Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo
ATTI DEL SEMINARIO NAZIONALE
Detenuti in attesa di giudizio. Carcerazione preventiva e società
Collana «Studi e Ricerche» diretta da Ferdinando Siringo
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Pubblicazione realizzata con il contributo
del Comitato di Gestione del Fondo Speciale
per il Volontariato della Regione Siciliana
finanziato dalle Fondazioni:
– Monte dei Paschi di Siena
– Cariplo
– Compagnia di S. Paolo
– Banco di Sicilia
Printed in Italy
© 2009
Centro di Servizi per il Volontariato
di Palermo
ISBN 978-88-6352-025-5
ATTI DEL SEMINARIO NAZIONALE
Detenuti in attesa di giudizio
Carcerazione preventiva e società
6 novembre 2008 – Palermo
Centro Culturale Biotos – Via XII Gennaio, 2
a cura di
SEAC Sicilia e CeSVoP
Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo
Indice
Presentazione.
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Saluti e interventi introduttivi di B. Di Stefano e F. Siringo .
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pag. 7
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»
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Relazioni – I Parte
Presentazione dei lavori di R. Cascio . .
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. » 17
La situazione carceraria in Sicilia di O. Faramo . .
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» 21
Vantaggi, svantaggi e discrezionalità
nella carcerazione preventiva di I. De Francisci . .
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. » 27
Carcere preventivo e azione penale,
punto di vista e responsabilità del GIP di M. Conte . . . . » 33
Relazioni – II Parte
Disagio psicologico nella carcerazione.
Il ruolo del volontariato di E. Laganà. .
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. » 41
Carcerazione preventiva. Parola alla difesa di S. Monaco . .
» 51
Carcerazione preventiva e misure alternative di N. Mazzamuto . » 55
Interventi di G. Gioia, F. Frisella Vella, B. Di Stefano . Repliche.
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Conclusioni di R. Cascio .
Relatori. . . .
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. . . . . » 67
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. » 73
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. . » 77
. . » 83
SEAC – Coord. Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario. » 87
Il CeSVoP – Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo .
» 89
La Collana.
» 91
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Presentazione
Siamo grati a quanti hanno dato il loro contributo di idee ai lavori
del Seminario nazionale «Detenuti in attesa di giudizio. Carcerazione
preventiva e società» che si è svolto a Palermo il 6 novembre 2008 e di
cui adesso pubblichiamo gli Atti. Chi ha partecipato all’incontro organizzato dal SEAC (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato
penitenziario) e dal CeSVoP, ha assistito ad un interessante confronto di
opinioni, strategie e punti di vista diversi da parte di chi in ambito penale organizza, gestisce, amministra e giudica. Per noi volontari, quanto
è raccolto in questo volume è un patrimonio importante per il percorso
che vorremmo tracciare. Tuttavia, al Seminario è mancato un «pezzo»,
cioè il livello politico. Abbiamo fino all’ultimo sperato di avere con noi
il Ministro della Giustizia, ma alla fine non ci siamo riusciti. Ed è proprio questo il punto delicato: noi volontari da un po’ di tempo ci stiamo
interrogando – nell’ambito penitenziario come in altri settori – su dove
siano ormai i luoghi della progettualità della politica. Assunto che nei
partiti non si fa più, lo si fa nei salotti televisivi? Non ci sembra la sede
più idonea. Allora, dove?
Insomma, il nodo che come volontari vogliamo sciogliere in maniera
chiara e netta, non solo a Palermo e in Sicilia ma pure nel resto d’Italia,
è cominciare per la parte nostra a costruire luoghi sempre più avanzati
sul piano del coinvolgimento della cittadinanza e della provocazione in
senso positivo verso chi governa, chi amministra, perché accetti il confronto sulle questioni reali con chi le vive quotidianamente.
Credo che per il volontariato questa sia una funzione essenziale che
si deve continuare a svolgere sia nel settore della giustizia carceraria
che negli altri ambiti sociali dei diritti, della tutela dei deboli, dello stato
sociale. In ciò, il volontariato ha consapevolezza del proprio compito e
dei propri limiti, senza per questo rinunciare a portare sino in fondo un
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Presentazione
impegno di critica, stimolo, interazione e collaborazione nei riguardi
degli amministratori e delle realtà politico-istituzionali.
In conclusione, va rivolto un ringraziamento particolare alla Presidente nazionale del SEAC che è il coordinamento più competente in ambito carcerario. Proprio dal SEAC proviene un notevole contributo nell’ampliare il confronto sulle politiche sociali in Italia. Ed è importante, per noi,
aver cominciato a costruire qualcosa a partire da qui, da Palermo.
Ferdinando Siringo
Presidente del CeSVoP
Saluti
e interventi introduttivi
Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato.
Accogliendo la richiesta formalmente avanzata dal Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti a proposito di quanto affermato
dal dr. Bruno Di Stefano nella presentazione del Seminario «I detenuti
in attesa di giudizio. Carcerazione preventiva e società», si precisa che
nel volumetto “L’ora d’aria” il ruolo del volontariato viene descritto come
segue.
A pg. 30 si legge:
«h) gli assistenti volontari. Sono addetti che operano con il coordinamento della direzione dell’istituto, fornendo sostegno morale ai detenuti
e collaborando nell’ambito delle attività trattamentali.
Si occupano, inoltre, di problematiche quali: il vestiario, le pratiche
matrimoniali, l’incasso di assegni, le pratiche pensionistiche, ecc.
Gli assistenti volontari tengono regolari contatti con le altre figure
professionali, in particolare con gli educatori.
Gli assistenti volontari penitenziari possono essere contattati attraverso apposita domanda».
A pg. 55:
«f) l’associazionismo e le cooperative sociali. Diverse associazioni
e cooperative sociali, in collaborazione con le carceri, operano sia all’interno, tramite la predisposizione di progetti e di laboratori, sia all’esterno,
attraverso l’accoglienza e l’utilizzazione di soggetti detenuti in condizioni
di libertà limitate.
Queste organizzazioni sono contattabili tramite richiesta scritta volta
ad ottenere un colloquio con un volontario o un socio della cooperativa
sociale».
Saluti
Bruno Di Stefano – Coordinatore regionale SEAC
Sono Bruno Di Stefano, coordinatore regionale
del SEAC. Abbiamo organizzato questo seminario
in collaborazione e con il generoso contributo del
Centro Servizi del Volontariato di Palermo, al quale va il mio sentito ringraziamento.
Indirizzo il mio saluto al Presidente del Tribunale
di sorveglianza, dottor Bellet, al professore Mario
Giacomarra, delegato dal rettore dell’Università,
e alle altre autorità invitate che non hanno potuto
partecipare. Sono presenti educatori e assistenti sociali delle case di pena
e dell’Ufficio esecuzione penale esterna. Sono presenti anche volontari
di Messina, Catania, Agrigento e Palermo e delle associazioni iscritte al
SEAC. A tutti il mio affettuoso saluto.
Io ringrazio per aver accettato l’invito gli amici, i simpatizzanti e i
relatori che sono: il dottore Faramo, provveditore regionale per l’Amministrazione penitenziaria; il dottore De Francisci, procuratore della Repubblica; il dottore Conte, GIP presso il Tribunale di Palermo; la dott.ssa Laganà, presidente nazionale del SEAC; l’avv. Sergio Monaco, penalista del
foro di Palermo; il dottore Mazzamuto, magistrato di sorveglianza presso
il Tribunale di Palermo. Moderatore sarà il dottore Rino Cascio, redattore
di RAI Sicilia.
La presenza di tali autorità e dei relatori che ovviamente rappresentano le istituzioni, mi induce a considerare che questa è una testimonianza di
stima verso il volontariato penitenziario.
Il nostro è un volontariato molto umile, molto silenzioso, anzi mi è
stato rimproverato da qualcuno che è fin troppo silenzioso. Se vogliamo
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Saluti e interventi introduttivi
una prova è in quel libretto distribuito in sala e intitolato «L’ora d’aria»:
è stato creato dalla Regione, cioè dal Garante regionale per i diritti fondamentali dei detenuti e se cercate bene la parola «volontario» non esiste,
cioè il volontariato in questo libretto è sconosciuto. Questo a dimostrazione del fatto che il nostro è un volontariato molto dignitoso, però ahimé
spesso ignorato.
Noi abbiamo deciso di rompere questo isolamento, questo silenzio,
e di cominciare a prendere delle iniziative per richiamare l’attenzione sui
vari problemi della giustizia. Non perché noi volontari abbiamo la presunzione di indicare ricette, assolutamente no, ci sono tante persone che danno
ricette in questo momento… Noi ci sottraiamo a quest’onere…
No, noialtri vogliamo soltanto richiamare l’attenzione della città di
Palermo sul fatto che c’è un’altra città, che è il carcere e sul fatto che questo carcere ha mille problematiche e noi volontari avremmo bisogno anche
di un aiuto della società più fattivo. Avremmo bisogno di nuovi volontari,
avremmo bisogno di aiuti economici. La presenza dei relatori già dimostra
la stima delle istituzioni, però questo non è sufficiente. Faccio soltanto
l’esempio della città di Alghero con una casa di reclusione che conta 145
detenuti e 12 volontari. Palermo, con due case circondariali che contano
1.600 detenuti complessivamente, ha appena una ventina di volontari addetti esclusivamente ai colloqui. Non c’è proporzione.
Per questi motivi prenderemo tutta una serie di iniziative per cercare
di rompere questo silenzio, per rimuovere la cappa che grava sulla «seconda città», in modo da richiamare l’attenzione sulle sue peculiari problematiche.
Grazie a tutti di essere qui.
Ferdinando Siringo – Presidente del CeSVoP
Soltanto pochi minuti per associarmi al ringraziamento di Bruno per
gli illustri relatori e per la presenza di tanti volontari e operatori. Ed inoltre
per evidenziare il senso del sostegno del Centro di Servizi per il Volontariato a iniziative di questo genere. Voi sapete che il Centro di Servizi per il
Volontariato è una struttura – ne esistono settantasette in Italia – concepita
dal legislatore per sostenere le organizzazioni di volontariato con servizi
Ferdinando Siringo – Presidente del CeSVoP
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gratuiti e non con finanziamenti. Si tratta di servizi d’ogni genere: consulenziali, formativi, organizzativi… I nostri Centri di Servizio sono governati dai volontari. Ad esempio, io sono un volontario. Sono un insegnante
e dirigo il Centro di Palermo dal punto di vista «politico». Con altri volontari diamo le indicazioni ad uno staff di operatori che lavorano per noi.
Terzo aspetto da non trascurare, per legge i Centri di Servizio non hanno
relazioni patrimoniali con le pubbliche amministrazioni, ma godono dei finanziamenti – con relativi controlli e verifiche – da parte delle Fondazioni
di origine bancaria, in base a un sistema nazionale regolato appunto dalla
legge quadro del nostro settore. Ciò garantisce
autonomia e libertà ai volontari nel gestire le
risorse destinate alla loro azione. E permette di
non subire condizionamenti quando è necessario assumere posizioni critiche ed entrare nel
merito delle politiche socio-territoriali. Infatti,
il volontariato nella nostra società sovente deve
assumere un ruolo di advocacy, cioè di difesa
dei diritti. Non solo, ma pure di proposta politica in un’ottica di sussidiarietà e collaborazione
con le istituzioni conservando una propria autonomia progettuale e di azione.
Tutti sappiamo che il volontariato, quello
più autentico e diffuso, lavora sulla gratuità,
sulla solidarietà, sul protagonismo civile, sulla
vicinanza ai deboli, sulla relazione di aiuto e la
tutela dell’ambiente socio-culturale e naturale. Il centouno per cento della
sua attività e fatica richiama una dimensione fondamentale: il ruolo politico della cittadinanza. Soprattutto in questo tempo in cui la nostra società
ha difficoltà a trovare luoghi dove fare cultura, dove fare politica con la
«P» maiuscola, dove confrontarsi sulla costruzione della comunità. Il volontariato è uno dei pochi «luoghi» rimasti in cui ciò si può fare. E dove
lo si fa insieme, in un’ottica partecipativa che coinvolge le associazioni, i
singoli volontari e i destinatari della loro azione.
Il settore carcerario è un ambito in cui, di fronte a problematiche estremamente tecniche, i volontari si adoperano per la tutela dei diritti e devono
prestare molta attenzione quando fanno proposte, devono avere competen-
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Saluti e interventi introduttivi
za, saper ascoltare. In altri settori del sociale i nostri volontari sono già più
abituati a fare interventi anche pesanti, anche pubblici di denuncia sulle
politiche sociali, sulla locazione delle risorse economiche, su quello che
fanno le pubbliche amministrazioni. Per questo ci fa estremamente piacere
che una sigla importantissima come il SEAC, anche in Sicilia, cominci a
esprimere la cultura che ha in merito al sistema carcerario, ai diritti dei detenuti. Il CeSVoP, nella sua prospettiva istituzionale di sostenere la capacità politica, di proposta e di crescita culturale del volontariato, collabora e
continuerà a collaborare ad iniziative del genere con i supporti professionali che saranno necessari ai volontari per essere incisivi, anche in termini
operativi, all’interno delle strutture carcerarie.
Quindi, buon lavoro a tutti. I relatori sapranno aiutarci ad aprire un dibattito al nostro interno sui temi che sono oggetto del Seminario di oggi e
spero che – lo dico ai rappresentanti del SEAC – questa sia la prima di una
serie di seminari sul sistema carcerario. Un versante fondamentale pure
per chi, come me, opera da volontario nei quartieri dove, in determinati
territori purtroppo, tante famiglie hanno parenti detenuti e fitte relazioni
con il sistema carcerario. Grazie ancora e buon lavoro a tutti!
Relazioni – I Parte
Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato.
Presentazione dei lavori
Rino Cascio
Buonasera, sono Rino Cascio e spetta a me il compito questa sera di moderare il dibattito in una situazione come questa che, per chi fa il mio mestiere, è un po’ imbarazzante, normalmente infatti noi
giornalisti non ci troviamo quasi mai davanti a tanta
gente, casomai la immaginiamo dall’altra parte della
telecamera.
Siamo chiamati oggi a parlare di detenuti, e di una
particolare categoria di detenuti, quelli che attendono ancora un giudizio.
Per noi giornalisti questa è una categoria conosciuta solo teoricamente,
ma della quale non sempre ci occupiamo in maniera adeguata. Non sto a
spiegarvi cos’è la carcerazione preventiva, quando si applica, gli indizi di
colpevolezza, il pericolo di fuga, e altre cose di questo genere. Mi interessa
in questo momento affrontare la questione delle modalità con le quali ci
occupiamo, da giornalisti, di detenzione preventiva, della cosiddetta custodia cautelare. Riflettendoci un po’, ritengo che spesso abbiamo il vizio di
restare fuori, davanti alle porte del carcere. Siamo abituati a dare quotidianamente tonnellate di notizie su persone che vengono arrestate, e quando
queste persone entrano in carcere siamo presenti, quando invece escono
dal carcere, in alcuni casi con lo Stato che chiede scusa, non sempre ci
siamo. Quasi mai siamo inoltre dentro il carcere, quando queste persone,
colpevoli o innocenti che siano, trascorrono un periodo in cella in attesa.
È un limite della stampa, è un limite di una società abituata alla notizia
spettacolare e la stampa non fa che inseguire, con grave colpa, innanzitutto
quella. Non riesce a trasmettere un altro genere di notizia, non sa aprire
una finestra su un mondo, quello della detenzione, che rimane così sconosciuto. Se ne occupa casomai il cinema, più di chiunque altro. Rischiamo
in questo modo di trasformare l’arresto in una condanna, saltando comple-
20
Relazioni – I Parte
tamente il grado di permanenza in attesa di giudizio. Spessissimo facciamo
apparire innocente chi viene assolto per prescrizione del reato finendo per
trasmettere un altro falso. E il rischio è di far diventare verità soltanto quella certificata da un bollo giudiziario. Un altro limite della stampa, secondo
me, è che noi giornalisti parliamo di carcerazione preventiva innanzitutto
quando il carcerato in attesa di giudizio è il cosiddetto «colletto bianco»,
quando è il politico, quando è il professionista, quella categoria di persone
che nell’immaginario collettivo sono considerate più vicine, poi invece ce
ne dimentichiamo quando il detenuto è il Paolo Sposito generico, il personaggio che vive una sua carcerazione preventiva e non ha la possibilità di
avere un megafono, una cassa di risonanza. Quando sono stato chiamato
a questo convegno ho cercato innanzitutto io stesso di ricordare quando mi sono occupato, io che mi occupo di giudiziaria, di carcerazione
preventiva. E mi sono reso conto che quasi sempre i servizi realizzati
erano per politici, avvocati, medici, mai per fabbri, macellai o falegnami.
Dall’altra parte come giornalisti ci occupiamo di carcerazione preventiva
quando scoppia la polemica. Su entrambi i fronti: o perché la carcerazione preventiva viene considerata un’arma utilizzata per cercare di indurre
qualcuno a parlare, perché si è tenuto troppo abbottonato e/o non vuole
fare un nome, oppure quando la carcerazione preventiva si conclude perché questa persona sta collaborando. Per lui la porta del carcere spesso si
apre, per altri invece no.
Dovendo partecipare a questo nostro dibattito da moderatore, ho cercato nei giorni scorsi le ultime notizie sull’argomento e ho ascoltato in
internet l’intervento del ministro Alfano del 14 ottobre alla Commissione
Giustizia. Vi do velocemente gli ultimi dati, appresi dall’intervento del ministro, che risalgono al 14 agosto. Su una popolazione di 57.187 detenuti,
ometto da questo momento l’indicazione di unità e centinaia, circa 16.000
sono in attesa del primo grado, 9.700 dell’appello, 3.500 della Cassazione,
1.669 spiega il ministro appartengono al sistema misto. Sono 24.000 quelli che hanno sentenza definitiva, pari al 39%. Cioè il 60% delle persone
che sono in carcere, aspettano una sentenza definitiva. La cosa ancora più
assurda è che la gran parte di questi che attendono la pena sono individui
– il ministro ha fornito un dato, tredicimila – che attendono il processo per
direttissima, cioè stanno in cella dai dieci ai quindici giorni, alcune volte
anche meno. Insomma c’è un entra ed esci quotidiano dalle carceri che
Presentazione dei lavori
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non è calcolabile e che comunque, bene o male, rispetta queste percentuali.
Prima di dare la parola al provveditore Faramo, che capita a noi giornalisti
di contattare, insieme ad altri, per avere l’autorizzazione all’accesso alle
carceri, per tentare di apparire meno serioso vi leggo una frase di Totò, che
ho trovato in questi giorni durante le mie ricerche: «In carcere, con rispetto
parlando, stavo tra persone perbene».
Ora, dopo aver visto i dati nazionali, mi chiedo quante sono queste
persone per bene in Sicilia, e quante sono, tra queste, quelle che attendono
un grado di giudizio, e inoltre se è immaginabile una carcerazione differente per chi è in attesa di un grado di giudizio.
La situazione carceraria in Sicilia
Orazio Faramo
Preliminarmente intendo rivolgere il mio ringraziamento agli Organizzatori del convegno per avermi
voluto tra i relatori.
Queste occasioni sono particolarmente preziose per
noi operatori penitenziari per far conoscere la realtà
carceraria dal punto di vista certamente interessante
di chi vi opera all’interno.
Ciò consente di superare i molti luoghi comuni e i
preconcetti che da sempre circondano l’istituzione
penitenziaria sin dal nascere della prigione come viene intesa ancor oggi
ormai due secoli fa.
Ancora oggi il carcere è considerato dalla società come qualcosa di
estraneo ad essa e non come una parte di sé.
Un luogo da tenere alla larga ed i cui problemi non ci interessano.
Un luogo in cui scaricare i problemi sociali cui la comunità non ha
saputo dare risposta nella speranza illusoria che in carcere possano trovare
una soluzione.
Un luogo popolato da gente strana con regole proprie e diverse da
quelle del vivere civile.
Io stesso, non posso negare, avevo del carcere questa idea prima di
iniziare a lavorarvi influenzato, per altro, da una serie di film, come ad
esempio «Detenuto in attesa di giudizio» di Nanni Loi che negli anni sessanta e settanta, quando io ero ancora uno studente universitario, ebbero
notevole successo affrontando la questione carceraria negli anni precedenti alla vigente riforma.
Films che sarebbe oggi interessante rivedere; ci si renderebbe conto
in tal modo degli enormi progressi della condizione detentiva in Italia in
un quarto di secolo.
24
Relazioni – I Parte
Progressi che sono stati possibili soprattutto grazie alla partecipazione della comunità esterna all’attività rieducativa dei detenuti.
Io penso di poter affermare senza timore di smentita di essere stato sin
dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario (OP) del 1975 tra i più strenui sostenitori della necessità di una forte presenza della società all’interno
dei penitenziari perché essa è utile sia ai detenuti sia al personale.
Anche quando da questa presenza nascono quei piccoli disaccordi
tra operatori esterni e personale cui accennava il dottor Di Stefano che
quasi inevitabilmente nascono in un ambito di attività in cui è forte il
coinvolgimento emotivo.
D’altro canto è esperienza comune che all’interno di questa dialettica il più delle volte si costruisce qualche cosa di positivo per i detenuti.
Il rapporto che deve legare il carcere e quella parte della società
civile che in esso si impegna ad operare deve essere un rapporto franco
e scevro da infingimenti.
E quindi dicevo secondo me è bene dire tutto con la massima chiarezza.
Ieri nella regione Sicilia erano presenti 6.736 detenuti.
La sera del 31 luglio del 2006, cioè la sera prima dell’entrata in
vigore dell’ultimo indulto erano poco più di 6.500; ciò vuol dire che
attualmente nelle carceri siciliane vi sono 200 detenuti in più rispetto
alla data precedente all’indulto. È un dato che deve fare meditare: se una
delle motivazioni per le quali fu concesso l’indulto era lo stato di grave
sovraffollamento, oggi in Sicilia siamo già oltre quella soglia. E allora
il dato generale diventa preoccupante nella misura in cui si prendono
in considerazione la carenza del personale di polizia penitenziaria e del
personale addetto alla rieducazione quali gli educatori.
L’organico del Corpo di polizia penitenziaria nella regione è di 4.920
unità; attualmente ne risultano in forza 4.651, quindi quasi 300 in meno.
Dei 137 educatori che sono complessivamente previsti dalle piante organiche degli istituti siciliani, ne sono presenti appena 80.
Questi dati descrivono una situazione di difficoltà operativa che è
giusto che sia conosciuta e che sia compresa perché non si può e non si
deve colpevolizzare l’amministrazione penitenziaria, e principalmente
gli operatori penitenziari per eventuali carenze: le insufficienze sono nei
numeri
La situazione carceraria in Sicilia
25
Ed anzi, al contrario, è proprio per l’eccezionale e misconosciuto
impegno del personale penitenziario che le carceri siciliane pur tra mille
problemi sono in grado di reggere il peso di una popolazione detenuta
sempre più in aumento.
Quello del sovraffollamento è oggi il vero problema.
Lo stesso Ministro della Giustizia ha pubblicamente preannunciato
provvedimenti di deflazione del carcere pur tra molteplici difficoltà e
v’è quindi motivo di ritenere che in tempi brevi saranno adottati provvedimenti legislativi nel senso di un aumento della capacità ricettiva del
sistema penitenziario.
Alle carenze di personale e al sovraffollamento si aggiungono le
carenze del patrimonio edilizio penitenziario. In Sicilia su 26 istituti penitenziari quelli di recente costruzione si contano sulle dita di una mano.
Per il resto si tratta di vecchie costruzioni, magari prima destinate ad
altro uso poi convertite in istituti penitenziari e che, quindi, risentono di
tutte quelle carenze strutturali alle quali non è possibile far fronte se non
costruendo istituti nuovi.
In queste strutture non ci sono gli spazi per creare tutto ciò che l’Ordinamento penitenziario vigente prevede che esista all’interno del carcere per favorire il trattamento di recupero del detenuto attraverso attività
sportive, ricreative, lavorative, scolastiche e così via.
Si noti che l’adeguamento delle strutture esistenti è un processo lungo e costoso.
Emblematico è il caso dell’Ucciardone di Palermo in cui è attualmente in ristrutturazione un intero padiglione.
Il programma per la ristrutturazione di tutti i padiglioni durerà almeno dieci anni con costi notevolissimi in ragione della necessità di rispettare i vincoli storici ed artistici che gravano sulla struttura.
Ciò che ho illustrato, brevemente e per grandi linee consente di
cogliere anche a chi si accosta al carcere da neofita, la difficoltà della
gestione tra carenze degli organici, insufficienze strutturali e sovraffollamento.
Ovviamente ciò non può che creare tensioni perché laddove dovrebbero stare 3 persone ce ne stanno 5, ce ne stanno 6. Gli spazi si restringono,
i momenti di nervosismo aumentano e quindi la situazione diventa di difficile governo, a parte l’aspetto igienico-sanitario, perché una cosa è che un
26
Relazioni – I Parte
servizio igienico venga usato abitualmente da 3 persone, altra cosa è che
venga abitualmente usato da 5, 6 persone e a volte più.
Affrontando più specificamente il tema principale, quello dei detenuti
in attesa di giudizio, di cui già si è fatto cenno, le statistiche ci dicono che
attualmente nella regione sono presenti 6.736 detenuti appartenenti a questa categoria.
Di questi 2.118, quindi un terzo, sono in attesa di primo giudizio;
1.773 sono in attesa dell’appello o del ricorso per Cassazione.
I detenuti condannati con sentenza passata in giudicato sono 2.417.
Completano il quadro 350 internati ed appena 78 semiliberi. Questi ultimi
in misura minima in ragione del recente indulto.
La gestione dei 2.118 imputati detenuti è particolarmente complessa.
Non essendo ancora condannati, per questi vale il principio di innocenza
sino alla condanna, nei loro confronti non viene effettuato un trattamento
rieducativo. Il problema per questi detenuti è quello di evitare che paradossalmente proprio la detenzione in un carcere dove per il sovraffollamento
non sempre è possibile una netta separazione da detenuti condannati sia
per costoro un fattore criminogeno.
La soluzione della inclusione degli imputati in un medesimo circuito penitenziario, che pure è stata individuata anni or sono per far sì che
detenuti appartenenti a categorie omogenee non venissero in contatto con
detenuti aventi caratteristiche diverse, ad esempio il circuito dell’Alta sicurezza, del 41bis, dei detenuti che necessitano di misure di protezione
dagli altri detenuti ecc., dà luogo a difficoltà operative.
Se in uno stesso carcere debbono convivere varie categorie di detenuti, i servizi generali come devono essere tarati? Quali regole bisogna applicare? Quale deve essere la maggiore preoccupazione? Quella di impedire
evasioni, quella di impedire che i soggetti più pericolosi possano avere
contatti con gli altri e esercitare la loro supremazia?
In altri termini bisogna guardare principalmente alla sicurezza?
Ma così facendo ne soffrirebbero i detenuti comuni, i cosiddetti «ladri
di polli», che in un istituto la cui gestione è ispirata esclusivamente alla
sicurezza sarebbero sottoposti ad un regime sproporzionato rispetto alla
propria modesta caratura criminale; sofferenza ancora più pesante per cittadini che, sebbene accusati di reati talvolta gravi, sono comunque ancora
in attesa di giudizio e, quindi, non di rado innocenti.
La situazione carceraria in Sicilia
27
La gestione diventa molto difficile.
Un’altra difficoltà è data dalla sempre maggiore presenza nelle nostre carceri di stranieri che in quanto tali sono portatori di culture diverse
da quella nazionale. Su questo fronte l’Amministrazione penitenziaria sta
cercando di attrezzarsi in tutti i modi migliorando le competenze linguistiche del personale per superare quelle barriere comunicative che non consentono di capire il detenuto, i suoi bisogni, le sue esigenze.
Non meno importante è l’impegno nel dotarsi, con tutte le difficoltà
del caso, di mediatori culturali utili per superare le altre difficoltà derivanti
dai modi di vita diversi, espressione di culture diverse e talvolta di difficile
compatibilità. Senza considerare che molti di questi stranieri sono appartenenti a vari gruppi criminali, portatori di interessi spesso confliggenti.
Una menzione a parte merita il problema dell’assistenza sanitaria ai
detenuti. Come tutti sanno la sanità penitenziaria – come ormai in tutte le
regioni a statuto ordinario – per legge dello Stato è stata trasferita alle regioni e quindi alle Aziende sanitarie locali. Nelle regioni a statuto speciale
come la Sicilia e nelle province autonome, ciò non è ancora avvenuto. La
Sicilia è in grave ritardo non essendo stati emanati gli atti di recepimento
della legge dello Stato nell’ordinamento regionale ed a nulla sono sinora
valse le mie richieste di incontri, di contatti con le cariche regionali competenti; fino a questo momento sono rimaste senza risposta
Il rischio concreto è che dal 1° gennaio ai detenuti siciliani non potrà
essere garantita l’assistenza sanitaria. Da questo punto di vista sono molto
preoccupato e allarmato perché tale stato di cose si innesta in un contesto
nel quale la spesa sanitaria si è già molto contratta negli ultimi anni riducendosi al minimo indispensabile in termini di acquisto di farmaci, visite
specialistiche e guardie mediche intramurarie.
La cartina al tornasole del disagio frutto delle ritmicità di cui ho parlato sono i comportamenti autolesivi dei detenuti. Nel secondo semestre
2007 in Sicilia se ne sono contati 195, e nel primo semestre 2008 ben 222.
In flessione invece i tentativi di suicidio: 40 nel 2° semestre 2007 contro i
19 del 1° semestre 2008.
Domanda di Rino Cascio: «Dei 4651 agenti quelli che sono impegnati
nei trasferimenti continuamente tra palazzo di giustizia, tribunali, quanti
sono? Abbiamo una percentuale?»
Risposta di Orazio Faramo: «Sono circa 900».
28
Relazioni – I Parte
Cascio: «Quindi diciamo che c’è un agente per 2 detenuti da distribuire, però, su quattro turni di lavoro».
Faramo: «Non è solo questo, perché lei ha considerato il personale
impiegato soltanto nelle traduzioni, in realtà agenti vengono impiegati in
compiti amministrativi, in servizi di tutela e scorta, in attività di polizia
giudiziaria ed in altri incarichi».
Vantaggi, svantaggi e discrezionalità
nella carcerazione preventiva
Ignazio De Francisci
Grazie, con convinzione ringrazio per l’invito rivoltomi perché torno sempre a parlare volentieri dei problemi connessi all’universo carcerario e ciò in virtù
del mio lontano passato professionale in quanto dal
luglio dell’‘80 al 31 dicembre dell’‘84 ho svolto le
funzioni di magistrato di sorveglianza a Palermo.
Insomma quattro anni e mezzo della mia vita sono
stati contrassegnati dalla vicinanza al pianeta carcere, agli operatori penitenziari in genere; ricordo
che conobbi il dottore Faramo all’epoca direttore
dell’Ucciardone e molti tra i volontari oggi qui presenti che mi sono sempre piaciuti perché totalmente diversi da me, perché ottimisti sul recupero
dei detenuti, (io che ci credo molto poco), perché disinteressati. Essi regalano il loro tempo per pura passione al carcere, mentre io ci andavo per
mestiere, e quindi mi piace il confronto con loro.
Ricordo i lunghi conversari sia con i volontari che con le assistenti
sociali, con entrambi gli scontri ideologici erano all’ordine del giorno perché io dicevo che loro scendevano dal mondo dei puffi e loro mi prendevano per un bieco conservatore, difensore e custode delle carceri così come
erano. In effetti io ero conservatore vent’anni fa, e, invecchiando, lo sono
ancor più oggi e non faccio mistero di quello che penso e, quindi, anche la
problematica della carcerazione la vedo con un occhio sempre disincantato e poco incline alle utopie. Però, sono interessato a tutto quello che è
diverso da me perché dall’incontro di sensibilità diverse si cresce tutti e ci
si apre alle idee dell’altro.
E poi consentitemi – a proposito di volontari – di rievocare una figura, che io ricordo con grande affetto: mi riferisco a Padre Oliva che
era un gesuita che operava al servizio degli ultimi all’interno del carcere
30
Relazioni – I Parte
dell’Ucciardone. Lo ricordo sempre con venerazione, lo vedevo arrivare al
carcere con una 850 che era vecchia nell’‘82 carica di pacchi di vestiario
per i detenuti. È difficile trovare le parole per descrivere le sensazioni che
trasmetteva quella umilissima figura di sacerdote, fragile nell’aspetto fisico ma che trasmetteva una fede d’acciaio. Quando si pensa ad una figura
emblematica del volontariato penitenziario io ricordo Padre Oliva e improvvisamente tutto quello che ho fatto mi sembra assolutamente inutile,
mi sembra polvere, e lui mi si presenta sempre come una figura alla quale
guardo con grande ammirazione, forse perché io ho studiato dai Padri gesuiti e sono rimasto innamorato della Compagnia di Gesù.
Torniamo al tema posto dal moderatore «Discrezionalità della custodia cautelare, carcerazione preventiva». Telegraficamente, cercando di non
annoiarvi, vi devo dire che rispetto a 25 anni fa, 30 anni fa, 20 anni fa, oggi
il codice è molto più «garantista» e quindi si dovrebbe arrestare di meno.
Basti pensare che dal 1988 – se non erro – il PM ha perso il potere di arrestare e deve sempre chiedere al Giudice il provvedimento restrittivo (tranne alcuni casi che impongono comunque sempre la convalida del Giudice).
Però com’è che il numero dei detenuti aumenta in continuazione? Una
spiegazione secondo me risiede nel fatto che è aumentato il livello criminale della nostra società. Io sono convinto che si delinque di più. Il dottore
Faramo ha fatto cenno agli stranieri. C’è una fetta di immigrati che vive di
crimine e che vive col crimine, lo spaccio di stupefacenti in alcune città è
appannaggio di gruppi ben organizzati; ancora, si commettono molte più
rapine di prima, basti pensare che sino a qualche anno fa la rapina era di
competenza della Corte d’Assise. Quando io dico questo ai miei giovani
colleghi quasi non ci credono.
Cioè, noi siamo una società che ha aumentato il livello criminale per
cui i detenuti aumentano, anche se si arresta di meno nella fase delle indagini preliminari. C’è stato, secondo me complessivamente, un aumento
del livello di garanzia; c’è stato un aumento esponenziale però del livello
di criminalità nel nostro Paese e quindi aumentano i detenuti. Quanto alla
notizia secondo la quale chi lascia il frigorifero per la strada viene arrestato
(però da Napoli in giù) mi sembra una follia giuridica, diamo sempre colpa
ai giornalisti, sarà una sintesi giornalisticamente efficace ma tecnicamente
inappropriata, perché non puoi fare una legge che vale da Napoli in su e
una da Napoli in giù, nel senso che se butti il frigorifero a Milano non ti
Vantaggi, svantaggi e discrezionalità nella carcerazione preventiva
31
fanno niente. Ma comunque c’è però una politica del governo nel campo
dei crimini e quindi una politica in campo penalistico del governo che segue molto i sondaggi di opinione e così c’è questa fissazione nei confronti
di chi imbratta i muri (per carità pure a casa mia hanno fatto degli scempi)
che però evidentemente sa tanto di quesito: «Cosa faresti a chi ti scrive nel
muro?». La risposta sarebbe: «In galera!». Perché evidentemente se voi
parlate con qualsiasi studioso di diritto penale vi dirà che l’imbrattamento
dei muri da punire col carcere è una cosa piuttosto esagerata.
Si è gridato per anni allo scandalo per il mancato arresto di coloro che uccidono perché guidano in stato di ebbrezza. Hanno dovuto fare
una legge che ora permette la detenzione, però è giusto dirci, ovviamente
spogliandoci dalla dovuta solidarietà per tutte le vittime di questi pazzi
ubriachi al volante, che da un punto di vista tecnico di omicidio colposo si
tratta e per anni non si è mai arrestato per omicidio colposo. Quindi, oggi,
pur in presenza di un codice di procedura penale che prevede per ottenere
la carcerazione preventiva che questa sia l’unica misura possibile eccetera
(quindi un codice più garantista rispetto al codice Rocco), rispetto a tutto
quello che c’era prima però ci sono stati degli interventi di politica giudiziaria che hanno ampliato il numero degli ospiti delle nostre carceri.
Altro esempio che ho vissuto in prima persona ad Agrigento è il problema dell’arresto dei clandestini. Oggi il cittadino straniero viene fermato,
gli viene dato l’ordine di espulsione, di lasciare il territorio nazionale, lui
non se ne va, viene fermato una seconda volta, arresto, scarcerazione dopo
poche ore. Questo è un classico caso di – se è ancora consentito criticare
il governo – di insipienza tecnico giuridica del legislatore penale, il quale
per lanciare un messaggio di stato severo o comunque geloso custode delle
proprie frontiere (e comunque che non vuole i cittadini extracomunitari in
mezzo ai piedi) ha inventato questo arresto che non serve a nulla se non
a intasare i nostri istituti penitenziari. Infatti, avviene poi che il cittadino
straniero arrestato dovrebbe essere portato nelle camere di sicurezza della
Questura per essere poi condotto alla udienza direttissima dinanzi al giudice. Ma la Questura non se lo tiene perché non vuole gente nelle camere
di sicurezza per i mille problemi anche logistici che ciò comporta e perché
ha paura delle impiccagioni e delle autolesioni. Allora lo porta al carcere,
il direttore del carcere mi telefona e mi dice: questi non devono entrare nel
carcere perché c’è una circolare del Ministero, il dottore Faramo scrive,
32
Relazioni – I Parte
io tento di mettere d’accordo, ogni tanto si litiga, poi ci si riesce a mettere
d’accordo nel senso che questi poi finiscono in carcere. Alla fine, quindi,
questi detenuti brevi e stranieri finiscono in carcere che evidentemente
diventa la fogna della nostra società per cui tutti questi extracomunitari,
per carità molti delinquenti, non è che sono tutti santi uomini, io parlo con
molta chiarezza, però molti esclusivamente disperati vengono mandati in
carcere, si fanno uno o due giorni di carcere, vengono portati dinanzi al
giudice che convalida l’arresto e li rimette in libertà. Tutto questo su base
annua, forse il DAP avrà fatto i suoi calcoli, costa allo Stato un patrimonio
perché per ogni detenuto che poi dal carcere deve andare dinanzi al giudice per la convalida ci vogliono due, uno, uno e mezzo agente di polizia
penitenziaria, ci vuole il furgone, ci vuole un giudice che li deve giudicare, deve scrivere la sentenza, un cancelliere, eccetera per cui costa cifre
folli. E allora bisogna porsi il problema se a noi – come apparato statale
– convenga fare tutte queste carcerazioni per la violazione alla Bossi-Fini.
Secondo me no, ma non ci conviene come conto profitti e perdite. Ogni
volta che io dico queste cose ovviamente tutto l’arco del centro-destra dice
che i magistrati devono applicare la legge, noi la applichiamo, però la legislazione penale, io dico sempre, secondo me è il modo più nobile e più
raffinato di fare politica. Cioè, chi fa politica in senso alto, secondo me, in
una visione complessiva del mondo lo fa con la legislazione penale perché
tu decidi quello che è giusto e quello che non è giusto, e quello che non è
giusto decidi come sanzionarlo. Però, per far questo ci vuole intelligenza,
cultura e anche cultura tecnica cose che tutte e tre assieme non sempre
sono presenti in tutte le teste che ci governano. Dunque, per chiudere perché non vi voglio annoiare, io non credo, ora non voglio difendere la mia
categoria perché pubblici ministeri ce ne sono di intelligenti, ce ne sono
di meno intelligenti, ce ne sono anche di antipatici. Io non credo che ci sia
un eccessivo ricorso da parte del PM alla custodia cautelare anche perché
– vi direi con una difesa diciamo burocratica – è il GIP, è il giudice che la
concede. Noi ci limitiamo a chiederla. A parte questo, oggi diciamo tecnicamente si arresta molto meno. Io più volte quando parlo con i miei giovani colleghi dei fascicoli dico: «Vedi a questo qua 15 anni fa lo avremmo
arrestato subito, oggi processo a piede libero». Quindi non è una questione
di atteggiamento o di voglia di carcere, è un atteggiamento che in Italia si
delinqua parecchio da un lato, dall’altro il carcere viene utilizzato per que-
Vantaggi, svantaggi e discrezionalità nella carcerazione preventiva
33
sti motivi diciamo di politica o questi motivi di acquisizione del consenso
tramite lo sbandieramento della minaccia del carcere che io non condivido,
ma a un certo punto fanno parte della nostra vita politica.
Carcere preventivo e azione penale,
punto di vista e responsabilità del GIP
Mario Conte
Ringrazio anch’io gli Organizzatori. Ovviamente
per l’invito cortese, assai gradito. Non altrettanto
posso ringraziarli, però, della sistemazione perché
parlare dopo un oratore come Ignazio De Francisci è
una cosa altamente pericolosa, in quanto è un oratore famoso, importante, affascinante. Io decisamente
non potrò raggiungere i suoi livelli ma cercherò di
raccontarvi qualche cosa anche in considerazione
della mia (ahimé!) lunga esperienza nel senso che io
mi sono occupato per molti anni del Tribunale della
libertà che come voi sapete, e se non lo sapete ve lo
dico io, è l’organo di appello avverso alle decisioni del Giudice delle indagini preliminari che, come ha spiegato il moderatore, è poi quello che mette materialmente la firma nel provvedimento, dal momento che non esiste
più il mandato di cattura che noi avevamo con il codice Rocco nel 1930.
Il codice del 1988 ha istituito questa figura del Giudice per le indagini
preliminari che è colui che controlla materialmente tutta l’attività svolta
dal Pubblico Ministero, dalle cose più banali che sono appunto le attività
per le quali il soggetto sottoposto a indagini ha diritto ad avere un difensore a quelle più incisive che sono sicuramente le ordinanze con le quali
viene applicata una misura cautelare. E devo dire che io da un paio di anni
svolgo questa funzione con passione, sicuramente, ma anche con un certo
disagio nel senso che mi trovo ad affrontare delle situazioni che apparentemente confliggono un po’ con quella che è la realtà. Nelle brevi note
che mi ero preparato avevo proprio pensato di partire un po’ dallo schema
normativo perché molti di noi dimenticano che la custodia cautelare deve
essere, come dicono alcune persone colte col termine latino, extrema ratio. Nel senso che le persone dovrebbero finire in carcere, soltanto quando
36
Relazioni – I Parte
sono state ormai condannate con una sentenza definitiva. La carcerazione
dovrebbe essere infatti un’eccezione. Se noi però stiamo a sentire i dati del
dottor Faramo, ci rendiamo conto come tutto ciò è assolutamente invece
la regola. Abbiamo visto che più di 1/3 dei detenuti sono ancora in attesa
di giudizio e questo è il motivo per cui noi ci troviamo qui oggi. E allora
dobbiamo vedere perché il codice stabilisce queste eccezioni. Io cercherò
di essere breve su questo punto perché do molte cose per scontate, però già
si è detto che una persona può essere sottoposta ad una misura cautelare,
prima di essere condannata in via definitiva, qualora nei suoi confronti
sussistano dei gravi indizi di colpevolezza, cioè una forte possibilità che
lui sia colpevole. Esistono anche delle esigenze cautelari.
Le esigenze cautelari sono sostanzialmente tre. Sono il pericolo di
fuga, il pericolo che possa inquinare le prove, il pericolo che possa reiterare i reati. Ciò posto, il codice prevede una serie di misure che possono
essere applicate e il carcere è l’ultima misura. E questo non fa altro che
rispecchiare quelle che sono le norme della Costituzione in merito. Io ho
fatto un taglia e incolla delle norme della costituzione sul tema. Le richiamo velocemente sono gli articoli 13, 24, 25, 26 e 27 che stabiliscono che
la libertà personale è inviolabile, cioè, noi non dobbiamo sottoporre una
persona ad una restrizione della propria libertà personale se non in casi
limite.
Tutto questo è un discorso bellissimo che però si scontra con delle
esigenze di tutela della collettività. E qui purtroppo casca l’asino (ahimé!)
perché noi ci troviamo davanti ad una situazione su cui molto spesso si
punta il dito. Apro una brevissima parentesi e lo dico anche perché ho fatto il giornalista. Credo che da un po di anni a questa parte si sia spostata
troppo l’attenzione su quello che è il mondo giudiziario e sul mondo dei
processi. Io credo, e mi trovo davanti un uditorio che ha qualche annetto
sulle spalle, che nessuno di voi ricordi una tale attenzione. Se qualcuno
ricorda un giornale di una ventina di anni fa, quant’erano le pagine dedicate alla cronaca giudiziaria? Potevano essere una, due, tre al massimo.
Adesso se voi aprite il Giornale di Sicilia o un qualsiasi altro quotidiano,
sono dedicate almeno sei, sette pagine alla cronaca giudiziaria. Io ricordo
quando ero ragazzino che c’era il «l’Ora» che aveva quest’apertura con i
fatti cronaca tragici, di omicidi che in Sicilia, a Palermo soprattutto, erano
assai frequenti e lo sono, ahimé, anche se in misura ridotta, tutt’ora. E
Carcere preventivo e azione penale, punto di vista e responsabilità del GIP
37
allora il punto qual è? Sono in effetti cattivi i Pubblici Ministeri che richiedono la misura della custodia cautelare in carcere, sono cattivi i giudici
che la applicano oppure in realtà c’è una società, lo ha detto in maniera
assolutamente garbata ma con la consueta incisività Ignazio De Francisci,
che chiede di essere tutelata? Sono delle scelte di politica quelle attraverso
le quali si cavalca tale richiesta. Nessuno di noi vuole fare politica meno
che mai in questo periodo, però quando si legge su un giornale che viene
scarcerato l’ultras che ha devastato un treno e la persona che scrive l’articolo, la persona che lo commenta, soprattutto il politico, dimentica di
dire che ci sono delle norme precise del codice di procedura penale che
vietano di applicare la misura della custodia cautelare in carcere qualora il
reato non raggiunga determinati limiti di pena, allora a questo punto o si
fa disinformazione a tutti i livelli, oppure inevitabilmente non ci troviamo
più a remare tutti dalla stessa parte. E allora, a questo punto, dobbiamo
inevitabilmente contemperare varie esigenze, non soltanto nell’ottica del
nostro sistema, perché noi da un po’ di anni a questa parte (molti se lo
dimenticano, ma in realtà sarebbe giusto ricordarcelo quotidianamente)
non viviamo più nel nostro stretto ambito nazionale ma in Europa, e questo vuol dire che l’Unione Europea, oltre ad avere stabilito una serie di
strumenti normativi attraverso i quali viene disciplinata quella che prima
veniva chiamata cooperazione giudiziaria, richiede un’armonizzazione dei
sistemi. Pertanto, abbiamo una figura che esiste dal 2002, non so quanti
di voi la conoscono ma comunque è abbastanza famosa, che non fa altro
che aumentare ulteriormente la carcerazione diciamo intermedia, che è il
mandato di arresto europeo. Il mandato di arresto europeo consente ad
un’autorità giudiziaria che ricerca un determinato soggetto che è latitante
di poterlo catturare in tutto il territorio dell’Unione Europea senza bisogno
di dover attivare delle procedure particolari. Basta l’emissione di questo
titolo da parte dell’autorità giudiziaria nazionale perché il soggetto venga
arrestato anche all’estero. Ma di contro, a fianco a questi strumenti di cooperazione giudiziaria, ci sono anche delle direttive precise con riferimento
alla durata ragionevole dei processi. Sono ormai diventati quasi quotidiani
i procedimenti di infrazione nei confronti dello Stato italiano per mancato
rispetto dei termini relativi ai ragionevoli tempi del processo. E allora a
questo punto dobbiamo inevitabilmente fare un ragionamento un tantino
più ampio. Noi giudici abbiamo questi strumenti. L’amministrazione peni-
38
Relazioni – I Parte
tenziaria ha questi strumenti. Da un po’ di tempo a questa parte si arresta
di meno e allora come mai cresce il numero dei detenuti? Ma perché ciò
fa parte di un fisiologico aumento: cresce la popolazione, perché non dovrebbe crescere il numero dei detenuti ? Ma il problema è che le strutture
rimangono sempre le stesse. Uno degli interventi, maggiormente interessanti che sono stati fatti dal nuovo ministro della giustizia, è stato quello
di tentare di programmare l’apertura di nuove carceri o l’utilizzo di carceri
che possano garantire un normale e – vorrei dire, forse è una parola forte
– una civile detenzione, anche nella fase iniziale, cioè nella fase pre-condanna. Io ricordo da giovane uditore che andai nel giro che i nostri coordinatori ci facevano fare, a visitare l’Ucciardone e il carcere di Pagliarelli.
Ne uscii sinceramente sconvolto, soprattutto dal primo che mi dicono essere una struttura, e ci credo, costruita come carcere. Ricordo che, proprio
pensai che tra le cose più brutte che possano capitare nella vita, c’è quella
di finire in ospedale e poi in carcere. Non so uno dove ne esca vivo meglio.
E allora a questo punto secondo me quella che può essere una prospettiva
interessante, un progetto interessante non è tanto analizzare l’utilizzo corretto o meno della carcerazione preventiva da parte dei giudici. Ci saranno
sicuramente le storture. Devo dire che da parte degli organi inquirenti, e
non vuole essere in questo caso una captatio benevolentiæ nei confronti
della Procura di Palermo, da diversi anni a questa parte c’è un uso molto
moderato delle richieste di custodia cautelare perché come sapete il GIP
si pronuncia su queste, ma non si pronuncia evidentemente come faceva
il giudice istruttore autonomamente. E c’è un altrettanto attento, e qui non
voglio tirare acqua al mio mulino, vaglio sia da parte dell’ufficio del Giudice per le indagini preliminari che da parte del Tribunale della libertà. Io
non ho i numeri alla mano, però vi posso dire che sono frequenti e anche
giornalisticamente documentate le richieste di applicazione di misura di
custodia cautelare che vengono rigettate dal GIP. Analogo discorso vale
per i provvedimenti del Tribunale della libertà che peraltro, non parlo soltanto per averlo personalmente provato, fa un lavoro realmente immane
perché considerate che al contrario di quello che è il lavoro della Procura
della Repubblica che ha i suoi tempi per lo svolgimento delle indagini, di
quello del GIP che tendenzialmente non ha un termine per esaminare le
richieste di applicazione di misura, il Tribunale della libertà ha un termine
perentorio di dieci giorni entro i quali deve riesaminare tutto il materiale
Carcere preventivo e azione penale, punto di vista e responsabilità del GIP
39
che è stato portato alla cognizione del Giudice per le indagini preliminari
e decidere se la persona debba stare o meno in carcere. E allora a questo punto, secondo me, dobbiamo tutti gli operatori del diritto, noi e voi,
perché anche voi siete degli operatori del diritto, anche voi nel momento
in cui svolgete un attività che è assolutamente fondamentale ricordarci il
principio costituzionalmente garantito che la pena deve avere una finalità
rieducativa, e tendenzialmente anche la carcerazione preventiva.
Io vi ho portato, e le lascio come materiale tre sentenze della Corte di
Cassazione, due riguardano l’applicazione del mandato di arresto europeo
a testimonianza del fatto, e riprendo anche qui un concetto già detto, che il
nostro è uno stato molto garantista. Io dico sempre, e non voglio riprendere
un’affermazione di una persona ben più importante di me, cioè Giovanni
Falcone, è probabile che noi dovremmo optare alla lunga per determinate
tipologie di reati per il principio del doppio binario e seguire due principi
totalmente differenti. Noi abbiamo un codice di procedura penale probabilmente da paese scandinavo. A testimonianza ulteriore di ciò, nella legge
attuativa del mandato di arresto europeo, che è una legge del 2005, il nostro Stato ha stabilito ulteriormente dei paletti per rifiutare eventualmente
la consegna di soggetti arrestati in Italia all’estero. L’altra sentenza che
vi ho portato è una sentenza che riguarda un caso che effettivamente è un
istituto che ha una sua indiscutibile importanza, la famosa riparazione per
ingiusta detenzione. Uno dei ristori che vengono garantiti al detenuto in attesa di giudizio che poi si accerti essere un soggetto innocente è, appunto,
la riparazione per ingiusta detenzione.
Questa sentenza in realtà, dando una lettura più precisa degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale che disciplinano la materia,
stabilisce che chi presenta questa istanza non deve poi con il suo comportamento negligente e colposo avere dato causa all’applicazione del provvedimento. È un caso in cui un soggetto era stato sottoposto ad un procedimento penale, a un processo per ricettazione e, pur essendo stato assolto,
aveva tenuto un comportamento negligente, perché non aveva provveduto
a un controllo effettivo in ordine alla provenienza dell’autovettura che gli
era stata ceduta e, quindi, in quanto tale non gli veniva riconosciuta la riparazione per ingiusta detenzione. In conclusione, noi dovremmo, ognuno
nel proprio settore, cercare di rivendicare un miglioramento generale delle
strutture nelle quali ci troviamo a operare. È stato fatto poc’anzi un rife-
40
Relazioni – I Parte
rimento quasi agghiacciante al problema della sanità penitenziaria. Ecco,
noi nelle sedi competenti e anche voi con questi convegni, con quelle che
sono le possibilità che avete anche attraverso gli organi di stampa, dobbiamo avere il coraggio di rivendicare un miglioramento globale di quelle
che sono le condizioni nelle quali ci troviamo a operare, perché è inutile
che noi rivendichiamo un miglioramento di determinati settori se poi non
abbiamo contemporaneamente il miglioramento di altri.
Relazioni – II Parte
Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato.
Disagio psicologico nella carcerazione.
Il ruolo del volontariato
Elisabetta Laganà
Il tema assegnato richiede di aprire una (drammatica)
visione sullo scenario della realtà del carcere e della sua organizzazione. Essere detenuti non significa
solo essere privati della libertà, ma soprattutto non
avere scelte, dover sottostare a regole di cui talvolta
non si comprende il senso, dipendere totalmente da
orari e ritmi dell’istituzione, sentirsi isolati affettivamente, subire la mortificazione della propria individualità anche fisica e la perdita dello status sociale,
fare i conti con il trascorrere di un tempo spesso
vuoto ed inutilizzato.
Le lunghe detenzioni determinano una sindrome definita «prisonizzazione» (Clemmer, 1940) che si manifesta con progressiva regressione,
passivizzazione e deterioramento psico-fisico, a volte irreversibile, in
quanto l’immagine di sé viene duramente attaccata. Tra gli autori che hanno studiato la destrutturazione psichica nelle istituzioni totali ricordiamo
Goffmann.
«La prima riduzione del sé viene segnata dalle barriere che le istituzioni totali erigono tra l’internato e il mondo esterno… Avviene la spoliazione dei ruoli… gli oggetti che danno un sentimento di sé, il suo corpo,
le sue azioni immediate, i suoi pensieri, ciò che possiede… sono violati,
la frontiera che l’individuo edifica fra ciò che lo circonda è invasa e la
incorporazione del sé profanata» (Asylums, 1961).
In situazioni così abnormi gli individui mettono in atto strategie difensive di adattamento molto complesse, che variano da persona a persona
e anche nello stesso individuo a seconda dei momenti. Ad esempio, possono nascere strumentalizzazioni e falsificazioni tipiche della situazione
totalizzante. Il detenuto può trovare un ruolo ed uno spazio identificativo
44
Relazioni – II Parte
aderendo al codice di un sottogruppo criminale, sia che ne abbia fatto parte
in precedenza, sia che vi si associ per paura o per spirito gregario, oppure
può rifiutare totalmente la società che vive come ostile e unirsi a persone
consimili, creando un blocco di solidarietà reciproca contro l’istituzione.
Oppure, ancora, può restare isolato e disperato ed esprimersi attraverso
una violenza e una aggressività rivolte verso agli altri e le cose e spesso
contro se stesso, generando situazioni che possono provocargli il trasferimento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG).
L’aspetto del corpo assume varie sfaccettature. Alcuni hanno grandissima cura del corpo, fanno ginnastica, sport, sembra lottare per mantenere
in buone condizioni quel corpo che la società tiene segregato e inutilizzato
e preservarlo per l’uso futuro; altri, invece, si identificano con l’afflizione
dell’istituzione e si lasciano andare maltrattando il proprio corpo come segnale di sofferenza o arma dialettica. L’impressionante numero dei suicidi
e di autolesionismo che si verificano negli istituiti si configura come la
conseguenza più estrema e devastante del magma sotterraneo della sofferenza. In carcere avvengono suicidi circa 20 volte di più che nelle persone
libere, e l’angoscia raggiunge livelli altissimi che molte persone non riescono a tollerare. Di fronte alla mutilazione dell’individualità perpetrata dalla deprivazione del diritto, la risposta della persona passa attraverso
la radicale negazione del sé come individuo e diviene speculare, scritta
violentemente sul corpo su cui il detenuto incide la propria sofferenza, un
corpo identificato con l’afflizione dell’istituzione; come foglio su cui la
persona riscrive in termini cruenti il proprio messaggio di esternazione di
intollerabili sofferenze psichiche.
In carcere spesso si individuano disturbi depressivi che possono manifestarsi in modi differenti a seconda della fase della carcerazione. Si rilevano disturbi d’ansia, più frequentemente all’inizio della detenzione, e
soprattutto durante la prima, che possono assumere la connotazione dell’attacco di panico con sindrome claustrofobica, quando il disadattamento
persiste dopo il periodo iniziale di detenzione. L’atmosfera dell’attesa del
giudizio può aumentare i livelli di ansia determinati anche dall’avvicendarsi della popolazione e dall’attesa per la pena.
Anche i disturbi psicotici e la schizofrenia sono piuttosto frequenti:
spesso slatentizzati dal contesto di isolamento e costrizione della libertà, i
sintomi psichiatrici emergono come espressione eclatante che desta timori
Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato
45
e reazioni di allontanamento e rifiuto da parte dei compagni che si sentono
minacciati.
Il trauma dell’ingresso spesso causa disturbi gastrointestinali, respiratori e cardiaci accompagnati da ansia, depressione e paura. Nel periodo
che anticipa la dimissione dal carcere si può verificare la «sindrome di
uscita», caratterizzata da sintomi psichici e comportamentali (agitazione
psicomotoria, angoscia e depressione, somatizzazioni, aumento del rischio
suicidario).
Per far fronte alla situazione della detenzione vengono messi in atto
vari meccanismi di difesa contro la vita del carcere. Proviamo ad elencarne
alcuni, tra i più frequenti.
Durante la carcerazione spesso avvengono moti regressivi in cui la
persona può assumere atteggiamenti di totale dipendenza da altri detenuti
o agenti, oppure può rifiutare di alimentarsi. Il tempo in carcere, svuotato
da opportunità riabilitative, è spesso riempito da lunghe discussioni in cui
i detenuti descrivono i crimini commessi o ne architettano altri; il carcere diviene così scuola del crimine. In un ambito ristretto, alcuni pazienti
trovano una nicchia accogliente nell’istituzione dove tendono ad incistarsi
perché si sentono sicuri e protetti, a volte non escono dalla cella, rifiutano
le attività e mantengono un discreto tono dell’umore come se si sentissero
in un nido protettivo (sindrome da radicamento). L’adattamento passivo è
piuttosto comune, e si manifesta con un acritico adeguamento alle regole,
acquiescenza e rassegnazione. È inutile dire che, apparentemente, questa
è la posizione che crea meno problemi a chi custodisce i detenuti, anche
se tutto ciò è l’opposto delle condizioni necessarie per mettere in moto un processo di ristrutturazione della persona; se da una parte, teoricamente,
si dovrebbe far leva sulla sua responsabilizzazione e partecipazione, in
realtà si verifica, nella maggior parte delle situazioni, una progressiva deresponsabilizzazione della persona, nello sforzo di adattamento al sistema
carcerario. Fanno eccezione i portatori di un’ideologia forte che utilizzano per supportare l’io anche in situazioni molto difficili.
Una peculiare forma reattiva alla carcerazione è la sindrome ganseriana (pseudo-demenza psicogena o stato crepuscolare isterico). Il giudizio che un detenuto può sentire da parte di altri di incapacità a «fare
la galera» può essere vissuto come condanna peggiore della detenzione.
Per difendersi da questo giudizio, la persona può ostentare una forza ed
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Relazioni – II Parte
una sicurezza che in realtà non ha; questa è una situazione ad alto rischio
perché la difesa messa in atto non gli consente di esprimere il dolore e la
sofferenza, che più è negata e più diviene insostenibile sino a manifestarsi
in atteggiamenti conclamati di esplosioni auto ed eteroaggressive.
Il primo trauma vissuto dalla persona arrestata è rappresentato dall’impatto con il carcere, che può esprimersi in una vera e propria sindrome. La
sindrome da ingresso in carcere, consistente in una serie di disturbi psicofisici, compare tanto più frequentemente e manifestamente quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti
e può diventare, quindi, tanto più forte quanto maggiore è lo scarto tra la
vita condotta fuori e quella del carcere. Molteplici, tuttavia, sono le modalità di risposta adattiva in relazione a più variabili, legate agli aspetti di
personalità, alla situazione sociale di appartenenza, all’impatto familiare
e pubblico dell’evento, alle condizioni ambientali, compresi gli elementi
peculiari dell’istituto e della sua organizzazione fino al tipo di cella e di
compresenza. Sul piano clinico la comune reazione d’ansia iniziale, che
può assumere aspetti fobici e manifestazioni somatiche, lascia il posto nel
tempo di 2-3 giorni alla sindrome da prigionizzazione vera e propria o si
avvia, per lo più nei casi di recidivi, ad un progressivo adattamento difensivo, in quanto l’identificazione e la dipendenza dal contesto divengono
elementi di sopravvivenza. Poiché, se le condizioni di carcerazione sono
fonte di umiliazione della sua dignità, vi sono poche strade: o il «rifugio
nella malattia» mentale o fisica, oppure l’identificazione con il contesto.
L’ansia può aumentare e divenire angoscia e paura per la propria incolumità fisica, alla quale possono associarsi insonnia, rifiuto del cibo, incapacità di gestire la propria emotività, abbassamento del tono dell’umore; sono, questi, segnali di allarme che devono far temere per la situazione
della persona. Alla fase dell’ansia può seguire la fase depressiva caratterizzata da progressivo distacco, indifferenza, ritiro in sé stessi in cui l’abbattimento prende il posto della paura. In questa fase possono apparire idee di
rovina, di annichilimento, di incapacità di far fronte alla propria esistenza
anche perché percepita solo come un oggetto nelle mani altrui.
È sul trattamento di questa condizione che diviene urgente agire, poiché è questo il momento in cui più facilmente il soggetto, sentendosi ormai
perduto, può andare incontro ad improvvisi gesti autolesivi e suicidari.
E la risposta, che deve necessariamente passare attraverso il lavoro delle
Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato
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figure professionali che operano internamente al carcere, deve essere non
solo farmacologica e specialistica, ma soprattutto relazionale, attivando
tutta la rete di possibili supporti interni ed esterni al carcere; soprattutto,
laddove esiste ancora come elemento positivo, la rete di relazioni familiari
può offrire un incentivo alla sopravvivenza ed al mantenimento di quella
speranza necessaria per superare il vuoto e reagire alla disperazione.
Uno dei possibili tragici epiloghi della depressione, se non trattata, è
costituito dal suicidio. Nelle sindromi depressive, infatti, il gesto autolesivo si configura come tentativo per sfuggire all’angoscia della depressione,
ad una situazione priva di speranza. Il detenuto depresso tenta il suicidio
nel tentativo di liberarsi da una condizione di altissima sofferenza che sente di non poter modificare in nessun altro modo, per poter trovare nella
morte l’unico mezzo per far cessare la propria sofferenza. Eliminando se
stesso elimina il proprio dolore.
Anche le depressioni «trattate» possono, purtroppo, portare alla stessa
tragica conclusione; a maggior ragione è necessario mettere in atto tutto
ciò che può servire ad alleviare lo stato di sofferenza della persona. Lo
stato dell’applicazione del regime carcerario implica in sé, nella maggior
parte dei casi, un maggior grado di sofferenza fisica e psichica rispetto alla
vita non detentiva. Anche in un contesto che rispetti i principi di trattamento e riabilitazione che l’Ordinamento penitenziario prevede, il ristretto è
immerso in un ambiente complesso e conflittuale, sotto la pressione di un
numero elevato di variabili non controllabili, e quindi fonti di angoscia;
inoltre i rapporti del detenuto con le figure educative e sanitarie (psicologo e psichiatra) risentono di discontinuità, di frammentarietà e carenza
dell’intervento.
La sofferenza in carcere coinvolge anche gli operatori che, per allontanare l’ansia, mettono in atto difese massicce, come la spersonalizzazione
degli utenti, la negazione dei sentimenti, la delega.
Alcuni studiosi sostengono che nel carcere, in quanto istituzione violenta, circolano tra il personale e i detenuti contenuti inconsci molto primitivi, come il trasferire ad altre persone stati mentali che i soggetti rifiutano.
Queste proiezioni invasive producono deformazioni e risposte irrazionali
perché gli operatori non sono generalmente aiutati a riconoscere e a restituire metabolizzate le identificazioni proiettive dei detenuti. In istituzioni
violente come quella carceraria è molto diffusa l’angoscia persecutoria,
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Relazioni – II Parte
che ostacola la possibilità di sentire il rimorso per il danno fatto a se stessi
e agli altri.
Tra gli operatori penitenziari è spesso presente il disagio di essere pochi ed insufficienti, oberati dai compiti quotidiani. Questo implica rilevanti
conseguenze sul piano delle prestazioni; e, in effetti, il sistema lascia poco
spazio per il trattamento. Gli operatori e i volontari hanno spesso l’impressione di lavorare in un’area di mistificazione condivisa, di falsa coscienza
del trattamento che di fatto non si può realizzare per carenza di personale,
mezzi, ecc.
Per realizzare il vero portato del trattamento, gli operatori dovrebbero
facilitare il passaggio dell’angoscia depressiva e dei sentimenti rivendicativi verso la capacità di senso di responsabilità. In tal senso il carcere, per
favorire un uso costruttivo della pena, dovrebbe prevedere che il condannato abbia uno spazio, un tempo, un’attenzione individualizzati e soprattutto
modalità di colloquio che gli diano la possibilità di reinvestire su nuovi
oggetti le energie precedentemente canalizzate in attività devianti. L’impegno degli operatori del trattamento, nei confronti della forza spersonalizzante dell’istituzione totale, dovrebbe essere quello di ridefinire ogni volta
Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato
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il detenuto come persona in grado di compiere, con il loro supporto, una
rivisitazione critica del suo passato e scelte consapevoli per il futuro.
Non si può, pertanto, non riconoscere che un certo grado di sofferenza
psichica è implicito ed inevitabile nell’applicazione del regime detentivo,
a prescindere dalla qualità delle condizioni di vita che quel determinato
istituto può offrire.
Non dimentichiamoci che abbiamo a che fare con l’ultima delle istituzioni totali, la più resistente al cambiamento. Robert Castel afferma che
con la deistituzionalizzazione degli altri presidi totalizzanti (manicomio,
istituti) è realizzata la possibilità di infrangere il monopolio degli specialisti. La presenza dei volontari, della cittadinanza, rappresenta appunto
questa possibilità di rottura e di apertura. A fronte della dipendenza insita
nell’istituzione totale deve nascere il percorso della creazione di molteplici
scambi. L’estensione della solidarietà oltre i legami parentali è considerata
un requisito indispensabile al funzionamento di un assetto di salute civica,
e quindi di salute mentale. Il volontariato e il no-profit esprimono il cosiddetto capitale sociale della comunità; il loro orientamento si basa sulla
solidarietà e sul rispetto delle differenze, mette in opera comportamenti
cooperativistici, muta ed amplia i rapporti tra la città e l’istituzione.
Può, quindi, un volontario divenire portatore di salute mentale nel
carcere?
Il tempo carcerario sprecato, inutilizzato può divenire, attraverso
l’incontro ed il dialogo, un «tempo della parola», e quindi dell’ascolto,
denso di potenziale terapeutico. E questo tempo, questo incontro non è
una condizione astratta, ma è la risposta che di volta in volta viene trovata nell’ambito dello specifico dell’incontro in una situazione dinamica,
momento per momento e caso per caso, del rapporto esistente tra quel
determinato volontario e quella determinata persona ristretta, ponendo in
primo piano il fattore soggettivo, e quindi la motivazione dell’essere lì
diventa fattore terapeutico e di salute mentale poiché, a fronte del processo
di spersonalizzazione operato dall’istituzione, può offrire un processo di
ri-singolarizzazione.
È ormai chiaro che i tassi di carcerizzazione non sono in relazione
all’andamento della criminalità («percepita» o reale che sia), ma sembrano
fare molto più riferimento a come si esprime socialmente la domanda di
penalità. L’opera del volontariato può costituire un baluardo nel contrasto
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Relazioni – II Parte
di una penalità isolante, che «stacchi la corrente» tra carcere e territorio: il
volontariato, quindi, come espressione di sinapsi sociali, anche nel moltiplicare soluzioni che potenzino offerte e valori alternativi alla cultura
carceraria.
La salute mentale chiama in causa responsabilità sociali e istituzionali, di definizioni e organizzazioni dei contesti in cui si attua. Il sistema
carcerario è, in sé, portatore di problematiche e pare insanabile il conflitto
tra la modalità in cui il trattenimento del detenuto si esplica e la possibilità
di costruire condizioni di salute mentale.
La salute stessa assume nel contesto carcerario limiti dettati dall’istituzione in cui le ristrettezze economiche e i continui tagli sull’assistenza
sanitaria e psicologica creano difficoltà nel realizzare e portare avanti scelte di riforma univoche, chiare, non contraddittorie tra il mandato di tutela
dei diritti e come esso si esplica. D’altronde, la salute che viene ritenuta
accettabile in una istituzione carceraria è quella che sostanzialmente si
conforma con gli aspetti di autoreferenzialità del sistema, cioè con l’uniformarsi dell’individuo all’organizzazione e ai suoi ritmi, agli orari, agli
spazi, alle attività, alle definizioni di sé e dell’altro che l’istituzione totale
in quanto tale impone.
Alcune ricerche empiriche evidenziano la differenza delle rilevanze
degli atti autolesivi stabilendo come criterio l’alto o il basso regime trattamentale. Per alto grado trattamentale si intende un maggior numero di ore
fuori dalla cella, di opportunità trattamentali (operatori, opportunità lavorative, formative, culturali, prevalenza di condannati definitivi); per basso
grado trattamentale si intende ovviamente l’opposto. In ultimo ci sono le
sezioni più «difficili»: quelle dei collaboratori, sex-offenders, ecc.
I risultati sono scontati. Dove ci sono le condizioni peggiori si verificano un maggior numero di autolesionismi, o comunque di comportamenti
anomali.
Allora, cosa si può fare? Torniamo ai concetti della salute mentale,
della relazione e della reciprocità. L’evento autolesivo richiede non solo
un aiuto medico, chiede aiuto; perché la sofferenza non è, di per sé, malattia.
Quanto sono ovvi i risultati, altrettanto dovrebbero essere le risposte.
Certo, è indispensabile il potenziamento dei presidi psicologici e psichiatrici, ma questo riporta ancora alla «sanitarizzazione» del disagio e della
Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato
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sofferenza. Quindi, vanno potenziate le opportunità di incontro e di ascolto, stando «dentro» le situazioni, ascoltando, facendosi carico, non solo da
parte dei professionisti. L’ascoltare e il sapere ascoltare assumono pertanto
valore etico, di tutela della soggettività della persona, in quanto è riconoscimento del soggetto in una dimensione di incontro tra persone; dove il
saper ascoltare significa anche cogliere i segnali premonitori di possibili
gesti indotti dalla sofferenza, e renderne partecipi tutti i soggetti coinvolti
intorno a quella persona allo scopo di prevenire esiti drammatici.
Ai fini della tutela della vita e della prevenzione dei suicidi e dei
comportamenti autolesivi vi sono circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che hanno evidenziato la necessità di prestare la
massima attenzione, sia al momento dell’ingresso che nel corso di tutta la
detenzione, ad ogni segnale di fragilità fisica o psichica che possa manifestarsi in atti auto ed etero aggressivi da parte della persona detenuta. All’attenzione alla diagnosi precoce e all’intervento ai primi segnali
di disagio e di sofferenza sono chiamati gli operatori istituzionali; tuttavia,
tutti coloro che gravitano intorno al trattamento del soggetto (volontari,
insegnanti, terzo settore, ecc.) possono essere rilevatori di profondi stati di
malessere di cui è doveroso prendersi tempestivamente cura in un’ottica
di lavoro congiunto.
I suicidi sono l’epilogo più drammatico del disagio della detenzione.
Nelle carceri italiane dal 1° gennaio al 31 ottobre 2008 sono morti
almeno 40 detenuti per suicidio. Rispetto allo stesso periodo del 2007 il
numero di suicidi tra i detenuti è aumentato dell’11% (dati tratti da Ristretti Orizzonti).
Tra i suicidi, i soggetti tossicodipendenti rappresentano il 31% dei
casi; si uccidono con maggiore frequenza in sentenza definitiva e in prossimità della scarcerazione. Questo a significare il timore delle problematiche
legate alla rimessa in libertà, con la condizione di provenienza e con gli
aspetti non risolti della dipendenza da sostanze.
L’ingresso in carcere ed i giorni immediatamente seguenti costituiscono un altro momento nel quale il rischio suicidiario risulta elevato, non
solo per i tossicodipendenti: molti detenuti per omicidio, che rappresentano il 13% dei casi di suicidio esaminati, si sono tolti la vita nei primi giorni
di detenzione. Altri avvenimenti della vita carceraria possono favorire la
decisione di togliersi la vita: la perdita degli affetti familiari, la notizia di
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Relazioni – II Parte
trasferimento in un’altro istituto, le revoche di permessi o di misure alternative.
L’incremento della popolazione carceraria ha, quasi sicuramente, una
incidenza in termini di aumento dei gesti estremi, perché rende più aspre
e difficili le condizioni di vivibilità. Visti i drammatici dati in aumento sia
dell’affollamento che degli eventi autolesivi, è quindi necessario potenziare qualsiasi forma di presidio di tutela della vita dei soggetti.
Una vera presa in carico presume il riconoscimento di una storia, di
una dignità, di un nome, e di un progetto di vita. Sta a tutti quanti si occupano del carcere contrastare con parole, azioni, speranze e progetti futuri,
un gesto di silenzio estremo.
Carcerazione preventiva. Parola alla difesa
Sergio Monaco
Ringrazio, innanzitutto, gli Organizzatori per avermi
invitato. È un’occasione bella perché mi consente di
replicare anche al dottore De Francisci che, come
voi avete certamente apprezzato, oltre ad essere un
oratore è anche un caustico oratore. In realtà la faccia di Alberto Sordi che vedo nella locandina del
nostro convegno, mi richiama molto la disposizione
dell’articolo 27 della Costituzione. Infatti, secondo
me, in quel momento, Sordi si chiedeva ma questo
articolo 27 della Costituzione cosa significa? Perché
l’articolo 27 stabilisce che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Ed allora noi ci troviamo davanti ad una situazione certamente particolare: quella
di un soggetto che viene privato della libertà personale, ancorché non riconosciuto colpevole, in via definitiva, di alcun reato. E non sono d’accordo
sulla circostanza che oggi si arresti meno e vi siano minori provvedimenti cautelari rispetto al passato. I dati statistici indicati dal dottor Faramo
parlano chiaro! Infatti, abbiamo una popolazione di detenuti in attesa di
giudizio che è veramente considerevole. Ritengo, però, che si debba fare
una differenza. Vi sono detenuti in attesa di giudizio per i quali le esigenze
cautelari vengono valutate caso per caso e quelli per i quali sono presunte.
Cioè quei soggetti che rispondono di reati di criminalità organizzata qualificata. Per questi, certamente, la custodia cautelare è un problema che si
protrae nel tempo perché, praticamente, tranne che per situazioni eccezionali quali la decorrenza dei termini di custodia cautelare o le condizioni
di salute che rendano incompatibile la detenzione in carcere, costoro sono
detenuti in attesa di giudizio che tali rimarranno per diversi anni. Altra situazione, invece, è per coloro che non rispondono di delitti di delinquenza
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Relazioni – II Parte
associativa qualificata, quindi di stampo mafioso, cioè quei detenuti che
rispondono di reati comuni e lì, certamente, ci troviamo davanti al nodo, a
mio avviso, del problema. Perché, in realtà, questi soggetti possono essere
destinatari di misure cautelari, come accennava il dottor Conte, in presenza di determinate esigenze cautelari quali il pericolo, appunto, dell’inquinamento probatorio, il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione delle
condotte già poste in essere. Ma questi tre pericula che sono detti pericula
libertatis, in realtà si possono assicurare mediante la detenzione in carcere
o mediante altri sistemi, altre misure che consentono di deflazionare l’uso
del carcere? In realtà il nostro codice in materia è abbastanza duttile. Perché secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, oggi, per essere
destinatario di una misura cautelare, non occorrono i gravi indizi di colpevolezza quali quelli che noi siamo adusi a tener presente per la sentenza di condanna quando siano convergenti, quando siano univoci, quando
siano di una certa gravità, perché la giurisprudenza è arrivata al concetto
di alta probabilità che il soggetto sia colpevole del reato di cui è accusato
e quindi quando scendiamo nel campo dell’alta probabilità, allora ci rendiamo conto come sia molto delicato lo strumento della custodia cautelare, come questa vada applicata, realmente e non ideologicamente quando
nessun altra misura appare idonea. In realtà, nella pratica, questo spesso
non avviene e non avviene per una serie di circostanze che certamente non
sono addebitabili integralmente ai giudici, perché un primo elemento, che
chiaramente desta allarme, è il pericolo in cui la società si sente quando un
rapinatore compie, appunto, un atto violento nei confronti della sua vittima e dopo qualche mese, mancando le esigenze cautelari perché la prova
è stata assicurata, perché il soggetto non si è dato alla fuga o comunque
non si stava per dare alla fuga o comunque si è costituito, o perché i suoi
precedenti penali non sono particolarmente gravi, allora ecco che questo
soggetto torna in libertà e lì, chiaramente, l’opinione pubblica si stupisce:
«Ma come? Ha rapinato! Ha posto in essere un atto violento! E già questo
soggetto è fuori!». Allora ecco che certamente a fronte di questi giusti
allarmi sociali occorre che venga contemperato l’uso della custodia cautelare in quei termini in cui realmente non se ne può fare a meno, perché,
ripeto, il nostro codice prevede una serie di misure alternative anche nella
fase cautelare, dal divieto di espatrio, all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, dall’allontanamento della casa familiare quando si tratti
Carcerazione preventiva. Parola alla difesa
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di reati commessi in danno dei congiunti, al divieto e all’obbligo di dimora
o degli arresti domiciliari. Soltanto la custodia cautelare in carcere, unitamente alla custodia cautelare in luogo di cura, viene ritenuta la cosiddetta
extrema ratio. Questa extrema ratio, però, devo dirvi, da avvocato, la vedo
applicata non come tale ma spesso, purtroppo, per quelle motivazioni che
abbiamo detto di allarme sociale, per certe tipologie di reato per le quali si
vuole dare una risposta, si vuol dare un’immagine di efficienza dello Stato,
dimenticando, talvolta, che malgrado l’evidenza del fatto di reato e che il
soggetto lo abbia commesso, tuttavia vige una presunzione di non colpevolezza che non consente di considerare quel soggetto alla stregua di un
condannato e quindi di imporgli un regime di custodia cautelare che, nella
struttura carceraria, è certamente diverso e più penalizzante.
Le soluzioni, certamente, devo dire ce le può dare in parte la verifica
tramite il Tribunale della libertà, non parliamo della Corte di Cassazione
che ormai, con il concetto di alta probabilità, ha reso praticamente evanescenti i ricorsi avverso le decisioni del Tribunale del riesame. E devo dare
ragione al dottore Conte quando dice che il Tribunale del riesame, che pur
dovrebbe verificare le decisioni del Giudice delle indagini preliminari, è
schiacciato tra un termine che è assolutamente irrisorio perché basti considerare i processi ai quali seguono volumi e volumi di atti a sostegno della
richiesta di custodia cautelare e basti considerare il brevissimo termine
entro cui il Tribunale del riesame deve valutare le esigenze cautelari e
la scelta della misura il tutto dovendo contemperare il diritto alla libertà
di ogni cittadino ma dovendo, altresì, stare attento a non compromettere
quelle che sono le indagini che svolge il Pubblico Ministero che della misura cautelare ha di bisogno per portarle avanti, o tutelare o salvaguardare
la società da comportamenti di reiterazione. E allora una conclusione la
dobbiamo trarre! Non c’è dubbio, a mio avviso, che il giudice ha la possibilità di deflazionare la presenza di detenuti in attesa di giudizio con una
serie di misure alternative e graduali che, certamente, possono modificare
l’originario stato di custodia cautelare in carcere con varie altre misure
quali gli arresti domiciliari, l’obbligo o il divieto di espatrio, l’obbligo di
presentazione, che consentono il controllo del soggetto e, soprattutto, a
quel soggetto di non amalgamarsi con la popolazione carceraria. Da avvocato vi devo dire che dopo i primi tre mesi ho notato sempre un cambiamento da parte dei miei assistiti detenuti. Diventano meno recuperabili,
56
Relazioni – II Parte
perché la struttura carceraria – checché se ne dica, checché si sostenga che
la detenzione deve tendere a non isolare il soggetto dalla società – in realtà
lo assorbe e poi, alla fine, quel soggetto magari verrà assolto dal reato per il
quale ha subito la custodia cautelare in carcere ma, durante la stessa, avrà
contratto amicizie, conoscenze, rapporti e obblighi che lo riporteranno,
con grande probabilità, a delinquere nuovamente. Pertanto il mio contributo è questo: probabilmente ha ragione il dottore De Francisci che vorrebbe
arrestare tutti, ma a qualcuno, ogni tanto, diamogli una misura diversa dal
carcere!
Carcerazione preventiva e misure alternative
Nicola Mazzamuto
Nel distretto palermitano, come nel resto d’Italia, i
magistrati di sorveglianza, in proporzione alla popolazione carceraria, sono veramente pochi: tre a
Palermo su un organico di cinque più il presidente;
a Trapani due posti in organico drammaticamente
vuoti da molti anni, cui si supplisce con applicazioni
periodiche; ad Agrigento due posti in organico di cui
solo uno coperto; negli altri distretti siciliani (Caltanissetta, Messina e Catania) lavora circa un’altra
decina di magistrati di sorveglianza, complessivamente sul territorio nazionale siamo meno di duecento.
E allora io devo dire qual è il ruolo del magistrato di sorveglianza. Il
magistrato di sorveglianza è in questo dibattito l’ultimo nell’ordine degli
interventi, ultimo tra gli ultimi che difficilmente diventeranno primi. Devo
dire che, in vista di questo interessante seminario, anche in considerazione
del parterre du roi dei relatori, mi son chiesto: mi preparo o non mi preparo. Ho pensato: intervengo a braccio anche perché è il modo più confacente di trattare la materia penitenziaria. È una battuta: braccio è il tipico
termine del gergo penitenziario, dell’edilizia penitenziaria. Quindi non so
quello che vi dirò.
Diciamo che non so quello che vi dirò in venti minuti. Penso invece
che «quello che il cuore mi detta dentro», come diceva il sommo poeta,
«vi andrò significando». Quindi vediamo cosa viene fuori. Allora inizierei
proprio nel segno di Padre Oliva, straordinaria figura di sacerdote gesuita dedito al mondo dei carcerati, che provvidamente veniva ricordato dal
procuratore De Francisci, di cui si racconta un episodio, della cui veridicità
storica non dubito, quello cioè di un detenuto il quale diceva: «Io tutta la
giornata sto in attesa di un momento». Qual era questo momento? Il mo-
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Relazioni – II Parte
mento in cui Padre Oliva apriva lo spioncino, gli sorrideva, lo salutava
e gli dava una parola di conforto. E allora però che riflessione mi viene?
Adesso ricollego l’episodio al tema e anche alle cose condivisibili che ha
detto prima la dottoressa Laganà e la riflessione è: disgraziato quel Paese
che ha bisogno di santi, di eroi, dell’opera preziosa dei volontari, sempre
insostituibili perché un supplemento di carità è necessaria anche nelle istituzioni più efficienti, però non può essere l’alibi dello Stato che è inefficiente e manchevole e ricorre ai volontari. È «disgraziato» quel detenuto
che ha bisogno come sua unica speranza di vedere Padre Oliva che apre lo
spioncino. Quindi, il problema che si pone in tutta la sua serietà è quello
di uno Stato che deve garantire i diritti fondamentali e deve osservare e
fare osservare le sue leggi. Uno Stato che esercita il magistero penale, minaccia pene e sanzioni a chi non osserva le leggi e poi nell’istituzione che
è preposta all’esecuzione di tali pene non fa osservare le leggi che si dà.
Quale grande contraddizione! Quindi il primo punto, io direi, è proprio la
riaffermazione della legalità penitenziaria come è scolpita solennemente
nella Costituzione e nell’Ordinamento penitenziario.
Allora io direi: proseguiamo affrontando il tema del sovraffollamento. Sovraffollamento di un carcere di presunti innocenti, diciamo meglio,
di presunti non colpevoli, per stare proprio al dettato letterale della norma
costituzionale. E nel ritmo di progressione geometrica di questo sovraffollamento siamo soltanto all’inizio, giacché il dato recentemente fornito
al Parlamento dal ministro Alfano è un dato che è destinato a crescere
progressivamente, ma ammettiamo pure che si mantenga costante il trend
di crescita di mille detenuti in più al mese e sono mille in gran prevalenza detenuti in stato di custodia cautelare, quindi giudicabili. Ammettiamo
quindi che si mantenga questo ritmo ed è un ritmo che cresce perché cresce
la crisi sociale e aumentano i fattori criminogeni, come è evidente, è inutile
spiegarlo, in questo concordo col dottore De Francisci e col dottor Conte.
Ci sono in questa società, in cui vi è una crisi mondiale, oltre che nazionale e locale, fortissime spinte criminogene ed è così frequente il ricorso al
crimine, come via d’uscita a tale crisi e come prodotto di essa, con conseguente aumento della popolazione detenuta. Dico ciò indipendentemente
dal fatto se poi i pubblici ministeri e i GIP sono più o meno garantisti,
vogliono più o meno arrestare, chi è più o meno forcaiolo, ma questo non
è un dato strutturale, concordo che il dato strutturale è quello delle forti
Carcerazione preventiva e misure alternative
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spinte criminogene presenti nella società che fanno aumentare la popolazione dei detenuti. E quindi se noi immaginiamo che nei prossimi tre anni
si mantiene questo ritmo abbiamo dodici mila detenuti in più l’anno. Dodicimila, dodicimila, dodicimila, arriveremo nell’arco di un triennio quasi
a centomila detenuti. Con una capienza regolamentare che il Ministro della
Giustizia ha indicato in circa 37.000 detenuti, era di 42.000, ma con onestà
intellettuale il Ministro ha detto in realtà sono 37.000. Comprendete: centomila detenuti tra tre anni e una capacità ricettiva del sistema penitenziario di 37.000 detenuti. Una tragedia, un inferno, la più grande emergenza
sociale del nostro Paese, altro che quella dei rifiuti di Napoli.
Allora, qual è il primo punto? Il primo punto è: già di per sé il sovraffollamento lede i diritti individuali e collettivi dei detenuti, è una causa
«macrostrutturale» di lesione dei diritti del detenuto; intanto perché – mi
permetterò di leggere qualche norma nel corso del mio intervento perché
le norme hanno una loro solennità; ha fatto bene l’avvocato Monaco a leggere l’articolo 27 Cost., riscopriamo la solennità delle norme – l’art. 5 OP
dice che «Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da
accogliere un numero non elevato di detenuti o internati», un numero non
elevato! Questo è un diritto del detenuto, cioè ogni detenuto, in custodia
cautelare o in espiazione di pena, ha il diritto ad essere ristretto in un carcere non sovraffollato. Questo è un punto fondamentale. E allora qual è il
rimedio? È evidente che del sovraffollamento come fenomeno macrostrutturale non si potrà fare carico né il magistrato di sorveglianza e neanche
il GIP, giacché, come è evidente, la concessione di una misura (espiativa
o cautelare) alternativa al carcere dipende dalla ricorrenza di tutti i suoi
presupposti di legge. Nessuno di noi darà la detenzione domiciliare o gli
arresti domiciliari solo perché vi è il sovraffollamento.
E allora a ciascuno il suo: esiste un’enorme responsabilità politica e
politico-amministrativa per l’incuria di tanti anni, i cui nodi oggi vengono
al pettine, per la mancanza nel nostro Paese di una vera politica criminale
e penitenziaria. Oggi drammaticamente rischiamo di scontrarci contro un
muro, siamo lanciati a velocità folle contro un muro. Lo abbiamo detto in
occasione di un convegno che i vertici dell’amministrazione penitenziaria
organizzarono circa un anno e mezzo fa a Roma. Il Presidente Tamburino,
coordinatore nazionale dei magistrati di sorveglianza, in quella sede ebbe
a dire che il sistema penitenziario, senza investimenti strategici, rischia di
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Relazioni – II Parte
essere un convoglio in corsa verso un muro. Cosa facciamo? L’indulto: è
un’occasione che rischiamo di sprecare o dobbiamo invece progettare il
futuro? Ed il rischio è che, dinanzi a questa grande emergenza, continui la
politica del piccolo cabotaggio, in cui si cercano pannicelli caldi e non si
pone mano alle risorse strategiche, ai fattori strategici che in una visione
progressiva possono consentire di risolvere il problema del sovraffollamento; i mali sono cronici, il problema non si affronta né in sei mesi né
in un anno, occorre una lunga stagione, ma di riforme profonde, non di
pannicelli caldi.
Diciamo qual è il ruolo del magistrato di sorveglianza. È evidente –
come ho detto prima – che ci sono cause macrostrutturali di lesione dei diritti, in ordine alle quali poco può fare il singolo magistrato di sorveglianza,
la singola amministrazione penitenziaria periferica; occorrono, di fronte
a cause macrostrutturali, interventi macrostrutturali. L’indulto è stato un
intervento macrostrutturale, secondo me un male necessario, necessitato
dall’insostenibile congiuntura penitenziaria che si era determinata e che
rischia oggi di riprodursi rapidamente. La legge di indulto è stata approvata con larghissima maggioranza parlamentare. È un paradosso italiano che
tutte le leggi penitenziarie (quella del ‘75; la Gozzini; la legge Simeone;
l’indulto ecc.) siano tutte leggi bipartisan, approvate quasi all’unanimità, e
poi tutti a denigrarle, a rimangiarsele, a ritirare e nascondere la mano dopo
avere lanciato il sasso.
Ripeto: esiste un livello macrostrutturale in ordine alla quale il magistrato di sorveglianza poco può fare.
Facciamo l’esempio del diritto alla salute, che non è soltanto un diritto al rispetto della mia integrità psico-fisica, ma è anche un diritto alle
prestazioni del servizio sanitario nazionale. È chiaro che se non ci sono
soldi per la sanità penitenziaria, come ha ricordato prima il provveditore
Faramo, proprio un diritto fondamentalissimo come la salute rischia di essere sacrificato; lì c’è poco da fare, lì è un problema di politica finanziaria
dello Stato e della Regione, un problema con cui ci scontriamo quotidianamente andando in carcere, raccogliendo i reclami dei detenuti che non
hanno i farmaci, epperò la risposta dell’amministrazione qual è? Ma se
non abbiamo i soldi per comprarlo come glielo diamo il farmaco? E quindi
l’unica cosa da dire nell’immediato è che nel frattempo se lo compri lui,
se ha i soldi, oppure che glielo porti il volontario, se glielo può portare…
Carcerazione preventiva e misure alternative
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per interposta persona… lo consegna al direttore che lo consegna al detenuto… Comunque, voglio dare la misura dei problemi pratici che vanno
spesso al di là delle possibilità di intervento giurisdizionale della magistratura di sorveglianza.
Certo bisogna ribadire con forza la necessità della tutela dei diritti dei
detenuti, primo fra tutti quello alla salute, lo status detentivo comprime i
diritti, ma non li sopprime, non li cancella, e poi esistono diritti che non
sono neppure compressi dallo status detentionis, altri che sono compressi,
ma egualmente nel loro contenuto minimo vanno tutelati. Per un elenco di
tali diritti basta leggere la legge penitenziaria: il diritto al vestiario, il diritto all’igiene personale, non sono cose scontate, perché il problema oggi
è di tutelare i diritti minimi, il problema sono i livelli minimi di esistenza
dignitosa della persona all’interno del carcere. Ma poi anche, ad esempio, il diritto allo studio, come nel caso dell’imputato detenuto, il quale
ha diritto a un trattamento. Qui leggiamo l’art. 1 OP secondo cui il trattamento dell’imputato deve essere rigorosamente informato al principio
della presunzione di non colpevolezza, e poi l’art. 15 OP che recita «Gli
imputati sono ammessi a loro richiesta a partecipare alle attività educative, culturali, ricreative, salvo giustificato motivo contrarie alla disposizione giudiziaria, a svolgere attività lavorativa, di formazione professionale,
possibilmente a loro scelta e comunque in condizione adeguata alla loro
posizione giuridica». Questo è un diritto soggettivo perfetto. E poi dirò
pure del diritto al colloquio col magistrato di sorveglianza che è un punto
molto importante.
Qui devo fare una piccola parentesi tecnico-giuridica che è necessaria.
Si pone il problema : ma il magistrato di sorveglianza ha competenza
in materia di tutela giurisdizionale dei diritti del detenuto imputato?
Occorre leggere l’art. 69 OP, in cui intanto si dice una cosa importante, cioè il magistrato di sorveglianza esercita la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità
alle leggi e ai regolamenti. È il potere di vigilanza. Poi vi è una norma,
contenuta nel 5° comma, che dice che il magistrato di sorveglianza impartisce nel corso del trattamento disposizioni dirette ad eliminare eventuali
violazioni dei diritti dei condannati e degli internati. Sembrerebbe che gli
imputati siano esclusi. Non è così. Questo è il punto: la lettera della norma
62
Relazioni – II Parte
oggi va interpretata alla luce di una fondamentale sentenza della Corte Costituzionale del ‘99, la quale ha detto che l’art. 69 è incostituzionale nella
parte in cui non prevede una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti
dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizioni della libertà personale, ricomprendendo così anche gli
imputati. Quindi oggi il magistrato di sorveglianza ha il potere di impartire
disposizioni dirette ad eliminare violazioni dei diritti non solamente nei
confronti di condannati e internati, ma anche nei confronti degli imputati
detenuti. Pertanto, non vi è più soltanto un potere di vigilanza, ma anche un
potere di tutela inibitoria, cioè di disporre alcunché nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, se si riscontrano delle violazioni si ingiunge
all’amministrazione di eliminare le cause della lesione in atto. Dunque, per
accordare tale tutela inibitoria occorre in buona sostanza che ci sia un diritto, che questo diritto sia leso e che la lesione sia in atto. L’amministrazione
penitenziaria, in presenza dell’ordine inibitorio del magistrato di sorveglianza, è tenuta ad adottare tutte le misure necessarie affinché cessino le
condizioni della lesione riscontrata ed il diritto sia ripristinato.
Chiarito che oggi questa competenza giuridica esiste in capo al magistrato di sorveglianza anche nei confronti degli imputati detenuti, il problema è la sua attuazione. Qui si deve registrare una carenza cronica di tempo
e di forze. Abbiamo detto all’inizio che siamo in pochi, abbiamo notevoli
Carcerazione preventiva e misure alternative
63
difficoltà ad andare regolarmente in carcere ed a garantire il diritto al colloquio, che è il veicolo attraverso cui il detenuto denunzia le lesioni dei
suoi diritti. Certo, vi è anche il reclamo scritto, ma molte volte la via della
rappresentazione orale dei problemi è la via migliore. La legge penitenziaria prevede, infatti, che il magistrato di sorveglianza deve avere colloqui
frequenti con i detenuti, condannati, internati e anche imputati.
Questo è un problema serio, perché noi stessi che siamo, dice la Corte
costituzionale, la magistratura dedicata alla tutela dei diritti del detenuto
abbiamo difficoltà ad andarlo a sentire perché lui ci dica quali sono i suoi
problemi, che in non pochi casi sono problemi relativi alla lesione di diritti. Talvolta queste lesioni dei diritti sono dovute a cause oggettive, non
imputabili al comportamento dell’amministrazione, altre volte sono dovute alle cause più varie di natura pratica e organizzativa ed il magistrato di
sorveglianza può intervenire, anche informalmente, con un magistero di
persuasione presso la direzione penitenziaria per risolvere tanti di questi
problemi. In alcuni casi è però necessario giurisdizionalizzare il procedimento, fissando l’udienza con PM e difensore ed esercitare con l’ordinanza conclusiva poteri di coercizione giuridica diretta, la cui cogenza può
giungere, in caso di inottemperanza, fino alla nomina di un commissario
ad acta.
Devo però dire francamente, e di ciò rendere merito all’amministrazione penitenziaria, che tutte le volte che il magistrato di sorveglianza ha
disposto alcunché, secondo diritto e con equilibrio e saggezza, l’amministrazione penitenziaria si è sempre adeguata.
Devo dire la mia esperienza: laddove ho disposto qualche cosa, che
era qualcosa di obiettivo, di oggettivo, di corrispondente alla normativa,
ripeto, l’amministrazione si è sempre adeguata.
Quindi vi è uno spazio ampio di interventi efficaci a tutela dei diritti.
Dicevo prima del diritto al colloquio con il magistrato di sorveglianza. Vi racconto un piccolo episodio per darvi la misura concreta del problema. Sono andato a Trapani, dove il presidente Bellet oggi qui presente
con grandi sforzi organizzativi sta cercando di garantire la funzionalità
dell’Ufficio, scoperto da tanti anni, applicando in modo turnario i magistrati palermitani. Allora, vado in carcere a Trapani, dopo tanti anni che
non si andava, con una situazione di profondo disagio, con evidente grande
bisogno dei detenuti di parlare; mi avvicino alla cella dove erano raggrup-
64
Relazioni – II Parte
pati i detenuti ed uno disse: «C’ha pozzu cuntari ‘na barzelletta?». Acconsento e lui dice: «C’era una persona che era disperata, si buttò da una rupe
e invocò S. Antonio. Una mano arrivò e l’acciuffò: “Grazie S. Antonio da
Padova”. “Io ‘un sugnu S. Antonio da Padova, sugnu S. Antonio Abate” e
lo lasciò cadere». Abbiamo riso. Sento il detenuto, quello che ha raccontato la barzelletta, il quale mi racconta la sua storia e mi esprime la sua ansia
la sua aspettativa di avere un permesso, di fissare udienza col magistrato
di sorveglianza e così via; insomma mi espone i suoi problemi. Siamo stati
mezz’ora a parlare. Dopodiché sono stato costretto a dirgli: «Guardi la mia
applicazione come magistrato a Trapani finisce tra pochi giorni». E questi
dice: «Miii… mi finì come a quello della barzelletta!»
Cosa voglio dire? Voglio dire che il problema di garantire l’effettività
della tutela giurisdizionale dei diritti, nel caso nostro dei diritti dei detenuti, è una cosa difficile, una cosa complicata, giacché mancano le strutture.
Aveva ragione il collega Conte: il problema è quello di uno Stato che non
si dà le strutture; le prevede e non le organizza. È un fatto tragico questo,
giacché mancanza di strutture significa carenza di persone, risorse, tempo,
mezzi.
A fronte della situazione presente quali sono le prospettive strategiche?
Qui abbiamo esercitato il pessimismo della ragione in compagnia del
dottor De Francisci, che è un osservatore all’antica, che esercita saggiamente il pessimismo della ragione, ma ci vuole in questo momento un
obamiano ottimismo della volontà, perché altrimenti siamo di fronte ad
un’emergenza, ad una tragedia di cui non intravediamo neanche un principio di soluzione.
Ma che cosa bisogna fare?
Sono d’accordo ancora con il collega Conte: bisogna che si diffonda
veramente l’idea del carcere come extrema ratio, e questo è un problema
cruciale dell’auspicata riforma del codice penale. Ma affinché il carcere
possa costituire l’estrema ratio occorre che la penultima, la terzultima…
funzionino. Perché il carcere non diventa extrema ratio, ma oggi è la prima
ratio? Perché le altre rationes non funzionano. Allora dobbiamo impegnarci per farle funzionare, il che, sul versante della pena, significa promuovere
e potenziare le misure alternative alla detenzione e, sul versante cautelare,
significa, lo vedremo, fare funzionare le misure cautelari non detentive.
Carcerazione preventiva e misure alternative
65
Oggi la gente invoca la certezza della pena e la classe politica ripete
in continuazione questo slogan.
Ma che significa certezza della pena? Bisogna capire cosa c’è dentro
questa formula: ci sono delle cose profonde, ci sono delle cose demagogiche. Nella sostanza vi è un’esigenza di efficacia delle misure, cioè un
bisogno che la pena sia efficace, quando si dice certa questo in fondo si
vuole dire. Cosa occorre allora?
Sul versante della pena occorre che funzionino le misure alternative
ed oggi le misure alternative, specialmente nei confronti della criminalità
medio-bassa, funzionano complessivamente bene, anche se questa realtà è
poco conosciuta ed apprezzata.
Il problema è come funzionano nei casi difficili, difficilissimi, con
forte impatto simbolico sull’opinione pubblica, possiamo citare il caso
Maso o il caso Izzo, ed è un problema in simili casi di discernimento nella
somministrazione di tali misure e di adeguata gestione esecutiva di esse,
ma questo è un problema diverso dal funzionamento ordinario delle misure alternative che nella stragrande maggioranza dei casi, ripeto, funzionano e funzionano abbastanza bene. Lo si è visto dalle indagini statistiche
e criminologiche dell’Università di Torino, propagandate dal DAP ,la cui
conclusione è : diminuisce la recidiva con le misure alternative. Il discorso
è complesso e merita ulteriori approfondimenti. Però questo è un dato:
dove si tratta con le misure alternative si abbatte la recidiva e dove invece
si tratta o, è meglio dire, non si tratta col carcere si alimenta la recidiva.
Naturalmente anche il carcere può, anzi deve, essere rieducativo, ma ci
vuole il trattamento rieducativo in carcere.
Laddove c’è, il carcere riesce ad essere salutare, a volte abbiamo detenuti che paradossalmente ringraziano di essere finiti in carcere perché
attraverso di esso si sono disintossicati dalla droga, ma ciò è possibile dove
il carcere è rieducativo, dove c’è un investimento di fiducia, di risorse, di
persone, dove il soggetto è trattato.
Continuo rispondendo all’altra domanda sull’alternativa della custodia cautelare domiciliare. Usciamo intanto da un piccolo equivoco, cioè
non immaginiamo veramente che i GIP daranno più arresti domiciliari ed
i magistrati più detenzione domiciliare per effetto taumaturgico della previsione del braccialetto elettronico, per semplici ragioni riconducibili alle
caratteristiche tecniche dello strumento. È vero che il braccialetto elettro-
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Relazioni – II Parte
nico in alcuni casi può essere utile, ma quello di prima generazione ci dice
soltanto se il detenuto è in casa o non è in casa, ma se è in casa in quel
minuto il poliziotto guarda il monitor, tutto tranquillo, è in casa… ed il
detenuto sta violentando sua moglie e nessuno lo sa. Quelli di generazione
più avanzata ci dicono non soltanto se è in casa o meno, ma rilevano anche
il percorso, il tragitto, quindi si può seguire il soggetto nei suoi spostamenti territoriali. Nel primo caso non sappiamo se è uscito a portare giù la
spazzatura, o sta spacciando droga sull’uscio, oppure se è a chilometri di
distanza a commettere una rapina, o a passeggiare con la fidanzata. Nel secondo caso, lo si può seguire sul territorio, epperò si dà il caso del soggetto
agli arresti domiciliari che frequenta il Sert che nel tragitto, da casa al Sert
e dal Sert a casa, passa dal tabaccaio si compra le sigarette e fa la rapina e
continua, il poliziotto vede il monitor, tutto bene.
Allora il problema è: come si organizza una custodia cautelare domiciliare con controlli effettivi, intelligenti e mirati, capaci di prevenire e
contenere la pericolosità, perché sappiamo perfettamente che agli arresti
domiciliari spesso i detenuti spacciatori di droga continuano a spacciarla.
Questo è il punto centrale. Questo perché? Perché non c’è un sistema di
controlli adeguati. Quindi tante situazioni potrebbero essere riversate sulle
misure cautelari non detentive, decongestionando il carcere, a condizione
però che si attrezzi un sistema di custodia cautelare domiciliare efficiente.
Mi avvio rapidamente alle conclusione.
Occorrono idee strategiche, quantomeno per cominciare; diceva il
dottor Faramo l’Ucciardone funziona ancora, anzi diceva paradossalmente
quello che funziona meglio è l’Ucciardone. Ora non entro nel merito di
tale giudizio, considerate le difficilissime condizioni attuali di tale istituto,
ma è sicuro che dietro l’Ucciardone vi è una grande idea di edilizia penitenziaria e di esecuzione della pena: quella del panottico, cioè una grande
idea del carcere come teatro scenico, una grande idea di gestione ed esecuzione della pena detentiva. Capite quale cultura c’e lì dentro, nientemeno
che il panottico inventato da Jeremy Bentham.
Ma oggi qual è l’idea strategica? Anche se domani si alza Tremonti e
dice al capo del DAP: guarda ti stacco un assegno di non so quanti milioni
di euro, rifammi l’edilizia penitenziaria. Ma intorno a quale idea? In ordine
a quale rapporto con la città, col tessuto urbano? E dentro questo carcere
cosa ci mettiamo? Quale selezione di tipologia di detenuti?
Carcerazione preventiva e misure alternative
67
Attualmente il carcere è promiscuo, con elevato contagio criminale,
in cui i criteri di ripartizione ed organizzazione sia di fonte legislativa che
di fonte amministrativa sono pressoché saltati, c’è piena promiscuità, altro
che assicurare la separazione tra detenuti imputati e condannati definitivi.
Allora un’idea strategica potrebbe essere proprio quella di separare
– tranne le posizioni miste dei soggetti che hanno una doppia o tripla posizione giuridica – il carcere giudiziario dal carcere espiativo, devono essere
due luoghi fisicamente distinti.
La legge del ‘75 aveva una chiara idea dell’organizzazione penitenziaria, case mandamentali, case circondariali, case di reclusione, con una
loro articolazione nel territorio.
Oggi probabilmente bisogna ripensare il rapporto tra il carcere ed il
territorio, una sorta di federalismo penitenziario, in cui occorre che non
soltanto lo Stato ma anche le regioni, province, comuni, comunità montane, città metropolitane, si riapproprino a livello comunitario della gestione
penitenziaria. Questo discorso è fondamentale.
Occorrono, lo ripeto ancora, idee strategiche, altrimenti non mettiamo
capo veramente a nulla. Quindi occorre uno sguardo, un investimento nel
futuro. La separazione tra imputati e condannati è un punto di snodo fondamentale della questione penitenziaria. Un modo essenziale attraverso cui
si evita quanto ha prima denunziato l’avvocato Monaco, il carcere come
scuola di criminalità. Il carcere non può essere un’«università del crimine», non deve esserlo, perché il carcere è un’idrovora di denaro pubblico;
allora questi soldi devono essere ben spesi, questo è un punto essenziale.
In questo momento spira il vento americano. Cosa accade negli Stati
Uniti? Ho avuto la curiosità di cercare su Internet per sapere quanti sono i
detenuti in America. Lì hanno un’idea chiara di politica penitenziaria, con
una logica coerente e la perseguono seriamente. A noi non piace, giacché
non appartiene alla nostra civiltà giuridica. Quanti sono allora i detenuti in
America secondo voi? Sono 2.300.000 carcerati. È il Paese con il più alto
tasso di carcerizzazione del mondo. Sapete quanto hanno speso nel 2007
gli Stati Uniti per la gestione penitenziaria? 44 miliardi di dollari!
In Italia, la gente vuole certezza della pena, sicurezza sociale, i delinquenti tutti in carcere e poi, però, non vuole spendere una lira. Non vuole
investire un euro sul settore penitenziario. Insomma la botte piena e la
moglie ubriaca.
68
Relazioni – II Parte
Aggiungo: i 2,3 milioni di carcerati in America si trovano in parte nelle carceri federali, ma ce n’è una quota significativa nelle prigioni locali:
vi sono custodire 723.000 persone. E questa secondo me è un’indicazione
preziosa, che deve indurre a rilanciare l’idea della custodia attenuata nei
confronti dei soggetti a bassa pericolosità, per i quali è possibile garantire
il controllo sociale con strutture penitenziarie leggere e con il coinvolgimento delle risorse territoriali.
Un ultimo discorso: non pensiamo che questo sistema penitenziario,
quest’inferno sociale che potrà diventare il carcere nei prossimi anni, non
pensiamo che, rispetto alla società degli onesti, possa essere coibentato e
isolato e ciò per due ragioni fondamentali.
La prima: noi sappiamo che la legge penitenziaria del ‘75 si originò da
un grande movimento culturale, ma furono determinanti i timori derivanti
dalla terribile stagione delle rivolte nelle carceri. Oggi noi siamo ad una
soglia critica, con rischio concreto che questa stagione si possa ripetere, si
possa riaprire, perché oggi vediamo detenuti che dormono a terra, detenuti
che dormono sui materassi, detenuti in letti a castello su tre piani, e così il
tasso di violenza nelle carceri rischia di diventare esplosivo.
Punto secondo: non pensiamo che sia possibile coibentarlo, perché il
carcere se è discarica sociale, inquina l’ambiente circostante. Se il detenuto noi lo prendiamo rapinatore e lo mettiamo in carcere e la famiglia resta
senza capo famiglia e quel soggetto in carcere si imbarbarisce, se il carcere
non comunica più con la società, quella famiglia resta abbandonata a se
stessa. Accade così che il figlio senza il padre rischia di diventare rapinatore dieci volte più del padre. Non pensiamo che il carcere, se diventa una
discarica sociale, ancorché si cerchi di coibentarlo e impacchettarlo, riesca
a garantire la sicurezza sociale.
Solo un carcere non sovraffollato, ben organizzato, realmente rieducativo, unitamente ad un efficace sistema di misure alternative alla detenzione, riesce a garantire veramente la sicurezza sociale.
Interventi
Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato.
Interventi
Giovanna Gioia – ASVOPE
Il dottor Mazzamuto, ricordando una frase di Brecht,
ha detto «… Disgraziato quel Paese che ha bisogno
di santi e di eroi» e io direi anche di volontari. Preferisco, comunque, aggiungere «… Ma ancor più
disgraziato quel Paese che, avendo bisogno di santi, di eroi e di volontari non li trova o non li vuole
trovare». La storia del volontariato penitenziario è
un po’ legata a quest’ultima riflessione: pur essendoci disponibilità di volontari, non santi, non eroi,
ma semplici cittadini, animati da spirito solidaristico, e pur essendoci necessità di risorse umane, oltre che economiche, spesso l’amministrazione
penitenziaria, ai vari livelli, ha mostrato difficoltà ad accoglierli.
«Noi volontari siamo invisibili», diceva all’inizio Bruno Di Stefano.
Ciò non è del tutto vero. Un cammino, diciamo nella visibilità, o meglio
nella professionalità, l’abbiamo compiuto. A noi non interessa una visibilità fatta di parole e di immagine, ma una visibilità fatta di valori e di atti
concreti. Cercando visibilità, questa volta sì, soltanto per contribuire ad
un cambiamento culturale nella società riguardo al mondo penitenziario e
per suscitare attenzione e solidarietà verso i problemi della giustizia, della
colpa e della pena, come – per esempio – stiamo facendo oggi.
Parecchi amano vederci ancora umili, modesti, pii, degli illusi dal
buon cuore, ecc.
Da quando abbiamo iniziato ad ora, noi volontari, invece, abbiamo
percorso una lunga strada, tracciata da leggi e da varie circolari ministeriali e, permettetemi di dirlo, accanto agli operatori professionali. Spesso
abbiamo partecipato assieme a loro a convegni, a seminari, a corsi di for-
72
Interventi
mazione e abbiamo collaborato con loro in sinergia nel rispetto dei diversi
ruoli. Nelle nostre associazioni, inoltre, abbiamo curato la formazione, la
conoscenza delle leggi che ci riguardano, l’approfondimento di quel sentire che ci porta in una struttura chiusa, totale e totalizzante, ma piena di
umanità sofferente, come la troviamo negli ospedali, negli ospizi, in altre
strutture e nelle strade. Ed è per questa umanità che offriamo un servizio
all’istituzione carceraria, oltre che alle famiglie all’esterno. Noi crediamo
nell’uomo, nelle sue possibilità di riscatto, nel suo fieri continuo, se opportunamente aiutato e sostenuto. Offriamo, quindi, un sostegno morale,
culturale, educativo e, nei limiti delle nostre possibilità, anche materiale.
Quando, infatti, l’amministrazione non può dare neppure il minimo, perché in ogni fmanziaria vengono ridotte le risorse economiche, noi cerchiamo di alleviare alcune sofferenze legate alla quotidianeità.
Un’ultima riflessione. Ancora oggi, purtroppo, si considera il carcere
«un’altra città». C’è una rivista dell’ amministrazione penitenziaria che si
intitola «Le due città», quella della società libera e quella dei reclusi. Per
me la città è una sola, perché il carcere è parte integrante del territorio; è
parte della città; è parte della comunità civile ed ecclesiale. Anche se esso,
nella sua totalità, accoglie i più poveri e i più emarginati, cioè quelli che
assommano in sé problemi sociali, economici, familiari, ecc., perché gli
altri rei – quelli delle grosse ruberie, delle tangenti… – che sono anche responsabili del degrado sociale, economico, etico, educativo, politico della
società, in galera non ci stanno. Di tanto in tanto, forse, qualcuno, ma…
di passaggio.
Francesco Frisella Vella – Magistrato
Sono Francesco Frisella Vella, prossimo ad
uscire dalla sorveglianza perché sto completando il
mio ottavo anno di presidente del tribunale di sorveglianza di Caltanissetta. Ho una vecchia passione
per la sorveglianza, ho incominciato nell’‘80. Dunque, di carcere ne so parecchio.
Quando in quegli anni sono entrato nell’istituto
di sorveglianza c’erano pochissimi assistenti sociali,
Francesco Frisella Vella – Magistrato
73
qualcuno veniva da patronati, versava il suo cuore nell’amministrazione;
c’era qualche volontario; c’erano dei giudici che si dovevano formare;
c’erano agenti di polizia penitenziaria che avevano una grande coscienza
di essere stati violenti, di avere fatto le «squadrette» gli anni precedenti,
decenni precedenti. Allora, con grande umiltà, ci siamo messi intorno a
un tavolo e abbiamo detto: «Qual è il progetto perché la pena possa essere
rieducativa?».
Era forse l’‘82 o l’‘83 e io poi sono passato ai minorenni, ho fatto il
giudice minorile. Sono tornato nel 2001, immaginavo grandi cambiamenti
e progressi. Non era successo niente. Tutto burocraticizzato, tutto spento,
tutto gestito fuori da logiche di collaborazione e concertazione fra le varie
componenti.
E allora, il discorso è serio: dobbiamo incontrarci sempre da diversi,
da volontari che chiedono ai giudici chiarimenti che chiedono al dottore
Faramo perché le carceri in Sicilia non funzionano, ecc. Vogliamo, in un
Paese che vuole progredire, metterci intorno a un tavolo, cercare i volontari che credono e agiscono… Io, grazie a loro e con loro, sono cresciuto.
Questo deve diventare il carcere: progetti comuni per educare.
È una prospettiva – lo dico con orgoglio evidentemente – che ha dato
grossi risultati. Noi abbiamo visto donne, a Caltanissetta, uscire e ricostruirsi una vita, dicendo: «… Ma mio marito continua a rubare. Andiamo dal
giudice… Il giudice ha aiutato me, ha mandato me in detenzione domiciliare, ha mandato me in affidamento… Vieni aiuterà anche te… Dobbiamo
ritrovare questa identità, questa dignità». Pensate: lo scippatore incallito,
se uno riesce a fargli capire il diritto alla vecchietta a camminare senza
essere scippata. Sono persone che se noi siamo credibili, se la giustizia lo
è, possono vivere la funzione rieducatrice della pena… Condannare una
persona significa, dal nostro punto di vista, educare una persona. Se noi
abbiamo approcci educativi davanti all’imputato; se noi presidenti di un
collegio abbiamo il rispetto della sua persona; se il giudice lo sa folgorare
e gli comunica: «Io esco e ti lascio in carcere, ma soffro uscendo solo.
Vorrei uscire con te, tu però sei in cura. Con la tua collaborazione, ti porterò fuori quanto più presto possibile. E, infine, quando uscirai ci saremo
guadagnati tutti e due la libertà e la dignità», saremo davvero efficaci.
74
Interventi
Bruno Di Stefano - Coordinatore regionale SEAC
In alcuni interventi degli esperti è emerso l’aspetto economico. Se
voi guardate bene nella cartella che vi abbiamo consegnato all’ingresso,
trovate dei dati statistici che dovrebbero far riflettere.
Per esempio: quanto spende l’amministrazione penitenziaria mediamente per ogni detenuto al giorno; quanto spende invece per il vitto… e
cose simili. Leggetele perché avrete delle sorprese su quello che si pensa
comunemente. Si spende molto nel complesso, tuttavia per il vitto – i tre
pasti del detenuto – si spendono 3,5 euro al giorno. Credo che sia davvero
poco.
A proposito della situazione economica che qua e là è emersa negli
interventi volevo far cenno a quello che diceva la dottoressa Laganà. Nelle misure alternative la recidiva è di circa il 20%, invece fra i detenuti la
recidiva è dell’80%. Sappiate che è stato calcolato che un punto in meno
di recidiva sarebbe un vantaggio economico per il bilancio nazionale pari
a 51 milioni di euro. Provate, dunque, a immaginare cosa accadrebbe se
lo Stato riuscisse a investire in magistrati di sorveglianza, in educatori,
psicologi, assistenti sociali e quant’altro. Credo che con un miglioramento
e un maggior controllo sulle misure alternative al carcere, si potrebbe ridurre la detenzione e si potrebbe avere tutti un notevole beneficio sociale
e finanziario.
Repliche
Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato.
Repliche
ORAZIO FARAMO
Solo una riflessione. Io ho ascoltato con molto interesse tutti, ma siccome il dottor Di Stefano mi ha «minacciato» dicendo che ogni due mesi
cercherà di organizzare qualche cosa, vi voglio dare un suggerimento, proprio perché ho ascoltato tutto con molto interesse, e credo che tutti abbiamo detto ognuno secondo il nostro punto di vista delle cose interessanti
sulle quali bisogna che gli altri riflettano. E allora, riflettiamo su una cosa,
mettendolo all’ordine del giorno per un prossimo incontro: chiediamoci:
qual è il modello di carcere che ha in mente la gente? Grazie.
MARIO CONTE
Io volevo osservare una cosa su quanto si diceva poc’anzi. Bisogna
vedere un pochino qual è la prospettiva nella quale ci poniamo perché la
prospettiva che ha spiegato il dottor Di Stefano è assolutamente corretta,
logica, però noi dobbiamo considerare l’attuale momento storico. In particolar modo, come accennava il dottore De Francisci, una normativa abbastanza recente ha consentito l’arresto delle persone che investono. Crimine
orrendo, certo. Però, per l’omicidio colposo di un investitore – situazione
per la quale molto spesso noi dobbiamo fare i conti con l’opinione pubblica – come per altri reati le pene previste non sono particolarmente elevate
perché così ha previsto il legislatore. Siccome, però, nessuno spiega questo
meccanismo, appena si scarcera succede il finimondo. Dobbiamo cercare
di contemperare e questo, ahimé, è probabilmente il compito più gravoso
che il magistrato ha, e non lo dico solo per difendere la mia categoria.
Conclusioni
Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato.
Conclusioni
Rino Cascio
Sarò brevissimo, molto schematico, e quindi abbiate pietà per la crudezza dello schema e della velocità. Se dovessi scrivere un articolo direi
che oggi so qualcosa di più, ma non so come concluderei l’articolo. Mi
spiego: è chiaro ora a tutti il sovraffollamento delle carceri e l’esiguità
degli strumenti a disposizione. Spesso ho chiesto ai relatori dati statistici.
Provo a fare sintesi: in Sicilia ciascun magistrato di sorveglianza gestisce
circa 450 detenuti, ci sono in media quattro educatori a penitenziario e 1
agente per circa 20 detenuti. Probabilmente i numeri non sono sufficientemente esplicativi, sono utili però a darci un’idea. Pochi spazi, è stato detto,
e abbiamo visto comunque che l’edilizia penitenziaria è in disfacimento,
non vengono applicate le leggi e manca un progetto, e spesso quando parliamo di penitenziario, diceva il dottor Mazzamuto, è come se parlassimo
82
Conclusioni
di una discarica. Nessuno si occupa di dove finiscono i rifiuti e se in quel
luogo finisce pure un rifiuto non compatibile. Quando però i cassonetti
sono stracolmi ci accorgiamo, come a Napoli, che esiste la «munnizza»,
che esistono le discariche. Fino a quando non si scopre la discarica nessuno se ne occupa. Manca un progetto… altro che l’attenzione al singolo
detenuto, non c’è l’attenzione alla categoria dei detenuti. Vero è che oggi
c’è una maggiore propensione a delinquere da parte della società, come ci
diceva il procuratore De Francisci, però non consideratemi un sociologo
vetero-comunista, è di ieri la statistica che indica come è aumentata notevolmente la soglia di povertà. Io da «sociologo vetero-comunista», penso
che il muro della legalità, quando si è poveri, diventa sempre più basso…
«quannu ‘u muru è vasciu» è facile poi scavalcarlo.
Le misure alternative funzionano, avete offerto dei dati, le indicava
l’avvocato Monaco… Ma qualcuno le deve far funzionare. Se non si fanno
degli investimenti non funzionano. L’opera dei volontari funziona, ma se
non si danno spazi di agibilità, non solo fisici, anche i volontari, falliscono.
L’opera dei magistrati funziona, ma se poi il magistrato cambia opinione
sotto le pressioni di una campagna di stampa… Ad esempio ricordate il
GIP che – dopo avere scarcerato, disponendolo agli arresti domiciliari,
un conducente di auto che aveva investito e ucciso delle persone, autista
che aveva ammesso la sua colpa dichiarando di avere guidato in stato di
ebbrezza, in seguito ad una campagna di stampa (che in quel caso io non
condivisi) – una settimana dopo cambiò opinione e l’autista tornò in carcere? Forse un minimo di chiarezza la gente la vuole vedere. Però, dall’altra
parte, ho timore pure che le carceri e gli arresti possano diventare una pretesto per rispondere alle paure di una società che per motivi di sicurezza le
carceri le vuole sempre piene. «Metteteli in carcere, metteteli in carcere,
metteteli in carcere». E mi chiedo anche: ma chi è disposto poi – dovendo
scegliere tra l’investimento su un porto turistico o sulle carceri – chi è disposto a dire «investiamo sulle carceri». Ho parlato appositamente di porti
turistici, di una cosa ritenuta «futile», per non parlare di sanità, di scuola,
di aspetti più vicini alla gente.
Chiudo, e veramente chiudo, con una nota positiva, perché non sono
abituato a chiudere con note negative. Chiudo con un esempio. Una storia
che mi è capitata ieri, mentre lavoravo. È la storia di un ragazzo sedicenne
che non ha mai avuto problemi con la giustizia. Il ragazzo, però, si diverte
Conclusioni
83
a fare il bulletto: un mese fa viene arrestato perché ha prelevato due cellulari a dei compagni e ha chiesto 100 euro per il riscatto. Oltre al furto
gli viene perciò contestata pure l’estorsione. Rischia evidentemente una
pena pesante, ma grazie a un giudice intelligente, grazie a degli educatori
carcerari intelligenti, al centro di accoglienza del Malaspina (dopo 72 ore
di detenzione in cui il ragazzo, però, non finisce in cella) tutto si risolve.
Gli educatori sono stati con lui, gli hanno fatto vedere i telegiornali nei
quali era raccontata la notizia che lo riguardava, del bullo estortore e rapinatore. Il ragazzo a quel punto ha capito la gravità del suo comportamento,
e il giudice lo ha rimandato a casa, prescrivendo però: può uscire da casa
solo per andare a scuola. Il padre, più intelligente ancora, ha detto: «No,
signor giudice, me lo condanni a fare volontariato per 48 ore il sabato e la
domenica al Santa Chiara, al centro immigrati, perché mio figlio invece di
stare a casa davanti al computer o mandare sms dagli arresti domiciliari è
meglio che conosca una faccia della povertà, una parte della realtà che non
ha mai visto».
Relatori
Relatori
Rino Cascio, Giornalista, RAI Sicilia, Palermo
Mario Conte, Magistrato, Giudice per le Indagini Preliminari, Palermo
Ignazio De Francisci, Magistrato, Procuratore aggiunto, Palermo
Bruno Di Stefano, Coordinatore regionale del SEAC, Palermo
Orazio Faramo, Provveditore regionale per l’Amministrazione penitenziaria della Sicilia, Palermo
Elisabetta Laganà, Psicoterapeuta, Presidente nazionale del SEAC,
Bologna
Nicola Mazzamuto, Magistrato, Tribunale di Sorveglianza, Palermo
Sergio Monaco, Avvocato penalista, Palermo
Ferdinando Siringo, Docente, Presidente del CeSVoP, Palermo
Coordinamento Enti e Associazioni
di Volontariato Penitenziario
A Milano, all’inizio degli anni ’60 si svolgono presso la Sesta Opera S.
Fedele una serie di incontri tra i gruppi cattolici impegnati nell’assistenza ai detenuti. L’iniziativa nasce dall’idea di dare vita ad un Coordinamento tra queste
associazioni. Nell’estate del 1967, all’Isola d’Elba, si tiene il primo raduno a cui
partecipano i rappresentanti nazionali di vari enti impegnati in questo servizio.
In breve tempo, il numero delle associazioni aderenti aumenterà e darà vita
al coordinamento che prenderà la dizione di «Segretariato nazionale Enti di Assistenza ai Carcerati». Nasce così il SEAC, che prende vita immediatamente subito dopo il Concilio Vaticano II, evento che aveva trasformato l’immagine della
Chiesa Cattolica. Un momento particolare in cui un grande desiderio di giustizia
attraversava il mondo e le richieste di cambiamento sociale puntavano ad una
società più giusta, pacifica ed attenta ai bisogni delle persone, cogliendo le esortazioni di Giovanni XXXII ai «costruttori di pace» ed ispirandosi ai fondamenti
della Dottrina Sociale della Chiesa. Principio fondamentale in tale concezione è
che i singoli esseri umani sono e devono essere il fondamento, il fine e il soggetto
di tutte le istituzioni in cui si esprime e si attua la vita sociale.
A 40 anni dal primo incontro dell’Elba l’intuizione decisiva dei fondatori è
ancora viva e attuale; dal primo raduno di Portoferraio il percorso si è evoluto da
un atteggiamento assistenzialistico ad una azione più allargata sul piano sociale,
culturale, di confronto con la città e le istituzioni; una realtà che si è posta anche
come antesignana nell’individuazione di percorsi coraggiosi e difficili e che, pur
subendo momenti di sconforto e disillusione derivati dall’immobilità delle situazioni non si è più arrestata: nel sollecitare le istituzioni verso una carcerazione
più umana, nell’idea della pena non solo come retribuzione ma come opportunità
di riscatto della norma infranta attraverso un sistema di esecuzione penale rispettoso dei diritti umani, nella critica alla centralità del carcere come prevalente (in
alcuni casi unica) risposta sanzionatoria, nell’analisi del concetto di punizione,
quasi sempre declinato nell’unica accezione di quantità della pena e che invece
raramente si sofferma a ragionare su chi punire, se punire e come punire.
Non è facile ricostruire le vicende e l’impegno di questi anni: caratteristica
del volontariato è quella di lasciare segni incisivi ma spesso non documentabili,
poiché frutto di azioni mai impulsive ma eticamente passionali, avulse da logiche
di potere, realmente ispirate al riconoscimento della dignità comune a tutti gli
uomini.
Eppure, al pari di un forte vento che non si più afferrare ma che lascia le
tracce del suo passare, ne ritroviamo gli effetti nelle azioni, nella pratica propria
del volontariato non soggetta alle logiche istituzionali, espressione dello sguardo
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SEAC – Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario
«esterno»: lo sguardo della comunità, della cittadinanza attiva senza la quale non
è possibile un vero cambiamento. L’occhio del volontariato non si accontenta
di osservare semplicemente le manifestazioni del disagio, ma attraverso la lente
dell’impegno sociale ne scompone i colori per distinguerne le discromie delle
differenze dei fenomeni, della molteplicità dei significati, della soggettività della
persona.
Senza falsa ingenuità si può sostenere che, tra i vari ambiti il cui l’azione del
volontariato si esprime questo è uno dei più complessi, per una serie di ragioni
e di tematiche che comprendono i temi dell’etica nella sua dialettica tra bene e
male, la tolleranza e solidarietà, il dialogo spesso non facile con le istituzioni
preposte, il concetto di giustizia nella sua accezione più estesa. Ed è soprattutto
su quest’ultimo concetto che il nostro volontariato ha svolto in questi anni la sua
riflessione più profonda ed incisiva, cercando di depurarsi da una visione parziale
che aveva orientato l’attenzione solo al soggetto autore di reato per allargarla ai
processi sociali, alle vittime dei reati, ai processi di mediazione penale; riflessioni
che hanno portato ad un cambiamento di definizione e di identità, trasformando la
dizione da volontariato del carcere a volontariato della giustizia. Una riflessione
sulla giustizia che dovrebbe pervadere ogni aspetto dell’esistenza ed estendersi
nelle diverse espressioni del diritto, della legge, del giudizio, nell’ambito della
giustizia sociale, retributiva, distributiva, fino a toccare i diritti universali ed internazionali. Siamo consapevoli che, su questo terreno i confini possono divenire
difficili, le strade contraddittorie, incerte. Tuttavia l’ispirazione fondamentale che
giustifica lo sforzo e la tensione è quella di cercare incessantemente e con tutte
le nostre forze una giustizia meno ingiusta. Nell’ambito della giustizia penale
ci turba l’incapacità di attuare un sistema che assicuri, insieme all’incolumità e
sicurezza dei cittadini e la deterrenza contro i crimini, la riabilitazione e la restituzione alla società di chi ha commesso reato mantenendo il pieno rispetto della
persona e dei suoi diritti.
Il Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo, CeSVoP, opera dal novembre 2001 per promuovere la cultura della solidarietà e sostenere la crescita e
il consolidamento delle organizzazioni di volontariato delle province di Agrigento, Caltanissetta, Palermo e Trapani, mediante l’erogazione di servizi e l’organizzazione di attività a titolo gratuito.
Oltre al CeSVoP in Sicilia sono attivi il Centro di Servizio per il Volontariato Etneo (CSVE), che ha competenza per le province di Catania, Enna, Ragusa,
Siracusa, e il CeSV Messina, che opera nell’ambito della città e della provincia
dello Stretto.
I Centri di Servizio (CSV) sono sorti in Italia con la legge quadro sul volontariato, la 266 del 1991, che prevede all’articolo 15 la nascita di strutture in
grado di garantire servizi gratuiti alle associazioni di volontariato, iscritte e non
iscritte nei registri nazionali e regionali. Hanno, dunque, come destinatari le organizzazioni impegnate a dare risposte ai bisogni del territorio, soprattutto con
riferimento alle fasce della società più deboli ed emarginate, ma sono gestiti dalle
stesse organizzazioni di volontariato a cui si rivolgono ispirandosi al concetto
di autogestione dei Centri da parte del volontariato, che il legislatore ha posto
nell’art. 15 della legge 266/91, là dove dice che i Centri sono «a disposizione
delle organizzazioni di volontariato e da queste gestiti, con la funzione di
sostenerne e qualificarne l’attività».
I compiti dei Centri comprendono iniziative per la crescita della cultura della solidarietà, la promozione del volontariato, la consulenza per le organizzazioni
di volontariato, iniziative di formazione per i volontari, attività di documentazione sul volontariato, pubblicazioni specialistiche, studi e ricerche, sostegno alla
progettualità e accompagnamento alla costruzione di reti sociali fra le organizzazioni di volontariato.
Sono quindi una risorsa importantissima e consona allo stile operativo dei
volontari. Infatti i Centri non erogano contributi ma servizi e questi sono elaborati
dai volontari stessi con il supporto necessario di personale professionale.
Inoltre, i fondi di cui dispongono i CSV non derivano direttamente da processi decisionali di livello politico. Fatto molto importante che salvaguarda l’autonomia del volontariato e della solidarietà. Ciò non significa che i Centri e le
associazioni non possano esprimere opinioni sulla politica sociale o se ne sentano
estranei. Infatti i CSV possono aiutare le associazioni a incontrarsi e crescere nelle competenze tecniche per analizzare la politica sociale nel territorio e diventare
soggetto di proposta, e, se necessario, di interlocuzione critica in difesa degli
interessi dei più deboli.
Collana «Studi e Ricerche» del CeSVoP
1.
Antonio La Spina-Fabio Massimo Lo Verde (a cura di), La valutazione nelle organizzazioni del volontariato siciliano. Una ricerca condotta dal CeSVoP in collaborazione con il Dipartimento
di Scienze Sociali dell’Università di Palermo, CeSVoP, Palermo
2007, pp. 128.
2.
Barbara Gatto, Crescita endogena e misurazione del Capitale
Umano: il caso del Mezzogiorno in Italia, CeSVoP, Palermo 2008,
pp. 120.
3.
Salvatore La Rosa-Eva Lo Franco (a cura di), Atti del Convegno
«L’umanizzazione e il miglioramento della qualità nell’assistenza
pediatrica». VII Convegno Scientifico Nazionale del Network «Gli
Ospedali di Andrea». 5-6-7 dicembre 2007, Carini – Palermo, CeSVoP, Palermo 2008, pp. 320.
4.
Aa.Vv., Atti del Convegno «L’autopsia psicologica nella prevenzione del suicidio. La ricerca del passato come metodica per la
prevenzione del suicidio».15 maggio 2007 – Palermo, Palazzo
Chiaramonte Steri – Piazza Marina, CeSVoP, Palermo 2008, pp.
160.
Finito di stampare
nel mese di febbraio 2009
coi tipi della PittiGrafica s.a.s. Techiche Editoriali
Via S. Pelligra, 6 – 90128 Palermo
Tel./Fax 091481521
e-mail: [email protected]
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Detenuti in attesa di giudizio. Carcerazione preventiva e