(Mi par d'esser con la testa) in un'orrida fucina Scuola di Scenografia + Video e motion design – Urbino, 04.03.14 “Rossini è un ottimo pittore di decorazioni, ma toglietegli la luce artificiale e la seduttrice lontananza teatrale e vedrete che cosa resta” (R. Schumann) “Pare un assurdo, eppure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni” (G. Leopardi) La folgorante carriera di Gioachino Rossini dura diciannove anni, dal 1810 al 1829. Sono gli stessi anni della fine delle guerre napoleoniche e della Restaurazione. È una fortuna che coincide con il contesto storico determinato dal Congresso di Vienna del 1815 e con la pace, faticosamente raggiunta dalle potenze vittoriose a Waterloo. Inghilterra, Austria, Prussia, Russia e Francia si proposero e attuarono, in quell'occasione, un compito impossibile; ovvero cancellare gli anni che intercorsero tra il 1789 e il 1814 (anni in cui era successo veramente di tutto) e ricostruire un passato che non esisteva più. «La realtà sociale in quasi tutti i paesi europei era enormemente cambiata, e quindi il ritorno al passato e la difesa a oltranza della stabilità si fondarono sulla repressione, e in particolare su un doloroso divorzio fra politica da un lato e forze produttive, società civile, cultura dall'altro. Tutti i fermenti di novità vennero sistematicamente repressi, o per lo meno guardati con sospetto 1». Sono anni in cui si creò un vuoto tra le conquiste dei valori illuministici di libertà, uguaglianza e fratellanza, ormai consolidate nelle coscienze degli individui e, dall'altra parte, di un potere politico che semplicemente negava che il mondo fosse cambiato radicalmente. Sotto questa luce è più facile comprendere il giudizio negativo di Schumann, dato che i successi di Rossini si andarono a sovrapporre interamente con gli anni del “tardo stile” di Beethoven; anni in cui il compositore pesarese cercò «di far rivivere l’innocenza del mondo pre-rivoluzionario. Rossini non odiò né combatté veramente il nuovo mondo – egli compose come se gli anni 1789-1815 non fossero mai esistiti2». Slavoj Zizek pone l'accento proprio sul tradimento che il libretto de “Il barbiere di Siviglia” di Cesare Sterbini attua nei confronti dell'opera teatrale di Pierre Beaumarchais3. Infatti nel teatro di Beaumarchais non solo la critica verso la nobiltà è feroce, ma sono presenti forti allusioni negative anche nei confronti della sovranità del re di Francia 4. «Lo strabiliante successo del “Barbiere” di Rossini – scrive Zizek - dovrebbe essere valutato secondo questo 1 P. Viola, Storia moderna e contemporanea. Volume III – L'Ottocento, Einaudi, Torino 2000, p. 3. 2 S. Zizek, L'eccezione e la regola, in “Lettera Internazionale”, n. 117, III trimestre 2013, p. 3 P.A. Beaumarchais (1732 – 1799) scrisse la cosiddetta “Trilogia di Figaro”, di cui fanno parte Il barbiere di Siviglia, scritto nel 1772 e rappresentato nel 1775; Il Matrimonio di Figaro, scritto nel 1778 e messo in scena nel 1784, e infine La madre colpevole del 1792. 4 Leggiamo nel IV atto de Il Matrimonio di Figaro che “È la nascita una sorte:/ l’un fa re e l’altro pastore;/ li discrimina fortuna/ ma l’ingegno cambia tutto”. Si consideri che un'asserzione simile era assolutamente impossibile da affermare durante il regno di Luigi XIV. criterio: Rossini prese una pièce teatrale, uno dei simboli dello spirito rivoluzionario della borghesia francese e la spoliticizzò trasformandola in un’opera buffa allo stato puro. Non c'è da meravigliarsi che gli anni d’oro di Rossini siano stati quelli fra il 1815 e il 1830, gli anni della reazione, gli anni in cui le potenze europee intrapresero il compito impossibile di “Ungeschehen machen”, di negare gli eventi dei precedenti anni rivoluzionari 5». Se è vero che i librettisti che collaborarono con Paisiello (autore di un precedente Barbiere del 1782), con Mozart e con Rossini ebbero un gran daffare per levigare o cancellare gli slanci rivoluzionari delle opere originali di Beaumarchais, sarà proprio nell'opera di Gioachino Rossini che la cornice storica perderà di rilevanza fino ad assurgere verso una dimensione che non è fuori dal tempo, ma al di là del tempo. Lo sguardo di Rossini non nega la storia, semplicemente non è interessato a starci dentro. Già nel 1830 Carlo Ritorni si chiedeva, a proposito della sortita di Figaro: «Ma cos'è quest'aria? È una canzone che si finge dal barbiere composta sulla propria vita, e ch'egli canta per via, andando a casa». Il suo apparire in scena è però tanto clamoroso e travolgente da andare ben al di là della semplice canzonetta che si finge cantata a solo con accompagnamento di chitarra: «mercé d'un movimento sonoramente armonioso, si direbbe che arrivasse invece, con la sua banda, il reggimento del conte (…) E laddove ancora il barbiere parla della sua bottega, e dice cose colà si vede, chi badi all'insorgere strepitosamente dell'orchestra, crederà certamente che entro di quella tenga suonatori, ballerini, od altri che per allegria facciano fracasso grandissimo». La musica di Rossini andava dunque ben oltre il semplice compito d'imitare la natura e d'illustrare il testo poetico: vi introduceva un'ebbrezza che ne scompaginava la razionalità e ne saltava a piè pari le limitazioni per imporgli la propria signoria6». C'è un altrove nella musica di Rossini che è inutile cercare di afferrare 7, perché sarebbe un po' come raccontare un sogno utilizzando le parole. L'obiettivo prefissato da Pierre Beaumarchais consisteva nello sciogliere l'opposizione della dialettica nobiltà e borghesia8, a favore di un'immagine di un borghese intraprendente e abile che, a dispetto delle sue origini, riesce a raggiungere una diversa e migliore posizione sociale. Per questo Figaro non è più il servo intrigante del teatro classico, egli ci appare molto vicino al conte di Almaviva, e ci lascia intendere molto bene il fermento della Francia pre-rivoluzionaria, il subbuglio delle classi sociali. Per questo quando Mozart mette in scena Le nozze di Figaro, nonostante l'opera di Beaumarchais fosse stata proibita dall'imperatore Giuseppe II a causa del tono anti-nobiliare che conteneva, le limature del libretto non ne trasformarono il contenuto profondamente avverso alla nobiltà. Mozart aveva in odio la pomposa accidia della nobiltà, anche se suo «padre avrebbe desiderato che egli salisse le scale della società, diventando un “principe di questo mondo”. Mozart, invece, fin da ragazzo scherniva i nobili che il padre 5 Zizek, Op. cit. 6 Libretti d'opera italiani, a cura di G. Gronda e P. Fabbri, Mondadori, Milano 1997, p. 1005. 7 Si rifletta a tal proposito sulla vicenda del Congresso di Verona (1822), allorquando Metternich invitò Rossini a presenziare e a comporre, per quell'occasione, cinque diverse cantate, tra cui Santa Alleanza, con cui si celebravano le forze della restaurazione. Rossini «non si convertì ad una vera e propria convinzione di legittimista entusiastico, ma fu raffermato in una disposizione d'animo in favore della conservazione sociale e della stabilità politica» (in E. Mancinelli, Musica e politica in G. Rossini, Pubbliscoop edizioni, Sessa Aurunca 1996) 8 Il Marriage de Figaro di Beaumarchais venne rappresentato nel 1784 e provocò vaste reazioni per i toni espliciti di critica generale della società dominata dalla nobiltà e dal clero. proponeva alla sua ammirazione: «C'era un sacco di Noblesse, - scrive Mozart in una lettera al padre - la duchessa Culettini, la contessa Pisciabene e poi la principessa Puzzadimerda con le sue due figliole». Non aveva che insofferenza verso il mostruoso corteo di abati, conti, consiglieri del Parlamento, luogotenenti generali della Polizia, marchesi, duchi, principi, luogotenenti generali degli eserciti, intendenti dei Piaceri del Re, che avrebbe dovuto frequentare a Parigi; e derideva perfino l'imperatore. Sebbene nessuno fosse più lontano di lui di un sanculotto, aveva capito che un artista deve abitare nel basso, tra i servi e gli gnomi, sugli infimi scalini dell'esistenza9». Quando la nobiltà si riaffaccerà sulla scena, dopo la Restaurazione del 1815, sembrerà più simile ad un fantasma che ad una vera e propria classe sociale. Infatti agli inizi dell'Ottocento era naufragata definitivamente anche la volontà di Maria Teresa d'Austria di riformare la nobiltà 10, affinché assumesse un ruolo attivo nella società, mentre Giuseppe Parini criticò senza tregua, negli aspri e ironici endecasillabi de Il Giorno, colui "che da tutti servito a nullo serve". È chiaro che re e nobili sono facce della medesima medaglia; si avvalorano a vicenda e nel loro rapporto speculare traggono legittimità e consenso. In questa direzione appare evidente che non ci fu più una dialettica storica e sociale sostenibile, nel fragile ordine imposto dal Congresso di Vienna, bensì solo una apparenza artificiosa e illusoria. Tanto che, quando esploderanno i moti del 1821 e del 1831 fino alle rivoluzioni del 1848, l'Europa si ritroverà ancora una volta devastata da guerre e rivoluzioni. La musica del Barbiere, composta come se non fosse accaduto niente nel frattempo, sembra riprodurre l'impossibilità di giungere ad una sintesi storica; e questo accade proprio durante le sue iperboli musicali che nascono spesso dalle esasperazioni protratte fino alle estreme conseguenze. Nel Barbiere di Siviglia «il disorientamento dei personaggi alla fine del I atto, di per sé una situazione frequente nell'opera buffa, si trasforma (…) in una sorta di disintegrazione mentale, perché tutti sono travolti in un frenetico meccanismo contrappuntistico (…), per non dire di estraniazione, tra la musica e il testo, che può portare ad esilaranti contraddizioni (verso la fine del Barbiere la circolare ripetizione di “Zitti zitti, piano piano” fa sì che i personaggi restino fermi mentre continuano a dire di volersene andare) 11». Quel disorientamento ed estraniazione rappresentate da Rossini non sono tanto delle contraddizioni, quanto piuttosto esempi di una dialettica negativa: non c'è sintesi tra Ancien Régime e rivoluzione, né tanto meno tra nobiltà e borghesia, che sono solamente due classi sociali che, non potendo conciliarsi, possono solo stare una accanto all'altra, condividendo narrazioni e opere buffe. Da questa prospettiva il conte di Almaviva e don Bartolo sono speculari agli intrighi i Figaro che, nel suo travolgente vitalismo, assume su di sé «una significativa incarnazione dell'affarismo dell'uomo nuovo nell'Italia uscita dagli sconvolgimenti napoleonici12». Non c'è un'analisi storica nel Barbiere, semplicemente perché la storia si vede riflessa nei personaggi che Rossini ha messo in scena, come una lucida rappresentazione, uno scatto nitido di fotografia. 9 P. Citati, Le lettere di Mozart in La civiltà letteraria europea, Mondadori, Milano 2005, p. 671. 10 Si consideri che nonostante la distruzione della Bastiglia (4 luglio 1789) e la devastazione di Versailles del 6 ottobre successivo, Robespierre continuò a votare per una monarchia costituzionale, anziché per una repubblica, fino alla fuga del re a Varennes nel 1791. Fu solo nel settembre dell'anno successivo che la monarchia fu dichiarata decaduta e il re decapitato il 21 gennaio del 1793. 11 M. Baroni, E. Fubini, P. Petazzi, P. Santi, G. Vinay, Storia della musica, Einaudi, Torino 1988, pp. 308 - 309. 12 Ibidem, p. 309. Per comprendere questa tensione vitalistica che si affaccia senza mai esplodere, che compie infinite acrobazie pur rimanendo sempre nello stesso posto, è opportuno indagare e approfondire lo spirito della seconda metà del Settecento, la cui sensibilità può essere bene riassunta nel libro Il bello nell'arte di Johann J. Winckelmann13, pubblicato a Dresda nel 1755. Se consideriamo che, quando Mozart scrisse al padre per spiegare la sua poetica, il compositore austriaco affermò che «le passioni non devono mai essere espresse in modo tale da suscitare disgusto e la musica anche nelle situazioni più terribili non deve mai offendere l'orecchio, non deve mai cessare di essere musica»; dunque affermava di avere come ideale estetico quello di una sorta di olimpico equilibrio espressivo 14», allora potremo affermare che quel desiderio di “non offendere l'orecchio”, di non “suscitare disgusto” e di tendere verso un “olimpico equilibrio espressivo” nascondeva, in realtà, i tumulti e le sedizioni che di lì a poco esploderanno con tutta la forza e la violenza durante la rivoluzione francese del 1789. Non a caso il saggio di Winckelmann è stato pubblicato un anno prima della nascita di Mozart, libro coevo in cui possiamo leggere che: «la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell'espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l'espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un'anima grande e posata. Quest'anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso, né ad altre parti, quasi crediamo di sentire noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell'atteggiamento. Il Laocoonte non grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso (…). Laocoonte soffre; ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest'uomo sublime lo sopporta15». Winckelmann descrive la bellezza dell'arte greca, ponendo nel contempo il significato profondo dei suoi tempi, ovvero un'età nella quale l'arte è «un valore che sta fuori della storia, e supera la storia 16». Per questo l'arte neoclassica si rivolge ad un'ideale di bellezza che mira all'unione di forma e idea; «per gli artisti neoclassici l'imitazione dell'antico non era un fine in sé, ma un mezzo per creare opere ideali di valore universale ed eterno. Volendo riuscire ineguagliabili come gli antichi, essi si consideravano non come semplici imitatori delle opere greche o romane, ma come i restauratori del vero stile. Per mettere a nudo la verità ce si trova al di sotto della superficie della natura, essi si concentrano, come i precedenti idealisti, sulla forma più che sul modo di trattare la superficie della materia, sulla linea più che sul colore. Il loro accostarsi all'Ideale era cerebrale, senza nessuno di quegli accenti mistici che erano stati propri dei neoplatonici rinascimentali, e derivava dalla convinzione che l'arte dovesse rivolgersi all'intelletto come alle percezioni dei sensi e che i problemi artistici potessero risolversi 13 14 15 16 J. J. Winckelmann, Il bello nell'arte. La natura, gli antichi, la modernità, Einaudi, Torino 2008. M. Baroni, E. Fubini, P. Petazzi, P. Santi, G. Vinay, Storia della musica, Einaudi, Torino 1988, p. 237. J. J. Winckelmann, Op. Cit., p. 23. C. Franzoni, Il cielo e il marmo, in Op. Cit., p. XIII. attraverso un processo razionale17». In questa misura illuminismo e neoclassicismo sono perfettamente sovrapponibili, come tensioni gemelle che aspirano ad un ideale che l'intelletto percepisce e rielabora in perfezione formale, energia che si risolve in un equilibrio armonico, fluido. L'arte e le sculture di Canova sono le immagini che meglio sintetizzano questa sorte di movimento immobile, questa compresenza degli opposti che si scioglie “al silenzioso punto in cui il mondo sembra girare”. E forse è per questa ragione che il neoclassicismo ha tessuto un rapporto privilegiato con la morte 18, ovvero con quell'algida visione di perfezione e di tempo assoluto che ogni decesso comporta e che sembra, in definitiva, essere l'ultima sintesi del movimento infinito di eros/thanatos, proprio perché «l'evocazione classica nella sua immobilità, è tragica19». Là dove più forte è l'affermazione vitale dell'esistenza, più facilmente è possibile intravedere e riconoscere la serena impassibilità della morte 20. In questa prospettiva va collocata la tesi di Alessandro Baricco sull'opera buffa intesa come intermezzo, come altro rispetto all'opera seria, ovvero come una sospensione temporale che diventa vera e propria epoché. Se è vero che con l'opera buffa di Mozart «la materia comica, per quanto sempre ai limiti della stereotipia e della caricatura investe una nuova dimensione della realtà, non rifugge da una lettura innovativa dei ruoli sociali 21», in Rossini troviamo il superamento e il dissolvimento del concetto stesso di soggetto, messo a punto dal Settecento come idolo, totem indiscutibile del secolo dei Lumi. Infatti il progetto illuminista si basava principalmente sulla costruzione e definizione del soggetto, declinato nei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza, mentre la ragione e il codice della natura venivano ad essere le coordinate per l'interpretazione e la decodificazione del mondo. Il meccanicismo illuminista non considerò affatto che il conseguente «ipertrofico sviluppo di un'individualità genera la sua disgregazione». Scrive Baricco che «nel linguaggio musicale di Rossini è leggibile un'abbondanza di colorature che ha pochi precedenti nella tradizione dell'opera buffa settecentesca. Ad un simile eccesso si accompagna, non casualmente, una contrazione solo apparentemente marginale della prassi compositiva: Rossini scrive per esteso, minuziosamente, tutte le colorature. (…) Più si arricchisce il complesso delle colorature, più si stenta a riconoscere una vera e propria struttura melodica, ben delineata e autonoma. Nella misura in cui si concede all'eccesso, l'ornamento consuma le strutture portanti su cui si appoggia. Al calibrato eloquio in cui Rousseau aveva potuto riconoscere gli echi di un'ipotetica lingua naturale si sostituisce un nervoso e artificiale susseguirsi di figure acrobatiche sospese sul nulla. L'accessorio prende il posto del necessario, al significante si sostituisce 17 H. Honour, Neoclassicismo, Einaudi, Torino 1980, p. 79. 18 In questa prospettiva possiamo valutare il forte impatto che ebbero i Canti di Ossian, scritti da James Macpherson nel 1760, sull'arte e la letteratura di fine Settecento. Infatti i Canti di Macpherson erano poesie che indulgevano in descrizioni intense di una natura selvaggia e tempestosa, raffigurata prevalentemente in ambienti notturni che finivano con lo stemperarsi in atmosfere malinconiche, lugubri e spettrali. La letteratura ossianica, spesso accreditata come prefigurazione preromantica, troverebbe la sua ratio proprio nella liberazione della tensione neoclassica. 19 G. C. Argan, L'arte moderna 1770/1970, Sansoni, Milano 1970, p. 6. 20 Scrive Mozart, cogliendo la compresenza di vita e morte, che: «poiché la morte (a ben guardare) è l'ultimo, vero fine della nostra vita da un paio d'anni sono entrato in tanta familiarità con quest'amica sincera e carissima dell'uomo, che la sua immagine non solo ha per me nulla di terrificante, ma ha addirittura molto di tranquillizzante e di consolante» 21 V. Coletti, Da Monteverdi a Puccini, Einaudi, Torino 2003, p. 120. l'insignificante. Ciò che viene messo in opera, qui, è un radicale sfondamento del sistema linguistico-espressivo messo a punto dall'opera buffa settecentesca. Quello che poteva sembrare un irrilevante vezzo stilistico, si rivela un gesto capace di smantellare, dalle basi, un edificio linguistico apparentemente inattaccabile 22». Sotto questo sguardo l'opera buffa si pone non tanto come un momento dialettico nei confronti dell'opera seria, quanto piuttosto come la sua nemesi, o meglio come la sua accelerata fuga in avanti verso un oltre dove ogni cosa viene spazzata via: «in scena restano servette, padroni gottosi, denaro, matrimoni, desideri. Non è che la vita, quale risulta dall'essenzializzazione prodotta da un'epoché magari un po' rozza, consumata d'altronde in un teatro non in una torre d'avorio, e comunque efficace. Nell'opera buffa non s'incontrano che i personaggi dell'opera seria, derubati però del mito e del destino: corrosi, essenzializzati. Figaro, i mille Figaro dell'opera buffa, sono ottenibili, per sottrazione spregiudicata e asettica, dagli eroi del mito 23». Quando Stendhal volle descrivere il fenomeno dell'innamoramento ne parlò come di una «cristallizzazione», ovvero di un processo di gemmazione che coinvolge interamente e completamente la persona amata 24 e la rende ferma nel ricordo e nel sentimento di quel primo innamoramento. In Rossini la cristallizzazione sta invece «nel tempo e nello spazio, di un commiato, di una perdita, di una lacerazione: non ha affatto bisogno di un qualche senso ulteriore. (…) Il suo cammino va “come va un'incrinatura lungo un vaso”: e dove incontra le traiettorie della Storia, è per una fugace coincidenza, tutt'al più per uno scrupolo passeggero. L'Idea rossiniana è sostanzialmente il prodotto di un'immaginazione astorica25». A questo punto è possibile dare risposta alla domanda di Zizek allorquando, a proposito del Barbiere, si chiede che cosa accade nel momento in cui si nega la realtà, componendo e creando opere d'arte come se tutt'intorno non fosse accaduto niente. La risposta sta proprio nella consapevolezza di esser-fuori dal destino, nel sentirsi fuori dallo scorrere del tempo, non volendo riconoscere, più che non riconoscendo, che stare sull'incrinatura del vaso impedisce di riconoscere e di capire che il vaso si sta per rompere definitivamente. Sarà a questo punto più chiaro comprendere i motivi della grande rinuncia di Rossini di ritirarsi dalla vita musicale attiva a soli trentasei anni (quando scrisse il Guglielmo Tell), mentre ne aveva solo quarantaquattro quando si stabilì a Bologna. Ai molti che ne chiesero ragione e spiegazioni, Rossini rispose sempre in modo vago, a volte ironico, mentre delle numerose teorie che si sono sollevate e succedute, forse la più plausibile la fornì lo stesso Rossini in una lettera a Pacini del 1866, quando scrisse: «Quest'arte (la musica) che solo ha per base l'Ideale e il Sentimento, non può sottrarsi all'influenza del tempo in cui viviamo. L'Ideale e il Sentimento odierni sono esclusivamente rivolti al vapore, alla rapina e alle barricate... Ti sia presente la mia filosofica determinazione di abbandonare la mia carriera italiana nel 1822, francese nel 22 A. Baricco, Il genio in fuga. Due saggi sul teatro musicale di Giochino Rossini, Einaudi, Torino 1997, pp. 30-32. 23 Ibidem, p. 10. 24 Scrive Stendhal: «Nelle miniere di sale di Salisburgo si usa gettare nelle profondità abbandonate della miniera un ramo sfogliato dal gelo; due o tre mesi dopo lo si ritrova coperto di fulgide cristallizzazioni: i più minuti ramoscelli, quelli che non sono più grossi dello zampino d'una cincia, sono fioriti d'una infinità di diamanti mobili e scintillanti; è impossibile riconoscere il ramo primitivo» (Stendhal, Dell'amore, Einaudi, Torino 197, p. 9. 25 A. Baricco, Op. Cit., pp. 143-144. 1829; questo presentire non è dato a tutti; Dio me l'accordò e il benedico ognora 26». Il rifiuto dello psicologismo, la condanna dei personaggi a un'inquietudine febbrile, l'astuta dolcezza delle fiabe, il desiderio spasmodico di felicità sono tutti contenuti della poetica rossiniana che non possono più trovare domicilio già a partire dalla prima metà del XIX secolo. Rossini rifiuta consapevolmente la “scappatoia della riduzione borghese” nelle declinazioni romantiche di realismo e immaginazione, poiché il linguaggio musicale rossiniano custodisce «il senso, il ricordo, l'emozione della felicità: (…) nel preciso momento in cui il Pensiero scopriva la lusinga della Totalità, e si avviava a bruciare la multiformità del mondo nell'elevazione ad assoluto dell'Identico – lui inseguiva l'ipotesi di un mondo fondato sulla differenza, e in essa salvato 27». Un'evidente ulteriore prova dell'impossibilità di sintesi, negata principalmente da un pensiero che è ancora profondamente meccanicista e illuminista. Si tratta della stessa tensione imprigionata, come nelle statue di Canova, e che trasforma quell'energia sottesa in una compresenza di movimento e quiete, terra e cielo, determinato e infinito, “questo e quello”. In quegli stessi anni il ventenne Giacomo Leopardi scrive a Recanati l'infinito (1818-1819) e in quindici versi ripete sei volte l'articolo determinativo questo e due volte il corrispettivo quello, quasi a indicare che possiamo comprendere l'infinito solo quando abbiamo fatto veramente esperienza del questo. «Dal questo colle, - scrive Giorgio Agamben – su cui l'idillio si apre, a “queste piante” e “questa voce”, che imprimono una nuova svolta al discorso, fino a “questa immensità” e “questo mare”, in cui esso si conclude. E sempre dall'esperienza del questo scaturisce il senso sgomento dell'interminato, dell'infinito, come se il gesto di indicare, di dir “questo”, facesse affiorare nell'idillio l'incommensurabile, il silenzio, il pauroso; e, alla fine, è ancora “questo” che il pensiero si placa e fa naufragio 28». Due piani distinti che si oppongono e non trovano una sintesi tra l'indeterminatezza di quel “suon di lei”, o dei “sovrumani silenzi, e profondissima quiete” e dall'altra parte con la presenza di “quest'ermo colle” e “questa siepe”. Cielo e terra s'incontrano solo nella linea dell'orizzonte che è solo pensata e immaginata, poiché la vista è negata al poeta, come è negata la stessa possibilità ci conciliare questa materia con quello infinito silenzio. Una sintesi che avrà luogo solo più avanti, in pieno romanticismo, nell'unico posto che è presente proprio perché non appartiene a nessun luogo: il sogno29. «Viviamo e sentiamo tanto nel sogno quanto nella veglia e siamo l'uno come l'altro. Sognare e saperlo, è uno dei tanti privilegi dell'uomo. Fino ad ora però, non se n'è tratto tutto il possibile vantaggio. Il sogno è una vita che aggiunta al resto della nostra esistenza diventa ciò che noi chiamiamo vita umana. I sogni si perdono poco a poco nel nostro stato di veglia; non si può 26 27 28 29 F. Toye, Rossini, Edizioni Accademia, Milano 1976, p. 164. A. Baricco, Op. cit., p. 154. G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982, p. 94. Il sogno, nella tradizione della cultura occidentale, è stato spesso inteso come un luogo che esisteva al di fuori del soggetto che lo sognava. Uno spazio in cui un soggetto, ma anche un'intera comunità rielaborava e comunicava. Se pensiamo a Giacobbe o Giuseppe che, nella Bibbia, sognano gli angeli portatori di verità oppure alla tradizione letteraria (Lisabetta che sogna l'amato Lorenzo nella novella del Decameron), allora capiremo che è solo con L'interpretazione dei sogni di Sigmund Freud del 1899 che il sogno diventerà la “via regia” per entrare nella vita inconscia dell'anima, ovvero “l'appagamento di un desiderio rimosso”, trasformandosi da luogo altro a spazio interiore. dire dove nasca la veglia dell'uomo30» (Georg Christoph Lichtenberg, Aphorismen, 1777) 30 G. Briganti, I pittori dell'immaginario, Electa, Milano 1977, p. 42.