DL353/2003 (conv. in L 27/02/04 n. 46) art.1 comma 1 - DCB - Roma / Tariffa ROC Poste Italiane Spa Spedizione in Abb. postale Direttore ARTURO DIACONALE delle Libertà Fondato nel 1847 - Anno XVII N.111 - Euro 1,00 Giovedì 17 Maggio 2012 Dai pm il colpo finale al Senatùr K «Bossi sapeva». Ne sono convinti i pubblici ministeri della Procura di Milano, che hanno iscritto il Senatùr nel registro degli indagati con l’accusa di truffa ai danni dello stato, in concorso con l’ex tesoriere leghista Francesco Belsito. Sapeva cosa? Dei fondi sottratti alle casse padane per la paghetta dei suoi figlioli. Non solo avrebbe saputo, rilanciano i pm, ma sarebbe anche stato pienamente d’accordo. L’accusa infatti è quella di appropriazione indebita di fondi del partito proprio in favore dei figli Renzo, detto “il Trota”, e Riccardo, indagati anche loro. Ammonterebbe a 18 milioni di euro il denaro incassato dalla Lega e rigirato alla prole bossiana a fronte di una falsa rendicontazione. Per un’eventuale condanna della giustizia occorrerà ovviamente attendere la conclusione dell’iter processuale. Ma la sentenza definitiva della stampa è già arrivata sin dai tempi in cui è esploso il caso Belsito: Bossi è colpevole, e senza diritto di appello. Carta (di giornale) canta, e tanto basta. Se non in Padania, almeno in Italia. Serve una via di mezzo tra “zoccole” e “prefiche” C ome non era colpa di Silvio Berlusconi se lo spread saliva alle stelle, non è colpa di Mario Monti se l’Italia è di nuovo nel mirino della speculazione internazionale favorita dal comportamento ostile e criminale delle agenzie di rating americane. Oggi come allora il governo ed il paese sono vittime della tensione a livello planetario provocata dalla crisi dell’euro e della struttura sbagliata e fatta a misura della sola Germania dell’Unione Europea. Non era il burlesque del Cavaliere, allora, a provocare le tempeste monetarie sul nostro paese. E non è il volto mesto e monocorde del Professore ad alimentare la bu- di ARTURO DIACONALE Non è colpa di Monti se l’economia italiana è di nuovo nel mirino della speculazione. Come non era colpa di Silvio Berlusconi se lo spread saliva. Bisogna distinguere tra i problemi nazionali e quelli internazionali fera che minaccia di trascinare l’Italia verso il baratro a cui sembra destinata la Grecia insieme ai paesi più deboli dell’Europa meridionale. Questo, naturalmente, non significa rimpiangere il burlesque o auspicare che la mestizia diventi il tratto distintivo degli italiani per i prossimi vent’anni. Significa distinguere tra i problemi internazionali e quelli nazionali. Sapere che non si risolvono i primi se non si ricostruisce la Ue sulla base delle regole della democrazia e non sulle pretese dei banchieri tedeschi. E avere la consapevolezza che, accanto ad una azione di politica estera degna di un paese sovrano, ci deve essere una Cosa fare con questa Grecia D alla Grecia, ormai, non possiamo attenderci alcun cambiamento. Le elezioni anticipate sono state fissate al 17 giugno. Ma è molto difficile, se non impossibile, veder sorgere una maggioranza in grado di formare un governo stabile. I sondaggi di questa settimana danno in testa la coalizione Syriza, composta da vari gruppi della sinistra massimalista, tutti convinti a respingere il piano di austerity richiesto da Unione Europea, Bce e Fondo Mo- di STEFANO MAGNI netario Internazionale (la “troika”) in cambio della prossima tranche di aiuti. È lecito prevedere che Atene sia destinata a non trovare una soluzione politica, a respingere le misure richieste dalla “troika” e a far bancarotta per esaurimento delle risorse pubbliche, probabilmente entro un mese e mezzo. In questa condizione è solo l’Unione Europea che ha ancora una possibilità di scelta. Su cosa fare della Grecia. Lungi dall’avere un parere unanime, l’Eurogruppo (la riunione del consiglio dei ministri delle Finanze), la Com- missione e i principali governi nazionali dei 27, si dividono fra “falchi” e “colombe”. I primi prendono almeno in considerazione l’idea che la Grecia esca dall’eurozona, se non rispetta gli accordi. I secondi vogliono aiutare Atene a restare nella valuta comune, anche rinegoziando i termini della “troika”. In quest’ultimo gruppo si iscrivono il presidente dell’eurogruppo, Jean Claude Juncker e il presidente francese François Hollande. Il governo italiano è sicuramente più vicino a questa posizione. Nel gruppo dei “falchi” troviamo invece la cancelliera tedesca Angela Merkel e il commissario (...) Continua a pagina 2 azione di politica interna capace di affrontare i problemi reali senza oscillare tra le “zoccole” e le “prefiche” (tanto per semplificare), ma avendo come punto di riferimento solo l’interesse concreto dei cittadini. Tutto questo è facile a dirsi ma difficile da realizzare. Perché per ricostruire una Europa fondata sulla volontà dei popoli e delle nazioni e non sulle pretese delle burocrazie germanizzate ci vorranno anni. Nel frattempo, il Vecchio Continente rischia di subire sconquassi da terzo conflitto mondiale. E per affrontare i problemi interni ci vuole una capacità che la classe politica e quella dirigente italiana sembra aver defi- nitivamente perduto negli ultimi anni passati tra l’irrealtà dell’edonismo berlusconiano e la forsennatezza del moralismo fasullo e strumentale. Insomma, tra le “zoccole” e le “prefiche” serve una via di mezzo. Che è quella della estema concretezza. Una via che il governo Monti avrebbe dovuto seguire con determinazione, visto che la sua natura tecnica lo avrebbe dovuto tenere lontano dalle contaminazioni dell’uno e dell’altro eccesso. E che, invece, non riesce a seguire perché, dopo avere marcato la propria distanza dallo “zoccolume”, non è riuscito e non sa fare altrettanto rispetto all’irrealtà (...) Continua a pagina 2 2 GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012 IIPOLITICAII L’OPINIONE delle Libertà La crisi dei partiti ha origine Non possiamo non nelle scelte degli anni Settanta dirci “conservatori” di PIER PAOLO SEGNERI S embra oggi, invece è ieri. Quando la memoria è viva e vitale nel presente significa che non possiamo archiviarla nei ricordi, ma è necessario comprenderla per costruire il futuro. «Il regime rischia di affogare in un mare di scandali e di corruzione, vittima ormai della stessa protervia e prevaricazione che ha rivolto per decenni contro la democrazia e contro i cittadini e che oggi gli si rivolta contro. La repubblica rischia però anch’essa di rimanere travolta dalla crisi del regime». Sembra oggi, invece è ieri. E’ quanto si legge su Notizie Radicali del 3 marzo 1976. In quel testo, il Partito radicale lancia la “carta della libertà” e si prepara a costruire l’alternativa al regime partitocratico. L’obiettivo è quello di raccogliere, entro l’anno, un milione di firme sulle proposte di legge di iniziativa popolare relative al rapporto fra stato e chiesa e sui poteri dello stato in materia di libertà dei cittadini. Il progetto in questione, però, posto sul tavolo del dialogo con il Psi, non è sufficiente a convincere i socialisti a federarsi con il Partito radicale. Infatti, un mese dopo, ad aprile, il Psi respinge la proposta di federazione con i Radicali. A quel punto, Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia, Adele Faccio, Mauro Mellini, Emma Bonino e tutti gli altri decidono di presentare liste Radicali alle elezioni politiche anticipate. Il dado è tratto. E così, il progetto di raccogliere le firme dei cittadini in calce alla “carta della libertà” viene abbandonato per concentrare le forze sulla sfida elettorale per il rinnovo del Parlamento. Se volessimo ridurre la scelta in uno slogan, si potrebbe K Montecitorio forse scrivere: concentrare le forze per decentrare le iniziative. Non a caso, ai primi di maggio del 1976, il Partito radicale apre la campagna elettorale con una esposizione debitoria iniziale di 20 milioni e, allora, gli iscritti e i militanti decidono di supplire alle carenze economiche attraverso iniziative sparse nei quartieri, in periferia e in varie realtà locali, nelle grandi città come in provincia. Vengono organizzati o, meglio, vengono improvvisati concerti e dibattiti, manifestazioni, happening, comizi davanti alle carceri, passeggiate nei mercati, volantinaggi, fino all’idea di offrire rose ai passanti coinvolgendo le persone a partecipare non sulla scia di un’emozione né, tantomeno, come conseguenza di una scelta ideologica a-priori, ma di sentirsi chiamate a partecipare in quanto davvero interessate ai temi promossi dai Radicali. È il 1976, un anno cruciale. Il 20 marzo nasce Radio Radicale, un evento che modificherà il modo di pensare e di vivere i sistemi di comunicazione: una nuova forma di partecipazione politica, una radio non al servizio di un partito, ma del cittadino, così da poter essere anche soggetto della comunicazione e non soltanto mero fruitore o consumatore passivo. Dal 18 al 24 marzo 1976, a Roma, si svolge il XIII congresso della Dc, in cui si affermano le correnti di sinistra di Aldo Moro e Benigno Zaccagnini a discapito delle correnti “centriste” o di destra rappresentate da Andreotti, Fanfani, Forlani. Zaccagnini è eletto segretario. Il seguito della storia lo conosciamo o, comunque, avremo modo di continuare il racconto in un’altra occasione. Quello che oggi conta sottolineare è il fatto che la memoria, nel nostro paese, viene sistematicamente oscurata, cancellata, negata. Viviamo nell’amnesia, nella non conoscenza, nella falsificazione della storia. Del resto, la storia la scrivono sempre i vincitori. Ma soltanto attraverso la spinta offerta dalla memoria si costruisce il futuro. Radicali italiani, a tal proposito, rischia di non poter dare la forza necessaria alle lotte politiche del presente, che la memoria pretende rispetto al futuro, se non aumenteranno presto e in maniera considerevole le iscrizioni a questo movimento che il potere fine a se stesso della partitocrazia dominante vorrebbe lasciare nel dimenticatoio e che, invece, rappresenta una speranza per chi non si è arreso nella lotta per una democrazia liberale anche in Italia. Per chi vuole nutrire la propria memoria e,dunque, il nostro futuro. S trisciante come un’erba parassita, l’ipocrisia sociale del XX secolo ha inquinato talmente la lingua e il liguaggio degli Italiani, che perfino coloro che si sentono e si dicono “di destra” o “liberali” rigettano come un’offesa la definizione di “conservatori”. La “resistenza” non ha resistito ai battèri del conformismo sovietico, e ha scavato un fossato, un baratro. Di qua il bene: il progressismo. Di là il male: la conservazione. Gli effetti comici sono paradossali ed esilaranti: se dici a Silvio Berlusconi “conservatore” si offende... e ha ragione, perché è difficile trovare in Italia un “italiano” più sciaguratamente progressista di lui. Ma che il partito da lui creato & affondato, e la sua stessa concezione di ideologia di appartenenza e di assembramento governativo, piuttosto che darsi nome di conservatori, abbia scelto e pappagallescamente ripeta “moderati”, non ha spiegazione se non nella totale insipienza della cultura, del valore, della storia, della bellezza degli Italiani. “Noi moderati”. Basterebbe un minimo barlume di consapevolezza o un briciolo di auto-ironia per cancellare dalla propria articolazione fonetica una simile balorda espressione. “Moderato tu?!” Silvio, conosci in Italia e nell’intera Europa merkeliana persona meno moderata di te? E poi, “moderato”, che vuol dire. Vile? Falso e cortese? Torinese predente? Non è per caso che “moderato” voglia dire “niente”? Noi non siamo niente. Non siamo Br. Non siamo alcolisti. Non siamo Tav, né No-Tav. Torneremo su questa pietra di paragone dell’essenza politica dei nostri poveri ultimi decenni, ma lo faremo dopo averci appeso per il collo tutta l’ipocrisia che, ben più gravemente d’ogni ideologia, ha malgovernato l’Italia. Ripartiremo da “conservazione”, dalla fierezza e dalla responsabilità di chiamarci conservatori. Ci chiameremo fuori dal dibattito tra conservazione e progressismo. E non ci sarà bisogno di scomodare (anche se sarebbe l’ora di farlo, nelle scuole) il grande pensiero filosofico del ‘900, che ha sancito – nel delirio di “progresso”: il progressismo – la perdita dell’essenza stessa dell’anima e della cultura dell’Occidente. Proveremo a dire, a dirci, che conservare è il nostro compito fondamentale: è “il” compito, è la responsabilità di non lasciare solo rovine alle nuove generazioni. Proveremo a fare politica per conservare i valori, il senso comunitario, l’onore e non il ricatto del lavoro, l’uguaglianza della frater- L’ipocrisia sociale ha inquinato talmente il liguaggio, che perfino coloro che si sentono “di destra” o “liberali” rigettano come un’offesa la definizione di “conservatori” nità e non della spartizione, il senso stesso della vita non patteggiabile con umilianti trattative tra diritti e doveri. Insomma, proveremo a dirci conservatori e a identificare nella conservazione ogni speranza di armonioso progredire tenendo sottobraccio la nostra terra e la nostra fantasia creativa. GIROLAMO MELIS segue dalla prima Zoccole e prefiche (...) del moralismo politicamente corretto e del giustizialismo strumentale. La tragedia, in altri termini, è che la cultura dominante del governo è quella delle “prefiche”. Cioè di quelle che trasformano la tragedia in una recita vuota (alla Fazio ed alla Saviano, tanto per intenderci) che serve solo a rinviare a data da destinarsi la soluzione dei problemi concreti. Il caso della sceneggiata in scena in questi giorni sulle norme contro la corruzione e su quelle sul ripristino del falso in bilancio è illuminante. Idv e Pd conducono su questi temi gli ultimi scampoli di campagna elettorale amministrativa nella certezza assoluta che le misure richieste, del tutto inutili se non addirittura dannose, non verranno mai fatte passare dal Pdl e delle altre forze di centrodestra, anche loro alle prese con le richieste dei propri elettori. Ed il governo, che sa benissimo come le norme contro la corruzione sarebbero grida manzoniane non più efficaci delle leggi attuali e che con il ritorno al vecchi falso in bilancio la totalità delle società italiane sarebbe alla mercé di una magistratura imprevedibile ed umorale, non sa tenere la linea mediana della concretezza spiegando al paese che un teatrino del genere serve solo ad illudere l’opinione pubblica che l’unica speranza per il paese è quella del “più manette per tutti”! Speriamo che dopo i ballottaggi la sceneggiata finisca ed il governo sappia resistere ai condizionamenti del moralismo politicamente corretto. Perché passare dalle “zoccole” alle “prefiche” sarebbe come passare dalla padella nella brace. Con l’aggravante della depressione. ARTURO DIACONALE Cosa fare con questa Grecia (...) all’Economia Olli Rehn. A dividere i due gruppi vi sono soprattutto interessi nazionali. Juncker (lussemburghese) ne è relativamente esente. Ma è anche in uscita e non gli costa molto atteggiarsi a “colomba”. Hollande vuol fare della Francia la capofila di un’Europa che punti alla “crescita” (alimentata dalla spesa pubblica e da una politica monetaria inflattiva). Italia, Spagna e Portogallo, invece, temono l’uscita della Grecia dall’eurozona, perché poi verrebbero visti dai mercati internazionali come le prossime pedine del domino e su- birebbero il contraccolpo peggiore. Dall’altra parte della barricata, Paesi con i conti pubblici in ordine, come la Germania, la Finlandia (da cui proviene Olli Rhen), la Svezia e l’Olanda, sono i più duri nel chiedere alla Grecia il rispetto delle regole, perché non vogliono pagare per gli errori altrui. Un salvataggio della Grecia non è gratuito: solo l’attuale tranche prevista dalla “troika”, ammonta a 130 miliardi di euro. Una cifra che non sarebbe neppure sufficiente a evitare il default, nel caso Atene non provveda a drastici tagli già nei prossimi mesi. Una decisione europea non verrà presa fino al prossimo luglio, probabilmente. Perché è solo da luglio che entrerà in funzione il Meccanismo di Stabilità Europea, un fondo comunitario che sarà in grado di salvare le banche più esposte ad un eventuale disastro greco. Ma la crisi di Atene sta procedendo con una rapidità tale che anche luglio potrebbe essere troppo tardi. Christine Lagarde, direttrice del Fmi, invita a prendere in considerazione un’uscita “controllata” della Grecia dall’euro. Avrebbe certamente ripercussioni gravi sui Paesi più fragili, ma eviterebbe un disastro ancora peggiore. Forse è questa l’unica voce della ragione. STEFANO MAGNI Organo del movimento delle Libertà per le garanzie e i Diritti Civili Registrazione al Tribunale di Roma n. 8/96 del 17/01/’96 Direttore Responsabile: ARTURO DIACONALE [email protected] Condirettore: GIANPAOLO PILLITTERI Vice Direttore: ANDREA MANCIA Caposervizio: FRANCESCO BLASILLI AMICI DE L’OPINIONE soc. cop. Presidente ARTURO DIACONALE Vice Presidente GIANPAOLO PILLITTERI Impresa beneficiaria per questa testata dei contributi di cui alla legge n. 250/1990 e successive modifiche e integrazioni. IMPRESA ISCRITTA AL ROC N. 8094 Sede di Roma VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA TEL 06.6954901 / FAX 06.69549024 / [email protected] Redazione di Milano VIALE MONTE GRAPPA 8/A, 20124 MILANO TEL 02.6570040 / FAX 02.6570279 Amministrazione - Abbonamenti TEL 06.69549037 / [email protected] Ufficio Diffusione TEL 02.6570040 / FAX 02.6570279 / [email protected] Progetto Grafico: EMILIO GIOVIO Tipografia L’OPINIONE S.P.A. - VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA Centro Stampa edizioni teletrasmesse POLIGRAFICO SANNIO S.R.L. - ORICOLA (AQ) TEL 0863.997451 / 06.55261737 Distributore Nazionale PRESS-DI DISTRIBUZIONE STAMPA E MEDIA S.R.L. 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In altri momenti sarebbero apparse come frasi d’un buontempone ma, con la crisi che morde le fasce più deboli, il timore dell’insurrezione armata serpeggia tra questure e prefetture. Oggi e domani il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, è a Monaco di Baviera, per partecipare alla riunione dei ministri dell’Interno dei paesi del G6: una intera sessione dei lavori sarà dedicata al terrorismo di matrice europea, al rischio d’insorgenze anarchiche, alla nascita di bande armate fatte d’operai precari e disoccupati. Non è certo un mistero che la Digos abbia in queste ore gli occhi puntati sui meno abbienti, su quelle fasce sociali tentate o dalla lotta armata clandestina o dall’aggressione plateale ai palazzi del potere. Le due lettere con minacce della federazione anarchica calabrese sono giunte ai vertici di Equitalia Sud. Recano entrambe la firma della “Fe- derazione anarchica informale”, la stessa sigla che ha rivendicato l’attentato all’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Le due missive sono state recapitate ai quotidiani Gazzetta del Sud e Calabria Ora: così il “Nucleo Olga” avvisa la società di riscossione che «sarà oggetto di attenzione nella persona del suo presidente, becero uomo di affari e servitore del potere economico». E poi sottolineano «diciamo a Monti che lui è uno dei 7 rimasti»: quindi uno dei sette obiettivi dell’attacco anarchico. Il riferimento “ai 7 rimasti”, contenuto nella lettera del Nucleo Olga del Fai, è di fatto il proseguo della missiva di rivendicazione del ferimento di Roberto Adinolfi, in cui si annunciavano altri attentati. «Il popolo - aggiunge l’ultima lettera - La lettera della Fai sarebbe un falso. Ma tra gli inquirenti è massima allerta non ha nessun interesse a rimanere in Europa, a salvare le banche, a saldare i conti di uno stato che ha sperperato per conto proprio». Ecco che s’alza il livello di protezione verso i dirigenti delle strutture carcerarie, come per le aziende legate al nucleare e alla Tav, per le sedi istituzionali ed i membri del governo: sono gli obiettivi che il Vi- minale ritiene più a rischio terrorismo. Obiettivi già indicati nella circolare che il Dipartimento ha inviato a prefetti e questori, con la quale si chiede di «rafforzare ulteriormente» i controlli anche su Finmeccanica, Ansaldo, Equitalia e «ogni altra azienda ad esse riconducibili». Nel documento riservato, inviato a prefetti e questori, il Dipartimento chiede di «disporre la massima intensificazione dell’attività info-investigativa» nei confronti di «gruppi e militanti anarchici». E inoltre, invita le strutture locali di polizia a dare «massimo impulso, con effetto immediato, ai servizi di prevenzione a carattere generale, rafforzando maggiormente i dispositivi di vigilanza e controllo del territorio» e assicurando «una particolare vigilanza a protezione anche degli altri obiettivi, quali quelli istituzionali e di governo». C’è davvero aria di caccia all’anarchico. Nelle strade semicentrali di Roma si possono scorgere, e sempre più di frequente, pattuglie delle forze dell’ordine che fermano gruppi di giovani: li identificano e cercano di capire se si tratti di studenti o militanti dei centri sociali. Una vera e propria caccia all’uomo. «Non dobbiamo sottovalutare nessun segnale»: così il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha risposto a chi le chiedeva di commentare l’allarme terrorismo, e dopo i proclami di alcuni attivisti della nuove Br (in Aula di giustizia a Milano) e la minaccia ai pm bolognesi. Quello che è successo a Milano per il mi- nistro Severino è «di assoluta gravità». «incitare al terrorismo - ha affermato il guardasigilli a margine di una sua visita alla Borsa di New York - è un atto criminale gravissimo, e dobbiamo esprimere il massimo e il più fermo dissenso. E questo dissenso deve arrivare da parte di tutti gli italiani. Confido nel fatto che l’Italia saprà reagire». Per quel che riguarda lo sgombero dell’aula di giustizia a Milano, deciso dal giudice dopo i proclami di alcuni attivisti delle nuove Br, la Severino ha affermato che «si tratta di un segnale importante di non condivisione, un importante segnale simbolico». Ma c’è anche chi dissente dal Guardasigilli Severino: sono gli oltre trenta giovani antagonisti, soprattutto provenienti dal centro sociale Un gruppo terrorista stava preparando un’azione contro il senatore Pietro Ichino Gramigna di Padova, che hanno manifestato davanti al tribunale di Milano prima dell’inizio del processo d’appello “bis” alle cosiddette nuove Br del “Partito comunista politico-militare”, i cui presunti appartenenti furono arrestati nel 2007 nel corso dell’operazione “Tramonto”: secondo l’accusa, stavano preparando una serie di attentati, fra cui anche un’azione contro il giuslavorista Pietro Ichino. I manifestanti hanno presidiato il palazzo di giustizia, esponendo lungo corso di Porta Vittoria una serie di teloni con su scritto “La rivoluzione e le lotte non si processano”, “Solidarietà ai compagni arrestati e ai rivoluzionari prigionieri”. Davanti al banchetto allestito dai manifestanti c’era anche una bandiera del “movimento No Tav”. Lo stato è accerchiato, ed in questo clima in pochi hanno la lucidità necessaria a comprendere quanto sia reale il pericolo d’una insurrezione armata. Infatti se, in un primo momento, per i giornali le lettere del Fai calabrese sono state considerate vere, invece per gli inquirenti le missive contenenti minacce al premier Monti e a Equitalia sarebbero un falso. Un’idea che si starebbe facendo strada tra gli investigatori. Soprattutto l’analisi d’intelligence starebbe nuovamente valutando l’attendibilità delle varie rivendicazioni. Nelle lettere ci sarebbero diversi elementi dubbi. Così i sedicenti esperti di terrorismo tornano sui loro passi, reputando che gli anarchici (forse) potrebbero aver dato la paternità alla gambizzazione di Adinolfi per farsi pubblicità. Ecco che torna in auge la prima pista, quella firmata Tokarev, ovvero Brigate Rosse. Mentre c’è anche chi suggerisce il movente affaristico, ma senza gran fondamento. A conti fatti l’intelligence brancola nel buio, e il Palazzo ha tanta paura della gente di strada. Il Principe Mario difende gli esattori La fallimentare strategia dell’estremismo “moderato” I C l Principe protegge sempre il suo esattore. Ci mancherebbe. E così Mario Monti, pur giudicando comprensibile il malumore del popolo, ha tenuto a sottolineare che il rispetto per gli esattori di Equitalia non deve mai mancare. Nonostante molti comuni siano in procinto di non rinnovare i contratti in scadenza con Equitalia per quel che riguarda la riscossione dei tributi, la parte di riscossione centrale, ossia quella dello stato, non è messa in discussione. Forse ci sarà da rivedere qualche aliquota o qualche tipo di aggiustamento al sistema tributario, ma Equitalia, considerata la mano sporca (ma non direttamente istituzionale) che arriva fin dentro le case a chiedere la questua, rimarrà al suo posto. Magari le cambieranno nome, oppure sarà meno “strozzina” con i cattivi contribuenti (non gli evasori), ma la sua terzietà fra stato e cittadini, rimarrà. A garanzia della politica e del governo, così da poter avere, entrambe le parti del gettito (chi dà e chi prende), la possibilità di prendersela con un capro espiatorio al di fuori, almeno formalmente, dal gioco della rappresentanza. Ovviamente fra gli obiettivi sensibili dei recenti attentati (e minacce) dell’anarchismo rivoluzionario militante, ci sono le principali agenzie di Equitalia. Ma questo non è un problema per Monti, poiché si spera che il buon senso e il weberiano concetto della diligenza del funzionario e della fiducia del popolo negli eletti, sia alla fine il sentimento prevalente nella (non proprio pacifica) diatriba in corso. «Le leggi sul fisco in ogni parte del mondo sviluppato sono leggi molto pesanti e che portano al penale quando c’è una sottrazione di risorse all’erario pubblico», ha detto ieri il leader della Cisl Raffaele Bonanni, aggiungendo: «se c’è tanto accanimento contro Equitalia vuol dire che per la prima volta si persegue chi non paga le tasse». Ma il problema è diverso. Si rischia di confondere due aspetti e tre attori. Chi si lamenta (senza sparare e senza gambizzare), sono gli italiani che le tasse le pagano. E ne pagano oggettivamente troppe, con un carico fiscale da “strozzinaggio strisciante”. Ci sono poi altre due categorie di contribuenti potenziali. Da una parte gli anarchici (o chi per loro) che non vogliono pagare le tasse per ideologia, passando alle maniere forti e violente dell’incomprensibile china terroristica che ha preso la protesta. Dall’altra ci sono evasori ed elusori. Quelli stanno zitti, non parlano e studiano un nuovo modo per non pagare le tasse. Loro non protestano. Loro evadono. E continuano a farlo indisturbati. FRANCESCO DI MAJO ome già ampiamente riportato su queste pagine, l’estremistico moderatismo di Pier Ferdinando Casini, in merito ad un presunto complotto ordito dalle agenzie di rating ai danni dell’Italia, mi ha lasciato letteralmente di stucco. Francamente, al di là della ondivaga convenienza che troppo spesso orienta la linea dei politici di professione, pensavo che l’ex presidente della Camera ci tenesse ad accreditarsi come un sostenitore del governo Monti sulla base di un sano realismo, senza inseguire le suggestioni di una cultura illiberale ed anticapitalistica. Una cultura da sempre ostile ad ogni forma di capitalismo e che, dunque, di principio tende a criminalizzare l’intero mondo della finanza. Tant’è che le componenti più retrive e radicali della politica italiana continuano ad attribuire la responsabilità della crisi in atto alle banche ed a chi opera genericamente nei mercati finanziari, senza quasi considerare gli aspetti fondamentali della spesa statale in eccesso e di un debito pubblico in perenne crescita. Ebbene, non capisco proprio quale sia la convenienza politica del leader dell’Udc nel cavalcare una sinistra onda emotiva la quale, come sta accadendo in Grecia, potrà certamente attirare un certo consenso, ma che tuttavia ci porta in alto mare sul piano della comprensione dei problemi. Se, infatti, vogliamo veramente affrontrare alla radice i mali che affliggono il paese non possiamo continuare a raccontar favole. Nella fattispecie, il ragionamento da fare è semplice. Le agenzie internazionali di rating tendono a fotografare l’andamento di uno stato e di una azienda, ma non sono certamente oracoli infallibili. L’errore è sempre possibile e plausibile. Nondimeno, l’idea che queste ultime possano influenzare in modo determinante i mercati è una favola che nessun uomo pubblico serio e responsabile, così come Casini si sforza da sempre di apparire, dovrebbe propalare. Questo perchè la diffusione e la capillarità degli stessi mercati finanziari è tale che una valutazione sostanzialmente sballata verrebbe in breve tempo sconfessata, gettando nel totale discredito chi l’ ha incautamente diffusa. Da questo punto di vista, per fare un esempio eclatante, se qualche autorevole istituto volesse attribuire alla Germania il nostro stesso giudizio di rischio, qualcuno potrebbe prestargli fede, innescando una repentina vendita di bond tedeschi sul mercato secondario? Io penso proprio di no. L’unico a bruciarsi il posteriore, come si suol dire, sarebbe lo sprovveduto che ha avuto l’ardire di far circolare un tal infondato giudizio. Ma dirò di più, in questa particolare fase storica, in cui si è amaramente appreso che ciò che sosteneva la famosa Lady di ferro è maledettamente vero in ogni epoca, ossia che i soldi degli altri prima o poi finiscono, le stime impietose delle varie agenzie di rating dovrebbero rendere più caute e responsabili le classi politiche dal lato dei bilanci pubblici, controllando sul piano della spesa il colossale problema dei debiti sovrani. Ma questo non si ottiene certamente, così come vorrebbe lo stesso Casini, creando una sorta di Moody’s europea controllata dalla politica. Molti liberali di questo disgraziato paese non si aspettano da chi si propone come moderato una crociata contro la solita speculazione cinica e bara, bensì tutta una serie di proposte per rimettere realmente in equilibrio un sistema affetto da quello stesso collettivismo che ovunque ha condotto al fallimento. Solo in questo modo si modificano le valutazioni di rischio, non con le chiacchiere e gli anatemi. Gli estremismi moderati proprio non servono. CLAUDIO ROMITI 4 GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012 IIECONOMIAII L’OPINIONE delle Libertà Il “downgrade” delle banche arriva da lontano di FRANCO OLIVA Non si placano le polemiche dopo la decisione di Moody’s, una delle principali agenzie di rating al mondo, di tagliare il rating di 26 istituti di credito italiani. Tra di essi, anche i principali gruppi di credito italiani. Unicredit e Intesa Sanpaolo hanno visto il proprio rating passare da A2 ad A3, Per Monte dei Paschi di Siena, invece, il declassamento è stato di due gradini, con passaggio da Baa1 a Baa3. Banco Popolare è sceso da Baa2 a Baa3. In totale, Moody’s ha ridotto il rating di 10 banche di un gradino, di 8 banche di due, di 6 banche di tre e addirittura di 2 banche di quattro gradini. Le reazioni, unanimemente negative a caldo, si vanno differenziando. Nella hit-parade dello sdegno occupa ancora il primo posto il leader Udc Pier Ferdinando Casini, che non ha esitato a definire la scelta di Moody’s come «un disegno criminale contro l’Italia e contro l’Europa». Un po’ più diplomatico il ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti del governo Monti, Corrado Passera, cui sanguina il cuore di banchiere: i giudizi delle società di rating, per lui, «sono eccessivi e quasi favorenti della crisi, con atteggiamenti sbagliati che quasi esasperano il ciclo». Molto più sanguigno, nella sua piccata reazione, Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi, il sindacato delle banche italiane, secondo LE QUOTAZIONI MASSIME IN BORSA DELLE AZIONI DELLE MAGGIORI BANCHE ITALIANE (IN EURO) 5 anni 2 anni 1 anni 6 mesi Unicredit 39,17 14,62 10,83 5,51 4,28 Monte dei Paschi 3,50 0,92 0,77 0,42 Intesa San Paolo 5,32 2,51 1,94 Banco Popolare 16,16 3,68 1,93 il quale il giudizio di Moody’s «è irresponsabile, è un’aggressione». Probabilmente, ritiene molto più attendibile e fondata la sua previsione lanciata il 29 gennaio scorso: Secondo gli analisti finanziari, le valutazioni di Moody’s sono difficilmente contestabili «Lo spread tornerà a quota 10090 come è giusto che sia e come deve essere per i fondamentali del nostro Paese». Infatti… Fa comunque bene al cuore constatare come il grintoso e decisionista top manager dell’Abi abbia riconquistato spirito e sicurezza di sé, dopo l’altra “aggressione” effettuata il 9 maggio scorso da 147 3 mesi 1 mese 1 sett. IERI 3,24 2,88 2,59 0,42 0,27 0,25 0,22 1,60 1,56 1,25 1,10 1,01 1,69 1,66 1,16 1,04 0,93 uomini della Guardia di Finanza che hanno perquisito la sede centrale del Monte dei Paschi di Siena e la stessa l’abitazione privata e l’ufficio senese dell’ex presidente Mussari, che comunque non risulta ancora tra gli indagati. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, le ipotesi di reato alla base delle indagini sono «manipolazione del mercato e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza in relazione alle operazioni finanziarie di reperimento delle risorse necessarie all’acquisizione di Banca Antonveneta e ai finanziamenti in essere a favore della Fondazione Monte dei Paschi». Una vicenda che non ha certamente contribuito a lustrare l’immagine – e il rating – del sistema bancario italiano. Non a caso gli operatori finanziari fanno rilevare che la decisione di Moody’s, che suona come una bocciatura nei confronti del mer- cato bancario e creditizio della Penisola, «giunge al termine di una serie di valutazioni non certo inattese sulla tenuta del sistema nazionale». Malgrado le nuove critiche Le quotazioni in Borsa sono crollate negli ultimi anni, come emerge dalla tabella pubblicata rivolte alle agenzie di rating internazionali e al loro ruolo sui mercati, gli uomini del “mercato” sostengono come sia «altrettanto indubbio, tuttavia, che le valutazioni di Moody’s siano scarsamente contestabili». E, poi, il giudizio lo hanno dato – e non da oggi – le quotazioni in Borsa delle banche italiane, che negli ultimi anni sono crollate rovinosamente falcidiando la ricchezza nazionale e il risparmio di milioni di risparmiatori. La tabella che abbiamo elaborato parla da sola. Diventa difficile, allora, buttare nel cestino l’ultimo verdetto di Moody’s: «I rating delle banche italiane sono fra i più bassi fra le economie avanzate europee e questo riflette la vulnerabilità degli istituti in un contesto difficile in Italia e in Europa». Gli analisti evidenziano come in Italia la domanda nel breve termine sia in fase di forte riduzione a causa della recessione e delle misure di austerity in corso. Troppa severità? Manco per niente, assicurano quelli di Moody’s: «La portata dei downgrade è stata limitata da alcuni fattori». E spiegano come la scelta sia stata influenzata dalla liquidità offerta dalla Banca Centrale Europea, la quale ha «ridotto significativamente il rischio default nel breve termine». Ma attenzione: «Le banche italiane – spiega ancora Moody’s – sono particolarmente vulnerabili alle condizioni operative avverse, che causeranno probabilmente un ulteriore deterioramento della qualità degli asset, pressione sugli utili e limitato accesso al mercato. Questi rischi sono esacerbati dai timori degli investitori sulla sostenibilità del debito nazionale, il quale contribuito alle critiche condizioni di finanziamento degli istituti di credito». Amen. Eurodramma: le colpe e le ragioni della Merkel I n queste ore cruciali per l’Europa e l’euro monta sempre di più la retorica anti-germanica. Ma le critiche, in parte fondate, alla gestione della crisi greca da parte europea, quindi del direttorio franco-tedesco, rischiano di trascendere in ridicole teorie sul “complottone” teutonico, in grotteschi nazionalismi alle vongole, ma soprattutto – ancor più grave – in una irresponsabile autoassoluzione collettiva da parte dei paesi che con le loro sciagurate politiche di bilancio sono i veri responsabili della crisi. Atteggiamenti comprensibili nei cittadini, ma che assumono connotati delinquenziali quando se ne fanno interpreti le classi dirigenti. La gestione europea della crisi si è rivelata fin dall’inizio un pastrocchio: decisioni tardive e contraddittorie, miopia politica e ignoranza economica. La Germania, come paese leader, ne porta ovviamente gran parte delle responsabilità. Ai tedeschi si può imputare la vera e propria ossessione per l’inflazione, una certa rigidità diplomatica, l’aver pensato in primis ai propri interessi nazionali sottovalutando il rischio sistemico. E certo non è stato un fattore secondario che le loro banche, insieme a quelle francesi, fossero le più inguaiate con i titoli greci. Detto questo però, la colpa della crisi non è dell’euro, né dei tedeschi, i quali secondo alcune teorie se ne sarebbero avvantaggiati a discapito degli altri paesi; e né Berlino né la Bce hanno mai imposto ad alcun paese un’austerità recessiva, fatta di sole tasse, niente tagli alla spesa K Angela MERKEL e nessuna vera riforma per la crescita. Anzi, Ue-Bce-Fmi-Ocse suggeriscono da anni l’opposto.I vantaggi dell’euro, soprattutto per i paesi mediterranei, sono stati enormi. Peccato che non hanno saputo sfruttarli. Dalla seconda metà degli anni ‘90 fino al 2007-2008, grazie alla “garanzia” tedesca, noi italiani abbiamo goduto di tassi d’interesse reali molto bassi sul nostro debito. Per oltre un decennio, la spesa per interessi sul nostro debito è scesa notevolmente, fino a dimezzarsi. Ma come abbiamo usato questi risparmi di decine di miliardi di euro? Non abbiamo tagliato le tasse, riducendo quindi i costi d’impresa e sul lavoro per renderci più competitivi; e nemmeno li abbiamo investiti in infra- strutture secondo il credo keynesiano. Fino al 2010 abbiamo continuato ad aumentare la spesa primaria improduttiva. Del medesimo vantaggio hanno goduto anche greci e spagnoli. Nel febbraio del 2005 lo spread tra il Bund decennale tedesco e l’equivalente greco era praticamente nullo, nonostante il rilevante divario tra i due paesi nelle valutazioni delle agenzie di rating. Fino al 2005 la Germania, che veniva dall’enorme sforzo della riunificazione, non cresceva né esportava più di noi. Solo dopo le riforme strutturali dei governi Schroeder-Merkel – nulla di selvaggiamente liberista: diminuzione della spesa e della pressione fiscale nell’ordine di 5-6 punti di Pil, riforma del lavoro e del welfare – l’economia tedesca ha ricominciato a viaggiare come una locomotiva, la disoccupazione a calare e le esportazioni ad aumentare. Certo, un’area commerciale più ampia come l’Eurozona è stata un vantaggio, ma non c’entrano la svalutazione dell’euro rispetto al marco, dato che proprio negli anni del boom tedesco l’euro si era rafforzato del 40% rispetto al dollaro, né i tassi di interesse sul debito, a quell’epoca molto vicini ai nostri. La differenza, dovremmo capacitarcene, l’hanno fatta le riforme strutturali che in Italia, come in Grecia, ci ostiniamo a non fare. Con la crisi del 2007-2008 l’incantesimo si è rotto, le differenze tra i vari Paesi dell’area euro in termini di disciplina di bilancio e di produttività, tenute fino ad allora nascoste dall’euro e da una maggiore propensione al ri- schio da parte dei mercati, sono esplose. Oggi la differenza di rendimenti tra Btp e Bund, o tra Bonos e Bund, è esagerata, frutto della crisi più che di meriti e demeriti dei singoli paesi; ma né più né meno di quanto fossero artificiosi i bassi tassi di interesse tra il 2000 e il 2008. È noto il vizio d’origine dell’euro, alla base dello scetticismo di molti economisti sulla tenuta della moneta unica: la profonda diversità delle politiche di bilancio e delle economie dei paesi dell’Eurozona. Perché la sfida fosse vinta i bilanci e la produttività dei singoli paesi avrebbero dovuto convergere e i mercati di beni e servizi integrarsi. Abbiamo avuto all’incirca un decennio di tempo, ma il divario è addirittura aumentato e l’integrazione dei mercati non è ancora completa. È colpa dei tedeschi aver saputo tenere i conti in ordine e nel frattempo aumentare la loro produttività, oppure nostra, che ci siamo adagiati sugli allori e abbiamo fatto addirittura calare la nostra produttività? Adesso, per ri- durre lo squilibrio strutturale nell’Eurozona, qualcuno vorrebbe persino che siano i tedeschi a scendere al nostro livello (aumentando del 6% gli stipendi, quindi riducendo la loro competitività), anziché noi provare ad avvicinarci al loro. L’errore di fondo è stato probabilmente non lasciar fallire Atene e voler costringere i greci a farsi salvare quando non volevano essere salvati. Vengono descritti come vittime della “cattiveria” tedesca ed europea, ma allo stesso modo si potrebbe sostenere che l’euro, l’Italia o la Spagna sono ostaggio dei loro annunci e delle loro scelte irresponsabili. Siamo ancora in democrazia: i greci hanno in mano il loro destino, il che non significa però che le libere scelte non abbiano conseguenze anche severe. Nessuno dice che debbano eleggere un governo che piace a Berlino, solo che non possono pretendere un salvataggio a fondo perduto. E i leader europei hanno il dovere di chiarire le conseguenze delle loro scelte. FEDERICO PUNZI GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012 IIESTERIII Mladic costringe a ricordare la violenza degli anni Novanta di STEFANO MAGNI U n fantasma dal passato: il generale serbo Ratko Mladic, da ieri è sotto processo all’Aja per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. «Ha guidato la pulizia etnica in Bosnia – ha esordito il rappresentante dell’accusa, Dermot Groome, nel suo intervento in apertura del processo – presenteremo elementi di prova che dimostreranno, al di là di ogni ragionevole dubbio, che c’è la mano di Mladic in ognuno dei crimini» di cui l’ex generale è accusato. Prima di tutto è considerato il principale responsabile del massacro di Srebrenica, la città bosniaca (che avrebbe dovuto essere protetta dai caschi blu del contingente olandese) dove, nel luglio 1995, furono trucidati 8 mila musulmani. Mladic è considerato anche il primo responsabile del lungo assedio di Sarajevo (1992–1995), in cui perirono circa 12mila cittadini e altri 50mila furono feriti e mutilati. L’azione durò 43 mesi e batté un altro drammatico record: quello dell’assedio più lungo della storia contemporanea europea. Su Sarajevo si sa già che fu Mladic a ordinare i bombardamenti indiscriminati sui civili, «a intervalli lenti», per «farli impazzire», come si sente dire dalla sua stessa voce in una comunicazione radio intercettata (ed esposta dai media già negli anni ’90). Mladic, che ora ha 70 anni, ha sempre ripetuto e continua a ripetere ancora oggi, dinanzi alla corte internazionale, la sua unica volontà di aver voluto difendere la Serbia e la causa dei serbi dinanzi alla minaccia musulmana. Fece perdere le sue tracce nel 1996, subito dopo la fine del conflitto e l’apertura di un fascicolo a lui intestato ad opera del Tribunale penale dell’Aja. Nella sua lunga latitanza, Mladic Il generale serbo è sotto processo in un’Europa ormai cambiata. Con una Serbia democratica che mira a entrare nell’Ue, una Croazia già “nel club” e una Bosnia pacificata da 17 anni fu protetto fino all’ultimo dai concittadini serbi e (si presume) anche dalle autorità del Paese. Che impatto potrebbe avere il suo processo sulle imminenti elezioni presidenziali in Serbia? Meno di quel che ci si possa attendere. Il vecchio generale non è più una causa di lacerazione politica, perché i Balcani sono profondamente cambiati nell’ultimo decennio. La consegna di Mladic alla giustizia internazionale, da parte di una Serbia ormai democratica da 12 anni, non ha posto fine alla carriera politica di Boris Tadic. Il presidente europeista è tuttora in testa ai sondaggi. E anche il suo rivale, Nikolic, più nazionalista, si è molto avvicinato alla causa filo–Ue per poter competere. Il diretto erede del regime di Slobodan Milosevic, il leader del Partito Socialista Ivica Dacic, era ministro dell’Interno quando Mladic venne catturato e consegnato. La Bosnia– Erzegovina, che quest’anno “celebra” i suoi primi 20 anni dallo scoppio della guerra civile, è ancora una realtà lacerata, divisa fra una repubblica serba e una croato–musulmana che non dialogano. Ma dal 1995 non conosce più conflitti armati. Merito della presenza di un contingente europeo, sicuramente. Ma soprattutto dell’assenza di nazioni esterne che soffiano sul fuoco del conflitto etnico. La Serbia di Milosevic, che nel 1992–1995 forniva armi, addestramento e ufficiali ai suoi connazionali del posto, ora è diventata tutt’altra nazione, come abbiamo visto. L’altra ingerenza, croata, è anch’essa un fatto passato: la Croazia di oggi non è più quella nazionalista, guidata da Franjo Tudjman, pronta ad annettersi il suo pezzo di Balcani, ma una stabile democrazia ben instradata nella Nato e nell’Unione Europea. L’OPINIONE delle Libertà 5 Golpe incruento nel Partito comunista cinese K Dopo l’epurazione di Bo Xilai (nella foto), a Pechino prosegue il “golpe” nel Partito. Veterani comunisti chiedono al presidente Hu Jintao di silurare Zhou Yongkang, capo dei servizi di sicurezza cinesi Non è anticristiana Chris Christie, un islamista la resistenza in Siria in casa dei repubblicani Usa? L a natura della resistenza siriana ad Assad è ancora ignota e per certi versi inquietante. Si teme che gli jihadisti si siano già pesantemente infiltrati nell’opposizione e rischino di trasformare il conflitto civile in una guerra di religione, in cui la minoranza cristiana è destinata a soccombere. Quanto sono fondati questi timori? Le notizie non mancano. Si dice che in alcune località occupate dall’Esercito Siriano Libero (i ribelli) i cristiani siano già costretti a pagare la Jizya, la “tassa di sottomissione” ai musulmani. È anche circolata la notizia secondo cui, a Homs, durante l’insurrezione, siano stati cacciati i 50mila cristiani locali. Più di recente, l’11 maggio, a Borj al Qastal, le 10 famiglie cristiane che vi abitavano sono state cacciate dalle loro case, sempre ad opera di islamisti dell’Esercito Siriano Libero. Lo stesso giorno, a Qara, padre George Louis, il parroco della chiesa cattolica di San Michele, è stato picchiato e derubato da uomini armati. Tuttavia la tesi di una persecuzione in atto contro la minoranza cristiana è stata almeno in parte smentita da fonti siriane dell’agenzia missionaria Asia News. La comunità dei gesuiti di Homs, ad esempio, ritiene che non vi sia stata alcuna “cacciata” dei cristiani locali, ma un loro esodo volontario per fuggire alla violenza dell’assedio. Le aggressioni a Borj a Qastal e l’attacco a padre George Louis «… sono fatti molto gravi. Tuttavia sono frutto del clima di guerra, violenza e assenza di legge di cui è vittima il Paese – scrivono le fonti locali di Asia News – A tutt’oggi le relazioni fra cristiani e musulmani sono uno dei pochi aspetti positivi in un clima di violenza efferata». Anche in prossimità delle zone di guerra: «Ai posti di blocco, sia i ribelli che l’esercito regolare trattano con rispetto la minoranza cristiana. Una loro persecuzione getterebbe discredito sul regime di Assad, che ha fatto della tolleranza religiosa uno dei baluardi del suo governo. Ciò vale anche per i ribelli, che cercano l’appoggio degli Stato occidentali». D’altra parte non bisogna dimenticare che un leader cristiano del vicino Libano, Nadim Gemayel, ancora in febbraio, abbia esortato i cristiani a schierarsi contro il regime. E che molti di essi, pur senza aver atteso il consiglio di Gemayel, abbiano partecipato alla resistenza contro il regime, assieme ai musulmani arabi e curdi, sin dalle prime manifestazioni del marzo 2011. La carta cristiana può essere benissimo una strumentalizzazione di Assad, per guadagnarsi l’appoggio delle opinioni pubbliche russa ed europea. E molti sono dispostissimi a dargli retta. (ste. ma.) C hris Christie è il governatore del New Jersey del Gop. Ma è anche un altro problema per la già non facile corsa di Mitt Romney alla Casa Bianca. Perché un sondaggio realizzato ad aprile dalla Quinnipiac University dà Christie come favorito tra i candidati repubblicani alla vicepresidenza degli Stati Uniti, grazie ai tagli di bilancio operati da governatore e per il fatto di tenere testa ai sindacati dei dipendenti pubblici. C’è solo un piccolo dettaglio che stona: pare sia troppo amico degli islamisti americani, anche di quelli che finanziano Hamas. Cosa che uno si aspetterebbe magari più da un candidato democratico. La “scomunica” contro Christie è arrivata da Daniel Pipes con un articolo su National review online scritto insieme a Steven Emerson. Secondo loro «il governatore del New Jersey ha un problema, in modo particolare la grana dell’Islam, che è di ostacolo alla sua possibile ascesa alla carica più alta. Ci rincresce di riportare che molto spesso lui si sia schierato con le forze islamiste contro chi si preoccupa di salvaguardare la sicurezza e la civiltà degli Usa». Poi vengono fatti alcuni esempi. Il primo: «Nel 2008, quand’era procuratore generale del New Jersey, Christie abbracciò e baciò Mohammed Qatanani, imam del Centro islamico della contea di Passaic, elogiandolo come “un uomo di gran buona volontà”. Ha fatto questo dopo che Qatanani aveva pubblicamente inveito contro gli ebrei e contribuito all’attività di finanziamento di Hamas, un’organizzazione terroristica presente nella lista nera del governo americano e alla vigilia dell’udienza fissata per decretare la sua espulsione allo scopo di non va- nificare una condanna israeliana per la sua appartenenza ad Hamas. Inoltre, Christie ha designato il viceprocuratore Charles McKenna come testimone caratteriale a favore di Qatanani». Il secondo: «Nel 2010, dopo che Derek Fenton aveva bruciato tre pagine di una copia del Corano durante una cerimonia di commemorazione dell’11 settembre, il suo datore di lavoro, il New Jersey Transit, ottenne da Christie l’approvazione per licenziarlo. Christie approvò a gran voce il siluramento di Fenton, anche se questo ha significato tutelare l’Islam a scapito del diritto costituzionale alla libertà di parola. L’Unione americana per le libertà civili (Aclu) ha rappresentato con successo Fenton perché riavesse il suo impiego». Il terzo: «Nel 2011 Christie ha nominato un islamista, Sohail Mohammed, alla Corte d’Appello del New Jersey. Il curriculum di Mohammed annovera una carica di consigliere generale dell’American Muslim Union (che ha asserito che un “commando sionista ha orchestrato gli attacchi terroristi dell’11 settembre”) nonché la difesa di Sami Al–Arian, un operativo della Jihad islamica palestinese, e infine una partecipazione alla difesa legale del citato Qatanani. Mohammed non è solo il legale degli islamisti, è uno di loro». Se i repubblicani hanno una possibilità di mandare Romney alla casa Bianca è sull’ambiguo dialogo con l’Islam di Obama. Che dopo avere finanziato le primavere arabe non ha mostrato il pugno di ferro all’Iran. Ma con uno come Christie l’arma diventerebbe inutilizzabile. DIMITRI BUFFA 6 GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012 L’OPINIONE delle Libertà Meglio gli elettori onesti Queste Br fanno ridere: che i servi delle clientele solo slogan da bar sport I l soggetto non è da letteratura mondiale, rebbero primo con circa il 25%, secondo bensì da spazzatura intellettuale. Mi ac- il Pdl con circa 19%, terzo M5S con cingo a scrivere degli elettori italiani. Inizio, 16/17%. Non mi rattristo per una sorta di quindi, parlando della dignità e dell’onestà sentimento d’invidia verso quel partito, ma intellettuale di quegli elettori italiani che per lo schifo che mi procura constatare che pur proveniendo da una consolidata ap- mentre nel centrodestra esiste un elettorato partenenza politica di destra o di centro- onesto intellettualmente che rifiuta tutto destra, basata soprattutto sui valori, ma quanto viene fatto a favore delle caste dei anche su una certa visione del sistema pae- lestofanti che ci governano e contro di noi, se, sono riusciti con un forte atto, sofferto, povera gente, nel centrosinistra è troppo di responsabilità, a staccare la spina al- forte e radicato il clientelismo, ovvero, io l’unico partito di riferimento rimasto dopo ti voto lo stesso anche se fate schifo, perché alcune travolgenti vicissitudini: il Pdl. In- mi mantieni questo e quello, e poi chissefatti le elezioni amministrative lo hanno nefrega se altri subiscono macelleria sociale punito bene e le proiezioni per eventuali appoggiata anche da Bersani. È proprio elezioni politiche confertriste. Senza parlare demano la disistima che gli ignavi che, appunto, quel partito ha raccolto. tengono in vita quelli Esiste una differenza Prima per il comportache ormai sono gli ex mento poco serio del tra l’elettore di destra schieramenti politici che suo leader che elargisce non hanno più alcun e quello di sinistra. milioni di euro a ragazsenso di esistere se non zine di malaffare e ruf- Il primo punisce quello di fare da richiafiani - mentre i pensio- gli errori del proprio mo per le allodole con nati ogni mattina fanno battaglie su matrimoni il giro dei bidoni della partito, il secondo gay o no, e questi ignavi spazzatura - poi e so- ignora le scelte puntualmente si mettoprattutto per l’appoggio no lo scolapasta in testa convinto alla macelleria sbagliate del Pd pronti a rimpinguire di sociale del governo che voti i partiti che “raplo stesso Pdl ha contripresentano i loro ideali”, buito a far nascere e contribuisce convinto e i partiti regolarmente sono riusciti nel a tenere in piedi, appoggiando le sue scelte loro sporco intento di prendersi un tot di infelici e dittatoriali contro il popolo, con- euro a cranio per coloro che sono riusciti siderato non più sovrano, ma succube. a far votare. Poveri polli, non vi invidio. Quello che mi rattrista molto, invece, è la Molto meglio la mia onestà intellettuale. GAETANO RIZZA quasi tenuta del partito di riferimento della lebarricate.altervista.org sinistra, il Pd, infatti le proiezioni lo da- That’s the Twitter, baby a cura di PIETRO SALVATORI @LeolucaOrlando1 «Leoluca Orlando è nato nel 1947 a Palermo,.......». Si presenta così ai propri followers il candidato alla poltrona di primo cittadino del capoluogo siciliano, virgola e sette puntini compresi. Il vecchio leone, alfiere prima dello scudo crociato, poi dei valori dell’Italia di segno dipietrista, ha scoperto Twitter in campagna elettorale. Va bene, anche prima spargeva qualche cinguettio sulla rete. Ma un uso così massivo e interattivo del mezzo è una novità degli ultimi mesi. Tanto che lo sfondo della sua pagina personale è rimasto uno di quelli predefiniti. Un blu antracite che, tutto sommato, ben si sposa con il viola di un avatar dal sapore elettorale. «Luca lo sa fare», informa uno slogan di spalla ad una foto a tre quarti di Orlando. Alludendo, ovviamente, alle due volte nelle quali il buon Leoluca ha già ricoperto il ruolo di sindaco nella città di Santa Rosalia. Che Twitter gli possa essere utile a canalizzare ulteriore consenso elettorale in vista dei ballottaggi L e Br hanno approfittato del clima sociale che investiva tutti i suoi capitali nell’armare di crisi e della disastrosa deriva europea una nave da spedire in Oriente o nelle Ameed italiana verso la tassazione. Hanno preso riche per importare spezie o altre merci da spazio anche grazie al clima di odio che è na- rivendere in Europa. Noi non siamo mai uscito socialmente contro Equitalia. Di là a tra- ti dal latifondo, dalla coltivazione della terra sformare il processo in corso contro alcuni alla coltivazione di un partito. Altro che bormilitanti in una farsa teatrale in stile anni ‘70 ghesia. Slogan da bar sport: con le banche il passo era breve. Secondo regole, le Br han- che «fanno pagare il costo alle masse popono ricusato il collegio di difesa. «E’ una que- lari». Quindi le banche ammazzano il vitello stione politica», ha dichiarato Vincenzo Sisi, che dà loro da mangiare? O c’è una crisi uno degli imputati: «Di fronte alla catastrofe strutturale del modello bismarckiano-socialdel capitalismo, non c’è altro sbocco che la democratico, che non può più offrire un wellotta armata». Ammazzare per denaro? Gam- fare efficiente a causa della concorrenza monbizzare per la politica? Siamo al ripetersi di diale, della delocalizzazione, dei costi della un errore storico, prodotto di una assenza di burocrazia, della curva demografica? Il processo di appello-bis è così capacità critica: un conto diventato un mini parlaè la critica politica, un almento, non meno delirantro conto è uccidere, feriIl processo di appello te di quello romano: re, intimidire, rovinare «Non amiamo la violengiovani vite a forza di slo- sembra un piccolo za, ma e’ inevitabile. Nesgan. Da che parte è il beparlamento delirante. sun gruppo di dominatori ne? Cosa è il bene sociale? nella storia ha mai abbanSono le Br un sacerdote I terroristi recitano donato pacificamente il sociale in grado di fare sa- a memoria potere». Se il livello mencrifici allo scopo di intale dell’Italia è questo, griarsi non si sa quale di- rosari leninisti. propongo di assumere covinità? Ma farebbero meglio me scelta migliore possiNon lo sono. «Il sistebile l’asservimento volonma borghese è agli sgoc- a deridere se stessi tario allo stato della cioli. E’ stato dimostrato Svizzera. Come schiavi, che il capitalismo non è eterno e che la sua fine non è così lontana». che sennò faremmo esplodere anche la SvizCosì ha aggiunto un altro brigatista. Ci si zera, col Lichtenstein incluso. Risate rosse. chiede se abbia coscienza di cosa sia il capi- La cosa migliore per le Br sarebbe deridere talismo. Quanto alla borghesia italiana: è se stessi, per capire che nella vita non ci sono mai esistita? C’è una classe trasversale di mo- solo i sensi unici, ma anche i doppi sensi. PAOLO DELLA SALA nopolisti e di privilegiati. Se questa è la borlapulcedivoltaire.blogosfere.it ghesia produttiva del Regno Unito del 1600, è improbabile. Dei quattromiladuecento follower che si è conquistato con pazienza (e grazie all’exploit di contenuti veicolati nelle ultime due settimane), una buona metà sono addetti ai lavori: esponenti della politica locale e nazionale, giornalisti, studiosi della politica, bloggers e opinion leaders di Twitter. Ma Orlando e, si presume, il suo staff, hanno iniziato a capire che spendere bene l’immagine del candidato dipietrista sul social network significa avere la possibilità, tramite followers illustri, di amplificare il suono mediatico dei contenuti pensati per il web. Così tra i tweet scorrono i video di Shobha, Giuseppe Cipolla, Desideria Burgio, e Roberto Alajmo. Sono solo alcuni di una lunga serie di cittadini e politici palermitani che spiegano il perché “Io voto Leoluca Orlando”. Il tutto riassunto nell’hashtag scelto dallo staff: #liberarepalermo. In testa al quale si leggono tweet come «libereremo la città da coloro che non ci mettono la faccia. La maggioranza dei palermitani ha già deciso di voltare pagina», o «105 mila voti sono la prova che i palermitani vogliono riprendersi la città, manca un ultimo sforzo». Non mancano generici appelli al serrare i ranghi: «Viviamo insieme una grande stagione, scriviamo una nuova pagina di storia per Palermo». O anche: «Palermo può essere liberata dobbiamo farlo tutti insieme». Strategia che ha ben poco appeal nell’interattivo universo twittero. Molto più efficace il botta e risposta continuo con chi gli pone domande o questioni. Lesto ad anticipare l’avversario Fabrizio Ferrandelli nel ri- spondere a Daniela Palazzotto, che si poneva la questione: «Quanto mi piacerebbe che @LeolucaOrlando1 e @Ferrandelli riuscissero a dissipare i miei dubbi su chi votare dei due». «Su http://www.ilsindacolosafare.it c’è la mia agenda dei prossimi giorni: venga a conoscermi di persona», le ha risposto a stretto giro di posta Orlando. @Ferrandelli «31 anni, candidato Sindaco. Credo in Palermo e nei palermitani. Insieme andremo lontano. Abbiamo il coraggio di cambiare». Così si presenta Fabrizio Ferrandelli su Twitter. Il candidato del Partito democratico e di Sinistra ecologia e libertà alla municipalità palermitana si districa meglio dell’avversario nell’ortografia della presentazione nei confronti di chi capita sul suo profilo. Segue link al suo sito personale. Diversa anche la scelta dell’avatar. Nessuno slogan compare in quello del trentunenne piddino, che sorride cravatta lenta e chioma fluente all’internauta. Un po- ster elettorale campeggia sullo sfondo, ricordando «il coraggio di cambiare» di quello che viene già definito «il sindaco dei palermitani». La sfida dei followers rispecchia però l’abissale distacco percentuale inflittogli da Orlando al primo turno. Ferrandelli si ferma infatti a poco più di duemila e settecento. Quasi mille e cinquecento in meno dell’avversario. Definito come «l’altro candidato» nei tweet di @Ferrandelli. Sono due gli hashtag con i quali porta avanti la battaglia elettorale. #ilcoraggiodicambiare veicola i contenuti politici, ma c’è anche il più comodo e breve #elepa per i cinguettii troppo lunghi. Su Twitter solo da qualche settimana, Ferrandelli si è mostrato sin da subito attivissimo: quasi duemilatrecento i tweet all’attivo, almeno una quarantina (se non di più) al giorno. «Grande partecipazione al comizio di questa sera a Sferracavallo. Da 10 anni sono prima linea a difendere i lavoratori» scriveva martedì notte. Nel 2002, a dare retta alla biografia sul sito ufficiale, si divideva tra il coordinamento palermitano del Movimento umanista e l’organizzazione di «progetti di sviluppo promossi congiuntamente con gli abitanti della favela di Atibaia a San Paolo in Brasile» (luogo nel quale, evidentemente, il diritto del lavoro è un’istanza assai diffusa tra gli abitanti locali). Oltre agli aggiornamenti sulla campagna elettorale, anche Ferrandelli propone video sulla stregua di quelli di Orlando: una lunga serie di “Io voto Ferrandelli perché” nei quali si alternano comuni cittadini e militanti dei partiti che sostengono la coalizione di centrosinistra. GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012 IICULTURAII L’OPINIONE delle Libertà 7 Alle stampe il saggio dimenticato di Schumpeter di ENNIO EMANUELE PIANO D a anni l’editore Rubettino si è preso la briga di riportare (o pubblicare per la prima volta) sul mercato librario italiano quella cultura libarale “classica” (da Hayek a Bruno Leoni, passando per Popper, Polanyi, Kirzner e altri) che nel nostro paese, per mille motivi, ha stentato a circolare in tutto il secondo dopo guerra, emancipandola così dal circuito bibliotecario dove andava impolverandosi nella disattenzione generale. Da qualche settimana, poi, l’editore calabrese ha lanciato nelle librerie il primo volume di una nuova collana, “Piccola Biblioteca del Pensiero Occidentale”, curata dai professori Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe. Tra i maggiori pensatori cattolici liberali il primo, filosofo della scienza il secondo. Il volume è un breve (o come si dovrebbe dire nelle recensioni: agile) libretto firmato da Joseph Alois Schumpeter, economista austriaco allievo del Bohm-Bawerk, a sua volta allievo di Carl Menger, il padre del marginalismo austriaco. Intitolata Come si studia la Scienza Sociale (142 pagine, 10 €), l’opera nasce -ci spiega lo stesso Antiseri nel saggio introduttivo- come un manualetto, concepito dal giovane professor Schumpeter per i suoi allievi dell’università di Czernowitz. Particolarmente interessante è la nota del curatore della traduzione, Enzo Grillo, una vera e propria accusa agli studi dell’opera schumpeteriana che hanno colpevolmente trascurato questo scritto, talvolta persino dimenticando di elencarlo nella bibliografia dell’economista austriaco, o, quando invece per puro caso se ne ricordava l’esistenza, sbagliandone il titolo. Col suo lavoro, Grillo riesce a redimere i disattenti colleghi di studi schumpeteriani, convinto che il manualetto sia «indispensabile alla ricostruzione» del pensiero del suo autore. Difatti, nelle poche (44) paginette stese nel 1908, Schumpeter sintetizza il metodo che ogni studioso coscienzioso, e perciò egli stesso, dovrebbe adottare nell’affrontare lo studio delle scienze sociali. Le quali, ribadisce l’autore, sono per l’appunto e prima di tutto delle scienze. E scientifico deve essere perciò l’approccio verso esse, anche se questo può essere faticoso specialmente per un giovane studente, il quale - cent’anni fa come oggi - è scosso dai fremiti della passione politica più di un anziano professore: «Lo studio delle scienze sociali esige da noi un grosso sacrificio. Prima di varcare la loro soglia noi dobbiamo rinunciare a un pezzo del nostro io, e precisamente ai nostri ideali sociali, alle nostre vedute su ciò che e bene e desiderabile. Nessuna altra scienza esige da noi un desiderio come questo. Di fronte alle leggi della natura, i nostri desideri ammutoliscono da sé» (p. 88). La scienza fisica non deve rispondere del se sia giusto o meno che la mela sia attratta a terra, allo stesso modo è inutile se non dannoso mischiare fatti e valori quando si analizzino le questioni economiche. «Così, per esempio, ai fini della questione “il lavoro è una merce?” è del tutto irrilevante chiedersi se ciò si accorda con la dignità dell’uomo. Se, per gli scopi di una cer- “Come si studia la Scienza Sociale” è un manualetto, concepito dal giovane professor Schumpeter per i suoi allievi dell’università di Czernowitz. Pubblicato in questi giorni da Rubettino, è stato a lungo ignorato dagli studi dell’opera schumpeteriana, molti dei quali lo hanno colpevolmente trascurato, talvolta persino dimenticando di elencarlo nella bibliografia dell’economista austriaco. Sono poche (44) ma preziose le paginette stese nel 1908, nelle quali l’intellettuale sintetizza il metodo che ogni studioso coscienzioso dovrebbe adottare nell’affrontare lo studio delle scienze sociali. Delle quali fu un maestro, consapevole delle difficoltà metodologiche e contenutistiche di una scienza come quella economica. Dal cui studio, scrisse forse esagerando, «su cento studenti, novanta non ci ricavano nulla, ma proprio nulla». Forse perché della realtà non si può mai «dare un’immagine precisa. Le scienze sociali teoriche espongono solamente tendenze e mai la piena realtà stessa» ta ricerca, il lavoro si comporta come altri beni, se per esempio il suo prezzo s forma allo stesso modo, ciò e sufficiente e nessun argomento generale ci può togliere il diritto di considerare, ai fini di questa ricerca, il lavoro come un bene economico» (p. 103). Schumpeter offre inoltre ai suoi studenti alcuni consigli sul come affrontare, nella pratica, lo studio dell’economia politica, o della sociologia, le maggiori tra le scienze sociali. Innanzittuto è necessario «imparare a pensare teoreticamente, [per poi] guardare all’insieme del materiale e cercarvi delle regolarità e dei nessi causali» (p. 86). Da dove viene però il materiale dal quale lo scienziato sociale trae i dati necessari a mettere alla prova la propria teoria? E quanto questo è affidabile? L’autore mette in guardia lo studente dall’affrontare ingenuamente ciò che gli offrono storici, etnologi e statistici, i quali «non solo riferiscono, ma danno anche una certa forma ai fatti, e così facendo i fatti stessi si trasformano nelle loro mani» (p. 81). Lo storico è spesso digiuno di teoria economica e sociologia e dunque «è facile che possa sbagliarsi, scambiando disnvoltamente sintomi per cause, e coincidenze casuali per nessi casuali» (81) così come lo statistico dà una certa interpretazione dei freddi dati anche solo adottando una certa metodologia di raccolta dei dati piuttosto che un’altra. Schumpeter non accusa questi tre generi di studiosi di essere dei corruttori intenzionali della realtà - anche se di essi ne esistono, e a bizzeffe. È consapevole che della realtà non si può mai «dare un’immagine precisa», essa è troppo complessa per essere capita, e ancora di più per essere genuinamente spiegata: «Le scienze sociali teoriche espongono solamente tendenze della realtà e mai la piena realtà stessa» (92). Questo testo va aggiunto all’importante contributo dato da Schumpeter allo studio delle scienze sociali in generale, e dell’economia in particolare. Egli fu un maestro consapevole della difficoltà di una scienza come quella economica, dal cui studio, scrive forse esagerando, «su cento studenti, novanta non ci ricavano nulla, ma proprio nulla». Una verità compresa da un altro grande maestro di cose economiche come Sergio Ricossa, che, in conclusione della sua ultima lezione tenutasi all’Università di Torino, si congedò dai suoi studenti chiedendo loro scusa «per avervi fatto perdere del tempo».