DL353/2003 (conv. in L 27/02/04 n. 46) art.1 comma 1 - DCB - Roma / Tariffa ROC Poste Italiane Spa Spedizione in Abb. postale
Direttore ARTURO DIACONALE
delle Libertà
Fondato nel 1847 - Anno XVII N.111 - Euro 1,00
Giovedì 17 Maggio 2012
Dai pm il colpo finale al Senatùr
K «Bossi sapeva». Ne sono convinti i pubblici ministeri della Procura di
Milano, che hanno iscritto il Senatùr nel
registro degli indagati con l’accusa di
truffa ai danni dello stato, in concorso
con l’ex tesoriere leghista Francesco
Belsito. Sapeva cosa? Dei fondi sottratti alle casse padane per la paghetta
dei suoi figlioli. Non solo avrebbe saputo, rilanciano i pm, ma sarebbe anche
stato pienamente d’accordo. L’accusa
infatti è quella di appropriazione indebita di fondi del partito proprio in favore
dei figli Renzo, detto “il Trota”, e Riccardo, indagati anche loro. Ammonterebbe a 18 milioni di euro il denaro
incassato dalla Lega e rigirato alla
prole bossiana a fronte di una falsa rendicontazione. Per un’eventuale condanna della giustizia occorrerà
ovviamente attendere la conclusione
dell’iter processuale.
Ma la sentenza definitiva della stampa è
già arrivata sin dai tempi in cui è
esploso il caso Belsito: Bossi è colpevole, e senza diritto di appello. Carta (di
giornale) canta, e tanto basta. Se non in
Padania, almeno in Italia.
Serve una via di mezzo tra “zoccole” e “prefiche”
C
ome non era colpa di Silvio
Berlusconi se lo spread saliva
alle stelle, non è colpa di Mario
Monti se l’Italia è di nuovo nel mirino della speculazione internazionale favorita dal comportamento
ostile e criminale delle agenzie di rating americane. Oggi come allora il
governo ed il paese sono vittime della tensione a livello planetario provocata dalla crisi dell’euro e della
struttura sbagliata e fatta a misura
della sola Germania dell’Unione Europea. Non era il burlesque del Cavaliere, allora, a provocare le tempeste monetarie sul nostro paese. E
non è il volto mesto e monocorde
del Professore ad alimentare la bu-
di ARTURO DIACONALE
Non è colpa di Monti
se l’economia italiana
è di nuovo nel mirino
della speculazione.
Come non era colpa
di Silvio Berlusconi
se lo spread saliva.
Bisogna distinguere
tra i problemi nazionali
e quelli internazionali
fera che minaccia di trascinare l’Italia verso il baratro a cui sembra destinata la Grecia insieme ai paesi più
deboli dell’Europa meridionale.
Questo, naturalmente, non significa rimpiangere il burlesque o auspicare che la mestizia diventi il tratto distintivo degli italiani per i
prossimi vent’anni. Significa distinguere tra i problemi internazionali
e quelli nazionali. Sapere che non si
risolvono i primi se non si ricostruisce la Ue sulla base delle regole della
democrazia e non sulle pretese dei
banchieri tedeschi. E avere la consapevolezza che, accanto ad una
azione di politica estera degna di un
paese sovrano, ci deve essere una
Cosa fare con questa Grecia
D
alla Grecia, ormai, non possiamo attenderci alcun cambiamento. Le elezioni anticipate sono
state fissate al 17 giugno. Ma è molto difficile, se non impossibile, veder
sorgere una maggioranza in grado
di formare un governo stabile. I sondaggi di questa settimana danno in
testa la coalizione Syriza, composta
da vari gruppi della sinistra massimalista, tutti convinti a respingere
il piano di austerity richiesto da
Unione Europea, Bce e Fondo Mo-
di STEFANO MAGNI
netario Internazionale (la “troika”)
in cambio della prossima tranche di
aiuti. È lecito prevedere che Atene
sia destinata a non trovare una soluzione politica, a respingere le misure richieste dalla “troika” e a far
bancarotta per esaurimento delle risorse pubbliche, probabilmente entro un mese e mezzo. In questa condizione è solo l’Unione Europea che
ha ancora una possibilità di scelta.
Su cosa fare della Grecia. Lungi
dall’avere un parere unanime, l’Eurogruppo (la riunione del consiglio
dei ministri delle Finanze), la Com-
missione e i principali governi nazionali dei 27, si dividono fra “falchi” e “colombe”. I primi prendono
almeno in considerazione l’idea che
la Grecia esca dall’eurozona, se non
rispetta gli accordi. I secondi vogliono aiutare Atene a restare nella valuta comune, anche rinegoziando i
termini della “troika”. In quest’ultimo gruppo si iscrivono il presidente dell’eurogruppo, Jean Claude Juncker e il presidente francese François
Hollande. Il governo italiano è sicuramente più vicino a questa posizione. Nel gruppo dei “falchi” troviamo invece la cancelliera tedesca
Angela Merkel e il commissario (...)
Continua a pagina 2
azione di politica interna capace di
affrontare i problemi reali senza
oscillare tra le “zoccole” e le “prefiche” (tanto per semplificare), ma
avendo come punto di riferimento
solo l’interesse concreto dei cittadini.
Tutto questo è facile a dirsi ma difficile da realizzare. Perché per ricostruire una Europa fondata sulla volontà dei popoli e delle nazioni e
non sulle pretese delle burocrazie
germanizzate ci vorranno anni. Nel
frattempo, il Vecchio Continente rischia di subire sconquassi da terzo
conflitto mondiale. E per affrontare
i problemi interni ci vuole una capacità che la classe politica e quella
dirigente italiana sembra aver defi-
nitivamente perduto negli ultimi anni passati tra l’irrealtà dell’edonismo
berlusconiano e la forsennatezza del
moralismo fasullo e strumentale. Insomma, tra le “zoccole” e le “prefiche” serve una via di mezzo. Che è
quella della estema concretezza. Una
via che il governo Monti avrebbe
dovuto seguire con determinazione,
visto che la sua natura tecnica lo
avrebbe dovuto tenere lontano dalle
contaminazioni dell’uno e dell’altro
eccesso. E che, invece, non riesce a
seguire perché, dopo avere marcato
la propria distanza dallo “zoccolume”, non è riuscito e non sa fare altrettanto rispetto all’irrealtà (...)
Continua a pagina 2
2
GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012
IIPOLITICAII
L’OPINIONE delle Libertà
La crisi dei partiti ha origine Non possiamo non
nelle scelte degli anni Settanta dirci “conservatori”
di PIER PAOLO SEGNERI
S
embra oggi, invece è ieri.
Quando la memoria è viva e
vitale nel presente significa che
non possiamo archiviarla nei ricordi, ma è necessario comprenderla per costruire il futuro. «Il regime rischia di affogare in un
mare di scandali e di corruzione,
vittima ormai della stessa protervia e prevaricazione che ha rivolto
per decenni contro la democrazia
e contro i cittadini e che oggi gli
si rivolta contro. La repubblica rischia però anch’essa di rimanere
travolta dalla crisi del regime».
Sembra oggi, invece è ieri. E’
quanto si legge su Notizie Radicali
del 3 marzo 1976. In quel testo, il
Partito radicale lancia la “carta
della libertà” e si prepara a costruire l’alternativa al regime partitocratico. L’obiettivo è quello di
raccogliere, entro l’anno, un milione di firme sulle proposte di legge di iniziativa popolare relative
al rapporto fra stato e chiesa e sui
poteri dello stato in materia di libertà dei cittadini. Il progetto in
questione, però, posto sul tavolo
del dialogo con il Psi, non è sufficiente a convincere i socialisti a
federarsi con il Partito radicale.
Infatti, un mese dopo, ad aprile, il
Psi respinge la proposta di federazione con i Radicali. A quel punto,
Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia, Adele Faccio, Mauro Mellini, Emma Bonino e tutti gli altri
decidono di presentare liste Radicali alle elezioni politiche anticipate. Il dado è tratto. E così, il
progetto di raccogliere le firme dei
cittadini in calce alla “carta della
libertà” viene abbandonato per
concentrare le forze sulla sfida
elettorale per il rinnovo del Parlamento. Se volessimo ridurre la
scelta in uno slogan, si potrebbe
K
Montecitorio
forse scrivere: concentrare le forze
per decentrare le iniziative. Non
a caso, ai primi di maggio del
1976, il Partito radicale apre la
campagna elettorale con una esposizione debitoria iniziale di 20 milioni e, allora, gli iscritti e i militanti decidono di supplire alle
carenze economiche attraverso iniziative sparse nei quartieri, in periferia e in varie realtà locali, nelle
grandi città come in provincia.
Vengono organizzati o, meglio,
vengono improvvisati concerti e
dibattiti, manifestazioni, happening, comizi davanti alle carceri,
passeggiate nei mercati, volantinaggi, fino all’idea di offrire rose
ai passanti coinvolgendo le persone a partecipare non sulla scia di
un’emozione né, tantomeno, come
conseguenza di una scelta ideologica a-priori, ma di sentirsi chiamate a partecipare in quanto davvero interessate ai temi promossi
dai Radicali. È il 1976, un anno
cruciale. Il 20 marzo nasce Radio
Radicale, un evento che modificherà il modo di pensare e di vivere i sistemi di comunicazione:
una nuova forma di partecipazione politica, una radio non al servizio di un partito, ma del cittadino, così da poter essere anche
soggetto della comunicazione e
non soltanto mero fruitore o consumatore passivo. Dal 18 al 24
marzo 1976, a Roma, si svolge il
XIII congresso della Dc, in cui si
affermano le correnti di sinistra di
Aldo Moro e Benigno Zaccagnini
a discapito delle correnti “centriste” o di destra rappresentate da
Andreotti, Fanfani, Forlani. Zaccagnini è eletto segretario. Il seguito della storia lo conosciamo
o, comunque, avremo modo di
continuare il racconto in un’altra
occasione. Quello che oggi conta
sottolineare è il fatto che la memoria, nel nostro paese, viene sistematicamente oscurata, cancellata, negata. Viviamo nell’amnesia,
nella non conoscenza, nella falsificazione della storia. Del resto, la
storia la scrivono sempre i vincitori. Ma soltanto attraverso la
spinta offerta dalla memoria si costruisce il futuro. Radicali italiani,
a tal proposito, rischia di non poter dare la forza necessaria alle
lotte politiche del presente, che la
memoria pretende rispetto al futuro, se non aumenteranno presto
e in maniera considerevole le iscrizioni a questo movimento che il
potere fine a se stesso della partitocrazia dominante vorrebbe lasciare nel dimenticatoio e che, invece, rappresenta una speranza
per chi non si è arreso nella lotta
per una democrazia liberale anche
in Italia. Per chi vuole nutrire la
propria memoria e,dunque, il nostro futuro.
S
trisciante come un’erba parassita, l’ipocrisia sociale del XX
secolo ha inquinato talmente la
lingua e il liguaggio degli Italiani,
che perfino coloro che si sentono
e si dicono “di destra” o “liberali”
rigettano come un’offesa la definizione di “conservatori”. La “resistenza” non ha resistito ai battèri
del conformismo sovietico, e ha
scavato un fossato, un baratro. Di
qua il bene: il progressismo. Di là
il male: la conservazione.
Gli effetti comici sono paradossali ed esilaranti: se dici a Silvio Berlusconi “conservatore” si
offende... e ha ragione, perché è
difficile trovare in Italia un “italiano” più sciaguratamente progressista di lui. Ma che il partito
da lui creato & affondato, e la sua
stessa concezione di ideologia di
appartenenza e di assembramento
governativo, piuttosto che darsi
nome di conservatori, abbia scelto
e pappagallescamente ripeta “moderati”, non ha spiegazione se non
nella totale insipienza della cultura, del valore, della storia, della
bellezza degli Italiani. “Noi moderati”. Basterebbe un minimo
barlume di consapevolezza o un
briciolo di auto-ironia per cancellare dalla propria articolazione fonetica una simile balorda espressione. “Moderato tu?!” Silvio,
conosci in Italia e nell’intera Europa merkeliana persona meno
moderata di te?
E poi, “moderato”, che vuol
dire. Vile? Falso e cortese? Torinese predente? Non è per caso che
“moderato” voglia dire “niente”?
Noi non siamo niente. Non siamo
Br. Non siamo alcolisti. Non siamo Tav, né No-Tav. Torneremo su
questa pietra di paragone dell’essenza politica dei nostri poveri ultimi decenni, ma lo faremo dopo
averci appeso per il collo tutta
l’ipocrisia che, ben più gravemente
d’ogni ideologia, ha malgovernato
l’Italia. Ripartiremo da “conservazione”, dalla fierezza e dalla responsabilità di chiamarci conservatori. Ci chiameremo fuori dal
dibattito tra conservazione e progressismo. E non ci sarà bisogno
di scomodare (anche se sarebbe
l’ora di farlo, nelle scuole) il grande pensiero filosofico del ‘900, che
ha sancito – nel delirio di “progresso”: il progressismo – la perdita dell’essenza stessa dell’anima
e della cultura dell’Occidente. Proveremo a dire, a dirci, che conservare è il nostro compito fondamentale: è “il” compito, è la
responsabilità di non lasciare solo
rovine alle nuove generazioni.
Proveremo a fare politica per
conservare i valori, il senso comunitario, l’onore e non il ricatto del
lavoro, l’uguaglianza della frater-
L’ipocrisia sociale
ha inquinato talmente
il liguaggio, che perfino
coloro che si sentono
“di destra” o “liberali”
rigettano come
un’offesa la definizione
di “conservatori”
nità e non della spartizione, il senso stesso della vita non patteggiabile con umilianti trattative tra
diritti e doveri. Insomma, proveremo a dirci conservatori e a identificare nella conservazione ogni
speranza di armonioso progredire
tenendo sottobraccio la nostra terra e la nostra fantasia creativa.
GIROLAMO MELIS
segue dalla prima
Zoccole e prefiche
(...) del moralismo politicamente corretto
e del giustizialismo strumentale. La tragedia, in altri termini, è che la cultura dominante del governo è quella delle “prefiche”.
Cioè di quelle che trasformano la tragedia
in una recita vuota (alla Fazio ed alla Saviano, tanto per intenderci) che serve solo
a rinviare a data da destinarsi la soluzione
dei problemi concreti.
Il caso della sceneggiata in scena in questi
giorni sulle norme contro la corruzione e
su quelle sul ripristino del falso in bilancio
è illuminante. Idv e Pd conducono su questi
temi gli ultimi scampoli di campagna elettorale amministrativa nella certezza assoluta che le misure richieste, del tutto inutili
se non addirittura dannose, non verranno
mai fatte passare dal Pdl e delle altre forze
di centrodestra, anche loro alle prese con
le richieste dei propri elettori. Ed il governo, che sa benissimo come le norme contro
la corruzione sarebbero grida manzoniane
non più efficaci delle leggi attuali e che con
il ritorno al vecchi falso in bilancio la totalità delle società italiane sarebbe alla mercé di una magistratura imprevedibile ed
umorale, non sa tenere la linea mediana
della concretezza spiegando al paese che
un teatrino del genere serve solo ad illudere
l’opinione pubblica che l’unica speranza
per il paese è quella del “più manette per
tutti”! Speriamo che dopo i ballottaggi la
sceneggiata finisca ed il governo sappia resistere ai condizionamenti del moralismo
politicamente corretto. Perché passare dalle
“zoccole” alle “prefiche” sarebbe come passare dalla padella nella brace. Con l’aggravante della depressione.
ARTURO DIACONALE
Cosa fare
con questa Grecia
(...) all’Economia Olli Rehn. A dividere i
due gruppi vi sono soprattutto interessi
nazionali. Juncker (lussemburghese) ne è
relativamente esente. Ma è anche in uscita
e non gli costa molto atteggiarsi a “colomba”. Hollande vuol fare della Francia la
capofila di un’Europa che punti alla “crescita” (alimentata dalla spesa pubblica e
da una politica monetaria inflattiva). Italia,
Spagna e Portogallo, invece, temono l’uscita della Grecia dall’eurozona, perché poi
verrebbero visti dai mercati internazionali
come le prossime pedine del domino e su-
birebbero il contraccolpo peggiore. Dall’altra parte della barricata, Paesi con i conti pubblici in ordine, come la Germania,
la Finlandia (da cui proviene Olli Rhen),
la Svezia e l’Olanda, sono i più duri nel
chiedere alla Grecia il rispetto delle regole,
perché non vogliono pagare per gli errori
altrui. Un salvataggio della Grecia non è
gratuito: solo l’attuale tranche prevista dalla “troika”, ammonta a 130 miliardi di euro. Una cifra che non sarebbe neppure sufficiente a evitare il default, nel caso Atene
non provveda a drastici tagli già nei prossimi mesi. Una decisione europea non verrà
presa fino al prossimo luglio, probabilmente. Perché è solo da luglio che entrerà in
funzione il Meccanismo di Stabilità Europea, un fondo comunitario che sarà in grado di salvare le banche più esposte ad un
eventuale disastro greco. Ma la crisi di Atene sta procedendo con una rapidità tale
che anche luglio potrebbe essere troppo
tardi. Christine Lagarde, direttrice del Fmi,
invita a prendere in considerazione un’uscita “controllata” della Grecia dall’euro.
Avrebbe certamente ripercussioni gravi sui
Paesi più fragili, ma eviterebbe un disastro
ancora peggiore. Forse è questa l’unica voce della ragione.
STEFANO MAGNI
Organo del movimento delle Libertà per le garanzie e i Diritti Civili
Registrazione al Tribunale di Roma n. 8/96 del 17/01/’96
Direttore Responsabile: ARTURO DIACONALE
[email protected]
Condirettore: GIANPAOLO PILLITTERI
Vice Direttore: ANDREA MANCIA
Caposervizio: FRANCESCO BLASILLI
AMICI DE L’OPINIONE soc. cop.
Presidente ARTURO DIACONALE
Vice Presidente GIANPAOLO PILLITTERI
Impresa beneficiaria per questa testata dei contributi
di cui alla legge n. 250/1990 e successive modifiche e integrazioni.
IMPRESA ISCRITTA AL ROC N. 8094
Sede di Roma
VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA
TEL 06.6954901 / FAX 06.69549024 / [email protected]
Redazione di Milano
VIALE MONTE GRAPPA 8/A, 20124 MILANO
TEL 02.6570040 / FAX 02.6570279
Amministrazione - Abbonamenti
TEL 06.69549037 / [email protected]
Ufficio Diffusione
TEL 02.6570040 / FAX 02.6570279 / [email protected]
Progetto Grafico: EMILIO GIOVIO
Tipografia
L’OPINIONE S.P.A. - VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA
Centro Stampa edizioni teletrasmesse
POLIGRAFICO SANNIO S.R.L. - ORICOLA (AQ)
TEL 0863.997451 / 06.55261737
Distributore Nazionale
PRESS-DI DISTRIBUZIONE STAMPA E MEDIA S.R.L.
VIA CASSANESE 224, 20090 SEGRATE (MI)
Concessionaria esclusiva per la pubblicità
SISTECO S.P.A. - VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA
TEL 06.5086330 / FAX 06.5089063
In vendita obbligatoria abbinata
VITERBO con AltoLazio News € 1,00
ROMA e CIVITAVECCHIA con Roma News € 1,00
CHIUSO IN REDAZIONE CENTRALE ALLE ORE 19,15
GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012
IIPOLITICAII
L’OPINIONE delle Libertà
3
L’incubo degli anarchici sfiora anche Monti
di RUGGIERO CAPONE
«I
l Popolo ci ha dato mandato
e sacrificheremo anche le nostre vite per la causa giusta», è la
frase conclusiva della lettera inviata
ai giornali dalla “Federazione anarchica informale”, la cui attendibilità,
molto dubbia, è al vaglio degli inquirenti. «Le mani della piovra, dello stato a derubare il popolo devono
ritirarsi - prosegue il testo - bisogna
ridare dignità ai cittadini, ormai ridotti alla fame per mantenere uno
stato lussuoso rappresentato da non
eletti e benestanti che disconoscono
la realtà vera del bisogno del popolo». In altri momenti sarebbero apparse come frasi d’un buontempone
ma, con la crisi che morde le fasce
più deboli, il timore dell’insurrezione armata serpeggia tra questure e
prefetture. Oggi e domani il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, è a Monaco di Baviera, per
partecipare alla riunione dei ministri
dell’Interno dei paesi del G6: una
intera sessione dei lavori sarà dedicata al terrorismo di matrice europea, al rischio d’insorgenze anarchiche, alla nascita di bande armate
fatte d’operai precari e disoccupati.
Non è certo un mistero che la Digos
abbia in queste ore gli occhi puntati
sui meno abbienti, su quelle fasce
sociali tentate o dalla lotta armata
clandestina o dall’aggressione plateale ai palazzi del potere.
Le due lettere con minacce della
federazione anarchica calabrese sono giunte ai vertici di Equitalia Sud.
Recano entrambe la firma della “Fe-
derazione anarchica informale”, la
stessa sigla che ha rivendicato l’attentato all’ad di Ansaldo Nucleare,
Roberto Adinolfi. Le due missive
sono state recapitate ai quotidiani
Gazzetta del Sud e Calabria Ora:
così il “Nucleo Olga” avvisa la società di riscossione che «sarà oggetto di attenzione nella persona del
suo presidente, becero uomo di affari e servitore del potere economico». E poi sottolineano «diciamo a
Monti che lui è uno dei 7 rimasti»:
quindi uno dei sette obiettivi dell’attacco anarchico.
Il riferimento “ai 7 rimasti”, contenuto nella lettera del Nucleo Olga
del Fai, è di fatto il proseguo della
missiva di rivendicazione del ferimento di Roberto Adinolfi, in cui si
annunciavano altri attentati. «Il popolo - aggiunge l’ultima lettera -
La lettera della Fai
sarebbe un falso.
Ma tra gli inquirenti
è massima allerta
non ha nessun interesse a rimanere
in Europa, a salvare le banche, a saldare i conti di uno stato che ha
sperperato per conto proprio».
Ecco che s’alza il livello di protezione verso i dirigenti delle strutture carcerarie, come per le aziende
legate al nucleare e alla Tav, per le
sedi istituzionali ed i membri del governo: sono gli obiettivi che il Vi-
minale ritiene più a rischio terrorismo. Obiettivi già indicati nella circolare che il Dipartimento ha inviato a prefetti e questori, con la quale
si chiede di «rafforzare ulteriormente» i controlli anche su Finmeccanica, Ansaldo, Equitalia e «ogni altra azienda ad esse riconducibili».
Nel documento riservato, inviato
a prefetti e questori, il Dipartimento
chiede di «disporre la massima intensificazione dell’attività info-investigativa» nei confronti di «gruppi
e militanti anarchici». E inoltre, invita le strutture locali di polizia a
dare «massimo impulso, con effetto
immediato, ai servizi di prevenzione
a carattere generale, rafforzando
maggiormente i dispositivi di vigilanza e controllo del territorio» e
assicurando «una particolare vigilanza a protezione anche degli altri
obiettivi, quali quelli istituzionali e
di governo».
C’è davvero aria di caccia all’anarchico. Nelle strade semicentrali di Roma si possono scorgere,
e sempre più di frequente, pattuglie
delle forze dell’ordine che fermano
gruppi di giovani: li identificano e
cercano di capire se si tratti di studenti o militanti dei centri sociali.
Una vera e propria caccia all’uomo.
«Non dobbiamo sottovalutare nessun segnale»: così il ministro della
Giustizia, Paola Severino, ha risposto a chi le chiedeva di commentare
l’allarme terrorismo, e dopo i proclami di alcuni attivisti della nuove
Br (in Aula di giustizia a Milano) e
la minaccia ai pm bolognesi. Quello
che è successo a Milano per il mi-
nistro Severino è «di assoluta gravità». «incitare al terrorismo - ha
affermato il guardasigilli a margine
di una sua visita alla Borsa di New
York - è un atto criminale gravissimo, e dobbiamo esprimere il massimo e il più fermo dissenso. E questo dissenso deve arrivare da parte
di tutti gli italiani. Confido nel fatto
che l’Italia saprà reagire».
Per quel che riguarda lo sgombero dell’aula di giustizia a Milano,
deciso dal giudice dopo i proclami
di alcuni attivisti delle nuove Br, la
Severino ha affermato che «si tratta
di un segnale importante di non
condivisione, un importante segnale
simbolico».
Ma c’è anche chi dissente dal
Guardasigilli Severino: sono gli oltre
trenta giovani antagonisti, soprattutto provenienti dal centro sociale
Un gruppo terrorista
stava preparando
un’azione contro
il senatore Pietro Ichino
Gramigna di Padova, che hanno
manifestato davanti al tribunale di
Milano prima dell’inizio del processo d’appello “bis” alle cosiddette
nuove Br del “Partito comunista politico-militare”, i cui presunti appartenenti furono arrestati nel 2007
nel corso dell’operazione “Tramonto”: secondo l’accusa, stavano preparando una serie di attentati, fra
cui anche un’azione contro il giuslavorista Pietro Ichino. I manifestanti hanno presidiato il palazzo
di giustizia, esponendo lungo corso
di Porta Vittoria una serie di teloni
con su scritto “La rivoluzione e le
lotte non si processano”, “Solidarietà ai compagni arrestati e ai rivoluzionari prigionieri”. Davanti al
banchetto allestito dai manifestanti
c’era anche una bandiera del “movimento No Tav”.
Lo stato è accerchiato, ed in questo clima in pochi hanno la lucidità
necessaria a comprendere quanto
sia reale il pericolo d’una insurrezione armata. Infatti se, in un primo
momento, per i giornali le lettere
del Fai calabrese sono state considerate vere, invece per gli inquirenti
le missive contenenti minacce al premier Monti e a Equitalia sarebbero
un falso. Un’idea che si starebbe facendo strada tra gli investigatori.
Soprattutto l’analisi d’intelligence
starebbe nuovamente valutando
l’attendibilità delle varie rivendicazioni. Nelle lettere ci sarebbero diversi elementi dubbi. Così i sedicenti
esperti di terrorismo tornano sui loro passi, reputando che gli anarchici
(forse) potrebbero aver dato la paternità alla gambizzazione di Adinolfi per farsi pubblicità. Ecco che
torna in auge la prima pista, quella
firmata Tokarev, ovvero Brigate
Rosse. Mentre c’è anche chi suggerisce il movente affaristico, ma senza
gran fondamento. A conti fatti l’intelligence brancola nel buio, e il Palazzo ha tanta paura della gente di
strada.
Il Principe Mario
difende gli esattori
La fallimentare strategia
dell’estremismo “moderato”
I
C
l Principe protegge sempre il suo
esattore. Ci mancherebbe.
E così Mario Monti, pur giudicando comprensibile il malumore
del popolo, ha tenuto a sottolineare che il rispetto per gli esattori di
Equitalia non deve mai mancare.
Nonostante molti comuni siano in
procinto di non rinnovare i contratti in scadenza con Equitalia per
quel che riguarda la riscossione dei
tributi, la parte di riscossione centrale, ossia quella dello stato, non
è messa in discussione. Forse ci sarà da rivedere qualche aliquota o
qualche tipo di aggiustamento al
sistema tributario, ma Equitalia,
considerata la mano sporca (ma
non direttamente istituzionale) che
arriva fin dentro le case a chiedere
la questua, rimarrà al suo posto.
Magari le cambieranno nome, oppure sarà meno “strozzina” con i
cattivi contribuenti (non gli evasori), ma la sua terzietà fra stato e
cittadini, rimarrà. A garanzia della
politica e del governo, così da poter avere, entrambe le parti del gettito (chi dà e chi prende), la possibilità di prendersela con un capro
espiatorio al di fuori, almeno formalmente, dal gioco della rappresentanza. Ovviamente fra gli obiettivi sensibili dei recenti attentati (e
minacce) dell’anarchismo rivoluzionario militante, ci sono le principali agenzie di Equitalia. Ma
questo non è un problema per
Monti, poiché si spera che il buon
senso e il weberiano concetto della
diligenza del funzionario e della fiducia del popolo negli eletti, sia alla fine il sentimento prevalente nella (non proprio pacifica) diatriba
in corso. «Le leggi sul fisco in ogni
parte del mondo sviluppato sono
leggi molto pesanti e che portano
al penale quando c’è una sottrazione di risorse all’erario pubblico», ha detto ieri il leader della
Cisl Raffaele Bonanni, aggiungendo: «se c’è tanto accanimento contro Equitalia vuol dire che per la
prima volta si persegue chi non paga le tasse». Ma il problema è diverso. Si rischia di confondere due
aspetti e tre attori. Chi si lamenta
(senza sparare e senza gambizzare),
sono gli italiani che le tasse le pagano. E ne pagano oggettivamente
troppe, con un carico fiscale da
“strozzinaggio strisciante”. Ci sono poi altre due categorie di contribuenti potenziali. Da una parte
gli anarchici (o chi per loro) che
non vogliono pagare le tasse per
ideologia, passando alle maniere
forti e violente dell’incomprensibile
china terroristica che ha preso la
protesta. Dall’altra ci sono evasori
ed elusori. Quelli stanno zitti, non
parlano e studiano un nuovo modo per non pagare le tasse. Loro
non protestano. Loro evadono. E
continuano a farlo indisturbati.
FRANCESCO DI MAJO
ome già ampiamente riportato su queste pagine, l’estremistico moderatismo di Pier Ferdinando Casini, in merito ad un
presunto complotto ordito dalle
agenzie di rating ai danni dell’Italia, mi ha lasciato letteralmente
di stucco. Francamente, al di là
della ondivaga convenienza che
troppo spesso orienta la linea dei
politici di professione, pensavo
che l’ex presidente della Camera
ci tenesse ad accreditarsi come un
sostenitore del governo Monti
sulla base di un sano realismo,
senza inseguire le suggestioni di
una cultura illiberale ed anticapitalistica.
Una cultura da sempre ostile
ad ogni forma di capitalismo e
che, dunque, di principio tende a
criminalizzare l’intero mondo della finanza. Tant’è che le componenti più retrive e radicali della
politica italiana continuano ad
attribuire la responsabilità della
crisi in atto alle banche ed a chi
opera genericamente nei mercati
finanziari, senza quasi considerare
gli aspetti fondamentali della spesa statale in eccesso e di un debito pubblico in perenne crescita.
Ebbene, non capisco proprio quale sia la convenienza politica del
leader dell’Udc nel cavalcare una
sinistra onda emotiva la quale,
come sta accadendo in Grecia,
potrà certamente attirare un certo
consenso, ma che tuttavia ci porta in alto mare sul piano della
comprensione dei problemi.
Se, infatti, vogliamo veramente
affrontrare alla radice i mali che
affliggono il paese non possiamo
continuare a raccontar favole.
Nella fattispecie, il ragionamento
da fare è semplice. Le agenzie internazionali di rating tendono a
fotografare l’andamento di uno
stato e di una azienda, ma non
sono certamente oracoli infallibili.
L’errore è sempre possibile e plausibile. Nondimeno, l’idea che queste ultime possano influenzare in
modo determinante i mercati è
una favola che nessun uomo pubblico serio e responsabile, così come Casini si sforza da sempre di
apparire, dovrebbe propalare.
Questo perchè la diffusione e
la capillarità degli stessi mercati
finanziari è tale che una valutazione sostanzialmente sballata
verrebbe in breve tempo sconfessata, gettando nel totale discredito chi l’ ha incautamente diffusa.
Da questo punto di vista, per fare
un esempio eclatante, se qualche
autorevole istituto volesse attribuire alla Germania il nostro stesso giudizio di rischio, qualcuno
potrebbe prestargli fede, innescando una repentina vendita di
bond tedeschi sul mercato secondario? Io penso proprio di no.
L’unico a bruciarsi il posteriore,
come si suol dire, sarebbe lo
sprovveduto che ha avuto l’ardire
di far circolare un tal infondato
giudizio.
Ma dirò di più, in questa particolare fase storica, in cui si è
amaramente appreso che ciò che
sosteneva la famosa Lady di ferro
è maledettamente vero in ogni
epoca, ossia che i soldi degli altri
prima o poi finiscono, le stime
impietose delle varie agenzie di
rating dovrebbero rendere più
caute e responsabili le classi politiche dal lato dei bilanci pubblici, controllando sul piano della
spesa il colossale problema dei
debiti sovrani. Ma questo non si
ottiene certamente, così come
vorrebbe lo stesso Casini, creando
una sorta di Moody’s europea
controllata dalla politica.
Molti liberali di questo disgraziato paese non si aspettano da
chi si propone come moderato
una crociata contro la solita speculazione cinica e bara, bensì tutta una serie di proposte per rimettere realmente in equilibrio
un sistema affetto da quello stesso collettivismo che ovunque ha
condotto al fallimento. Solo in
questo modo si modificano le valutazioni di rischio, non con le
chiacchiere e gli anatemi. Gli
estremismi moderati proprio non
servono.
CLAUDIO ROMITI
4
GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012
IIECONOMIAII
L’OPINIONE delle Libertà
Il “downgrade” delle banche arriva da lontano
di FRANCO OLIVA
Non si placano le polemiche dopo
la decisione di Moody’s, una delle
principali agenzie di rating al mondo, di tagliare il rating di 26 istituti
di credito italiani. Tra di essi, anche
i principali gruppi di credito italiani. Unicredit e Intesa Sanpaolo
hanno visto il proprio rating passare da A2 ad A3, Per Monte dei
Paschi di Siena, invece, il declassamento è stato di due gradini, con
passaggio da Baa1 a Baa3. Banco
Popolare è sceso da Baa2 a Baa3.
In totale, Moody’s ha ridotto il rating di 10 banche di un gradino,
di 8 banche di due, di 6 banche di
tre e addirittura di 2 banche di
quattro gradini.
Le reazioni, unanimemente negative a caldo, si vanno differenziando. Nella hit-parade dello sdegno occupa ancora il primo posto
il leader Udc Pier Ferdinando Casini, che non ha esitato a definire
la scelta di Moody’s come «un disegno criminale contro l’Italia e
contro l’Europa». Un po’ più diplomatico il ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti del governo Monti,
Corrado Passera, cui sanguina il
cuore di banchiere: i giudizi delle
società di rating, per lui, «sono eccessivi e quasi favorenti della crisi,
con atteggiamenti sbagliati che
quasi esasperano il ciclo».
Molto più sanguigno, nella sua
piccata reazione, Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi, il sindacato delle banche italiane, secondo
LE QUOTAZIONI MASSIME IN BORSA DELLE AZIONI DELLE MAGGIORI BANCHE ITALIANE (IN EURO)
5 anni
2 anni
1 anni
6 mesi
Unicredit
39,17
14,62
10,83
5,51
4,28
Monte dei Paschi
3,50
0,92
0,77
0,42
Intesa San Paolo
5,32
2,51
1,94
Banco Popolare
16,16
3,68
1,93
il quale il giudizio di Moody’s «è
irresponsabile, è un’aggressione».
Probabilmente, ritiene molto più
attendibile e fondata la sua previsione lanciata il 29 gennaio scorso:
Secondo gli analisti
finanziari, le valutazioni
di Moody’s sono
difficilmente contestabili
«Lo spread tornerà a quota 10090 come è giusto che sia e come
deve essere per i fondamentali del
nostro Paese». Infatti…
Fa comunque bene al cuore
constatare come il grintoso e decisionista top manager dell’Abi abbia riconquistato spirito e sicurezza
di sé, dopo l’altra “aggressione” effettuata il 9 maggio scorso da 147
3 mesi 1 mese
1 sett.
IERI
3,24
2,88
2,59
0,42
0,27
0,25
0,22
1,60
1,56
1,25
1,10
1,01
1,69
1,66
1,16
1,04
0,93
uomini della Guardia di Finanza
che hanno perquisito la sede centrale del Monte dei Paschi di Siena
e la stessa l’abitazione privata e
l’ufficio senese dell’ex presidente
Mussari, che comunque non risulta
ancora tra gli indagati. Secondo
quanto riportato dal Corriere della
Sera, le ipotesi di reato alla base
delle indagini sono «manipolazione del mercato e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza in
relazione alle operazioni finanziarie
di reperimento delle risorse necessarie all’acquisizione di Banca Antonveneta e ai finanziamenti in essere a favore della Fondazione
Monte dei Paschi». Una vicenda
che non ha certamente contribuito
a lustrare l’immagine – e il rating
– del sistema bancario italiano.
Non a caso gli operatori finanziari fanno rilevare che la decisione
di Moody’s, che suona come una
bocciatura nei confronti del mer-
cato bancario e creditizio della Penisola, «giunge al termine di una
serie di valutazioni non certo inattese sulla tenuta del sistema nazionale». Malgrado le nuove critiche
Le quotazioni in Borsa
sono crollate negli ultimi
anni, come emerge
dalla tabella pubblicata
rivolte alle agenzie di rating internazionali e al loro ruolo sui mercati, gli uomini del “mercato” sostengono come sia «altrettanto
indubbio, tuttavia, che le valutazioni di Moody’s siano scarsamente contestabili». E, poi, il giudizio
lo hanno dato – e non da oggi – le
quotazioni in Borsa delle banche
italiane, che negli ultimi anni sono
crollate rovinosamente falcidiando
la ricchezza nazionale e il risparmio di milioni di risparmiatori. La
tabella che abbiamo elaborato parla da sola.
Diventa difficile, allora, buttare
nel cestino l’ultimo verdetto di
Moody’s: «I rating delle banche
italiane sono fra i più bassi fra le
economie avanzate europee e questo riflette la vulnerabilità degli istituti in un contesto difficile in Italia
e in Europa». Gli analisti evidenziano come in Italia la domanda
nel breve termine sia in fase di forte riduzione a causa della recessione e delle misure di austerity in
corso.
Troppa severità? Manco per
niente, assicurano quelli di Moody’s: «La portata dei downgrade è
stata limitata da alcuni fattori». E
spiegano come la scelta sia stata
influenzata dalla liquidità offerta
dalla Banca Centrale Europea, la
quale ha «ridotto significativamente il rischio default nel breve termine».
Ma attenzione: «Le banche italiane – spiega ancora Moody’s –
sono particolarmente vulnerabili
alle condizioni operative avverse,
che causeranno probabilmente un
ulteriore deterioramento della qualità degli asset, pressione sugli utili
e limitato accesso al mercato. Questi rischi sono esacerbati dai timori
degli investitori sulla sostenibilità
del debito nazionale, il quale contribuito alle critiche condizioni di
finanziamento degli istituti di credito». Amen.
Eurodramma: le colpe e le ragioni della Merkel
I
n queste ore cruciali per l’Europa
e l’euro monta sempre di più la
retorica anti-germanica. Ma le critiche, in parte fondate, alla gestione
della crisi greca da parte europea,
quindi del direttorio franco-tedesco,
rischiano di trascendere in ridicole
teorie sul “complottone” teutonico,
in grotteschi nazionalismi alle vongole, ma soprattutto – ancor più
grave – in una irresponsabile autoassoluzione collettiva da parte dei
paesi che con le loro sciagurate politiche di bilancio sono i veri responsabili della crisi. Atteggiamenti comprensibili nei cittadini, ma che
assumono connotati delinquenziali
quando se ne fanno interpreti le
classi dirigenti. La gestione europea
della crisi si è rivelata fin dall’inizio
un pastrocchio: decisioni tardive e
contraddittorie, miopia politica e
ignoranza economica. La Germania,
come paese leader, ne porta ovviamente gran parte delle responsabilità. Ai tedeschi si può imputare la
vera e propria ossessione per l’inflazione, una certa rigidità diplomatica,
l’aver pensato in primis ai propri interessi nazionali sottovalutando il
rischio sistemico. E certo non è stato
un fattore secondario che le loro
banche, insieme a quelle francesi,
fossero le più inguaiate con i titoli
greci. Detto questo però, la colpa
della crisi non è dell’euro, né dei tedeschi, i quali secondo alcune teorie
se ne sarebbero avvantaggiati a discapito degli altri paesi; e né Berlino
né la Bce hanno mai imposto ad alcun paese un’austerità recessiva, fatta di sole tasse, niente tagli alla spesa
K
Angela MERKEL
e nessuna vera riforma per la crescita. Anzi, Ue-Bce-Fmi-Ocse suggeriscono da anni l’opposto.I vantaggi
dell’euro, soprattutto per i paesi mediterranei, sono stati enormi. Peccato che non hanno saputo sfruttarli.
Dalla seconda metà degli anni ‘90
fino al 2007-2008, grazie alla “garanzia” tedesca, noi italiani abbiamo
goduto di tassi d’interesse reali molto bassi sul nostro debito. Per oltre
un decennio, la spesa per interessi
sul nostro debito è scesa notevolmente, fino a dimezzarsi. Ma come
abbiamo usato questi risparmi di
decine di miliardi di euro? Non abbiamo tagliato le tasse, riducendo
quindi i costi d’impresa e sul lavoro
per renderci più competitivi; e nemmeno li abbiamo investiti in infra-
strutture secondo il credo keynesiano. Fino al 2010 abbiamo continuato ad aumentare la spesa primaria
improduttiva. Del medesimo vantaggio hanno goduto anche greci e
spagnoli. Nel febbraio del 2005 lo
spread tra il Bund decennale tedesco
e l’equivalente greco era praticamente nullo, nonostante il rilevante divario tra i due paesi nelle valutazioni
delle agenzie di rating. Fino al 2005
la Germania, che veniva dall’enorme
sforzo della riunificazione, non cresceva né esportava più di noi. Solo
dopo le riforme strutturali dei governi Schroeder-Merkel – nulla di
selvaggiamente liberista: diminuzione della spesa e della pressione fiscale nell’ordine di 5-6 punti di Pil,
riforma del lavoro e del welfare –
l’economia tedesca ha ricominciato
a viaggiare come una locomotiva,
la disoccupazione a calare e le esportazioni ad aumentare. Certo, un’area
commerciale più ampia come l’Eurozona è stata un vantaggio, ma non
c’entrano la svalutazione dell’euro
rispetto al marco, dato che proprio
negli anni del boom tedesco l’euro
si era rafforzato del 40% rispetto al
dollaro, né i tassi di interesse sul debito, a quell’epoca molto vicini ai
nostri. La differenza, dovremmo capacitarcene, l’hanno fatta le riforme
strutturali che in Italia, come in Grecia, ci ostiniamo a non fare. Con la
crisi del 2007-2008 l’incantesimo si
è rotto, le differenze tra i vari Paesi
dell’area euro in termini di disciplina
di bilancio e di produttività, tenute
fino ad allora nascoste dall’euro e
da una maggiore propensione al ri-
schio da parte dei mercati, sono
esplose. Oggi la differenza di rendimenti tra Btp e Bund, o tra Bonos e
Bund, è esagerata, frutto della crisi
più che di meriti e demeriti dei singoli paesi; ma né più né meno di
quanto fossero artificiosi i bassi tassi
di interesse tra il 2000 e il 2008. È
noto il vizio d’origine dell’euro, alla
base dello scetticismo di molti economisti sulla tenuta della moneta
unica: la profonda diversità delle
politiche di bilancio e delle economie
dei paesi dell’Eurozona. Perché la
sfida fosse vinta i bilanci e la produttività dei singoli paesi avrebbero
dovuto convergere e i mercati di beni e servizi integrarsi. Abbiamo avuto all’incirca un decennio di tempo,
ma il divario è addirittura aumentato e l’integrazione dei mercati non
è ancora completa. È colpa dei tedeschi aver saputo tenere i conti in
ordine e nel frattempo aumentare
la loro produttività, oppure nostra,
che ci siamo adagiati sugli allori e
abbiamo fatto addirittura calare la
nostra produttività? Adesso, per ri-
durre lo squilibrio strutturale nell’Eurozona, qualcuno vorrebbe persino che siano i tedeschi a scendere
al nostro livello (aumentando del
6% gli stipendi, quindi riducendo
la loro competitività), anziché noi
provare ad avvicinarci al loro. L’errore di fondo è stato probabilmente
non lasciar fallire Atene e voler costringere i greci a farsi salvare quando non volevano essere salvati. Vengono descritti come vittime della
“cattiveria” tedesca ed europea, ma
allo stesso modo si potrebbe sostenere che l’euro, l’Italia o la Spagna
sono ostaggio dei loro annunci e
delle loro scelte irresponsabili. Siamo
ancora in democrazia: i greci hanno
in mano il loro destino, il che non
significa però che le libere scelte non
abbiano conseguenze anche severe.
Nessuno dice che debbano eleggere
un governo che piace a Berlino, solo
che non possono pretendere un salvataggio a fondo perduto. E i leader
europei hanno il dovere di chiarire
le conseguenze delle loro scelte.
FEDERICO PUNZI
GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012
IIESTERIII
Mladic costringe a ricordare
la violenza degli anni Novanta
di STEFANO MAGNI
U
n fantasma dal passato: il generale serbo Ratko Mladic, da
ieri è sotto processo all’Aja per genocidio, crimini di guerra e contro
l’umanità.
«Ha guidato la pulizia etnica in
Bosnia – ha esordito il rappresentante dell’accusa, Dermot Groome,
nel suo intervento in apertura del
processo – presenteremo elementi
di prova che dimostreranno, al di là
di ogni ragionevole dubbio, che c’è
la mano di Mladic in ognuno dei
crimini» di cui l’ex generale è accusato. Prima di tutto è considerato il
principale responsabile del massacro
di Srebrenica, la città bosniaca (che
avrebbe dovuto essere protetta dai
caschi blu del contingente olandese)
dove, nel luglio 1995, furono trucidati 8 mila musulmani. Mladic è
considerato anche il primo responsabile del lungo assedio di Sarajevo
(1992–1995), in cui perirono circa
12mila cittadini e altri 50mila furono feriti e mutilati. L’azione durò 43
mesi e batté un altro drammatico
record: quello dell’assedio più lungo
della storia contemporanea europea.
Su Sarajevo si sa già che fu Mladic
a ordinare i bombardamenti indiscriminati sui civili, «a intervalli lenti», per «farli impazzire», come si
sente dire dalla sua stessa voce in
una comunicazione radio intercettata (ed esposta dai media già negli
anni ’90). Mladic, che ora ha 70 anni, ha sempre ripetuto e continua a
ripetere ancora oggi, dinanzi alla
corte internazionale, la sua unica
volontà di aver voluto difendere la
Serbia e la causa dei serbi dinanzi
alla minaccia musulmana. Fece perdere le sue tracce nel 1996, subito
dopo la fine del conflitto e l’apertura
di un fascicolo a lui intestato ad
opera del Tribunale penale dell’Aja.
Nella sua lunga latitanza, Mladic
Il generale serbo è sotto
processo in un’Europa
ormai cambiata. Con
una Serbia democratica
che mira a entrare
nell’Ue, una Croazia già
“nel club” e una Bosnia
pacificata da 17 anni
fu protetto fino all’ultimo dai concittadini serbi e (si presume) anche
dalle autorità del Paese. Che impatto
potrebbe avere il suo processo sulle
imminenti elezioni presidenziali in
Serbia? Meno di quel che ci si possa
attendere. Il vecchio generale non è
più una causa di lacerazione politica,
perché i Balcani sono profondamente cambiati nell’ultimo decennio. La
consegna di Mladic alla giustizia internazionale, da parte di una Serbia
ormai democratica da 12 anni, non
ha posto fine alla carriera politica
di Boris Tadic. Il presidente europeista è tuttora in testa ai sondaggi. E
anche il suo rivale, Nikolic, più nazionalista, si è molto avvicinato alla
causa filo–Ue per poter competere.
Il diretto erede del regime di Slobodan Milosevic, il leader del Partito
Socialista Ivica Dacic, era ministro
dell’Interno quando Mladic venne
catturato e consegnato. La Bosnia–
Erzegovina, che quest’anno “celebra” i suoi primi 20 anni dallo scoppio della guerra civile, è ancora una
realtà lacerata, divisa fra una repubblica serba e una croato–musulmana
che non dialogano. Ma dal 1995
non conosce più conflitti armati.
Merito della presenza di un contingente europeo, sicuramente. Ma soprattutto dell’assenza di nazioni
esterne che soffiano sul fuoco del
conflitto etnico. La Serbia di Milosevic, che nel 1992–1995 forniva armi, addestramento e ufficiali ai suoi
connazionali del posto, ora è diventata tutt’altra nazione, come abbiamo visto. L’altra ingerenza, croata,
è anch’essa un fatto passato: la
Croazia di oggi non è più quella nazionalista, guidata da Franjo Tudjman, pronta ad annettersi il suo pezzo di Balcani, ma una stabile
democrazia ben instradata nella Nato e nell’Unione Europea.
L’OPINIONE delle Libertà
5
Golpe incruento nel Partito comunista cinese
K Dopo l’epurazione di Bo Xilai (nella foto), a Pechino prosegue
il “golpe” nel Partito. Veterani comunisti chiedono al presidente Hu Jintao di silurare Zhou Yongkang, capo dei servizi di sicurezza cinesi
Non è anticristiana Chris Christie, un islamista
la resistenza in Siria in casa dei repubblicani Usa?
L
a natura della resistenza siriana
ad Assad è ancora ignota e per
certi versi inquietante. Si teme che
gli jihadisti si siano già pesantemente infiltrati nell’opposizione e rischino di trasformare il conflitto civile
in una guerra di religione, in cui la
minoranza cristiana è destinata a
soccombere. Quanto sono fondati
questi timori? Le notizie non mancano. Si dice che in alcune località
occupate dall’Esercito Siriano Libero (i ribelli) i cristiani siano già
costretti a pagare la Jizya, la “tassa
di sottomissione” ai musulmani. È
anche circolata la notizia secondo
cui, a Homs, durante l’insurrezione,
siano stati cacciati i 50mila cristiani
locali. Più di recente, l’11 maggio,
a Borj al Qastal, le 10 famiglie cristiane che vi abitavano sono state
cacciate dalle loro case, sempre ad
opera di islamisti dell’Esercito Siriano Libero. Lo stesso giorno, a
Qara, padre George Louis, il parroco della chiesa cattolica di San
Michele, è stato picchiato e derubato da uomini armati.
Tuttavia la tesi di una persecuzione in atto contro la minoranza
cristiana è stata almeno in parte
smentita da fonti siriane dell’agenzia missionaria Asia News. La comunità dei gesuiti di Homs, ad
esempio, ritiene che non vi sia stata
alcuna “cacciata” dei cristiani locali,
ma un loro esodo volontario per
fuggire alla violenza dell’assedio.
Le aggressioni a Borj a Qastal e
l’attacco a padre George Louis «…
sono fatti molto gravi. Tuttavia sono frutto del clima di guerra, violenza e assenza di legge di cui è vittima il Paese – scrivono le fonti
locali di Asia News – A tutt’oggi le
relazioni fra cristiani e musulmani
sono uno dei pochi aspetti positivi
in un clima di violenza efferata».
Anche in prossimità delle zone di
guerra: «Ai posti di blocco, sia i ribelli che l’esercito regolare trattano
con rispetto la minoranza cristiana.
Una loro persecuzione getterebbe
discredito sul regime di Assad, che
ha fatto della tolleranza religiosa
uno dei baluardi del suo governo.
Ciò vale anche per i ribelli, che cercano l’appoggio degli Stato occidentali». D’altra parte non bisogna
dimenticare che un leader cristiano
del vicino Libano, Nadim Gemayel,
ancora in febbraio, abbia esortato
i cristiani a schierarsi contro il regime. E che molti di essi, pur senza
aver atteso il consiglio di Gemayel,
abbiano partecipato alla resistenza
contro il regime, assieme ai musulmani arabi e curdi, sin dalle prime
manifestazioni del marzo 2011. La
carta cristiana può essere benissimo
una strumentalizzazione di Assad,
per guadagnarsi l’appoggio delle
opinioni pubbliche russa ed europea. E molti sono dispostissimi a
dargli retta.
(ste. ma.)
C
hris Christie è il governatore
del New Jersey del Gop. Ma
è anche un altro problema per la
già non facile corsa di Mitt Romney alla Casa Bianca. Perché un
sondaggio realizzato ad aprile dalla Quinnipiac University dà Christie come favorito tra i candidati
repubblicani alla vicepresidenza
degli Stati Uniti, grazie ai tagli di
bilancio operati da governatore e
per il fatto di tenere testa ai sindacati dei dipendenti pubblici. C’è
solo un piccolo dettaglio che stona: pare sia troppo amico degli
islamisti americani, anche di quelli
che finanziano Hamas. Cosa che
uno si aspetterebbe magari più da
un candidato democratico.
La “scomunica” contro Christie è arrivata da Daniel Pipes con
un articolo su National review online scritto insieme a Steven Emerson. Secondo loro «il governatore
del New Jersey ha un problema,
in modo particolare la grana dell’Islam, che è di ostacolo alla sua
possibile ascesa alla carica più alta. Ci rincresce di riportare che
molto spesso lui si sia schierato
con le forze islamiste contro chi si
preoccupa di salvaguardare la sicurezza e la civiltà degli Usa».
Poi vengono fatti alcuni esempi. Il primo: «Nel 2008, quand’era
procuratore generale del New Jersey, Christie abbracciò e baciò
Mohammed Qatanani, imam del
Centro islamico della contea di
Passaic, elogiandolo come “un uomo di gran buona volontà”. Ha
fatto questo dopo che Qatanani
aveva pubblicamente inveito contro gli ebrei e contribuito all’attività di finanziamento di Hamas,
un’organizzazione terroristica presente nella lista nera del governo
americano e alla vigilia dell’udienza fissata per decretare la sua
espulsione allo scopo di non va-
nificare una condanna israeliana
per la sua appartenenza ad Hamas. Inoltre, Christie ha designato
il viceprocuratore Charles McKenna come testimone caratteriale a
favore di Qatanani». Il secondo:
«Nel 2010, dopo che Derek Fenton aveva bruciato tre pagine di
una copia del Corano durante una
cerimonia di commemorazione
dell’11 settembre, il suo datore di
lavoro, il New Jersey Transit, ottenne da Christie l’approvazione
per licenziarlo. Christie approvò
a gran voce il siluramento di Fenton, anche se questo ha significato
tutelare l’Islam a scapito del diritto
costituzionale alla libertà di parola. L’Unione americana per le libertà civili (Aclu) ha rappresentato
con successo Fenton perché riavesse il suo impiego». Il terzo:
«Nel 2011 Christie ha nominato
un islamista, Sohail Mohammed,
alla Corte d’Appello del New Jersey. Il curriculum di Mohammed
annovera una carica di consigliere
generale dell’American Muslim
Union (che ha asserito che un
“commando sionista ha orchestrato gli attacchi terroristi dell’11 settembre”) nonché la difesa di Sami
Al–Arian, un operativo della Jihad
islamica palestinese, e infine una
partecipazione alla difesa legale
del citato Qatanani. Mohammed
non è solo il legale degli islamisti,
è uno di loro».
Se i repubblicani hanno una
possibilità di mandare Romney alla casa Bianca è sull’ambiguo dialogo con l’Islam di Obama. Che
dopo avere finanziato le primavere
arabe non ha mostrato il pugno
di ferro all’Iran. Ma con uno come
Christie l’arma diventerebbe inutilizzabile.
DIMITRI BUFFA
6
GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012
L’OPINIONE delle Libertà
Meglio gli elettori onesti Queste Br fanno ridere:
che i servi delle clientele solo slogan da bar sport
I
l soggetto non è da letteratura mondiale, rebbero primo con circa il 25%, secondo
bensì da spazzatura intellettuale. Mi ac- il Pdl con circa 19%, terzo M5S con
cingo a scrivere degli elettori italiani. Inizio, 16/17%. Non mi rattristo per una sorta di
quindi, parlando della dignità e dell’onestà sentimento d’invidia verso quel partito, ma
intellettuale di quegli elettori italiani che per lo schifo che mi procura constatare che
pur proveniendo da una consolidata ap- mentre nel centrodestra esiste un elettorato
partenenza politica di destra o di centro- onesto intellettualmente che rifiuta tutto
destra, basata soprattutto sui valori, ma quanto viene fatto a favore delle caste dei
anche su una certa visione del sistema pae- lestofanti che ci governano e contro di noi,
se, sono riusciti con un forte atto, sofferto, povera gente, nel centrosinistra è troppo
di responsabilità, a staccare la spina al- forte e radicato il clientelismo, ovvero, io
l’unico partito di riferimento rimasto dopo ti voto lo stesso anche se fate schifo, perché
alcune travolgenti vicissitudini: il Pdl. In- mi mantieni questo e quello, e poi chissefatti le elezioni amministrative lo hanno nefrega se altri subiscono macelleria sociale
punito bene e le proiezioni per eventuali appoggiata anche da Bersani. È proprio
elezioni politiche confertriste. Senza parlare demano la disistima che
gli ignavi che, appunto,
quel partito ha raccolto.
tengono in vita quelli
Esiste una differenza
Prima per il comportache ormai sono gli ex
mento poco serio del tra l’elettore di destra
schieramenti politici che
suo leader che elargisce
non hanno più alcun
e quello di sinistra.
milioni di euro a ragazsenso di esistere se non
zine di malaffare e ruf- Il primo punisce
quello di fare da richiafiani - mentre i pensio- gli errori del proprio
mo per le allodole con
nati ogni mattina fanno
battaglie su matrimoni
il giro dei bidoni della partito, il secondo
gay o no, e questi ignavi
spazzatura - poi e so- ignora le scelte
puntualmente si mettoprattutto per l’appoggio
no lo scolapasta in testa
convinto alla macelleria sbagliate del Pd
pronti a rimpinguire di
sociale del governo che
voti i partiti che “raplo stesso Pdl ha contripresentano i loro ideali”,
buito a far nascere e contribuisce convinto e i partiti regolarmente sono riusciti nel
a tenere in piedi, appoggiando le sue scelte loro sporco intento di prendersi un tot di
infelici e dittatoriali contro il popolo, con- euro a cranio per coloro che sono riusciti
siderato non più sovrano, ma succube. a far votare. Poveri polli, non vi invidio.
Quello che mi rattrista molto, invece, è la Molto meglio la mia onestà intellettuale.
GAETANO RIZZA
quasi tenuta del partito di riferimento della
lebarricate.altervista.org
sinistra, il Pd, infatti le proiezioni lo da-
That’s the Twitter,
baby
a cura di
PIETRO SALVATORI
@LeolucaOrlando1
«Leoluca Orlando è nato nel 1947
a Palermo,.......». Si presenta così ai
propri followers il candidato alla poltrona di primo cittadino del capoluogo siciliano, virgola e sette puntini
compresi. Il vecchio leone, alfiere
prima dello scudo crociato, poi dei
valori dell’Italia di segno dipietrista,
ha scoperto Twitter in campagna
elettorale. Va bene, anche prima
spargeva qualche cinguettio sulla rete. Ma un uso così massivo e interattivo del mezzo è una novità degli
ultimi mesi. Tanto che lo sfondo della
sua pagina personale è rimasto uno
di quelli predefiniti. Un blu antracite
che, tutto sommato, ben si sposa
con il viola di un avatar dal sapore
elettorale. «Luca lo sa fare», informa
uno slogan di spalla ad una foto a
tre quarti di Orlando. Alludendo, ovviamente, alle due volte nelle quali
il buon Leoluca ha già ricoperto il
ruolo di sindaco nella città di Santa
Rosalia. Che Twitter gli possa essere
utile a canalizzare ulteriore consenso elettorale in vista dei ballottaggi
L
e Br hanno approfittato del clima sociale che investiva tutti i suoi capitali nell’armare
di crisi e della disastrosa deriva europea una nave da spedire in Oriente o nelle Ameed italiana verso la tassazione. Hanno preso riche per importare spezie o altre merci da
spazio anche grazie al clima di odio che è na- rivendere in Europa. Noi non siamo mai uscito socialmente contro Equitalia. Di là a tra- ti dal latifondo, dalla coltivazione della terra
sformare il processo in corso contro alcuni alla coltivazione di un partito. Altro che bormilitanti in una farsa teatrale in stile anni ‘70 ghesia. Slogan da bar sport: con le banche
il passo era breve. Secondo regole, le Br han- che «fanno pagare il costo alle masse popono ricusato il collegio di difesa. «E’ una que- lari». Quindi le banche ammazzano il vitello
stione politica», ha dichiarato Vincenzo Sisi, che dà loro da mangiare? O c’è una crisi
uno degli imputati: «Di fronte alla catastrofe strutturale del modello bismarckiano-socialdel capitalismo, non c’è altro sbocco che la democratico, che non può più offrire un wellotta armata». Ammazzare per denaro? Gam- fare efficiente a causa della concorrenza monbizzare per la politica? Siamo al ripetersi di diale, della delocalizzazione, dei costi della
un errore storico, prodotto di una assenza di burocrazia, della curva demografica? Il processo di appello-bis è così
capacità critica: un conto
diventato un mini parlaè la critica politica, un almento, non meno delirantro conto è uccidere, feriIl processo di appello
te di quello romano:
re, intimidire, rovinare
«Non amiamo la violengiovani vite a forza di slo- sembra un piccolo
za, ma e’ inevitabile. Nesgan. Da che parte è il beparlamento delirante.
sun gruppo di dominatori
ne? Cosa è il bene sociale?
nella storia ha mai abbanSono le Br un sacerdote I terroristi recitano
donato pacificamente il
sociale in grado di fare sa- a memoria
potere». Se il livello mencrifici allo scopo di intale dell’Italia è questo,
griarsi non si sa quale di- rosari leninisti.
propongo di assumere covinità?
Ma
farebbero
meglio
me scelta migliore possiNon lo sono. «Il sistebile l’asservimento volonma borghese è agli sgoc- a deridere se stessi
tario allo stato della
cioli. E’ stato dimostrato
Svizzera. Come schiavi,
che il capitalismo non è
eterno e che la sua fine non è così lontana». che sennò faremmo esplodere anche la SvizCosì ha aggiunto un altro brigatista. Ci si zera, col Lichtenstein incluso. Risate rosse.
chiede se abbia coscienza di cosa sia il capi- La cosa migliore per le Br sarebbe deridere
talismo. Quanto alla borghesia italiana: è se stessi, per capire che nella vita non ci sono
mai esistita? C’è una classe trasversale di mo- solo i sensi unici, ma anche i doppi sensi.
PAOLO DELLA SALA
nopolisti e di privilegiati. Se questa è la borlapulcedivoltaire.blogosfere.it
ghesia produttiva del Regno Unito del 1600,
è improbabile. Dei quattromiladuecento follower che si è conquistato
con pazienza (e grazie all’exploit di
contenuti veicolati nelle ultime due
settimane), una buona metà sono
addetti ai lavori: esponenti della politica locale e nazionale, giornalisti,
studiosi della politica, bloggers e opinion leaders di Twitter.
Ma Orlando e, si presume, il suo
staff, hanno iniziato a capire che
spendere bene l’immagine del candidato dipietrista sul social network
significa avere la possibilità, tramite
followers illustri, di amplificare il suono mediatico dei contenuti pensati
per il web.
Così tra i tweet scorrono i video di
Shobha, Giuseppe Cipolla, Desideria Burgio, e Roberto Alajmo. Sono
solo alcuni di una lunga serie di cittadini e politici palermitani che spiegano il perché “Io voto Leoluca Orlando”. Il tutto riassunto nell’hashtag
scelto dallo staff: #liberarepalermo.
In testa al quale si leggono tweet come «libereremo la città da coloro
che non ci mettono la faccia. La
maggioranza dei palermitani ha già
deciso di voltare pagina», o «105
mila voti sono la prova che i palermitani vogliono riprendersi la città,
manca un ultimo sforzo». Non mancano generici appelli al serrare i ranghi: «Viviamo insieme una grande
stagione, scriviamo una nuova pagina di storia per Palermo». O anche: «Palermo può essere liberata
dobbiamo farlo tutti insieme». Strategia che ha ben poco appeal nell’interattivo universo twittero. Molto
più efficace il botta e risposta continuo con chi gli pone domande o
questioni. Lesto ad anticipare l’avversario Fabrizio Ferrandelli nel ri-
spondere a Daniela Palazzotto, che
si poneva la questione: «Quanto mi
piacerebbe che @LeolucaOrlando1
e @Ferrandelli riuscissero a dissipare i miei dubbi su chi votare dei
due». «Su http://www.ilsindacolosafare.it c’è la mia agenda dei prossimi
giorni: venga a conoscermi di persona», le ha risposto a stretto giro
di posta Orlando.
@Ferrandelli
«31 anni, candidato Sindaco. Credo
in Palermo e nei palermitani. Insieme andremo lontano. Abbiamo il coraggio di cambiare». Così si presenta Fabrizio Ferrandelli su Twitter. Il
candidato del Partito democratico e
di Sinistra ecologia e libertà alla municipalità palermitana si districa meglio dell’avversario nell’ortografia della presentazione nei confronti di chi
capita sul suo profilo. Segue link al
suo sito personale. Diversa anche
la scelta dell’avatar. Nessuno slogan
compare in quello del trentunenne
piddino, che sorride cravatta lenta e
chioma fluente all’internauta. Un po-
ster elettorale campeggia sullo sfondo, ricordando «il coraggio di cambiare» di quello che viene già definito «il sindaco dei palermitani».
La sfida dei followers rispecchia però
l’abissale distacco percentuale inflittogli da Orlando al primo turno. Ferrandelli si ferma infatti a poco più di
duemila e settecento. Quasi mille e
cinquecento in meno dell’avversario.
Definito come «l’altro candidato» nei
tweet di @Ferrandelli.
Sono due gli hashtag con i quali porta avanti la battaglia elettorale. #ilcoraggiodicambiare veicola i contenuti politici, ma c’è anche il più
comodo e breve #elepa per i cinguettii troppo lunghi. Su Twitter solo
da qualche settimana, Ferrandelli si
è mostrato sin da subito attivissimo:
quasi duemilatrecento i tweet all’attivo, almeno una quarantina (se non
di più) al giorno. «Grande partecipazione al comizio di questa sera a
Sferracavallo. Da 10 anni sono prima
linea a difendere i lavoratori» scriveva martedì notte. Nel 2002, a dare
retta alla biografia sul sito ufficiale,
si divideva tra il coordinamento palermitano del Movimento umanista
e l’organizzazione di «progetti di sviluppo promossi congiuntamente con
gli abitanti della favela di Atibaia a
San Paolo in Brasile» (luogo nel
quale, evidentemente, il diritto del
lavoro è un’istanza assai diffusa tra
gli abitanti locali).
Oltre agli aggiornamenti sulla campagna elettorale, anche Ferrandelli
propone video sulla stregua di quelli
di Orlando: una lunga serie di “Io voto Ferrandelli perché” nei quali si alternano comuni cittadini e militanti
dei partiti che sostengono la coalizione di centrosinistra.
GIOVEDÌ 17 MAGGIO 2012
IICULTURAII
L’OPINIONE delle Libertà
7
Alle stampe il saggio dimenticato di Schumpeter
di ENNIO EMANUELE PIANO
D
a anni l’editore Rubettino si è
preso la briga di riportare (o
pubblicare per la prima volta) sul
mercato librario italiano quella cultura libarale “classica” (da Hayek
a Bruno Leoni, passando per Popper, Polanyi, Kirzner e altri) che nel
nostro paese, per mille motivi, ha
stentato a circolare in tutto il secondo dopo guerra, emancipandola
così dal circuito bibliotecario dove
andava impolverandosi nella disattenzione generale. Da qualche settimana, poi, l’editore calabrese ha
lanciato nelle librerie il primo volume di una nuova collana, “Piccola
Biblioteca del Pensiero Occidentale”, curata dai professori Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe. Tra i
maggiori pensatori cattolici liberali
il primo, filosofo della scienza il secondo. Il volume è un breve (o come si dovrebbe dire nelle recensioni: agile) libretto firmato da Joseph
Alois Schumpeter, economista austriaco allievo del Bohm-Bawerk, a
sua volta allievo di Carl Menger, il
padre del marginalismo austriaco.
Intitolata Come si studia la Scienza
Sociale (142 pagine, 10 €), l’opera
nasce -ci spiega lo stesso Antiseri
nel saggio introduttivo- come un
manualetto, concepito dal giovane
professor Schumpeter per i suoi allievi dell’università di Czernowitz.
Particolarmente interessante è la
nota del curatore della traduzione,
Enzo Grillo, una vera e propria accusa agli studi dell’opera schumpeteriana che hanno colpevolmente
trascurato questo scritto, talvolta
persino dimenticando di elencarlo
nella bibliografia dell’economista
austriaco, o, quando invece per puro caso se ne ricordava l’esistenza,
sbagliandone il titolo.
Col suo lavoro, Grillo riesce a
redimere i disattenti colleghi di studi schumpeteriani, convinto che il
manualetto sia «indispensabile alla
ricostruzione» del pensiero del suo
autore. Difatti, nelle poche (44) paginette stese nel 1908, Schumpeter
sintetizza il metodo che ogni studioso coscienzioso, e perciò egli
stesso, dovrebbe adottare nell’affrontare lo studio delle scienze sociali. Le quali, ribadisce l’autore,
sono per l’appunto e prima di tutto
delle scienze. E scientifico deve essere perciò l’approccio verso esse,
anche se questo può essere faticoso
specialmente per un giovane studente, il quale - cent’anni fa come
oggi - è scosso dai fremiti della passione politica più di un anziano
professore: «Lo studio delle scienze
sociali esige da noi un grosso sacrificio. Prima di varcare la loro soglia
noi dobbiamo rinunciare a un pezzo del nostro io, e precisamente ai
nostri ideali sociali, alle nostre vedute su ciò che e bene e desiderabile. Nessuna altra scienza esige da
noi un desiderio come questo. Di
fronte alle leggi della natura, i nostri
desideri ammutoliscono da sé» (p.
88). La scienza fisica non deve rispondere del se sia giusto o meno
che la mela sia attratta a terra, allo
stesso modo è inutile se non dannoso mischiare fatti e valori quando
si analizzino le questioni economiche. «Così, per esempio, ai fini della
questione “il lavoro è una merce?”
è del tutto irrilevante chiedersi se
ciò si accorda con la dignità dell’uomo. Se, per gli scopi di una cer-
“Come si studia
la Scienza Sociale”
è un manualetto,
concepito dal giovane
professor Schumpeter
per i suoi allievi
dell’università
di Czernowitz.
Pubblicato in questi
giorni da Rubettino,
è stato a lungo ignorato
dagli studi dell’opera
schumpeteriana, molti
dei quali lo hanno
colpevolmente
trascurato, talvolta
persino dimenticando
di elencarlo
nella bibliografia
dell’economista
austriaco.
Sono poche (44)
ma preziose le paginette
stese nel 1908, nelle quali
l’intellettuale sintetizza
il metodo che ogni
studioso coscienzioso
dovrebbe adottare
nell’affrontare lo studio
delle scienze sociali.
Delle quali
fu un maestro,
consapevole
delle difficoltà
metodologiche
e contenutistiche
di una scienza come
quella economica.
Dal cui studio, scrisse
forse esagerando,
«su cento studenti,
novanta non ci ricavano
nulla, ma proprio nulla».
Forse perché della realtà
non si può mai «dare
un’immagine precisa.
Le scienze sociali
teoriche espongono
solamente tendenze
e mai la piena
realtà stessa»
ta ricerca, il lavoro si comporta come altri beni, se per esempio il suo
prezzo s forma allo stesso modo,
ciò e sufficiente e nessun argomento
generale ci può togliere il diritto di
considerare, ai fini di questa ricerca,
il lavoro come un bene economico»
(p. 103).
Schumpeter offre inoltre ai suoi
studenti alcuni consigli sul come affrontare, nella pratica, lo studio dell’economia politica, o della sociologia, le maggiori tra le scienze
sociali. Innanzittuto è necessario
«imparare a pensare teoreticamente, [per poi] guardare all’insieme
del materiale e cercarvi delle regolarità e dei nessi causali» (p. 86).
Da dove viene però il materiale dal
quale lo scienziato sociale trae i dati
necessari a mettere alla prova la
propria teoria? E quanto questo è
affidabile? L’autore mette in guardia
lo studente dall’affrontare ingenuamente ciò che gli offrono storici, etnologi e statistici, i quali «non solo
riferiscono, ma danno anche una
certa forma ai fatti, e così facendo
i fatti stessi si trasformano nelle loro mani» (p. 81). Lo storico è spesso digiuno di teoria economica e
sociologia e dunque «è facile che
possa sbagliarsi, scambiando disnvoltamente sintomi per cause, e
coincidenze casuali per nessi casuali» (81) così come lo statistico dà
una certa interpretazione dei freddi
dati anche solo adottando una certa
metodologia di raccolta dei dati
piuttosto che un’altra. Schumpeter
non accusa questi tre generi di studiosi di essere dei corruttori intenzionali della realtà - anche se di essi
ne esistono, e a bizzeffe. È consapevole che della realtà non si può
mai «dare un’immagine precisa»,
essa è troppo complessa per essere
capita, e ancora di più per essere
genuinamente spiegata: «Le scienze
sociali teoriche espongono solamente tendenze della realtà e mai la piena realtà stessa» (92).
Questo testo va aggiunto all’importante contributo dato da
Schumpeter allo studio delle scienze
sociali in generale, e dell’economia
in particolare. Egli fu un maestro
consapevole della difficoltà di una
scienza come quella economica, dal
cui studio, scrive forse esagerando,
«su cento studenti, novanta non ci
ricavano nulla, ma proprio nulla».
Una verità compresa da un altro
grande maestro di cose economiche come Sergio Ricossa, che, in
conclusione della sua ultima lezione
tenutasi all’Università di Torino, si
congedò dai suoi studenti chiedendo loro scusa «per avervi fatto perdere del tempo».
Scarica

conservatori - L`Opinione delle Libertà