Anteprima Estratta dall' Appunto di
Criminolgia
Università : Università degli studi di Salerno
Facoltà : Giurisprudenza
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RIASSUNTI CRIMINOLOGIA: COMPENDIO DI CRIMINOLOGIA G. PONTI
CAPITOLO 2: LO SVILUPPO STORICO DEL PENSIERO CRIMINOLOGICO
19. Ideologie e criminologia
20. L’Illuminismo e l’ideologia penale liberale
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Il nostro interesse sarà volto a ripercorrere i modi di percepire, nel tempo, i delitti e i loro autori, e secondo quali
intenti si è mirato a combattere, prevenire e punire la criminalità. Questo approccio storico verrà pertanto
secondo una triplice prospettiva: Esplicativa (perché si delinque?) operativa (come punire?) Finalistica (a quale
fine punire?). secondo l’approccio esplicativo, la risposta fu per secoli quella che veniva fornita all’interrogativo
perché si pecca?, e i motivi addotti quindi potevano essere: per ribellione al comandamento divino, per orgoglio,
per lussuria, per odio, ecc. Se affrontiamo il nostro tema nella prospettiva operativa vediamo che in passato era
frequente il ricorso alla pena di morte anche per infrazioni di modesta entità o per comportamenti che violano
imperativi morali o religiosi. Così non solo il supplizio capitale era applicato per la maggior parte dei delitti, ma
ancora nel 700 in Inghilterra il ladro era punito con la forca, e in molti altri paesi europei erano condannati alla
pena di morta i “rei” di sodomia. Oltre alle punizioni corporali e ai tormenti, erano anche conosciute pene diverse
quali i lavori forzati, le condanne al remo nelle galere, la gogna, la berlina, l’esilio, la confisca dei beni. Riguardo
alla prospettiva finalistica, in passato la risposta al crimine era o arbitraria, o più tardi, commisurata, seconda la
legge del taglione, consistente nella possibilità, riconosciuta a una persona che avesse ricevuto un’offesa di
infliggere a che l’aveva procurata una pena uguale all’offesa ricevuta.
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Il pensiero penalistico moderno nasce con l’illuminismo; in precedenza il diritto, la procedura e l’esecuzione
penale erano coerenti con la struttura politica e sociale dell’Ancien Régime, incentrata sull’autoritarismo
dispotico della monarchia assoluta e sui privilegi dell’aristocrazia nobiliare ed ecclesiastica in una stratificazione
sociale rigida. Il diritto penale si estendeva ad aree che oggi consideriamo di competenza della morale, e ai
giudici era conferita un’amplissima discrezione, fino all’arbitrio, nella qualificazione di un fatto come delitto o
nella qualità ed entità della pena da infliggere. Lo strumento fondamentale di punizione era il pubblico supplizio,
perché ciascuno potesse direttamente constatare cosa comportava cosa comportava l’aver sfidato l’autorità. Poco
era utilizzata la pena di reclusione nel senso che intendiamo oggi anche perché la privazione della libertà non
avrebbe avuto molto senso in tempi, come quelli più antichi, in cui il sistema sociale era basato sulla schiavitù o
sul lavoro servile. La necessità di una nuova struttura giuridico-normativa che desse corpo ai principi
illuministici e che ponesse le basi di un diritto in armonia con i profondi rivolgimenti culturali e politici di quel
periodo trovò in Cesare Beccaria il suo più profondo e più impostante sostenitore. Il suo Dei delitti e delle pene,
pubblicato anonimo nel 1764 rappresenta la più lucida e puntuale esposizione della concezione liberale del diritto
penale, che segna l’inizio di una nuova filosofia della pena. Gli aspetti fondamentali della concezione liberale
sono: la funzione della pena è quella di rispondere alle esigenze del vivere sociale anziché a principi morali,
realizzando così la separazione fra morale religiosa ed etica pubblica; il diritto garantisce la difesa dell’imputato
contro gli arbitri dell’autorità, partendo dal principio della presunzione di innocenza; la pena deve avere un
significato retributivo, anziché unicamente intimidatorio e vendicativo, il che significa, con le parole del
Beccaria, che “ciascuno deve subire una pena che colpisca i suoi propri diritti tanto quanto il delitto da lui
commesso ha colpito i diritti altrui; la pena deve colpire il delinquente unicamente per quanto di illecito ha
commesso, e non in funzione di ciò che egli è o può diventare. Altro importante esponente del pensiero giuridico
dell’epoca fu Jeremy Bentham; egli riteneva che il valore di un’azione fosse oggettivamente definibile come
somma algebrica dei piaceri e dei dolori prodotti in tutti gli individui coinvolti; così il delitto non va considerato
solo secondo l’utile o la sofferenza che reca a chi lo compie o a chi lo subisce, ma secondo tutte le ripercussioni
in termine di danno, incertezza, paura che determina la società. L’Utilitarismo benthamiano può considerarsi il
progenitore di quelle teorie basate sul calcolo “costi-benefici” che si svilupperanno in criminologia quasi due
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secoli dopo, ma come autore è importante in quanto elaborò un progetto di carcere modello, da lui chiamato
Panopticon perché immaginato come un edificio semicircolare, al cui centro era collocata la sede dei sorveglianti,
mentre nelle celle si trovano lungo la circonferenza ed erano interamente esposte allo sguardo delle guardie.
21. La scuola classica
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La scuola classica muovendo dal postulato del libero arbitrio, cioè dell’uomo assolutamente libero nella scelta
delle proprie azioni, poneva a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto quale
rimproverabilità per il male commesso e, conseguentemente, la concezione etico retribuita della pena. Si
incentrava su tre fondamentali principi: la volontà colpevole del delinquente, talché egli era percepito come
persona affatto libera, nella cui cri monogenesi non si teneva conto dei condizionamenti ambientali e sociali;
l’imputabilità, nel senso che per aversi volontà colpevole occorre che il reo sia capace di comprendere il
disvalore etico e sociale delle proprie azioni, e di determinarsi liberamente alle medesime: da qui deriva il
concetto della capacità di intendere e di volere quale requisito per essere sottoposto al giudizio e alla pena, e
l’idea, coerente con le concezioni psichiatriche dell’epoca, che il malato di mente fosse sempre privo di questa
capacità; la pena come retribuzione per il male compiuto, una pena che doveva essere afflittiva, proporzionata,
determinata e inderogabile. Essa era priva di finalità risocializzative nel senso moderno del termine, e piuttosto
doveva essere intesa come emenda, cioè correzione morale quale conseguenza pedagogica della sofferenza della
punizione, che dunque doveva derivare dalla durezza del trattamento e delle condizioni di vita. Alla scuola
classica va il merito di aver posto le basi di un sistema normativo che ancora oggi conserva validità relativamente
ad alcuni principi giuridici fondamentali: il principio di legalità, secondo il quale nessuna azione può essere
punita se non esplicitamente prevista dalla legge come reato; il principio della non punibilità per analogia,
secondo il quale non si può punire un comportamento non espressamente previsto come fatto illecito solo perché
assimilato a reati, o perché potenzialmente foriero di futuri delitti; il principio garantistico con le norme a
salvaguardia del diritto di difesa e della presunzione di innocenza; e infine il principio di certezza del diritto, che
mette al bando ogni discrezionalità nell’irrogazione delle pene e che comporta la loro eguaglianza per tutti coloro
che hanno commesso il medesimo delitto, cosicché il reo possa sapere per certo quali conseguenze comporterà la
sua condotta illecita.
22. Le classi pericolose e il filantropismo
Nel XIX sec si pensava che la delinquenza fosse pressoché prerogativa della classi più povere. Si era nell’epoca
della crescita e del consolidamento del capitalismo industriale più selvaggio non vi erano ancora state le più
elementari garanzie per i lavoratori, i sindacati erano fuori legge, i salari erano da fame. È in questo momento che
va prendendo piede l’idea che i fenomeni criminosi fossero direttamente causati dalla povertà; in effetti le
statistiche della criminalità, che proprio allora si iniziavano ad elaborare, indicavano che la maggior parte dei
delinquenti proveniva proprio dalle fasce più sfavorite della popolazione che poi, con un certo difetto di logica,
venivano considerate “per natura” inclini ai comportamenti maggiormente riprovevoli. Questa concezione si
ricollegava anche all’ideologia borghese dell’attivismo e della volontà di successo dei singoli, che era congeniale
a un’economia fondata su un liberismo senza freni e sull’esaltazione dell’iniziativa imprenditoriale del “capitano
d’industria”. Queste idee furono poi supportate dal “darwinismo sociale”, la dottrina che operava una lettura delle
teorie di Darwin dell’evoluzione delle specie e della selezione naturale secondo cui esse andavano applicate
anche in campo sociale. Era ritenuto funzionale all’evoluzione della società che gli inetti e i perdenti dovessero
soccombere nella lotta per la vita, e che andassero a occupare gli strati più squalificati della società, quelli
appunto delle classi pericolose. In ogni caso doveva trascorrere quasi un secolo prima che gli studiosi del crimine
acquisissero coscienza del fatto che la concentrazione statistica di delinquenti nelle fasce sociali più povere era sì
la conseguenza della precarie condizioni ma anche della diversa “reazione sociale”, nel senso che i codici erano
espressione degli interessi delle classi favorite e dunque punivano i delitti commessi contro i propri esponenti ma
non da costoro, e nel senso che i reati propri delle classi abbienti ancorché previsti dalle leggi, godevano di fatto
di una quasi totale immunità. Sorsero i primi laboratori privati a finalità risocializzativa e assistenziale, i primi
esperimenti di trattamento differenziale per i delinquenti più giovani e anche i primi, timidi, tentativi di
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