Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo ATTI DEL SEMINARIO NAZIONALE Detenuti in attesa di giudizio. Carcerazione preventiva e società Collana «Studi e Ricerche» diretta da Ferdinando Siringo 5 Pubblicazione realizzata con il contributo del Comitato di Gestione del Fondo Speciale per il Volontariato della Regione Siciliana finanziato dalle Fondazioni: – Monte dei Paschi di Siena – Cariplo – Compagnia di S. Paolo – Banco di Sicilia Printed in Italy © 2009 Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo ISBN 978-88-6352-025-5 ATTI DEL SEMINARIO NAZIONALE Detenuti in attesa di giudizio Carcerazione preventiva e società 6 novembre 2008 – Palermo Centro Culturale Biotos – Via XII Gennaio, 2 a cura di SEAC Sicilia e CeSVoP Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo Indice Presentazione. . . . . . 7 . . . . . Saluti e interventi introduttivi di B. Di Stefano e F. Siringo . . . pag. 7 . » 9 Relazioni – I Parte Presentazione dei lavori di R. Cascio . . . . . . . » 17 La situazione carceraria in Sicilia di O. Faramo . . . . » 21 Vantaggi, svantaggi e discrezionalità nella carcerazione preventiva di I. De Francisci . . . . . » 27 Carcere preventivo e azione penale, punto di vista e responsabilità del GIP di M. Conte . . . . » 33 Relazioni – II Parte Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato di E. Laganà. . . . . . . » 41 Carcerazione preventiva. Parola alla difesa di S. Monaco . . » 51 Carcerazione preventiva e misure alternative di N. Mazzamuto . » 55 Interventi di G. Gioia, F. Frisella Vella, B. Di Stefano . Repliche. . . . . Conclusioni di R. Cascio . Relatori. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 67 . . . . » 73 . . . . . . . . . » 77 . . » 83 SEAC – Coord. Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario. » 87 Il CeSVoP – Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo . » 89 La Collana. » 91 . . . . . . . . . . . . Presentazione Siamo grati a quanti hanno dato il loro contributo di idee ai lavori del Seminario nazionale «Detenuti in attesa di giudizio. Carcerazione preventiva e società» che si è svolto a Palermo il 6 novembre 2008 e di cui adesso pubblichiamo gli Atti. Chi ha partecipato all’incontro organizzato dal SEAC (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato penitenziario) e dal CeSVoP, ha assistito ad un interessante confronto di opinioni, strategie e punti di vista diversi da parte di chi in ambito penale organizza, gestisce, amministra e giudica. Per noi volontari, quanto è raccolto in questo volume è un patrimonio importante per il percorso che vorremmo tracciare. Tuttavia, al Seminario è mancato un «pezzo», cioè il livello politico. Abbiamo fino all’ultimo sperato di avere con noi il Ministro della Giustizia, ma alla fine non ci siamo riusciti. Ed è proprio questo il punto delicato: noi volontari da un po’ di tempo ci stiamo interrogando – nell’ambito penitenziario come in altri settori – su dove siano ormai i luoghi della progettualità della politica. Assunto che nei partiti non si fa più, lo si fa nei salotti televisivi? Non ci sembra la sede più idonea. Allora, dove? Insomma, il nodo che come volontari vogliamo sciogliere in maniera chiara e netta, non solo a Palermo e in Sicilia ma pure nel resto d’Italia, è cominciare per la parte nostra a costruire luoghi sempre più avanzati sul piano del coinvolgimento della cittadinanza e della provocazione in senso positivo verso chi governa, chi amministra, perché accetti il confronto sulle questioni reali con chi le vive quotidianamente. Credo che per il volontariato questa sia una funzione essenziale che si deve continuare a svolgere sia nel settore della giustizia carceraria che negli altri ambiti sociali dei diritti, della tutela dei deboli, dello stato sociale. In ciò, il volontariato ha consapevolezza del proprio compito e dei propri limiti, senza per questo rinunciare a portare sino in fondo un 10 Presentazione impegno di critica, stimolo, interazione e collaborazione nei riguardi degli amministratori e delle realtà politico-istituzionali. In conclusione, va rivolto un ringraziamento particolare alla Presidente nazionale del SEAC che è il coordinamento più competente in ambito carcerario. Proprio dal SEAC proviene un notevole contributo nell’ampliare il confronto sulle politiche sociali in Italia. Ed è importante, per noi, aver cominciato a costruire qualcosa a partire da qui, da Palermo. Ferdinando Siringo Presidente del CeSVoP Saluti e interventi introduttivi Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato. Accogliendo la richiesta formalmente avanzata dal Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti a proposito di quanto affermato dal dr. Bruno Di Stefano nella presentazione del Seminario «I detenuti in attesa di giudizio. Carcerazione preventiva e società», si precisa che nel volumetto “L’ora d’aria” il ruolo del volontariato viene descritto come segue. A pg. 30 si legge: «h) gli assistenti volontari. Sono addetti che operano con il coordinamento della direzione dell’istituto, fornendo sostegno morale ai detenuti e collaborando nell’ambito delle attività trattamentali. Si occupano, inoltre, di problematiche quali: il vestiario, le pratiche matrimoniali, l’incasso di assegni, le pratiche pensionistiche, ecc. Gli assistenti volontari tengono regolari contatti con le altre figure professionali, in particolare con gli educatori. Gli assistenti volontari penitenziari possono essere contattati attraverso apposita domanda». A pg. 55: «f) l’associazionismo e le cooperative sociali. Diverse associazioni e cooperative sociali, in collaborazione con le carceri, operano sia all’interno, tramite la predisposizione di progetti e di laboratori, sia all’esterno, attraverso l’accoglienza e l’utilizzazione di soggetti detenuti in condizioni di libertà limitate. Queste organizzazioni sono contattabili tramite richiesta scritta volta ad ottenere un colloquio con un volontario o un socio della cooperativa sociale». Saluti Bruno Di Stefano – Coordinatore regionale SEAC Sono Bruno Di Stefano, coordinatore regionale del SEAC. Abbiamo organizzato questo seminario in collaborazione e con il generoso contributo del Centro Servizi del Volontariato di Palermo, al quale va il mio sentito ringraziamento. Indirizzo il mio saluto al Presidente del Tribunale di sorveglianza, dottor Bellet, al professore Mario Giacomarra, delegato dal rettore dell’Università, e alle altre autorità invitate che non hanno potuto partecipare. Sono presenti educatori e assistenti sociali delle case di pena e dell’Ufficio esecuzione penale esterna. Sono presenti anche volontari di Messina, Catania, Agrigento e Palermo e delle associazioni iscritte al SEAC. A tutti il mio affettuoso saluto. Io ringrazio per aver accettato l’invito gli amici, i simpatizzanti e i relatori che sono: il dottore Faramo, provveditore regionale per l’Amministrazione penitenziaria; il dottore De Francisci, procuratore della Repubblica; il dottore Conte, GIP presso il Tribunale di Palermo; la dott.ssa Laganà, presidente nazionale del SEAC; l’avv. Sergio Monaco, penalista del foro di Palermo; il dottore Mazzamuto, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Palermo. Moderatore sarà il dottore Rino Cascio, redattore di RAI Sicilia. La presenza di tali autorità e dei relatori che ovviamente rappresentano le istituzioni, mi induce a considerare che questa è una testimonianza di stima verso il volontariato penitenziario. Il nostro è un volontariato molto umile, molto silenzioso, anzi mi è stato rimproverato da qualcuno che è fin troppo silenzioso. Se vogliamo 14 Saluti e interventi introduttivi una prova è in quel libretto distribuito in sala e intitolato «L’ora d’aria»: è stato creato dalla Regione, cioè dal Garante regionale per i diritti fondamentali dei detenuti e se cercate bene la parola «volontario» non esiste, cioè il volontariato in questo libretto è sconosciuto. Questo a dimostrazione del fatto che il nostro è un volontariato molto dignitoso, però ahimé spesso ignorato. Noi abbiamo deciso di rompere questo isolamento, questo silenzio, e di cominciare a prendere delle iniziative per richiamare l’attenzione sui vari problemi della giustizia. Non perché noi volontari abbiamo la presunzione di indicare ricette, assolutamente no, ci sono tante persone che danno ricette in questo momento… Noi ci sottraiamo a quest’onere… No, noialtri vogliamo soltanto richiamare l’attenzione della città di Palermo sul fatto che c’è un’altra città, che è il carcere e sul fatto che questo carcere ha mille problematiche e noi volontari avremmo bisogno anche di un aiuto della società più fattivo. Avremmo bisogno di nuovi volontari, avremmo bisogno di aiuti economici. La presenza dei relatori già dimostra la stima delle istituzioni, però questo non è sufficiente. Faccio soltanto l’esempio della città di Alghero con una casa di reclusione che conta 145 detenuti e 12 volontari. Palermo, con due case circondariali che contano 1.600 detenuti complessivamente, ha appena una ventina di volontari addetti esclusivamente ai colloqui. Non c’è proporzione. Per questi motivi prenderemo tutta una serie di iniziative per cercare di rompere questo silenzio, per rimuovere la cappa che grava sulla «seconda città», in modo da richiamare l’attenzione sulle sue peculiari problematiche. Grazie a tutti di essere qui. Ferdinando Siringo – Presidente del CeSVoP Soltanto pochi minuti per associarmi al ringraziamento di Bruno per gli illustri relatori e per la presenza di tanti volontari e operatori. Ed inoltre per evidenziare il senso del sostegno del Centro di Servizi per il Volontariato a iniziative di questo genere. Voi sapete che il Centro di Servizi per il Volontariato è una struttura – ne esistono settantasette in Italia – concepita dal legislatore per sostenere le organizzazioni di volontariato con servizi Ferdinando Siringo – Presidente del CeSVoP 15 gratuiti e non con finanziamenti. Si tratta di servizi d’ogni genere: consulenziali, formativi, organizzativi… I nostri Centri di Servizio sono governati dai volontari. Ad esempio, io sono un volontario. Sono un insegnante e dirigo il Centro di Palermo dal punto di vista «politico». Con altri volontari diamo le indicazioni ad uno staff di operatori che lavorano per noi. Terzo aspetto da non trascurare, per legge i Centri di Servizio non hanno relazioni patrimoniali con le pubbliche amministrazioni, ma godono dei finanziamenti – con relativi controlli e verifiche – da parte delle Fondazioni di origine bancaria, in base a un sistema nazionale regolato appunto dalla legge quadro del nostro settore. Ciò garantisce autonomia e libertà ai volontari nel gestire le risorse destinate alla loro azione. E permette di non subire condizionamenti quando è necessario assumere posizioni critiche ed entrare nel merito delle politiche socio-territoriali. Infatti, il volontariato nella nostra società sovente deve assumere un ruolo di advocacy, cioè di difesa dei diritti. Non solo, ma pure di proposta politica in un’ottica di sussidiarietà e collaborazione con le istituzioni conservando una propria autonomia progettuale e di azione. Tutti sappiamo che il volontariato, quello più autentico e diffuso, lavora sulla gratuità, sulla solidarietà, sul protagonismo civile, sulla vicinanza ai deboli, sulla relazione di aiuto e la tutela dell’ambiente socio-culturale e naturale. Il centouno per cento della sua attività e fatica richiama una dimensione fondamentale: il ruolo politico della cittadinanza. Soprattutto in questo tempo in cui la nostra società ha difficoltà a trovare luoghi dove fare cultura, dove fare politica con la «P» maiuscola, dove confrontarsi sulla costruzione della comunità. Il volontariato è uno dei pochi «luoghi» rimasti in cui ciò si può fare. E dove lo si fa insieme, in un’ottica partecipativa che coinvolge le associazioni, i singoli volontari e i destinatari della loro azione. Il settore carcerario è un ambito in cui, di fronte a problematiche estremamente tecniche, i volontari si adoperano per la tutela dei diritti e devono prestare molta attenzione quando fanno proposte, devono avere competen- 16 Saluti e interventi introduttivi za, saper ascoltare. In altri settori del sociale i nostri volontari sono già più abituati a fare interventi anche pesanti, anche pubblici di denuncia sulle politiche sociali, sulla locazione delle risorse economiche, su quello che fanno le pubbliche amministrazioni. Per questo ci fa estremamente piacere che una sigla importantissima come il SEAC, anche in Sicilia, cominci a esprimere la cultura che ha in merito al sistema carcerario, ai diritti dei detenuti. Il CeSVoP, nella sua prospettiva istituzionale di sostenere la capacità politica, di proposta e di crescita culturale del volontariato, collabora e continuerà a collaborare ad iniziative del genere con i supporti professionali che saranno necessari ai volontari per essere incisivi, anche in termini operativi, all’interno delle strutture carcerarie. Quindi, buon lavoro a tutti. I relatori sapranno aiutarci ad aprire un dibattito al nostro interno sui temi che sono oggetto del Seminario di oggi e spero che – lo dico ai rappresentanti del SEAC – questa sia la prima di una serie di seminari sul sistema carcerario. Un versante fondamentale pure per chi, come me, opera da volontario nei quartieri dove, in determinati territori purtroppo, tante famiglie hanno parenti detenuti e fitte relazioni con il sistema carcerario. Grazie ancora e buon lavoro a tutti! Relazioni – I Parte Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato. Presentazione dei lavori Rino Cascio Buonasera, sono Rino Cascio e spetta a me il compito questa sera di moderare il dibattito in una situazione come questa che, per chi fa il mio mestiere, è un po’ imbarazzante, normalmente infatti noi giornalisti non ci troviamo quasi mai davanti a tanta gente, casomai la immaginiamo dall’altra parte della telecamera. Siamo chiamati oggi a parlare di detenuti, e di una particolare categoria di detenuti, quelli che attendono ancora un giudizio. Per noi giornalisti questa è una categoria conosciuta solo teoricamente, ma della quale non sempre ci occupiamo in maniera adeguata. Non sto a spiegarvi cos’è la carcerazione preventiva, quando si applica, gli indizi di colpevolezza, il pericolo di fuga, e altre cose di questo genere. Mi interessa in questo momento affrontare la questione delle modalità con le quali ci occupiamo, da giornalisti, di detenzione preventiva, della cosiddetta custodia cautelare. Riflettendoci un po’, ritengo che spesso abbiamo il vizio di restare fuori, davanti alle porte del carcere. Siamo abituati a dare quotidianamente tonnellate di notizie su persone che vengono arrestate, e quando queste persone entrano in carcere siamo presenti, quando invece escono dal carcere, in alcuni casi con lo Stato che chiede scusa, non sempre ci siamo. Quasi mai siamo inoltre dentro il carcere, quando queste persone, colpevoli o innocenti che siano, trascorrono un periodo in cella in attesa. È un limite della stampa, è un limite di una società abituata alla notizia spettacolare e la stampa non fa che inseguire, con grave colpa, innanzitutto quella. Non riesce a trasmettere un altro genere di notizia, non sa aprire una finestra su un mondo, quello della detenzione, che rimane così sconosciuto. Se ne occupa casomai il cinema, più di chiunque altro. Rischiamo in questo modo di trasformare l’arresto in una condanna, saltando comple- 20 Relazioni – I Parte tamente il grado di permanenza in attesa di giudizio. Spessissimo facciamo apparire innocente chi viene assolto per prescrizione del reato finendo per trasmettere un altro falso. E il rischio è di far diventare verità soltanto quella certificata da un bollo giudiziario. Un altro limite della stampa, secondo me, è che noi giornalisti parliamo di carcerazione preventiva innanzitutto quando il carcerato in attesa di giudizio è il cosiddetto «colletto bianco», quando è il politico, quando è il professionista, quella categoria di persone che nell’immaginario collettivo sono considerate più vicine, poi invece ce ne dimentichiamo quando il detenuto è il Paolo Sposito generico, il personaggio che vive una sua carcerazione preventiva e non ha la possibilità di avere un megafono, una cassa di risonanza. Quando sono stato chiamato a questo convegno ho cercato innanzitutto io stesso di ricordare quando mi sono occupato, io che mi occupo di giudiziaria, di carcerazione preventiva. E mi sono reso conto che quasi sempre i servizi realizzati erano per politici, avvocati, medici, mai per fabbri, macellai o falegnami. Dall’altra parte come giornalisti ci occupiamo di carcerazione preventiva quando scoppia la polemica. Su entrambi i fronti: o perché la carcerazione preventiva viene considerata un’arma utilizzata per cercare di indurre qualcuno a parlare, perché si è tenuto troppo abbottonato e/o non vuole fare un nome, oppure quando la carcerazione preventiva si conclude perché questa persona sta collaborando. Per lui la porta del carcere spesso si apre, per altri invece no. Dovendo partecipare a questo nostro dibattito da moderatore, ho cercato nei giorni scorsi le ultime notizie sull’argomento e ho ascoltato in internet l’intervento del ministro Alfano del 14 ottobre alla Commissione Giustizia. Vi do velocemente gli ultimi dati, appresi dall’intervento del ministro, che risalgono al 14 agosto. Su una popolazione di 57.187 detenuti, ometto da questo momento l’indicazione di unità e centinaia, circa 16.000 sono in attesa del primo grado, 9.700 dell’appello, 3.500 della Cassazione, 1.669 spiega il ministro appartengono al sistema misto. Sono 24.000 quelli che hanno sentenza definitiva, pari al 39%. Cioè il 60% delle persone che sono in carcere, aspettano una sentenza definitiva. La cosa ancora più assurda è che la gran parte di questi che attendono la pena sono individui – il ministro ha fornito un dato, tredicimila – che attendono il processo per direttissima, cioè stanno in cella dai dieci ai quindici giorni, alcune volte anche meno. Insomma c’è un entra ed esci quotidiano dalle carceri che Presentazione dei lavori 21 non è calcolabile e che comunque, bene o male, rispetta queste percentuali. Prima di dare la parola al provveditore Faramo, che capita a noi giornalisti di contattare, insieme ad altri, per avere l’autorizzazione all’accesso alle carceri, per tentare di apparire meno serioso vi leggo una frase di Totò, che ho trovato in questi giorni durante le mie ricerche: «In carcere, con rispetto parlando, stavo tra persone perbene». Ora, dopo aver visto i dati nazionali, mi chiedo quante sono queste persone per bene in Sicilia, e quante sono, tra queste, quelle che attendono un grado di giudizio, e inoltre se è immaginabile una carcerazione differente per chi è in attesa di un grado di giudizio. La situazione carceraria in Sicilia Orazio Faramo Preliminarmente intendo rivolgere il mio ringraziamento agli Organizzatori del convegno per avermi voluto tra i relatori. Queste occasioni sono particolarmente preziose per noi operatori penitenziari per far conoscere la realtà carceraria dal punto di vista certamente interessante di chi vi opera all’interno. Ciò consente di superare i molti luoghi comuni e i preconcetti che da sempre circondano l’istituzione penitenziaria sin dal nascere della prigione come viene intesa ancor oggi ormai due secoli fa. Ancora oggi il carcere è considerato dalla società come qualcosa di estraneo ad essa e non come una parte di sé. Un luogo da tenere alla larga ed i cui problemi non ci interessano. Un luogo in cui scaricare i problemi sociali cui la comunità non ha saputo dare risposta nella speranza illusoria che in carcere possano trovare una soluzione. Un luogo popolato da gente strana con regole proprie e diverse da quelle del vivere civile. Io stesso, non posso negare, avevo del carcere questa idea prima di iniziare a lavorarvi influenzato, per altro, da una serie di film, come ad esempio «Detenuto in attesa di giudizio» di Nanni Loi che negli anni sessanta e settanta, quando io ero ancora uno studente universitario, ebbero notevole successo affrontando la questione carceraria negli anni precedenti alla vigente riforma. Films che sarebbe oggi interessante rivedere; ci si renderebbe conto in tal modo degli enormi progressi della condizione detentiva in Italia in un quarto di secolo. 24 Relazioni – I Parte Progressi che sono stati possibili soprattutto grazie alla partecipazione della comunità esterna all’attività rieducativa dei detenuti. Io penso di poter affermare senza timore di smentita di essere stato sin dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario (OP) del 1975 tra i più strenui sostenitori della necessità di una forte presenza della società all’interno dei penitenziari perché essa è utile sia ai detenuti sia al personale. Anche quando da questa presenza nascono quei piccoli disaccordi tra operatori esterni e personale cui accennava il dottor Di Stefano che quasi inevitabilmente nascono in un ambito di attività in cui è forte il coinvolgimento emotivo. D’altro canto è esperienza comune che all’interno di questa dialettica il più delle volte si costruisce qualche cosa di positivo per i detenuti. Il rapporto che deve legare il carcere e quella parte della società civile che in esso si impegna ad operare deve essere un rapporto franco e scevro da infingimenti. E quindi dicevo secondo me è bene dire tutto con la massima chiarezza. Ieri nella regione Sicilia erano presenti 6.736 detenuti. La sera del 31 luglio del 2006, cioè la sera prima dell’entrata in vigore dell’ultimo indulto erano poco più di 6.500; ciò vuol dire che attualmente nelle carceri siciliane vi sono 200 detenuti in più rispetto alla data precedente all’indulto. È un dato che deve fare meditare: se una delle motivazioni per le quali fu concesso l’indulto era lo stato di grave sovraffollamento, oggi in Sicilia siamo già oltre quella soglia. E allora il dato generale diventa preoccupante nella misura in cui si prendono in considerazione la carenza del personale di polizia penitenziaria e del personale addetto alla rieducazione quali gli educatori. L’organico del Corpo di polizia penitenziaria nella regione è di 4.920 unità; attualmente ne risultano in forza 4.651, quindi quasi 300 in meno. Dei 137 educatori che sono complessivamente previsti dalle piante organiche degli istituti siciliani, ne sono presenti appena 80. Questi dati descrivono una situazione di difficoltà operativa che è giusto che sia conosciuta e che sia compresa perché non si può e non si deve colpevolizzare l’amministrazione penitenziaria, e principalmente gli operatori penitenziari per eventuali carenze: le insufficienze sono nei numeri La situazione carceraria in Sicilia 25 Ed anzi, al contrario, è proprio per l’eccezionale e misconosciuto impegno del personale penitenziario che le carceri siciliane pur tra mille problemi sono in grado di reggere il peso di una popolazione detenuta sempre più in aumento. Quello del sovraffollamento è oggi il vero problema. Lo stesso Ministro della Giustizia ha pubblicamente preannunciato provvedimenti di deflazione del carcere pur tra molteplici difficoltà e v’è quindi motivo di ritenere che in tempi brevi saranno adottati provvedimenti legislativi nel senso di un aumento della capacità ricettiva del sistema penitenziario. Alle carenze di personale e al sovraffollamento si aggiungono le carenze del patrimonio edilizio penitenziario. In Sicilia su 26 istituti penitenziari quelli di recente costruzione si contano sulle dita di una mano. Per il resto si tratta di vecchie costruzioni, magari prima destinate ad altro uso poi convertite in istituti penitenziari e che, quindi, risentono di tutte quelle carenze strutturali alle quali non è possibile far fronte se non costruendo istituti nuovi. In queste strutture non ci sono gli spazi per creare tutto ciò che l’Ordinamento penitenziario vigente prevede che esista all’interno del carcere per favorire il trattamento di recupero del detenuto attraverso attività sportive, ricreative, lavorative, scolastiche e così via. Si noti che l’adeguamento delle strutture esistenti è un processo lungo e costoso. Emblematico è il caso dell’Ucciardone di Palermo in cui è attualmente in ristrutturazione un intero padiglione. Il programma per la ristrutturazione di tutti i padiglioni durerà almeno dieci anni con costi notevolissimi in ragione della necessità di rispettare i vincoli storici ed artistici che gravano sulla struttura. Ciò che ho illustrato, brevemente e per grandi linee consente di cogliere anche a chi si accosta al carcere da neofita, la difficoltà della gestione tra carenze degli organici, insufficienze strutturali e sovraffollamento. Ovviamente ciò non può che creare tensioni perché laddove dovrebbero stare 3 persone ce ne stanno 5, ce ne stanno 6. Gli spazi si restringono, i momenti di nervosismo aumentano e quindi la situazione diventa di difficile governo, a parte l’aspetto igienico-sanitario, perché una cosa è che un 26 Relazioni – I Parte servizio igienico venga usato abitualmente da 3 persone, altra cosa è che venga abitualmente usato da 5, 6 persone e a volte più. Affrontando più specificamente il tema principale, quello dei detenuti in attesa di giudizio, di cui già si è fatto cenno, le statistiche ci dicono che attualmente nella regione sono presenti 6.736 detenuti appartenenti a questa categoria. Di questi 2.118, quindi un terzo, sono in attesa di primo giudizio; 1.773 sono in attesa dell’appello o del ricorso per Cassazione. I detenuti condannati con sentenza passata in giudicato sono 2.417. Completano il quadro 350 internati ed appena 78 semiliberi. Questi ultimi in misura minima in ragione del recente indulto. La gestione dei 2.118 imputati detenuti è particolarmente complessa. Non essendo ancora condannati, per questi vale il principio di innocenza sino alla condanna, nei loro confronti non viene effettuato un trattamento rieducativo. Il problema per questi detenuti è quello di evitare che paradossalmente proprio la detenzione in un carcere dove per il sovraffollamento non sempre è possibile una netta separazione da detenuti condannati sia per costoro un fattore criminogeno. La soluzione della inclusione degli imputati in un medesimo circuito penitenziario, che pure è stata individuata anni or sono per far sì che detenuti appartenenti a categorie omogenee non venissero in contatto con detenuti aventi caratteristiche diverse, ad esempio il circuito dell’Alta sicurezza, del 41bis, dei detenuti che necessitano di misure di protezione dagli altri detenuti ecc., dà luogo a difficoltà operative. Se in uno stesso carcere debbono convivere varie categorie di detenuti, i servizi generali come devono essere tarati? Quali regole bisogna applicare? Quale deve essere la maggiore preoccupazione? Quella di impedire evasioni, quella di impedire che i soggetti più pericolosi possano avere contatti con gli altri e esercitare la loro supremazia? In altri termini bisogna guardare principalmente alla sicurezza? Ma così facendo ne soffrirebbero i detenuti comuni, i cosiddetti «ladri di polli», che in un istituto la cui gestione è ispirata esclusivamente alla sicurezza sarebbero sottoposti ad un regime sproporzionato rispetto alla propria modesta caratura criminale; sofferenza ancora più pesante per cittadini che, sebbene accusati di reati talvolta gravi, sono comunque ancora in attesa di giudizio e, quindi, non di rado innocenti. La situazione carceraria in Sicilia 27 La gestione diventa molto difficile. Un’altra difficoltà è data dalla sempre maggiore presenza nelle nostre carceri di stranieri che in quanto tali sono portatori di culture diverse da quella nazionale. Su questo fronte l’Amministrazione penitenziaria sta cercando di attrezzarsi in tutti i modi migliorando le competenze linguistiche del personale per superare quelle barriere comunicative che non consentono di capire il detenuto, i suoi bisogni, le sue esigenze. Non meno importante è l’impegno nel dotarsi, con tutte le difficoltà del caso, di mediatori culturali utili per superare le altre difficoltà derivanti dai modi di vita diversi, espressione di culture diverse e talvolta di difficile compatibilità. Senza considerare che molti di questi stranieri sono appartenenti a vari gruppi criminali, portatori di interessi spesso confliggenti. Una menzione a parte merita il problema dell’assistenza sanitaria ai detenuti. Come tutti sanno la sanità penitenziaria – come ormai in tutte le regioni a statuto ordinario – per legge dello Stato è stata trasferita alle regioni e quindi alle Aziende sanitarie locali. Nelle regioni a statuto speciale come la Sicilia e nelle province autonome, ciò non è ancora avvenuto. La Sicilia è in grave ritardo non essendo stati emanati gli atti di recepimento della legge dello Stato nell’ordinamento regionale ed a nulla sono sinora valse le mie richieste di incontri, di contatti con le cariche regionali competenti; fino a questo momento sono rimaste senza risposta Il rischio concreto è che dal 1° gennaio ai detenuti siciliani non potrà essere garantita l’assistenza sanitaria. Da questo punto di vista sono molto preoccupato e allarmato perché tale stato di cose si innesta in un contesto nel quale la spesa sanitaria si è già molto contratta negli ultimi anni riducendosi al minimo indispensabile in termini di acquisto di farmaci, visite specialistiche e guardie mediche intramurarie. La cartina al tornasole del disagio frutto delle ritmicità di cui ho parlato sono i comportamenti autolesivi dei detenuti. Nel secondo semestre 2007 in Sicilia se ne sono contati 195, e nel primo semestre 2008 ben 222. In flessione invece i tentativi di suicidio: 40 nel 2° semestre 2007 contro i 19 del 1° semestre 2008. Domanda di Rino Cascio: «Dei 4651 agenti quelli che sono impegnati nei trasferimenti continuamente tra palazzo di giustizia, tribunali, quanti sono? Abbiamo una percentuale?» Risposta di Orazio Faramo: «Sono circa 900». 28 Relazioni – I Parte Cascio: «Quindi diciamo che c’è un agente per 2 detenuti da distribuire, però, su quattro turni di lavoro». Faramo: «Non è solo questo, perché lei ha considerato il personale impiegato soltanto nelle traduzioni, in realtà agenti vengono impiegati in compiti amministrativi, in servizi di tutela e scorta, in attività di polizia giudiziaria ed in altri incarichi». Vantaggi, svantaggi e discrezionalità nella carcerazione preventiva Ignazio De Francisci Grazie, con convinzione ringrazio per l’invito rivoltomi perché torno sempre a parlare volentieri dei problemi connessi all’universo carcerario e ciò in virtù del mio lontano passato professionale in quanto dal luglio dell’‘80 al 31 dicembre dell’‘84 ho svolto le funzioni di magistrato di sorveglianza a Palermo. Insomma quattro anni e mezzo della mia vita sono stati contrassegnati dalla vicinanza al pianeta carcere, agli operatori penitenziari in genere; ricordo che conobbi il dottore Faramo all’epoca direttore dell’Ucciardone e molti tra i volontari oggi qui presenti che mi sono sempre piaciuti perché totalmente diversi da me, perché ottimisti sul recupero dei detenuti, (io che ci credo molto poco), perché disinteressati. Essi regalano il loro tempo per pura passione al carcere, mentre io ci andavo per mestiere, e quindi mi piace il confronto con loro. Ricordo i lunghi conversari sia con i volontari che con le assistenti sociali, con entrambi gli scontri ideologici erano all’ordine del giorno perché io dicevo che loro scendevano dal mondo dei puffi e loro mi prendevano per un bieco conservatore, difensore e custode delle carceri così come erano. In effetti io ero conservatore vent’anni fa, e, invecchiando, lo sono ancor più oggi e non faccio mistero di quello che penso e, quindi, anche la problematica della carcerazione la vedo con un occhio sempre disincantato e poco incline alle utopie. Però, sono interessato a tutto quello che è diverso da me perché dall’incontro di sensibilità diverse si cresce tutti e ci si apre alle idee dell’altro. E poi consentitemi – a proposito di volontari – di rievocare una figura, che io ricordo con grande affetto: mi riferisco a Padre Oliva che era un gesuita che operava al servizio degli ultimi all’interno del carcere 30 Relazioni – I Parte dell’Ucciardone. Lo ricordo sempre con venerazione, lo vedevo arrivare al carcere con una 850 che era vecchia nell’‘82 carica di pacchi di vestiario per i detenuti. È difficile trovare le parole per descrivere le sensazioni che trasmetteva quella umilissima figura di sacerdote, fragile nell’aspetto fisico ma che trasmetteva una fede d’acciaio. Quando si pensa ad una figura emblematica del volontariato penitenziario io ricordo Padre Oliva e improvvisamente tutto quello che ho fatto mi sembra assolutamente inutile, mi sembra polvere, e lui mi si presenta sempre come una figura alla quale guardo con grande ammirazione, forse perché io ho studiato dai Padri gesuiti e sono rimasto innamorato della Compagnia di Gesù. Torniamo al tema posto dal moderatore «Discrezionalità della custodia cautelare, carcerazione preventiva». Telegraficamente, cercando di non annoiarvi, vi devo dire che rispetto a 25 anni fa, 30 anni fa, 20 anni fa, oggi il codice è molto più «garantista» e quindi si dovrebbe arrestare di meno. Basti pensare che dal 1988 – se non erro – il PM ha perso il potere di arrestare e deve sempre chiedere al Giudice il provvedimento restrittivo (tranne alcuni casi che impongono comunque sempre la convalida del Giudice). Però com’è che il numero dei detenuti aumenta in continuazione? Una spiegazione secondo me risiede nel fatto che è aumentato il livello criminale della nostra società. Io sono convinto che si delinque di più. Il dottore Faramo ha fatto cenno agli stranieri. C’è una fetta di immigrati che vive di crimine e che vive col crimine, lo spaccio di stupefacenti in alcune città è appannaggio di gruppi ben organizzati; ancora, si commettono molte più rapine di prima, basti pensare che sino a qualche anno fa la rapina era di competenza della Corte d’Assise. Quando io dico questo ai miei giovani colleghi quasi non ci credono. Cioè, noi siamo una società che ha aumentato il livello criminale per cui i detenuti aumentano, anche se si arresta di meno nella fase delle indagini preliminari. C’è stato, secondo me complessivamente, un aumento del livello di garanzia; c’è stato un aumento esponenziale però del livello di criminalità nel nostro Paese e quindi aumentano i detenuti. Quanto alla notizia secondo la quale chi lascia il frigorifero per la strada viene arrestato (però da Napoli in giù) mi sembra una follia giuridica, diamo sempre colpa ai giornalisti, sarà una sintesi giornalisticamente efficace ma tecnicamente inappropriata, perché non puoi fare una legge che vale da Napoli in su e una da Napoli in giù, nel senso che se butti il frigorifero a Milano non ti Vantaggi, svantaggi e discrezionalità nella carcerazione preventiva 31 fanno niente. Ma comunque c’è però una politica del governo nel campo dei crimini e quindi una politica in campo penalistico del governo che segue molto i sondaggi di opinione e così c’è questa fissazione nei confronti di chi imbratta i muri (per carità pure a casa mia hanno fatto degli scempi) che però evidentemente sa tanto di quesito: «Cosa faresti a chi ti scrive nel muro?». La risposta sarebbe: «In galera!». Perché evidentemente se voi parlate con qualsiasi studioso di diritto penale vi dirà che l’imbrattamento dei muri da punire col carcere è una cosa piuttosto esagerata. Si è gridato per anni allo scandalo per il mancato arresto di coloro che uccidono perché guidano in stato di ebbrezza. Hanno dovuto fare una legge che ora permette la detenzione, però è giusto dirci, ovviamente spogliandoci dalla dovuta solidarietà per tutte le vittime di questi pazzi ubriachi al volante, che da un punto di vista tecnico di omicidio colposo si tratta e per anni non si è mai arrestato per omicidio colposo. Quindi, oggi, pur in presenza di un codice di procedura penale che prevede per ottenere la carcerazione preventiva che questa sia l’unica misura possibile eccetera (quindi un codice più garantista rispetto al codice Rocco), rispetto a tutto quello che c’era prima però ci sono stati degli interventi di politica giudiziaria che hanno ampliato il numero degli ospiti delle nostre carceri. Altro esempio che ho vissuto in prima persona ad Agrigento è il problema dell’arresto dei clandestini. Oggi il cittadino straniero viene fermato, gli viene dato l’ordine di espulsione, di lasciare il territorio nazionale, lui non se ne va, viene fermato una seconda volta, arresto, scarcerazione dopo poche ore. Questo è un classico caso di – se è ancora consentito criticare il governo – di insipienza tecnico giuridica del legislatore penale, il quale per lanciare un messaggio di stato severo o comunque geloso custode delle proprie frontiere (e comunque che non vuole i cittadini extracomunitari in mezzo ai piedi) ha inventato questo arresto che non serve a nulla se non a intasare i nostri istituti penitenziari. Infatti, avviene poi che il cittadino straniero arrestato dovrebbe essere portato nelle camere di sicurezza della Questura per essere poi condotto alla udienza direttissima dinanzi al giudice. Ma la Questura non se lo tiene perché non vuole gente nelle camere di sicurezza per i mille problemi anche logistici che ciò comporta e perché ha paura delle impiccagioni e delle autolesioni. Allora lo porta al carcere, il direttore del carcere mi telefona e mi dice: questi non devono entrare nel carcere perché c’è una circolare del Ministero, il dottore Faramo scrive, 32 Relazioni – I Parte io tento di mettere d’accordo, ogni tanto si litiga, poi ci si riesce a mettere d’accordo nel senso che questi poi finiscono in carcere. Alla fine, quindi, questi detenuti brevi e stranieri finiscono in carcere che evidentemente diventa la fogna della nostra società per cui tutti questi extracomunitari, per carità molti delinquenti, non è che sono tutti santi uomini, io parlo con molta chiarezza, però molti esclusivamente disperati vengono mandati in carcere, si fanno uno o due giorni di carcere, vengono portati dinanzi al giudice che convalida l’arresto e li rimette in libertà. Tutto questo su base annua, forse il DAP avrà fatto i suoi calcoli, costa allo Stato un patrimonio perché per ogni detenuto che poi dal carcere deve andare dinanzi al giudice per la convalida ci vogliono due, uno, uno e mezzo agente di polizia penitenziaria, ci vuole il furgone, ci vuole un giudice che li deve giudicare, deve scrivere la sentenza, un cancelliere, eccetera per cui costa cifre folli. E allora bisogna porsi il problema se a noi – come apparato statale – convenga fare tutte queste carcerazioni per la violazione alla Bossi-Fini. Secondo me no, ma non ci conviene come conto profitti e perdite. Ogni volta che io dico queste cose ovviamente tutto l’arco del centro-destra dice che i magistrati devono applicare la legge, noi la applichiamo, però la legislazione penale, io dico sempre, secondo me è il modo più nobile e più raffinato di fare politica. Cioè, chi fa politica in senso alto, secondo me, in una visione complessiva del mondo lo fa con la legislazione penale perché tu decidi quello che è giusto e quello che non è giusto, e quello che non è giusto decidi come sanzionarlo. Però, per far questo ci vuole intelligenza, cultura e anche cultura tecnica cose che tutte e tre assieme non sempre sono presenti in tutte le teste che ci governano. Dunque, per chiudere perché non vi voglio annoiare, io non credo, ora non voglio difendere la mia categoria perché pubblici ministeri ce ne sono di intelligenti, ce ne sono di meno intelligenti, ce ne sono anche di antipatici. Io non credo che ci sia un eccessivo ricorso da parte del PM alla custodia cautelare anche perché – vi direi con una difesa diciamo burocratica – è il GIP, è il giudice che la concede. Noi ci limitiamo a chiederla. A parte questo, oggi diciamo tecnicamente si arresta molto meno. Io più volte quando parlo con i miei giovani colleghi dei fascicoli dico: «Vedi a questo qua 15 anni fa lo avremmo arrestato subito, oggi processo a piede libero». Quindi non è una questione di atteggiamento o di voglia di carcere, è un atteggiamento che in Italia si delinqua parecchio da un lato, dall’altro il carcere viene utilizzato per que- Vantaggi, svantaggi e discrezionalità nella carcerazione preventiva 33 sti motivi diciamo di politica o questi motivi di acquisizione del consenso tramite lo sbandieramento della minaccia del carcere che io non condivido, ma a un certo punto fanno parte della nostra vita politica. Carcere preventivo e azione penale, punto di vista e responsabilità del GIP Mario Conte Ringrazio anch’io gli Organizzatori. Ovviamente per l’invito cortese, assai gradito. Non altrettanto posso ringraziarli, però, della sistemazione perché parlare dopo un oratore come Ignazio De Francisci è una cosa altamente pericolosa, in quanto è un oratore famoso, importante, affascinante. Io decisamente non potrò raggiungere i suoi livelli ma cercherò di raccontarvi qualche cosa anche in considerazione della mia (ahimé!) lunga esperienza nel senso che io mi sono occupato per molti anni del Tribunale della libertà che come voi sapete, e se non lo sapete ve lo dico io, è l’organo di appello avverso alle decisioni del Giudice delle indagini preliminari che, come ha spiegato il moderatore, è poi quello che mette materialmente la firma nel provvedimento, dal momento che non esiste più il mandato di cattura che noi avevamo con il codice Rocco nel 1930. Il codice del 1988 ha istituito questa figura del Giudice per le indagini preliminari che è colui che controlla materialmente tutta l’attività svolta dal Pubblico Ministero, dalle cose più banali che sono appunto le attività per le quali il soggetto sottoposto a indagini ha diritto ad avere un difensore a quelle più incisive che sono sicuramente le ordinanze con le quali viene applicata una misura cautelare. E devo dire che io da un paio di anni svolgo questa funzione con passione, sicuramente, ma anche con un certo disagio nel senso che mi trovo ad affrontare delle situazioni che apparentemente confliggono un po’ con quella che è la realtà. Nelle brevi note che mi ero preparato avevo proprio pensato di partire un po’ dallo schema normativo perché molti di noi dimenticano che la custodia cautelare deve essere, come dicono alcune persone colte col termine latino, extrema ratio. Nel senso che le persone dovrebbero finire in carcere, soltanto quando 36 Relazioni – I Parte sono state ormai condannate con una sentenza definitiva. La carcerazione dovrebbe essere infatti un’eccezione. Se noi però stiamo a sentire i dati del dottor Faramo, ci rendiamo conto come tutto ciò è assolutamente invece la regola. Abbiamo visto che più di 1/3 dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio e questo è il motivo per cui noi ci troviamo qui oggi. E allora dobbiamo vedere perché il codice stabilisce queste eccezioni. Io cercherò di essere breve su questo punto perché do molte cose per scontate, però già si è detto che una persona può essere sottoposta ad una misura cautelare, prima di essere condannata in via definitiva, qualora nei suoi confronti sussistano dei gravi indizi di colpevolezza, cioè una forte possibilità che lui sia colpevole. Esistono anche delle esigenze cautelari. Le esigenze cautelari sono sostanzialmente tre. Sono il pericolo di fuga, il pericolo che possa inquinare le prove, il pericolo che possa reiterare i reati. Ciò posto, il codice prevede una serie di misure che possono essere applicate e il carcere è l’ultima misura. E questo non fa altro che rispecchiare quelle che sono le norme della Costituzione in merito. Io ho fatto un taglia e incolla delle norme della costituzione sul tema. Le richiamo velocemente sono gli articoli 13, 24, 25, 26 e 27 che stabiliscono che la libertà personale è inviolabile, cioè, noi non dobbiamo sottoporre una persona ad una restrizione della propria libertà personale se non in casi limite. Tutto questo è un discorso bellissimo che però si scontra con delle esigenze di tutela della collettività. E qui purtroppo casca l’asino (ahimé!) perché noi ci troviamo davanti ad una situazione su cui molto spesso si punta il dito. Apro una brevissima parentesi e lo dico anche perché ho fatto il giornalista. Credo che da un po di anni a questa parte si sia spostata troppo l’attenzione su quello che è il mondo giudiziario e sul mondo dei processi. Io credo, e mi trovo davanti un uditorio che ha qualche annetto sulle spalle, che nessuno di voi ricordi una tale attenzione. Se qualcuno ricorda un giornale di una ventina di anni fa, quant’erano le pagine dedicate alla cronaca giudiziaria? Potevano essere una, due, tre al massimo. Adesso se voi aprite il Giornale di Sicilia o un qualsiasi altro quotidiano, sono dedicate almeno sei, sette pagine alla cronaca giudiziaria. Io ricordo quando ero ragazzino che c’era il «l’Ora» che aveva quest’apertura con i fatti cronaca tragici, di omicidi che in Sicilia, a Palermo soprattutto, erano assai frequenti e lo sono, ahimé, anche se in misura ridotta, tutt’ora. E Carcere preventivo e azione penale, punto di vista e responsabilità del GIP 37 allora il punto qual è? Sono in effetti cattivi i Pubblici Ministeri che richiedono la misura della custodia cautelare in carcere, sono cattivi i giudici che la applicano oppure in realtà c’è una società, lo ha detto in maniera assolutamente garbata ma con la consueta incisività Ignazio De Francisci, che chiede di essere tutelata? Sono delle scelte di politica quelle attraverso le quali si cavalca tale richiesta. Nessuno di noi vuole fare politica meno che mai in questo periodo, però quando si legge su un giornale che viene scarcerato l’ultras che ha devastato un treno e la persona che scrive l’articolo, la persona che lo commenta, soprattutto il politico, dimentica di dire che ci sono delle norme precise del codice di procedura penale che vietano di applicare la misura della custodia cautelare in carcere qualora il reato non raggiunga determinati limiti di pena, allora a questo punto o si fa disinformazione a tutti i livelli, oppure inevitabilmente non ci troviamo più a remare tutti dalla stessa parte. E allora, a questo punto, dobbiamo inevitabilmente contemperare varie esigenze, non soltanto nell’ottica del nostro sistema, perché noi da un po’ di anni a questa parte (molti se lo dimenticano, ma in realtà sarebbe giusto ricordarcelo quotidianamente) non viviamo più nel nostro stretto ambito nazionale ma in Europa, e questo vuol dire che l’Unione Europea, oltre ad avere stabilito una serie di strumenti normativi attraverso i quali viene disciplinata quella che prima veniva chiamata cooperazione giudiziaria, richiede un’armonizzazione dei sistemi. Pertanto, abbiamo una figura che esiste dal 2002, non so quanti di voi la conoscono ma comunque è abbastanza famosa, che non fa altro che aumentare ulteriormente la carcerazione diciamo intermedia, che è il mandato di arresto europeo. Il mandato di arresto europeo consente ad un’autorità giudiziaria che ricerca un determinato soggetto che è latitante di poterlo catturare in tutto il territorio dell’Unione Europea senza bisogno di dover attivare delle procedure particolari. Basta l’emissione di questo titolo da parte dell’autorità giudiziaria nazionale perché il soggetto venga arrestato anche all’estero. Ma di contro, a fianco a questi strumenti di cooperazione giudiziaria, ci sono anche delle direttive precise con riferimento alla durata ragionevole dei processi. Sono ormai diventati quasi quotidiani i procedimenti di infrazione nei confronti dello Stato italiano per mancato rispetto dei termini relativi ai ragionevoli tempi del processo. E allora a questo punto dobbiamo inevitabilmente fare un ragionamento un tantino più ampio. Noi giudici abbiamo questi strumenti. L’amministrazione peni- 38 Relazioni – I Parte tenziaria ha questi strumenti. Da un po’ di tempo a questa parte si arresta di meno e allora come mai cresce il numero dei detenuti? Ma perché ciò fa parte di un fisiologico aumento: cresce la popolazione, perché non dovrebbe crescere il numero dei detenuti ? Ma il problema è che le strutture rimangono sempre le stesse. Uno degli interventi, maggiormente interessanti che sono stati fatti dal nuovo ministro della giustizia, è stato quello di tentare di programmare l’apertura di nuove carceri o l’utilizzo di carceri che possano garantire un normale e – vorrei dire, forse è una parola forte – una civile detenzione, anche nella fase iniziale, cioè nella fase pre-condanna. Io ricordo da giovane uditore che andai nel giro che i nostri coordinatori ci facevano fare, a visitare l’Ucciardone e il carcere di Pagliarelli. Ne uscii sinceramente sconvolto, soprattutto dal primo che mi dicono essere una struttura, e ci credo, costruita come carcere. Ricordo che, proprio pensai che tra le cose più brutte che possano capitare nella vita, c’è quella di finire in ospedale e poi in carcere. Non so uno dove ne esca vivo meglio. E allora a questo punto secondo me quella che può essere una prospettiva interessante, un progetto interessante non è tanto analizzare l’utilizzo corretto o meno della carcerazione preventiva da parte dei giudici. Ci saranno sicuramente le storture. Devo dire che da parte degli organi inquirenti, e non vuole essere in questo caso una captatio benevolentiæ nei confronti della Procura di Palermo, da diversi anni a questa parte c’è un uso molto moderato delle richieste di custodia cautelare perché come sapete il GIP si pronuncia su queste, ma non si pronuncia evidentemente come faceva il giudice istruttore autonomamente. E c’è un altrettanto attento, e qui non voglio tirare acqua al mio mulino, vaglio sia da parte dell’ufficio del Giudice per le indagini preliminari che da parte del Tribunale della libertà. Io non ho i numeri alla mano, però vi posso dire che sono frequenti e anche giornalisticamente documentate le richieste di applicazione di misura di custodia cautelare che vengono rigettate dal GIP. Analogo discorso vale per i provvedimenti del Tribunale della libertà che peraltro, non parlo soltanto per averlo personalmente provato, fa un lavoro realmente immane perché considerate che al contrario di quello che è il lavoro della Procura della Repubblica che ha i suoi tempi per lo svolgimento delle indagini, di quello del GIP che tendenzialmente non ha un termine per esaminare le richieste di applicazione di misura, il Tribunale della libertà ha un termine perentorio di dieci giorni entro i quali deve riesaminare tutto il materiale Carcere preventivo e azione penale, punto di vista e responsabilità del GIP 39 che è stato portato alla cognizione del Giudice per le indagini preliminari e decidere se la persona debba stare o meno in carcere. E allora a questo punto, secondo me, dobbiamo tutti gli operatori del diritto, noi e voi, perché anche voi siete degli operatori del diritto, anche voi nel momento in cui svolgete un attività che è assolutamente fondamentale ricordarci il principio costituzionalmente garantito che la pena deve avere una finalità rieducativa, e tendenzialmente anche la carcerazione preventiva. Io vi ho portato, e le lascio come materiale tre sentenze della Corte di Cassazione, due riguardano l’applicazione del mandato di arresto europeo a testimonianza del fatto, e riprendo anche qui un concetto già detto, che il nostro è uno stato molto garantista. Io dico sempre, e non voglio riprendere un’affermazione di una persona ben più importante di me, cioè Giovanni Falcone, è probabile che noi dovremmo optare alla lunga per determinate tipologie di reati per il principio del doppio binario e seguire due principi totalmente differenti. Noi abbiamo un codice di procedura penale probabilmente da paese scandinavo. A testimonianza ulteriore di ciò, nella legge attuativa del mandato di arresto europeo, che è una legge del 2005, il nostro Stato ha stabilito ulteriormente dei paletti per rifiutare eventualmente la consegna di soggetti arrestati in Italia all’estero. L’altra sentenza che vi ho portato è una sentenza che riguarda un caso che effettivamente è un istituto che ha una sua indiscutibile importanza, la famosa riparazione per ingiusta detenzione. Uno dei ristori che vengono garantiti al detenuto in attesa di giudizio che poi si accerti essere un soggetto innocente è, appunto, la riparazione per ingiusta detenzione. Questa sentenza in realtà, dando una lettura più precisa degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale che disciplinano la materia, stabilisce che chi presenta questa istanza non deve poi con il suo comportamento negligente e colposo avere dato causa all’applicazione del provvedimento. È un caso in cui un soggetto era stato sottoposto ad un procedimento penale, a un processo per ricettazione e, pur essendo stato assolto, aveva tenuto un comportamento negligente, perché non aveva provveduto a un controllo effettivo in ordine alla provenienza dell’autovettura che gli era stata ceduta e, quindi, in quanto tale non gli veniva riconosciuta la riparazione per ingiusta detenzione. In conclusione, noi dovremmo, ognuno nel proprio settore, cercare di rivendicare un miglioramento generale delle strutture nelle quali ci troviamo a operare. È stato fatto poc’anzi un rife- 40 Relazioni – I Parte rimento quasi agghiacciante al problema della sanità penitenziaria. Ecco, noi nelle sedi competenti e anche voi con questi convegni, con quelle che sono le possibilità che avete anche attraverso gli organi di stampa, dobbiamo avere il coraggio di rivendicare un miglioramento globale di quelle che sono le condizioni nelle quali ci troviamo a operare, perché è inutile che noi rivendichiamo un miglioramento di determinati settori se poi non abbiamo contemporaneamente il miglioramento di altri. Relazioni – II Parte Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato. Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato Elisabetta Laganà Il tema assegnato richiede di aprire una (drammatica) visione sullo scenario della realtà del carcere e della sua organizzazione. Essere detenuti non significa solo essere privati della libertà, ma soprattutto non avere scelte, dover sottostare a regole di cui talvolta non si comprende il senso, dipendere totalmente da orari e ritmi dell’istituzione, sentirsi isolati affettivamente, subire la mortificazione della propria individualità anche fisica e la perdita dello status sociale, fare i conti con il trascorrere di un tempo spesso vuoto ed inutilizzato. Le lunghe detenzioni determinano una sindrome definita «prisonizzazione» (Clemmer, 1940) che si manifesta con progressiva regressione, passivizzazione e deterioramento psico-fisico, a volte irreversibile, in quanto l’immagine di sé viene duramente attaccata. Tra gli autori che hanno studiato la destrutturazione psichica nelle istituzioni totali ricordiamo Goffmann. «La prima riduzione del sé viene segnata dalle barriere che le istituzioni totali erigono tra l’internato e il mondo esterno… Avviene la spoliazione dei ruoli… gli oggetti che danno un sentimento di sé, il suo corpo, le sue azioni immediate, i suoi pensieri, ciò che possiede… sono violati, la frontiera che l’individuo edifica fra ciò che lo circonda è invasa e la incorporazione del sé profanata» (Asylums, 1961). In situazioni così abnormi gli individui mettono in atto strategie difensive di adattamento molto complesse, che variano da persona a persona e anche nello stesso individuo a seconda dei momenti. Ad esempio, possono nascere strumentalizzazioni e falsificazioni tipiche della situazione totalizzante. Il detenuto può trovare un ruolo ed uno spazio identificativo 44 Relazioni – II Parte aderendo al codice di un sottogruppo criminale, sia che ne abbia fatto parte in precedenza, sia che vi si associ per paura o per spirito gregario, oppure può rifiutare totalmente la società che vive come ostile e unirsi a persone consimili, creando un blocco di solidarietà reciproca contro l’istituzione. Oppure, ancora, può restare isolato e disperato ed esprimersi attraverso una violenza e una aggressività rivolte verso agli altri e le cose e spesso contro se stesso, generando situazioni che possono provocargli il trasferimento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG). L’aspetto del corpo assume varie sfaccettature. Alcuni hanno grandissima cura del corpo, fanno ginnastica, sport, sembra lottare per mantenere in buone condizioni quel corpo che la società tiene segregato e inutilizzato e preservarlo per l’uso futuro; altri, invece, si identificano con l’afflizione dell’istituzione e si lasciano andare maltrattando il proprio corpo come segnale di sofferenza o arma dialettica. L’impressionante numero dei suicidi e di autolesionismo che si verificano negli istituiti si configura come la conseguenza più estrema e devastante del magma sotterraneo della sofferenza. In carcere avvengono suicidi circa 20 volte di più che nelle persone libere, e l’angoscia raggiunge livelli altissimi che molte persone non riescono a tollerare. Di fronte alla mutilazione dell’individualità perpetrata dalla deprivazione del diritto, la risposta della persona passa attraverso la radicale negazione del sé come individuo e diviene speculare, scritta violentemente sul corpo su cui il detenuto incide la propria sofferenza, un corpo identificato con l’afflizione dell’istituzione; come foglio su cui la persona riscrive in termini cruenti il proprio messaggio di esternazione di intollerabili sofferenze psichiche. In carcere spesso si individuano disturbi depressivi che possono manifestarsi in modi differenti a seconda della fase della carcerazione. Si rilevano disturbi d’ansia, più frequentemente all’inizio della detenzione, e soprattutto durante la prima, che possono assumere la connotazione dell’attacco di panico con sindrome claustrofobica, quando il disadattamento persiste dopo il periodo iniziale di detenzione. L’atmosfera dell’attesa del giudizio può aumentare i livelli di ansia determinati anche dall’avvicendarsi della popolazione e dall’attesa per la pena. Anche i disturbi psicotici e la schizofrenia sono piuttosto frequenti: spesso slatentizzati dal contesto di isolamento e costrizione della libertà, i sintomi psichiatrici emergono come espressione eclatante che desta timori Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato 45 e reazioni di allontanamento e rifiuto da parte dei compagni che si sentono minacciati. Il trauma dell’ingresso spesso causa disturbi gastrointestinali, respiratori e cardiaci accompagnati da ansia, depressione e paura. Nel periodo che anticipa la dimissione dal carcere si può verificare la «sindrome di uscita», caratterizzata da sintomi psichici e comportamentali (agitazione psicomotoria, angoscia e depressione, somatizzazioni, aumento del rischio suicidario). Per far fronte alla situazione della detenzione vengono messi in atto vari meccanismi di difesa contro la vita del carcere. Proviamo ad elencarne alcuni, tra i più frequenti. Durante la carcerazione spesso avvengono moti regressivi in cui la persona può assumere atteggiamenti di totale dipendenza da altri detenuti o agenti, oppure può rifiutare di alimentarsi. Il tempo in carcere, svuotato da opportunità riabilitative, è spesso riempito da lunghe discussioni in cui i detenuti descrivono i crimini commessi o ne architettano altri; il carcere diviene così scuola del crimine. In un ambito ristretto, alcuni pazienti trovano una nicchia accogliente nell’istituzione dove tendono ad incistarsi perché si sentono sicuri e protetti, a volte non escono dalla cella, rifiutano le attività e mantengono un discreto tono dell’umore come se si sentissero in un nido protettivo (sindrome da radicamento). L’adattamento passivo è piuttosto comune, e si manifesta con un acritico adeguamento alle regole, acquiescenza e rassegnazione. È inutile dire che, apparentemente, questa è la posizione che crea meno problemi a chi custodisce i detenuti, anche se tutto ciò è l’opposto delle condizioni necessarie per mettere in moto un processo di ristrutturazione della persona; se da una parte, teoricamente, si dovrebbe far leva sulla sua responsabilizzazione e partecipazione, in realtà si verifica, nella maggior parte delle situazioni, una progressiva deresponsabilizzazione della persona, nello sforzo di adattamento al sistema carcerario. Fanno eccezione i portatori di un’ideologia forte che utilizzano per supportare l’io anche in situazioni molto difficili. Una peculiare forma reattiva alla carcerazione è la sindrome ganseriana (pseudo-demenza psicogena o stato crepuscolare isterico). Il giudizio che un detenuto può sentire da parte di altri di incapacità a «fare la galera» può essere vissuto come condanna peggiore della detenzione. Per difendersi da questo giudizio, la persona può ostentare una forza ed 46 Relazioni – II Parte una sicurezza che in realtà non ha; questa è una situazione ad alto rischio perché la difesa messa in atto non gli consente di esprimere il dolore e la sofferenza, che più è negata e più diviene insostenibile sino a manifestarsi in atteggiamenti conclamati di esplosioni auto ed eteroaggressive. Il primo trauma vissuto dalla persona arrestata è rappresentato dall’impatto con il carcere, che può esprimersi in una vera e propria sindrome. La sindrome da ingresso in carcere, consistente in una serie di disturbi psicofisici, compare tanto più frequentemente e manifestamente quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti e può diventare, quindi, tanto più forte quanto maggiore è lo scarto tra la vita condotta fuori e quella del carcere. Molteplici, tuttavia, sono le modalità di risposta adattiva in relazione a più variabili, legate agli aspetti di personalità, alla situazione sociale di appartenenza, all’impatto familiare e pubblico dell’evento, alle condizioni ambientali, compresi gli elementi peculiari dell’istituto e della sua organizzazione fino al tipo di cella e di compresenza. Sul piano clinico la comune reazione d’ansia iniziale, che può assumere aspetti fobici e manifestazioni somatiche, lascia il posto nel tempo di 2-3 giorni alla sindrome da prigionizzazione vera e propria o si avvia, per lo più nei casi di recidivi, ad un progressivo adattamento difensivo, in quanto l’identificazione e la dipendenza dal contesto divengono elementi di sopravvivenza. Poiché, se le condizioni di carcerazione sono fonte di umiliazione della sua dignità, vi sono poche strade: o il «rifugio nella malattia» mentale o fisica, oppure l’identificazione con il contesto. L’ansia può aumentare e divenire angoscia e paura per la propria incolumità fisica, alla quale possono associarsi insonnia, rifiuto del cibo, incapacità di gestire la propria emotività, abbassamento del tono dell’umore; sono, questi, segnali di allarme che devono far temere per la situazione della persona. Alla fase dell’ansia può seguire la fase depressiva caratterizzata da progressivo distacco, indifferenza, ritiro in sé stessi in cui l’abbattimento prende il posto della paura. In questa fase possono apparire idee di rovina, di annichilimento, di incapacità di far fronte alla propria esistenza anche perché percepita solo come un oggetto nelle mani altrui. È sul trattamento di questa condizione che diviene urgente agire, poiché è questo il momento in cui più facilmente il soggetto, sentendosi ormai perduto, può andare incontro ad improvvisi gesti autolesivi e suicidari. E la risposta, che deve necessariamente passare attraverso il lavoro delle Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato 47 figure professionali che operano internamente al carcere, deve essere non solo farmacologica e specialistica, ma soprattutto relazionale, attivando tutta la rete di possibili supporti interni ed esterni al carcere; soprattutto, laddove esiste ancora come elemento positivo, la rete di relazioni familiari può offrire un incentivo alla sopravvivenza ed al mantenimento di quella speranza necessaria per superare il vuoto e reagire alla disperazione. Uno dei possibili tragici epiloghi della depressione, se non trattata, è costituito dal suicidio. Nelle sindromi depressive, infatti, il gesto autolesivo si configura come tentativo per sfuggire all’angoscia della depressione, ad una situazione priva di speranza. Il detenuto depresso tenta il suicidio nel tentativo di liberarsi da una condizione di altissima sofferenza che sente di non poter modificare in nessun altro modo, per poter trovare nella morte l’unico mezzo per far cessare la propria sofferenza. Eliminando se stesso elimina il proprio dolore. Anche le depressioni «trattate» possono, purtroppo, portare alla stessa tragica conclusione; a maggior ragione è necessario mettere in atto tutto ciò che può servire ad alleviare lo stato di sofferenza della persona. Lo stato dell’applicazione del regime carcerario implica in sé, nella maggior parte dei casi, un maggior grado di sofferenza fisica e psichica rispetto alla vita non detentiva. Anche in un contesto che rispetti i principi di trattamento e riabilitazione che l’Ordinamento penitenziario prevede, il ristretto è immerso in un ambiente complesso e conflittuale, sotto la pressione di un numero elevato di variabili non controllabili, e quindi fonti di angoscia; inoltre i rapporti del detenuto con le figure educative e sanitarie (psicologo e psichiatra) risentono di discontinuità, di frammentarietà e carenza dell’intervento. La sofferenza in carcere coinvolge anche gli operatori che, per allontanare l’ansia, mettono in atto difese massicce, come la spersonalizzazione degli utenti, la negazione dei sentimenti, la delega. Alcuni studiosi sostengono che nel carcere, in quanto istituzione violenta, circolano tra il personale e i detenuti contenuti inconsci molto primitivi, come il trasferire ad altre persone stati mentali che i soggetti rifiutano. Queste proiezioni invasive producono deformazioni e risposte irrazionali perché gli operatori non sono generalmente aiutati a riconoscere e a restituire metabolizzate le identificazioni proiettive dei detenuti. In istituzioni violente come quella carceraria è molto diffusa l’angoscia persecutoria, 48 Relazioni – II Parte che ostacola la possibilità di sentire il rimorso per il danno fatto a se stessi e agli altri. Tra gli operatori penitenziari è spesso presente il disagio di essere pochi ed insufficienti, oberati dai compiti quotidiani. Questo implica rilevanti conseguenze sul piano delle prestazioni; e, in effetti, il sistema lascia poco spazio per il trattamento. Gli operatori e i volontari hanno spesso l’impressione di lavorare in un’area di mistificazione condivisa, di falsa coscienza del trattamento che di fatto non si può realizzare per carenza di personale, mezzi, ecc. Per realizzare il vero portato del trattamento, gli operatori dovrebbero facilitare il passaggio dell’angoscia depressiva e dei sentimenti rivendicativi verso la capacità di senso di responsabilità. In tal senso il carcere, per favorire un uso costruttivo della pena, dovrebbe prevedere che il condannato abbia uno spazio, un tempo, un’attenzione individualizzati e soprattutto modalità di colloquio che gli diano la possibilità di reinvestire su nuovi oggetti le energie precedentemente canalizzate in attività devianti. L’impegno degli operatori del trattamento, nei confronti della forza spersonalizzante dell’istituzione totale, dovrebbe essere quello di ridefinire ogni volta Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato 49 il detenuto come persona in grado di compiere, con il loro supporto, una rivisitazione critica del suo passato e scelte consapevoli per il futuro. Non si può, pertanto, non riconoscere che un certo grado di sofferenza psichica è implicito ed inevitabile nell’applicazione del regime detentivo, a prescindere dalla qualità delle condizioni di vita che quel determinato istituto può offrire. Non dimentichiamoci che abbiamo a che fare con l’ultima delle istituzioni totali, la più resistente al cambiamento. Robert Castel afferma che con la deistituzionalizzazione degli altri presidi totalizzanti (manicomio, istituti) è realizzata la possibilità di infrangere il monopolio degli specialisti. La presenza dei volontari, della cittadinanza, rappresenta appunto questa possibilità di rottura e di apertura. A fronte della dipendenza insita nell’istituzione totale deve nascere il percorso della creazione di molteplici scambi. L’estensione della solidarietà oltre i legami parentali è considerata un requisito indispensabile al funzionamento di un assetto di salute civica, e quindi di salute mentale. Il volontariato e il no-profit esprimono il cosiddetto capitale sociale della comunità; il loro orientamento si basa sulla solidarietà e sul rispetto delle differenze, mette in opera comportamenti cooperativistici, muta ed amplia i rapporti tra la città e l’istituzione. Può, quindi, un volontario divenire portatore di salute mentale nel carcere? Il tempo carcerario sprecato, inutilizzato può divenire, attraverso l’incontro ed il dialogo, un «tempo della parola», e quindi dell’ascolto, denso di potenziale terapeutico. E questo tempo, questo incontro non è una condizione astratta, ma è la risposta che di volta in volta viene trovata nell’ambito dello specifico dell’incontro in una situazione dinamica, momento per momento e caso per caso, del rapporto esistente tra quel determinato volontario e quella determinata persona ristretta, ponendo in primo piano il fattore soggettivo, e quindi la motivazione dell’essere lì diventa fattore terapeutico e di salute mentale poiché, a fronte del processo di spersonalizzazione operato dall’istituzione, può offrire un processo di ri-singolarizzazione. È ormai chiaro che i tassi di carcerizzazione non sono in relazione all’andamento della criminalità («percepita» o reale che sia), ma sembrano fare molto più riferimento a come si esprime socialmente la domanda di penalità. L’opera del volontariato può costituire un baluardo nel contrasto 50 Relazioni – II Parte di una penalità isolante, che «stacchi la corrente» tra carcere e territorio: il volontariato, quindi, come espressione di sinapsi sociali, anche nel moltiplicare soluzioni che potenzino offerte e valori alternativi alla cultura carceraria. La salute mentale chiama in causa responsabilità sociali e istituzionali, di definizioni e organizzazioni dei contesti in cui si attua. Il sistema carcerario è, in sé, portatore di problematiche e pare insanabile il conflitto tra la modalità in cui il trattenimento del detenuto si esplica e la possibilità di costruire condizioni di salute mentale. La salute stessa assume nel contesto carcerario limiti dettati dall’istituzione in cui le ristrettezze economiche e i continui tagli sull’assistenza sanitaria e psicologica creano difficoltà nel realizzare e portare avanti scelte di riforma univoche, chiare, non contraddittorie tra il mandato di tutela dei diritti e come esso si esplica. D’altronde, la salute che viene ritenuta accettabile in una istituzione carceraria è quella che sostanzialmente si conforma con gli aspetti di autoreferenzialità del sistema, cioè con l’uniformarsi dell’individuo all’organizzazione e ai suoi ritmi, agli orari, agli spazi, alle attività, alle definizioni di sé e dell’altro che l’istituzione totale in quanto tale impone. Alcune ricerche empiriche evidenziano la differenza delle rilevanze degli atti autolesivi stabilendo come criterio l’alto o il basso regime trattamentale. Per alto grado trattamentale si intende un maggior numero di ore fuori dalla cella, di opportunità trattamentali (operatori, opportunità lavorative, formative, culturali, prevalenza di condannati definitivi); per basso grado trattamentale si intende ovviamente l’opposto. In ultimo ci sono le sezioni più «difficili»: quelle dei collaboratori, sex-offenders, ecc. I risultati sono scontati. Dove ci sono le condizioni peggiori si verificano un maggior numero di autolesionismi, o comunque di comportamenti anomali. Allora, cosa si può fare? Torniamo ai concetti della salute mentale, della relazione e della reciprocità. L’evento autolesivo richiede non solo un aiuto medico, chiede aiuto; perché la sofferenza non è, di per sé, malattia. Quanto sono ovvi i risultati, altrettanto dovrebbero essere le risposte. Certo, è indispensabile il potenziamento dei presidi psicologici e psichiatrici, ma questo riporta ancora alla «sanitarizzazione» del disagio e della Disagio psicologico nella carcerazione. Il ruolo del volontariato 51 sofferenza. Quindi, vanno potenziate le opportunità di incontro e di ascolto, stando «dentro» le situazioni, ascoltando, facendosi carico, non solo da parte dei professionisti. L’ascoltare e il sapere ascoltare assumono pertanto valore etico, di tutela della soggettività della persona, in quanto è riconoscimento del soggetto in una dimensione di incontro tra persone; dove il saper ascoltare significa anche cogliere i segnali premonitori di possibili gesti indotti dalla sofferenza, e renderne partecipi tutti i soggetti coinvolti intorno a quella persona allo scopo di prevenire esiti drammatici. Ai fini della tutela della vita e della prevenzione dei suicidi e dei comportamenti autolesivi vi sono circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che hanno evidenziato la necessità di prestare la massima attenzione, sia al momento dell’ingresso che nel corso di tutta la detenzione, ad ogni segnale di fragilità fisica o psichica che possa manifestarsi in atti auto ed etero aggressivi da parte della persona detenuta. All’attenzione alla diagnosi precoce e all’intervento ai primi segnali di disagio e di sofferenza sono chiamati gli operatori istituzionali; tuttavia, tutti coloro che gravitano intorno al trattamento del soggetto (volontari, insegnanti, terzo settore, ecc.) possono essere rilevatori di profondi stati di malessere di cui è doveroso prendersi tempestivamente cura in un’ottica di lavoro congiunto. I suicidi sono l’epilogo più drammatico del disagio della detenzione. Nelle carceri italiane dal 1° gennaio al 31 ottobre 2008 sono morti almeno 40 detenuti per suicidio. Rispetto allo stesso periodo del 2007 il numero di suicidi tra i detenuti è aumentato dell’11% (dati tratti da Ristretti Orizzonti). Tra i suicidi, i soggetti tossicodipendenti rappresentano il 31% dei casi; si uccidono con maggiore frequenza in sentenza definitiva e in prossimità della scarcerazione. Questo a significare il timore delle problematiche legate alla rimessa in libertà, con la condizione di provenienza e con gli aspetti non risolti della dipendenza da sostanze. L’ingresso in carcere ed i giorni immediatamente seguenti costituiscono un altro momento nel quale il rischio suicidiario risulta elevato, non solo per i tossicodipendenti: molti detenuti per omicidio, che rappresentano il 13% dei casi di suicidio esaminati, si sono tolti la vita nei primi giorni di detenzione. Altri avvenimenti della vita carceraria possono favorire la decisione di togliersi la vita: la perdita degli affetti familiari, la notizia di 52 Relazioni – II Parte trasferimento in un’altro istituto, le revoche di permessi o di misure alternative. L’incremento della popolazione carceraria ha, quasi sicuramente, una incidenza in termini di aumento dei gesti estremi, perché rende più aspre e difficili le condizioni di vivibilità. Visti i drammatici dati in aumento sia dell’affollamento che degli eventi autolesivi, è quindi necessario potenziare qualsiasi forma di presidio di tutela della vita dei soggetti. Una vera presa in carico presume il riconoscimento di una storia, di una dignità, di un nome, e di un progetto di vita. Sta a tutti quanti si occupano del carcere contrastare con parole, azioni, speranze e progetti futuri, un gesto di silenzio estremo. Carcerazione preventiva. Parola alla difesa Sergio Monaco Ringrazio, innanzitutto, gli Organizzatori per avermi invitato. È un’occasione bella perché mi consente di replicare anche al dottore De Francisci che, come voi avete certamente apprezzato, oltre ad essere un oratore è anche un caustico oratore. In realtà la faccia di Alberto Sordi che vedo nella locandina del nostro convegno, mi richiama molto la disposizione dell’articolo 27 della Costituzione. Infatti, secondo me, in quel momento, Sordi si chiedeva ma questo articolo 27 della Costituzione cosa significa? Perché l’articolo 27 stabilisce che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Ed allora noi ci troviamo davanti ad una situazione certamente particolare: quella di un soggetto che viene privato della libertà personale, ancorché non riconosciuto colpevole, in via definitiva, di alcun reato. E non sono d’accordo sulla circostanza che oggi si arresti meno e vi siano minori provvedimenti cautelari rispetto al passato. I dati statistici indicati dal dottor Faramo parlano chiaro! Infatti, abbiamo una popolazione di detenuti in attesa di giudizio che è veramente considerevole. Ritengo, però, che si debba fare una differenza. Vi sono detenuti in attesa di giudizio per i quali le esigenze cautelari vengono valutate caso per caso e quelli per i quali sono presunte. Cioè quei soggetti che rispondono di reati di criminalità organizzata qualificata. Per questi, certamente, la custodia cautelare è un problema che si protrae nel tempo perché, praticamente, tranne che per situazioni eccezionali quali la decorrenza dei termini di custodia cautelare o le condizioni di salute che rendano incompatibile la detenzione in carcere, costoro sono detenuti in attesa di giudizio che tali rimarranno per diversi anni. Altra situazione, invece, è per coloro che non rispondono di delitti di delinquenza 54 Relazioni – II Parte associativa qualificata, quindi di stampo mafioso, cioè quei detenuti che rispondono di reati comuni e lì, certamente, ci troviamo davanti al nodo, a mio avviso, del problema. Perché, in realtà, questi soggetti possono essere destinatari di misure cautelari, come accennava il dottor Conte, in presenza di determinate esigenze cautelari quali il pericolo, appunto, dell’inquinamento probatorio, il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione delle condotte già poste in essere. Ma questi tre pericula che sono detti pericula libertatis, in realtà si possono assicurare mediante la detenzione in carcere o mediante altri sistemi, altre misure che consentono di deflazionare l’uso del carcere? In realtà il nostro codice in materia è abbastanza duttile. Perché secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, oggi, per essere destinatario di una misura cautelare, non occorrono i gravi indizi di colpevolezza quali quelli che noi siamo adusi a tener presente per la sentenza di condanna quando siano convergenti, quando siano univoci, quando siano di una certa gravità, perché la giurisprudenza è arrivata al concetto di alta probabilità che il soggetto sia colpevole del reato di cui è accusato e quindi quando scendiamo nel campo dell’alta probabilità, allora ci rendiamo conto come sia molto delicato lo strumento della custodia cautelare, come questa vada applicata, realmente e non ideologicamente quando nessun altra misura appare idonea. In realtà, nella pratica, questo spesso non avviene e non avviene per una serie di circostanze che certamente non sono addebitabili integralmente ai giudici, perché un primo elemento, che chiaramente desta allarme, è il pericolo in cui la società si sente quando un rapinatore compie, appunto, un atto violento nei confronti della sua vittima e dopo qualche mese, mancando le esigenze cautelari perché la prova è stata assicurata, perché il soggetto non si è dato alla fuga o comunque non si stava per dare alla fuga o comunque si è costituito, o perché i suoi precedenti penali non sono particolarmente gravi, allora ecco che questo soggetto torna in libertà e lì, chiaramente, l’opinione pubblica si stupisce: «Ma come? Ha rapinato! Ha posto in essere un atto violento! E già questo soggetto è fuori!». Allora ecco che certamente a fronte di questi giusti allarmi sociali occorre che venga contemperato l’uso della custodia cautelare in quei termini in cui realmente non se ne può fare a meno, perché, ripeto, il nostro codice prevede una serie di misure alternative anche nella fase cautelare, dal divieto di espatrio, all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, dall’allontanamento della casa familiare quando si tratti Carcerazione preventiva. Parola alla difesa 55 di reati commessi in danno dei congiunti, al divieto e all’obbligo di dimora o degli arresti domiciliari. Soltanto la custodia cautelare in carcere, unitamente alla custodia cautelare in luogo di cura, viene ritenuta la cosiddetta extrema ratio. Questa extrema ratio, però, devo dirvi, da avvocato, la vedo applicata non come tale ma spesso, purtroppo, per quelle motivazioni che abbiamo detto di allarme sociale, per certe tipologie di reato per le quali si vuole dare una risposta, si vuol dare un’immagine di efficienza dello Stato, dimenticando, talvolta, che malgrado l’evidenza del fatto di reato e che il soggetto lo abbia commesso, tuttavia vige una presunzione di non colpevolezza che non consente di considerare quel soggetto alla stregua di un condannato e quindi di imporgli un regime di custodia cautelare che, nella struttura carceraria, è certamente diverso e più penalizzante. Le soluzioni, certamente, devo dire ce le può dare in parte la verifica tramite il Tribunale della libertà, non parliamo della Corte di Cassazione che ormai, con il concetto di alta probabilità, ha reso praticamente evanescenti i ricorsi avverso le decisioni del Tribunale del riesame. E devo dare ragione al dottore Conte quando dice che il Tribunale del riesame, che pur dovrebbe verificare le decisioni del Giudice delle indagini preliminari, è schiacciato tra un termine che è assolutamente irrisorio perché basti considerare i processi ai quali seguono volumi e volumi di atti a sostegno della richiesta di custodia cautelare e basti considerare il brevissimo termine entro cui il Tribunale del riesame deve valutare le esigenze cautelari e la scelta della misura il tutto dovendo contemperare il diritto alla libertà di ogni cittadino ma dovendo, altresì, stare attento a non compromettere quelle che sono le indagini che svolge il Pubblico Ministero che della misura cautelare ha di bisogno per portarle avanti, o tutelare o salvaguardare la società da comportamenti di reiterazione. E allora una conclusione la dobbiamo trarre! Non c’è dubbio, a mio avviso, che il giudice ha la possibilità di deflazionare la presenza di detenuti in attesa di giudizio con una serie di misure alternative e graduali che, certamente, possono modificare l’originario stato di custodia cautelare in carcere con varie altre misure quali gli arresti domiciliari, l’obbligo o il divieto di espatrio, l’obbligo di presentazione, che consentono il controllo del soggetto e, soprattutto, a quel soggetto di non amalgamarsi con la popolazione carceraria. Da avvocato vi devo dire che dopo i primi tre mesi ho notato sempre un cambiamento da parte dei miei assistiti detenuti. Diventano meno recuperabili, 56 Relazioni – II Parte perché la struttura carceraria – checché se ne dica, checché si sostenga che la detenzione deve tendere a non isolare il soggetto dalla società – in realtà lo assorbe e poi, alla fine, quel soggetto magari verrà assolto dal reato per il quale ha subito la custodia cautelare in carcere ma, durante la stessa, avrà contratto amicizie, conoscenze, rapporti e obblighi che lo riporteranno, con grande probabilità, a delinquere nuovamente. Pertanto il mio contributo è questo: probabilmente ha ragione il dottore De Francisci che vorrebbe arrestare tutti, ma a qualcuno, ogni tanto, diamogli una misura diversa dal carcere! Carcerazione preventiva e misure alternative Nicola Mazzamuto Nel distretto palermitano, come nel resto d’Italia, i magistrati di sorveglianza, in proporzione alla popolazione carceraria, sono veramente pochi: tre a Palermo su un organico di cinque più il presidente; a Trapani due posti in organico drammaticamente vuoti da molti anni, cui si supplisce con applicazioni periodiche; ad Agrigento due posti in organico di cui solo uno coperto; negli altri distretti siciliani (Caltanissetta, Messina e Catania) lavora circa un’altra decina di magistrati di sorveglianza, complessivamente sul territorio nazionale siamo meno di duecento. E allora io devo dire qual è il ruolo del magistrato di sorveglianza. Il magistrato di sorveglianza è in questo dibattito l’ultimo nell’ordine degli interventi, ultimo tra gli ultimi che difficilmente diventeranno primi. Devo dire che, in vista di questo interessante seminario, anche in considerazione del parterre du roi dei relatori, mi son chiesto: mi preparo o non mi preparo. Ho pensato: intervengo a braccio anche perché è il modo più confacente di trattare la materia penitenziaria. È una battuta: braccio è il tipico termine del gergo penitenziario, dell’edilizia penitenziaria. Quindi non so quello che vi dirò. Diciamo che non so quello che vi dirò in venti minuti. Penso invece che «quello che il cuore mi detta dentro», come diceva il sommo poeta, «vi andrò significando». Quindi vediamo cosa viene fuori. Allora inizierei proprio nel segno di Padre Oliva, straordinaria figura di sacerdote gesuita dedito al mondo dei carcerati, che provvidamente veniva ricordato dal procuratore De Francisci, di cui si racconta un episodio, della cui veridicità storica non dubito, quello cioè di un detenuto il quale diceva: «Io tutta la giornata sto in attesa di un momento». Qual era questo momento? Il mo- 58 Relazioni – II Parte mento in cui Padre Oliva apriva lo spioncino, gli sorrideva, lo salutava e gli dava una parola di conforto. E allora però che riflessione mi viene? Adesso ricollego l’episodio al tema e anche alle cose condivisibili che ha detto prima la dottoressa Laganà e la riflessione è: disgraziato quel Paese che ha bisogno di santi, di eroi, dell’opera preziosa dei volontari, sempre insostituibili perché un supplemento di carità è necessaria anche nelle istituzioni più efficienti, però non può essere l’alibi dello Stato che è inefficiente e manchevole e ricorre ai volontari. È «disgraziato» quel detenuto che ha bisogno come sua unica speranza di vedere Padre Oliva che apre lo spioncino. Quindi, il problema che si pone in tutta la sua serietà è quello di uno Stato che deve garantire i diritti fondamentali e deve osservare e fare osservare le sue leggi. Uno Stato che esercita il magistero penale, minaccia pene e sanzioni a chi non osserva le leggi e poi nell’istituzione che è preposta all’esecuzione di tali pene non fa osservare le leggi che si dà. Quale grande contraddizione! Quindi il primo punto, io direi, è proprio la riaffermazione della legalità penitenziaria come è scolpita solennemente nella Costituzione e nell’Ordinamento penitenziario. Allora io direi: proseguiamo affrontando il tema del sovraffollamento. Sovraffollamento di un carcere di presunti innocenti, diciamo meglio, di presunti non colpevoli, per stare proprio al dettato letterale della norma costituzionale. E nel ritmo di progressione geometrica di questo sovraffollamento siamo soltanto all’inizio, giacché il dato recentemente fornito al Parlamento dal ministro Alfano è un dato che è destinato a crescere progressivamente, ma ammettiamo pure che si mantenga costante il trend di crescita di mille detenuti in più al mese e sono mille in gran prevalenza detenuti in stato di custodia cautelare, quindi giudicabili. Ammettiamo quindi che si mantenga questo ritmo ed è un ritmo che cresce perché cresce la crisi sociale e aumentano i fattori criminogeni, come è evidente, è inutile spiegarlo, in questo concordo col dottore De Francisci e col dottor Conte. Ci sono in questa società, in cui vi è una crisi mondiale, oltre che nazionale e locale, fortissime spinte criminogene ed è così frequente il ricorso al crimine, come via d’uscita a tale crisi e come prodotto di essa, con conseguente aumento della popolazione detenuta. Dico ciò indipendentemente dal fatto se poi i pubblici ministeri e i GIP sono più o meno garantisti, vogliono più o meno arrestare, chi è più o meno forcaiolo, ma questo non è un dato strutturale, concordo che il dato strutturale è quello delle forti Carcerazione preventiva e misure alternative 59 spinte criminogene presenti nella società che fanno aumentare la popolazione dei detenuti. E quindi se noi immaginiamo che nei prossimi tre anni si mantiene questo ritmo abbiamo dodici mila detenuti in più l’anno. Dodicimila, dodicimila, dodicimila, arriveremo nell’arco di un triennio quasi a centomila detenuti. Con una capienza regolamentare che il Ministro della Giustizia ha indicato in circa 37.000 detenuti, era di 42.000, ma con onestà intellettuale il Ministro ha detto in realtà sono 37.000. Comprendete: centomila detenuti tra tre anni e una capacità ricettiva del sistema penitenziario di 37.000 detenuti. Una tragedia, un inferno, la più grande emergenza sociale del nostro Paese, altro che quella dei rifiuti di Napoli. Allora, qual è il primo punto? Il primo punto è: già di per sé il sovraffollamento lede i diritti individuali e collettivi dei detenuti, è una causa «macrostrutturale» di lesione dei diritti del detenuto; intanto perché – mi permetterò di leggere qualche norma nel corso del mio intervento perché le norme hanno una loro solennità; ha fatto bene l’avvocato Monaco a leggere l’articolo 27 Cost., riscopriamo la solennità delle norme – l’art. 5 OP dice che «Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati», un numero non elevato! Questo è un diritto del detenuto, cioè ogni detenuto, in custodia cautelare o in espiazione di pena, ha il diritto ad essere ristretto in un carcere non sovraffollato. Questo è un punto fondamentale. E allora qual è il rimedio? È evidente che del sovraffollamento come fenomeno macrostrutturale non si potrà fare carico né il magistrato di sorveglianza e neanche il GIP, giacché, come è evidente, la concessione di una misura (espiativa o cautelare) alternativa al carcere dipende dalla ricorrenza di tutti i suoi presupposti di legge. Nessuno di noi darà la detenzione domiciliare o gli arresti domiciliari solo perché vi è il sovraffollamento. E allora a ciascuno il suo: esiste un’enorme responsabilità politica e politico-amministrativa per l’incuria di tanti anni, i cui nodi oggi vengono al pettine, per la mancanza nel nostro Paese di una vera politica criminale e penitenziaria. Oggi drammaticamente rischiamo di scontrarci contro un muro, siamo lanciati a velocità folle contro un muro. Lo abbiamo detto in occasione di un convegno che i vertici dell’amministrazione penitenziaria organizzarono circa un anno e mezzo fa a Roma. Il Presidente Tamburino, coordinatore nazionale dei magistrati di sorveglianza, in quella sede ebbe a dire che il sistema penitenziario, senza investimenti strategici, rischia di 60 Relazioni – II Parte essere un convoglio in corsa verso un muro. Cosa facciamo? L’indulto: è un’occasione che rischiamo di sprecare o dobbiamo invece progettare il futuro? Ed il rischio è che, dinanzi a questa grande emergenza, continui la politica del piccolo cabotaggio, in cui si cercano pannicelli caldi e non si pone mano alle risorse strategiche, ai fattori strategici che in una visione progressiva possono consentire di risolvere il problema del sovraffollamento; i mali sono cronici, il problema non si affronta né in sei mesi né in un anno, occorre una lunga stagione, ma di riforme profonde, non di pannicelli caldi. Diciamo qual è il ruolo del magistrato di sorveglianza. È evidente – come ho detto prima – che ci sono cause macrostrutturali di lesione dei diritti, in ordine alle quali poco può fare il singolo magistrato di sorveglianza, la singola amministrazione penitenziaria periferica; occorrono, di fronte a cause macrostrutturali, interventi macrostrutturali. L’indulto è stato un intervento macrostrutturale, secondo me un male necessario, necessitato dall’insostenibile congiuntura penitenziaria che si era determinata e che rischia oggi di riprodursi rapidamente. La legge di indulto è stata approvata con larghissima maggioranza parlamentare. È un paradosso italiano che tutte le leggi penitenziarie (quella del ‘75; la Gozzini; la legge Simeone; l’indulto ecc.) siano tutte leggi bipartisan, approvate quasi all’unanimità, e poi tutti a denigrarle, a rimangiarsele, a ritirare e nascondere la mano dopo avere lanciato il sasso. Ripeto: esiste un livello macrostrutturale in ordine alla quale il magistrato di sorveglianza poco può fare. Facciamo l’esempio del diritto alla salute, che non è soltanto un diritto al rispetto della mia integrità psico-fisica, ma è anche un diritto alle prestazioni del servizio sanitario nazionale. È chiaro che se non ci sono soldi per la sanità penitenziaria, come ha ricordato prima il provveditore Faramo, proprio un diritto fondamentalissimo come la salute rischia di essere sacrificato; lì c’è poco da fare, lì è un problema di politica finanziaria dello Stato e della Regione, un problema con cui ci scontriamo quotidianamente andando in carcere, raccogliendo i reclami dei detenuti che non hanno i farmaci, epperò la risposta dell’amministrazione qual è? Ma se non abbiamo i soldi per comprarlo come glielo diamo il farmaco? E quindi l’unica cosa da dire nell’immediato è che nel frattempo se lo compri lui, se ha i soldi, oppure che glielo porti il volontario, se glielo può portare… Carcerazione preventiva e misure alternative 61 per interposta persona… lo consegna al direttore che lo consegna al detenuto… Comunque, voglio dare la misura dei problemi pratici che vanno spesso al di là delle possibilità di intervento giurisdizionale della magistratura di sorveglianza. Certo bisogna ribadire con forza la necessità della tutela dei diritti dei detenuti, primo fra tutti quello alla salute, lo status detentivo comprime i diritti, ma non li sopprime, non li cancella, e poi esistono diritti che non sono neppure compressi dallo status detentionis, altri che sono compressi, ma egualmente nel loro contenuto minimo vanno tutelati. Per un elenco di tali diritti basta leggere la legge penitenziaria: il diritto al vestiario, il diritto all’igiene personale, non sono cose scontate, perché il problema oggi è di tutelare i diritti minimi, il problema sono i livelli minimi di esistenza dignitosa della persona all’interno del carcere. Ma poi anche, ad esempio, il diritto allo studio, come nel caso dell’imputato detenuto, il quale ha diritto a un trattamento. Qui leggiamo l’art. 1 OP secondo cui il trattamento dell’imputato deve essere rigorosamente informato al principio della presunzione di non colpevolezza, e poi l’art. 15 OP che recita «Gli imputati sono ammessi a loro richiesta a partecipare alle attività educative, culturali, ricreative, salvo giustificato motivo contrarie alla disposizione giudiziaria, a svolgere attività lavorativa, di formazione professionale, possibilmente a loro scelta e comunque in condizione adeguata alla loro posizione giuridica». Questo è un diritto soggettivo perfetto. E poi dirò pure del diritto al colloquio col magistrato di sorveglianza che è un punto molto importante. Qui devo fare una piccola parentesi tecnico-giuridica che è necessaria. Si pone il problema : ma il magistrato di sorveglianza ha competenza in materia di tutela giurisdizionale dei diritti del detenuto imputato? Occorre leggere l’art. 69 OP, in cui intanto si dice una cosa importante, cioè il magistrato di sorveglianza esercita la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità alle leggi e ai regolamenti. È il potere di vigilanza. Poi vi è una norma, contenuta nel 5° comma, che dice che il magistrato di sorveglianza impartisce nel corso del trattamento disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati. Sembrerebbe che gli imputati siano esclusi. Non è così. Questo è il punto: la lettera della norma 62 Relazioni – II Parte oggi va interpretata alla luce di una fondamentale sentenza della Corte Costituzionale del ‘99, la quale ha detto che l’art. 69 è incostituzionale nella parte in cui non prevede una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizioni della libertà personale, ricomprendendo così anche gli imputati. Quindi oggi il magistrato di sorveglianza ha il potere di impartire disposizioni dirette ad eliminare violazioni dei diritti non solamente nei confronti di condannati e internati, ma anche nei confronti degli imputati detenuti. Pertanto, non vi è più soltanto un potere di vigilanza, ma anche un potere di tutela inibitoria, cioè di disporre alcunché nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, se si riscontrano delle violazioni si ingiunge all’amministrazione di eliminare le cause della lesione in atto. Dunque, per accordare tale tutela inibitoria occorre in buona sostanza che ci sia un diritto, che questo diritto sia leso e che la lesione sia in atto. L’amministrazione penitenziaria, in presenza dell’ordine inibitorio del magistrato di sorveglianza, è tenuta ad adottare tutte le misure necessarie affinché cessino le condizioni della lesione riscontrata ed il diritto sia ripristinato. Chiarito che oggi questa competenza giuridica esiste in capo al magistrato di sorveglianza anche nei confronti degli imputati detenuti, il problema è la sua attuazione. Qui si deve registrare una carenza cronica di tempo e di forze. Abbiamo detto all’inizio che siamo in pochi, abbiamo notevoli Carcerazione preventiva e misure alternative 63 difficoltà ad andare regolarmente in carcere ed a garantire il diritto al colloquio, che è il veicolo attraverso cui il detenuto denunzia le lesioni dei suoi diritti. Certo, vi è anche il reclamo scritto, ma molte volte la via della rappresentazione orale dei problemi è la via migliore. La legge penitenziaria prevede, infatti, che il magistrato di sorveglianza deve avere colloqui frequenti con i detenuti, condannati, internati e anche imputati. Questo è un problema serio, perché noi stessi che siamo, dice la Corte costituzionale, la magistratura dedicata alla tutela dei diritti del detenuto abbiamo difficoltà ad andarlo a sentire perché lui ci dica quali sono i suoi problemi, che in non pochi casi sono problemi relativi alla lesione di diritti. Talvolta queste lesioni dei diritti sono dovute a cause oggettive, non imputabili al comportamento dell’amministrazione, altre volte sono dovute alle cause più varie di natura pratica e organizzativa ed il magistrato di sorveglianza può intervenire, anche informalmente, con un magistero di persuasione presso la direzione penitenziaria per risolvere tanti di questi problemi. In alcuni casi è però necessario giurisdizionalizzare il procedimento, fissando l’udienza con PM e difensore ed esercitare con l’ordinanza conclusiva poteri di coercizione giuridica diretta, la cui cogenza può giungere, in caso di inottemperanza, fino alla nomina di un commissario ad acta. Devo però dire francamente, e di ciò rendere merito all’amministrazione penitenziaria, che tutte le volte che il magistrato di sorveglianza ha disposto alcunché, secondo diritto e con equilibrio e saggezza, l’amministrazione penitenziaria si è sempre adeguata. Devo dire la mia esperienza: laddove ho disposto qualche cosa, che era qualcosa di obiettivo, di oggettivo, di corrispondente alla normativa, ripeto, l’amministrazione si è sempre adeguata. Quindi vi è uno spazio ampio di interventi efficaci a tutela dei diritti. Dicevo prima del diritto al colloquio con il magistrato di sorveglianza. Vi racconto un piccolo episodio per darvi la misura concreta del problema. Sono andato a Trapani, dove il presidente Bellet oggi qui presente con grandi sforzi organizzativi sta cercando di garantire la funzionalità dell’Ufficio, scoperto da tanti anni, applicando in modo turnario i magistrati palermitani. Allora, vado in carcere a Trapani, dopo tanti anni che non si andava, con una situazione di profondo disagio, con evidente grande bisogno dei detenuti di parlare; mi avvicino alla cella dove erano raggrup- 64 Relazioni – II Parte pati i detenuti ed uno disse: «C’ha pozzu cuntari ‘na barzelletta?». Acconsento e lui dice: «C’era una persona che era disperata, si buttò da una rupe e invocò S. Antonio. Una mano arrivò e l’acciuffò: “Grazie S. Antonio da Padova”. “Io ‘un sugnu S. Antonio da Padova, sugnu S. Antonio Abate” e lo lasciò cadere». Abbiamo riso. Sento il detenuto, quello che ha raccontato la barzelletta, il quale mi racconta la sua storia e mi esprime la sua ansia la sua aspettativa di avere un permesso, di fissare udienza col magistrato di sorveglianza e così via; insomma mi espone i suoi problemi. Siamo stati mezz’ora a parlare. Dopodiché sono stato costretto a dirgli: «Guardi la mia applicazione come magistrato a Trapani finisce tra pochi giorni». E questi dice: «Miii… mi finì come a quello della barzelletta!» Cosa voglio dire? Voglio dire che il problema di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, nel caso nostro dei diritti dei detenuti, è una cosa difficile, una cosa complicata, giacché mancano le strutture. Aveva ragione il collega Conte: il problema è quello di uno Stato che non si dà le strutture; le prevede e non le organizza. È un fatto tragico questo, giacché mancanza di strutture significa carenza di persone, risorse, tempo, mezzi. A fronte della situazione presente quali sono le prospettive strategiche? Qui abbiamo esercitato il pessimismo della ragione in compagnia del dottor De Francisci, che è un osservatore all’antica, che esercita saggiamente il pessimismo della ragione, ma ci vuole in questo momento un obamiano ottimismo della volontà, perché altrimenti siamo di fronte ad un’emergenza, ad una tragedia di cui non intravediamo neanche un principio di soluzione. Ma che cosa bisogna fare? Sono d’accordo ancora con il collega Conte: bisogna che si diffonda veramente l’idea del carcere come extrema ratio, e questo è un problema cruciale dell’auspicata riforma del codice penale. Ma affinché il carcere possa costituire l’estrema ratio occorre che la penultima, la terzultima… funzionino. Perché il carcere non diventa extrema ratio, ma oggi è la prima ratio? Perché le altre rationes non funzionano. Allora dobbiamo impegnarci per farle funzionare, il che, sul versante della pena, significa promuovere e potenziare le misure alternative alla detenzione e, sul versante cautelare, significa, lo vedremo, fare funzionare le misure cautelari non detentive. Carcerazione preventiva e misure alternative 65 Oggi la gente invoca la certezza della pena e la classe politica ripete in continuazione questo slogan. Ma che significa certezza della pena? Bisogna capire cosa c’è dentro questa formula: ci sono delle cose profonde, ci sono delle cose demagogiche. Nella sostanza vi è un’esigenza di efficacia delle misure, cioè un bisogno che la pena sia efficace, quando si dice certa questo in fondo si vuole dire. Cosa occorre allora? Sul versante della pena occorre che funzionino le misure alternative ed oggi le misure alternative, specialmente nei confronti della criminalità medio-bassa, funzionano complessivamente bene, anche se questa realtà è poco conosciuta ed apprezzata. Il problema è come funzionano nei casi difficili, difficilissimi, con forte impatto simbolico sull’opinione pubblica, possiamo citare il caso Maso o il caso Izzo, ed è un problema in simili casi di discernimento nella somministrazione di tali misure e di adeguata gestione esecutiva di esse, ma questo è un problema diverso dal funzionamento ordinario delle misure alternative che nella stragrande maggioranza dei casi, ripeto, funzionano e funzionano abbastanza bene. Lo si è visto dalle indagini statistiche e criminologiche dell’Università di Torino, propagandate dal DAP ,la cui conclusione è : diminuisce la recidiva con le misure alternative. Il discorso è complesso e merita ulteriori approfondimenti. Però questo è un dato: dove si tratta con le misure alternative si abbatte la recidiva e dove invece si tratta o, è meglio dire, non si tratta col carcere si alimenta la recidiva. Naturalmente anche il carcere può, anzi deve, essere rieducativo, ma ci vuole il trattamento rieducativo in carcere. Laddove c’è, il carcere riesce ad essere salutare, a volte abbiamo detenuti che paradossalmente ringraziano di essere finiti in carcere perché attraverso di esso si sono disintossicati dalla droga, ma ciò è possibile dove il carcere è rieducativo, dove c’è un investimento di fiducia, di risorse, di persone, dove il soggetto è trattato. Continuo rispondendo all’altra domanda sull’alternativa della custodia cautelare domiciliare. Usciamo intanto da un piccolo equivoco, cioè non immaginiamo veramente che i GIP daranno più arresti domiciliari ed i magistrati più detenzione domiciliare per effetto taumaturgico della previsione del braccialetto elettronico, per semplici ragioni riconducibili alle caratteristiche tecniche dello strumento. È vero che il braccialetto elettro- 66 Relazioni – II Parte nico in alcuni casi può essere utile, ma quello di prima generazione ci dice soltanto se il detenuto è in casa o non è in casa, ma se è in casa in quel minuto il poliziotto guarda il monitor, tutto tranquillo, è in casa… ed il detenuto sta violentando sua moglie e nessuno lo sa. Quelli di generazione più avanzata ci dicono non soltanto se è in casa o meno, ma rilevano anche il percorso, il tragitto, quindi si può seguire il soggetto nei suoi spostamenti territoriali. Nel primo caso non sappiamo se è uscito a portare giù la spazzatura, o sta spacciando droga sull’uscio, oppure se è a chilometri di distanza a commettere una rapina, o a passeggiare con la fidanzata. Nel secondo caso, lo si può seguire sul territorio, epperò si dà il caso del soggetto agli arresti domiciliari che frequenta il Sert che nel tragitto, da casa al Sert e dal Sert a casa, passa dal tabaccaio si compra le sigarette e fa la rapina e continua, il poliziotto vede il monitor, tutto bene. Allora il problema è: come si organizza una custodia cautelare domiciliare con controlli effettivi, intelligenti e mirati, capaci di prevenire e contenere la pericolosità, perché sappiamo perfettamente che agli arresti domiciliari spesso i detenuti spacciatori di droga continuano a spacciarla. Questo è il punto centrale. Questo perché? Perché non c’è un sistema di controlli adeguati. Quindi tante situazioni potrebbero essere riversate sulle misure cautelari non detentive, decongestionando il carcere, a condizione però che si attrezzi un sistema di custodia cautelare domiciliare efficiente. Mi avvio rapidamente alle conclusione. Occorrono idee strategiche, quantomeno per cominciare; diceva il dottor Faramo l’Ucciardone funziona ancora, anzi diceva paradossalmente quello che funziona meglio è l’Ucciardone. Ora non entro nel merito di tale giudizio, considerate le difficilissime condizioni attuali di tale istituto, ma è sicuro che dietro l’Ucciardone vi è una grande idea di edilizia penitenziaria e di esecuzione della pena: quella del panottico, cioè una grande idea del carcere come teatro scenico, una grande idea di gestione ed esecuzione della pena detentiva. Capite quale cultura c’e lì dentro, nientemeno che il panottico inventato da Jeremy Bentham. Ma oggi qual è l’idea strategica? Anche se domani si alza Tremonti e dice al capo del DAP: guarda ti stacco un assegno di non so quanti milioni di euro, rifammi l’edilizia penitenziaria. Ma intorno a quale idea? In ordine a quale rapporto con la città, col tessuto urbano? E dentro questo carcere cosa ci mettiamo? Quale selezione di tipologia di detenuti? Carcerazione preventiva e misure alternative 67 Attualmente il carcere è promiscuo, con elevato contagio criminale, in cui i criteri di ripartizione ed organizzazione sia di fonte legislativa che di fonte amministrativa sono pressoché saltati, c’è piena promiscuità, altro che assicurare la separazione tra detenuti imputati e condannati definitivi. Allora un’idea strategica potrebbe essere proprio quella di separare – tranne le posizioni miste dei soggetti che hanno una doppia o tripla posizione giuridica – il carcere giudiziario dal carcere espiativo, devono essere due luoghi fisicamente distinti. La legge del ‘75 aveva una chiara idea dell’organizzazione penitenziaria, case mandamentali, case circondariali, case di reclusione, con una loro articolazione nel territorio. Oggi probabilmente bisogna ripensare il rapporto tra il carcere ed il territorio, una sorta di federalismo penitenziario, in cui occorre che non soltanto lo Stato ma anche le regioni, province, comuni, comunità montane, città metropolitane, si riapproprino a livello comunitario della gestione penitenziaria. Questo discorso è fondamentale. Occorrono, lo ripeto ancora, idee strategiche, altrimenti non mettiamo capo veramente a nulla. Quindi occorre uno sguardo, un investimento nel futuro. La separazione tra imputati e condannati è un punto di snodo fondamentale della questione penitenziaria. Un modo essenziale attraverso cui si evita quanto ha prima denunziato l’avvocato Monaco, il carcere come scuola di criminalità. Il carcere non può essere un’«università del crimine», non deve esserlo, perché il carcere è un’idrovora di denaro pubblico; allora questi soldi devono essere ben spesi, questo è un punto essenziale. In questo momento spira il vento americano. Cosa accade negli Stati Uniti? Ho avuto la curiosità di cercare su Internet per sapere quanti sono i detenuti in America. Lì hanno un’idea chiara di politica penitenziaria, con una logica coerente e la perseguono seriamente. A noi non piace, giacché non appartiene alla nostra civiltà giuridica. Quanti sono allora i detenuti in America secondo voi? Sono 2.300.000 carcerati. È il Paese con il più alto tasso di carcerizzazione del mondo. Sapete quanto hanno speso nel 2007 gli Stati Uniti per la gestione penitenziaria? 44 miliardi di dollari! In Italia, la gente vuole certezza della pena, sicurezza sociale, i delinquenti tutti in carcere e poi, però, non vuole spendere una lira. Non vuole investire un euro sul settore penitenziario. Insomma la botte piena e la moglie ubriaca. 68 Relazioni – II Parte Aggiungo: i 2,3 milioni di carcerati in America si trovano in parte nelle carceri federali, ma ce n’è una quota significativa nelle prigioni locali: vi sono custodire 723.000 persone. E questa secondo me è un’indicazione preziosa, che deve indurre a rilanciare l’idea della custodia attenuata nei confronti dei soggetti a bassa pericolosità, per i quali è possibile garantire il controllo sociale con strutture penitenziarie leggere e con il coinvolgimento delle risorse territoriali. Un ultimo discorso: non pensiamo che questo sistema penitenziario, quest’inferno sociale che potrà diventare il carcere nei prossimi anni, non pensiamo che, rispetto alla società degli onesti, possa essere coibentato e isolato e ciò per due ragioni fondamentali. La prima: noi sappiamo che la legge penitenziaria del ‘75 si originò da un grande movimento culturale, ma furono determinanti i timori derivanti dalla terribile stagione delle rivolte nelle carceri. Oggi noi siamo ad una soglia critica, con rischio concreto che questa stagione si possa ripetere, si possa riaprire, perché oggi vediamo detenuti che dormono a terra, detenuti che dormono sui materassi, detenuti in letti a castello su tre piani, e così il tasso di violenza nelle carceri rischia di diventare esplosivo. Punto secondo: non pensiamo che sia possibile coibentarlo, perché il carcere se è discarica sociale, inquina l’ambiente circostante. Se il detenuto noi lo prendiamo rapinatore e lo mettiamo in carcere e la famiglia resta senza capo famiglia e quel soggetto in carcere si imbarbarisce, se il carcere non comunica più con la società, quella famiglia resta abbandonata a se stessa. Accade così che il figlio senza il padre rischia di diventare rapinatore dieci volte più del padre. Non pensiamo che il carcere, se diventa una discarica sociale, ancorché si cerchi di coibentarlo e impacchettarlo, riesca a garantire la sicurezza sociale. Solo un carcere non sovraffollato, ben organizzato, realmente rieducativo, unitamente ad un efficace sistema di misure alternative alla detenzione, riesce a garantire veramente la sicurezza sociale. Interventi Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato. Interventi Giovanna Gioia – ASVOPE Il dottor Mazzamuto, ricordando una frase di Brecht, ha detto «… Disgraziato quel Paese che ha bisogno di santi e di eroi» e io direi anche di volontari. Preferisco, comunque, aggiungere «… Ma ancor più disgraziato quel Paese che, avendo bisogno di santi, di eroi e di volontari non li trova o non li vuole trovare». La storia del volontariato penitenziario è un po’ legata a quest’ultima riflessione: pur essendoci disponibilità di volontari, non santi, non eroi, ma semplici cittadini, animati da spirito solidaristico, e pur essendoci necessità di risorse umane, oltre che economiche, spesso l’amministrazione penitenziaria, ai vari livelli, ha mostrato difficoltà ad accoglierli. «Noi volontari siamo invisibili», diceva all’inizio Bruno Di Stefano. Ciò non è del tutto vero. Un cammino, diciamo nella visibilità, o meglio nella professionalità, l’abbiamo compiuto. A noi non interessa una visibilità fatta di parole e di immagine, ma una visibilità fatta di valori e di atti concreti. Cercando visibilità, questa volta sì, soltanto per contribuire ad un cambiamento culturale nella società riguardo al mondo penitenziario e per suscitare attenzione e solidarietà verso i problemi della giustizia, della colpa e della pena, come – per esempio – stiamo facendo oggi. Parecchi amano vederci ancora umili, modesti, pii, degli illusi dal buon cuore, ecc. Da quando abbiamo iniziato ad ora, noi volontari, invece, abbiamo percorso una lunga strada, tracciata da leggi e da varie circolari ministeriali e, permettetemi di dirlo, accanto agli operatori professionali. Spesso abbiamo partecipato assieme a loro a convegni, a seminari, a corsi di for- 72 Interventi mazione e abbiamo collaborato con loro in sinergia nel rispetto dei diversi ruoli. Nelle nostre associazioni, inoltre, abbiamo curato la formazione, la conoscenza delle leggi che ci riguardano, l’approfondimento di quel sentire che ci porta in una struttura chiusa, totale e totalizzante, ma piena di umanità sofferente, come la troviamo negli ospedali, negli ospizi, in altre strutture e nelle strade. Ed è per questa umanità che offriamo un servizio all’istituzione carceraria, oltre che alle famiglie all’esterno. Noi crediamo nell’uomo, nelle sue possibilità di riscatto, nel suo fieri continuo, se opportunamente aiutato e sostenuto. Offriamo, quindi, un sostegno morale, culturale, educativo e, nei limiti delle nostre possibilità, anche materiale. Quando, infatti, l’amministrazione non può dare neppure il minimo, perché in ogni fmanziaria vengono ridotte le risorse economiche, noi cerchiamo di alleviare alcune sofferenze legate alla quotidianeità. Un’ultima riflessione. Ancora oggi, purtroppo, si considera il carcere «un’altra città». C’è una rivista dell’ amministrazione penitenziaria che si intitola «Le due città», quella della società libera e quella dei reclusi. Per me la città è una sola, perché il carcere è parte integrante del territorio; è parte della città; è parte della comunità civile ed ecclesiale. Anche se esso, nella sua totalità, accoglie i più poveri e i più emarginati, cioè quelli che assommano in sé problemi sociali, economici, familiari, ecc., perché gli altri rei – quelli delle grosse ruberie, delle tangenti… – che sono anche responsabili del degrado sociale, economico, etico, educativo, politico della società, in galera non ci stanno. Di tanto in tanto, forse, qualcuno, ma… di passaggio. Francesco Frisella Vella – Magistrato Sono Francesco Frisella Vella, prossimo ad uscire dalla sorveglianza perché sto completando il mio ottavo anno di presidente del tribunale di sorveglianza di Caltanissetta. Ho una vecchia passione per la sorveglianza, ho incominciato nell’‘80. Dunque, di carcere ne so parecchio. Quando in quegli anni sono entrato nell’istituto di sorveglianza c’erano pochissimi assistenti sociali, Francesco Frisella Vella – Magistrato 73 qualcuno veniva da patronati, versava il suo cuore nell’amministrazione; c’era qualche volontario; c’erano dei giudici che si dovevano formare; c’erano agenti di polizia penitenziaria che avevano una grande coscienza di essere stati violenti, di avere fatto le «squadrette» gli anni precedenti, decenni precedenti. Allora, con grande umiltà, ci siamo messi intorno a un tavolo e abbiamo detto: «Qual è il progetto perché la pena possa essere rieducativa?». Era forse l’‘82 o l’‘83 e io poi sono passato ai minorenni, ho fatto il giudice minorile. Sono tornato nel 2001, immaginavo grandi cambiamenti e progressi. Non era successo niente. Tutto burocraticizzato, tutto spento, tutto gestito fuori da logiche di collaborazione e concertazione fra le varie componenti. E allora, il discorso è serio: dobbiamo incontrarci sempre da diversi, da volontari che chiedono ai giudici chiarimenti che chiedono al dottore Faramo perché le carceri in Sicilia non funzionano, ecc. Vogliamo, in un Paese che vuole progredire, metterci intorno a un tavolo, cercare i volontari che credono e agiscono… Io, grazie a loro e con loro, sono cresciuto. Questo deve diventare il carcere: progetti comuni per educare. È una prospettiva – lo dico con orgoglio evidentemente – che ha dato grossi risultati. Noi abbiamo visto donne, a Caltanissetta, uscire e ricostruirsi una vita, dicendo: «… Ma mio marito continua a rubare. Andiamo dal giudice… Il giudice ha aiutato me, ha mandato me in detenzione domiciliare, ha mandato me in affidamento… Vieni aiuterà anche te… Dobbiamo ritrovare questa identità, questa dignità». Pensate: lo scippatore incallito, se uno riesce a fargli capire il diritto alla vecchietta a camminare senza essere scippata. Sono persone che se noi siamo credibili, se la giustizia lo è, possono vivere la funzione rieducatrice della pena… Condannare una persona significa, dal nostro punto di vista, educare una persona. Se noi abbiamo approcci educativi davanti all’imputato; se noi presidenti di un collegio abbiamo il rispetto della sua persona; se il giudice lo sa folgorare e gli comunica: «Io esco e ti lascio in carcere, ma soffro uscendo solo. Vorrei uscire con te, tu però sei in cura. Con la tua collaborazione, ti porterò fuori quanto più presto possibile. E, infine, quando uscirai ci saremo guadagnati tutti e due la libertà e la dignità», saremo davvero efficaci. 74 Interventi Bruno Di Stefano - Coordinatore regionale SEAC In alcuni interventi degli esperti è emerso l’aspetto economico. Se voi guardate bene nella cartella che vi abbiamo consegnato all’ingresso, trovate dei dati statistici che dovrebbero far riflettere. Per esempio: quanto spende l’amministrazione penitenziaria mediamente per ogni detenuto al giorno; quanto spende invece per il vitto… e cose simili. Leggetele perché avrete delle sorprese su quello che si pensa comunemente. Si spende molto nel complesso, tuttavia per il vitto – i tre pasti del detenuto – si spendono 3,5 euro al giorno. Credo che sia davvero poco. A proposito della situazione economica che qua e là è emersa negli interventi volevo far cenno a quello che diceva la dottoressa Laganà. Nelle misure alternative la recidiva è di circa il 20%, invece fra i detenuti la recidiva è dell’80%. Sappiate che è stato calcolato che un punto in meno di recidiva sarebbe un vantaggio economico per il bilancio nazionale pari a 51 milioni di euro. Provate, dunque, a immaginare cosa accadrebbe se lo Stato riuscisse a investire in magistrati di sorveglianza, in educatori, psicologi, assistenti sociali e quant’altro. Credo che con un miglioramento e un maggior controllo sulle misure alternative al carcere, si potrebbe ridurre la detenzione e si potrebbe avere tutti un notevole beneficio sociale e finanziario. Repliche Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato. Repliche ORAZIO FARAMO Solo una riflessione. Io ho ascoltato con molto interesse tutti, ma siccome il dottor Di Stefano mi ha «minacciato» dicendo che ogni due mesi cercherà di organizzare qualche cosa, vi voglio dare un suggerimento, proprio perché ho ascoltato tutto con molto interesse, e credo che tutti abbiamo detto ognuno secondo il nostro punto di vista delle cose interessanti sulle quali bisogna che gli altri riflettano. E allora, riflettiamo su una cosa, mettendolo all’ordine del giorno per un prossimo incontro: chiediamoci: qual è il modello di carcere che ha in mente la gente? Grazie. MARIO CONTE Io volevo osservare una cosa su quanto si diceva poc’anzi. Bisogna vedere un pochino qual è la prospettiva nella quale ci poniamo perché la prospettiva che ha spiegato il dottor Di Stefano è assolutamente corretta, logica, però noi dobbiamo considerare l’attuale momento storico. In particolar modo, come accennava il dottore De Francisci, una normativa abbastanza recente ha consentito l’arresto delle persone che investono. Crimine orrendo, certo. Però, per l’omicidio colposo di un investitore – situazione per la quale molto spesso noi dobbiamo fare i conti con l’opinione pubblica – come per altri reati le pene previste non sono particolarmente elevate perché così ha previsto il legislatore. Siccome, però, nessuno spiega questo meccanismo, appena si scarcera succede il finimondo. Dobbiamo cercare di contemperare e questo, ahimé, è probabilmente il compito più gravoso che il magistrato ha, e non lo dico solo per difendere la mia categoria. Conclusioni Nota per il Lettore: tutti i testi sono tratti da registrazione e conservano le caratteristiche del linguaggio parlato. Conclusioni Rino Cascio Sarò brevissimo, molto schematico, e quindi abbiate pietà per la crudezza dello schema e della velocità. Se dovessi scrivere un articolo direi che oggi so qualcosa di più, ma non so come concluderei l’articolo. Mi spiego: è chiaro ora a tutti il sovraffollamento delle carceri e l’esiguità degli strumenti a disposizione. Spesso ho chiesto ai relatori dati statistici. Provo a fare sintesi: in Sicilia ciascun magistrato di sorveglianza gestisce circa 450 detenuti, ci sono in media quattro educatori a penitenziario e 1 agente per circa 20 detenuti. Probabilmente i numeri non sono sufficientemente esplicativi, sono utili però a darci un’idea. Pochi spazi, è stato detto, e abbiamo visto comunque che l’edilizia penitenziaria è in disfacimento, non vengono applicate le leggi e manca un progetto, e spesso quando parliamo di penitenziario, diceva il dottor Mazzamuto, è come se parlassimo 82 Conclusioni di una discarica. Nessuno si occupa di dove finiscono i rifiuti e se in quel luogo finisce pure un rifiuto non compatibile. Quando però i cassonetti sono stracolmi ci accorgiamo, come a Napoli, che esiste la «munnizza», che esistono le discariche. Fino a quando non si scopre la discarica nessuno se ne occupa. Manca un progetto… altro che l’attenzione al singolo detenuto, non c’è l’attenzione alla categoria dei detenuti. Vero è che oggi c’è una maggiore propensione a delinquere da parte della società, come ci diceva il procuratore De Francisci, però non consideratemi un sociologo vetero-comunista, è di ieri la statistica che indica come è aumentata notevolmente la soglia di povertà. Io da «sociologo vetero-comunista», penso che il muro della legalità, quando si è poveri, diventa sempre più basso… «quannu ‘u muru è vasciu» è facile poi scavalcarlo. Le misure alternative funzionano, avete offerto dei dati, le indicava l’avvocato Monaco… Ma qualcuno le deve far funzionare. Se non si fanno degli investimenti non funzionano. L’opera dei volontari funziona, ma se non si danno spazi di agibilità, non solo fisici, anche i volontari, falliscono. L’opera dei magistrati funziona, ma se poi il magistrato cambia opinione sotto le pressioni di una campagna di stampa… Ad esempio ricordate il GIP che – dopo avere scarcerato, disponendolo agli arresti domiciliari, un conducente di auto che aveva investito e ucciso delle persone, autista che aveva ammesso la sua colpa dichiarando di avere guidato in stato di ebbrezza, in seguito ad una campagna di stampa (che in quel caso io non condivisi) – una settimana dopo cambiò opinione e l’autista tornò in carcere? Forse un minimo di chiarezza la gente la vuole vedere. Però, dall’altra parte, ho timore pure che le carceri e gli arresti possano diventare una pretesto per rispondere alle paure di una società che per motivi di sicurezza le carceri le vuole sempre piene. «Metteteli in carcere, metteteli in carcere, metteteli in carcere». E mi chiedo anche: ma chi è disposto poi – dovendo scegliere tra l’investimento su un porto turistico o sulle carceri – chi è disposto a dire «investiamo sulle carceri». Ho parlato appositamente di porti turistici, di una cosa ritenuta «futile», per non parlare di sanità, di scuola, di aspetti più vicini alla gente. Chiudo, e veramente chiudo, con una nota positiva, perché non sono abituato a chiudere con note negative. Chiudo con un esempio. Una storia che mi è capitata ieri, mentre lavoravo. È la storia di un ragazzo sedicenne che non ha mai avuto problemi con la giustizia. Il ragazzo, però, si diverte Conclusioni 83 a fare il bulletto: un mese fa viene arrestato perché ha prelevato due cellulari a dei compagni e ha chiesto 100 euro per il riscatto. Oltre al furto gli viene perciò contestata pure l’estorsione. Rischia evidentemente una pena pesante, ma grazie a un giudice intelligente, grazie a degli educatori carcerari intelligenti, al centro di accoglienza del Malaspina (dopo 72 ore di detenzione in cui il ragazzo, però, non finisce in cella) tutto si risolve. Gli educatori sono stati con lui, gli hanno fatto vedere i telegiornali nei quali era raccontata la notizia che lo riguardava, del bullo estortore e rapinatore. Il ragazzo a quel punto ha capito la gravità del suo comportamento, e il giudice lo ha rimandato a casa, prescrivendo però: può uscire da casa solo per andare a scuola. Il padre, più intelligente ancora, ha detto: «No, signor giudice, me lo condanni a fare volontariato per 48 ore il sabato e la domenica al Santa Chiara, al centro immigrati, perché mio figlio invece di stare a casa davanti al computer o mandare sms dagli arresti domiciliari è meglio che conosca una faccia della povertà, una parte della realtà che non ha mai visto». Relatori Relatori Rino Cascio, Giornalista, RAI Sicilia, Palermo Mario Conte, Magistrato, Giudice per le Indagini Preliminari, Palermo Ignazio De Francisci, Magistrato, Procuratore aggiunto, Palermo Bruno Di Stefano, Coordinatore regionale del SEAC, Palermo Orazio Faramo, Provveditore regionale per l’Amministrazione penitenziaria della Sicilia, Palermo Elisabetta Laganà, Psicoterapeuta, Presidente nazionale del SEAC, Bologna Nicola Mazzamuto, Magistrato, Tribunale di Sorveglianza, Palermo Sergio Monaco, Avvocato penalista, Palermo Ferdinando Siringo, Docente, Presidente del CeSVoP, Palermo Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario A Milano, all’inizio degli anni ’60 si svolgono presso la Sesta Opera S. Fedele una serie di incontri tra i gruppi cattolici impegnati nell’assistenza ai detenuti. L’iniziativa nasce dall’idea di dare vita ad un Coordinamento tra queste associazioni. Nell’estate del 1967, all’Isola d’Elba, si tiene il primo raduno a cui partecipano i rappresentanti nazionali di vari enti impegnati in questo servizio. In breve tempo, il numero delle associazioni aderenti aumenterà e darà vita al coordinamento che prenderà la dizione di «Segretariato nazionale Enti di Assistenza ai Carcerati». Nasce così il SEAC, che prende vita immediatamente subito dopo il Concilio Vaticano II, evento che aveva trasformato l’immagine della Chiesa Cattolica. Un momento particolare in cui un grande desiderio di giustizia attraversava il mondo e le richieste di cambiamento sociale puntavano ad una società più giusta, pacifica ed attenta ai bisogni delle persone, cogliendo le esortazioni di Giovanni XXXII ai «costruttori di pace» ed ispirandosi ai fondamenti della Dottrina Sociale della Chiesa. Principio fondamentale in tale concezione è che i singoli esseri umani sono e devono essere il fondamento, il fine e il soggetto di tutte le istituzioni in cui si esprime e si attua la vita sociale. A 40 anni dal primo incontro dell’Elba l’intuizione decisiva dei fondatori è ancora viva e attuale; dal primo raduno di Portoferraio il percorso si è evoluto da un atteggiamento assistenzialistico ad una azione più allargata sul piano sociale, culturale, di confronto con la città e le istituzioni; una realtà che si è posta anche come antesignana nell’individuazione di percorsi coraggiosi e difficili e che, pur subendo momenti di sconforto e disillusione derivati dall’immobilità delle situazioni non si è più arrestata: nel sollecitare le istituzioni verso una carcerazione più umana, nell’idea della pena non solo come retribuzione ma come opportunità di riscatto della norma infranta attraverso un sistema di esecuzione penale rispettoso dei diritti umani, nella critica alla centralità del carcere come prevalente (in alcuni casi unica) risposta sanzionatoria, nell’analisi del concetto di punizione, quasi sempre declinato nell’unica accezione di quantità della pena e che invece raramente si sofferma a ragionare su chi punire, se punire e come punire. Non è facile ricostruire le vicende e l’impegno di questi anni: caratteristica del volontariato è quella di lasciare segni incisivi ma spesso non documentabili, poiché frutto di azioni mai impulsive ma eticamente passionali, avulse da logiche di potere, realmente ispirate al riconoscimento della dignità comune a tutti gli uomini. Eppure, al pari di un forte vento che non si più afferrare ma che lascia le tracce del suo passare, ne ritroviamo gli effetti nelle azioni, nella pratica propria del volontariato non soggetta alle logiche istituzionali, espressione dello sguardo 90 SEAC – Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario «esterno»: lo sguardo della comunità, della cittadinanza attiva senza la quale non è possibile un vero cambiamento. L’occhio del volontariato non si accontenta di osservare semplicemente le manifestazioni del disagio, ma attraverso la lente dell’impegno sociale ne scompone i colori per distinguerne le discromie delle differenze dei fenomeni, della molteplicità dei significati, della soggettività della persona. Senza falsa ingenuità si può sostenere che, tra i vari ambiti il cui l’azione del volontariato si esprime questo è uno dei più complessi, per una serie di ragioni e di tematiche che comprendono i temi dell’etica nella sua dialettica tra bene e male, la tolleranza e solidarietà, il dialogo spesso non facile con le istituzioni preposte, il concetto di giustizia nella sua accezione più estesa. Ed è soprattutto su quest’ultimo concetto che il nostro volontariato ha svolto in questi anni la sua riflessione più profonda ed incisiva, cercando di depurarsi da una visione parziale che aveva orientato l’attenzione solo al soggetto autore di reato per allargarla ai processi sociali, alle vittime dei reati, ai processi di mediazione penale; riflessioni che hanno portato ad un cambiamento di definizione e di identità, trasformando la dizione da volontariato del carcere a volontariato della giustizia. Una riflessione sulla giustizia che dovrebbe pervadere ogni aspetto dell’esistenza ed estendersi nelle diverse espressioni del diritto, della legge, del giudizio, nell’ambito della giustizia sociale, retributiva, distributiva, fino a toccare i diritti universali ed internazionali. Siamo consapevoli che, su questo terreno i confini possono divenire difficili, le strade contraddittorie, incerte. Tuttavia l’ispirazione fondamentale che giustifica lo sforzo e la tensione è quella di cercare incessantemente e con tutte le nostre forze una giustizia meno ingiusta. Nell’ambito della giustizia penale ci turba l’incapacità di attuare un sistema che assicuri, insieme all’incolumità e sicurezza dei cittadini e la deterrenza contro i crimini, la riabilitazione e la restituzione alla società di chi ha commesso reato mantenendo il pieno rispetto della persona e dei suoi diritti. Il Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo, CeSVoP, opera dal novembre 2001 per promuovere la cultura della solidarietà e sostenere la crescita e il consolidamento delle organizzazioni di volontariato delle province di Agrigento, Caltanissetta, Palermo e Trapani, mediante l’erogazione di servizi e l’organizzazione di attività a titolo gratuito. Oltre al CeSVoP in Sicilia sono attivi il Centro di Servizio per il Volontariato Etneo (CSVE), che ha competenza per le province di Catania, Enna, Ragusa, Siracusa, e il CeSV Messina, che opera nell’ambito della città e della provincia dello Stretto. I Centri di Servizio (CSV) sono sorti in Italia con la legge quadro sul volontariato, la 266 del 1991, che prevede all’articolo 15 la nascita di strutture in grado di garantire servizi gratuiti alle associazioni di volontariato, iscritte e non iscritte nei registri nazionali e regionali. Hanno, dunque, come destinatari le organizzazioni impegnate a dare risposte ai bisogni del territorio, soprattutto con riferimento alle fasce della società più deboli ed emarginate, ma sono gestiti dalle stesse organizzazioni di volontariato a cui si rivolgono ispirandosi al concetto di autogestione dei Centri da parte del volontariato, che il legislatore ha posto nell’art. 15 della legge 266/91, là dove dice che i Centri sono «a disposizione delle organizzazioni di volontariato e da queste gestiti, con la funzione di sostenerne e qualificarne l’attività». I compiti dei Centri comprendono iniziative per la crescita della cultura della solidarietà, la promozione del volontariato, la consulenza per le organizzazioni di volontariato, iniziative di formazione per i volontari, attività di documentazione sul volontariato, pubblicazioni specialistiche, studi e ricerche, sostegno alla progettualità e accompagnamento alla costruzione di reti sociali fra le organizzazioni di volontariato. Sono quindi una risorsa importantissima e consona allo stile operativo dei volontari. Infatti i Centri non erogano contributi ma servizi e questi sono elaborati dai volontari stessi con il supporto necessario di personale professionale. Inoltre, i fondi di cui dispongono i CSV non derivano direttamente da processi decisionali di livello politico. Fatto molto importante che salvaguarda l’autonomia del volontariato e della solidarietà. Ciò non significa che i Centri e le associazioni non possano esprimere opinioni sulla politica sociale o se ne sentano estranei. Infatti i CSV possono aiutare le associazioni a incontrarsi e crescere nelle competenze tecniche per analizzare la politica sociale nel territorio e diventare soggetto di proposta, e, se necessario, di interlocuzione critica in difesa degli interessi dei più deboli. Collana «Studi e Ricerche» del CeSVoP 1. Antonio La Spina-Fabio Massimo Lo Verde (a cura di), La valutazione nelle organizzazioni del volontariato siciliano. Una ricerca condotta dal CeSVoP in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Palermo, CeSVoP, Palermo 2007, pp. 128. 2. Barbara Gatto, Crescita endogena e misurazione del Capitale Umano: il caso del Mezzogiorno in Italia, CeSVoP, Palermo 2008, pp. 120. 3. Salvatore La Rosa-Eva Lo Franco (a cura di), Atti del Convegno «L’umanizzazione e il miglioramento della qualità nell’assistenza pediatrica». VII Convegno Scientifico Nazionale del Network «Gli Ospedali di Andrea». 5-6-7 dicembre 2007, Carini – Palermo, CeSVoP, Palermo 2008, pp. 320. 4. Aa.Vv., Atti del Convegno «L’autopsia psicologica nella prevenzione del suicidio. La ricerca del passato come metodica per la prevenzione del suicidio».15 maggio 2007 – Palermo, Palazzo Chiaramonte Steri – Piazza Marina, CeSVoP, Palermo 2008, pp. 160. Finito di stampare nel mese di febbraio 2009 coi tipi della PittiGrafica s.a.s. Techiche Editoriali Via S. Pelligra, 6 – 90128 Palermo Tel./Fax 091481521 e-mail: [email protected]