibili su questo punto, e tutte le opere teatrali che ho poi composte, le ho scritte per quelle persone ch’io conosceva, col carattere sotto gli occhi di quegli Attori che dovevano rappresentarle, e ciò, cred’io, ha molto contribuito alla buona riuscita de’ miei componimenti, e tanto mi sono in questa regola abituato, che trovato l’argomento di una Commedia, non disegnava da prima i Personaggi, per poi cercare gli Attori, ma cominciava ad esaminare gli Attori, per poscia immaginare i caratteri degl’Interlocutori. Questo è uno de’ miei secreti». (Carlo Goldoni, Prefaz. Pasquali, Tomo IX, Opere, I, pp. 692-695) padrone, il quale, più tardi, è tornato a trascorrere in paese alcune stagioni dell’anno: non ha forse invitato alle Case Nuove, per la stagione della caccia, certo barone diventato suo amico in Dio sa quale amministrazione milanese? Nell’Ufficio della Guerra, indubbiamente… Se non tutti gli spettatori hanno il tempo e il desiderio di porsi tali domande nel corso della rappresentazione, gli attori vi sono costretti durante le numerose prove che Goldoni pretende da loro perché ognuno inventi un personaggio vero e rinunci al codice astratto e alle solite variazioni della propria parte. […] «Queste figure non sono ben dipinte, ma mi pare che non siano mal disegnate» dice il conte che esamina il ventaglio (III, 8), e Goldoni diceva: «Questa commedia dipende dagli attori». Il disegno è ascrivibile all’autore, il colore è responsabilità di quelli che gli daranno vita recitando. Il ventaglio dipinto diventa così la metafora della pièce alla quale dà, assai legittimamente, il proprio nome per titolo. A quali attori pensava Goldoni quando “disegnava non male” tali personaggi? Chi chiamava in campo per occupare la precaria posizione di chi fronteggia insieme la necessità di dare vita e colori originali ai personaggi, sulla base di un testo scritto ben congegnato ma avaro di parole, e la necessità, perciò, di improvvisare, ma fuori dai canoni delle parti e sulla base della propria esperienza del mondo e di se stesso? Sappiamo che, da tempo, l’autore si era fissato come unica regola di costruire i personaggi sui “caratteri” personali degli attori che avrebbero dovuto recitarli. Con la sfida del Ventaglio sembra essersi tenuto a una certa distanza dagli attori del momento, e senz’altro, da quelli della Comédie-Italienne e del Teatro di San Luca che non sono riusciti, di fatto, a impersonare bene il piccolo mondo delle Case Nuove […] Goldoni pare rivolgersi a una compagnia ideale, composta dai migliori attori con cui ha lavorato nel corso della sua carriera: l’elegante e multiforme Truffaldino Sacchi della fine degli anni ’30 al Teatro di San Samuele, se acconsentisse a imparare a memoria il ruolo del ciabattino Crespino per farne il proprio trampolino in 27 GINETTE HERRY Jean-Honoré Fragonard, L’altalena, 1766, Londra, Wallace Collection. 28 “IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA luogo di una banale parte; la petulante Marliani dei primi anni ’50 al Teatro di Sant’Angelo, se sapesse scoprire in sé la generosità della contadina Giannina e rinunciare ad essere una “donna vendicativa”; la fiera Bresciani dei contrastati anni del Teatro di San Luca, se accettasse di calarsi nel lutto tranquillo e radioso della bella vedova Geltruda… Goldoni si rivolge inoltre a una compagnia in cui gli attori “buffi” abbiano il diritto di interpretare i personaggi nobili, mentre le convenzioni dell’epoca vogliono questi impersonati esclusivamente da attori “seri”: una compagnia in cui Pantalone possa divenire il conte, o il dottore l’acrimonioso barone… Una compagnia introvabile, inconcepibile, nel suo tempo, una compagnia del sogno e della memoria. Ma paradossalmente fondata sul ricordo dei desideri mai appagati, di ciò che non è mai stato, che mai è potuto essere, per via degli accidenti della vita e dei ritardi del mondo sulle esigenze poetiche del teatro, sulla precisa aspettativa che il teatro potrebbe sempre avere di “case nuove” in cui inventare insieme tecniche nuove e poemi teatrali autentici. L’accidente e il ritardo. Due parole portanti nella drammaturgia di questo “singolare gioiello” (Manlio Dazzi) che Goldoni ci offre e si permette di offrire a se stesso a mo’ di primo addio al teatro. Se da tempo l’accidente ha preso il posto della “crisi” classica nella costruzione delle sue commedie, lacerando il tessuto sociale per svelarne lo spessore e il rovescio, il suo abbinamento al ritardo, che costruisce tutta l’azione del Ventaglio, è, questo sì, completamente nuovo. Del “ritardo”, di tutti i ritardi Goldoni carica il conte nel microcosmo di un villaggio in cui coesistono tutte le classi e dove città e campagna si sfiorano. Il conte se ne crede, se ne dice protettore. Goldoni lo pone al centro della piazza e della pièce, ma il conte ha occhi e spirito tuffati in un libro di favole: «Eravi una donzella di tal bellezza…». Credendo di sapere tutto, non vede nulla però, e nulla sa degli amori segreti di Evaristo e Candida. È Geltruda che, dalla terrazza, le dita occupate a «fare de’ gruppetti», osserva quel che accade e bada a Gabriel de Saint-Aubin, Il Salon del 1765, Parigi, Louvre. limitare gli abusi. Ma lei stessa condivide il ritardo. Se ha tosto intuito l’attaccamento di Candida per Evaristo, non ha immaginato che le cose potessero essere così avanti come in seguito le rivelano alcune lettere. Nell’atto I, scena 3, si era affrettata a ricevere il conte venuto a leggerle una delle sue “favole”, e aveva dunque abbandonato la terrazza troppo presto per vedere Evaristo dare qualcosa a Giannina; fraintende di conseguenza il comportamento di Candida nei confronti della ragazza e poi del barone; non sospetta che la nipote sia diventata tutta gelosia e dispetto. Dovrà scendere in piazza e iscriversi nell’azione per recuperare il proprio ritardo e riparare alle conseguenze della sua mancata lettura della realtà. Se Geltruda è effettivamente una proiezione di Goldoni, vediamo a quale tipo di attenzionedistrazione appartenga il rapporto dell’autore con le proprie creature e quanto relativa sia l’onnipotenza che si concede nei confronti dei desideri che ha generato in loro, e nei quali essi si perdono: soltanto in extremis il disordine lo obbliga a intervenire per vedere rinconciliati e fusi insieme, sulla piazza delle Case Nuove, la “natura” e la “cultura”, la ragione e gli 29 “IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA Giandomenico Tiepolo, La passeggiata estiva, 1757, affresco Vicenza, Villa Valmarana ai Nani. oscuri desideri. […] Oltre alla maestria teatrale, Goldoni investe nel Ventaglio la propria arte del racconto. Questa gli deriva dalle numerose “lettere”, “a chi legge” e prefazioni che accompagnano, sin dal primo volume delle edizioni Bettinelli (1750), la pubblicazione delle sue commedie e che contengono spesso veri e propri frammenti di vita. Dal 1761 al 1772, inventa addirittura l’autobiografia a puntate con le diciassette prefazioni successive dell’edizione Pasquali, dedicate ai momenti importanti della sua esistenza. A partire dalla prefazione del quinto volume, la prima scritta a Parigi, la narrazione si amplia, si diversifica, si organizza per diventare, a capitoli, un vero e proprio racconto di vita ben concertato. L’anno in cui compone Il ventaglio, Goldoni scrive le prefazioni ai volumi VII e VIII che evocano una svolta essenziale della sua vita, il periodo attorno ai 18 anni nel quale, invece della “sua fortuna”, fece “la propria sventura” e fu escluso dal prestigioso Collegio Ghislieri di Pavia. La stessa Pavia è la città dove si svolgono, in tre commedie concatenate, Le avventure di Zelinda e Lindoro, la cui redazione definitiva precede di poco quella del Ventaglio. A Parigi, Goldoni non solo si sente in esilio ma rischia di perdervi il sentimento della propria identità poetica, tanto le condizioni del suo lavoro per la ComédieItalienne lo sconcertano e tanto la «uniformità di vivere e di costume» dei francesi lo priva «del piacere di far delle osservazioni particolari» dalle quali trarre l’argomento di commedie nuove (lettera a Francesco Albergati, 25 ottobre 1762, cit., p. 269). Possiamo quindi intuire che si sarà consolato e avrà dato ristoro alla propria anima con il ricordare e narrare gli accidenti salienti della propria vita, quelli che hanno determinato ciò che sarebbe diventato poi in Italia: autore di teatro e riformatore della commedia […] Allo stesso modo, possiamo intuire che, nel 1764, la scrittura integrale per Venezia di questa «gran commedia» che è Il ventaglio sia stata per lui una sorta di riparazione narcisistica anticipata e una sorta di rimedio. Il rimedio al suo allontanamento da 31 GINETTE HERRY Giandomenico Tiepolo, Donne in conversazione, Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. Sopra, Giandomenico Tiepolo, Il mondo novo (part.), 1791, Venezia, Ca’ Rezzonico. 32 “IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA Venezia e alla sua difficoltà di integrazione a Parigi, alle gelosie che lacerano le compagnie e mettono in pericolo la realizzazione delle sue opere sia a Venezia sia a Parigi, alla routine e alla versatilità del pubblico in entrambe le capitali, alla stagnazione artistica rappresentata a Parigi dal gusto esclusivo per le maschere e a Venezia dal successo delle Fiabe di Carlo Gozzi. […] Nel Ventaglio, per gli abitanti delle Case Nuove, come per Goldoni a Parigi, il tempo si è fermato sin dalla precedente primavera. Gli amori allora nati non sono stati consacrati dai soliti sposalizi del ridente maggio, perché Crespino ha troppa paura del ruvido fratello della sua Giannina, perché Evaristo teme segretamente Geltruda così bella, serena e saggia. Pure l’estate è passata, sono apparsi dei rivali, ma… Ma, improvvisamente, un “ventaglio da donna”, caduto un mattino d’autunno da una terrazza per rompersi sulla piazza sollecitando di essere sostituito, diventa una sorta di oggetto magico o, piuttosto, per tutta la collettività delle Case Nuove, l’oggetto “transizionale” nel significato che Winnicott dà a questo termine: un oggetto che condensa le forze del desiderio senza criterio, rivela ciò che è rimasto latente e, come un furetto, costringe i vari personaggi a seguirlo tutta la giornata, facendo “girare la testa” a tutti, come afferma Giannina nell’ultima scena. Tutto quanto, però, con il fine, quando tramonterà il sole, di rimettere l’orologio a posto, di consacrare finalmente le giuste coppie e di legittimare, forse, ancora, il nome “Case Nuove”. Come nei medievali jeux de la feuillée, una sorta di iniziazione, una successione di prove che permettono di conoscere il diritto e il rovescio della realtà sempre presa nelle illusioni delle apparenze, trova la sua verifica sulla piazza di Case Nuove, alla fine di una «Io per altro non iscrivo sermoni per insegnare, ma Commedie per onestamente divertire». (Carlo Goldoni, L’autore a chi legge, Opere, VII, p. 7) calda e già breve giornata d’autunno. Qui, non ci sono demoniaci Hellekin o spiriti della foresta; nessun personaggio con un abito a losanghe rosse e verdi conduce il gioco; ma, a celebrare il rito di riparazione, c’è un “semplice ventaglio”, incantatore-ingannatore e induttore: se corre e “fa girare” le persone, è solo per farle diventare più robuste, selezionarle, farle accoppiare prima dell’inverno, far vivere loro ludicamente le prove dell’inganno e la loro attitudine a smontarne i meccanismi nelle prove della vita. Ma non sarà pura retorica attribuire a quell’oggetto una tale potenza? Sono coloro che lo hanno in mano che ingarbugliano e poi sbrogliano i propri desideri, che scoprono di avere in se stessi l’altro, e credono di morire o imparano ad ammansirlo, quell’altro. Il ventaglio è solo l’emblema della commedia, la quale ci dice che il mutevole è dentro le persone, la magia negli stratagemmi e nei sotterfugi del desiderio, il meraviglioso nella vita stessa di ognuno di noi. Una “favola”, dunque, Il ventaglio? Sì. Ma una favola filosofica, come sono “filosofici” i Racconti di Voltaire che sono tutt’altro che virtuosismo gratuito e mai hanno testimoniato di una rottura qualsiasi del “patriarca” con il mondo. Una fiaba esistenziale è Il ventaglio, che confessa di voler coniugare i racconti medioevali così cari al conte e nei quali, per una “donzella di tal bellezza”, si affrontano campioni rivali, con le favole morali di Geltruda che “istruiscono e divertono” (I, 3). Ma questa favola, che intreccia pure il teatro con il romanzo e i personaggi con l’autore, permette anche a quest’ultimo di insinuarsi ogni tanto nel racconto per ricordarsi quello che fu e che non fu, ciò che fece e ciò che non osò fare, per collocarsi, insomma, nella “storia della propria vita” come in “quella del proprio teatro” che saranno, vent’anni dopo, l’oggetto dei Mémoires. E per trovare una collocazione nella storia del teatro tout court. (tratto da Carlo Goldoni, Les Années Françaises, volume III, Introduction à “L’Éventail”, in “Le Spectateur Français”, collezione diretta da Jean-Loup Rivière, Imprimerie Nationale Éditions, Parigi, 1993 - per gentile concessione dell’autrice) 33 LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI di Myriam Tanant A ll’inizio dell’agosto 1761, l’ambasciatore di Francia a Venezia, il Conte di Baschi, consegna a Goldoni una lettera di Francesco Zanuzzi, il “Primo Amoroso” della ComédieItalienne di Parigi, per la quale svolgeva, in un certo senso, il ruolo di amministratore. Zanuzzi era un amico di vecchia data di Goldoni ed aveva fatto rappresentare con successo, a Parigi, il suo canovaccio Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato. 35 MYRIAM TANANT Frontespizio del IV tomo, dell’edizione Zatta, stampata a Venezia nel 1789, e dove per la prima volta è pubblicato il testo de Il ventaglio. Nella pagina precedente, manoscritto di copista con correzioni autografe di Goldoni, 1773, Comédie-Française. 36 LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI Che bella novità Goldoni va a Parigi! In quella lettera gli proponeva un ingaggio di due anni da parte dei Gentilshommes de la Chambre du Roi, perché rinnovasse il repertorio della compagnia. Probabilmente, Goldoni desiderava fare un viaggio a Parigi fin dall’epoca del suo soggiorno del 1757 a Parma, che all’epoca era la corte più francese d’Italia. La tentazione di accettare immediatamente la proposta fu quindi grande ma, come scrive nei Mémoires, doveva prima liberarsi degli impegni veneziani: «Avevo una pensione dal duca di Parma e un impegno a Venezia: dovevo chiedere il permesso al principe e ottenere il consenso del nobile veneziano, proprietario del teatro San Luca. Né l’uno né l’altro mi sembravano difficili». (Mem. II, 43) E in effetti, un mese dopo, in una lettera del 5 settembre 1761, annuncia la propria partenza al marchese Francesco Albergati quasi con esaltazione: «Oh che bella novità le recherà questa lettera! Goldoni va a Parigi, e partirà, a Dio piacendo, nella ventura quaresima. […] Che cosa (dirà ella) vai tu a fare a Parigi? Sono tre anni che si carteggia col Teatro Italiano per andare a dirigerlo, cioè a dar colà delle opere mie, sul gusto di quel paese». Questo dimostra che l’invito dello Zanuzzi era giunto alla fine di numerose trattative tra Goldoni e la Comédie-Italienne di Parigi per stabilire le basi di una futura collaborazione che lo sollecitasse tanto in veste di autore drammatico quanto di librettista. Più oltre nella lettera, Goldoni afferma che «il progetto è per due anni: viaggi pagati di andata e ritorno, e seimila franchi di assegnamento per anno. In detto tempo ho più da vedere, da osservare, che da operare. Se acquisterò qualche merito, resterò colà con patti molto migliori; se non farò niente, me ne tornerò in Italia; avrò veduto Parigi, avrò arricchita la fantasia per delle cose nuove in Italia […]». Colpisce il fatto che, quando scriverà l’ultima commedia veneziana, sotto forma di allegoria autobiografica, Una delle ultime sere di Carnovale, Goldoni farà dire la stessa cosa al disegnatore Anzoletto, che parte per Mosca: «se la mia insufficenza no permeterà che sia aplaudito in Moscovia le mie operazion, almanco «Dove manca per dir vero la nostra Italia, è nel Teatro Comico, poiché la Francia, l’Inghilterra e la Spagna lo superano di gran lunga. S’io avessi lo spirito di Molier, farei nel Paese nostro quello ch’egli ha fatto nel suo. Ma troppo debole io sono per reggere tanto peso; e può bene Vostra Eccellenza incoraggiarmi e tutta impiegare la sua eloquenza, per farmi sperare che dalle mie fatiche la cara mia Nazione qualche ristoro in questa parte ricever possa, poiché oltre il conoscer me stesso, che poco vaglio, convien riflettere che l’Italia non è il Paese che abbia una sola Metropoli, un sol genio ed un popolo solo. Per piacere in Francia, basta piacere a Parigi; per avere gli applausi dell’Inghilterra, basta ottenerli da Londra; così almeno fra noi risuona, e da quelli Dominanti soltanto veggiamo uscire le opere rinomate. In Italia non è così: sovente quello che piace ad un Paese, non piace all’altro». (Carlo Goldoni, Lettera dedicatoria a Federigo Borromeo, Opere, II, pp. 881-882) cercherò d’imparar; tornerò qua con delle nuove cognizion con dei nuovi lumi». Si può dunque pensare che, quando Anzoletto dichiara che «se vuol provar, se una man italiana, dessegnado sul fatto, sul gusto dei Moscoviti, possa formar un misto, capace de piàser ale do nazion. La cosa no xe facile, ma non la xe gnanca impussibile», Goldoni riproduca i termini dell’accordo che egli stesso ha stretto con la Comédie-Italienne. Non si tratta tanto di esportare la propria riforma, quanto di formare un misto tra il gusto francese e la creatività italiana, al fine di sperimentare una scrittura originale e nuova. Un simile progetto non può non dinamizzare la creatività di un autore che, prima di lasciare Venezia, si mette in scena, attraverso Anzoletto, come uomo giovane, tutto rivolto verso l’avvenire. Ma Goldoni parte «col cor strazzà» come il suo personaggio? Probabilmente. Ama la sua patria e lo scriverà durante tutto il soggiorno parigino. Ma questo non è incompatibile col desiderio di far avanzare la propria carriera. Giorgo Padoan ha ben dimostrato che, contrariamente a quanto si credeva, la partenza di Goldoni per Parigi è stata provocata da un desiderio d’internazionalità e che si tratta di un atto volontario e non di un esilio forzato. Goldoni lascia Venezia, accompagnato dalla moglie e dal nipote Antonio, probabilmente il 22 aprile 1762. Non prende subito la direzione di Parigi, ma va a Bologna, dove si ammala e dove scrive il libretto La bella Verità. Poi si reca a Modena, per sistemare alcuni affari col notaio, si ferma a Parma, probabilmente per migliorare il suo francese, passa per Piacenza e Genova perché sua moglie, oriunda di questa città, possa salutare la famiglia, prima di entrare in Francia e invocare «l’ombra di Molière» perché lo guidi (Mem. II, 46). Goldoni non vedrà più l’Italia e vivrà trent’anni in Francia, il che ha permesso di dire che sia stato l’unico scrittore italiano ad aver vissuto due vite: una italiana ed una francese. In questa seconda vita sarà inizialmente autore per la Comédie-Italienne, poi, dal 1765, diventerà maestro di italiano della principessa Adelaide, figlia di Luigi XV e vivrà a Versailles fino al 1769. Tornerà a Parigi, dove 37 MYRIAM TANANT «Che le Commedie mie abbiano avuto un grato accoglimento dagl’Italiani, l’ho attribuito al zelo che hanno concepito, per il decaduto nostro Teatro; e in grazia del genio mio, che per il comune compiacimento ed onore a faticar mi ha spronato, perdonate ho giudicato mi sieno tutte quelle mancanze che nelle Opere mie, per difetto di miglior cognizione; pur troppo ho lasciato correre. Non ho sperato che egual fortuna sortir potessero fra le Nazioni straniere, poiché consistendo più nel dialogo che nell’intreccio la forza, qualunque siasi, delle Commedie, è necessaria una perfetta cognizioni de’ termini, de’ sali, delle sentenze e dei costumi di quel paese, per cui sono state scritte principalmente». (Carlo Goldoni, Lettera dedicatoria al Conte di Purgstall, Opere, III, p. 569) LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI vivrà grazie ad una pensione di 3.600 lire, concessagli dal re, e scriverà direttamente in francese due commedie per gli attori del Théâtre Français, una delle quali è il Bourru bienfaisant, rappresentata con successo nel 1771. Dal 1775 al 1781 è di nuovo a Versailles, dove insegna l’italiano alle sorelle di Luigi XVI. Tornato a Parigi, scrive in francese, tra il 1784 e il 1786, Les Mémoires de M. Goldoni pour servir à l’Histoire de sa vie, dedicate al re, che verranno pubblicate in tre tomi nel 1787 «Chez La Veuve Duchesne, Librairie, rue Saint-Jacques, au Temple du Goût». Infine si troverà in una situazione critica quando, nel 1792, un decreto dell’assemblea legislativa sopprimerà le pensioni concesse dalla corte; morirà il 6 febbraio 1793. Il 7 febbraio, su proposta di Marie-Joseph Chénier (fratello minore del poeta Andrea Chénier, n.d.r.), la Convenzione Nazionale ristabilisce la pensione, destinandola alla vedova. Il 18 febbraio, i Citoyens Acteurs du Théâtre national daranno una rappresentazione del Bourru bienfaisant in favore di Nicoletta Goldoni. Non è ch’io non ami Parigi, ma mi pare di essere fuori dal mio centro A Lione, dopo un viaggio di quattro mesi, Goldoni aveva trovato una lettera di Francesco Zanuzzi che, a causa del suo ritardo, «conteneva alcuni rimproveri, a dire il vero assai pungenti, ma non così energici come avrei meritato». Ma, oltre ai rimproveri, la lettera conteneva l’informazione che «alla Comédie-Italienne si era unita l’Opéra-Comique, il nuovo genere aveva la meglio sull’antico, e i Comici italiani, che erano un tempo il fondamento di quel tipo di teatro, non erano che elementi superflui in quest’altro» (Mem. III, 1). Goldoni, fiducioso nella capacità dei suoi compatrioti di raccogliere questa sfida, non misurò subito la portata di tale novità. Arrivando a Parigi, che scopre con entusiasmo, viene ben accolto dagli attori italiani e francesi, che fanno a gara per invitarlo. Seguendo la propria abitudine di scrivere in funzione del carattere e delle capacità degli interpreti, Goldoni prende in affitto un appartamento vicino alla Comédie, installata 38 Frontespizio dei Mémoires, pubblicati in tre tomi in Francia, nel 1787. Sopra, frontespizio de Il burbero benefico (Le bourru bienfaisant), pubblicato nel VIII tomo dell’edizione Zatta, Venezia, 1789. nell’ex-Hôtel de Bourgogne, «per poter meglio conoscere gli attori della Comédie-Italienne». Ha come vicina Madame Riccoboni, alla quale si rivolge per avere informazioni preliminari sugli attori (Mem. III, 2). A parte Zanuzzi, Goldoni conosce già l’eccellente Pantalone Collalto, «attore nell’animo», con cui aveva lavorato a Venezia. La troupe annovera tra gli altri il Dottore Federico Rubini, lo Scappino Luigi Ciavarelli, “Camille” Giacomina Veronese la soubrette della troupe, eccezionale tanto nelle parti comiche quanto nelle scene commoventi, la Prima e la Seconda Donna, Elena Savi e Maria Anna Piccinelli, quest’ultima anche grande cantante. Ma c’è soprattutto «il preferito del pubblico» l’Arlecchino Carlo Bertinazzi, detto Carlin, «che aveva saputo guadagnarsi così bene il consenso della platea che le si poteva ormai rivolgere con una facilità e una familiarità che nessun altro attore si sarebbe potuto permettere» (Mem. III, 3). Goldoni dispone dunque di una troupe interessante e variegata, ma il suo repertorio lo sorprende: «i miei cari compatrioti non facevano che rappresentare commedie assai logore, commedie all’improvviso di un genere pessimo, quel genere che io avevo riformato in Italia. Ci penserò io, mi dicevo, ci penserò io a dare caratteri, sentimento, progressione, condotta e stile» (Mem. III, 3). Quando espone il proprio progetto alla troupe, alcuni dei suoi elementi rifiutano di seguirlo. In particolare Arlecchino e Scappino, che sono diventati le colonne della Comédie-Italienne e che temono di perdere il favore del pubblico, conquistato a forza di lazzi. È vero che la critica goldoniana recente tende a sottolineare che Bertinazzi era un attore pronto invece a sperimentare nuove strade. Tuttavia il successo dei due Zanni proveniva anche dal fatto che erano i soli a recitare in francese di fronte a un pubblico che capiva sempre meno, se pur lo capiva, l’italiano. Problema, e non piccolo, che dovrà affrontare il drammaturgo, che farà dire ad uno dei suoi personaggi in una delle sue future commedie che un autore italiano non riuscirà mai, se scrive nella propria lingua, a riempire il teatro. E d’altra parte 39 MYRIAM TANANT Frontespizio de Il ventaglio, pubblicato nel IV tomo dell’edizione Zatta, Venezia, 1789. Sopra, frontespizio de Gli amori di Zelinda e Lindoro, pubblicato nel III tomo dell’edizione Zatta, Venezia, 1788. 40 LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI scriverà a Francesco Albergati: «Le donne franzesi non intendono l’italiano, e quando al teatro mancano le donne scarseggiano ancora gli uomini. Bisogna ch’io procuri di obbligare questo sesso difficile; per farlo, bisogna interessarlo, e come? Con delle novità, con dei spettacoli, e con molto franzese». Prima di cominciare a scrivere, Goldoni vuole concedersi il tempo di capire, di osservare quello che piace al pubblico parigino. Nonché il tempo di osservare quel mondo che sembra sfuggirgli: «Parigi è un mondo. […] Ma più andavo avanti più mi trovavo confuso di fronte ai ranghi, alle classi, ai modi di vita, alle diverse maniere di pensare. Non sapevo più chi fossi, che cosa volessi, che cosa stessi per diventare. Il turbine mi aveva completamente inghiottito, mi rendevo conto di aver bisogno di tornare in me, ma non ne trovavo o per meglio dire non ne cercavo i mezzi» (Mem. III, 3). Dopo quello che sembra essere un momento di crisi di identità, si riscuote e propone per il proprio debutto una commedia scritta interamente in italiano, L’amore paterno, che riesce a far accettare agli attori. Bellissima pièce, nella quale parla, in forma allegorica, del suo progetto per la Comédie-Italienne e dei difficili rapporti tra lui, nuovo arrivato, e gli attori italiani già noti. Pantalone - parte molto elaborata che scrive per Collalto - che viene a Parigi con le sue due figlie, una poetessa e l’altra musicista, serve di supporto alla sua identificazione come già gli era servito Anzoletto. Dice del resto nella prefazione: «Tu mi vedi, lettor carissimo, passato d’Italia in Francia. Conoscerai dalla commedia ch’io ho scritto per un paese a me nuovo, e che ho cercato in qualche scena di produr me medesimo per implorare quell’indulgenza, che io sapea di non meritare». Per Bertinazzi scrive una parte di Arlecchino odioso e misantropo: un contre-emploi, poiché il talento di questo attore era fatto di grazia, allegria e agilità. La commedia è interessante anche perché presenta, nella struttura (una commedia breve come lo richiede l’uso francese) e nelle scelte linguistiche, almeno nella versione pubblicata (un italiano semplificato, quasi astratto, perché risulti comprensibile al maggior «Per me nessun Personaggio è inutile. Ciascheduno ha qualche carattere particolare, che può servire al Teatro; chi più, chi meno, egli è vero, ma i mezzi caratteri son necessari ancora, come le mezze tinte ai Pittori. (...) Il male si è che regna ancora fra alcuni di tal mestiere la pretensione del primo luogo, onde ne avviene che si rovinano da loro stessi. (...) Chi va al Teatro e spende il suo denaro per aver piacere, non è impegnato a sostenere il grado degli Attori, ma il merito: e se può accorgersi che per causa de’ loro puntigli abbiano i Commedianti distribuita male una Commedia, s’arrabbia contro di loro e li maledice». (Carlo Goldoni, L’autore a chi legge, Opere, IV, pp. 7-9) numero possibile di persone), alcuni segni dell’esilio. Essa non ebbe un gran successo, nonostante Goldoni avesse preso la precauzione di scriverne un estratto e di farlo tradurre in francese. Dopo questo insuccesso, gli attori non vollero più sentir parlare di commedie scritte, e pretesero delle commedie a canovaccio, che Goldoni si risolse a scrivere: «Non si può dire, però, che i divertimenti mi abbiano impedito di compiere il mio dovere: nello spazio di quei due anni apprestai ventiquattro commedie. […] Di tali commedie, otto furono affidate al teatro e mi costarono più fatica così che se le avessi scritte per intero. Non potevo piacere se non a forza di situazioni interessanti, di un comico preparato con arte e al riparo delle fantasie improvvisate dagli attori» (Mem. III, 4). Affermazioni che fanno pensare che Goldoni sperimenti e inventi piegandosi a quel teatro d’attore senza rinunciare alla propria creatività. Alcuni di quei canovacci servirono da materiale per l’elaborazione di commedie scritte che Goldoni continuava a mandare a Venezia. Tra queste, Il ventaglio e la Trilogia di Zelinda e Lindoro, che rappresentano rispettivamente gli esempi più compiuti delle due strade che Goldoni, come ha dimostrato Ginette Herry, ha esplorato e tentato di rinnovare a Parigi: la strada dell’imbroglio, caricato di memoria affettiva, e quella del serio e del patetico che sfocia nella trasformazione della commedia di carattere in studio psicologico. La Trilogia di Zelinda e Lindoro venne elaborata a partire dalla Trilogie des aventures de Camille et Arlequin, scritta per la Veronese e per Bertinazzi: il solo vero successo di Goldoni al Théâtre Italien. «Finalmente ho ottenuto a Parigi tutto quel piacere e tutto quell’onore ch’io poteva desiderare - scrive a Francesco Albergati il 3 ottobre 1763 - Voilà ma seconde année commencée on ne peut mieux. Oggi ho dato al pubblico una mia commedia intitolata Les amours d’Arlequin et de Camille. Questa ha avuto un incontro sì universale e sì pieno, che ora posso dire che la mia reputazione è stabilita a Parigi. Mi avevano dato due anni di tempo per cercare la via di piacere; l’ho trovata a metà del cammino. Ella sa che i Francesi amano di piangere 41 MYRIAM TANANT Frontespizio dell’edizione Pasquali di tutte le opere goldoniane, pubblicata a Venezia nel 1761. 42 LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI alle tragedie, e non sono persuasi del patetico delle commedie. A questa mi hanno riso ed hanno pianto con egual piacere». Goldoni pensa con soddisfazione che le sue tre commedie a canovaccio che compongono questa trilogia (Les Amours d’Arlequin et de Camille, La Jalousie d’Arlequin e Les Inquiétudes de Camille) abbiano sensibilizzato i francesi alla commistione del comico col patetico, abbiano acuito la loro curiosità con «una sorta di romanzo comico», e gli abbiano permesso di farsi «a forza di situazioni, di accidenti, di pantomimo, di verità, di natura, d’interesse» intendere da coloro che non capivano l’italiano, e di riportare in questo modo il pubblico alla Comédie-Italienne. Ma Goldoni, in quanto autore, resta tuttavia insoddisfatto e lo esprime in un’altra lettera a Francesco Albergati (10 gennaio 1764): «Ora le dirò che anche la terza commedia inseguito delle due suddette, cioè L’inquiétude de Camille, ha incontrato estremamente onde ecco con tre commedie stabilita la mia riputazione a Parigi. Ora per questa parte sono contento, ma se potessi partirei domani per rivedere l’Italia. Non è che io non ami Parigi, ma mi pare di essere fuori dal mio centro, ed è assai difficile di continuar senza farmi intendere col dialogo ed a forza di situazioni, o ridicole, o patetiche, o interessanti. La Cosa è troppo faticosa e troppo incerta». La scontentezza di Goldoni deriva anche dal crescente disaccordo con gli attori, come lo attestano altre lettere sempre a Francesco Albergati (16 aprile 1764 e 3 dicembre 1764), nelle quali allude al fatto che gli attori italiani, sempre più impertinenti nei suoi confronti, l’hanno quasi costretto a lasciare Parigi: «ho sofferto assai; finalmente, vedendo che chi comanda non sa, o non vuole mettergli freno, ho domandato il mio congedo per Pasqua». Finalmente liberato dagli attori, come dice lui stesso, riceve la proposta di diventare professore di italiano a Versailles. «Chi fa il Poeta Comico per professione, di tutto dovrebbe essere infarinato. Arti, scienze, professioni, costumi, leggi, nazioni: tutto può essere soggetto di Commedia, o per deridere il vizio, o per esaltar la virtù, che il buono ed il cattivo di ciascheduna cosa costituisce. Io sono ignorante di tutto, e se fosse vero che di tutto sapessi un poco, sarebbe anche verissimo che niuna cosa perfettamente saprei. Nelle mie Commedie non sfuggo l’incontro di ragionare di tutto, in quella maniera ch’io farei se fossi in un caffè, in una conversazione: qualche cosa si dice per aver letto, alcuna se ne dice per averla sentita dire. (...) Chi pratica, chi osserva, e non è un ceppo, trova gli argomenti a bizzeffe». (Carlo Goldoni, L’autore a chi legge, Opere, IV, p. 75) Aspiravo a scrivere una cosa in francese Arrivando a Parigi, Goldoni aveva visto una rappresentazione del Misantropo di Molière alla Comédie-Française ed aveva ammirato molto l’interpretazione degli attori. Da allora sognava di vedere una delle sue commedie rappresentata da loro. Ma c’era in lui anche il desiderio di vedersi riconosciuto anche da coloro che non sapevano l’italiano. Per questa ragione, infatti, non può dimostrar loro, attraverso la lettura del suo teatro, di occupare un posto tra gli Autori drammatici. È animato, probabilmente, anche dalla volontà di rispondere a Diderot, «il solo scrittore francese che non mi abbia onorato della sua benevolenza» (Mem. III, 5). Il filosofo conosceva l’italiano ma, furioso con Goldoni da quando Fréron l’aveva accusato di aver plagiato Il vero Amico, aveva scritto nel suo Discours sur la poésie dramatique che tutto ciò che Goldoni aveva composto era una sessantina di farse. Quando arriva a Parigi, Goldoni parla e legge il francese; ma lo conosce abbastanza da poter creare più di qualche battuta come ha fatto in Una delle ultime sere di Carnovale? Niente è meno sicuro, come fa supporre ciò che scrive nei Mémoires: «Il mio orecchio non si era ancora familiarizzato con la lingua francese, molto mi sfuggiva nelle conversazioni in società e ancor più a teatro» (III, 5). Però va a teatro per istruirsi, afferma di imparare anche dalle sue nobili allieve a Versailles e frequenta 43 MYRIAM TANANT LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI Accanto, frontespizio del copione manoscritto per il suggeritore de L’avare fastueux, rappresentato nel 1776 a Fontainebleau. A destra, frontespizio de L’avaro fastoso (L’avare fastueux), pubblicato nel IX tomo dell’edizione Zatta, Venezia, 1789. volentieri le società letterarie, dove incontra «persone che conoscevano perfettamente la loro lingua» (Mem. III, 10). Fa indiscutibili progressi, come dimostra il suo tentativo di comporre, su invito dei musicisti, l’opera comica La bouillotte, anche se deve rinunciarvi, perché «finchè si trattava del dialogo me la cavavo discretamente, e mi credevo in grado di arrischiare la mia prosa in un teatro in cui il pubblico era indulgente nei confronti degli stranieri. Ma in un’opera buffa occorrevano anche le ariette e bisognava comporre bei versi per una buona musica. Conoscevo il meccanismo dei versi francesi; avevo superato tutte le difficoltà che inevitabilmente incontra l’orecchio di uno straniero e mi ero proposto buoni modelli da imitare. […] Vidi che la mia musa agghindata alla francese non aveva l’estro, la grazia e la facilità che un autore acquisisce in giovinezza e perfeziona nella maturità». 44 Perché allora Goldoni non traduce una delle sue commedie? Perché non crede alla traduzione. Afferma infatti che bisogna creare e inventare: tanto vale allora scrivere qualcosa di nuovo. È in occasione delle feste che accompagnano il matrimonio del futuro Luigi XVI con Maria Antonietta che Goldoni trova il coraggio di accettare la sfida e scrive il Bourru bienfaisant per i Comédiens Français. Rousseau, cui Goldoni vuole sottoporre la commedia, gli risponde stupito che non ci si mette a scrivere in un’altra lingua alla sua età. La risposta di Goldoni nei Mémoires è senza appello: «Non solo ho composto la commedia direttamente in francese, ma anche pensavo alla francese quando l’ho concepita: essa porta l’impronta della sua origine nelle idee, nelle immagini, nei costumi, nello stile» (Mem. III, 16). Rappresentata per la prima volta nel 1771, la commedia ebbe un successo enorme, e non solo in Francia. In Germania acquisì una tale fama che Goethe cita nel Wilhelm Meister la prima scena tra Geronte e Angelica, senza neanche precisare il nome dell’autore e il titolo dell’opera. La seconda commedia scritta in francese, L’Avare fastueux, che, dopo una prima lettura gli venne rimandata perché vi apportasse delle correzioni, fu recitata in condizioni difficili nel 1776 di fronte alla corte. Venne accolta in modo tanto glaciale che Goldoni la ritirò, sperando in una ripresa meglio preparata, che non si dette mai. Goldoni, sappiamo, ha scritto anche i suoi Mémoires in francese. Sono una costruzione romanzesca le cui tre parti appartengono a tre diversi generi: il Bildungsroman (romanzo di formazione, n.d.r.), l’esercizio poetico e il racconto di viaggio. Naturalmente non bisogna cercarvi la verità obiettiva, bensì una verità interpretata da un artista che, alla fine dell’esistenza, cerca di fissare frammenti di vita e 45 MYRIAM TANANT LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI di quell’effimero eterno che è il teatro. Bisogna anche tener conto del fatto che Goldoni, ottuagenario, fa confusione con le date, si perde talvolta nei meandri della memoria e tace certi avvenimenti, soprattutto nella terza parte, che riguarda «la vicenda della mia emigrazione in Francia»; e questo tanto più che il testo è dedicato al re di Francia Luigi XVI. Nella prefazione l’autore spiega che «già bisogna pur informare i posteri del fatto che solo in Francia Goldoni ha potuto trovare riposo, calma e tranquillità, e che ha terminato la carriera con una commedia francese, la quale ha avuto la fortuna di riscuotere successo sulle scene di quella nazione». Eppure, in certe allusioni tra una frase e l’altra, si capisce la difficoltà dovuta al fatto di essere straniero. Soprattutto negli episodi che riguardano i suoi soggiorni a Versailles, nei quali ripete continuamente che sta alla corte, è vero, ma non è un cortigiano. Tuttavia, come segnali alla posterità, Goldoni inserisce dei micro-racconti nel racconto, come il riassunto di un libretto che scrisse per Venezia, I volponi, in cui appare un’altra realtà: «Nel corso del 1777 mi venne chiesta per Venezia una nuova opera buffa; mi ero proposto di non scriverne più, ma pensando che quel lavoro mi sarebbe stato utile anche a Parigi, acconsentii a soddisfare i miei amici e composi un’opera che potesse piacere egualmente all’una e all’altra nazione; il suo titolo era I volponi. Si trattava di cortigiani gelosi di uno straniero; gli si facevano molte cortesie per divertirlo, ma si tramavano cabale contro di lui per rovinarlo» (Mem. III, 26). Sullo sfondo della nostalgia dell’Italia, il libretto sviluppa una forte accusa contro la vita di corte, la sua ipocrisia e la sua violenza. Il personaggio di supporto all’identificazione qui è Girardino, veneziano, che si distingue dai cortigiani per la sua ingenuità e la sua bonomia. La terza parte dei Mémoires riserva ampio spazio al dibattito sulla musica che agitava Parigi e che aveva come protagonisti i sostenitori di Piccinni e quelli di Gluck. Tratta anche della vita musicale in genere, alla quale Goldoni, librettista prolifico e di fama europea, 46 si interessa; ma in questa terza parte non mancano approfondimenti critici sulla vita teatrale con, a volte, giudizi severi, come quelli che Goldoni esprime, pur riconoscendo il suo straordinario successo, sulla pièce di Beaumarchais Il matrimonio di Figaro. Goldoni delinea un quadro di Parigi dove descrive il fermento della vita culturale e mondana alla quale lui stesso partecipa, ma anche i luoghi, come il giardino delle Tuileries, dove ama passeggiare, e il giardino del Palais Royal, alla trasformazione del quale assiste in prima persona; senza dimenticare tutte le notizie che riguardano la costruzione di nuovi palazzi o di nuovi teatri. E, in conclusione, alcuni passaggi dedicati all’organizzazione della pubblica sicurezza, della circolazione, del mondo del lavoro rivelano che la sua capacità di osservazione e la sua curiosità non si limitano al proprio universo personale: ne fanno un vero e proprio rappresentante dell’epoca dei “Lumi”. Questo testo costituisce anche una testimonianza sulla vita degli italiani a Parigi nel XVIII secolo e sui rapporti, stimolanti ma a volte difficili, che hanno con i francesi. Si tratta anche della storia dell’integrazione di Goldoni nella sua nuova patria, uno scrittore in esilio volontario che guarda con nostalgia la terra d’origine: un tema che attraversa anche le undici commedie scritte in Francia dal drammaturgo veneziano. Anche se compone in francese le sue ultime opere, Goldoni tuttavia non dimentica la lingua italiana. Scrive: «Felice di stare in Francia, di tanto in tanto mi piace conversare con persone della mia nazione o con francesi che parlano l’italiano - e ancora - La nazione francese mi è oggi cara tanto quanto la mia, ed è per me un piacere quando incontro francesi che parlano l’italiano» (Mem. III, 24). 47 Carlo Goldoni (1707-1793) L’amore per il teatro fu trasmesso a Carlo Goldoni - nato a Venezia il 25 febbraio 1707 - dalla sua stessa famiglia di origine modenese: dal nonno, dalla madre e, soprattutto dal padre, il quale era solito organizzare a Perugia spettacoli filodrammatici durante le pause della sua professione di medico. A Perugia il ragazzo, che aveva già recitato ed anche scritto giovanissimo - qualche scena, compì gli studi inferiori presso i Gesuiti, ma poi non volle seguire la carriera del padre. A Rimini, poco più tardi, invece di recarsi alle lezioni di filosofia si unisce a una compagnia di comici in un avventuroso viaggio fino a Chioggia. Infine si decide a iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia: da allora la legge e il teatro saranno i due interessi di Goldoni, ma sarà il secondo a dominare. Da Pavia, però, viene presto espulso per una satira giudicata irriguardosa: così accetta un incarico presso la Cancelleria criminale di Chioggia e soltanto nel 1731 si laurea a Padova dopo la morte del padre. I suoi primi lavori teatrali spaziano nel campo del melodramma e della tragedia musicale: fallito un tentativo a Milano, ottiene a Venezia, con un’opera dal titolo Belisario, un discreto successo, valido se non altro ad aprirgli le porte dell’ambiente teatrale. Nel 1734 Goldoni diviene poeta ufficiale Ritratto di Carlo Goldoni (pastello su carta da un’incisione di Lorenzo Tiepolo e Marco Alvise Pitteri). della compagnia Imer e negli anni successivi le sue esperienze si moltiplicano: conoscenza del mondo del teatro e consapevolezza dei casi della vita attraverso una serie di esperienze in diverse città (nel 1736 sposa a Genova Nicoletta Connio, che rimarrà la sua inseparabile compagna). Nel 1748 firma con la compagnia Medebach un regolare contratto come poeta ufficiale; comincia così il periodo più fecondo della sua vita, ma già tre anni innanzi aveva scritto Il servitore di due padroni, il cui canovaccio iniziale venne più volte modificato e precisato fino alla forma definitiva: l’Arlecchino venne rappresentato a Milano dalla compagnia Sacchi nel 1747. Goldoni si avviava alla sua decisiva “riforma” teatrale, testimoniata dalla stesura della commedia Il teatro comico (1750) e da altri scritti non di carattere drammatico: un “no” radicale alla tradizione erudita e pomposa del Seicento, cioè al teatro aulico ed eroico, e allo stesso tempo alla tradizione della Commedia dell’Arte, divenuta puro gioco comico basato sui lazzi e le buffonerie gratuite, legato all’improvvisazione arbitraria dell’attore. D’ora innanzi, attraverso la sua riforma, Goldoni cercherà di cogliere, senza pregiudizi e falsificazioni, l’umanità vera, svilupperà la commedia di costume senza mai abbandonare una spontanea simpatia per il popolo, fino a giungere ad una osservazione ironica e critica della società del suo tempo. Con Medebach, al teatro Sant’Angelo, rimane cinque anni, per poi passare al San Luca col Vendramin dove rimane altri nove anni, ottenendo molti successi ma divenendo anche oggetto di accanite polemiche da parte degli avversari che rifiutano le sue innovazioni. Infine, nel 1762, accetta l’invito della Comédie Italienne di Parigi e si allontana per sempre da Venezia e dall’Italia. In Francia - dove scrive peraltro Il ventaglio - diviso tra Parigi e Versailles, rimane fino alla morte (6 febbraio 1793), un buio periodo di scontento, malattia e, alla fine, povertà. Del volontario esilio francese rimangono, come maggior risultato, i Mémoires, la sua autobiografia di uomo e di artista. Le commedie di Goldoni sono circa centoventi, ma molte risultano occasionali o scritte solo per soddisfare certe esigenze di repertorio delle compagnie presso le quali egli operava. I suoi capolavori si collocano quasi tutti intorno al decennio “fortunato” dal 1750 (anno al quale risalgono anche le famose sedici commedie che egli scrive per sfida) al 1760: La putta onorata, La locandiera, Il campiello, Sior Todero brontolon, I rusteghi, La trilogia della villeggiatura, Le baruffe chiozzotte e, rappresentata proprio alla vigilia della sua partenza per Parigi, Una delle ultime sere di Carnovale.